Opinione scritta da di artemisia

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di artemisia Opinione inserita da di artemisia    18 Marzo, 2011
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bahttrici

Ci eravamo tanto amati, Stefano mio.
Ero disposta a mollare baracca e burattini per scappare via con te.
Ma ora. Ti sei venduto. Hai acconsentito a raschiare il fondo del barile (non è questione di metrica, ma la poesia lasciamola ai poeti, che scrivere lasciando il margine a destra e accozzando strofette non è far poesia.)

Ma ho ceduto alla nostalgia, e per affetto ti ho letto, e mi sono fatta anche la risatella facile, che la Beatrice Portinari da beata a stronza me l'hai trasformata, e ho fatto la risatella su tutti i frusti stereotipi delle voci delle tue donne (Volano, la storiella acre che mi è piaciuta di più, di un vecchio e di un bambino racconta,non è un monologo per voce femminile, ma tant'è, pensavi che fossi tanto fessa da non accorgermene).
Ma la nota non te la perdono.
Perchè quella, ecco, te la potevi proprio risparmiare, su quella non ci posso passare.
Voglio credere che "per mostrare che esistono giovani attrice italiane di talento e non necessariamente devono essere ingoiate dalla televisione" non sia indispensabile la tua pennina.

(i libri fatti per batter cassa mi fanno diventare licantropa senza luna piena)

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di artemisia Opinione inserita da di artemisia    01 Marzo, 2011
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Incompletezza e giovinezza

“A volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane.”.
Il primo della trilogia degli antenati, in ordine di pubblicazione, è “Il visconte dimezzato”, fiaba dolce, un elogio/elegia della maturità e dell’esperienza.
Debito riconosciuto al Mr. Hyde di Stevenson, Calvino costruisce una storia fantastica in cui Il visconte Medardo di Terralba, dopo aver partecipato alla guerra contro i turchi e colpito da una cannonata, ritorna diviso in due metà.
Lo stesso uomo che raccoglie, nella metà destra, la predisposizione al male, e nella sinistra la predisposizione al bene.
Si penserà che la scelta tra le due metà non offre dubbi, invece sia la malvagità che la virtù sono, in senso assoluto, innaturali e disumane.
(che barba un uomo buono buonissimo, che orrore un uomo cattivo cattivissimo).
Conoscere, quasi potessimo sezionarli, il lato positivo e quello negativo del nostro essere, accettare l’imperfezione come elemento fondante dell’umanità, è ciò che può permetterci di percepire la pienezza e l’equilibrio nell’esistenza.
A volte però.
A volte non viene fuori un amalgama, ma un miscuglio.
E non tutti i visconti dimezzati riescono a riattaccarsi bene.

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di artemisia Opinione inserita da di artemisia    27 Febbraio, 2011
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Madre disordine

Victor è un sessuomane. Lavora come “personaggio” in un museo vivente che fossilizza l’America nell’anno 1734.
Ha la Madre in una clinica per malati psichiatrici, e paga le spese mediche attraverso un ingegnoso trucchetto che adotta nei ristoranti, fingendo di soffocare e facendosi salvare da qualche avventore, a cui si lega attraverso biglietti di ringraziamento e corrispondenti assegni di mantenimento.

Falso. Vero. E’ la trama superficiale.
Victor finge di soffocare la prima volta per liberarsi dalla Madre disordine. E’ una richiesta di aiuto. E’ una richiesta di stabilità. Soffoca, nei ristoranti, per lasciarsi salvare la vita e lasciarsi amare. Per dare un senso a sè offrendolo agli altri.
Ma è un inganno.
Anche il mondo è inganno. Le regole, le leggi per proteggersi, i finti divertimenti:tutto per sopravvivere alla vera natura del mondo: corruttibilità, malattia, degenerazione. Occlusione del colon. Blocco intestinale. Crampi, febbre, setticemia, arresto cardiaco.
La Madre lo sa e glielo ha insegnato.
Victor è dilaniato tra la Madre e il Mondo. Non riesce ad amare, ad essere vero. Soffre.
La sofferenza va anestetizzata.
Il suo anestetico è la dipendenza dal sesso. Victor è un sessuomane.
Victor dovrà soffocare la Madre, accettare la necessità della follia (dov’è il confine tra ciò che è vero e ciò che non lo è?) per ricostruirsi e ricostruire la sua vita.

