Opinione scritta da Lady Libro
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Libri, amore e amicizia
Un libro che mi ha sorpresa assai piacevolmente e che ho divorato in pochi giorni, fra i più belli di sempre che abbia mai letto, senza dubbio.
Un romanzo che parla sì di libri, ma senza sfociare in un citazionismo esagerato, cosa che fanno spesso i libri di questo genere lasciando in secondo piano la narrazione principale, o nello sdolcinato più totale che ero certa di aspettarmi, non avendo mai letto nulla di Jojo Moyes in vita mia e avendo, perciò, qualche pregiudizio conoscendo a grandi linee la trama dei suoi romanzi.
Siamo di fronte, invece, ad una bellissima storia di amicizia fra cinque donne, di età e condizioni diversissime fra loro ma profondamente unite: dall'amore per i libri, dal desiderio di diffondere la cultura a chi non se lo può permettere facendosi interminabili quanto faticosi ma bellissimi viaggi a cavallo in lande e con climi non sempre amichevoli ma, soprattutto, unite dalla semplicità di una chiacchierata davanti alla stufa in biblioteca, dal superamento delle differenze reciproche e sempre pronte a sostenersi e aiutarsi vicendevolmente.
Su due di loro si concentra maggiormente la storia: Alice Wright, emigrata dall'Inghilterra allo stato del Kentucky in cerca di una nuova e più felice vita che sperava di ottenere dopo il matrimonio con il ricco Bennet Van Cleve ma che si rivelerà tutt'altro, e Margery O'Hare, capo di quest'iniziativa di bibliotecarie itineranti a cavallo, fiera, indomita e ribelle, con un profondo senso di giustizia e rivalsa e totalmente sprezzante del giudizio altrui.
Due outsiders, due incomprese quanto bellissime emarginate, ma è stata Alice a conquistarmi maggiormente, proprio per il sofferto percorso di formazione che ha dovuto attraversare: straniera in una terra straniera, già malvista dalla propria famiglia inglese per i propri comportamenti anticonvenzionali, e qui incapace di adattarsi ad una vita di sedentarietà e sottomissione coniugale, estranea alle convenzioni che la vorrebbero tra donne come lei a spettegolare e a prendersi il tè, intrappolata in un matrimonio senza amore, in una vuota vita con un marito freddo e anaffettivo, obbediente e sottomesso alla sola volontà dell'anziano padre, dispotico e tirannico proprietario delle miniere della zona (che più di una volta avrei voluto prendere a pedate da tanta cattiveria era capace di partorire).
E se l' iniziale adesione di Alice al progetto della biblioteca itinerante era un semplice modo per sfuggire a tutto ciò e trovare almeno un piccolo appagamento, piano piano si trasforma in pura passione, un modo per rendere felici e allietare tante persone, un modo per trovarsi amicizie.
"Ti regalo le stelle" è un bellissimo agglomerato di elementi che racconta molto più di quel che sembra: è una denuncia contro il pregiudizio, il sessismo, il razzismo e il bigottismo che permeavano gran parte della società dell'epoca (siamo negli anni '30), è la descrizione di paesaggi lontani che possono regalare tanta bellezza così come dolore, distruzione e desolazione, è la storia di gente semplice che diventa ricca e contenta semplicemente con delle parole su carta.
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Due sorelle e una guerra
In questo bellissimo romanzo si alternano due storie parallele, narrate dal punto di vista di due sorelle coreane: quello di Hana, la maggiore, (nonchè il più drammatico e struggente) ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, che racconta il suo forzato viaggio verso la Manciuria dopo essersi sacrificata per salvare la sorellina dal rapimento da parte dei soldati giapponesi, gli abusi di cui sarà costantemente vittima prima e dopo essere relegata in una casa chiusa come tante altre ragazzine coreane, e i suoi continui e disperati sogni e tentativi di fuga.
Il secondo punto di vista, invece, più malinconico, è ambientato ai giorni nostri, narrato dalla sorellina Emi, ormai anziana, sposata, con figli e un nipote, che prova a condurre una vita normale, ma, pervasa dal senso di colpa e da incubi legati a quello che sua sorella fece per salvarla, è perennemente persa nella sua mente e nei suoi pensieri, non avendo mai abbandonato la speranza ed essendo fermamente convinta di poter un giorno ritrovare Hana viva.
"Figlie del mare" è un libro molto intenso, che segna e rimane nel cuore. Ho faticato un pochino a finirlo, in quanto le emozioni che lascia sono forti e per elaborarle e assorbirle ho impiegato parecchio.
Racconta di un tragico capitolo di storia che non conoscevo, come probabilmente molti, legato ad un popolo spesso trascurato dai libri d'istruzione.
Racconta non di una sola guerra, non solo della Seconda Guerra Mondiale, non solo del Giappone che sottomise la Corea, ma anche di una guerra civile, fra coreani del nord e del sud, uno dei capitoli che più mi ha toccato in assoluto del libro, dato che il cuore della piccola Emi, già colmo di dolore per via della scomparsa di Hana, sarà inevitabilmente distrutto anche da questi eventi.
Per chi ha lo stomaco forte, per chi vuole informarsi di più su questo capitolo oscurato della storia o per chi semplicemente ha voglia di assistere ad una stupenda quanto struggente dimostrazione di quanto può essere intenso un amore fra sorelle, questo è il libro che fa al caso vostro.
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Quando il troppo stroppia
Diciamocela tutta: Ian McEwan scrive bene. Forse troppo bene. In una maniera minuziosa e quasi maniacale, oserei dire. E questo romanzo ne è una prova lampante.
Si vede quando l’autore ci ha messo cura e dedizione nel raccogliere e narrare particolari legati a processi e vicende giudiziarie, cardine di gran parte della vicenda raccontata. Tanto di cappello, non c’è che dire.
Il problema è che questa perfezione, quasi immediatamente dopo poche parole, stanca. Annoia. Irrita, perfino.
Lascia da parte una premessa (il rapporto fra una donna giudice e un ragazzo Testimone di Geova che rifiuta una trasfusione di sangue che potrebbe salvarlo dalla leucemia) che di primo acchito sembrava molto profonda. Non vedevo l’ora di assaporare tutto e ciò e di lasciarmi coinvolgere.
E invece mi tocca leggere 199 pagine (faticosamente finite in tre mesi, ci tengo a sottolineare) di processi, sentenze, accuse e verdetti totalmente a caso e spesso non attinenti allo svolgimento della trama, che mi hanno seccata, tediata e stancata parecchio.
Oltretutto coadiuvati da un linguaggio utilizzato dall’autore molto tecnico, arzigogolato, complesso e densissimo di metafore che tante volte ho faticato a comprendere, dovendo rileggere le stesse frasi più di una volta.
McEwan caro, volevi far vedere quanto sei figo nello scrivere e nel riportare fedelmente la vita reale, in questo caso nel contesto giuridico? Bravissimo, ci sei riuscito.
Ma non aspettarti che certe persone semplici come me, che amano le narrazioni fluide e senza troppe descrizioni, riescano ad apprezzarti.
Volevi parlare di processi su processi per caratterizzare al meglio il personaggio di Fiona, il giudice protagonista, mostrando quanto fosse coinvolta e integerrima nel suo lavoro e quanto questo incidesse sulla sua vita privata rendendola una donna severa, quasi fredda e scostante?
Obiettivo centrato, complimenti.
Ma che nella quarta di copertina non mi si venga a dire che la vicenda ruota attorno al caso di Adam Henry che, secondo me, meritava maggior attenzione e approfondimento, essendo appunto il
motivo per cui ho tentato di leggere questo mattoncino.
Per farla breve: da leggere solo se siete fan sfegatati di McEwan o dei processi giudiziari.
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Amore, famiglia e degrado
Dopo “Non aspettare la notte”, la mia seconda prova con Valentina D’Urbano è andata ancora più alla grande.
Scritto come sempre in maniera magistrale, con quel tipico lessico dell’autrice che mischia molto bene la narrazione con le metafore e i sentimenti, “Quella vita che ci manca” ha il pregio di possedere dei bellissimi personaggi, così come un’ottima ambientazione.
Il senso di degrado, abbandono e povertà che caratterizza il quartiere della Fortezza graffia il cuore e l’anima, facendoti diventare un disperato abitante di essa, intrappolato in una vita che non hai scelto, che sei costretto a sopportare ma da cui vuoi uscire a tutti i costi.
Proprio come Valentino, il protagonista, un essere innocente ma la cui innocenza è finita troppo presto, obbligato dalle circostanze a sporcarsi le mani per mantenere la sua disastrata famiglia: il tenerissimo Vadim, ritardato mentale, la delicata e fragile Anna, la madre Letizia, profondamente logorata da una vita che le ha portato via troppe cose e gliene ha date altrettante alle quali non sa far fronte, e ormai incapace di ribellarsi all’autorità di Alan, il terzo dei suoi figli ma come se fosse il più grande. Forse il personaggio più bello e ben riuscito di tutto il romanzo, Alan, violento e aggressivo, dai modi e pensieri bruschi ed estremi ma, nonostante ciò, attaccatissimo alla sua famiglia per cui farebbe qualunque cosa, perfino la più disdicevole, coinvolgendo il fratello Valentino, con cui condivide un legame viscerale.
Tuttavia quest’ultimo, tra degrado, crimini e violenza, trova un filo di speranza nell’amore per Delia.
Un amore intenso, quanto sincero e genuino, che ricorda la tenerezza che suscitano le prime cotte adolescenziali, a prescindere dai vent’anni di lui e i ventisette di lei.
Una vera e autentica meraviglia, che trascende apertamente il pregiudizio di trovarsi di fronte ad un romanzo rosa, dato che la realtà ivi descritta è molto più variegata e complessa.
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Non fate come me, che ho voluto leggere prima questo che mi ispirava di più, pensando che i due in comune avessero solo l’ambientazione, e mi sono così spoilerata da sola e stupidamente il finale de “Il rumore dei tuoi passi”.
Se invece non vi interessa quel libro, o ve ne fregate degli spoiler, buttatevi subito su questo bel romanzo.
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Forza Tara!
Ci sono quei libri che sono terribilmente pesanti e angoscianti, vorresti chiuderli e riporli per svuotare la mente e recuperare la serenità ma, nonostante tutto, non ci riesci. Vuoi sapere come andrà a finire, che cosa accadrà al protagonista, se riuscirà a superare le difficoltà in cui naviga, se il finale sarà lieto o triste. E inevitabilmente e senza accorgertene, finisci per divorare quel libro e a terminarlo in un batter d’occhio.
Ecco, “L’educazione” mi ha suscitato queste contrastanti e sublimi emozioni.
Come una bimba che ascolta le favole, leggevo di Tara che raccontava, passo dopo passo, la sua vita e le vicissitudini accadutele in questo universo rurale e isolato.
E mi indignavo. Mi indignavo tanto. Per tutti i pericoli che ha corso, protetta solamente da una cieca fede religiosa inculcatagli in maniera estremista e da rimedi omeopatici.
Soffrivo con lei nel vederla così desiderosa di rompere quella campana di vetro in cui la sua famiglia l’aveva relegata, per conoscere meglio il mondo e istruirsi.
Capivo la sua paura di perdere l’affetto e il rifugio che può offrire la famiglia, pur con tutte le sue particolarità.
Mi adiravo quando era oggetto delle violenze fisiche del fratello.
Ho odiato tutte le bugie che le propinavano i genitori, spacciandole per verità assolute in tutta la loro visione distorta della realtà.
Ho provato tutto quello che provava Tara, mi sono immedesimata totalmente in lei e non smettevo un istante di farle il tifo.
Ho assaporato i suoi trionfi, sono stata felice quando ha trovato la sua strada, stavo male per le sue rinunce e dolori.
E quando un libro è in grado di creare tutto ciò, ha centrato pienamente il suo obiettivo, rendendosi quasi perfetto.
Scritto molto bene, anche se forse un po’troppo prolisso nel narrare certi eventi che potevano essere sintetizzati, “L’educazione” è un romanzo forte, che segna, sconvolge e fa riflettere tantissimo su quanto la libertà e la possibilità di scegliere siano importanti, così come il legame con la famiglia e tutto ciò che si conosce e il relativo struggimento che causa il solo pensiero di reciderlo.
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Scivolare dolcemente fra le parole
Valentina D’Urbano sa scrivere. E anche molto bene. Un lessico impeccabile e fluido, che sa rendere il libro estremamente piacevole, non annoia e regala piccole perle metaforiche davvero toccanti e indimenticabili.
La narrazione scorre fluida, il desiderio di sapere come prosegue la storia capitolo dopo capitolo è insaziabile.
Chi si aspetta di trovarsi di fronte ad un semplice romanzo rosa, si ricreda: è una candida delicata storia di formazione, che non risparmia dolori e soffrenze molto grandi con cui bisogna convivere tutta la vita o che difficilmente si rimarginano.
L’unico difetto che gli riconosco? I due protagonisti, che all’inizio ho trovato abbastanza insopportabili, molto piatti e banali, niente di diverso rispetto a migliaia di personaggi simili presenti in altrettanti romanzi del genere.
Entrambi però si prendono il riscatto verso il finale, dove essi sono artefici di svolte molto belle e/o inaspettate.
Mi hanno conquistata fin da subito e fino all’ultimo, invece, i personaggi secondari, a mio parere molto più caratterizzati e significativi rispetto ai due protagonisti pur nei loro ruoli secondari.
I miei più sinceri complimenti all’autrice, di cui leggerò al più presto e molto volentieri qualcos’altro.
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La narrazione scorre fluida, il desiderio di sapere come prosegue la storia capitolo dopo capitolo è insaziabile.
Chi si aspetta di trovarsi di fronte ad un semplice romanzo rosa, si ricreda: è una candida delicata storia di formazione, che non risparmia dolori e soffrenze molto grandi con cui bisogna convivere tutta la vita o che difficilmente si rimarginano.
L’unico difetto che gli riconosco? I due protagonisti, che all’inizio ho trovato abbastanza insopportabili, molto piatti e banali, niente di diverso rispetto a migliaia di personaggi simili presenti in altrettanti romanzi del genere.
Entrambi però si prendono il riscatto verso il finale, dove essi sono artefici di svolte molto belle e/o inaspettate.
Mi hanno conquistata fin da subito e fino all’ultimo, invece, i personaggi secondari, a mio parere molto più caratterizzati e significativi rispetto ai due protagonisti pur nei loro ruoli secondari.
I miei più sinceri complimenti all’autrice, di cui leggerò al più presto e molto volentieri qualcos’altro.
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Amore e morte
Letto in pochissimo tempo, anche per le sue modeste dimensioni, questo romanzo mi ha subito conquistata.
Scritto bene, con un linguaggio secco e asciutto che va subito al dunque senza perdersi in troppe e inutili descrizioni.
In queste pagine assistiamo ad una visione sulla Prima Guerra Mondiale non tanto dal punto di vista dei combattenti o di semplici civili, quanto da quello di una crocerossina napoletana volontaria, Maria Rosa Radice, spinta a ciò più che altro per fuggire da un finto e costrittivo mondo aristocratico che non le apparteneva.
Tramite i suoi occhi, l’autrice non ci risparmia implacabili e sincere descrizioni di feriti e ferite, malattie, morti e moribondi. Questi pezzi, seppur molto forti, sono quelli a mio parere riusciti meglio, un crudo realismo che raggiunge il suo obiettivo di disgustare e far riflettere sull’insensatezza del conflitto, suscitando pena e compassione per i poveri malcapitati con questo perenne puzzo di morte che dalle parole diventa reale e si aspira nell’aria.
Il personaggio serio e determinato di Eugenia, altra crocerossina volontaria che di mestiere vuole diventare medico a tutti gli effetti, mi è molto piaciuto, soprattutto per il modo in cui guida l’inesperta Maria Rosa.
Non mi ha invece particolarmente catturato la storia d’amore fra le due, trattata praticamente quasi verso la fine del libro e in maniera molto approssimativa e sbrigativa.
Consigliato a chi ha voglia di una lettura veloce o che dia uno sguardo inedito e al tempo stesso molto realistico sulla guerra.
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Tra giallo e sentimenti
Se “La ragazza del treno” è stato a lungo, ed è tuttora, uno dei maggiori bestsellers di sempre, lo si deve senza dubbio alle aspettative che esso soddisfa in pieno e ai contenuti che ogni thriller che si rispetti dovrebbe possedere: un’eccellente scrittura in prima persona che coinvolge ben tre protagoniste, fornendo così una visione complessiva e ben riuscita dell’insieme, che crea un intreccio coinvolgente, colpi di scena e depistaggi narrativi continui incapaci di far chiudere il libro fino alla risoluzione del tutto.
