Opinione scritta da Francj88
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Tra fantasy e noir
Shadow, dopo tre anni trascorsi in carcere per aver commesso un furto insieme alla moglie Laura e al suo migliore amico, Robbie Burton, è finalmente pronto a tornare alla vita di tutti i giorni. Poco prima del rilascio però gli viene comunicato che sia la moglie che l’amico sono morti, insieme, in un misterioso incidente stradale. Gli unici due appigli che gli erano rimasti, le uniche due speranze di un ritorno alla normalità dopo gli anni di “non-vita” trascorsi in prigione, vengono spazzati via in una volta sola. Sull’aereo che lo riporta a casa, Shadow fa conoscenza con l’enigmatico Mr. Wednesday che gli offre di lavorare per lui come bodyguard. Dopo qualche resistenza il nostro protagonista finisce per accettare.
Quello di Shadow però non è un lavoro che potremmo definire convenzionale, così come convenzionali non sono il suo datore di lavoro, nè i suoi compagni d’affari e tanto meno i suoi concorrenti. Wednesday altri non è che Odino, il Padre di ogni cosa, la somma divinità del pantheon norreno.
La sua missione?
Radunare, con l’aiuto di Shadow le antiche divinità che, approdate insieme alle varie popolazioni che sono giunte in America nel corso dei secoli, adesso non sono più venerate come un tempo e sono finite a vivere di espedienti.
L’obiettivo?
Muovere guerra alle nuove divinità che hanno preso il loro posto nel cuore e nella mente degli uomini: Soldi, Televisione, Media, Tecnologia, (rappresentanti della nuova era della globalizzazione) e acquistare nuovamente il potere perduto. Quello di Shadow è un viaggio in un’America con atmosfere da noir, a tratti volutamente grottesche così come grotteschi e molto “fumettistici” sono alcuni dei personaggi che, persa l’aura divina devono reinventarsi e agire, spesso al di fuori delle regole convenzionali, da bravi trickster (personaggi umani o animali antropomorfi, abili nell’imbroglio). Parallelamente alle avventure del protagonista abbiamo delle parentesi storiche (sempre in chiave romanzata) sui culti portati in America dalle varie ondate migratorie verificatesi nel corso dei secoli e che hanno dato vita a quella sovrapposizione di devozioni, miti, leggende che costituiscono il substrato multiculturale del Nuovo Continente. Ognuno di essi ha avuto una sua “età dell’oro” per poi venire surclassato dal nuovo, così come ogni cosa sulla Terra è destinata a nascere, mutare e perire per lasciare spazio a ciò che verrà dopo. In questo caso il vecchio è rappresentato dalle divinità ormai superate, mentre il nuovo da idoli immateriali che noi esseri umani abbiamo eletto al rango di divinità. Perché alla fine il nocciolo della questione è questo: è l’uomo ad avere in mano le redini della storia. “Se veniamo dimenticati siamo finiti”, dice Mr. Wednesday a Shadow. È l’uomo con le proprie idee, credenze e valori a dare forma al mondo che lo circonda e la memoria gioca un ruolo fondamentale in questo processo.
American Gods non è solo un fantasy che coinvolge perché ti porta alla scoperta di luoghi misteriosi e intriganti (così come i personaggi che li abitano) ma è molto di più; è un lavoro maturo, adulto, che ha diversi livelli di lettura. Fa riflettere perché ci sbatte in faccia in modo ironico ed arguto tutti i difetti dell’essere umano e sottolinea come la società in cui viviamo si sia evoluta, purtroppo, non sempre in modo positivo. Il romanzo non è esente da difetti come ad esempio il mancato approfondimento psicologico di alcuni personaggi, primo tra tutti (a mio parere) quello della moglie del protagonista. Tuttavia lo stile dell’autore, l’ironia, la ricchezza di dettagli, la fantasia, il coraggio di mettere mano all’enorme bagaglio culturale della mitologia non solo norrena ma egizia, africana, slava, irlandese, dei nativi americani, ecc.. rende American Gods un’opera interessante ed accattivante per gli appassionati di queste tematiche, e non solo.
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La disfatta della creazione
Questo romanzo di Philip K. Dick è ambientato in un futuro distopico in cui gli uomini convivono con gli androidi in comunità sparse per la galassia. La Terra è diventata quasi inabitabile per via di tempeste di sabbia che hanno portato alla desertificazione di parte del globo, nonché danni cerebrali a una vasta porzione di uomini rimasti sulla Terra. Nelle colonie gli androidi, ormai sempre più sofisticati, vengono impiegati come forza lavoro ma, alcuni di essi, decidono di scappare e fare ritorno sulla Terra dove agenti speciali, come il nostro protagonista Rick Deckard, hanno il compito di “ritirarli”, ovvero eliminarli.
Il problema è che questi androidi, specialmente i nuovi modelli Nexus 6, sono talmente simili agli esseri umani che diventa difficile individuarli. Lo strumento utilizzato per verificare se un individuo è un androide o meno è quello di sottoporlo ad un test sull’empatia. Pare infatti che gli androidi non siano in grado di provare partecipazione emotiva nei confronti di altri esseri viventi, tanto meno verso altri androidi. Questo è il futuro verso cui tende l’umanità? Una progressiva perdita dei valori umani di empatia e solidarietà non solo verso il prossimo, ma verso qualsiasi essere vivente? Perché forse il punto è che non sembrano essere i nuovi modelli Nexus 6 sempre più simili all’uomo, ma al contrario sembra essere l’uomo in procinto di somigliare sempre più ad un androide, una macchina senz’anima.
D’altronde il concetto di empatia è presente nel racconto anche sotto forma di pseudo-religione: il mercenearismo, che fa leva su questo legame empatico e sulla condivisione universale dell’esperienza da parte degli uomini, come se facessero parte di un’unica entità. Ma se casualmente viene fuori che questo Mercer, il Dio/Profeta dell’empatia non è altro che un ubriacone e a fare questa scoperta (ironia della sorte) non è altro che un androide, allora cosa resta all’uomo? La consapevolezza che non esistono ideali nè verità assolute e ciò porta ad un quesito ancora più angosciante: cos’è che ci rende umani? Quando l’evoluzione tecnologica avrà raggiunto un livello tale da permettere agli androidi di somigliare in tutto e per tutto agli esseri umani, empatia compresa, come sostanzieremo e giustificheremo il nostro antropocentrismo?
Nel romanzo di Dick sembra che l’uomo sia diretto verso la sua stessa distruzione. Di certo in una società come la nostra, in cui il progresso tecnologico sembra ormai inarrestabile, viene spontaneo chiedersi se e quali debbano essere i limiti da porre al progresso scientifico per evitare che nel nome di tale progresso l’uomo compia qualcosa si irreparabile. Curioso è anche il fatto che nell’ universo descritto da Dick il vero bene di lusso non sia possedere oggetti tecnologici o androidi ma animali veri, esseri viventi (da qui l’ironico titolo).
Questo romanzo, permeato da un cupo pessimismo, per quanto si legga velocemente per via della scorrevolezza data anche dalla brevità dei capitoli, richiede in realtà una lettura attenta, tante e complesse sono le tematiche messe in gioco. “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” è un capolavoro della fantascienza ma non solo, potrebbe essere considerato un vero e proprio trattato di sociologia. Il film che ne è stato tratto, Blade Runner, uscito nel 1982 (a quasi vent’anni dalla pubblicazione del romanzo) e diretto da Ridley Scott è anch’esso un capolavoro nel suo genere ma, essendo liberamente ispirato al libro, è da considerarsi un’opera a parte. Il regista è riuscito a coglierne l’atmosfera cupa con le ambientazioni notturne e la fotografia fredda e futuristica ed è riuscito a dare una mirabile caratterizzazione agli androidi protagonisti, ma l’opera di Dick contiene degli elementi che a mio parere lo pongono tra quei libri che tutti dovrebbero leggere almeno una volta nella vita.
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Vedere il dio Pan
Il dottor Raymond, esperto di medicina “trascendentale”, ha un fine ultimo nella sua vita: far conoscere all’uomo il vero volto della realtà che lo circonda, stracciare quel velo che separa la nostra dimensione da un’altra, quella vera, popolata, da esseri primordiali, creature sregolate senza etica né morale. Lui definisce ciò: “vedere il dio Pan”. Per raggiungere il suo obiettivo non esita a modificare la struttura cranica della sua figlia adottiva Mary, così da permetterle di scorgere tale universo nascosto. L’operazione ha successo e la giovane viene catapultata in un mondo radicalmente slegato dal nostro, terrorizzata e ormai segnata per sempre da ciò che ha visto.
La narrazione compie a questo punto un salto cronologico e si sposta in avanti di alcuni anni nella città di Londra dove, in circostanze sospette, avvengono dei misteriosi omicidi/suicidi che sembrano legati alla bella ma inquietante Helen Vaughan, una nobildonna dall’oscuro passato.
Pan, metà uomo e metà capra, che la tradizione vuole dio pastore, della campagna e delle selve, potente e selvaggio e dai forti connotati sessuali è qui il temibile progenitore da cui ha origine tutta l’umanità. Simbolo del potere della natura e del richiamo alle origini bestiali dell’uomo, nonché centro di culti pagani, il dio Pan si fa portatore di allucinazioni e orrori reali svelando un universo segreto di cui mai i protagonisti del romanzo avrebbero voluto prendere coscienza e di cui noi lettori veniamo altresì a conoscenza. Il nostro viaggio, o per meglio dire la nostra rocambolesca discesa nell’abisso, avviene di pari passo a quella dei personaggi che, nel susseguirsi degli incontri, colloqui, testimonianze, ipotesi, sviluppate nel cuore di una Londra cupa e notturna, tra una strada deserta illuminata solo dalla luce dei lampioni e un elegante salotto aristocratico, giungono a delle scoperte che portano via via alla risoluzione del terribile enigma.
Questo romanzo, pubblicato nel 1894, suscitò grande scandalo nel Regno Unito, soprattutto nell’ambiente puritano e borghese: le immagini erano troppo forti, i contenuti sessuali fin troppo espliciti per l’epoca. Il crollo delle certezze, la fiducia tutta positivista nelle scienze e nel progresso scientifico che cominciava ad incrinarsi, il senso di un’esistenza sempre più precaria accomuna molti scrittori decadentisti. In questo spazio di desolazione irrompono figure mostruose come i vampiri di Bram Stoker o gli dei disumani del gallese Arthur Machen, autore di quest’opera. Egli viene considerato uno tra i maggiori rappresentanti del decadentismo e ricevette attestati di stima da diversi colleghi tra cui Lovecraft.
Machen fu un intellettuale poliedrico e versatile: erudito lettore di testi esoterici, attore shakespeariano e giornalista, saggista interessato all’antico Galles gallo-romano e, appunto, romanziere di successo in un genere a metà strada tra il fantastico e l’orrorifico, che certamente risente dell’influenza di Edgar Allan Poe, ma che si arricchisce di una fascinazione tutta decadente per l’occulto e per i miti classici, tanto di moda nell’epoca in cui egli scrive e che, personalmente, ritengo continuino ad esercitare un fascino particolare anche oggi.
Il romanzo già di per sé breve, scorre via gradevolmente e l’efficacia della narrazione è data da un ritmo sostenuto nonché dalla capacità dello scrittore di tenere il lettore in bilico tra la curiosità di scoprire i misteri celati nel racconto e il timore di ciò che essi potrebbero stare a significare. Il Grande dio Pan è un’opera che nonostante i sui 122 anni di età non risente molto del tempo passato e non ha quell’aura “datata” che invece caratterizza molte altre opere del genere.
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The King in Yellow
Il Re in Giallo è una raccolta di dieci racconti di Robert W. Chambers, artista e scrittore purtroppo a lungo dimenticato ma che sta godendo di un rinnovato successo (e quindi di ristampe delle sue opere) anche grazie alla prima stagione della serie tv crime “True Detective”.
Lo spunto per la narrazione è un'opera teatrale (fittizia) in due atti, di un autore sconosciuto, dal titolo The King in Yellow, che una volta letta, renderebbe folli, con squarci di orrori cosmici indicibili per l'incauto lettore. True Detective, che ha fatto della natura letteraria uno dei suoi caratteri distintivi ha diversi riferimenti all’opera di Chambers: in una delle prime puntate, durante un interrogatorio si parla di un fantomatico “Re in giallo” e di eventi inquietanti che si tengono in una località di nome Carcosa, luogo immaginario poi ricostruito nel finale di stagione. «Canto dell'anima mia, la mia voce è morta; Muori anche tu, silenzioso, come lacrime mai piante Destinate a seccarsi e perire Nella perduta Carcosa». È la seconda scena del primo atto, La canzone di Cassilda, che troveremo scarabocchiata nel diario della vittima più celebre di True Detective, la prostituta Dora Lange, e che nel libro di Chambers troviamo ad introdurre il primo racconto, “Il riparatore di reputazioni”.
Nato a Brooklyn nel 1865, Chambers inizia la sua carriera come pittore (la figura dell’artista bohemièn ritorna spesso nei suoi scritti così come l’ambientazione parigina). Naturalmente propenso al fantastico venato di nero simbolismo, iniziò a scrivere attorno agli anni ’90 del XIX secolo, rinunciando però presto alla sua vena horror, per dedicarsi invece ad una letteratura di carattere storico, sociale e romantico, di cui troviamo diversi esempi anche in questo volume. In effetti sono soltanto i primi racconti ad essere legati da quel fil rouge del fantastico e dell’occulto che tra l’altro costituiscono un esempio della sua influenza su Lovecraft, soprattutto, ma non solo, per il concepimento del famigerato Necronomicon, il libro maledetto che passa di mano in mano e il cui nefasto potere si attiva semplicemente sfogliandone le pagine, esattamente come accade con “Il re in giallo”.
Da sempre affascinata da quelle atmosfere in bilico tra l’onirico, il simbolico e il grottesco, devo ammettere di aver intrapreso questa lettura ispirata dalla visione di True Detective sperando di ritrovare nei racconti quegli squarci sull’ignoto, sul fantastico e l’esoterico che tanto avevo apprezzato nella serie. Chambers nei primi racconti inserisce tutti questi elementi, impregnando le sue storie di atmosfere decadenti, romantiche, e allo stesso tempo ricche di inquietudine e terrore psicologico, ma le mie aspettative sono state parzialmente deluse. Leggendo Il Re in Giallo (quello reale) ci ritroviamo comunque davanti a un'opera di pregio, forse un po’ datata, ma contenente tutti gli elementi della letteratura gotica e per nulla inferiore al miglior Poe.
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Alla ricerca di un senso..
Una ragazza, suicida, è distesa sul suo letto di morte, si è appena gettata dalla finestra e suo marito, un usuraio ex ufficiale, ricostruisce in un monologo le vicende che hanno portato al tragico epilogo. Dostoevskij definisce questo breve romanzo come appartenente al genere “fantastico”, non perché vi siano trattati argomenti non aderenti alla realtà, anzi pare sia stato proprio un fatto di attualità (il suicidio di una giovane donna gettatasi dall’abbaino di un grande palazzo stringendo al petto l’immagine di una Madonna) a ispirare allo scrittore l’idea del racconto. L’elemento fantastico sarebbe quello di immaginare la presenza di uno stenografo che avrebbe annotato i pensieri dell’uomo e a cui lo scrittore sarebbe poi subentrato per dare forma agli appunti.