E’ Palahniuk. Allucinato.
In “Soffocare” troppo volutamente disturbante.
In fondo, gli stessi temi del Fight Club. Individuo e società, dolore e vita, follia e amore, distruzione e rinascita. Ma quel libro è tutta un’altra cosa.

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di artemisia Opinione inserita da di artemisia    25 Febbraio, 2011
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Solitudini

Zuckerman , lo scrittore alter ego di Roth, ricostruisce la storia dello Svedese, spinto da una serie di circostanze casuali. Lo Svedese era stato per lo Zuckerman fanciullo, figura carismatica ed esemplare. E così si era conservata nel ricordo. L’evento casuale di un incontro tra ex-liceali è la spinta per riflettere sul passato.
Davvero lo Svedese era ciò che sembrava? L’incarnazione perfetta del sogno americano? La ricostruzione della storia dell’atleta ebreo biondo e vincente svela la falsità del suo “personaggio”, e attraverso lo smontaggio completo della sua maschera, viene distrutta l’immagine dell’America come luogo della felicità, del successo e della giustizia.
La Pastorale americana per eccellenza dura ventiquattro ore e cade nel giorno del ringraziamento. E’ una moratoria su ogni doglianza e ogni risentimento per tutti coloro che in America, diffidano uno dell’altro.
Perché di fatto, oltre l’apparenza, del sogno americano non resta nulla.

Ma una lettura in chiave esclusivamente legata alla critica della società è molto riduttiva.
Ciò che di più affascinante e pieno c’è nel romanzo è dato dalla capacità di Roth di entrare dentro i personaggi, dalla sua capacità di introspezione.
E ne viene fuori un quadro ancora più desolante e disarmante, perché nel fondo c’è una enorme, smisurata solitudine.
Lo Svedese è un uomo scomposto, scisso, delirante, ma nulla di ciò che è, appare. Anzi, lo sforzo continuo per mostrare l’apparente normalità non fa che dilatare il proprio dolore interiore.
Merry , la figlia adorata e intelligentissima, dal riconoscimento dell’abiezione del suo mondo, il mondo borghese e controllato, di cui l’inconsapevole padre è campione, arriva all’abiezione del suo corpo, al distacco da ogni materialità e contatto umano. "Mi sento sola", da piccolissima, e da adulta sceglie deliberatamente la solitudine.
Ma anche Dawn, in fondo è sola, mai riconosciuta e accettata dagli altri per quello che sente di essere.

Pastorale americana è un romanzo sulla solitudine umana, legata all’incapacità di leggere dentro gli altri, e di capire fino in fondo chi sono. E di leggere in noi stessi, per capire chi siamo.
Perché le nostre certezze possono essere smantellate in un soffio. Non è necessario che un figlio metta una bomba in un locale pubblico. Non è sufficiente abbracciare ogni forma di protesta o di alterità per trovare le risposte .
A volte basta un incontro casuale, per capire di avere sbagliato . Qualunque strada avevamo scelto di percorrere.
Ma nel giorno del ringraziamento facciamo finta di niente.
Quanti giorni del ringraziamento ci sono in un anno?