Il vero punto di forza, però, risiede nella caratterizzazione dei personaggi, in particolare in quello di Rachel: una donna depressa, con seri problemi di alcolismo, incapace di accettare la fine del proprio matrimonio, che si tuffa in una personalissima indagine che coinvolge persone che apparentemente con lei non hanno niente a che fare, ma ai quali lei si è involontariamente affezionata, vedendo in loro la rappresentazione della perfezione, l’incarnazione di una felicità che lei non ha potuto ottenere. In questa ricerca, Rachel intravede la possibilità di aiutare qualcuno, di fare del bene, ma anche di diventare parte di qualcosa che vada al di là della propria squallida vita, di avere un ruolo di rilievo per qualcuno, di emergere dal suo torpore.
La componente gialla si mischia così alla descrizione di sentimenti che accomunano tutti coloro che popolano il romanzo: la repulsione per la noia e l’insoddisfazione, il disgusto per il vuoto e il non far niente. Ogni personaggio è alla ricerca di un barlume di vita e vivacità che illumini una routine monotona e stancante. Una routine colma per ognuno di bugie e segreti che a poco a poco vengono a galla, rompendo quella tanto odiata immobilità esistenziale.
“La ragazza del treno” è quindi un vivido ritratto di una realtà umana da cui cerchiamo tutti invano di sottrarci, spesso con esiti tragici, e, al tempo stesso, uno dei thriller più belli degli ultimi anni, consigliabile anche a chi di solito non legge romanzi di questo genere.
Rimarrà piacevolmente sorpreso e coinvolto.
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Più di un giallo
Quante cose ci sono da dire e sono presenti in questo romanzone!
La quarta di copertina e le prime pagine del libro lo presentano come una specie di giallo sospeso tra realtà e onirismo, che ha per “investigatore” questo maestro di scuola elementare, il sognatore del titolo, un uomo di grande sensibilità e cultura (anche se a volte un po'irritante nel suo essere saccente e fare il buonista, bisogna dirlo), lasciato dalla moglie dopo la morte per tumore della loro figlioletta Martina.
Costui si sente profondamente coinvolto nella sparizione della piccola Lucia, avendola sognata nel momento esatto del presunto rapimento e trovandola identica alla propria figlia.
Poco dopo un centinaio di pagine, però, oserei dire che il contenuto cambia completamente: alternandosi ai dolorosi e gioiosi flashbacks in cui Nani descrive passo dopo passo la sua vita con Martina prima e dopo che la malattia la colpisse, e la propria impotenza di fronte ad essa, il romanzo comincia a diventare un “minestrone” dai più svariati ingredienti.
Si passa quindi dai numerosi racconti di cronaca di bambini rapiti, a lunghi capitoli sulle denunce riguardanti la prostituzione minorile e l’estremismo islamico, fino a ripiombare verso le ultime settanta pagine circa alla componente gialla dell’inizio, a mio parere risolta e gestita in maniera assai frettolosa, irreale e un po’stucchevole.
A causa di questo intenso e prolisso mix che si allontana di parecchio dalle premesse iniziali, ho faticato non poco a terminare la lettura del volume, essendo stata più volte tentata di abbandonarlo ma, al tempo medesimo, curiosa di sapere la fine che avrebbe fatto la bimba del titolo.
Insomma, se fossero state tolte alcune parti “eccessive” e se l’insieme si fosse mantenuto sulla stessa linea narrativa, probabilmente gli avrei assegnato un giudizio pienamente positivo.
Ho apprezzato tuttavia i capitoli dedicati alle lezioni che Nani tiene ai propri alunni, una tenerissima descrizione di una realtà scolastica pienamente coinvolta e soggiogata dalla capacità del maestro di raccontare storie, così come quelli struggenti della lenta morte di Martina e dei bei momenti trascorsi dal padre insieme a lei e alla moglie quando ancora il cancro non l’aveva intaccata.
Primo libro che leggo della Maraini e di certo non sarà l’ultimo.
Pur non avendomi convinta fino in fondo, Dacia scrive in maniera sublime e tutta la sua profonda cultura e attenzione al mondo contemporaneo si avvertono eccome e in tanti tratti trascinano in un coinvolgente vortice.
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Giorno perfetto, libro imperfetto
Un altro romanzo con protagonista il bello e dannato di turno che seduce la pupattola altrettanto bella ma, attenzione, non acqua e sapone come tutte le sue recenti gemelle cartacee, bensì la più popolare del liceo.
In aggiunta a codesto intreccio abbiamo un elemento in più: il suicidio. Ebbene sì: tutta la storia gira intorno come in un girotondo mortale a questa tematica che vorrebbe rendere il romanzo serio e toccante, riuscendoci però solo in parte e risultando quasi comico e assurdo nell'insieme. Perché "Raccontami di un giorno perfetto" è tutto così: quando sta per narrare qualcosa che si prospetta interessante e profondo, puntualmente si lascia scappare questa occasione gettando tutto nel ridicolo o nel poco credibile.
Ma andiamo con ordine: la parte migliore risiede sicuramente nelle prime cento pagine, dove Theodore Finch, il protagonista, tenta con modi tutti suoi di avvicinarsi a Violet, barcamenandosi tra momenti di estrema dolcezza ad altri degni di uno stalker (ma glielo perdoniamo perché il romanzo lo tratteggia come problematico ed essere uno stalker innamorato e figo ormai è la regola d'oro di ogni young adult).
Fra parentesi: è proprio il personaggio di Finch l'unico ad essere caratterizzato; è un ragazzo dotato di grandissima sensibilità, altruismo e forza d'animo, trascurato dalla famiglia e con un padre violento, che combatte ogni giorno per tentare di non abbandonarsi alla depressione e che manifesta il suo scetticismo verso la psicologia, la sua rabbia verso quelli che lo etichettano come una malattia ambulante e il suo desiderio di essere notato tramite la manifestazione di comportamenti estrosi.
Tutti gli altri personaggi... Be'... Non pervenuti. Violet in primis: a parte il fatto che è una delle "fighette popolari" della scuola e che ha il trauma della sorella morta in un incidente stradale, della sua personalità non sapremo più nulla.
Per non parlare poi del migliore amico di Finch, che poi tanto migliore non è, dato che compare in tre/quattro paginette, non fa un cavolo ed è il niente assoluto. Così come praticamente tutte le entità secondarie.
Altre note dolenti: da pagina 150/200 circa fino alla fine regna la noia più totale. Il romanzo, infarcito di particolari di viaggi, peregrinazioni e vicende scolastico-familiari, prosegue con una lentezza colossale, risollevandosi ogni tanto in qualche momento tenero/romantico tra Finch e Violet, con la loro relazione che si evolve, così come i loro traumi che sembra si allontanino sempre di più.
La cosa che più infastidisce, tuttavia, sono gli studiatissimi e straintellualoidi discorsi che l'autrice fa uscire dalle bocche dei protagonisti, facendoli sembrare falsi e fintissimi... Tra Pavese e la Woolf che vengono citati in continuazione perché connessi all'idea di suicidio e non per il loro valore in sè, frasi da soap opera spagnola o da filmetto romantico da due soldi... Mah.
E infine, ciliegina sulla torta, arriviamo al picco più assurdo del libro: adulti e ragazzi che vedono palesemente che una persona sta male, ha dei problemi e picchia la gente e nessuno prende provvedimenti o fa niente per aiutarlo, psicologi tratteggiati come brutti, cattivi e incompetenti che pensano solo ai soldi anziché alla salute del paziente e genitori e famigliari che se ne fregano totalmente dei figli. Possono pure essere plausibili delle cose così, purtroppo simili persone esistono, ma qui si va oltre la soglia del surreale! Sembra proprio di trovarsi di fronte ad un esercito di monadi leibniziane!
Ah e in questo romanzo le comunicazioni urgenti si effettuano solo tramite messaggi in segreterie telefoniche che non verranno mai ascoltati e perennemente cancellati.
Wow, che bell'escamotage, libro...
Per farla breve: un libro senza infamia e senza lode che vuole commuovere ed essere preso sul serio ma non ci riesce.
P.S. Complimentoni agli editori italiani che, sul retro della copertina, hanno paragonato questo romanzo (per esigenze di vendite, ovvio) ad uno più popolare e famoso, facendomi intuire quasi tutta la trama e i colpi di scena. Della serie "come rovinare ancora di più una lettura".
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Vivere o morire?
Quando perdi per sempre coloro che ami e rischi di andartene pure tu, qual è la scelta migliore? Morire per seguirli o vivere per andare avanti? E cosa rimane se si resta? Come si può superare un dolore così immenso?
Sono queste le domande che, con una sensibilità molto grande e ben riuscita, il romanzo si pone tramite il personaggio di Mia, in coma con il corpo ma cosciente con lo spirito, che trasporta il lettore in una narrazione duplice, parallela, che si dipana tra flashback è presente.
Vi sono aneddoti riguardanti la sua vita passata, volti ad evidenziare la sua sfrenata passione per il violoncello e la musica classica, la relazione col così da lei diverso Adam, la grande amicizia con Kim, dilemmi fra il mantenere il suo grande amore o seguire i propri sogni, il disagio di sentirsi un pesce fuor d'acqua in un mondo che ormai sembra totalmente immerso nella musica rock... Ma soprattutto vengono narrati malinconici ricordi e momenti intimi di famiglia in grado di spezzare il cuore se si ripensa e si ritorna con la lettura alla situazione in cui Mia si trova ora, mentre al suo capezzale sfilano uno dopo l'altro tutte le persone che le vogliono bene: i nonni, Kim, Adam... Alcuni di loro le raccontano banali storie di vita quotidiana, come per invogliarla a risvegliarsi, altri accettano e comprendono se lei vorrà andarsene, mentre il suo Adam ha soltanto una cosa da dirle: "Resta."
Indubbiamente "Resta anche domani" è uno dei migliori romanzi young adult degli ultimi anni. Affronta un tema molto delicato e importante facendolo nel modo giusto e nelle più svariate sfaccettature, utilizzando un linguaggio semplice e diretto che rende la narrazione molto scorrevole, anche se, in parecchi punti, l'autrice tende a ripetersi un po' nel descrivere più e più volte un medesimo aneddoto già raccontato nella raccolta dei flashback che ritorna nel presente senza nulla arricchire.
A parte ciò: promosso e consigliato.
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Fan fiction e altri orrori
Venghino signori e signore! (Ma anche no!)
Ci troviamo di fronte all'ennesima fan fiction nata sulla piattaforma di Wattpad che, avendo avuto milioni di voti e visualizzazioni, dal web è (malauguratamente) passata nelle librerie.
Stavolta è il turno di "My dilemma is you 1". A parte il titolo che è già brutto di suo, ma purtroppo sì: questo "libro" è il primo di una trilogia.
Ma andiamo con ordine: di cosa parla questo "dilemma"?
Della vita scolastica e degli amori di Cris (alias l'alter ego dell'autrice) dopo che da Los Angeles si trasferisce con la famiglia a Miami.
In particolare della sua relazione con Cameron Dallas (personaggio realmente esistente su cui si incentra la fan fiction, il quale dovrebbe essere un cantante/comico che pubblica video online). Ah fra parentesi: lui dovrebbe essere il bello e dannato di turno.
Sappiate che di dannato non ha nulla, se non il vizio di entrare in casa altrui dalle finestre e di toccarsi ogni tre per due i capelli. Avrà i pidocchi, boh.
Innanzitutto bisogna precisare che la prima metà del libro è uno spasso, poiché colma di situazioni che, per eccessi ed esagerazioni, fa sembrare le soap operas e i teen movies dei capolavori. Il personaggio portante di questi show è indubbiamente Susan, la fighetta snob che immediatamente diventerà l'acerrima nemica della "povera" Cris per i motivi più idioti dell'universo. Per esempio farà scenate di gelosia urlando come una scimmia quando la malcapitata, per errore, inciamperà soltanto addosso a Cameron (inizialmente ragazzo di Susan), quando Cris si fidanzerà col suo ex Matt (e che ti frega? Tu hai il tuo moroso, te lo tieni e amen), quando Cris finirà in prima pagina sul giornalino di gossip della scuola rubandole l'attenzione (mamma mia, che affronto! É imperdonabile!)... Potrei e vorrei continuare a lungo con la lista, giuro, ma la recensione must go on. Vi basti sapere che Susan è il personaggio più divertente di tutti e che è un vero peccato che compaia poco.
La seconda metà del libro, invece, è la noia per antonomasia, semplicemente perché succedono sempre le stesse cose e i capitoli sono praticamente identici fra loro.
A parte il fatto che su 53 capitoli almeno 30 di essi iniziano/finiscono con Cris che impreca contro la sveglia e non ha voglia di andare a scuola, ma poi il libro è scritto veramente coi piedi, con un lessico fin troppo gergale e totalmente privo di descrizioni.
La cosa che più mi ha fatto imbestialire è stato l'utilizzo del verbo "fa" al posto di "dice", "afferma", "replica", "risponde"... Ogni volta che i miei occhi lo leggevano, volevo strappare le pagine a morsi. E qui mi domando: davvero c'è stato un lavoro di editing? Ci può stare l'attualizzare e il rendere un po'colloquiale un libro, ma una roba del genere non si può vedere!
Ma parliamo del pezzo forte: l'assenza di descrizioni.
La famiglia di Cris è ricca sfondata e possiede il "classico" mega villone con piscina e mare annessi. Ok, ma che lavoro fanno i suoi per permetterselo? Non si sa.
Cosa mi fa capire che siamo a Miami a parte il mare e le palme? Nulla.
A parte gli addominali, occhi e capelli perfetti, irraggiungibili e venerati da tutta la scuola, come sono i maschi? Boh.
Descrizioni femminili, poi, non pervenute.
In che momento i due protagonisti piccioncini passano dall'odio reciproco più assoluto all'amore indissolubile? Non si sa. E'tutto improvviso.
Ok, i personaggi sono tutti ispirati a tizi che nella vita reale esistono e il libro è stato creato principalmente per chi li ama e vuole leggere qualcosa ispirato a loro... Ma... Un aiutino per chi non li conosce?
La mancanza di descrizioni, però, riguarda soprattutto le psicologie: i protagonisti sono vuoti come barattoli, corpi privi di personalità che gironzolano e fanno cose. Tutto qui.
Non c'è immedesimazione perché non c'è spessore caratteriale da nessuna parte.
O almeno, se la Chiperi intende come personalità il fatto che i personaggi siano degli esseri freddi e superficiali il cui unico ed esclusivo desiderio è truccarsi, fare shopping e rimorchiare, allora siamo messi proprio male.
L'autrice ci prova pure a ficcare due o tre drammoni che vorrebbero essere strappalacrime, ma vengono proprio buttati in mezzo alla trama a casaccio, per la durata di poche righe, e subito dimenticati in quanto privi di descrizioni e approfondimenti.
Tutto il romanzo quindi, nell'insieme, risulta un semplice elenco/lista della spesa di azioni quotidiane compiute da tizi di cui non frega niente a nessuno.
Perché sì, i personaggi inutili qui sono tantissimi e si capisce lontano un miglio che sono stati inseriti per allungare il brodo.
In parole povere, bisogna prendere "My dilemma is you" per quello che è: un giocattolone di carta scritto da una che ci ha provato mettendoci passione ma che ha ancora tantissimo da imparare, apprezzato da ragazzine arrapate (che resteranno deluse perché qui non c'è nessuna scena hot) in vena di leggere qualcosa di semplice, e stampato da una casa editrice che, per fare soldi, sfrutta la moda del momento.
Insomma è il classico fenomeno che suscita tanto clamore ma di cui, alla fine, nessuno si ricorderà più e che nel giro di qualche anno verrà dimenticato.
Inutile dire che i due seguiti non li leggerò neanche se mi regalassero un bonifico da un miliardo di euro.
Evitatelo come la peste, anche se cercate letture leggere, perché questo, nel suo insieme, rende la lettura davvero pesantissima.
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Ritorno al passato: tra nostalgia e monotonia
Ennesimo romanzo autobiografico di Amélie Nothomb.
Stavolta peró non si tratta di una semplice rievocazione, ma di un vero e proprio viaggio di ritorno in quel passato, in quella sua amata vita giapponese tante volte raccontata nei suoi libri.