Questo monologo, in cui si sprigiona tutto il "sottosuolo” che i lettori affezionati a Dostoevskij ben conoscono, ruota attorno al tema dell’incomprensione e tutti gli interrogativi che la voce narrante si pone sul perché le cose siano andate in un determinato modo, sono destinati a rimanere senza risposta. Il marito cerca di fare il punto dei propri pensieri ma si smentisce “sia sul piano della logica sia dei sentimenti” come ci spiega l’autore stesso nella nota introduttiva: è il contrasto interiore l’elemento che dà forma e stile all’intero racconto e, il tempo del racconto, visto lo stato confusionale dell’io narrante, non viene a coincidere con il tempo della memoria generando salti temporali e umorali che rendono questo romanzo un mirabile esercizio di stile.
I personaggi usciti dalla penna di Dostoevskij ancora una volta sono una perfetta chiave di lettura dell’animo umano e dei suoi turbamenti e nonostante il respiro ansante del racconto breve, riesce a condensare in una sessantina di pagine così come nelle più voluminose opere, l'insolubile irrequietezza di quell'animale instabile che è l'uomo.
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From lost to found
Wild è il racconto autobiografico di Cheryl Strayed e del suo viaggio a piedi, in solitaria, lungo il Pacific Crest Trail, un sentiero escursionistico lungo 4286 km che ha come capolinea meridionale il confine tra Stati Uniti e Messico e quello settentrionale sul confine tra Stati Uniti e Canada. In mezzo monti, fiumi, laghi, foreste. La natura selvaggia.
Nonostante i suoi 26 anni Cheryl ha già vissuto molte esperienze che in una persona “comune” spesso capita si spalmino in un arco temporale ben più dilatato. Ha sperimentato l’abbandono del padre, un’infanzia non del tutto serena, un matrimonio, la morte prematura della madre malata di cancro, un divorzio e la caduta nella spirale della droga e del sesso occasionale. Direi un bel concentrato di emozioni/esperienze che non fanno altro che distruggere il suo precario equilibrio. Arrivata ad un punto che per molti può essere di non ritorno, la protagonista decide invece che è il momento di dire basta, di riemergere da quel limbo in cui si era relegata cercando di rifuggire il dolore e in lei si affaccia l’idea di imbarcarsi in questo viaggio nella natura, un viaggio che a questo punto diventa non solo fisico ma anche spirituale.
Cheryl parte da sola, a piedi, con l’unica compagnia di “Mostro”, il nomignolo da lei affibbiato al suo enorme zaino. Mostro pesa tanto, è un fardello che lascia delle tracce dolorose sul suo fisico già provato dalla fatica, ma a ben vedere il peso più grande è quello che lei si porta dentro: il lutto irrisolto della madre, la sofferenza per un nucleo familiare disgregato, per la fine del suo matrimonio.
La protagonista ci porta con sé nel suo viaggio nella natura, che ci sembra di veder materializzata davanti a noi per via delle dettagliate descrizioni che ci vengono offerte, e utilizza una prosa semplice ma allo stesso tempo ricca di profondità. Assistiamo all’evoluzione di Cheryl che, così come si abitua un po’ alla volta al peso dello zaino (anzi a sentirlo ormai come una parte di sé) riesce anche a metabolizzare la morte della madre e capisce che la sofferenza fa parte della vita ed è un tipo di emozione che non ha senso escludere in quanto nel bene o nel male ci porta ad essere dove siamo e come siamo. Alla fine del suo viaggio Cheryl è pronta a lasciare lo zaino ma porterà sempre con sé il ricordo di quello che il Pacific Crest Trail ha fatto per lei, anche se per anni non è stata sicura di quale sia stato il vero senso del viaggio. Più che la strada percorsa, di quanto si è andati lontano, della gente incontrata sul nostro cammino, dei pericoli corsi per arrivare al traguardo, il valore del viaggio sta in fondo nel superare le nostre paure, mettersi alla prova e tornare più forti di prima.
Wild è una storia di fuga e rinascita, di paura e coraggio. La scrittura è intensa, come la vicenda che racconta, in quanto vissuta in prima persona. Dalla lettura emergono con forza il fascino degli spazi incontaminati e la fragilità della condizione umana di fronte ad essi. Allora la nostra sofferenza sembra nulla in confronto alla vastità dell’universo. E in quella immensità quasi sacrale Cheryl riconosce che è la vita stessa ad essere sacra e “come tutte le vite, misteriosa e irrevocabile”. La vera sfida adesso è vivere!
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Buoni incubi!
Leggere ciò che scrive Chuck Palahniuk non è per niente semplice, o meglio, non è per niente semplice leggere Chuck Palahniuk. Mi spiego meglio.
Lo stile è molto lineare, scorrevole e la chiarezza espositiva non lascia spazio a possibili malintesi. I suoi libri solitamente si leggono abbastanza velocemente. L’unico “ostacolo” è l’approccio di fondo: una visione molto nichilista del mondo, dissacrante e politicamente scorretta. L’autore non si fa alcuno scrupolo a sbatterci in faccia tutto il marciume, le perversioni, le bassezze dell’essere umano. Ci rivela senza tanti giri di parole verità sconcertanti con le quali siamo costretti a confrontarci, a riconoscerle come parte integrante del nostro vivere. Leggere Palahniuk è difficile perché è come leggere se stessi, guardarsi allo specchio e riconoscere la nostra parte peggiore, quella che spesso non si vede perché ci impegniamo a tenere ben nascosta.
Se venissimo a conoscenza di un potente canto africano in grado di uccidere le persone, anche a distanza e senza spargimento di sangue, useremmo questo potere? La maggior parte di noi risponderebbe di no. Ma siamo sicuri sia davvero così? Un potere del genere, dal quale dipenderebbero le sorti dell’umanità intera, eserciterebbe un pericoloso fascino anche sull’uomo più insospettabile. È quello che avviene con i protagonisti di Ninna Nanna, uomini e donne alla deriva, con un passato tragico e irrisolto alle spalle. Contrariamente ad ogni ipotesi buonista e rassicurante queste persone non solo sceglieranno di usarlo ma lo faranno in modo così incontrollato, da restare vittime di una sorta di mania di onnipotenza.
Se conoscete Death Note (manga e anime giapponese) non potete non pensare al suo protagonista, Light Yagami. Egli entra in possesso di un Death Note, un quaderno tramite il quale è possibile uccidere le persone semplicemente scrivendone il nome. Inizialmente il protagonista lo usa per eliminare dalla terra i criminali più pericolosi, poi coloro che egli reputa deleteri per la società, in seguito chiunque cerchi di ostacolarlo. Ma chi decide cosa è giusto o sbagliato? Come può un semplice uomo ergersi a giudice supremo e discernere in modo assoluto il bene dal male? Il manga ci fa vedere quanto un improvviso e illimitato potere possa deviare la mente umana al punto da farle perdere di vista ogni morale, anzi a crearne una propria, completamente distorta dalla follia. Palhaniuk fa lo stesso con Ninna Nanna, ma senza mezze misure.
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Intelletto androgino
In questo saggio Virginia Woolf si avvale della finzione narrativa per affrontare con ironia, ma senza mancare di profondità, il tema del rapporto tra le donne e la letteratura nel corso dei secoli. Secondo l’autrice alcune delle motivazioni che impedivano alle donne di dedicarsi alla letteratura erano di natura materiale: la mancanza di un reddito che garantisse loro indipendenza economica, un luogo appartato, “una stanza tutta per sé” (da qui il titolo del saggio) in cui dedicarsi completamente alla creazione artistica e l’impossibilità di accedere a molti luoghi (tra cui le biblioteche) A ciò vanno sommati i pregiudizi e le vessazioni da sempre subite.
Ciò che mi è piaciuto di questo saggio è che la Woolf offre un’analisi lucida e non di parte. Il suo non è un attacco senza esclusione di colpi contro un presunto “sesso cattivo” (cioè gli uomini), non scade mai nell’invettiva sterile, piuttosto attraverso l’esempio di Charlotte Brönte, ci fa capire come alcune grandi scrittrici del passato, nel tentativo di ribellarsi, anche se ancor timidamente, a quei valori dominanti in una società di tipo patriarcale, si trovassero a cedere a rancorose rivendicazioni che andavano a sminuire la grandezza artistica delle loro produzioni. Nel caso di Charlotte Brönte la Woolf afferma come in “Jane Eyre” l’autrice si perde in divagazioni sul tema della libertà della donna interrompendo in modo brusco il filo narrativo e andando a discapito dei personaggi. Invece Jane Austen (per la Woolf meno talentuosa di Charlotte) ed Emily Brönte costituiscono delle mirabili eccezioni, e la loro grandezza sta proprio nell’essere riuscite a evitare di restare vittime della loro stessa rabbia.
La scrittura di Virginia Woolf, se non si considerano alcuni elementi che per forza di cose appartengono al suo tempo, è assolutamente moderna e le sue intuizioni lungimiranti. Tolto il sipario tipico di inizio XX secolo, eccola che appare con guizzi formidabili, con pensieri che ci parlano come se fossero stati espressi oggi. Quando ci illustra la sua stanza, porta con sé una ventata di modernità, soprattutto quando parla dei due sessi fino a trasformarli in uno solo: l'intelletto androgino. Perché quando l'intelletto è grande, non conosce differenze.
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Epifanie
Impotenza, è questa la sensazione che ho provato terminata la lettura dei quindici racconti che costituiscono “Gente di Dublino”. Ognuno di essi è un’istantanea sulla condizione dell’uomo con le sue miserie, le sue sofferenze e contraddizioni. I personaggi si muovono nella Dublino del secolo scorso e sono accomunati da un’apatia, un’incapacità di prendere le redini della propria esistenza, dall’improvvisa consapevolezza della caducità della vita e dell’inevitabilità della morte. La narrazione di Joyce è assolutamente priva di qualsiasi elemento possa costituire un semplice abbellimento, un orpello fine a se stesso. Il linguaggio pulito, essenziale ma ricco di descrizioni, la quasi totale mancanza di azione, l’aderenza alla realtà mi ricorda la poetica verista. L'autore lascia che sia la quotidianità dei personaggi a raccontarne i sentimenti e le frustrazioni. Tutto è lasciato al suo naturale corso, ogni racconto è uno spiraglio, non ha una conclusione ben definita. Questa mancanza di organicità rende “Gente di Dublino” un’opera di non facile comprensione. Non è certo un tipo di lettura leggera, di intrattenimento, piuttosto è uno di quei libri scomodi, ma necessari, che fa riflettere e mette in evidenza, attraverso le vicissitudini del singolo anche la situazione politica, economica e religiosa dell’Irlanda al principio del ‘900. Occorre andare oltre la superficie del testo per ottenere una visione completa. L'affresco di Dublino, in particolare, è mirabile, ci viene presentata come un’uggiosa città del nord dalle tinte spente e tendenzialmente monocrome, ben lontana dalla verde Irlanda dell’immaginario comune, ma perfetto sfondo alle vite dei protagonisti.
Personalmente, non ho apprezzato allo stesso modo tutti i racconti, forse il mio preferito è stato l’ultimo dal titolo “I morti”, perfetto “requiem” che chiude la raccolta e lascia al lettore una sensazione di triste malinconia che, unita all’impotenza sono le sensazioni che mi hanno accompagnata per tutta la lettura. Credo che Joyce sia uno scrittore che “o lo si ama o lo si odia”. Io, per quanto ammetto di aver trovato la lettura un po’ ostica in alcuni punti, mi sento di consigliarlo.
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Tra ragione e volontà
Intenso, drammatico, nero, “Memorie del sottosuolo” scava a fondo nel torbido animo umano, nel sottosuolo, nell’abisso dell’inconscio. Dostoevskij dà vita, ben prima di Joyce ad un flusso di coscienza che, senza esitazione, ci sbatte in faccia tutte le bassezze di cui l’uomo è capace. Il testo scorre veloce e fluido come una melodia che tuttavia non è affatto piacevole, ma stridente e crudele nel suo contenuto. Ci viene presentata in modo crudo e diretto la condizione dell’uomo solo, vanaglorioso e quindi tendente all’astio, alla rabbia nei confronti del prossimo che egli ritiene inferiore e che tuttavia si muove nel mondo e coglie a piene mani quello che la vita offre, cosa che il protagonista non fa, scegliendo di chiudersi in una prigione di risentimento da egli stesso edificata. Come non pensare al Raskolnikov di “Delitto e castigo” che tuttavia trova infine la propria redenzione grazie all’amore di una donna. Qui non c’è redenzione e al richiamo della vita il protagonista preferisce il richiamo viscerale del sottosuolo.
Ma cos'è il sottosuolo? Una sorta di mondo oltre lo specchio, onirico e allucinato, in cui il protagonista si rifugia, diversamente dall'uomo “normale”, ragionevole che se ne sta quieto in superficie. Il nostro protagonista vive invece come un topo nella sua tana, cova un incessante sentimento di affermazione, di volontà di essere, ma nel momento in cui si scontra con la realtà, uscendo dalla sua tana, questa volontà viene meno e il topo, per difendersi si fabbrica un universo di sogno in cui vede le cose come vuole lui e non come sono realmente, il sottosuolo non lo abbandona mai del tutto in questo scontro continuo tra ragione e volontà.
“Memorie del sottosuolo” è un romanzo di una sconvolgente modernità, che anticipa di cinquant’anni uno dei soggetti principali dei romanzi del ‘900 che ritroveremo in “Una vita”, “Ulisse”, “Il fu Mattia Pascal”, “La coscienza di Zeno”. Stupisce per l’abilità con cui lo scrittore è riuscito a mettere nero su bianco la complessa psicologia del suo personaggio, dimostrando ancora una volta una lucidità incredibile e una conoscenza approfondita dell’animo umano. Una capolavoro della letteratura mondiale, non di facile lettura, ma fondamentale.
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La volpe ed il grano
“E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano”.
In poche righe Antoine De Saint-Exupery ha sintetizzato nel modo più semplice e poetico la profondità di un legame d’amicizia, dell’affetto per un altro essere vivente che dà significato e senso al mondo che ci circonda. Perché alla volpe addomesticata, per la quale un campo di grano non ha mai significato niente, esso richiama, ora, il ricordo del suo amico i cui capelli dai riflessi color oro somigliano a quello delle spighe. Così come ad Antoine osservare le stelle ricorda il piccolo Principe e così come credo ad ognuno di noi un determinato oggetto, luogo, profumo, richiama alla mente ricordi di persone entrate nella nostra vita, anche solo brevemente, che sono state in grado tuttavia di lasciare una traccia indelebile. Siamo noi, con i nostri sentimenti a dare forma al mondo e a colorarlo delle tinte che il nostro cuore ci suggerisce. Ma il Piccolo Principe è molto di più, ci parla non solo di amicizia, ma ci fa riflettere sul senso dell’esistenza in generale e sul nostro stare al mondo, sull’importanza di non giudicare dalle apparenze e di riscoprire l’essenza delle cose. Tutti dovremmo provare ogni tanto ad osservare il mondo con gli occhi di un bambino, il che non significa essere ingenui, ma privarsi, per quanto possibile, di quelle sovrastrutture che ci impediscono di esprimere a pieno i nostri sentimenti. Provare a sospendere per un attimo il giudizio ed essere più empatici con ciò che ci circonda, sia esso un essere umano, un animale o un fiore. Questa fiaba moderna parla a chiunque è in grado di coglierne l’essenza.