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di artemisia Opinione inserita da di artemisia    24 Febbraio, 2011
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Prima regola

Bisogna portare pazienza, e arrivare fino alla fine. E' li che si rivela per quel che è: un libro complesso, letterariamente affascinante, pluritematico: l’insofferenza verso il mondo contemporaneo, l’inadattabilità e le spinte eversive, l’amore che distrugge e salva, il tema del doppio. Tutto “bollito e schiumato” in uno stile febbricitante e alienato.
Il fight club è oltrepassare i limiti del dolore come catarsi. Purificazione.
Ma questo è solo il primo livello di consapevolezza a cui giunge il protagonista.
Distruggere tutto, anche se stessi,per rigenerare il mondo.
“Distruggeremo la civiltà per poter cavare qualcosa di meglio dal mondo”.
Il secondo è la consapevolezza del limite.
Lo scopo del Progetto Caos è la completa e immediata distruzione della civiltà.
Che cosa viene dopo nel Progetto Caos nessuno lo sa salvo Tyler. La seconda regola è che non si fanno domande.
I seguaci di Tyler sono scimmie spaziali. Non fanno domande e obbediscono.
L’alter ego di Tyler viola la regola. Domanda, chiede. Parla del fight club. Lascia le tracce nella fotocopiatrice dell’ufficio.
La terza consapevolezza è quella dell’umanità che salva e viene salvata, attraverso ciò che si ama.
E, nello specifico, è Marla.. La voce narrante incontra Marla e poi Tyler. Marla non ha la vita perfetta come quella della voce narrante. Marla è il disordine che genera Tyler.
"Io voglio Tyler. Tyler vuole Marla. Marla vuole me. Io non voglio Marla e Tyler non mi vuole per le palle, non più. … Senza Marla, Tyler non avrebbe niente."
L’alter ego di Tyler deve uccidere Tyler perché deve proteggere Marla. Deve salvarla.
“Dico che no, non so dirle che cosa deve succedere. E spingo l’uno, i due, i tre molari nella terra e i capelli e lo sterco e il sangue e le ossa per non lasciarli vedere a Marla”.
Così come Tyler deve far toccare il fondo alla voce narrante per salvarlo dal conformismo e lasciarlo amare Marla.
“Quel vecchio detto secondo cui uccidi sempre ciò che ami, oh bè, funziona in un senso e nell’altro”.
E, ovviamente, coloro che si soffermano sul carattere militaresco del fight club, che esiste nella testa e non nella realtà del protagonista, possono appropriarsi dei modi e dei simboli dello squadrismo anarcoide o di destra. Ma è cogliere solo l’olio galleggiare sulla superficie dell’acqua e non spingere la testa sotto.

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di artemisia Opinione inserita da di artemisia    25 Gennaio, 2011
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Coincidenze

I fatti letterariamente costruiti da Camilleri prendono le mosse da un avvenimento realmente accaduto, il soggiorno a Caltanissetta del nipote del Negus Sellassié tra il 1929 e il 1932.
Non un romanzo.
Una storia cucita attraverso "falsi" documenti ( lettere, ritagli di giornale, telegrammi, ordini di servizio) alternati alla "registrazione" di dialoghi, voci di popolo, di nobili, di amministratori, vescovi e gerarchi.
Per quanto inventate, le vicende che ruotano attorno al "principe negro", un impunito gaudente approfittatore (ma senza i fessi i furbi non campano) , rendono in modo sagace e assolutamente realistico la mentalità e la cultura del tempo.
Servile e ottusa.
E nella logica dei documenti ufficiali, nelle roboanti dichiarazioni di azione conformi alla fascistissima ideologia dell'apparenza, in nome della quale si coprono e si nascondono tante magagne, si possono riscontrare tratti straordinariamente attuali, propri dei nostri tempi, purtroppo.

Con i gialli seriali incentrati su Montalbano, Camilleri cede alla logica del mercato , ma la sua originalità e maestria viene fuori nelle opere a sfondo storico, come in questo piccolo e sfiziosissimo "libello".