E leggendo "La nostalgia felice" il lettore stesso prova nostalgia, venendo catapultato, tramite poco piú di un centinaio di pagine in un solo volumetto, in tutti quegli intimi romanzi che l'autrice ha scritto nel corso di molti anni.
È inevitabile quindi pensare di ritrovarsi nei mondi di "Né di Eva né di Adamo", "Metafisica dei tubi", "Stupore e tremori": assistiamo infatti, in primis, alla riunione di Amelié con Rinri, il suo antico amore nipponico, e con Nishio - San, la tata che si occupava di lei da piccola. Incontri non privi di imbarazzo e mancanza di parole ma comunque piacevoli e commoventi.
Oltre ad essere un tuffo nel passato, peró, é anche un richiamo al presente, alla tragedia del terremoto di Fukushima e ai danni che ha arrecato, a un Giappone completamente moderno e diverso da come era un tempo.
Se non si conta il fattore nostalgico e la sublime capacitá di scrittura della Nothomb, il libro consta essenzialmente di un semplice elenco di incontri e spostamenti, che non emozionano e non coinvolgono tanto quanto potrebbe farlo un suo racconto originale con i rispettivi contenuti surreali e un po'più divertenti.
Da leggere solo se si é dei "Nothombofili" veterani e ferrati.
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Alma e Antonia
Il senso della distanza. Distacco e lontananza. Ecco ciò che si percepisce per tutta la lettura del romanzo.
Una lontananza che strugge, artiglia e immalinconisce. E le descrizioni ridotte all'essenziale, ma consistenti nella componente emotiva, potenti e significative, non fanno altro che acuire queste sensazioni.
La narrazione avviene tramite il punto di vista alternato delle due protagoniste Alma e Antonia, rispettivamente madre e figlia. La prima, distrutta dal senso di colpa per aver perduto l'amato fratello Maio a causa di quello che credeva un semplice gioco, è diventata una donna quasi apatica e anaffettiva, incapace di stabilire legami e contatti col mondo e con la propria nuova famiglia tanto quanto vorrebbe. Antonia, appena le viene rivelato quel tragico segreto, incinta del proprio compagno, sia per curiosità personale, sia per cercare in qualche modo di colmare quel vuoto e attenuare quello struggimento che sente nella madre, tenterà di scoprire la verità su Maio: trasferendosi da Bologna a Ferrara, conoscerà persone nuove, scoprirà sempre più particolari in un crescendo ricco di suspense come in un vero giallo e facendo sempre più suo quello zio mai conosciuto, tramutando l'indagine in una specie di ossessione, di ragione di vita, come se lo sentisse più vivo che mai e vicino a sé.
E mentre le amatoriali investigazioni di Antonia proseguono, in contemporanea viene raccontata l'infanzia di Alma: dal fortissimo legame col fratello, ai loro giochi e momenti passati insieme, dal picco della felicità al baratro della disgrazia, fino alla disgregazione di tutto ciò che amava e conosceva, in un'alternanza di continue cadute e tentativi di risollevamento che mai la saneranno totalmente.
"L'amore che ti meriti" è un perfetto esempio di come l'essenziale e la semplicità conditi con colpi di scena ed emotività intensa riescano a entrare nella mente e nel cuore, pulsandovi per lungo tempo.
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Ritratto d'uomo fra dilemmi e umanità
Dopo una serie di romanzi autobiografici o dalle trame che copiavano continuamente i loro più celebri predecessori nothombiani, Amelie torna trionfalmente nelle librerie con questo splendido capolavoro.
"Il delitto del conte Neville" infatti è l'insieme di tutto quanto vi è di più bello nelle opere dell'autrice (ironia, sarcasmo pungente, suspense assoluta, filosofia, citazioni letterarie, dialoghi intensi e trascinanti come un tornado e una tempesta marina messi insieme) e, al tempo medesimo, una ventata di aria freschissima. Questa volta la Nothomb lascia leggermente in secondo piano la cattiveria e il senso del grottesco, tòpoi delle sue narrazioni, per fornirci un ritratto pieno di umanità e dolente dolcezza di un uomo: il conte Neville del titolo, per l'appunto.
Henri Neville è un nobile che, pur di vivere nell'onestà, ha accettato di subire il decadimento economico. E’stato un nobile di nome ma non di fatto, essendo stato costretto a conoscere la fame, la miseria, la morte e il dolore fin da piccolo. Tutti questi elementi hanno segnato profondamente la sua personalità, rendendolo un uomo affettuoso con moglie e figli, generoso, magnanimo e, più di ogni altra cosa al mondo, affabile con gli amici, gli ospiti. Organizzare feste e party, infatti, se prima era il suo lavoro, diventa nel presente una ragione di vita: gli invitati per Neville sono sacri, così come lo è vederli felici intorno a lui, nelle sue proprietà e coi suoi intrattenimenti.
Per questo reagirà estremamente male alla profezia della veggente, escludendo subito che possa essere il frutto di un delirio, una semplice frottola. Da quel momento in poi, il conte non avrà un attimo pace, trascorrendo notti insonni e assillandosi la mente di domande: si può scampare al proprio destino? Se sì, esso ti inseguirà finchè non lo adempi? O dobbiamo andargli incontro se non addirittura favorirlo?
In mezzo a questi dubbi amletici, un altro tratto fondamentale caratterizza il romanzo: il rapporto tra Neville e la figlia minore Sèrieuse, di 17 anni, silenziosa, apatica e anonima rispetto ai suoi perfetti, bellissimi e solari fratelli maggiori. Un rapporto che sembrava labile, inesistente, fatto di pochissime parole e che nella storia si intensifica e risveglia.
Il resto è tutto da leggere, poiché le rivelazioni e i colpi di scena sono parecchi.
Un bell’applauso alla mitica Amèlie Nothomb!
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Pugno grafico
Marjane Satrapi conosce la morte, la perdita e la paura fin da piccina, raccontando ivi la sua vita e, al tempo stesso, un passaggio tragico e sanguinario della storia dell’Iran, suo paese d’origine: dalla caduta dello scià all’instaurazione del regime islamico - teocratico, detentore di un potere totalitario e oppressivo che mal si addice al carattere ribelle e vivace della protagonista che, a causa di ciò, si trasferirà a concludere gli studi liceali nella più liberale Austria.
I problemi purtroppo non mancheranno nemmeno lì: Marjane, da già indipendente e forte ragazzina, diventerà donna, incontrerà amici e una società di usi diametralmente opposti ai propri, vivrà i primi amori e, più di ogni altra cosa, si confronterà con se stessa, cercando di non dimenticare chi è veramente e da dove viene, assorbendo quella che credeva una liberazione per poi risputarla, domandandosi se sia meglio la vita lì o in Iran e quale futuro potrà mai aspettarla. Se sia peggio il disagio di non sentirsi parte del mondo o di sentirsi lontana da una terra che, seppur devastata da guerre, morte e rigide restrizioni, è pur sempre una culla, parte dell’identità, una casa dove la famiglia ti aspetta.
I disegni relativamente stilizzati, dai contorni dolci e curvillinei, contrastano nettamente con tutta la brutalità, la violenza e le privazioni narrate in questa graphic novel, dove ogni tratto di inchiostro è un pugno in un occhio. Le immagini parlano più delle parole e rimangono a lungo nella mente, come se fossero state impresse con uno stampo.
L’arte e la letteratura si uniscono in questa danza tetra, condita da ironia, sensibilità, speranza e coraggio. Una prova d’autrice davvero lodevole, che aiuta a guardare la realtà con altri occhi. Che aiuta a perdonare ma non a dimenticare.
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Inno all'amore e alla libertà
Un romanzo che è un viaggio continuo. Un viaggio geografico (dentro l’Italia stessa fino all’est Europa) ma soprattutto un viaggio metaforico: tra passato e presente, tra padre e figlia, tra vite ed eventi, tra protagonisti e personaggi secondari… Tra anime e cuori.
Sono infatti questi due elementi attraverso cui Melania Mazzucco ci conduce, con uno stile che si alterna fra vocaboli diretti ed estremamente semplici, a descrizioni forse un po’troppo prolisse e dettagliate di azioni e peregrinazioni.
Tratteggiati benissimo, invece, sono i personaggi di Eva e Giose: la prima una ragazzina di undici anni, molto più matura e sensibile della sua età, appassionata di lettura e scrittura, che vive reagisce con tutto il coraggio che richiede il menefreghismo alle feroci cattiverie dei compagni di classe in quanto figlia di una coppia omosessuale. Il secondo, ex cantante e musicista di discreto successo, è un uomo tormentato e dal passato difficile e ormai rassegnato alla decadenza ma non alla perdita della custodia dell’adorata figlia.
Nonostante la lontananza e la separazione forzata, l’affetto fra Eva e Giose è fortissimo ed intenso ed entrambi non smettono mai di pensare l’uno all’altra, di pensare al padre di lei e compagno di lui Christian e a quella felicità perfetta che la sua presenza assicurava e che la morte sembra aver disgregato per sempre, creando una ferita che sono un tanto cercato ricongiungimento tra genitore e figlia può sanare.
“Sei come sei” è un romanzo, ma anche un lungo e concitato inno alla vita, alla libertà, all’amore, una condanna contro una società che non accetta una presunta “diversità” per paura, pregiudizio e stupidità.
In parole povere, è semplicemente bellissimo: altro non serve per descriverlo.
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Tante vite da una vita
Le prime bellezze che emergono da questo libro sono il talento per la scrittura di Magda Szabò e la sua capacità di creare personaggi ben definiti e indimenticabili: ogni professore, alunno, bidello, postino, inserviente, impiegato, muratore, passante... Non ce n'è uno che non lasci il segno.
Il suddetto romanzo è infatti un affresco di anime e volti. Un cerchio che si allarga sempre di più e in cui tutto torna in un multiplo ciclo di vite. Nulla avviene per caso e tutti coloro che cercano qualcosa, finiscono sempre per trovare tutt'altro, nel bene e nel male, nel più e nel meno.
La piccola Sofia del titolo, pur essendo il fulcro da cui prende avvio la storia, è solo una dei tanti protagonisti: la sua assidua e disperata ricerca la porta più in là di quanto credesse, la costringe a confrontarsi con se stessa, le sue paure, i suoi dubbi, a riscattarsi agli occhi del mondo che la vede come una persona debole, schiva, imbranata, poco intelligente. Ma, soprattutto, la aiuta ad aprirsi con le persone, a trovare quell'amore che credeva di aver perduto per sempre con la morte dell'adorato padre, avendo un rapporto molto conflittuale con la madre, che la denigra spesso per le sue imperfezioni, incapace di capirla realmente, ritenendola quasi un peso.
Con la sua dolcezza, sensibilità e pazienza (qualità offuscate da un'immane timidezza e disagio), Sofia conquisterà e aiuterà tutti quelli che la circondano, in particolar modo Istvàn Pongràcz, temuto usciere della scuola che frequenta, andando oltre le apparenze, la rudezza e l'asprezza di quest'ultimo, cogliendo quei tragici e reconditi segreti che pochissimi sanno trovare.
Chi legge questo romanzo, si ritroverà più ricco di prima, nonché appena uscito da lago colmo di sentimenti puri e toccanti.
Da non perdere.
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Una droga di carta e parole
Più o meno tutte le persone hanno quel momento nella loro vita in cui scoprono (o riscoprono) il piacere della lettura dopo aver "assaporato" un bel libro. E una delle tante ripercussioni è che la voglia di leggere diventa intensa e insopprimibile.
Ma cosa succede se questa voglia raggiunge conseguenze estreme?
E'quello che Alan Bennett ci racconta prendendo come protagonista un personaggio "insolito": la regina d'Inghilterra.
Pur non pronunciando mai esplicitamente il suo nome, in questo piccolo libretto assistiamo alle vicende della British Queen che, assuefatta dall'evocativo e dilettevole potere della letteratura appena scoperto, non riesce più a farne a meno, portando sempre e ovunque con sé un romanzo, leggendo tutte le volte che può, parlando soltanto delle proprie letture con le persone, consigliando e regalando libri a destra e a manca, arrivando al punto di trascurare i suoi doveri reali ed esasperando non poco i membri della corte, che tenteranno di tutto per riportarla coi piedi per terra.
Unico suo alleato sarà Norman, servo di corte, nonché primo procuratore del galeotto libro a Sua Maestà.
Pur nelle sue novanta pagine, nel suo linguaggio semplice e narrazione essenziale, Alan Bennett fa sorridere tramite eventi sì abbastanza surreali ed esagerati, ma anche grazie ad un punto di vista forse inusuale e proprio per questo avvicinandolo al lettore nella pura consapevolezza che una bellissima passione come la lettura può accumunare tutti indipendentemente da chi si è e regalando felicità come nient'altro al mondo.
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Tra tragedia e risate
La famiglia Camurati: mamma, papà e due figlie. La più piccola di esse è autistica. Si chiama Margherita, ma per tutti i parenti è semplicemente "Pulce", adorata e coccolata da tutto il parentado. Questa dolce armonia viene però interrotta quasi subito: quando mamma Anita va a prendere la figlioletta a scuola, scopre che "non c'è". E'stata portata via dai servizi sociali, poiché gravano pesanti accuse su papà Gualtiero, accuse dichiarate da Pulce stessa tramite la comunicazione facilitata (la quale, dato che non parla, si esprime con questo computer grazie all'aiuto di un adulto che le guida la mano sulla tastiera dopo averle scritto una domanda).
A raccontarci tutto questo è Giovanna, la figlia più grande, undicenne, che, tramite il suo personalissimo punto di vista, descrive le varie realtà e accadimenti della sua famiglia ma anche di se stessa: la storia della sua famiglia, la vita di tutti i giorni, il suo complesso rapporto coi coetanei, il rapporto con la sua unica amica, le indagini e la prosecuzione dei provvedimenti presi dai suoi genitori per riavere la piccola Pulce e difendersi dalle accuse...
Giovanna è ancora piccola, non conosce per bene la vita, è l'esposizione dei suoi aneddoti è condita dalla sua smisurata immaginazione e dal fraintendimento di ciò che non capisce, rendendo la lettura assai comica e piacevole nella sua ingenuità, evitando eccessivi patetismi e melodrammi, e attenuando in questo modo la tragicità di una vicenda del genere.
Tramite gli occhi di questa narratrice, vediamo sì una famiglia con tutti i suoi problemi, ma che vive con serenità, sdrammatizzando e ironizzando su un sacco di dettagli, per non farseli pesare quando ne hanno la possibilità.
La piccola Pulce, inoltre, seppur fulcro del romanzo, è come se fosse un fantasma; compare "in carne ed ossa" solo in pochissimi passaggi. Perché, per l'appunto, lei "non c'è". E'come un tesoro rubato e che deve essere recuperato. Per il resto rimane "viva" soltanto nelle memorie di Giovanna, che ne spiega la crescita, i suoi modi di fare, le passioni, nonché lo smisurato amore che tutta la famiglia nutre nei suoi confronti.
Tutto questo viene raccontato in un fluire ininterrotto di pensieri in prima persona, alternanza di presente e flashbacks, privo quasi sempre di punteggiatura, come se la narrazione fosse una necessità, uno sfogo che salta fuori come un torrente impetuoso e non ha tempo di ricevere queste aggiunte supplementari.
E'una storia che sì diverte ma strugge insieme. Soprattutto considerando che è una storia vera.
Consigliato caldamente, così come l'omonimo film diretto da Giuseppe Bonito.
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Morte e modernità
Le rivisitazioni contemporanee di opere del passato nella maggior parte dei casi fanno storcere il naso.
Ma non con questa "Antigone". Non con Valeria Parrella.
Con un linguaggio moderno e semplice insieme, l'autrice restituisce tutta quanta la bellezza e l'intensità dell'opera sofoclea, oserei dire perfino superandola. Si attiene ai contenuti e alle parole del tragediografo greco ma facendoli propri, trasfigurandoli in aulica poesia e sentito dramma interiore.
Sarebbe erroneo dire che la svecchia, quanto più giusto affermare che la retorica della Parrella cerca di attrarre i lettori verso i suoi contenuti tramite una profonda empatia fusa in un problema d'attualità: il diritto di praticare l'eutanasia. Metafora della sepoltura negata della tragedia ellenica.
La solitudine dell'eroina nella meditazione e compimento di quell'atto nei confronti del fratello Polinice in stato vegetativo, la sua determinazione, sofferenza e mancanza di paura e rimpianto per le conseguenze che sa perfettamente che ci saranno per opera di una legge che ritiene ingiusta, lo scontro con il freddo e integerrimo zio legislatore, il conflitto tra amore e dovere... Tutto ciò cambiato e al tempo stesso riportato con fedeltà.