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Hybris
Raskolnikov, giovane avviato agli studi giuridici, era intimamente convinto di essere un individuo eccezionale, superiore a molti per le sue doti intellettuali e quindi incline al disprezzo per gli individui da lui considerati inferiori. Non solo, egli aveva teorizzato che al mondo vi fossero due categorie di esseri umani: la “materia grezza”, ovvero la maggior parte delle persone, gente comune senza particolari meriti e gli “eletti”, degli individui eccezionali per i quali è lecito venir meno alle comuni leggi della morale e dell’etica. Ad essi è tutto concesso affinché possano portare avanti le loro idee ed i loro progetti in quanto da essi ne potrebbe trarre giovamento tutta l’umanità. La posizione del giovane è talmente estrema che egli arriva ad ammettere che a questi individui sia concesso superare anche uno dei più grandi tabù dell’uomo, ovvero l’omicidio. Egli per supportare la sua tesi prende ad esempio la figura di Napoleone, individuo appartenente alla schiera degli eletti, che per raggiungere le vette del potere ha dovuto superare molti ostacoli macchiandosi di diversi misfatti tra cui l’omicidio. Nonostante ciò il generale francese ha conquistato onori e ricchezze, dimostrando la necessità, secondo Raskolnikow, di agire senza scrupoli morali. Così Galileo e Newton, a loro volta, per dare un fondamentale contributo alla scienza moderna hanno dovuto infrangere le vecchie leggi e credenze su cui si fondava la società a loro contemporanea. Ma, il nostro protagonista, non si ferma alla speculazione intellettuale, egli decide di dimostrare a se stesso di essere realmente un individuo eccezionale e quindi passa all’azione macchiandosi di un duplice omicidio. Quello che Raskolnikov non ha calcolato è il peso reale che tali azioni avrebbero avuto sulla sua coscienza e si trova a doversi confrontare con la consapevolezza della colpa e con il lacerante pentimento che lo porta al delirio. Tuttavia a ben vedere, come dimostrerà il giovane più volte nel corso del romanzo egli non si è mai pentito realmente e pienamente del gesto compiuto. Non è l’omicidio in se che egli condanna, non pesa tanto su di lui l’aver privato della vita due persone ma il fatto di non essere stato in grado di convivere con tale fardello. Egli quindi capisce di non essere il genere di individuo che ha sempre decantato. Quel tipo, una sorta di oltreuomo nietzschiano, avrebbe avuto la forza non solo di accettare la gravità delle sue azioni, ma di andare avanti superando di volta in volta tutti gli “ostacoli” posti in essere dal destino. Egli inoltre rimprovera a se stesso la mancanza di coraggio nell’agire, il fatto di non aver avuto abbastanza perseveranza da dover confessare il misfatto e un “ridicolo” attaccamento alla vita che non gli ha permesso di scegliere il suicidio. Questo romanzo ci dimostra la fallacia e in alcuni casi la pericolosità di chi, con presunzione, crede di essere superiore agli altri e quindi si sente in diritto di ergersi a giudice e carnefice. I poemi antichi ci hanno insegnato che gli esseri umani che si macchiano di hybris, di quell’arroganza che li ha portati ad oltrepassare determinati limiti, vengono puniti dagli dei. Qui non è la giustizia divina a punire il protagonista, e prima ancora che intervenga la giustizia umana sotto forma di carcerazione, ci rendiamo conto che Raskolnikov vive già in una prigione ben più dolorosa che egli stesso si è costruito.
Attorno al giovane protagonista poi ruotano altri personaggi memorabili che presentano tutte le sfaccettature dell’animo umano, personaggi le cui vite si trovano intrecciate sullo sfondo di una fredda e insensibile San Pietroburgo. La virtuosa Dunja, sorella del protagonista, l’amico fidato Razumichin, l’orgogliosa Katherina Ivanovna, costretta ad una vita di stenti sempre ancorata al doloroso ricordo della ricchezza passata, il libertino Svidrigalov, il ligio ispettore Petrovic, il meschino e narcisista Lugin, la piccola Sonja, costretta a prostituirsi per il sostentamento della famiglia e che tuttavia conserva un cuore casto e una purezza d’animo che il degrado delle sue condizioni di vita non è riuscito a scalfire. Sarà proprio l’amore incondizionato della giovane a dare a Raskolnikov un barlume di speranza per il futuro, nonostante la difficile situazione, e che lo fa uscire poco alla volta da quella logica deviata e malsana che ha guidato le sue azioni. Forse non è ancora tutto perduto.
Delitto e castigo è uno di quei romanzi “universali”, che riesce così bene a scandagliare i recessi dell’animo umano ed i suoi tormenti, da trascendere lo spazio ed il tempo. Un pilastro della letteratura mondiale.
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Un lindy hop sulle note del tempo
Jake Epping è un tranquillo professore di Lisbon Falls, Maine, e il suo posto preferito per fare quattro chiacchiere è la tavola calda di Al. Al però non è un uomo comune, egli cela un segreto: la dispensa del suo locale nasconde un passaggio temporale che conduce al 1958. Per Jake questa è, ovviamente, una rivelazione sconvolgente, eppure l'incredulità non gli impedisce di farsi coinvolgere nella missione che ossessiona il suo amico da tempo: fermare Lee Harvey Oswald dall’uccidere Kennedy nel lontano 22 novembre 1963. Due minuti della sua vita (perché non importa quanto a lungo si resti nel passato, al ritorno nel presente saranno passati solo 2 minuti) potrebbero portare grandi cambiamenti nella storia: salvare Kennedy potrebbe voler dire salvare anche suo fratello Bob, Martin Luther King, bloccare le rivolte razziali...forse servirebbe ad evitare anche la guerra in Vietnam! Comincia così la nuova esistenza di Jake nei panni di George Amberson (identità fittizia che sceglie quando viaggia nel passato) nell’America degli anni ’50 e dei primi anni ’60, nel mondo di Elvis Presley, James Dean e JFK, delle automobili, del boom economico, del twist e del fumo di sigaretta, un mondo forse più chiuso, razzista e bacchettone ma per certi versi più genuino e più a dimensione d’uomo. In questo mondo vedremo Jake incrociare le proprie vicende personali a quelle della “storia”, nel tentativo di sovvertire le regole del tempo.
22/11/63 è un romanzo dal taglio sicuramente diverso rispetto a quello degli horror a cui lo scrittore ci ha sempre abituati. Questa volta Stephen King riprende una tematica come quella del viaggio nel tempo e dei mondi paralleli, che aveva affrontato soprattutto nella serie de La torre nera, legandola stavolta a vicende storiche, e lo fa in modo superbo a mio parere. Da ogni pagina traspare il grande lavoro di ricerca e documentazione che ha guidato la scrittura di questo romanzo. Il background socio-culturale è descritto in modo così particolareggiato che sembra davvero di poter viaggiare nel tempo e calarsi nella vita quotidiana, negli usi e nei costumi di un tempo ormai lontano. I personaggi sono più che verosimili, sono veritieri. Non importa quali siano di fantasia e quali realmente esistiti, in questa sorta di “fantastoria” creata da King si percepiscono come reali gli appartenenti ad entrambe le categorie. In particolare il protagonista Jake/George, un uomo che si trova a indossare i panni dell’eroe, spicca soprattutto per la sua umanità e familiarità, per il fatto di essere sostanzialmente debole, non immune al timore e agli errori, la cui forza d’animo però lo spinge a lottare con tutte le sue forze per ciò in cui crede. E bellissima è la storia d’amore tra il nostro protagonista e Sadie, una ragazza che incontrerà nel passato. Infatti sebbene le implicazioni del viaggiare nel tempo e la teoria dell’effetto farfalla (secondo cui ad ogni piccola variazione nelle condizioni iniziali di un sistema, in questo caso il sistema-evento “morte di Kennedy”, seguono grandi variazioni nel comportamento a lungo termine del suddetto sistema) rappresentano una scelta narrativa interessantissima, sostanzialmente King ha scritto una storia d'amore, una di quelle che ti levano il fiato e ti fanno commuovere fino alle lacrime.
Questo romanzo è fantasioso, intrigante ma allo stesso tempo concreto. Nonostante la mole imponente il libro scorre benissimo, anzi per me terminarne la lettura è stato traumatico. Dopo aver chiuso il libro, anzi dopo aver riletto le ultime pagine almeno 3-4 volte prima di chiudere il libro, è stato difficile riuscire a lasciare i personaggi al loro destino e ritornare al “mio” presente. Sì, perché anche io ho viaggiato nel tempo insieme a Jake e ho amato, lottato, sofferto e sperato insieme a lui. Non voglio illudervi, questo libro non vi dà la soluzione dell’enigma che accompagna la morte di Kennedy però vi farà molto riflettere sul senso del tempo, del destino e di quanto possa essere importante anche quella che sembra essere la più insignificante delle azioni. Essa invece, nell’architettura generale del flusso degli eventi, riveste un grande valore. Una presa di coscienza che può spaventare ma allo stesso tempo rendere consapevoli. Insomma, consiglio assolutamente la lettura di questo romanzo!
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NO NO NO
Vorrei fare tre brevi premesse prima di esprimere la mia opinione su questo libro:
1. Non sono una purista dei classici della letteratura (nel senso che sono aperta a qualsiasi rilettura e reinterpretazione, se fatte con criterio!)
2. Mi piace l'umorismo cinico e dissacrante
3. Mi piace il genere zombie horror e splatter
Da queste premesse si deduce che la predisposizione mentale da parte mia alla lettura di questo romanzo ci fosse tutta, anzi ero curiosa di scoprire come Seth Grahame-Smith fosse riuscito ad integrare il mondo delle sorelle Bennet con quello degli zombie.. beh dopo 367 pagine di lettura posso dire che la sua impresa, a mio modesto parere, è fallita miseramente. Si capisce benissimo che l'autore ha fatto un sommario copia e incolla di passaggi random sugli zombie nel testo originale senza alcun adattamento. Sulla carta l'idea poteva essere un geniale e divertente mash-up, ma per essere tale avrebbe richiesto una riscrittura quasi totale del romanzo. Così, con il testo originale a cui è stata appiccicata malamente qualche scena d'azione con gli zombie, sembra tutto davvero insensato. E ripeto, la mia non è una critica all'idea di catapultare il mondo di Orgoglio e Pregiudizio in un universo post-epidemia zombie, è proprio il modo in cui è stato condotto l'esperimento che non mi è piaciuto. Poca inventiva da parte di Grahame-Smith che non ha dato nessun apporto originale, secondo me. Detto questo, io che cerco sempre di trovare del buono in ogni libro che leggo, l'unica cosa che in questo caso riesco a salvare è l'immagine di copertina.. l'unica cosa intrigante e divertente di questo romanzo!!
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Il romantico per eccellenza!
Avete presente quell'istinto masochista che induce alcune persone che stanno passando un periodo turbolento, triste, difficile insomma, ad ascoltare canzoni, leggere libri o guardare film che le inducono ancor di più a crogiolarsi in quello stato d'animo? Io si! Posso tranquillamente affermare di far parte di quella categoria. Tuttavia "I dolori del giovane Werther" di Goethe ha su di me l'effetto opposto. La trama di questo romanzo epistolare, classico della letteratura romantica tedesca, credo sia ben nota a tutti. In sintesi narra dei tormenti interiori di Werther, personaggio che rappresenta l'uomo "romantico" per eccellenza, ora rapito nell'osservare la bellezza estasiante e sublime di un frammento di natura, ora rinchiuso in se stesso, mentre nel suo cuore sboccia un amore impossibile per la giovane Carlotta, già promessa ad un altro uomo. Noi seguiamo le sue tormentate riflessioni per mezzo del rapporto epistolare che egli intrattiene con l'amico Guglielmo e non si può fare a meno, per chi ha un cuore sensibile, di riconoscere al di là dei secoli di distanza i propri dolori, le proprie insicurezze. Dopotutto il cuore dell'uomo, al di là delle differenze temporali, geografiche, sociali e culturali, è sempre dominato dagli stessi istinti e dalle stesse passioni. Quando vivo un periodo un po' negativo mi capita di riprendere in mano questo romanzo perché per me è una sorta di palliativo per il dolore, mi fa sentire meno sola. In effetti c'è un passaggio di questo breve libro che esprime questo concetto:
Tante volte mi dico: "Il tuo destino è unico: puoi dire che tutti gli altri sono felici e che nessuno è mai stato tormentato tanto come tu lo sei". Poi leggo un poema antico ed è come se vedessi nel mio proprio cuore.
Ecco, sapere che c'è chi ha vissuto o vive situazioni simili alle proprie, che sia tra le pagine di un libro o nella quotidianità, fa sentire meno soli, perché in fondo ogni uomo, che lo dia a vedere o meno, vive i nostri stessi drammi, anche se in modi e per cause diverse. Cio' che i poemi antichi hanno fatto per Werther, per me lo ha fatto il Werther stesso. Dopotutto non posso che concordare con Goethe che già introduceva al libro con queste parole: "(...) E tu, anima buona, che come lui senti l'interno tormento, attingi conforto dal suo dolore, e fai che questo scritto sia il tuo amico, se per colpa tua o della sorte non puoi trovarne di più intimi". Consiglio dunque la lettura a tutte le "anime buone" che sicuramente vi si riconosceranno.
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Tra sogno e realtà
Nella decadente Vienna di fine '800, città che ormai conserva solo l'ombra di una più antica grandezza, vivono Fridolin e Albertine, due giovani coniugi i quali si troveranno loro malgrado a veder minata la stabilità del loro matrimonio, in seguito ad alcune esperienze (reali od oniriche che siano) che hanno come sfondo il desiderio, la trasgressione, il tradimento. Queste esperienze si giocano su due piani diversi: in quello del sogno per quanto riguarda Albertine, in quello reale per Fridolin anche se i due piani risultano quasi intercambiabili. Le misteriose e oscure vicissitudini che vedranno protagonista il giovane medico hanno infatti un che di onirico nella loro nebulosità, mentre il sogno di Albertine è vivido e sconvolgerà entrambi i protagonisti al pari di un avvenimento realizzatosi concretamente. Dopotutto il contrasto tra realtà e sogno, come tra maschera e volto scoperto è un elemento chiave di questa novella.
Quella su cui si basa Schnitzer è un' analisi dei desideri repressi all'interno della coppia ma, che questi desideri vengano soddisfatti o rimangano solo, per l'appunto sogni, poco importa. Fridolin non tradisce la moglie , forse perché non vuole, forse perché non riesce, o addirittura perché l'importante non è davvero tradire ma vendicarsi del tradimento, anche se irreale, proprio perché si ha paura che questo si possa realizzare, vige l'idea che un sogno, non sia mai soltanto un sogno, volendo azzardare una lettura freudiana. Freud stesso del resto, con una lettera si complimenta con lo scrittore per la sua istintiva auto-percezione del funzionamento della psiche umana (sottolineando comunque la differente caratura di ruolo tra scrittore e medico). Interessante notare tra l'altro come la "risoluzione del conflitto" tra i due coniugi avvenga dopo le rispettive confessioni, quasi come se il racconto del sogno, o del doppio sogno abbia avuto un valore terapeutico.
Nonostante la risoluzione finale, senza entrare nel merito della vicenda, si legge comunque, almeno da parte mia, un pessimismo di fondo che forse deriva anche dal particolare clima culturale in cui Schnitzler si trova ad operare. Detto ciò posso concludere affermando che Doppio sogno è una novella ben scritta, breve ma densa di spunti di riflessione senza per questo risultare pesante, anzi la narrazione è scorrevole e le tematiche affrontate assolutamente interessanti.
P.S: Immagino che tutti conosceranno Eyes wide shut, l'ultimo capolavoro di Kubrick datato 1999, la cui sceneggiatura è stata tratta proprio da questa novella. A chi non l'avesse ancora visto ne consiglio la visione e viceversa a chi avesse invece visto il film non posso che consigliare la lettura di Doppio sogno. Nonostante le differenze del caso, sono entrambe due opere pregevoli.
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Nuova ossessione
Ossessione: fenomeno patologico che si manifesta con l’insorgenza di un’idea o di una qualsiasi rappresentazione mentale, che, accompagnata da un sentimento d’ansia, si impone al soggetto in modo insopprimibile, e lo trascina a compiere determinati atti o ad astenersi da altri, o a fissarsi su determinati pensieri.