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di artemisia Opinione inserita da di artemisia    24 Gennaio, 2011
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Bùmeran

Montediddio è un romanzo bellissimo. Un racconto di formazione. Di crescita.
E la crescita è una perdita.
La perdita della madre, primo doloroso passaggio, poi, la perdita del bùmeran, che modellava i muscoli del corpo fino a farli diventare vibranti e gonfi, la perdita della figura simbolica di Don Rafaniè, il mentore, vittima sacrificale scampata all'olocausto che conserva la sua innocenza fino a spiccare il volo. E mentre bumeran e Rafaniè spiccano il volo, il ragazzo che diventa uomo afferra l’ombra alle spalle di Maria, e la butta via, la butta via così duro che vola, vola di sotto, vola dalla terrazza di Montediddio.
Ecco che la sua crescita si è compiuta. E’ diventato uomo e ha perso l’innocenza.
Questo è il filo rosso del racconto. Ma moltissimi altri spunti di riflessione nascono dalla scrittura di De Luca: è una lingua piana, calma, ma non lenta. ( Come è possibile, perchè mi viene di associarla a Petrarca?) Anche gli spazi tra i paragrafi sembrano suggerirti una pausa, e il pensiero germina sulle note accennate dallo scrittore.

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di artemisia Opinione inserita da di artemisia    23 Gennaio, 2011
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M’è ‘mparat e m’è perduta.

“T’aggia ‘mparà e t’aggia perdere”.
Don Gaetano insegna all’orfano a giocare a carte e a giocare la partita della vita.
E l’orfano apprende la sua storia e quella della sua città, l’ammore, il dolore , il sangue, l’abbandono.
E apprende che la felicità non è che l’attimo tra la lunga attesa e il doloroso distacco.
Tuttavia trama e personaggi e sfondo (tra l’altro ricorrenti anche in Montedidio), sono un pretesto per parentesi evocative-educative su tematiche molto diverse.
L’impressione è quella di un racconto “diseguale” e “dissonante”. Resta, potente, la magia incantatrice della parola: la dolcezza dei suoni, la sostanzialità e rarefazione del linguaggio. Piuma, goccia e scintilla.
Però l’ho capito, e non mi infervora più. Con "Montedidio" è stato innamoramento puro. Ora gli voglio bene, senza sussulti del cuore né subbuglio dell’anima.
M’è ‘mparat e m’è perduta.

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Consigliato a chi ha letto...
consigliato a chi non ha letto nulla di De Luca, che per gli altri il "far cassetta" può irritare alquanto.
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di artemisia Opinione inserita da di artemisia    22 Gennaio, 2011
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Humanitas

Nonostante sia sempre prevenuta verso i giudizi entusiastici e le lodi sperticate, devo riconoscere: è fondo e sapido questo romanzo della Murgia.
Bella la scrittura, vischiosa, pastosa. Frasi di una densità e di una forza espressiva straordinaria, materia vitale.
"Tra quelle pieghe di gonna e di donna Maria intuì per la prima volta la bellezza che non era più, e la ferì l'assenza di qualcuno che ne conservasse memoria."

La scrittura trascina dentro una storia che è insieme archetipa e nuova.
La Sardegna nella quale si muovono i personaggi non è arcaica, siamo tra gli anni '50 e gli anni '60, eppure.
Soreni è un paese immaginario, eppure.
I personaggi hanno un che di ancestrale e "mitologico", eppure.
Il mondo ancora intriso di superstizione, di ritualità antiche, sanguignamente descritto dalla Murgia si riempie di senso e di sensi moderni.
Solo per indicare i filoni principali.
Accabadora. Eutanasia.
Fillus de anima. Adozioni.

E' un libro sul "confine".
Il confine è violato da un muretto con una "fattura", e la rabbia sconfina in vendetta, in fuoco, e scivola poi nella vita da morti.
Il confine è segnato dal mare che inghiotte i ricordi, ma i ricordi anche quando sono pesanti come pietre tornano a galla, e nessun mare, neanche un mare di tempo lungo trentacinque anni, o un parco mai più oltrepassato, li può trattenere sotto.
Il confine, tra vita e morte, tra le cose che si fanno o non si fanno (giusto o sbagliato sono "categorie che non trovano posto" nel mondo in cui Maria era cresciuta, ma in quanti mondi giusto o sbagliato sono categorie vuote ), si sente, si sa.
Occorre semplicemente che arrivi il momento.

Sotto lo scialle nero dell'accabadora vi è la pietas, l'humanitas.
L'ultima madre non è meno amorevole della prima.

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