Proprio come l'Antigone sofoclea, anche questa Antigone sa esattamente cosa deve fare e cosa è giusto e sbagliato e ci invita a riflettere e a fare lo stesso. A porci dubbi, domande non facilmente risolvibili, in un mondo continuamente conteso tra morale personale e collettiva, tra cuore e legge.
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Quell'oscura poesia autobiografica
Aldo Nove è prima di tutto un poeta. In questo libro l'autobiografia raccontata non è narrazione, non è linearità, non è cronologia e nemmeno ordine e successione. È una poesia. Una lunga e difficile poesia, infernale, intensa, quasi irreale. L'autore stesso la definisce "non normale". È una cascata perpetua di metafore in un tempo approssimativo, in un Limbo. Un'espressione pura e priva di inibizioni di una sofferenza, iniziata con la morte prematura di entrambi i genitori, proseguita dalla depressione e terminata con la sperimentazione di tutto ciò che di estatico-infernale puó offrire il mondo: i tentativi di suicidio, l'assunzione di droghe, il sesso selvaggio a pagamento, la lettura alternata di poesie e riviste pornografiche. È sì il regno di Satana, ma anche della solitudine e dello smarrimento, seppur tuttavia non comporti la perdita di uno scopo: in tutto questo dolore vi è una costante ricerca di piacere, a costo di soffrire pur di provarlo, di non dimenticarlo, a costo di vivere una vita oscena in bilico sul baratro della morte, forse perfino trovandosi all'interno di Thanatos stessa, ivi amante appassionata e inscindibile di Eros.
Ciononostante, essendo un romanzo autobiografico e come tutte le opere appartenenti al suddetto genere, non tutti i lettori possono essere in grado di comprenderlo. Quel linguaggio così forte, quelle metafore arzigogolate e onnipresenti, quei contenuti privi di veli e censure non riescono a colpire fino in fondo e a raggiungere il cuore di chi legge. L'empatia non è immediata e neppure totale, in certi punti pare quasi di trovarsi di fronte ad un'esposizione linguistica completamente gratuita e casuale, rivestita di una complessità oltremodo superflua. La distanza fra autore e chi legge pertanto si acuisce, creando un abisso invalicabile, rendendo così tutta la poesia dell'insieme effimera e totalmente dimenticabile nell'istante stesso in cui si volta pagina, in cui l'occhio oltrepassa appena due parole.
Non è un libro per tutti, non è di facile immedesimazione e sintonia, non è Chronos o Logos perchè è un'anima, un vortice di sensazioni tirate fuori con difficoltà da un corpo che le ha vissute in pieno e le ha appiccicate sulla carta mutandole in inchiostro.
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Il diavolo in corpo
Siamo in una stanza: due coppie di coniugi. I Reille e gli Houillè. Stanno seduti gli uni di fronte agli altri a discutere tranquillamente e civilmente riguardo una rissa avvenuta tra i rispettivi figli. Ma ben presto quello che sembrava un semplice incontro formale si trasforma in una vera e propria guerra, fisica e verbale, volta a ferire le scelte di vita e le personalità di ognuno dei presenti.
La casa diventa così un campo di battaglia, le parole le pistole: la maschera di perbenismo e buona educazione che copriva i loro volti si sgretola, tirando fuori e rivelando quel “dio del massacro” che si cela in ognuno di noi, quell’Es freudiano che qui si libera dalle catene dell’Io, quel male che mira a uccidere il modo di agire e pensare altrui e mette in discussione un’esistenza intera, costretta a difendersi con le unghie e con i denti per non crollare a terra in fin di vita.
Menefreghismo, malessere, pianti, nausee, urla, botte, vendette… Tutto ciò che è perverso è pronto a scatenarsi quando si tratta di avere l’ultima parola e difendere se stessi da accuse che sembrano ingiuste e minano la nostra integrità morale, la nostra filosofia di vita che ci è sempre sembrata giusta e ineccepibile.
E’incredibile quanta devastazione e distruzione emotiva ci siano in appena novanta pagine di questo libretto, scritto a mo’di sceneggiatura teatrale non a caso: perché è proprio il logos la vera arma che, è risaputo, ferisce più della spada. Un logos semplicissimo e non ricercato, un piccolo sasso che, se lanciato, è perfettamente in grado di distruggere una muraglia intera, un malefico soffio di vento che fa crollare un castello di carte, una brezza marina che disgrega una costruzione di sabbia, mischiandola al suo male e trasportando questi granelli contaminati negli occhi e nel cuore della gente, costruendo pian piano la scultura di quel “dio del massacro” che, spinto dall’estremità delle circostanze esterne e dalla paura di sentire minacciata la propria ontologia, prende vita e comincia a uccidere le persone. A parole o a gesti.
Un libro spiazzante in tutta la sua piccola grandiosa semplicità, poche pagine che sconvolgono e sorprendono facendone un piccolo capolavoro.
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Giù la maschera, mattone!
La cosa che si percepisce immediatamente leggendo questo mattonazzo, che sembra rubato appositamente dalla Grande Muraglia Cinese, dimenticato casualmente sullo scaffale di una libreria ed erroneamente acquistato dalla sfortunata sottoscritta in quanto scambiato per un romanzo gradevole e coinvolgente, è l’incredibile, spropositata e smisurata lentezza, caratterizzata da infinite, ridondanti, continue e ripetitive (a livelli da esaurimento nervoso) riflessioni psicologiche della protagonista, in perfetto stile “Sigmund Freud dei poveri”, e altre sul paesaggio circostante (le più odiose in assoluto), sull’ambiente, sul clima (roba da fare invidia a Giuliacci), sulla fauna e flora locale, alberi e uccellini che fanno rimpiangere quelli di Biancaneve per quanto anche loro non scherzassero nel rompere le scatole con i loro mielosi cinguettii.
Posso capire che la storia voglia incentrarsi sulla nostalgia provata dalla protagonista nei confronti della sua casa e di come ci stava bene in estate, però, cavolo, the plot must go on!! Non si prova neanche il minimo interesse ad assistere alla sua perdita dell'innocenza, alla crescita e alla "maturazione" da tanto è piatta e monotona la narrazione!
Oltretutto questo libro è un gran furbacchione perché si spaccia per romanzo d’amore e di guerra quando in realtà non è nessuno dei due.
La guerra rimane perennemente sullo sfondo, e se ne parla a malapena per una novantina di pagine, e le sue conseguenze non si fanno sentire totalmente, è impossibile percepirle e viverle sulla propria pelle, sentirle così come tutte le vicissitudini che capitano ai vari personaggi, praticamente tutti vuoti e privi di personalità, anche se la protagonista li batte tutti in questo ambito, tanto che non ci si può fare a meno di domandarsi come abbia fatto il suo amore a innamorarsi di lei e continuare ad amarla nonostante tutte le peripezie di guerra, d’amore e di lontananza che gli piovono addosso a raffica.
Fatto sta che tutto questo vuoto emotivo non fa provare la minima empatia nei confronti di niente e nessuno e mi fa sbellicare il fatto che la quarta di copertina prometta intrighi quando di essi non ce n'è nemmeno l'ombra.
Ciliegina sulla torta: il finale, per quanto si spacci come tale, lascia in sospeso un mucchio di questioni irrisolte e porta tristemente a riflettere quanti buchi siano presenti nella trama.
Consiglio caldamente di lasciar perdere questo prolisso ciarpame, che ha il solo pregio di essere scritto in modo grammaticalmente corretto, e di leggersi qualche numero di “Novella 2000” che è molto più edificante e costruttivo.
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Disordine, incertezza e poco mistero
Mettiamo subito in chiaro una cosa: chi si aspetta da questo libro una sorta di giallo soft, sappia che rimarrà parecchio deluso.
Di misteri da svelare qui c’è poco e niente e quel poco che c’è non viene nemmeno rivelato in maniera totale, per cui alla fine della lettura si rimane con un pugno di mosche in mano e pieni di interrogativi, come ad esempio: cos’è questa benedetta banda del formaggio? (E già un libro che non spiega nemmeno il suo titolo non sempre fa una bella figura) Qual è il suo scopo? Perché Paride si è suicidato? Cosa faceva esattamente nella sua doppia vita?
Oltretutto questi presunti misteri si “risolvono” solamente nelle ultime dieci pagine, perché il resto del libro è interamente occupato dalle riflessioni personali ed esistenziali del protagonista piazzate in maniera totalmente casuale e disordinata e ripetute fino allo sfinimento (certi pensieri, in puro stile “copia-incolla”, vengono riportati tre o quattro volte, inducendo così il lettore esasperato alla tentazione di buttare il libro nel caminetto più vicino).
Tutto questo rende tristemente il romanzo privo di una trama solida e assai sgradevole nella lettura se ci si aggiunge il fatto che è scritto in un italiano esageratamente colloquiale, privo di punteggiatura e frasi di senso compiuto. Può anche darsi che l’intento dell’autore fosse proprio quello di evidenziare la semplicità intellettuale del protagonista, sebbene svolga il mestiere di editore, creando così un paradosso sul fatto che sia inesperto nello scrivere, ma la lettura rimane comunque faticosa e poco gradevole. Si salva soltanto qualche perla di filosofia degna di nota che il protagonista scrive ogni tanto, ma niente di più.
Si può vivere benissimo anche senza leggerlo.
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Due novelle, un solo legame
Chi legge con frequenza quest’autrice ormai l’avrà capito: nei suoi libri si entra in un Inferno paradisiaco da cui è molto difficile uscire e che induce a determinare se la si amerà o si odierà. Per sempre. Non c’è verso: con Amelie Nothomb non esistono le mezze misure, proprio come in questo particolarissimo libretto di centotre pagine, grosso come un portadischi e contenente soltanto due racconti brevi. Ma che racconti! Una tale contorta e bizzarra bellezza retorica non si trova altrettanto facilmente.
Si può tranquillamente parlare di filosofia quando si parla di Amelie Nothomb. Una filosofia spietata, malvagia e subdola, ma anche benefica e salvifica, piena di perle che danno ragione ad ogni singolo personaggio e dove il torto non esiste o non sta mai da una parte sola.
Ma perché proprio queste due novelle? Perché raccoglierle insieme in un unico volumetto quando non hanno apparentemente niente in comune?
Cosa può legare la storia di uno spietato arrampicatore sociale che compie un atroce delitto, scappa, cambia vita e s’innamora e la vicenda di un anonimo uomo che si dirige nella fredda Finlandia con infiniti sogni e aspirazioni, ma senza alcun mezzo di sostentamento alla casuale ricerca della donna della sua vita che non ha mai visto, avuto o di cui non sa nemmeno il nome?
Probabilmente più di quanto ci si possa immaginare: il sacrificio involontario ma necessario per il raggiungimento del piacere assoluto, il viaggio come fuga e ricerca di qualcosa di migliore, il mutamento totale di personalità e scelte di vita, l’inevitabile confronto con il mondo, la diversità e ciò che più si disprezza, un finale sconvolgente e assurdo ma che il lettore si trova costretto ad accettare perché, nonostante tutto, in esso trova una sua logica, anche se perversa, e, perché no, anche una forte critica ai vizi e ai difetti della società odierna che l’autrice enfatizza e stravolge.
Nessuno è innocente e nessuno è colpevole, tutti hanno dei lati oscuri che prima poi tirano fuori grazie alle circostanze che attraversano e rivelano la vera natura dei personaggi.
Per quanto vivo uno rimanga in questo libro, non può affermare di essere salvo, felice o appagato: gli mancherà sempre qualcosa, che ha perso o che non ha mai avuto, anche se non lo saprà mai.
Non esiste il lieto fine, ma nemmeno il finale tragico: entrambi si fondono per creare una conclusione solenne, che rimbomba nella mente del lettore come il suono di un tamburo gigante, torturandolo dolcemente e inducendolo a riflettere, spesso invano: se si prova a trovare un senso, un ordine nei libri della Nothomb, si è fregati.
Il cervello si aggroviglia come la matassa di un gomitolo e non si riuscirà mai a districarne tutti i nodi: ne rimarrà sempre uno che porterà non pochi dubbi nella vita di tutti i giorni. Chi riesce a districare quel piccolo o grande nodo, non potrà mai apprezzare Amelie. Chi non ci riesce, si è fatto soggiogare dalla sua magia letteraria e dialettica e la seguirà come un fedele discepolo.
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Come una piuma nel vento
Apparentemente è un libro semplice, scritto molto semplicemente, con contenuti e tematiche non troppo originali.
Eppure non è altrettanto facile trovare parole per descriverlo, perché la semplicità con cui è stato scritto rovina tutto, rendendo l’insieme un guazzabuglio disordinato e senza trama. Per paradosso, si potrebbe perfino affermare che la tanto esaltata semplicità lo renda irrimediabilmente e tristemente complesso.
Infatti la domanda che ci si pone leggendo “Il mio regalo sei tu” è la seguente: qual è il fulcro della storia? “Una figlia diciottenne che tenta di allacciare un qualsivoglia legame con il padre mai incontrato prima d’ora” sembra suggerire la quarta di copertina unita all’arguto e ovvio intuito del lettore.
E invece questo cosiddetto fulcro non si può definire tale, perché si comporta esattamente come una piuma sospinta dal vento e invano preda dei tentativi di cattura di chi legge: non si riesce ad afferrare in alcun modo.
La descrizione dell’evoluzione (o involuzione?) del rapporto tra il padre e Lidia è anonima, scialba, irrealistica e relegata in secondo piano.
Tra la protagonista che incontra personaggi totalmente inutili, privi d’anima e che scompaiono dopo due pagine, la protagonista che va in Francia a svolgere come lavoro estivo la professione di animatrice turistica, la protagonista che scrive lunghissime e ridicole lettere al padre riguardanti la descrizione della propria casa, la protagonista che dialoga con le stelle (sic!), la protagonista che vaga a caso per la città propinando al povero lettore esasperato “riflessioni filosofiche” (se tali possono essere definite) senza scopo, piazzate lì giusto per allungare il brodo e pompare i contenuti, il libro risulta nient’altro che un’accozzaglia confusionaria senza filo logico, senza continuità e assolutamente incapace di coinvolgere se si considera nell’insieme la più completa assenza di raffinatezza lessicale e stilistica, ivi ridotta a odiosissimi oltre che infantili colloquialismi verbali d’uso ormai comune e quotidiano.
Dulcis in fundo: un finale incomprensibile e che lascia addosso un senso d’amaro e di tristezza micidiale che fanno venire voglia al lettore di farsi restituire tutto il tempo perduto a leggere questo libro.
Decisamente sconsigliato.
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Che confusione! Sarà perchè ti leggo...
Signori e signore, lettori e lettrici, sono (non) lieta di annunciarvi che, dopo diciotto anni di esistenza e di letture, per la prima volta in tutta la mia vita, mi è capitato fra le mani un libro di cui non ho capito un emerito cavolo!
E, badate bene, non è un complicato saggio, un thriller intricato o una serie di love stories in stile “Beautiful” che si intrecciano senza sosta tra loro, ma è nientemeno che un libretto di appena duecento pagine, scritto a caratteri sufficientemente grandi, con una trama apparentemente rivolta a qualsiasi tipo di pubblico… E io non ci ho capito assolutamente nulla di nulla!
Ma andiamo con ordine (per quanto sia possibile fare mente locale con questo disastro letterario): prima di tutto “Il cassetto delle parole nuove” non ha un briciolo di trama e non lo dico tanto per dire: Non. Ha. Una. Singola. Misera. Infima. Minuscola. Infinitesima. Trama. Nemmeno un po’.
L’insieme è costituito da eventi molto eterogenei fra loro, che non hanno nessun senso, nessuna possibilità di essere compresi e sono spiegati in maniera talmente approssimativa e impalpabile da impedire qualsiasi tentativo di immaginazione e immedesimazione: funerali, gite nell’orto e nei boschi, pranzi, giri allo zoo, questioni filosofiche sulla politica e l’esistenza umana sono piazzati completamente a casaccio, senza portare da nessuna parte, senza nessun filo logico, come un disordinatissimo collage fatto da un bambino di due anni. Conseguenze di tale “scelta stilistica” (se così si può definire)? Una confusione completa, giramenti di testa, aggrovigliamenti di cervello, noia, sonno, sbadigli, oltre a una vita intera per poterlo terminare.
E non considero valida la scusa della bimba protagonista che conosce poche parole, fa fatica a parlare e a connettere eventi e oggetti: un minimo di senso logico a livello di intreccio ci deve pur essere! Ed è un peccato, perché con un tema così delicato poteva nascere una storia davvero carina.