Tutti noi prima o poi siamo stati preda di un’ossessione e sappiamo bene quanto sia difficile svincolarsene. Nei casi peggiori può portare al logoramento. È quanto accade ai tre protagonisti dei brevi racconti che fanno parte di questo volumetto. Ognuno di essi è preda di un’ossessione diversa: una giovane pittrice si convince che i suoi lavori mancano di profondità in seguito ad una superficiale critica ricevuta. Questa idea la farà cadere in un baratro senza via d’uscita. Un pensionato, abile giocatore di scacchi, si trova a mettere in discussione il suo talento ed entra in crisi dopo una partita con un giovane spavaldo e sicuro di sé ma incapace nel gioco. Il vecchio orafo Mussard si convince che la Conchiglia è il principio metafisico su cui si fonda l’universo intero e questa consapevolezza, diventata malattia, lo accompagnerà fin sul letto di morte.
È questo il sadico gioco dell’ ossessione, spinge chi ne è colpito a trasformarsi in quell’idea malata, ad assumerne la forma, l’aspetto. Ed ecco che la giovane artista accusata di poca profondità si lascia distruggere da una semplice critica, lo scacchista imbattibile, nella convinzione che il suo avversario sia più forte di lui perde inesorabilmente poiché si lascia mettere in crisi da chi vale molto meno, il vecchio orafo si ammala della sua ossessione, la certezza di aver fatto una scoperta importante allevia la sua sofferenza e la giustifica allo stesso tempo.
Ossessioni è un libro sulla debolezza umana, sulla nostra insicurezza che ci spinge a volte su sentieri pericolosi, in alcuni casi alla perdita di sé. Le riflessioni che scaturiscono da questi racconti sono tante ed è un libro che si legge molto piacevolmente. Suskind è un abilissimo narratore ed ha uno stile impeccabile.
Ma al creatore di Profumo, a ben pensarci anche quello un romanzo “d’ossessione”, non basta lasciarci qualcosa su cui riflettere. A conclusione dei tre racconti, rivela ai lettori la sua di ossessione, quella di dimenticare i libri letti, le trame, le frasi che lo hanno colpito, i personaggi che lo hanno fatto emozionare, gli avvenimenti che lo hanno scosso. L’interrogativo che si pone e che ci pone è: se dopo un po’ ci si dimentica dei libri letti allora il tempo passato a leggere è tempo sprecato? A noi assidui lettori l’ardua sentenza.
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C'è un Belfagor in agguato dentro ognuno di noi..
"La missione di ogni uomo consiste nell'essere una forza della natura e non un grumo agitato di guai e di rancori che recrimina perché l'universo non si dedica a renderlo felice". George Bernard Shaw
Quando la morte e il dolore irrompono prepotentemente nella vita di un bambino, spezzando l'incanto e la favola, lasciano una traccia difficile da cancellare anche da adulti.. se poi è la figura materna a venire a mancare in così tenera età, la ferita può essere ancora più profonda. Quante vite segnate da lutti e da sofferenze difficili da digerire, da accettare. Eppure con la sinteticità e lo stile diretto che rispecchiano la sua professione di giornalista, Massimo Gramellini racconta ai suoi lettori una storia preziosa perchè sua, regala una parte di se. Tuttavia alla semplicità dello stile aggiunge la dolcezza e il dolore del bimbo e dell'adulto alle prese con una "mamma ingombrante", anche se di lei è rimasto solo un ricordo sfocato. Ho trovato eccezionale la capacità dell'autore di riuscire, anche con pochissime parole, a descrivere la complessità dell'animo umano e dei sentimenti. Un racconto toccante perchè vero e profondo pur nella sua semplicità. Non è necessario usare una prosa ridondante o astrusi giri di parole, non in questo caso.. Fai bei sogni è un regalo prezioso da parte dell'autore che ha deciso di mettere a nudo una parte della sua vita (e non è certo facile) e insieme un incoraggiamento: qualsiasi sofferenza, problema ognuno di noi stia vivendo e per quanto sia difficile farlo, solo l'accettazione del dolore può renderci liberi e permetterci di superarlo.
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Arrivederci Piccole Donne
Acquistando questo libro speravo di trovare, declinata in chiave moderna, una versione o meglio una rilettura di Piccole Donne della Alcott che mi facesse rivivere un pò le emozioni di quel libro che tanto ho amato da ragazzina. Dei punti in comune ci sono: le quattro ragazze protagoniste Nieves, Ada, Luz e Lola (non sorelle in questo caso, ma cugine) ognuna riconducibile a una delle sorelle March, una grande famiglia, una zia ricca e la guerra che irrompe nella vita delle ragazze, guerra di secessione per Piccole Donne, ascesa della dittatura militare in Cile negli anni '70 per Arrivederci piccole donne.Tuttavia dell'atmosfera di dolce malinconia e serenità del romanzo della Alcott non è rimasto niente. Il romanzo della Serrano è un romanzo crudo, dove il ricordo lascia il posto all'amarezza e al rimpianto di ciò che sarebbe potuto accadere e così non è stato. L'età dell'adolescenza è passata per le quattro cugine Martinez, dagli anni '70 siamo approdati al 2000, ma i conti con il passato non sono stati chiusi definitivamente e il ritrovarsi tutte insieme nell'occasione del funerale della vecchia Pancha, governante della fazenda in cui sono cresciute e che erano state costrette ad abbandonare a causa della guerra, è un viaggio non solo fisico, ma un ritorno ai luoghi dell'infanzia, un viaggio della memoria a ritroso nel tempo che ci permette di capire meglio la personalità e le scelte che hanno portato le ragazze ad essere così come sono.
Della Serrano mi è piaciuto il modo in cui riesce a delineare la personalità delle quattro cugine, tuttavia ho trovato la prima parte di una lentezza esasperante, più di una volta ho interrotto la lettura per poi riprenderla. Il romanzo si riprende un pò nella seconda parte. Le vicende storiche riguardanti la realtà politica cilena non sono state molto approfondite ma trattate in modo sommario, a mio parere invece sarebbero state utili, oltre che interessanti, per capire l'evoluzione di certi personaggi. La sensazione generale che mi ha lasciato questo libro è stata di amarezza anche se il finale sembrerebbe lasciare un piccolo spiraglio alla speranza. In definitiva potrebbe essere un libro interessante da leggere, non eccezionale, ma interessante.
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Morbi vampireschi
Un luogo incerto è la penultima (se non sbaglio) avventura del caro commissario Adamsberg, lo "spalatore di nuvole". E già in apertura vi dico che, se posso darvi un consiglio, sarebbe meglio cominciare dal primo libro poichè anche se le storie non sono collegate tra loro, spesso vengono citati fatti o personaggi che, senza aver letto i libri precedenti, non si riescono a ricollegare al complesso della storia. La trama è questa:
Davanti al famosissimo e macabro cimitero londinese di Highgate vengono ritrovati diciassette piedi tagliati, ancora con le scarpe. Adamsberg collabora con Scotland Yard per le indagini e viaggiando tra Londra e la Serbia, tra realtà e leggenda si trova a dover fare i conti una strana vicenda che lo porterà sulle piste di un caso reale di vampirismo, una inchiesta tanto intrigante quanto complessa.
Il mio primo pensiero di fronte a questo libro è stato : "ecco anche la Vargas è stata colpita dal morbo vampiresco!". Buona trovata commerciale un libro del genere di questi tempi, strizzando l'occhio alle twilight fans più accanite. Tuttavia questo libro in comune al genere urban fantasy gotico adolescienziale non ha nulla a che vedere. Ci troviamo di fronte ad un giallo che mescola mistero, suspance, humor nero ed erudizione. Una delle cose che amo della scrittura della Vargas è la cultura che ci sta dietro, vi si legge ricerca personale ed approfondimento in ciò di cui si parla, anche in questo caso in cui la scrittrice si rifà a due note leggende di tradizione serbo-iugoslava che affondano le radici nella storia. La trama è interessante e questa avventura grottesca è arricchita dai personaggi incredibili e ben delineati che la penna della Varags sa creare. Non solo Adamsberg ma anche coloro che si trovano ad entrare nella sua orbita e rimanerne in un modo o nell'altro attratti, sono affascinanti. Il protagonista però è sempre lui. E al caro commissario non ci si può non affezionare. Inafferrabile, misterioso e sfuggente, questi sono alcuni dei motivi del suo fascino. In questo libro tuttavia, il suo passato torna e lo mette in difficoltà, così che possiamo scorgere un altro lato della sua affascinante personalità e come sempre si è portati a seguirlo per vedere se e come il nostro amato eroe riuscirà a salvarsi.
Detto ciò concludo dicendo che il libro mi è piaciuto abbastanza, forse non è uno dei miei preferiti della serie però da qui a dire che sia un brutto libro ce ne vuole. La Vargas rimane una delle mie autrici contemporanee preferite e Adamsberg uno dei personaggi letterari più interessanti degli ultimi tempi.
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Guerra, sesso, potere e mistero..
Figli del Nilo è il terzo libro della trilogia di Wilbur Smith di cui fanno parte anche Il Dio del fiume e Il settimo papiro. Premetto che questo libro mi è stato regalato, in precedenza non avevo mai letto altri libri di questo autore quindi non posso riferirmi agli altri come metro di paragone.
L'eunuco Taita, potente mago, riceve in sogno la visita dell'amata Lostris, la defunta regina d'Egitto, madre dell'attuale Faraone Tamose, la quale gli chiede di prendersi cura del nipote Nefer Seti, figlio del Faraone. Questo sarà il suo ultimo compito prima che, ormai vecchio, il mago possa aspirare al riposo eterno e al ricongiungimento con l'amata. Di ritorno dal ritiro spirituale nel deserto, durante il quale Taita affina le sue già potenti arti magiche, trova Tamose in procinto di combattere contro i suoi nemici di sempre, gli hyksos, governati da Apepi. Il Faraone gli affida il figlio quattordicenne affinchè possa completare la sua formazione e aspirare un giorno al trono d'Egitto. Tuttavia, proprio durante una pausa nella battaglia, Tamose viene ucciso a tradimento dal malvagio Naja, che da tempo anela il trono senza esserne il legittimo pretendente. Da qui inizia una lotta intestina tra tutti gli uomini di potere che girano intorno al faraone. Naja diventa reggente dell'Alto Egitto e in seguito Faraone avendo sposato le figlie femmine di Tamose, le principesse Heseret e Merykara, mentre il nobile Trok, in combutta con Naja, assassina il sovrano del Basso Egitto, Apepi e ne diventa il successore sposandone la figlia Mintaka, che invece era promessa sposa del giovane Nefer. Taita, con un escamotage fa credere morto Nefer anticipando la mossa di Naja e prepara un piano per far in modo che Nefer possa reclamare ciò che è suo di diritto e regnare finalmente, accanto all'amata Mintaka, sul regno d'Egitto finalmente unificato.
La trama è molto avvincente e lineare. Non ci sono particolari colpi di scena o sorprese, un lettore sufficientemente attento può tranquillamente prevedere ciò che accadrà. Tuttavia la semplicità e la linearità della trama permettono una lettura scorrevole nonostante l'enorme mole del romanzo, 654 pagine. Più che la trama in sè ciò che rende la lettura interessante è la capacità dell'autore di descrivere con maestria e perizia di dettagli gli usi e costumi del popolo egizio e di quello hyksos, alimentando quell'atmosfera di magia, fascino e mistero che contraddistingue le civiltà antiche. La cosa che può risultare un pò stancante e rallentare la lettura è la presenza di lunghe descrizioni. Chi non le ama rischia di perdersi nella noia di certi passaggi e di non apprezzare fino in fondo la storia in se. Altro punto a sfavore di questo libro è il fatto che sia un romanzo crudo, molto crudo. Vi sono descrizioni di morti terribili e torture di ogni genere che vengono riservati ai personaggi e in questo l'autore non si risparmia. Devo ammettere che in certi passaggi ho avuto un pò di nausea, se poi consideriamo l'aspetto emotivo, vengono descritte scene di stupro, violenza e sacrifici umani, anche di bambini. L'elemento sessuale è sempre presente e troppo spesso ne è protagonista, a volte in modo gratuito a mio parere. Se dovessi descrivere con una parola questo romanzo, userei l'aggettivo "primitivo": guerra, sesso, potere, mistero. Gli elementi alla base di ogni società primitiva (e non) ci sono tutti.
Non mi sento di bocciare questo libro, perchè nonostante alcuni elementi di disturbo è un libro affascinante. Ecco, magari il mio consiglio è se siete deboli di stomaco o facilmente suggestionabili non è il libro adatto a voi.
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- sì
- no
Magnifico incubo
Il processo narra la storia di Josef K., un uomo di successo, che viene messo al corrente, un giorno qualsiasi e inaspettatamente che è in stato di arresto.. niente di straordinario si potrebbe pensare, se non per un piccolo dettaglio: il motivo è sconosciuto. Anche il signor K., come Gregor Samsa, il commesso viaggiatore trasformato in scarafaggio ne La metamorfosi, si trova improvvisamente, una mattina, a dover accettare un' assurda e ostile realtà che lo porterà giorno per giorno al logoramento. K. passerà dal voler combattere per scoprire i motivi del suo arresto, alla tormentata esistenza di un condannato che cerca di discolparsi..anche se non sa da cosa! Quella delineata da Kafka è una realtà estremamente negativa, sordida. Il protagonista si muove tra gente corrotta e viscida, assurdi tribunali. Il lettore è portato ad immedesimarsi in K. e così come il povero imputato, finisce per accettare la folle situazione in cui si viene a trovare come fosse un dato di fatto, non si chiede più quale possa essere l'accusa ma la si accetta impotenti. Almeno a me ha fatto quest'effetto. Mi sono sentita totalmente coinvolta e partecipe degli eventi. La lettura non è piacevole, mi spiego meglio, la sensazione che ho avuto nel leggerlo è stata di straniamento, ansia quasi e impotenza. E' un libro che mi ha coinvolta ma non è di certo una lettura facile nè leggera. Il processo è un libro cupo che, per le sensazioni che mi ha dato nel leggerlo, mi sento di associare a 1984 di George Orwell e a Gente di Dublino di James Joyce, in particolare per la sensazione di immobilità e impotenza che mi ha trasmesso. Lo stile è freddo ed essenziale, si tratta di un'analisi puntuale e disincantata del "marcio" del sistema burocratico e della società nella quale vive K.
The Lollipop Shoes
"Ci sono venti buoni e venti cattivi. Devi scegliere solo quello che vuoi."
Sono passati quattro anni dalle vicende di Lansquenet, il piccolo paesino francese in cui Vianne Rocher e la figlia Anouk hanno vissuto parte della loro vita e le cui vicende sono raccontate nel precedente "Chocolat". Vianne sembra aver "appeso al chiodo" i tarocchi e gli incantesimi e chiuso nel ripostiglio il mondo immaginifico in cui lei e la figlia vivevano. Dopo aver a lungo vagato di villaggio in villaggio, decide di stabilirsi nel quartiere di Monmartre.. e dove altrimenti? Qui cerca di condurre un'esistenza quanto più normale possibile, ora che ha un'altra figlia a cui badare, Rosette, a cui cerca di dare stabilità e qualche sicurezza in più. Tuttavia l'arrivo di una misteriosa donna dalle scarpe rosse, Zozie de L’Alba mina la tranquillità appena conquistata. Zozie ricorda a Vianne ciò a cui aveva rinunciato e sembra essere la sua controparte negativa, l'altra faccia della medaglia: affascinante, misteriosa, anticonformista come Vianne, ma dal passato oscuro che minaccia e fa presagire nubi oscure all'orizzonte. Vianne sarà costretta così a ritrovare se stessa e a combattere Zozie con la sua stessa arma, la magia.