L’altra cosa totalmente impalpabile e inconsistente sono i personaggi: non hanno personalità, esprimono pensieri che non c’entrano nulla con il contesto momentaneo in cui sono inseriti, sputano perle di saggezza fingendosi colti in momenti in cui non dovrebbero farlo, risultando quindi fuori luogo. Oltretutto sono tanti quanto sono inutili, talmente trasparenti che mi dimenticavo immediatamente di loro e quando riapparivano dovevo tornare indietro di qualche pagina per capire chi fossero (per quanta identità avessero) o fermarmi un attimo a pensare per capire cosa stessi leggendo e chi riguardasse.
Quindi, cari lettori e non, evitate assolutamente questo romanzo, non leggetelo per niente al mondo!
Già un sacco di gente soffre di mal di testa e “Il cassetto delle parole nuove” è particolarmente sconsigliato a costoro per evitare che il loro malanno aumenti maggiormente.
Mi spiace solo di aver buttato attimi preziosi della mia vita a leggerlo… Credo che lo dimenticherò in fretta e altrettanto rapidamente lo infilo nella mia Top Ten dei peggiori libri mai letti.
Ed è un peccato che non esista “zero” come voto: glielo avrei dato senza alcuna esitazione.
E poi dicono che questo libro è stato esaltato dalla critica? Mi piacerebbe proprio incontrare questi critici...
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Le catene dell'anima
Rabbia intensa, tristezza, indignazione, dolore, odio profondo ma, più di ogni altra cosa, tantissima angoscia e un forte senso di oppressione. Ecco ciò che mi ha lasciato questo libro.
Perché questo è un romanzo che non si dimentica facilmente, lascia cicatrici indelebili nella mente e nell’anima che non andranno mai via. E’una mano gigantesca che ti afferra, ti stritola per non lasciarti più. Ed è ancora più terrificante sapere che alcuni dei fatti raccontati sono autobiografici.
“Sto bene è solo la fine del mondo” non è altro che la rappresentazione cartacea di quelle catene morali e invisibili che avvolgono certe persone negando loro la libertà, offuscando una personale vista del mondo e togliendo quello che hanno sempre conosciuto.
Ed è proprio quello che si trova a vivere Giuliano che non soltanto deve affrontare le quotidiane ire di un padre violento, alcolizzato e frustrato dalla vita, dal lavoro e dal disagio della povertà, ma, appena bambino, verrà costretto, insieme ai suoi cinque fratelli, dalla madre ad aggregarsi alla “Società”, una setta religiosa paragonabile agli odierni Testimoni di Geova (anche se l’autore non menziona mai la suddetta religione in maniera esplicita e a me è piaciuto credere che potesse trattarsi di una dottrina qualunque).
Per Giuliano, inizia così una vita nuova, che intraprende per l’amore smisurato nei confronti della madre Assunta, una donna molto sola e fragile che nella Società trova la compagnia e le consolazioni che la vita le ha sempre negato (anche se, devo essere sincera, con la sua ossessione a dir poco esagerata per i precetti della religione mi è risultata davvero una grandissima rompiscatole, per non dire una parola peggiore).
Il protagonista dovrà perciò sopportare innumerevoli cambiamenti, infinite rinunce, ma in particolare angosce, dubbi e paure: ogni giorno la fine del mondo potrebbe essere vicina e solo chi si comporta impeccabilmente secondo le regole della Società, senza mai commettere il benché minimo peccato dettato da Satana, potrà salvarsi e ottenere la vita eterna il cui terrore di non raggiungerla è perennemente costante in lui.
Non esistono più giochi, feste, amicizie come nel passato della sua seppur breve infanzia. Non esiste più il mondo. Solo la Società, che viene prima di tutto il resto.
Giuliano quindi, con le ali tarpate, forse anche leggermente incuriosito, costretto dalla madre e dalle rigide imposizioni della nuova religione, vivrà ciò soffrendo parecchio, perdendo i suoi sogni e le sue aspirazioni, provando nostalgia, assistendo a legami che mutano o si deteriorano, subendo privazioni d’ogni tipo, fino ad assuefarsi del tutto alla sua nuova esistenza, fino alla consapevolezza finale…
Quindi, che dire? Mi è piaciuto questo libro? Certo che sì, perché s’imprime con forza, lascia la traccia del suo passaggio, e fa soffrire proprio come soffre il protagonista guidato dall’affetto ma al tempo medesimo schiacciato da obblighi morali e costrizioni che difficilmente sarebbero sopportabili da parte di chiunque.
Alla fine anch’io sono stata avvolta da quelle pesanti catene e non vedevo l’ora di liberarmi, ero perfino sull’orlo della disperazione, ma ero anche felice perché non accade spesso che un libro conquisti e trascini così tanto al proprio interno.
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Tanto rosa, poco horror
Se vi aspettate un bel romanzone horror in pieno stile "Stephen King" vi consiglio caldamente di cambiare libro: le aggressioni compiute dalla protagonista sono pochissime, non lasciano nessuna emozione nè particolari brividi e risultano quindi una delle delusioni maggiori oltre che parecchio ridicole.
La storia si ripropone di leggere in chiave comica il problema sempre più frequente della violenza sulle donne e devo ammettere che certe riflessioni filosofiche al riguardo sono molto interessanti e veritiere, ma purtroppo gran parte dei contenuti sono noiosissime e inutili chiacchiere da romanzetto rosa di serie B, che ricalcano palesemente quelle squallide serie televisive tipicamente femminili e trasmesse quotidianamente.
La cosa più grave, però, é la totale assenza di trama: non c'è alcun filo logico che permette di comprendere questo casuale accostamento di eventi molto diversi fra loro ed é impossibile comprendere con esattezza la distanza temporale degli avvenimenti.
Ciliegina sulla torta: il libro é scritto piuttosto maluccio e vi sono una marea di errori lessicali e sintattici, un linguaggio esageratamente colloquiale, con totale assenza di virgolette e la benchè minima raffinatezza grammaticale.
Inoltre mi è dispiaciuto assai la scelta di utilizzare un numero spropositato di citazioni di scrittori e giornalisti per allungare il brodo. Non c'è proprio più fantasia in questo mondo?
È un vero peccato, perchè l'idea di base per realizzare questo romanzo era davvero buona ma è stata gestita male e infarcita di inutilità a non finire.
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S'i' fosse foco, ardere' sto libro
Il titolo originale di questo romanzo è “The universe versus Alex Woods” ma io lo ricorderò sempre (SE me lo ricorderò) con il nome di “Lady Libro versus Alex Woods” (e non so nemmeno chi dei due abbia vinto).
Eh già. Questo libro mi ha simpaticamente tenuto compagnia per diciotto lunghissimi e interminabili giorni grazie alla sua incommensurabile pesantezza (viva il sarcasmo). Perché sì: questo libro è noiosissimo e lentissimo per colpa di una trama che non decolla, troppe e inutili descrizioni ma soprattutto tanti, tanti, tantissimi elenchi di numeri, potenze, esperimenti scientifici, equazioni che trasformano il romanzo in un mattone da cento tonnellate. Ok, posso capire che essenzialmente tutto questo vuole rispecchiare ed evidenziare la passione del protagonista per l’astronomia e la scienza, però, cavolo, la mia povera mente prevalentemente umanista era ormai un mucchietto di cenere distrutto da tutta questa prolissità.
A proposito, vogliamo parlare del protagonista? L’ho odiato fin dalle prime pagine (tanto che ad un certo punto tifavo per i bulli che lo perseguitavano): non ho mai visto un personaggio così saccente e perfettino in una storia (osa perfino correggere medici e dottori che ne sanno molto più di lui!), e, oltre che sputar presunte perle di filosofia scientifica inutili e soprattutto non richieste, per gran parte del libro non fa altro che bere Coca Cola Light in continuazione (c’è un pezzo in cui ne beve nove lattine in un’ora!). Non che ci sia nulla di male in questo, ma ad un certo punto pensavo, oltre che potesse avere un attacco di diabete, di assistere alle avventure di E.T. l’extraterrestre (sapete, no, l’alieno del film di Steven Spielberg matto per l’omonima bevanda? Ecco, è la stessa cosa). In aggiunta, il nostro Alex Woods ha pure una madre rincitrullita e menefreghista che probabilmente lo supera in antipatia.
Ma il punto più debole dell’insieme è la trama che dovrebbe basarsi sul “forte rapporto” d’amicizia tra Alex e il signor Peterson che è un nulla di fatto: perché Gavin Extence racconta sì tutte le cose che fanno e condividono insieme, ma lo fa con una freddezza e una mancanza di sentimento tali che rendono questa relazione vuota, insignificante e inutile (come del resto tutto il romanzo). Vengono elencati i loro passatempi, ma senza descrivere cosa provano nel farli e questo mi ha intristito parecchio. Ha la pretesa di commuovere ed emozionare senza riuscirci neanche un pochino.
Come se non bastasse anche la quarta di copertina racconta un mucchio di balle grosse come… l’uinverso (ah, l’ironia della sorte!) che ovviamente mi accingo a smentire immediatamente (e lo faccio per il bene di chi volesse leggerlo):
- Non è vero che Alex e il signor Peterson coltivano sostanze stupefacenti insieme (è solo quest’ultimo che ogni tanto si fa qualche fumatina e il ragazzo ne sarà coinvolto soltanto nelle ultimissime pagine).
- Non è vero che il signor Peterson ha una ferita nel cuore che non vuole rivelare a nessuno perché tutto il paese sa questo fantomatico segreto.
- Non è vero che Alex intraprende un viaggio per salvare il signor Peterson.
Ultima cosa: non sono riuscita a digerire la spudorata, gratuita e inutile citazione, in questo libro già di per sé e per me orrendo, a quel capolavoro di “Qualcuno volò sul nido del cuculo” (mi riferisco al film). Perché ad un certo punto viene descritta un’infermiera che è tale e quale, fisico, atteggiamenti e carattere, alla Mildred Ratched della pellicola (e viene pure chiamata “Fletcher” proprio come l’omonima attrice Louise Fletcher che interpretava il ruolo della dispotica infermiera).
Lì mi sono veramente infuriata: questo per me è plagio!
Se ho finito il libro è stato per puro miracolo e per una questione di principio, perché alla fine “Lo strano mondo di Alex Woods”, sebbene mi abbia fatto arrabbiare, sbadigliare, storcere il naso e mi abbia delusa dal profondo del cuore… Beh, non mi ha lasciato niente, solo una profonda indifferenza. Terminato il libro, ho dimenticato quasi tutto quello che avevo letto e credo che sia una cosa bruttissima: molto meglio un romanzo brutto di uno che non lascia alcuna traccia significativa, nel bene e nel male.
Gli unici pregi che ha sono due, per me: è scritto relativamente bene (nonostante l’ignobile e continua presenza di indicativi al posto di congiuntivi e quel costante e svogliato lessico giovanile che mi fa venir voglia di strapparmi i capelli) e mi ha fatto venir voglia di scoprire i libri di Kurt Vonnegut che paiono rispecchiare il genere letterario dell’assurdo e del bizzarro che tanto prediligo.
Non me la sento per niente di consigliarlo, ma dato che globalmente è un bestseller, con tanto di plauso della critica, magari a qualcuno potrebbe piacere sicuramente più che a me.
P.S. La faccia del protagonista in copertina sembra voler dire "Strapazzami di coccole", ma io vorrei solo prenderla a sberle.
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La pace e l'amore negato
Ancora una volta le donne sono le rivoluzionarie protagoniste di questa commedia di Aristofane. Dopo averle fatte travestire da uomini e prendere il potere (“Donne all’assemblea”) e dopo averle quasi fatto ammazzare il tragediografo Euripide, un loro grande “diffamatore” (“La festa delle donne”), questa volta il commediografo ellenico le rende intimamente “off limits” agli uomini pur di ottenere la pace dopo lunghi e dolorosi tempi di guerre. Quindi, dopo aver giurato loro malgrado (eh sì, alle donne dispiace parecchio rinunciare ai piaceri della carne) su una coppa di vino questo sciopero del sesso (con tanto di occupazione dell’Acropoli di Atene) ideato e condotto dall’omonima eroina del titolo della commedia, si susseguiranno una serie di eventi comici, assalti fisici e verbali, inseguimenti, con donne tenaci e aggressive che resistono e restano ferme nei loro propositi, altre più arrendevoli che cedono alle lusinghe di Afrodite, mentre i poveri uomini, ormai frustrati e arrapati fino all’estremo, cercano in un modo o nell’altro di riavere le loro donne per potersi sfogare.
Parlando di ciò, è interessante notare come in quest’opera siano gli uomini più giovani a cedere al richiamo dell’Eros, mentre i vecchi, più radicati ai costumi degli antenati, tentano perennemente di combattere con la violenza le donne per ricondurle ai loro doveri domestici.
Perciò tra combattimenti, insulti, lusinghe e richiami, la morale della “Lisistrata” è: che mondo sarebbe senza donne? Inutile essere misogini o cultori della subordinazione femminile: senza donne non c’è vita, si perde una parte della bellezza del mondo che molti si ostinavano (e purtroppo a volte si ostinano ancora) a ignorare.
Certo, anche qui le donne vengono viste semplicemente come oggetti sessuali/casalinghi, ma è proprio la loro ribellione a dimostrare che non sono e non vogliono essere tali, che hanno una volontà precisa, una dignità e un disperato bisogno di pace.
La commedia riprende il cosiddetto “filone femminista” di certe opere di Aristofane, e per questo la trama risulta un po’ripetitiva e poco coinvolgente, ma il geniale commediografo, con la sua eloquenza e i suoi colpi di scena alternati a siparietti comici, rende il tutto una lettura godibile.
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Tesmoforiazuse
Con questa commedia, a mio parere, siamo ben lontani dalle “Rane” e dalle “Donne al Parlamento”, i due capolavori con cui Aristofane mi ha conquistata.
Nella “Festa delle donne”, il cui titolo originale è “Tesmoforiazuse”, ovvero “Donne alle Tesmoforie” (cioè feste segrete riservate alle sole donne e dedite al culto della dea Demetra e di sua figlia Persefone), ho notato una comicità assolutamente banale, non divertente, sforzatissima e spesso e volentieri inutile, esattamente come i numerosi doppi sensi e volgarità tipici dello stile del commediografo ellenico.
La trama di barcamena tra ripetizioni e qualche briciolo di originalità. Per esempio mi è piaciuto molto il fatto che Euripide tenti di salvare il suo parente da morte certa travestendosi come i personaggi della mitologia greca e che Mnesiloco stia al gioco pur di salvarsi la pelle), anche se devo ammettere che il protagonista mi ha fatto rabbrividire: non voglio fare anticipazioni, però, cavolo, pur di salvarsi dalle Tesmoforiazuse non ha la minima esitazione a sgozzare la figlia neonata di una di loro (tra l’altro questo gesto sarà completamente inutile)! E pensare che all’inizio Mnesiloco mi era pure simpatico…
Insomma, secondo me non è un Aristofane degno di essere collocato fra i migliori, un po' sotto tono direi.
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- sì
- no
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Le avventure di un piccolo genio
E dopo il bellissimo libro “La banda degli invisibili”, Fabio Bartolomei ci regala un altro splendido capolavoro.
In questo romanzo seguiamo le mirabolanti avventure di Almerico Santamaria (chiamato semplicemente “Al”) , un bambino prodigio (talmente intelligente da ridurre Leonardo da Vinci al ruolo di lustrascarpe), è consapevole di esserlo e se ne vanta parecchio. Non bisogna però pensare che sia antipatico o pomposo: è la sua ingenuità che lo guiderà nelle scelte di vita.
Infatti questo tenero e dolcissimo bambino, che nel corso della storia diventerà uomo (almeno in parte), ha due obiettivi: salvare il mondo da qualunque ingiustizia e aiutare la sua famiglia.
Perché i Santamaria sono sì poveri, ma felici, cercano sempre di essere spensierati, di guardare il futuro con allegria. Perché la cosa più bella di tutte è la famiglia.
Sarà grazie a tutto questo che Al crescerà pienamente appagato, quasi ignaro delle vere difficoltà della vita che apprenderà fino in fondo solo più tardi.
Non a caso i momenti più belli sono sicuramente quelli dedicati alla sua infanzia perché, oltre ad avermi fatto sganasciare più volte dalle risate per le assurdità più svariate, vedere le concezioni di un bimbo come assolute è quasi commovente, come se si aprisse un nuovo mondo davanti agli occhi.
Per questo non ho apprezzato tanto i capitoli dell’adolescenza di Al, che perdono gran parte dell’ironia e della tenerezza presenti all’inizio e rallentano non poco il ritmo del romanzo, riducendosi al ruolo di semplici elenchi.
Ormai non ho più dubbi: Fabio Bartolomei scrive divinamente e dal suo stile traspare un’ironia fresca, originalissima, vera e autentica.
Quindi, leggetelo e se avete qualsiasi problema chiamate Al Santamaria. Ve li risolverà in un battibaleno.
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Le bugie hanno le pagine corte, ma...
Ve lo dico subito: la quarta di copertina racconta un mucchio di frottole.
In questo libro non c’è neanche l’ombra di bizzarre e dinamiche avventure di vecchietti (e se c’è, le suddette avventure durano una decina di pagine senza necessariamente far ridere o emozionare in modo eccessivo) e non è vero che sono guidati da un’anziana in sedia rotelle, perché costei, oltre ad essere muta e semiparalizzata, viene continuamente trascinata e sballottata qua e là dai vetusti compagni alla stregua di una palla al piede (dico questo con tutto il dovuto rispetto per le problematiche senili, ovviamente) rivestendo in tal modo un ruolo totalmente marginale.
Il fulcro del romanzo sono i sentimenti, la difficoltà di esser vecchi, la ribellione a un destino dettato dalla rassegnazione e da una prossima fine, ma, soprattutto, una lotta contro il passato che minaccia sempre più di affiorare prepotentemente dalla buca che il presente ha scavato gettandovelo dentro, col proposito di dimenticarlo per sempre.
E’ proprio questo che si trova ad affrontare Blanche, animatrice di scrittura creativa alla casa di riposo delle Rose, nonchè vera protagonista del libro, cresciuta da una madre chiusa nella propria solitudine e incapace di stabilire un qualsiasi legame con lei. Blanche, inoltre, è profondamente segnata dall’assenza di una figura paterna che compensa e sfoga concedendosi a uomini che non ama.
Sarà soltanto grazie alla vicinanza e al forte affetto dei suoi anziani allievi, ognuno sufficientemente caratterizzato e dotato di una propria storia personale, che l’animatrice troverà il coraggio di voltarsi indietro e incamminarsi a testa alta verso ciò da cui ha sempre tentato di fuggire.
Quindi, per concludere, posso dire che non mi sento pienamente truffata. Sebbene mi aspettassi tutt’altro (avventure, azione, bizzarrie, comicità, eccetera) sono rimasta davvero soddisfatta dall’intensa profondità che la storia ha saputo regalarmi in cambio.
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Poche parole per un grande amore
Questo è uno dei classici ma rari libri in cui bastano pochissime parole per creare qualcosa di grandioso.
La semplicità che nutre fino a ingozzare l’immaginazione e che non rende schiavo di idee precise e definite date da dettagli troppo espliciti.
Perché è proprio tale l’amore che nasce fra Ezio e Giovanna: un sentimento nato da un ombelico scoperto da un costume strappato. Sia la fiera, gioiosa e indomita Giovanna, sia il suo ombelico sono simbolo di trasgressione, libertà, ribellione e indipendenza se analizzato nel contesto in cui la storia è ambientata (ovvero nel 1945). E sono questi due elementi combinati insieme a far perdere la testa al timido e impacciato Ezio.
Comincia così una lunghissima, lenta, travagliata e appassionata storia d’amore, condita da insicurezze, dubbi, paure e un innegabile desiderio di libertà: ma tutto ciò viene solo accennato. Si intuisce, si capisce, si indovina e questo basta.
Ezio e Giovanna si amano passeggiando, nuotando in mare, tenendosi per mano, sedendosi a guardare l’orizzonte in silenzio.
Fanno l’amore e le parole che lo descrivono sono impalpabili come l’aria, leggere come il vento: l’azione si comprende tramite sottintesi e allusioni in tutta la sua dolcezza.
I due amanti si separano loro malgrado, intraprendono strade molto diverse.
Si può percepire con chiarezza l’aura bucolica, floreale, fruttifera e pastorale che caratterizza quella di Ezio, fra le montagne di Bolzano, e l’odore mutevole del lungo viaggio – fuga per l’Italia e l’Europa di Giovanna.
Entrambi i fuggitivi soffrono in silenzio o senza accorgersene, il tempo passa, i due protagonisti invecchiano, tutto muta, qualcosa di importante invece non cambia.
E sarà proprio quel qualcosa a richiamare il passato tentando di riviverlo da parte dei due amanti…
Che altro posso dire? Alla fine del libro avevo le lacrime agli occhi, per colpa dell’immensa malinconia e dolcezza sprigionatesi da quelle poche pagine e da questo romanticismo implicito che mi hanno avvolto da capo a piedi, dentro e fuori.
Assolutamente consigliato.
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L' "amore" ai tempi del wrestling
Altro che “splendido”! Questo libro è un disastro punto e basta. Eh sì che avevo grandi aspettative amando la letteratura rosa…
Le uniche cose che si salvano, a mio parere, sono lo stile di scrittura e il contenuto delle prime pagine. Perché Jamie McGuire scrive molto bene, e su questo non ci piove: il lessico è molto curato e semplice, le descrizioni non sono eccessivamente lunghe ma rimangono comunque ben fatte e oltretutto l’inizio della storia mi aveva proprio conquistata: adoravo seguire ogni singola fase del corteggiamento di Abby da parte di Travis, lei che vinceva la sua riservatezza per abbandonarsi tra le braccia di quel ragazzo perdutamente innamorato di lei…
Eh sì. Avrei proprio voluto che questo dolce, lungo e travagliato corteggiamento dell’inizio del romanzo non finisse mai… Ma, ahimè, desiderare non basta, perché arriva immediatamente l’elemento che più ho odiato in assoluto e che distrugge tutta la bellezza del principio, ovvero i personaggi (che nel corso della storia non fanno altro che mangiare, dormire, ubriacarsi e partecipare a festini), i quali sembrano tutti quanti degli stupidi burattini provenienti da un teatrino dell’assurdo!
Partiamo con la ciliegina sulla torta (parecchio grama, bisogna dirlo), ovvero Travis “Mad Dog” Maddox (e Mad lo è per davvero) che sembra il figlio nato dal matrimonio tra Arnold Schwarzenegger e Sylvester Stallone: non appena uno tossisce o sfiora la sua amata con la punta dell’unghia, il suddetto “Cane Pazzo” per poco non lo ammazza di botte! Sul serio: in tutto il libro Travis avrà picchiato almeno una decina di persone e senza che nessuno intervenga a fare qualcosa o a punire qualcuno! Devo proprio ammettere che durante la lettura mi veniva una voglia matta di entrare nel romanzo per soccorrere i poveri sfortunati lividi, pesti e sanguinanti e portare loro in un ospedale e Travis al manicomio!
E non chiamatemelo amore, per favore! Questa è pazzia pura. (Non sarà che forse ho letto “L’arte della guerra” di Sun Tzu sotto falso nome)?
Ho sentito un sacco di ragazze dire che vorrebbero un fidanzato come Travis… Beh, io passo! Ma vogliamo parlare, poi, del fatto che ogni ragazza farebbe di tutto per andare a letto con lui e non appena lo vede sbava come un cagnolino? Ormai hanno proprio stufato questi personaggi così finti, forzati e costruiti!
Al secondo posto abbiamo America, la migliore amica di Abby, nonché l’incoerenza fatta persona: prima fa di tutto per allontanare la protagonista da Travis, poi vuole che si fidanzi con lui, poi le intima nuovamente di lasciarlo, poi ricomincia a dirle di tornare con lui… Che due scatole! Deciditi, ragazza mia!
Terzo posto: Parker Hayes, primo interesse amoroso di Abby, che io ho soprannominato “Il Bietolone” perché, nonostante anche un cieco si accorga di quanto sia forte il rapporto tra Abby e Travis, lui continua imperterrito come un tontolone a corteggiare la protagonista senza nemmeno manifestare qualche segno di gelosia per la loro relazione! Boh. Io al suo posto avrei mollato Abby da un pezzo.
Quarto posto: Abby Abernathy, una ragazza piuttosto insopportabile, superficiale e stupidotta che si crea tanti problemi inutili, assurdi, insensati e per niente, quando un ragazzo darebbe la vita per lei nella totalità del suo amore incondizionato. Svegliati Abby e finiscila di crogiolarti in tragici piagnistei autobiografici, cinematografici e farlocchi, dato che in tutto il romanzo ti fingi la santarellina di turno!
Quinto posto: tutti gli altri personaggi secondari, utili quanto un maglione di lana a Ferragosto e piazzati proprio lì a casaccio tanto per allungare il brodo e le pagine.
Per riassumere: la delusione, viste le ottime premesse, è stata veramente cocente, il libro, dopo le prime pagine, diventa un mattone colossale e piuttosto ripetitivo (ho impiegato una vita a terminarlo) e… Beh, sulla spropositata bellezza dei personaggi ho detto tutto.
So che a molti è piaciuto, e rispetto pienamente gli estimatori di questo libro, ma io personalmente non me la sento di consigliarlo.
P.S. Dovrebbe uscire prossimamente il seguito del romanzo, il cui titolo inglese è “Walking disaster”, e non è altro che “Uno splendido disastro” scritto dal punto di vista di Travis.
Ma mi sa tanto che non lo leggerò.
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E io amo questo libro!
Questo splendido libro, tra l'altro corredato da bellissime e buffe illustrazioni interne, è scritto in prima persona e sostanzialmente si divide in due blocchi stilistici: il primo puramente narrativo e cronologicamente lineare, mentre il secondo è scritto in forma di diario.
Attenzione però! Hiro Takata, nonché protagonista della vicenda, non scrive queste pagine del secondo blocco iniziando con il tipico “Caro diario” ma bensì con “Caro clone”.
“Perché mai?” vi chiederete voi. Beh, oltre che per descrivere meglio se stesso e la propria persona, il nostro Hiro immagina costantemente un ipotetico futuro di progresso scientifico nipponico (positivo o meno) che culminerà con la clonazione umana e di conseguenza anche la propria. Quindi, perché non fornire istruzioni personali e di sopravvivenza ad un nuovo me per aiutarlo a trionfare in questo Giappone odiato da Dio?
Perché è esattamente questa la Terra del Sol Levante degli anni Novanta ivi raccontata: immondizia. Un paese di false speranze, sogni infranti, vizi, peccati, sbornie, droghe e illusioni, segnato dalla crisi economica e dove migliaia di persone faticano a trovare, e a conservare, un lavoro.
Ed è qui che il protagonista nasce, cresce e si forma. Da bambino egli diventa ragazzo e infine uomo solo dopo un lunghissimo e difficile processo.
Bisogna proprio dirlo: Hiro Takata è semplicemente indimenticabile oltre che adorabile! E’uno di noi, seppur in versione molto comica ed esagerata, ed è impossibile non aver mai provato almeno una sola delle cose capitategli. Sfortunato in amore e in lavoro (appena ne trova uno lo perde con estrema facilità dopo pochi giorni per i motivi più assurdi), desideroso di essere accettato dagli altri, pieno di dubbi e insicurezze sul mondo, sulla società, e in particolare sulla propria identità, molto legato ai propri cari ma soprattutto… Simpaticissimo! Tutte le disavventure che capitano al povero Hiro sono raccontate con una verve talmente umoristica che non possono assolutamente lasciare indifferenti, essendo la dolce semplicità di una vita, condita con uno stile di scrittura non complesso e uno humor brillante, ciò che c’è di più bello quando si ride.
E quando qualcosa va bene… Che altro si può fare se non commuoversi per quel gran mito di Hiro dopo tutte le delusioni che ha dovuto ricevere?
Poche volte mi è capitato di ridere e piangere contemporaneamente leggendo un libro. Ebbene, dopo tanto tempo ho nuovamente sorriso fra le lacrime mentre il mio sguardo lucido si posava su questa meravigliosa storia.
“Dio odia il Giappone” non è solo un libro: è l’esaltazione stessa dei sentimenti di ogni tipo, accompagnata dal loro richiamo, rimpianto e rifiuto da parte di ogni personaggio.
Che altro dire, quindi? Tuffatevi insieme ad Hiro in questo Giappone decadente e divertentissimo! Non ve ne pentirete!
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Una questione di stile
Questo libretto dovrebbe essere la rilettura della leggenda di papa Gregorio Magno secondo cui egli sarebbe nato da un rapporto incestuoso e ne sarebbe stato a sua volta vittima.
Ebbene il problema è che non sembra una rilettura, ma piuttosto una stesura in prosa, una parafrasi, quasi una versione di latino tradotta da uno studentello del liceo alle prime armi.
Infatti la vicenda di questo Edipo medievale e della sua amartìa (“colpa tragica” in greco, ovvero una colpa commessa inconsapevolmente), oltre che la sua espiazione e il suo cammino di redenzione, sono trattate in modo estremamente sbrigativo, superficiale e troppo, troppo ripetitivo (ad esempio, la vita e gli accadimenti di certi personaggi vengono ossessivamente ribaditi per almeno cinque o sei volte nel giro di una ventina di pagine) e le singole emozioni provate sono solo parole su carta.
Come se non bastasse, la scelta di “copia-incollare” filo per segno i contenuti del poema da cui il romanzetto è tratto non ha dato il minimo spessore psicologico a nessuno dei protagonisti, rendendoli più anonimi di un fantasma.
Ovviamente, dopo tutto quel che ho detto, non bisogna aspettarsi un affresco storico ben definito date le descrizioni minime ed essenziali, e se non avessi saputo dalla quarta di copertina di leggere un romanzo ambientato nel XII secolo, non ci avrei mai creduto.
C’è da dire, tuttavia, che il linguaggio utilizzato è veramente raffinato e ricorda molto quello usato dagli antichi trovatori medievali e quell’aura antica che manca nelle già scarse descrizioni si può quasi sentire come una brezza molto leggera, un profumo poco intenso ma entrambi piacevoli.
Per concludere posso dire che, secondo me, l’autrice avrebbe dovuto “metterci del suo” nel libro, interpretarlo e arricchirlo secondo i propri gusti e scelte personali, creando così un vero e proprio mondo ben definito sebbene ormai trascorso, anche se posso capire che abbia voluto evidenziare maggiormente l’aspetto emotivo-divulgativo (per quanto di emotivo ci sia) della storia, piuttosto che concentrarsi sui restanti fattori esterni.
Lo consiglio soltanto a chi cerca un romanzo storico breve senza troppe pretese.
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Amori ed equivoci a Messina
Premessa: non nutro una fortissima simpatia per Shakespeare. Non metto assolutamente in dubbio che dimostri sempre uno stile impeccabile, molto raffinato e pulito nei suoi componimenti, ma le sue storie non mi coinvolgono come dovrebbero. “Romeo e Giulietta” non mi ha colpito particolarmente, così come “Macbeth”, e ho semplicemente odiato “La commedia degli errori”. Quindi l’idea di leggere un’altra opera del celeberrimo drammaturgo mi aveva trasformato nell’ “Urlo” di Munch (sì, sono stata costretta a leggerlo per motivazioni recitative - teatrali) anche se, devo ammetterlo, non avevo mai sentito nominare questo titolo fra i suoi componimenti e un po’di curiosità mi era venuta. (Non so sia uno dei suoi lavori meno famosi o sono io che sono poco documentata al riguardo). Magari mi sarei trovata qualcosa di bello fra le mani e fortunatamente così è stato.
Dunque: siamo a Messina, in un aristocratico ambiente di corte di fine Cinquecento, dove seguiamo principalmente le vicende di due coppie: la prima costituita da Claudio ed Ero, la seconda da Beatrice, cugina di Ero, e Benedetto, un caro amico di Claudio.
Ma se fra i primi è amore a prima vista, gli ultimi due, invece, non si possono nemmeno guardare in faccia senza prima essersi pesantemente insultati (e secondo voi come andrà a finire fra loro)?
La storia si dipana quindi fra feste, balli, travestimenti, complotti, inganni, calunnie e fraintendimenti, dove i nostri quattro eroi faticheranno non poco per coronare (o ammettere) il loro amore, aiutati dai famigliari, quanto da personaggi buffoneschi e astuti.
Chiariamoci: l’inizio della commedia è una pizza. All’inizio vi sono, infatti, praticamente e unicamente chiacchiere da salotto, gossip e pettegolezzi tipici di una corte, tanto che ho pensato più volte di abbandonare il libro, ma ho tenuto duro sperando in una svolta (ovvero il fattore che innescherà gli equivoci) che, grazie al cielo, c’è stata e mi ha fatto apprezzare il tutto.