Joanne Harris riesce sempre a costruire un mondo incantato, dove i personaggi hanno mille sfumature e il bene e il male si confondono e si influenzano a vicenda. La sua scrittura è evocativa e il suo stile coinvolgente. L'attenzione ai dettagli, le descrizioni minuziose donano colore. La presenza del cibo, come in Chocolat è accattivante e altro elemento in comune, sempre presente è il vento, elemento simbolico che percorre l’intero romanzo, portando con sé gli aromi del passato. Con leggerezza e con un tono fiabesco l’autrice affronta ancora una volta dei temi profondi come l’emarginazione, la diversità e l’importanza di essere sempre fedeli a se stessi.
Insomma se avete amato Chocolat, le Scarpe rosse non vi deluderà.
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Ora tu hai una scelta
Immagina di essere una studentessa di Letteratura inglese e Filosofia, di essere alle prese con la tesi di dottorato e che nel giro di poco tempo ti succedano tre cose che ti sconvolgeranno la vita:
-Il tuo relatore scompare misteriosamente
-La sua scomparsa sembra legata ad un libro maledetto, "Che fine ha fatto Mr. Y, scritto nell'Ottocento e che sembra non esistere più se non in una singola copia custodita nel caveau di una banca tedesca
-Vieni casualmente in possesso dell'unica copia del libro.
Tu che faresti? Leggeresti il libro sfidando la maledizione oppure no? Ariel Manto (questo è il nome della ragazza), decide di leggerlo e scopre che il libro contiene la formula di un preparato omeopatico che permette a Mr. Y, protagonista del romanzo, di viaggiare della Troposfera, un luogo "non-luogo" nel quale è possibile entrare nella mente delle altre persone. Inoltre, lì puoi effettuare la Pedesis, ossia puoi viaggiare nel tempo e nello spazio. Ariel ben presto si troverà invischiata in qualcosa più grande di lei e a quanto pare non è la sola a conoscenza dell'esistenza del libro.
Che dire, Che fine ha fatto Mr. Y è un romanzo che si muove tra scienza e fantascienza, tra filosofia e religione. Accanto alla trama vera e propria l'autrice infila digressioni riguardanti la fisica quantistica, l'interpretazione di Copenaghen e del multiverso sull'origine dell'universo e della vita, interrogativi sull'esistenza di Dio, dell'anima e di come si è sviluppata la coscienza. Non è una lettura semplice poichè se non si è interessati a questi argomenti o non si ha un minimo di dimistichezza con la fisica si potrebbero trovare alcune digressioni un pò noiose o pedanti. Personalmente non ho trovato la lettura pesante, anzi contrariamente a molte opinioni lette a riguardo, ho trovato il romanzo molto piacevole e intrigante. Ovviamente è tutto soggettivo. Certo un qualche appunto alla Thomas avrei da farlo anche io: in primo luogo il non aver approfondito o chiarito taluni aspetti (non so se sia stata una scelta intenzionale o meno), le frequenti e un pò forti scene di sesso forse per catturare di più l'attenzione dello spettatore e il finale un pò affrettato. In particolare sui finali indefiniti o frettolosi della Thomas, dopo aver letto tutta la sua produzione letteraria, posso dire siano un marchio di fabbrica. In alcuni casi sono azzeccati come per esempio a mio parere in L'Isola dei segreti e ne Il nostro tragico universo. Invece nel libro qui recensito e in Popco (probabilmente il mio preferito) la scrittrice mi ha trasmesso la sensazione di "non so come andare avanti, chiudo qui per non andare oltre e fare danni!". Detto ciò per quanto mi riguarda i pregi della Thomas qualità di scrittura, fantasia, originalità, erudizione superano di gran lunga i difetti, o comunque i difetti non sono così tanti da farmi sconsigliare la lettura di questo libro. Sarò forse una voce fuori dal coro ma per me questa lettura è stata stimolante, intrigante e mi ha portata a riflettere su temi non convenzionali.
Indicazioni utili
-Zoonomia di Erasmus Darwin
-Gli altri libri di Scarlett Thomas
-A chi ha interesse/dimestichezza con la scienza e la fisica
Sorseggiando un Gotto esplosivo pangalattico
"La storia di tutte le maggiori civiltà galattiche, tende ad attraversare tre fasi distinte e ben riconoscibili, ovvero le fasi della Sopravvivenza, della Riflessione e della Decadenza, altrimenti dette fasi del Come, del Perché e del Dove. La prima fase, per esempio, è caratterizzata dalla domanda 'Come facciamo a procurarci da mangiare?', la seconda dalla domanda 'Perché mangiamo?' e la terza dalla domanda 'In quale ristorante pranziamo oggi?"
Vi sarà capitato almeno una volta di aver pensato, a lettura terminata, di fronte ad un libro che vi ha particolarmente colpiti: "Diamine, perchè non l'ho letto prima?" Bè a me è successo un paio di volte, l'ultima delle quali dopo aver letto Guida Galattica per Autostoppisti. Il romanzo narra di un certo
Arthur Dent, il quale si sveglia una mattina e scopre che fuori casa sua ci sono delle grandi ruspe gialle. Sono venute per abbattere la sua casa, che si trova proprio nel posto dove dovrà sorgere una autostrada. Il suo amico Ford Prefect lo convince ad abbandonarla perché, in ogni caso anche la terra tra poche ore subirà lo stesso destino. Pare proprio che il nostro pianeta si trovi esattamente nel luogo dove sorgerà un’autostrada iperspaziale. Nonostante lo scetticismoe lo sgomento iniziale di Arthur, i fatti lo indurranno a credere al suo amico. Ford Perfect non è umano, ma un alieno del pianeta Betelgeuse che si sta occupando di aggiornare la “Guida galattica per gli autostoppisti”. I loro vagabondaggi spaziali li porteranno ad incontrare esseri alieni dalle caratteristiche più strane e inimmaginabili, come i Vogon, alieni antipatici ed irascibili burocrati con un’insana tendenza a scrivere orribili poesie.
C'è da dire che Guida Galattica è solo il primo libro di una "trilogia in cinque parti", come è stata definita dall'autore stesso, che comprende inoltre "Ristorante al termine dell'Universo", " La vita, l'universo e tutto quanto", " Addio, e grazie per tutto il pesce" e "Praticamente innocuo". La mia opinione è naturalmente relativa al primo volume della saga, non avendo letto gli altri quattri libri (cosa a cui porrò subito rimedio!!) e potrebbe essere espressa in poche parole: c'è un aggettivo al di sopra di geniale? Questo libro lo meriterebbe in toto a mio parere. E' un incrocio tra fantascienza, non sense britannico, filosofia. E' intelligente, leggero e divertente. Douglas Adams sembra voler dire che nulla è come sembra. L’autore costruisce un intero universo, con tanto di guida generosa di spiegazioni, ricco di personaggi esilaranti e fantasiosi. Un libro che non annoia mai, e che regala immagini surreali quanto spassose. Una su tutte a mio parere è la scena del capodoglio. Non aggiungo altro!!
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Senza infamia e senza lode
Comprando "Cose da salvare in caso di incendio" ho commesso non uno ma ben due errori da dilettante: farmi attirare dalla copertina e soprattutto dal titolo. In effetti il titolo accattivante è stata una bella trovata ma non imputabile alla scrittrice, il titolo originale è semplicemente "Vaclav e Lena" (il nome dei due protagonisti). L'episodio a cui il titolo fa riferimento è marginale nella storia e non rilevante ai fine della narrazione.
Haley Tanner ci racconta della tenera amicizia tra Vaclav e Lena, due bambini emigrati dalla Russia, così vicini ma provenienti da due realtà familiari molto diverse. Vaclav sogna di diventare un mago sulla scia del mitico Houdini e di fare della taciturna ed enigmatica Lena, dal passato misterioso, la sua assistente. Tuttavia sarà proprio il venire a galla del passato doloroso della piccola Lena a separare i due bambini, separarli però solo fisicamente perchè Vaclav non dimenticherà mai Lena e viceversa. La storia è una dolcissima fiaba d’amore in cui si incastrano fitte di doloroso realismo. Haley Tanner segue i personaggi negli anni e il lettore, come accade guardando crescere un bambino, si trova a sorprendersi del momento in cui l’ingenuità muta ad un tratto in consapevolezza, attraverso riflessioni che sconvolgono le rassicuranti certezze dell’infanzia.
L'inizio sembra promettente e la storia si fa sempre più interessante nel corso della lettura, tuttavia il finale non mi è piaciuto molto, l'ho trovato forzato. Neanche lo stile è degno di nota e la trama non particolarmente originale. Forse la vera forza del romanzo sono i personaggi che coinvolgono il lettore per un’insita naturalezza e profondità.
Insomma benchè non sia un libro che mi senta di bocciare, non mi ha convinta più di tanto. Tutta la pubblicità che ne è stata fatta, il fatto che sia stato tradotto in venti lingue mi avevano forse caricata di aspettative che in parte sono state deluse.
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- sì
- no
Il navigar m'è dolce in questo mare..
Sei giovani ragazzi inglesi (tre ragazzi e tre ragazze), colti e brillanti, stufi delle loro vite rispondono ad un annuncio sul giornale nel quale si cercano "menti brillanti per un grande progetto". Un breve colloquio e, non si sa come ne perché, i nostri protagonisti si trovano su un isola deserta. Deserta sì, ma non priva di comfort, una bella casa e tanto cibo.
Che ci faranno lì? Chi li ha riforniti di cibo? Saranno veramente soli?
Le domande e i dubbi si susseguono, i ragazzi hanno paura, ma ben presto iniziano a parlare e a conoscersi. I giovani protagonisti mettono a nudo con una seducente freschezza, la loro cultura musicale, letteraria, le loro esperienze e fantasie sessuali, la loro passione per i videogiochi, le loro fragilità psicologiche tipiche di personalità particolarmente brillanti e geniali.
Ho letto molte recensioni di questo libro, il 60% delle quali negative. La cosa che più si rimprovera alla Thomas è la stagnazione della trama, io non concordo. Anzi per me è proprio quello il punto forte del libro. E' vero che di azione ce ne è poca, certo non manca qualche sorpresa e colpi di scena , ma vengono trattati come un diversivo volto a catturare l'attenzione del lettore, una sorta di sottotrama, ma non il fulcro del libro. L'attenzione è tutta rivolta alle riflessioni dei protagonisti, nei cui dialoghi non si affrontano solo temi più leggeri come i gusti letterari o musicali, ma si sfocia nella filosofia, in riflessioni sulla vita e sul nostro ruolo di esseri umani. Per apprezzare questo libro ne va capito lo spirito, il messaggio, il ritratto della società che pesa sui giovani anche di mente brillante come un macigno.
I dialoghi sono naturali, spontanei e rispecchiano tutto un mondo interiore altrimenti di non facile comprensione. Oltrettutto l'abilità dell'autrice sta, a mio parere, proprio nel fatto di saper indagare a fondo e con maestria la psicologia dei protagonisti senza per questo rifilarci un noioso pappone psicologico-esistenziale ma rendendo il tutto fresco, spontaneo e interessante. Un libro costruito con maestria, con uno stile impeccabile e molta originalità. Lo consiglio vivamente!
P.S:
ATTENZIONE SPOILER (Se non avete letto questo libro e avete intenzione di farlo NON LEGGETE)
Non ho trovato affatto il finale inconcludente, anzi. Era abbastanza chiaro come sarebbe andata a finire. Secondo me Jamie ha accartocciato il pezzo di carta perché ha scelto di rimanere, fin qui è ovvio!! Ma in generale tutti (o quasi) l'avevano scelto fin dall'inizio. Per un assurdo ed altamente incredibile colpo di fortuna paradossale si sono ritrovati liberi dalla loro vita, dall'alienazione sociale di cui erano vittime, dalle insulse e manipolatorie regole della mentalità capitalistica. Capitolo dopo capitolo si delinea il fatto che tutti apprezzano questo essere perduti, essere "lontani", anche se non tutti lo ammettono. I dialoghi superficiali servono a mio parere proprio a delineare il mondo in cui vivevano, le norme, i modelli. Ed infine Jamie compie il gesto eroico che desiderava: permette a tutti di essere liberi.
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Genio è chi pensa in modo diverso..
"Non ho risposte semplici. Il genio del cinema si racconta" è una raccolta di interviste fatte a Stanley Kubrick da decine di giornalisti nel corso della sua gloriosa carriera. Mai come in questo caso l'epiteto di genio (spesso abusato) è meritato. Kubrick ha influenzato come pochi altri cineasti la scena cinematografica, nella incessante ricerca di una via "estrema" nel (e con) il linguaggio cinematografico che, quasi per forza di cose, doveva finire per condurre allo scavalcamento del cinema stesso.
La lettura è davvero molto interessante per gli appassionati di cinema e per gli amanti dei film di Kubrick ma non pensate che il Maestro dia delle risposte definitive sull'interpretazione e sul significato dei suoi film più controversi come 2001 Odissea nello spazio o Arancia Meccanica. Kubrick ritiene che il film per chi lo osserva è un viaggio visivo principalmente e un viaggio interiore, attraverso la propria coscienza e sensibilità e molte volte la verbalizzazione non è necessaria, anzi dare una precisa chiave di interpretazione sminuirebbe in un certo senso la visione del film, lo renderebbe anzi meno interessante allo spettatore. Dopotutto i film, come i libri o qualsiasi altro prodotto artistico si nutrono della fantasia di chi ne fruisce.
Questo non significa che leggere i resoconti degli incontri e delle conversazioni con Kubrick sia un’attività poco proficua per comprenderne, almeno in parte, l’opera. La lettura di queste interviste anzi è il miglior modo per liberarsi dei facili miti e delle leggende fiorite intorno alla sua figura, visto che il meticoloso Kubrick esigeva di rileggere le sue dichiarazioni onde potervi apportare modifiche "a freddo", a voler demolire ogni rischio di fraintendimento. Dopotutto il cineasta affermava:
"Gli unici modi che i giornalisti hanno a disposizione per fottermi sono citarmi in maniera errata o citarmi fedelmente".
Il libro fornisce poi tante informazioni su quello che possiamo definire il "metodo" Kubrick: la ricerca di un soggetto che quasi sempre si affida al caso di letture instancabili e onnivore, la lunghissima fase di preparazione e la stesura della sceneggiatura, le riprese, naturalmente la fase più difficile da gestire, e il rapporto con gli attori, infine la fase di post-produzione (e in più di un’occasione Kubrick ha modo di sottolineare come il montaggio sia l’unica pratica originale e veramente peculiare del cinema.
Insomma per gli appassionati del genere, e di Kubrick in particolare, è un libro imperdibile!!
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Politicamente scorretto
Il protagonista del romanzo è Nichi Moretti (alter ego dell'autore, come egli stesso dichiara), un avvocato dedito alle droghe e al sesso. Uno che ama quasi mettersi nei guai.. un tipo non troppo raccomandabile insomma! Attorno al protagonista ruotano una serie di personaggi alquanto variegati: prostitute, spacciatori, delinquenti di ogni sorta, una specie di "Corte dei miracoli" portratrice di una serie di contro-valori (Nichi d'altronde è un antieroe per eccellenza) che tenta con tutti i propri mezzi, che siano leciti o meno, di barcamenarsi e sopravvivere nella giungla della società moderna, di sfuggire alla morte in un contesto di povertà e degrado.