Anche se a mio parere la trama è piuttosto prevedibile e banalotta (in quante migliaia di commedie, in fondo, si trovano degli intricati nodi di errori e fraintendimenti da districare?), non ho potuto fare a meno di affezionarmi a tutti i protagonisti, in primis Benedetto e Beatrice, quest’ultima in possesso di un carattere veramente forte, tenace e testardo, oltre che di una lingua velenosissima e una bocca capace di sputare pesanti sentenze. Non bisogna pensare, però, che sia una bisbetica megera, al contrario, più volte si dimostra molto dolce e protettiva nei confronti della cugina e detentrice di sentimenti profondi che non ha il coraggio di rivelare. Però… Che dire? Mi piacciono troppo le tipette tutto pepe nate in un’epoca sbagliata!
Claudio ed Ero, invece, suscitano quasi tenerezza nel loro candore, innocenza ed ingenua esperienza d’amore. Lui, timido nella materia di Cupido ma valoroso nella vita e nella guerra, si lascia un po’ troppo influenzare dalle circostanze, dalle maldicenze e dalle persone, senza mai verificare che ciò che gli viene riferito sia tutto vero. Oserei definirlo lunatico, proprio come Leonato, il padre di Ero, che un secondo prima adora la figlia, poi la vuole morta e sofferente e subito dopo la riama! Ma che bel padre, tutti dovrebbero averne uno così! Vabbè, siamo nel Cinquecento, concediamogli il fatto di possedere una mentalità arcaica e superata.
Ero, forse uno dei personaggi meno caratterizzati, non dice molto nell’opera, ma è perfettamente intuibile quanto bene rivesta il ruolo di delicata e fragile verginella di turno.
Come dimenticare, poi, Carruba e Sorba, i soldati della ronda? Saranno anche i dei ex machina della vicenda, ma sono simpaticissimi! Personaggi sì diligenti e scrupolosi nel loro lavoro, ma terribilmente comici nella cura superflua della loro dignità e integrità morale anche nei momenti più seri e peggiori. Non c’è una sola battuta che dicessero che non mi abbia divertita.
Concludo rivolgendomi a te, caro Shakespeare: stavolta mi sei piaciuto e chissà che in futuro i miei occhietti non cadranno su qualche altro tuo lavoro.
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Gli amici diversi
Poche parole, poche pagine, frasi semplici accompagnate da illustrazioni altrettanto belle ma essenziali; il tutto intriso di contenuti intensi e profondi.
Così si potrebbe riassumere sinteticamente questo grazioso romanzo breve (anzi, brevissimo) di Luis Sépulveda, nonché sua ultima fatica e mia introduzione nel mondo letterario di quest’autore.
Il tema trattato (l’amicizia col diverso) è ivi affrontato dalla relazione che nasce tra “un gatto cieco dal profilo greco” di nome Mix, un topo (Mex) e, in secondo piano, abbiamo anche un uomo (Max), il padrone del felino.
Mex sarà gli occhi di Mix, e quest’ultimo la fonte di coraggio e di vita del topolino e la storia si dipana per tutto il tempo in tal modo: narrando delle gesta apparentemente banali e quotidiane, oserei dire “umane”, ma così toccanti nella loro scontatezza, di questi due amici diversi e uniti.
Eppure, per quanto un’immensa dolcezza emerga da questo libretto, non sono riuscita ad apprezzarlo fino in fondo.
Prima di tutto perché ho fatto confusione: con tutte queste similitudini fra i nomi dei tre protagonisti, più di una volta ho confuso gatto con topo, gatto con umano, topo con gatto, umano con gatto, topo con umano… Mix, Max, Mex, Mix, Max, Mex…. Aiuto! Posso capire che la somiglianza delle denominazioni voglia evidenziare e rafforzare il legame del trio, ma un po’di fantasia nominale non sarebbe stata male.
E poi, diciamocela tutta, il topo (che mi sembra di ricordare sia Mex) è abbastanza insopportabile e irritante: oltre ad essere uno snervante chiacchierone, continua perennemente a ripetere le stesse identiche cose (che, più che altro, sono capricci personali, piagnistei, attacchi di fame e aggettivi superlativi dati a qualunque cosa gli capiti sotto tiro)!
Niente a che vedere con il saggio, pacato e affettuoso Mix (che è il gatto, vero? Cappero, sono ancora confusa)!
Poi, forse è una mia impressione, ma questo libro a volte è eccessivamente buonista: ogni tre per due, infatti, spuntano fuori frasi fatte come “Gli amici si vedono sempre nel momento del bisogno”, “Gli amici non dicono mai bugie fra di loro”, “Gli amici condividono sempre tutto: sia le cose belle che quelle brutte”, “Gli amici sanno sempre ascoltare”… Ma basta! Ancora un po’ e ci facciamo la pubblicità del “Mulino Bianco” o i bigliettini dei “Baci Perugina”!
Dopotutto, cosa c’è di più bello di una morale implicita che il lettore scopre con il proprio cuore, leggendo il libro e divorando storia, parole e pagine? Trovo che sia molto brutto farsele “sbattere” così evidentemente in faccia, negli occhi, come un francobollo su una cartolina.
Infine, avrei voluto che fosse più lungo: ci sono troppe poche pagine, troppi pochi dettagli. E’vero che ci si può tranquillamente affidare alle illustrazioni presenti, all’immaginazione personale e alle sintetiche descrizioni, ma le emozioni provate dai singoli personaggi sono appena abbozzate, e l’arricchimento di qualche evento narrativo avrebbe reso il tutto perfetto e ancora più profondo.
A parte ciò, devo ammettere che sono entusiasta di aver conosciuto Sèpulveda con questo piccolo gioiellino e sicuramente leggerò altro di lui.
Consigliato e adattissimo sia per piccini che per adulti.
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Piccolo romance
Non so proprio cosa dire, e per tanti motivi.
E’un racconto semplice, molto breve, ma piuttosto carino e scritto bene.
Il linguaggio è fluido, scorrevole ed essenziale esattamente come mi piace trovarlo in un qualsiasi libro. E che dire poi delle scene d’erotismo così sottintese, poco esplicite e delicate? Mi hanno suscitato una tenerezza indicibile, trasmettendomi il timore e la fragilità di questa protagonista che si finge più forte di quanto sembri (chi, almeno una volta non si è mai immedesimata in Alice Charlus)?
Eppure in un certo senso avrei voluto che fosse più lungo e dettagliato.
Non metto assolutamente in dubbio che sia una storia dolce e simpatica che alterna momenti di comicità ad altri di profondità, e i personaggi sono sufficientemente caratterizzati in tutta questa brevità narrativa, però… Ecco, capisco che l’autrice abbia voluto descrivere una determinata situazione che avesse scopi ben definiti e precisi (e ammetto che sono anche io che pretendo troppo) ma a mio parere sarebbe stato più bello se il percorso di “formazione amorosa” tra i due protagonisti fosse stato approfondito e arricchito di particolari, magari inserendo pure qualche flashback che parlasse dei loro rispettivi passati.
Detto ciò, rimane comunque un racconto veramente bello e che dimostra che l’autrice ci sa proprio fare con carta, penna e fantasia. O computer, tasti e fantasia, è uguale.
Bravissima S.M. May!
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L'Io e l'Es
Posso dirlo con assoluta certezza: questo è il libro più inquietante di Amelie Nothomb che io abbia mai letto, oltre che, a mio parere, uno dei suoi più belli.
Fidatevi di questa affermazione: parla una che ha letto quindici libri scritti da questa donna dalla pazza ed inesauribile fantasia.
Ebbene, perché reputo il romanzo come tale? Semplicemente perché è reale.
Anche se è scritto con i toni macabri, bizzarri, filosofici e contorti che contraddistinguono l’autrice, era da tempo che non sentivo sulla pelle una realtà, una verità così schiacciante e dura da accettare, tanto da essere sepolta nei meandri più intimi e profondi dell’anima umana, con la speranza di dimenticarla.
E il protagonista di quest’opera, bloccato in un aeroporto e costretto suo malgrado ad ascoltare un chiacchierone rompiscatole, che ben presto si rivelerà in tutta la sua oscurità interiore, si accorgerà del male ormai compiuto e che si annida al suo interno, proprio grazie al suo indesiderato compagno di logos.
La follia che spiega la vita.
La pazzia che giustifica tutto.
La vergogna e il senso di colpa che occultano il male.
L’incapacità di ammettere una colpa.
Ecco in cosa consistono il linguaggio e lo stile di “Cosmetica del nemico”.
Con continui e volutamente disgustosi colpi di scena che esplodono a ripetizione come dinamite sparsa ovunque, dialoghi serrati che avvolgono nelle spire della malvagità e della pura perversione come tentacoli di una piovra gigante, in aggiunta ad un vortice di confusione e analisi psicologica dell’animo umano, questo libro è un invito alla riflessione della propria personalità, uno specchio che riflette l’anima e non il corpo.
“Chi sei tu veramente? Che cosa hai fatto davvero? Sei proprio sicuro di quello che credi?”. Sono queste le domande che il romanzo pone indirettamente al lettore.
E’ una feroce battaglia tra i desideri e le pulsioni dell’Es dominati a fatica dall’Io.
Se Freud avesse letto questo libro, avrebbe senz’altro stretto la mano a quella dea della Nothomb.
Da leggere senz’altro se non si ha paura della verità, dell’orrore, e della duplicità umana, ma soprattutto del particolarissimo stile di Amelie.
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Distanza emotiva
Dopo cinque libri praticamente perfetti di questa saga che tanto amo credevo che, con il proseguimento dei vari romanzi, non sarei mai stata delusa dalla Ward e dalla mia adorata Confraternita del Pugnale Nero.
Beh, purtroppo mi sbagliavo: questo sesto volume è di gran lunga quello che fra tutti mi è piaciuto di meno.
Innanzitutto bisogna precisare una cosa fondamentale: in “Oro sangue” l’autrice attenua i toni romance-erotici per contenuti maggiormente corali e collettivi. Non si concentra semplicemente sulla coppia protagonista, ma descrive minuziosamente e costantemente le vicende di tutti i personaggi secondari.
Questa scelta, già fatta per i romanzi precedenti, viene ampliata e arricchita ancora di più grazie anche a numerosissimi colpi di scena e rivelazioni totalmente inaspettate e spiazzanti che fa sempre piacere leggere e che coinvolgono a sufficienza. Però, al tempo stesso, questa decisione per una romanticona come me è stata una piccola tragedia: pur interessandomi a questi personaggi di contorno (chi più chi meno), desideravo sapere con tutta me stessa come proseguiva il rapporto fra Phury e Cormia, i due protagonisti, considerando fra l’altro che il loro era un matrimonio combinato e…. Niente. E’stata la ciliegina sulla torta delle delusioni, anche se non dal piano individuale.
Per quanto riguarda Phury, che sembrava il vampiro più tranquillo, pacato e gentile di tutta la banda, qui si affronta il suo profondo tormento interiore, legato ad un amore impossibile, un passato tragico di solitudine e desolazione che riaffiora costantemente e che non è riuscito a cambiare, il gravoso compito divino a cui ha accettato di adempiere e, last but not least, la sua tossicodipendenza.
Cormia, la Prima Sposa assegnata a Phury per volere divino, dovrà imparare a vivere in una realtà che non ha mai conosciuto e far fuoriuscire le sue passioni represse per essere una parte del tutto, avendo così annullato la sua identità.
Ecco, le evoluzioni interiori appena citate dei protagonisti sono rese veramente molto bene, si vivono appieno e si seguono con vero interesse.
Ma devo proprio dirlo: come coppia, Phury e Cormia non mi sono piaciuti granchè.
Passi per il fatto che sono stati obbligati a sposarsi, che devono imparare a conoscersi e ci vuole molto tempo per queste cose ma… Diamine, che lentezza!
Il loro amore vero e proprio comincia dopo circa quattrocentocinquanta pagine, e il libro ne ha cinquecentoquarantanove! Oltretutto non sono sicura che il loro sia vero amore: per quanto l’autrice tenti di descriverne la profondità e la passionalità, io ho sempre percepito una certa distanza fra i due, una piccola lontananza emotiva ed empatica. Mi sono sembrati una coppia un po’forzata, immobile, quasi finta direi.
Non parliamo del finale! Non intendo certo rivelarlo, però mi ha lasciato l’amaro in bocca con i suoi interrogativi e assurdità.
Ma poi, è una mia impressione o lo stile della Ward in questo libro è diventato improvvisamente grezzo ed esageratamente colloquiale?
Giudizio complessivo: carino ma, a mio parere, il meno bello della saga.
Spero di rifarmi con il settimo.
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Ritorno al passato?
Oh sì! Nell’ultimo libro pubblicato da Amelie Nothomb c’è proprio tutto quello che adoro di lei: dialoghi interminabili conditi con un alone di mistero, suspense, pieni zeppi di enigmi, cultura, filosofia, sarcasmo ed elementi macabri.
Perché, dunque, non ho dato il massimo dei voti? Semplicissimo: perché questo romanzo puzza terribilmente di riciclaggio! Sa di roba già vista e sentita mille volte!
Non mi riferisco ai dialoghi che tanto amo e che mantengono sempre accesi toni d’inventiva etica, frizzante originalità e mi risultano sempre bellissimi, ma alla trama, che mi è sembrata un misto di alcuni dei romanzi della Nothomb scritti precedentemente, primo fra tutti “Causa di forza maggiore”, dove i due protagonisti non fanno altro, per tutta la durata della storia, che chiacchierare seduti immobili e trangugiare champagne. E qui avviene la stessa identica cosa!
Per di più Don Elemirio, per quanto mi sia piaciuta la sua mentalità rimasta ai tempi dell’Inquisizione spagnola, la sua ossessione religiosa e la sua insolita ma poetica passione per l’oro quanto il suo lato “dolcemente perverso” (mi piace definirlo così), sembra la brutta copia di Pretextat Tach di “Igiene dell’assassino”, per la sua misantropia (anche se più leggera), passato oscuro, segreti, perfino per quello che gli accade durante la storia!
Non parliamo di Saturnine, poi! Indifferente alla seduzione, coraggiosa, determinata, forte… Oh, ma guarda! Anche Pannonique di “Acido solforico”e Francoise di “Mercurio” erano tali e quali!
Mi duole dirlo, ma leggendolo, oltre a sentirmi leggermente presa in giro, avevo la triste impressione di avere fra le mani un perfetto esempio di “copia-incolla” che ha reso la lettura pesante, come quando si rileggono tante volte gli stessi argomenti su un volume scolastico per prepararsi ad un’interrogazione.
Ho un dubbio: e se la Nothomb fosse stata a corto di idee e avesse preso le formine della sua fantasia, precedentemente utilizzate nei suoi capolavori, per imprimerle sulla carta per l’ennesima volta? Mi auguro che non sia così.
Tuttavia, non è affatto un libro da buttare. E’solo un po’ripetitivo, non uno dei migliori dell’autrice, ma vale la pena leggerlo per tutte le metafore e le splendide e tetre assurdità che contiene.
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Eros e Thanatos
Può una bellezza così immensa essere racchiusa in un libro così piccolo? Possono la dolcezza, lo struggimento, la rabbia, la tristezza, la felicità e l’indignazione danzare a braccetto e in armonia in una tragedia di poche pagine, talmente arcaica da sembrare lontanissima dal nostro sentire comune? Per me sì.
L’ “Alcesti” è una delle opere più belle che io abbia mai letto; l’ho amato a tal punto da averlo divorato in poche ore, e di certo non solo per la sua brevità.
Ho perfino pianto, mi ha veramente commosso, lasciandomi un dolce peso sul cuore e che ancora adesso me lo schiaccia nella sua tenera morsa, per cui faccio non poca fatica ad esprimere tutto quello che ho provato e che il libro mi ha lasciato.
Innanzitutto si nota subito che il vero protagonista della tragedia è il sentimento. I sentimenti, per essere precisi. Perché Alcesti, sebbene dia il titolo all’opera, scompare dopo le prime pagine. Muore dopo aver dato un lungo e struggente addio ai figli e all’amato marito Admeto per cui ha accettato di morire, sostituendolo nel suo triste fato. Sarà solo la sua memoria a rivivere durante la narrazione. Alcesti verrà ricordata da tutti (servi, popolo, famigliari…) per la sua immensa bontà d’animo, per essere stata un’ottima e virtuosa moglie, madre, padrona e regina, ma soprattutto per il suo estremo sacrificio. Il titolo, quindi, esprime una rievocazione spirituale ormai passata, più che indicare un personaggio vero e proprio.