Non vi aspettate tuttavia un libro drammatico, o meglio Franco Legni riesce, a mio parere, a smussare con l’ironia e rendere più digeribili argomenti che fanno parte della trama (una trama molto esplicita) fatta di droga, sesso, delinquenza (piccola e grande), violenza. Un libro esilarante e dissacratorio ma che fa comunque riflettere. Nichi che fa della randagità e della precarietà il proprio stile di vita, benchè sia codardo, egoista e indolente, riesce comunque ad accaparrarsi la solidarietà e la simpatia del lettore. I personaggi sono tratteggiati con vivace e crudo realismo, lo stile è goliardicamente scurrile, a volte un pò troppo per i miei gusti, sfrontato ed estremo oserei dire.
Se non siete dotati di senso dell'umorismo e di apertura mentale vi consiglio di starne lontani!!
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- sì
- no
-Factotum di Bukowski
-Letteratura "on the road"
Non consigliato a chi potrebbe sentirsi offeso dalla trama esplicita, da alcune descrizioni un pò crude e dallo stile a volte goliardicamente scurrile!!
Non il miglior Gaiman..
In una fredda sera di ottobre una stella cadente attraversa il cielo e il giovane Tristan Thorn, per conquistare la bellissima Victoria, promette di andarla a prendere. Dovrà così oltrepassare il varco proibito nel muro di pietra a est del villaggio e avventurarsi nel bosco dove ogni nove anni si raccoglie un incredibile mercato di oggetti magici. È solo in quell'occasione che agli umani è concesso inoltrarsi nel mondo di Faerie. Tristan non sa di essere stato concepito proprio lì da una bellissima fata dagli occhi viola e da un giovane umano e non sa neppure che i malvagi figli del Signore degli Alti Dirupi e una strega potentissima sono anche loro a caccia della stella..
Gaiman ci regala con Stardust una bella favola per adulti, in cui il mondo immaginifico e della magia assume tinte a tratti grottesche, tratto distintivo dello stile dell'autore.
Ogni passaggio è descritto in pochi tratti essenziali ma assolutamente evocativi, esplorando con perizia la psicologia dei personaggi.
Forse dal creatore di Sandman, Coraline, American Gods, mi sarei aspettata qualcosa in più che la classica storia di fate, tipo quelle raccolte da Yeats. Questo non significa che la storia sia una scopiazzatura, intendiamoci. La trama è originale, pur con tutti i riferimenti alle opere classiche. Però gli elementi veramente innovativi che ho riscontrato non sono più di due o tre. Rimane comunque un libro che si legge molto velocemente e con piacere, specialmente per chi ama il genere fantasy.
Fa sognare ma anche riflettere sul fatto che spesso le nostre illusioni ci impediscono di aprezzare ciò che invece abbiamo.
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Vietato sognare..
Non lasciarmi potrebbe essere considerato come una visionaria favola contemporanea, o meglio un incubo, un mondo oltre lo specchio che non vorremmo mai visitare. A fare da scenario in un'atmosfera surreale, ovattata, un collegio inglese. Qui le vite dei giovani studenti sono avvolte in un manto di segretezza e indicibilità. Pagina dopo pagina, si disvela al lettore un puzzle complicato, che poco alla volta è portato a ricostruire.
Ma più di tutto Non lasciarmi è un romanzo sui ricordi e di cosa facciano i ricordi, se ti addolciscano e facilitino la vita o stiano lì semplicemente a tormentarti. Il fatto che il libro sia suddiviso in tre fasi infanzia, adolescenza e il momento in cui si svolge la storia principale fa si che il libro sia in gran parte fatto di ricordi che Ishiguro costruisce con grande maestria. Il sentimento che il lettore prova è quello di voler quasi congelare i protagonisti di questo romanzo nel momento spensierato della giovinezza, quando tutto sembra ancora possibile, prima che il terribile destino che li attende si manifesti in tutta la sua cruda concretezza.
Un romanzo quello di Ishiguro che fa riflettere per le sue implicazioni etiche e politiche, che ti emoziona e ti strazia talmente è intimo. I personaggi poi ti restano nel cuore. Ishiguro è un narratore straordinario.
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In guerra non ci sono vincitori nè vinti..
Quando si pensa all'Ultimo dei Mohicani viene subito in mente il film diretto da Micheal Mann, bellissimo a mio parere, ma si dimentica spesso l'opera letteraria da cui è tratto: l'omonimo Ultimo dei Mohicani di James Fenimore Cooper, che invece merita e molto a mio parere.
Guerra anglo-francese per il possesso coloniale nel Nuovo Mondo,
1757.
Il libro racconta le vicende diverse ma che si troveranno indissolubilmente legate di "Occhio di Falco" bianco, che ha rinnegato la civiltà per vivere a contatto con la natura e dei suoi compagni, gli ultimi due indiani superstiti della razza mohicana, una delle più antiche e rispettate, Chinghachgook e il figlio Uncas; essi si troveranno ad aiutare le due figlie del capitano dell'esercito inglese Munro, Cora e Alice e il maggiore inglese Heyward rapiti dal comune nemico Magua, capo della tribù degli Irochesi, alleati dei francesi, assetato di vendetta nei confronti di Munro (che l'aveva scacciato dal campo degli inglesi a causa della sua natura malvagia resa ancora di più tale dal vizio di bere) che decide però di riversare sulle innocenti figlie del generale.
La storia ha come sfondo la guerra, ritratta in tutta la sua violenza e assurdità. L'autore non prende le parti di uno schieramento o dell'altro ma lascia al lettore una certa libertà di giudizio. Con la meticolosità di un antropologo ci descrive gli usi e i costumi di un popolo come quello degli indiani d'America, che spesso in quel periodo veniva demonizzato, senza dare troppi giudizi di sorta. In ogni essere umamo c'è del bene e del male e quegli usi, alcuni che agli occhi di noi occidentali possono sembrare inconcepibili hanno una loro ragion d'essere che a noi così diversi culturalmente non è dato capire nè giudicare. Con la stessa abilità con cui caratterizza i personaggi e ci da molte interessanti divagazioni etnografiche, Cooper ci descrive con maestria l'incredibile paesaggio del nord America fatto di cascate, foreste, luoghi da mozzare il fiato, che si trovano purtroppo scenario di vicende di sangue e muto spettatore di assedi, imboscate e morte.
Nel film viene dato risalto al lato romantico che nel libro c'è ma è trattato molto di striscio. Si parla del commovente sentimento di Uncas per Cora, che non viene vissuto a causa dei tragici eventi descritti, dell'amore tra il coraggioso maggiore Heyward e la dolce e indifesa Alice, dell'affetto di Chinghachgook per il figlio Uncas, della forte amicizia che lega i due mohicani ad Occhio di Falco. Tutti sentimenti che si scontrano con la dura realtà della guerra.
A volte alcune digressioni possono risultare un pò pesanti in quanto rallentano il ritmo narrativo, tuttavia L'ultimo dei Mohicani è un libro che consiglio di leggere, un pilastro della letteratura americana.
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Colori proibiti
“Ora so che il nostro mondo è tanto instabile quanto un'onda che si innalza in mezzo all'oceano. Quali che siano stati i nostri conflitti e i nostri trionfi, per quanto indelebile sia il segno che questi abbiano potuto lasciare su di noi, finiscono sempre per stemperarsi come una tinta ad acquerello su un foglio di carta.”
Chiyo è una bambina cresciuta in una famiglia di pescatori in un piccolo villaggio chiamato Yoroido. Per poter avere il denaro necessario che serviva a dare una degna sepoltura alla moglie in fin di vita, il padre della protagonista la vende, assieme alla sorella più grande Satsu, ad una casa di geishe a Kyoto. Satsu però ritenuta inadatta finirà per diventare una prostituta, Chiyo grazie alla sua bellezza, esaltata dai suoi occhi color grigio-azzurro (assolutamente inconsueti per una ragazza giapponese) comincerà il duro addestramento che la porterà a diventare una delle geishe più richieste di Kyoto, con il nome di Sayuri. Il percorso non sarà semplice, la ragazza dovrà imparare ad eccellere nella danza, nel suonare lo shamisen e nell'intrattenimento dei suoi clienti, il tutto con grazia ed eleganza e a vincere la spietata concorrenza delle sue rivali. La selezione naturale farà emergere e sopravvivere solo le geishe più apprezzate, destinate altrimenti alla vita grama di serva se non peggio. C’è chi poi, come la bellissima ma spietata geisha Hatsumomo, cercherà di ostacolare in tutti i modi l’ascesa di Sayuri.
"Non si diventa geishe per avere un'esistenza piacevole, ma perché non si ha altra scelta" dice Mameha (la geisha che si occuperà della formazione della protagonista) a Sayuri. Le geishe imparavano a fare del proprio corpo, attraverso gli abiti e il trucco dei perfetti involucri o ancora meglio, dei cofanetti splendidamente laccati e preziosi in cui però tenere chiusi i propri veri sentimenti, soprattutto a ricacciare dentro di se (per quanto possibile) l’amore.
“Un'esistenza sbagliata non poteva trasformare chiunque in un essere perverso?” ci dice Sayuri, probabilmente si, ed ecco perché il lettore è portato a provare solidarietà anche per i personaggi più negativi come la proprietaria della casa di geishe in cui vive Sayuri, avida e calcolatrice, e Hatsumomo, perfida e subdola. Tutte però vittime, in fondo, di una cultura di cui sono il fiore all'occhiello ma che non risparmia né le geishe stesse, né mogli né amanti (se non in virtù del particolare rapporto con il loro danna, una specie di protettore), né le legittime spose, né, paradossalmente, gli stessi uomini, spesso imbrigliati in matrimoni combinati e costretti a cercare in una geisha la tenerezza, la devozione ed il calore che non hanno dalle loro mogli. Donne venerate le geishe, quasi come dee, ma obbligate ad obbedire, impossibilitate a gestire la propria vita, impossibilitate ad amare liberamente.
Arthur Golden, l'autore, attraverso questo romanzo scritto come se fosse una biografia, riesce a ricostruire un mondo fino ad oggi chiuso agli sguardi esterni, mondo che al di là delle diversità culturali e gli elementi che ce le rendono estraneo e lontano non può che affascinarci e soggiogarci anche se a volte non ci è dato capirlo né condividerlo, tanto meno giudicarlo. Personalmente mi sono fatta soggiogare dalla magia del romanzo che è toccante e avvincente oltre ad essere scritto veramente bene. E’ ricco di immagini poetiche, di descrizioni dettagliate e affascinanti, per esempio dei kimono, dei trucchi che trasformano il viso in una sorta di maschera, delle acconciature e delle calzature. La scrittura è piacevole, i personaggi e gli ambienti sono descritti così vividamente che risultano quasi familiari.
Una volta terminata la lettura, ho sentito nostalgia dei luoghi e dei personaggi, del piccolo universo che Golden ha saputo evocare. Pochi libri sono riusciti a farmi questo effetto.
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Quando la passione fa la differenza..
Con questo manuale Flavio Caroli,ordinario di Storia dell’Arte Moderna presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, e che forse in molti conosceranno anche in quanto ospite fisso nella trasmissione di Fazio "Che tempo che fa", ci accompagna in un viaggio lungo cinque secoli attraverso i capolavori dell'arte occidentale, dal Rinascimento ai giorni nostri. Il filo conduttore è la ricerca di una linea introspettiva dell'arte attraverso la disanima delle opere di quegli artisti che per primi, cominciando a svincolarsi dalla mera rappresentazione del visibile, aprirono uno spiraglio verso la rappresentazione del mondo dell'inconscio, dell'interiorità fino a rappresentare l'invisibile. Dal primo Rinascimento all'immenso panorama dell'arte contemporanea.
Tutto ciò attraverso l'analisi di più di seicento opere e con un linguaggio personale, elegante e appssionante capace di coinvolgere il lettore. Ben lontano dal tono pedante e dai tecnicismi di certi manuali, forse per lo più adatti ai tecnici del settore, questo è un libro che consiglierei a chiunque voglia avvicinarsi all'arte moderna. Si intuisce la volontà di chi scrive nel voler trasmettere ai suoi lettori la magia dell'arte moderna e contemporanea in tutta la sua complessità rendendo comunque il tutto digeribile ad un pubblico vasto e magari anche non particolarmente preparato. Un pò quello che a parole fa nel programma di Fazio.
Un altro punto a favore di quest'opera è il fatto che benchè sia corredata di numerorissime illustrazioni mantenga comunque un prezzo accessibile, cosa non molto comune per i manuali di storia dell'arte.
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In culo alla tristezza..
Se foste saliti sulla nave Virginian diretti in America all’inizio dello scorso, fottutissimo secolo avreste fatto i conti con un equipaggio alquanto bizzarro: un comandante claustrofobico, un timoniere sensitivo, pranoterapeuta e purtroppo cieco, un medico di bordo dal cognome impronunciabile ma sareste stati accompagnati dalla musica dell’Atlantic Jazz Band che poteva vantare il più grande pianista del mondo: Danny Boodman T.D Lemon Novecento.. strano si (già a partire dal nome) ma diamine.. che musica!!Tutta la vita su una nave. Senza mai scendere, neppure per nascere, neppure per morire. Solo una volta quel tentativo un giorno di febbraio, dopo che Lynn Baster, un contadino inglese, gli aveva raccontato della meraviglia di vedere il mare per la prima volta nella propria vita, lì dopo una collina. Ed egli aveva immaginato, dopo una vita intera vissuta sul mare, cosa potesse essere vedere il mare da una collina, ansioso di capire finalmente, di avere delle risposte.
Quante incertezze prima di scrivere questa recensione. Perché per me parlare di Novecento è come parlare di me stessa.. di una me stessa del passato ma non del tutto dimenticata. La prima volta che l’ho letto, anni fa, mi sembrava di vedere me stessa nei sentimenti e nelle riflessioni di Novecento. Da allora il gradino, il fatidico terzo gradino, l'ho sceso, diversamente dal mitico pianista. Ma Novecento io non lo voglio giudicare.. non io..
Era stato felice sul Virginian fino a quel giorno di febbraio Si era nascosto le sue paure. La musica era divertimento, era modo per esprimersi, per divertire, la musica era come una finestra che fa scorgere al di là.. ma mai raggiungere. Solo sognare, incantando le proprie emozioni in modo tale che possano solo arrecare conforto al cuore, senza tradirlo. Novecento conosceva il mondo meglio di tutti. Ma non era il suo mondo, era il mondo degli altri. E lui in fondo al suo cuore lo sapeva. Per questo era così bravo a suonare il jazz. Senza malinconia non si può suonare jazz. Il pianoforte ha 88 tasti, siamo noi ad essere infiniti si,ma i tasti non sono tutti banchi.. Ce ne sono anche alcuni neri. ma è bello suonarli...perchè quando incontri quelli neri...riesci a capire meglio i bianchi. Il dolore ci fa capire e godere meglio dei momenti felici.. è questa la vita!!
Che dire aggiungere altro sarebbe superfluo.. Novecento và letto.. tutto qui..
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Geniale inventore o furbo commerciante?
Geniale inventore o furbo commerciante? Quella di Steve Jobs è una figura controversa e le scuole di pensiero a suo riguardo sono molteplici. Personalmente sono sempre stata affascinata dal personaggio di Jobs e dalla rivoluzione apportata alle vite di tante persone dai prodotti Apple, a partire dal famosissimo spot pubblicitario "Ecco perchè il 1984 non sarà come 1984" (riecheggiando Orwell) che introduceva sul mercato il Macintosch.
Trovo davvero interessante il dibattito riguardo al mondo della tecnologia e al potere di controllo che questa esercita o meno sulle nostre vite. Tuttavia, ammetto di aver comprato questo libro sull'onda emozionale della morte di Jobs e nonostante ciò ho cercato di leggerlo e valutarlo in modo obiettivo.
La mole del libro è davvero consistente e Isaacson ci accompagna in questo lungo viaggio che ci catapulta nel mondo di Jobs promettendoci di svelarne non solo le luci ma anche le ombre della sua vita privata e professionale.
Sicuramente il libro è interessante, ben scritto e ricco di informazioni a volte anche molto tecniche e settoriali, non accessibili a tutti forse. Ci racconta non solo i momenti positivi e luminosi della vita di Jobs, ma anche i momenti bui, anche se il racconto dei momenti bui mi sembra a volte "troppo luminoso." Non dico che questo libro sia una lode senza fine di Steve Jobs ma durante la lettura mi sono trovata più volte a mettere in dubbio la totale onestà con cui è stato scritto.
Nonostante ciò mi sento di consigliarne la lettura poichè penso che una figura come quella di Steve Jobs, indipendentemente dal giudizio positivo o negativo che si può avere nei suoi confronti, sia interessante da conoscere. Ovviamente il mio consiglio è di non prendere per oro colato quello che viene raccontato. E' necessario, come sempre, armarsi di spirito critico!!
Un aspetto assolutamente positivo è che, almeno per me, in alcui punti è stato d'ispirazione
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Astenersi moralisti!!
Cosa è successo in quei trent'anni prima che il Messia fosse il Messia? La risposta è affidata, 580 pagine, che scorrono veloci nonostante la mole del romanzo, alla voce scanzonata e sincera di Biff.
Figlio di uno scalpellino ebreo, nato e cresciuto a Nazareth dove ha la fortuna di diventare amico sin dall'infanzia di Gesù, sostiene di essere l'unico a sapere come siano andate veramente le cose.. per perchè lui c'era!! Duemila anni dopo la sua morte, l'angelo Raziel, inviato dalle "sfere alte" va a resuscitarlo e lo costringe a scrivere il suo vangelo, chiuso nella stanza d'albergo di una grande città statunitense. Mentre l'angelo, che ha qualche problema a distinguere la realtà dalla finzione, si nutre di cibaccio e serie televisive, Biff ricostruisce la storia sua e di Gesù, con il quale ha condiviso esperienze, avventure, dubbi e paure.
Il libro è controverso. Probabilmente in molti potrebbero trovare elementi offensivi perchè, non si fa esattamente beffe ma tratta con un'ironia molto alla Monty Python quasi tutte le tradizioni religiose risalenti al I secolo. Diciamo che bisognerebbe cercare di guardare oltre tutto quello che c'è di irriverente sul Nuovo Testamento poichè avvolto in questo manto di assurdità e follia, ci sono temi enormi quali la fede, la pluralità religiosa ma soprattutto l'amicizia. Biff non vede di buon occhio il fatto di veder soffrire e ascendere al cielo il suo straordinario amico senza prima combattere.
Ho trovato questo libro intelligente, ironico e molto godibile.
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Holmes non deve morire!!
"Holmes non deve morire!" sembrava essere il pensiero dei lettori, quando nell'ultimo numero dello Strand Magazine Sherlock Holmes era precipitato, insieme al suo acerrimo nemico Moriarty, in un crepaccio. Un pò riecheggiando la psicopatica infermiera del libro di Stephen King, "Misery non deve morire", la quale non riesce ad accettare la morte della sua eroina letteraria, gli affezionati lettori del mitico Holmes "costringono" Conan Doyle a continuare la pubblicazione delle avventure del famigerato investigatore. Dopotutto quando un personaggio diventa un mito acquista una specie di vita indipendente, o meglio, collettiva, a cui il pubblico si affeziona e si identifica inesorabilmente.
Ed ecco dunque vedere la luce Il mastino dei Baskerville! Un testo anomalo se vogliamo, poichè si tratta di un romanzo. Quasi tutte le 60 avventure "canoniche" di S. H. non superano la misura del racconto, le quindici venti pagine al massimo. Un altra particolarità è il fatto che l'azione si svolge prevalentemente in campagna. Mentre quando pensiamo a S.H, siamo portati a vederlo molto "urbano", contro uno sfondo londinese, o davanti al caminetto, in Baker Street. E' presente poi tutto l'armamentario della letteratura gotica: antico manoscritto, maledizione di famiglia, morte per terrore, cupo castello nella brughiera, strane luci in movimento, ombre mostruose, infernali..
Holmes invece è sempre lo stesso: berretto da cacciatore, mantellino a quadri, pipa e il solito formidabile intuito. Già in apertura, Holmes, esegue una piroetta di presentazione, dà immediatamente un saggio delle proprie capacità a proposito di un bastone da passeggio. In tutte le sue inchieste, non manca mai questo mini-enigma introduttivo, una specie di marchio di garanzia. E' questo forse il difetto che riscontro nella prosa di Conan Doyle, questa specie di "ammiccamento" al pubblico che senza dubbio ha un valore ed un intento commerciali, che annuncia il prodotto in serie e fa pensare al lettore: "vediamo cosa combina stavolta il caro vecchio Holmes!!". E' normale che quasi tutti i personaggi le cui avventure proseguono nel corso del tempo vivono in parte di ripetitività e che in generale sono le peripezie che devono variare, ma Holmes è sempre identico a se stesso. Non invecchia, non ingrassa, non si modifica. Per suoi successori, Poirot, Miss Marple, Maigret e tanti altri, gli anni passano crudelmente, banalmente.. per lui no. Manca di profondità psicologica. Ma lui è un monumento..e forse è anche giusto così..
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Irrinunciabile poi per chi ama i gialli
"Profumo" dunque Sono!!
"Il profumo ha una forza di persuasione più convincente delle parole, dell’apparenza, del sentimento e della volontà. Non si può rifiutare la forza di persuasione del profumo, essa penetra in noi come l’aria che respiriamo penetra nei nostri polmoni, ci riempie, ci domina totalmente, non c’è modo di opporvisi."
Süskind apre in maniera sfrontata e senza falsi pudori il mondo nascosto degli odori e ce li sbatte davanti agli occhi, o per meglio dire al naso, almeno nella sua parte cerebrale.
Jean-Baptiste Grenouille, nato il 17 luglio 1783 nel luogo più puzzolente di Francia, il Cimetière des Innocents di Parigi, rifiutato dalla madre fin dal momento della nascita, rifiutato dalle balie perché non ha l'odore che dovrebbero avere i neonati, anzi perché «non ha nessun odore», rifiutato dagli istituti religiosi, riesce a sopravvivere a dispetto di tutto e di tutti. E, crescendo, scopre di possedere un dono inestimabile: una prodigiosa capacità di percepire e distinguere gli odori. Forte di questa facoltà, Grenouille decide di diventare il più grande profumiere del mondo, e noi lo seguiamo nel suo peregrinare tra botteghe odorose, apprendista che presto supera in breve ogni maestro passando dalla popolosa e fetida Parigi a Grasse, città dei profumieri nell'ariosa Provenza.
L'ambizione di Grenouille non è quella di arricchirsi, né ha sete di gloria; persegue, invece, un suo folle sogno: dominare il cuore degli uomini creando un profumo capace di ingenerare l'amore in chiunque lo fiuti, e pur di ottenerlo non si fermerà davanti a nulla.
L'autore ci accompagna in questo folle viaggio con una prosa sontuosa, con uno stile impeccabile e dimostra di essere abile con le parole, tanto quanto la sua creatura Grenouille lo è nel giocare con i profumi. Le descrizioni sono così dettagliate che riescono ad ammaliare il lettore facendo percepire chiaramente colori, sfumature, sapori, essenze, odori, mettendo in gioco tutti e cinque i sensi.
Questo libro mi ha catturata fin dalle prime pagine e il suo potere di attrazione mi ha portata a leggerlo in pochissimo tempo. Finalmente dopo diverso tempo ho letto un libro che fosse non solo ben scritto, ma dalla trama geniale, innovativa e ben sviluppata. Un senso di ironia grottesca e a tratti inquietante domina il romanzo fino allo sconvolgente finale..
Che dire.. Suskind mi ha conquistata!
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Friends will be friends (come cantavano i Queen)
Benny generosa, allegra ma insicura; Eve decisa, coraggiosa e sincera; Nan bella e intraprendente. Tre ragazze diverse ma legate da un bel rapporto di amicizia. Le tre diciannovenni si accingono a lasciare le rispettive case per intraprendere la carriera universitaria in una città diversa, pronte a vivere nuove esperienze e scontrarsi, a volte anche in modo doloroso, con la realtà e le responsabilità della vita adulta.
L'autrice Maeve Binchy fa muovere i personaggi nella Dublino degli anni '50 e sebbene sia passato piu' di mezzo secolo ormai dal periodo descritto nel libro e la società abbia subito molti cambiamenti, alla fine il sostrato emotivo resta sempre lo stesso. La crescita, i dubbi, il rapporto a volte conflittuale con il sesso, le aspettative dei genitori, la voglia di affermarsi, l'inadeguatezza con il proprio corpo, tutte problematiche che interessavano i ragazzi di ieri come quelli di oggi. Forse i giovani di oggi (categoria di cui faccio parte anagraficamente anche io, ma di cui forse non sono degna rappresentante a causa della mia convinzione di essere nata nell'epoca sbagliata!! ) sono più disillusi nei confronti della vita, meno ingenui e forse, paradossalmente, con ancora più incertezze di quelli del passato. Ma alla fine le cose sono davvero molto cambiate? Credo di no.
Attraverso il racconto delle vicissitudini di queste tre ragazze e del piccolo universo che ruota intorno a loro, tra gioie, dolori, amori, tradimenti, quello che viene delineato è un affresco della società dublinese di metà Novecento che, forse inaspettatamente, è più vicino a noi di quanto possiamo immaginare. Il tutto è presentato con uno stile semplice, lineare e scorrevole. Non ci sono particolari colpi di scena, nè particolare originalità nella trama ma ciò che rende piacevole la lettura è la vivida caratterizzazione dei personaggi che porta il lettore a una facile immedesimazione.
Una lettura piacevole e non particolarmente impegnata che mi sento di consigliare specialmente ad un pubblico femminile (ma non necessariamente) adolescenziale o che si accinge ad entrare nell'età adulta a cui sicuramente sarà più facile condividere le emozioni dei personaggi.
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Perchè non ci ho pensato io??
Francesco Bonami, noto critico d'arte con un breve passato da pittore, ci propone in 160 pagine circa (suddivise in brevi capitoli) una sorta di piccola guida che promette di venirci in aiuto nelle districate vie dell'arte contemporanea, commentando, spesso in modo ironico e dissacratorio, opere ed artisti.
Il titolo è simpatico e rispecchia ciò che comunemente, chi non conosce l'arte contemporana, è portato a volte a pensare davanti ad una tela di Fontana o alle opere di Beuys o ancora di Pollock.. "ma questo lo potevo fare anche io!!". Il contenuto però lascia un pò a desiderare. Il libro è pieno di commenti che rispecchiano esclusivamente i gusti di Bonami, un elenco di ciò che piace o non piace all’autore. Chi conosce come me l'arte contemporanea perchè la studia o ne è appassionato e quindi ha avuto la possibilità di sviluppare un giudizio critico e indipendente su determinate opere ed artisti allora potrà decidere se essere in accordo o in disaccordo con le opinioni espresse da Bonami. Chi però non ha delle basi in arte contemporanea, tenendo in conto che nel libro non sono presenti immagini (mancanza assai grave in un libro che parla d'arte!!)non riuscirà probabilmente a farsi un'idea delle opere. Se si parla della Nascita di Venere di Botticelli bene o male tutti sapranno di cosa si tratta e riusciranno ad averne una proiezione mentale, così non è per molte opere contemporanee che siano esse scultoree, pittoriche, installazioni, ecc.
Tirando le somme: se devo giudicare il libro in base al proposito espresso dall'autore, ovvero di offrire una guida alla comprensione dell'arte contemporanea, devo bocciarlo. Se invece voglio conoscere un pò di più l'arte contemporanea e voglio qualche spunto da approfondire in seguito, va bene. Lo stile tra l'altro è vivace, ironico e tutto sommato la lettura è scorrevole.
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Fuori dal comune..
“Per un istante i flash delle macchine fotografiche lo accecarono. Se almeno fosse stato possibile mandare via i fotografi… Erano mesi, ormai, che li aveva alle costole: da quando su quelle colline brulle al sud del Cairo erano stati rinvenuti i primi manufatti.”
E’ così che il lettore viene catapultato nell’Egitto del primo Novecento dove l’egittologo Lawrence Stratford dopo anni di ricerche riesce a trovare la tomba di Ramses il Grande, faraone d’Egitto, potente, temuto e sicuro che il mondo lo avrebbe ricordato… L’egittologo scopre il mistero che si cela dietro alla figura del faraone e apprende una vicenda straordinaria e inquietante: egli scoprendo un elisir che gli dona la vita eterna è ora Ramses il Dannato, vivo dopo la morte e costretto a vagare nei secoli…dominato da una profonda inquietudine e da un’ansia che non può essere placata.
L’immortalità… non è forse ciò che in cuor suo ogni uomo anela? La possibilità di vivere, di vedere il proprio essere perpetuarsi nei secoli… vedere i progressi (o regressi!!) dell’uomo e della scienza? Questo libro mette però in evidenza un altro risvolto della medaglia: la vita eterna offrirebbe una conoscenza illimitata, se vogliamo, ma anche un prolungarsi delle sofferenze, delle ansie e paure e di una inquietudine che non trova nella morte, a volte vista come consolatoria, la fine del mal di vivere.
La passione per l’archeologia (e in particolare l’egittologia) è stato l’istinto primario che mi ha portata a leggere questo libro (oltre alla passione per i libri di Anne Rice) che ho apprezzato tantissimo. Anne Rice con la sua immaginazione che possiamo definire tenebrosa, romantica, inebriante ha creato una trama straordinariamente affascinante capace di coinvolgere il lettore nelle atmosfere e negli ambienti descritti. Così la nostra mente viaggia dall’Egitto dei faraoni e delle piramidi alla Londra edoardiana del primo Novecento e ti verrebbe quasi voglia di prender parte anche tu alle avventure dei protagonisti. I personaggi sono ben caratterizzati, in particolar modo la figura di Ramses.. affascinante!! :)
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Parole parole parole..
Questo breve romanzo (una sessantina di pagine) narra la storia di Frullo, un ragazzo che passa le sue notti ad ascoltare leggere un libraio, non un venditore di libri, ma un semplice lettore di parole. Egli è l'unico ad ascoltare il libraio, che viene malvisto dagli altri abitanti del luogo. E quando la libreria verra' incendiata (a causa dell'ottusita' della gente), ecco che Frullo rimarrà l'unico in grado di esprimersi attraverso le parole, quelle parole che ormai gli altri abitanti hanno smarrito.
Un libro-favola dunque, che trasmette un messaggio importante: quello di soffermarci a guardare al significato delle cose.
Quelle stesse cose che gli abitanti di Selinunte perdono, quando un giorno si rendono conto, di non avere piu parole per esprimerle. Leggendo questo brevissimo romanzo ho cominciato a fare dei parallelismi tra la Selinunte descritta da Vecchioni e la società attuale presa in blocco. Gli abitanti di Selinunte si rendono conto dell'importanza del linguaggio quando non riescono più a esprimere l'universo del loro mondo interiore, quando non si capiscono più tra di loro e si trovano costretti a comunicare a gesti, fraintendendosi. La nostra società tende pericolosamente a tutto ciò. Il linguaggio è diventato quello dei simboli e dei cenni, delle k al posto delle ch, delle parole abbreviate, parole che vengono usate sempre meno perchè formulare frasi complesse porta a pensare e pensare porta via tempo.. Tantissimi termini cadono in disuso e il nostro vocabolario si fa sempre più scarno.. e se come gli abitanti di Selinunte un giorno ci svegliassimo costretti a reprimere le nostre emozioni in fondo al cuore perchè abbiamo dimenticato le parole per esprimerle??