Ma è sicuramente Admeto la figura più enigmatica, multiforme e tormentata di tutti. Colui che Thanatos, la morte, voleva portare nell’Ade e che ottenne da Apollo la possibilità di salvarsi da tale sorte, a patto che qualcuno prendesse il suo posto. Né gli amici, né gli anziani genitori avevano intenzione di farlo. Solo l’adorata moglie.
Admeto è il dolore che piange senza fine la donna morta che tanto amava e che a sua volta ha dato prova di grande amore. E’la disperazione per un destino così crudele e irreversibile, è la rabbia e l’odio nei confronti del padre e della madre che, in tutto il loro egoismo, hanno mostrato un forte attaccamento alla vita, seppur ormai anziani, permettendo che morisse una giovane fanciulla nel fiore dell’età. Non una semplice donna, ma la sposa della carne della loro carne.
Anche Admeto, però, sembra che pecchi di egoismo: può indubbiamente sembrare ignobile che egli accetti senza tanti complimenti che qualcuno lo sostituisca nell’oscuro abbraccio di Thanatos ma, nell’ottica ellenica, è ancora più ignobile rifiutare un dono degli dei.
Inoltre, sebbene si evinca chiaramente la forte intensità del rapporto fra Alcesti e Admeto (nonché cardine stesso dell’opera e una delle sue componenti più belle), egli stesso, durante il triste e dolcissimo addio alla moglie, dice che non sposerà mai un’ altra donna perché, testuali parole, “nessuna è altrettanto nobile e bella come lei”.
In parole povere: “Ti ho sposato perché sei ricca e gnocca”. Non posso fare a meno di rattristarmi a questo pensiero, ma mi consolo pensando che ciò è solo una microscopica macchiolina se confrontata all’immacolata e immensa bellezza della tragedia.
Ma quello che più ho amato in assoluto nell’ “Alcesti” è senza ombra di dubbio Eracle. Il grande, possente e invincibile Eracle che qui mostra tutta la sua umanità e grandezza d’animo. Di passaggio nel regno di Admeto, mentre sta ancora compiendo le sue celebri fatiche, il semidio sarà ospitato da quest’ultimo nella sua reggia, in tutta la sua gentilezza, nonostante il grave lutto che l’ha appena colpito. Commosso da questo gesto e vergognandosi di essersi ubriacato in questo delicato momento, soprattutto dopo aver scoperto che la defunta è nientemeno che la moglie del suo ospite (e non una lontana e sconosciuta parente come Admeto gli aveva detto), il buon Eracle sconfiggerà Thanatos, riportando Alcesti al suo adorato sposo e creando così un lieto fine.
Potrà sembrare assurdo, ma è stato proprio il gesto di Eracle a commuovermi: per un torto pressoché piccolo, almeno secondo la nostra ottica occidentale e moderna, egli per rimediare fa un favore così grande, se non addirittura impossibile.
Non so, questa azione mi ha toccato profondamente. Forse perché non succedono più fatti del genere e sarebbe bello che accadessero ancora.
Oltre ad essere l’unico elemento comico della vicenda, questo semidio mi ha suscitato una forte tenerezza, come se mi trovassi davanti un gigante apparentemente cattivo che piange come un bambino. Insomma, qui siamo lontani dalle sue imprese che lo disegnano come un uomo distruttivo e pericoloso, preferendo evidenziarne la sua sensibilità. E io ho a dir poco adorato questa scelta.
Concludo chiedendo venia per l’eccessiva lunghezza della recensione e per le varie ripetizioni presenti, ma quando un libro mi è piaciuto così tanto non riesco a trattenermi e ad articolare qualcosa di sensato e ordinato. Devo buttare tutto fuori così come viene.
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La bellezza del dubbio
Fisica e metafisica: le due dottrine a cui il grande Aristotele dedicò gran parte della sua filosofia. Riteneva la fisica “l’essere in movimento”, mentre la metafisica “l’essere in quanto essere”.
Cosa sarà mai, dunque, l’essere in quanto essere della Nothomb? Un tubo. Anzi, Dio tubo, per la precisione. Identificandosi come Dio, l’autrice descrive i suoi tre primi anni di vita trascorsi nel suo amato Giappone, partendo proprio dal momento della sua nascita, in cui era un qualcosa di immobile, apatico, vuoto e insensibile come… Un tubo, per l’appunto, passando dopo i primi due anni ad una fase instabile nella quale, urlando, esprimeva la sua rabbia contro il mondo, per il semplice fatto di non riuscire a comunicare con esso per rivelargli la propria onnipotenza, fino alla scoperta del piacere (grazie all’assaggio di una barretta di cioccolato) che la convincerà ancora di più, nella sua ingenua e infantile mente, di essere Dio, a cui tutti devono obbedienza e rispetto.
Dopo questo incipit oltremodo contorto e assurdo, Amelie alcuni eventi di questa fanciullezza divina (letteralmente), evidenziando notevolmente il proprio amore per la terra nipponica e il rapporto con la sua famiglia, in particolare con l’amatissima governante Nishio-san.
Non mi piacciono né le biografie né le autobiografie, in quanto, secondo me, lente, non coinvolgenti ed entusiasmanti quanto un romanzo, ma insomma… Amelie Nothomb è la mia scrittrice preferita! La mia dea. Il mio idolo. Il mio mito. Amelie è Amelie. Per cui, ho letto “Metafisica dei tubi” in nome dell’amore smisurato che nutro nei suoi confronti. Quindi l’amore mischiato all’odio durante la lettura… Beh, anche se non del tutto, mi hanno fatto apprezzare questo libro.
Fin dalle prime pagine si entra in un piacevolissimo ed etico stato di confusione pressoché totale: “perché è così, perchè lei pensa così, perché dice di essere Dio, perché un tubo, perché Dio tubo, perché, perché, perché”….
La cosa che più mi è piaciuta è che qui l’autrice non si limita soltanto a raccontare episodi della sua infanzia e ad entrare in un modo impeccabile, quasi perfetto, nella propria psiche di bambina di due anni, ma inserisce, nella psiche stessa, tutta la sua filosofia, morale ed etica. “Ma come fa una bambina di tre anni a pensare tutte queste cose complesse?” è lecito chiedersi. Quanta verità c’è, quindi, in questi ricordi infantili? Sono accaduti veramente o sono frutto della fantasia della Nothomb? Non si sa.
Mi piace denominare quest’aspetto “bellezza del dubbio”: più una cosa è strana, segreta e misteriosa, più mi affascina. Perché svelare e spiegare tutto? Certe volte, come in questo caso, dubitare crea uno spazio maggiore per l’immaginazione del lettore, rende ancor più partecipi della vicenda e, perché no, si può perfino diventare artefici stessi di un ipotetico seguito, anche se non ufficiale.
Naturalmente vi sono pure racchiusi aneddoti, parecchi molto noiosi e poco interessanti, lo ammetto, che è facile credere che siano veri, perfino commoventi o estremamente comici, dato che sono pur sempre intrisi dell’infantile ingenuità e fantasia spropositata di una bimba di tre anni.
Concludo questa recensione imprecando contro la mia Amelie perché, per colpa dei suoi libri bellissimi ma dai contenuti intensi e complessissimi, faccio sempre una fatica immane a recensirli.
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Ohibò, che orrore!
Rosa Matteucci si è sbagliata nel titolo: le donne (almeno quelle come me) non perdonano nemmeno i rettangoli di carta come questo.
Non esagero nel dire che questo sia uno dei peggiori “libri” che mi siano capitati fra le mani (e forse fra i peggiori al mondo). Perché purtroppo al giorno d’oggi si pensa che basti scrivere un libro, anche il più orrendo di tutti, per potersi definire “scrittore”.
Ebbene, di cosa parla? Non l’ho proprio capito per colpa dell’accozzaglia disordinata di svariati elementi narrativi piazzati a casaccio. O meglio, io ho capito così: due donne dallo spessore psicologico della carta igienica vogliono conquistare gli uomini che amano e che non se le filano nemmeno di striscio (addirittura una delle due ama così tanto il suo uomo, che per tutta la storia lo chiama per cognome)!
E fin qui tutto ok, potrebbe svilupparsi una buona storia… Peccato che l’autrice sfoggi in maniera assolutamente pessima tutta la sua “cultura”, infarcendo il tutto con citazioni completamente casuali di intellettuali, scrittori, registi e filosofi dei secoli passati, di pubblicità e attualità, oltre a metafore e paragoni che non c’entrano un bel niente con la trama, rovinandola fino a sfociare nella volgarità fine a se stessa.
In confronto il diario che scrivevo io a dodici anni era la Magna Charta Libertatum.
Per dimostrare tutto lo squallore di questo rettangolo di cellulosa, vi riporto qualche citazione presa direttamente da esso:
“Al posto del principe azzurro non c’è più nessuno, come la sagoma vuota dei profili fb dei navigatori che ancora non hanno messo una foto, o che non vogliono farlo.” (Che poesia! Sono commossa!)
“E il desiderio, che c’era da tanto tempo, virava deciso verso l’amore conclamato spingendo il carrello, col sedere appuntito in fuori.” (Eeeeeeeeh???)
“Marta non permetterà che Valentina si intrometta nella vita di Francesco, perché lei lo ama tutto, comprese le sue escrescenze carnose emorroidali.” (…. Beh, buon per te!)
"La tristezza galoppa nel mio cuore come il cavallo bianco della pubblicità del bagnoschiuma Vidal".
“Gli uomini guardano nel vuoto, ormai allocchiti, catturati dalla seduzione animale della resina bruno-rossiccia che si estrae dall’uretra di un ignoto ruminante del Tibet.” (Questa li batte tutti. No, sul serio, è la mia preferita.)
E queste sono solo alcune! Bisognerebbe postare tutto quanto il rettangolo per capirne la bruttezza! Se potessi, gli darei zero stelle, e l’uno qui presente va solo alla bellissima copertina.
Mi raccomando, non leggetelo per nessuna ragione al mondo! Un giorno mi ringrazierete per questo avvertimento. Evitatelo, evitatelo, evitatelo!
D’altronde, come si dice in questi casi? Ah sì: “Uomo avvisato, mezzo salvato”.
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Pane, misteri e colori a Parigi
Io sono cresciuta a pane e arte, e nutro un amore viscerale per gli Impressionisti fin da bambina, perciò le mie aspettative per “Sàcre bleu” erano assai elevate.
Contando che poi era una sorta di derisione nei confronti dei suddetti artisti, si prospettava una lettura molto piacevole e divertente per chi è dotato di autoironia (uso questo termine perché, quando si parla di Impressionisti, mi sento chiamata in causa, quasi fossimo un’unica entità).
E invece no, non fa assolutamente ridere, se per ridere s’intendono tutte le volte in cui i personaggi prendono baguettes e botte in testa, inciampano (ormai queste cose non fanno più divertire nemmeno nei cartoni animati, anche se nessuno sembra capirlo), dicono parolacce, volgarità e doppi sensi. E non fa nemmeno ridere il fatto che siano stati tutti, ma proprio tutti, trasfigurati in creature perennemente arrapate e vogliose.
Perché il sessanta per cento del libro è questo: pittori che vanno a letto con donne.
Mi sono perfino domandata se stessi leggendo un romanzo erotico sotto mentite spoglie o un cinepanettone in versione cartacea.
Nemmeno la parte thriller è questo granchè: c’è questo Colorista, un ometto basso, grasso e deforme che appare e scompare in continuazione, che, oltre a vendere i colori che fabbrica, procura agli artisti le donne con cui… divertirsi.
Mah, più che un colorista, mi è sembrato un pappone/magnaccia e la sua figura, più che catturare il mio interesse, mi ha solo infastidita, come un’onnipresente mosca ronzante.
Non ci sono molti colpi di scena, e i pochi presenti hanno rivelato la mia espressione facciale: come quella di una statua, ovvero immobile, ferma, immutabile, impassibile.
Ormai nulla riusciva più a coinvolgermi. Perché sì, il libro è noioso durante la prima metà, molto noioso, e terribilmente lento, anche se scritto bene. Fortunatamente nella seconda parte il romanzo è riuscito a ricatturare la mia attenzione, grazie ai misteri che diventano più intriganti e coinvolgenti.
Comunque vengono raccontate tante storie diverse, con tanti protagonisti diversi, ma in una maniera improvvisa, molto confusionaria, senza un preciso ordine cronologico (si passa dal 1100, al 1400, dal 2000, al 1800 fino all’epoca dell’Impero Romano…), senza nemmeno qualche spazietto bianco che consenta di capire il cambio di narrazione, tempo, argomento…
Mai visto, inoltre, un protagonista più dimenticabile di Lucien: un fannullone privo di personalità e volontà che sa solo parlare a vanvera, e farsi comandare a bacchetta dalla sua… “musa ispiratrice”, chiamiamola così, per cui sbava come un fox terrier davanti ad una bistecca.
L’unica cosa che salvo di questo romanzo sono gli Impressionisti stessi che, seppur costantemente arrapati, sono stati davvero ben caratterizzati, dotati di una vera anima, desideri, sogni, tormenti, e vederli interagire fra loro è stato… Beh, quasi commovente, come se me li fossi trovati realmente davanti. Perciò, parlo da folle appassionata di questi idoli, non credo che siano stati totalmente rovinati.
Un altro punto va sicuramente a favore dell’affresco storico della Parigi di fine Ottocento che, seppur nella sua piccolezza e marginalità, si sente e si percepisce sulla pelle.
Vi sono pure dei capitoli-intermezzi che parlano un po’ della storia della pittura, dell’arte e del colore che fa sempre piacere leggere, e incredibilmente li ho amati molto più delle vicende di Lucien e degli Impressionisti.
Per il resto, però, “Sàcre bleu” è stata una parziale delusione. Si poteva fare molto di più rendendolo più coinvolgente, meno pesante, più ordinato cronologicamente e soprattutto più simpatico e con un protagonista più memorabile.
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Tra le onde
Leggere questo libro per me è stato un po’come trovarsi in mare aperto, spesso senza nemmeno essere a bordo di una barca. Un mare abbastanza agitato, ma non pericoloso, relativamente tranquillo, portatore di qualche scossone e che torna quieto improvvisamente e a lungo, ma niente di più. Questo era il mio stato d’animo nel corso della lettura.
In fondo il contenuto apparentemente è semplice, anche se sembra una sfida: Irene, la protagonista della vicenda, racconta tutta la storia della sua vita al suo amante in una sola notte.
Il bello e il brutto della questione è proprio questo: tutti questi singoli eventi, narrati a poco a poco, apparentemente non mi sono sembrati niente di che, soltanto semplici e comuni fatti e tragedie di vita quotidiana senza niente di particolare (oltre ovviamente a colpi di scena spiazzanti e scene splatter descritti con abile maestria) che potrebbero capitare a chiunque e che spesso e volentieri mi hanno suscitato un misto fra noia, indifferenza, coinvolgimento e stupore a seconda dei vari casi e tipologie di contenuto, ma è Irene stessa a renderli davvero speciali, quasi unici e sempre più complessi e intricati (e la ringrazio per questo, altrimenti non sarei riuscita a finire il libro che, confesso, ho fatto un po’di fatica a terminare) grazie all’enfasi, l’entusiasmo e la memoria fotografica che vi infonde mentre parla al suo interlocutore che la ascolta attentissimo e affascinato.
Altra pecca, a mio parere: tutte queste vicende raccontate, nonostante siano alquanto particolareggiate e ben descritte, non mi hanno consentito in alcun modo di avvertire in Irene un minimo di personalità. Perché tutte le sue scelte non dipendono da lei, ma da qualcosa dentro di lei che chiama “magia” e che non ha una definizione ben precisa: azzardando un’ipotesi, si può classificare come un campanello d’allarme che le dice cosa fare o meno. Chissà, se questa magia fosse stata del tutto assente magari Irene avrebbe avuto un’anima vera e propria. Ma queste ovviamente sono considerazioni puramente soggettive. Fatto sta che non riuscivo nemmeno a capire se la protagonista fosse una donna insoddisfatta sentimentalmente o semplicemente vogliosa di amore carnale.
Il finale, poi, mi ha lasciato un po’l’amaro in bocca con tutti i suoi interrogativi.
Un misto tra noir, romanzo di formazione e autobiografia, oserei dire, che non è affatto male e che merita comunque di essere letto.
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