Il libraio di Selinunte è una favola moderna che fa riflettere e affronta molte tematiche: oltre a sottolineare l'importanza del linguaggio ci parla della pochezza di chi ha paura e demonizza tutto ciò che è "strano" perchè diverso da noi. Ero in cerca di una lettura breve e leggera e ho trovato una piccola perla. Complimenti a Vecchioni, di cui non avevo mai letto niente, sicuramente leggerò altre cose scritte da lui.
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Una tazza di cioccolata, please!!
"Siamo arrivate con il vento del carnevale. Un vento tiepido per febbraio, carico degli odori caldi delle frittelle sfrigolanti, delle salsicce e delle cialde friabili e dolci cotte alla piastra proprio sul bordo della strada, con i coriandoli che scivolano simili a nevischio da colletti e polsini e finiscono sui marciapiedi come inutile antidoto contro l'inverno.."
Una donna e una bambina arrivano nel freddo (non solo meteorologicamente parlando) villaggio francese di Lansquenet come una folata di vento di primavera. Vianne, la madre, è affascinante, carismatica, libera; Anouk, la figlia, dolce, fantasiosa e accompagnata sempre dal suo amico invisibile al mondo, Pantoufle: un coniglio dai lunghi baffi che la segue ovunque. Vianne e la piccola prendono posto in una panetteria in disuso, che in poco tempo diventerà La Celeste Praline: un'invitante pasticceria. Il parroco del paese, Francis Reynaud, non vede di buon occhio Vianne, perché è una donna sola che cresce una figlia senza un marito, perché è atea, perchè sa leggere le carte, perché vende dolci e cioccolata proprio nel periodo della quaresima, quando bisognerebbe digiunare. E' una peccatrice che invoglia gli altri abitanti al peccato!
E' così che il parroco, più volte denominato da Vianne "l'uomo nero" cerca di contrastare l'influenza che Vianne ha sugli abitanti del paese, imponendo loro di non frequentare quel luogo di peccato. Sin dalle prime pagine si scorgerà questo "braccio di ferro" tra Vanne, l'anticonformista e il parroco, che la ostacolerà in tutti i modi cercando di cacciarla dal paese.
Ma molti abitanti, frequenteranno comunque La Celeste Praline, animati da un forte desiderio di trasgressione. Tutto il libro è incentrato sui peccati di gola, a cui è lecito abbandonarsi se fa star bene, se rende felici. Il cioccolato è costantemente nominato, descritto in maniera dettagliata, quasi a permettere al lettore di percepire quelle sensazioni, di sentire quei sapori e quei profumi.
Lansquenet è un paesino animato dall'ipocrisia, dal bigottismo. Agli abitanti sembrano sconosciute la fantasia, la novità. Ogni persona è legata al proprio stereotipo e intorno a quello si muove senza mai tradirlo. E' tanto diverso dalla realtà dei nostri piccoli paesi? Chi come me non vive in una grande città può capire bene quel sentimento di asfissia, la voglia di scappare da una realtà che a volte sembra troppo stretta.. che uccide i sogni!!
Vianne però dà forma e colore alla vecchia panetteria trasformandola in un locale accogliente e gioioso in cui impera il cioccolato in tutte le sue varietà, intorno a lei cominciano a ruotare personaggi indimenticabili come la vecchia Armande, coraggiosa e indipendente, l'affascianante zingaro Roux,tutti da scoprire.
Ho trovato questa lettura piacevole e particolarmente stuzzicante. Una semplice tazza di cioccolata viene descritta in maniera così perfetta e dettagliata, da renderla quasi materializzata agli occhi del lettore: sembra di poter sentire quel profumo e di gustare quei sapori. Ho trovato personaggi, trama ed ambientazione tutti parimenti fantastici, al pari delle goloserie tanto sapientemente descritte e presentate.
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Adamsberg I love you!!
"Era il 24 dicembre, una sera speciale, tutti gli altri erano fuori. Si accingevano a festeggiare l'entrata in scena dell'inverno. Alcuni non se la sarebbero persa per nulla al mondo e i più non erano riusciti a sottrarsi. Per Jean-Baptiste Adamsberg era diverso: temeva il Natale e si teneva pronto. Natale e la sua sfilza di incidenti. Natale e la sua legione di drammi. Natale, la notte efferata."
Tre avventure del commissario Adamsberg, una novantina scarsa di pagine. Un libello, quasi. Forse è questo che mi ha fatta rimanere un pò con l'amaro in bocca. Dopo aver finito questa mini raccolta di racconti ho avuto una sensazione di incompletezza. Forse una metafora culinaria rende meglio: come se mi fossi ritrovata davanti ad un buffet colmo di cibo invitante, avessi fatto in tempo a prendere e assaporare una tartina per poi vedere cuochi e camerieri portare tutto via in fretta e furia. Ecco, mi ha lasciata affamata!! E' come se queste storie fossero delle bozze di un ben più lungo e succulento romanzo, lasciato però nella sua fase embrionale. Ecco, forse la Vargas avrebbe potuto svilupparle un pò meglio.
Tuttavia non posso che parlarne bene.
Sarà che per me Adamberg è uno dei personaggi letterari più affascinanti degli ultimi tempi, con la sua lentezza esistenziale, la proverbiale capacità riflessiva, l'attenzione per elementi apparentemente insignificanti ma che finiscono per diventare fondamentali nella risoluzione di casi intricati e umanissimi. E poi la Vargas c'è poco da dire.. scrive davvero bene!!
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A chi ha letto altri libri di Fred Vargas, in particolare quelli della saga del commissario Adamsberg (mi sento di consigliare, in particolare, "Un luogo Incerto")
Chi sono io??
“E lei come si chiama?”
“Aspetti, ce l’ho sulla punta della lingua.”
Queste sono le prime parole di Yambo, il misterioso protagonista del romanzo che, risvegliatosi da un lungo coma, dopo un incidente stradale ha perso la memoria. Non sa il proprio nome, non riconosce la moglie e i figli, non ricorda i genitori e la sua infanzia.
La moglie così lo invita a tornare nella casa di campagna dove ha trascorso l’infanzia e dove sono conservati i libri e giornalini letti da ragazzo (che sono illustrati nelle pagine del libro), i dischi, i quaderni di scuola. Tutti questi oggetti lo aiuteranno nel recupero di se stesso e della propria identità fino ad arrivare al colpo di scena finale.
Il romanzo si apre con una nebbia fitta di mistero e il lettore è quasi un alter ego del protagonista e viene guidato, anche attraverso le illustrazioni, in quel viaggio a ritroso, quel nostoi (viaggio di ritorno) per dirlo alla greca, in cui il protagonista acquisterà sempre più consapevolezza di se stesso.
Questo romanzo si “costruisce” pezzo dopo pezzo come un grande puzzle, quel puzzle che è la vita stessa così ricca di incognite da svelare.
La cosa bella è che, come già detto, il lettore viene reso partecipe del viaggio di Yambo, si trova a riscoprire la musica, i fumetti, i libri appartenenti ad un'epoca lontana dalla nostra o almeno dalla mia (io sono nata nel 1988). Per mio padre invece, a cui ho fatto leggere il libro, classe 1950 è stato come salire su una macchina del tempo e tornare alla sua infanzia caratterizzata dai fumetti di Tex Willer, Diabolik, i libri di Salgari e Verne, ecc..
E’ la curiosità di carpire sempre più informazioni, di svelare il mistero sull’identità del protagonista che mi ha spinta a leggere con tanto interesse questo libro che consiglio davvero a tutti.
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Girls power!!
“Ai miei tempi sono stata chiamata in molti modi: sorella, amante, sacerdotessa, maga, regina. Ora, in verità, sono una maga e forse verrà un giorno in cui queste cose dovranno essere conosciute. E ora che il mondo è cambiato e Artù, mio fratello e amante, che fu re e sarà re, giace morto nell’isola sacra di Avalon, la storia deve essere narrata com’era prima che i preti del Cristo Bianco venissero a costellarla di santi e di leggende…”
Ecco parte del bellissimo incipit in cui parla una delle protagoniste principali del romanzo, Morgana, sacerdotessa di Avalon e sorella del leggendario Re Artù. Questo libro infatti racconta la storia di re Artú e dei Cavalieri della Tavola Rotonda, ma secondo una prospettiva diversa da quella a cui siamo sempre stati abituati, è soprattutto il magico regno di Avalon a fare da grande protagonista. Il cardine del romanzo è il conflitto tra la religione cristiana, ai suoi albori, e l’antica religione britannica, quella celtica, che ha il suo “cuore” e il suo simbolo nell’Isola Sacra di Avalon, dove i Druidi venerano la Dea Madre.
Questo libro è il quarto e ultimo volume che fa parte del Ciclo di Avalon, della scrittrice Marion Zimmer Bradley, che comprende inoltre “Le querce di Albion”, “La signora di Avalon”, “La sacerdotessa di Avalon”.
Marion Zimmer Bradley con la sua abilità ha messo in atto una grandiosa rievocazione di un mondo leggendario e arcano operando una reinvenzione delle leggende arturiane che rende finalmente giustizia alle antiche religioni celtiche surclassate e sminuite dall’imperante Cristianesimo che ha spazzato via gli antichi culti. Pregio da sottolineare è poi il fatto di presentare le figure femminili, vere protagoniste di questo romanzo, come figure non sottomesse al volere degli uomini ma protagoniste e indipendenti. Ne è dimostrazione il fatto stesso che la figura di Morgana che nelle leggende tradizionali appare come una strega cattiva, forse vittima del comportamento oscurantista che il Cristianesimo aveva assunto nel periodo Medievale a cui risale la diffusione delle leggende di Re Artù, sia presentata come una donna forte (pur nelle sue fragilità), indipendente e intelligente
Tutte queste caratteristiche mi hanno fatto apprezzare questo romanzo, uno dei miei preferiti, e che consiglio a tutti di leggere. Un capolavoro della narrativa fantastica e non solo.
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Chi ama le leggende del ciclo di re Artù, le rievocazioni storico-religiose, ma in generale lo consiglio a tutti!!
Nessun dolore.. (diceva Battisti)
Caos Calmo narra le tante riflessioni di un uomo in un momento cruciale della vita: la morte improvvisa della compagna e la responsabilità nei confronti della figlia di dieci anni, colpita con lui da quell’evento tragico e destabilizzante. Le vicende ruotano intorno a un unico luogo fisico, l’automobile parcheggiata davanti alla scuola della bambina.
Non è il dolore (e Pietro, il protagonista, non riesce a spiegarsi questa mancanza) a dominare l’animo dell’uomo, ma un turbamento profondo, come se fosse necessaria un’interruzione, una pausa, un cambiamento: apparentemente è la preoccupazione per la bambina a spingere il padre a modificare la sua vita, a lasciare l’ufficio e a chiudersi nell’auto parcheggiata davanti alla scuola, facendo trascorrere in quel luogo i giorni e i mesi, in realtà questa scelta risponde a un bisogno tutto egoistico di interrompere un vita di cui solo in quel momento l’uomo sente la totale insufficienza e la mancanza di senso.
La critica che più spesso è stata sollevata a questo romanzo è il fatto che ci sia poca azione. In effetti il libro si apre in modo molto movimentato (il salvataggio di due donne che stavano annegando da parte del protagonista e del fratello) per poi diventare in un certo senso stagnante. Dopo la morte della compagna il protagonista si barrica sulla sua auto parcheggiata davanti alla scuola della figlia, sconvolge le regole più comuni di buonsenso. L’automobile diventa l’ufficio, la casa e il luogo della riflessione. Là riceve colleghi, superiori e amici che nel goffo tentativo di dare conforto al protagonista, finiscono con il riversare addosso a lui tutte le proprie ansie. E' nella descrizione di questa umanità malata che brulica attorno a Pietro, che sta la grande abilità di Veronesi, il quale gode della capacità di descrivere tipi umani molto diversi tra loro, di grande maestria nella caratterizzazione psicologica. E' qui che sta la forza del libro.
Caos Calmo di certo è segno di una ricca esperienza umana e di notevole maturità letteraria. Un libro piacevole, affascinante. Mi ha portata a riflettere e pormi molte domande, soprattutto su cose che ho sempre dato per scontate.
Un buon libro secondo me più che dare delle risposte dovrebbe far scaturire delle domande. Allora questo è davvero, a mio parere, un buon libro!!
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Caro vecchio Zio Hank ..
In questo romanzo Henry Chinaski (alter ego dell'autore) è il protagonista assoluto. Un factotum, cioè uno che passa indifferentemente da un mestiere all'altro, che attraversa l'America vivendo alla giornata, affidandosi all'improvvisazione e al caso, pronto a seguire l'istinto ma fedele ad un destino che è il suo stile di vita, fatto di lavori manuali, sesso intenso, alcool. Un' esistenza in cui "randagità" e precarietà sono sinonimi di libertà e verità.
Bukowski o lo si ama o lo si odia! E' difficile che vi sia una via di mezzo. All'inizio provavo una scarsa empatia per le sue opere. Ad una prima lettura infatti (se non si è mai letto niente del genere)si può essere infastiditi dal suo stile sboccato e che rasenta a tratti l'oscenità. Personalmente, abituata alla prosa elegante e raffinata dei miei autori preferiti, provai lì per lì disgusto leggendo Factotum (il mio primo approccio con questo autore) pensando che in gran parte, il romanzo in questione, fosse una accozaglia di volgarità gratuite. Poi però, continuando a leggere, tra una sbronza e l'altra del protagonista cominciai a scorgere delle geniali intuizioni e delle acute riflessioni sull'uomo e sulla sua esistenza. Dietro il dissacramento dei valori di una America bigotta (tanto diversa dalla nostra realtà?!)sta il rifiuto di quel malessere di fondo con cui noi tutti, o quasi, abbiamo accettato di convivere, delegando alla altrui fantasia la lotta verso quello che ci uccide..
Sicuramente il modello di vita proposto da Bukowski/Henry Chinaski non è edificante, a me piace leggerlo però come un inno alla non omologazione a tutti i costi in una società che spinge sempre più alla perdita della propria individualità.
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NO: ai deboli di stomaco o a coloro che potrebbero sentirsi infastiditi dallo stile sboccato dell'autore.
Credo comunque che un autore di rottura come Bukowski meriti di essere letto e conosciuto.
God save the books
In maniera del tutto casuale, la regina, mai nominata (ma chi sarà mai?? Ovviamente Elisabetta II) scopre una irrefrenabile passione per la lettura. Un giorno si imbatte in una biblioteca circolante che momentaneamente staziona davanti al palazzo e preleva alcuni libri. Così comincia la vicenda della regina quasi completamente rapita dalla letteratura, mai approcciata prima. Sua maestà continua a ottemperare ai suoi impegni ufficiali (per lo meno inizialmente) proseguendo però la lettura dei suoi adorati libri, ormai una vera ossessione.
Molto divertenti alcune scene in cui la regina escogita modi sempre nuovi per poter continuare a leggere indisturbata. Ad esempio scopre che se, mentre è sull'automobile, tiene il libro sotto il bordo del finestrino può continuare a leggere facendo finta di salutare.
La sovrana lettrice è un libro brevissimo ma molto intelligente, ironico e piacevole. Un modo davvero originale per parlare della passione per la lettura che colpisce tanti lettori compulsivi come me!!
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