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rebeccarordeel Opinione inserita da rebeccarordeel    28 Novembre, 2010
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Mi sa che qui gli alieni siamo noi

Il racconto dell’esperienza scolastica di una bambina con sindrome di Asperger scritto da quella bambina che, nonostante i “normodotati” abbiano messo a durissima prova la sua resistenza, è riuscita a diventare una persona. Non come gli altri, per certi aspetti addirittura migliore.


Con un’immagine di copertina in cui una donna se ne sta in un’enorme bolla che sembra racchiudere un mondo e al tempo stesso separarla dal resto, il libro edito dai tipi di uovonero (casa editrice nata nel 2010, in quel di Crema, con l’intenzione di rimuovere le barriere che limitano l’accesso alla lettura sia ai bambini che alle persone con disabilità) porta alla ribalta uno dei tanti lati oscuri della nostra società. E non importa che si viva in Inghilterra, come la protagonista e autrice di questa storia, o in Italia: il problema sembra essere transnazionale, basta guardarsi intorno.
Si tratta della incapacità di interessarsi a qualcuno che non utilizza i nostri codici di comportamento. Si tratta della chiusura aprioristica verso qualcuno che non è come dovrebbe. Questo libro ci racconta com’è stare dall’altra parte, essere uno di quei qualcuno che vengono emarginati nel migliore dei casi, quando non addirittura puniti, perché, ad esempio, non riescono a rispondere correttamente a un saluto. Questo libro ci racconta com’è vivere vent’anni con la sindrome di Asperger prima che un’insegnante illuminata se ne accorga; vivere vent’anni in una scuola e in una realtà familiare di cui non si comprendono le regole e nella quale, di conseguenza, ci si sente come un bambino con qualcosa che non va.
Leggendo il libro di Clare, non ho avuto difficoltà a immedesimarmi nella dolorosa frustrazione che lei e i molti come lei, le cui testimonianze sono all’interno del libro, hanno provato per una lunga parte della loro vita, almeno fino al momento della diagnosi: tutti, intorno a te, ne fanno una questione di buona volontà – ‘se ti impegnassi di più, riusciresti a farlo’, ‘non c’è niente che non va in te, devi solo darti da fare’ - con il risultato di farti sentire stupido o pazzo per il semplice motivo che non riesci a fare qualcosa che per gli altri è molto facile, e non hai idea del perché non ci riesci.
La sindrome di Asperger, la sindrome degli autistici ad alto funzionamento, non è facile da diagnosticare e lascia coloro che ne sono colpiti alla berlina di un mondo che non è pronto ad avvicinarsi, a comprendere e ad accogliere le persone che hanno abilità diverse; l’arroganza di una società che decreta alla maggioranza il potere di decidere cosa è giusto e cosa non lo è, determina l’esclusione e la condanna di chi non è ‘conforme’. E poco importa che queste persone, almeno fino a quando non prendono coscienza del fatto che i disturbi che li affliggono hanno un nome e possono essere affrontati, guardino con occhi stupiti l’incredibile realtà che sta loro di fronte, senza riuscire a capacitarsi del perché esistano certe dinamiche relazionali e comportamentali, senza riuscire a capire che cosa esse significhino per quelli che stanno loro intorno. Per una persona con sindrome di Asperger, gli alieni siamo noi.

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rebeccarordeel Opinione inserita da rebeccarordeel    27 Novembre, 2010
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Le acque gelide della Bretagna aprono il cuore

Una donna che ama le parole e l’acqua nello stesso modo viscerale: è Colette, scrittrice coraggiosa e anticonformista. Un soggiorno sulla costa magica della Bretagna, i colori sfavillanti, i profumi delle erbe, la magia di un piccolo consesso di amici intellettuali: cornice perfetta per la nascita di una passione oltre tutte le convenzioni.

“Ho trovato nel Salento un posto da cui guardare il mare e desiderare solo di nuotare e di scrivere.”
Così mi racconta Valentina Fortichiari, autrice di “Lezione di nuoto” edito da Guanda lo scorso anno, e a me fa venire in mente la Bretagna, luogo in cui è ambientato, appunto, questo libro: non certo per la somiglianza fisica dei luoghi (non potrebbe forse esserci lontananza più grande tra il freddo nord della Francia e la terra rovente del nostro sud Italia) quanto, piuttosto, per un amore, comune all’autrice e a Colette, che di questo racconto è protagonista indiscussa, quello per l’acqua. La Fortichiari, nuotatrice agonistica ai tempi, e Colette, esperta conoscitrice del potere liberatorio di questo elemento, che decide di invitare il figlio di primo letto di suo marito a trascorrere una vacanza con lei e con il suo gruppo di amici letterati proprio nella sua casa sulla costa bretone.
Il romanzo (è il 1920 e siamo nella villa di Rozven in Bretagna, lasciata a Colette dall'amica Missy) apre uno squarcio sull’inizio di quello che diventerà poi un lungo rapporto di passione e d’amore: Colette insegna a Bertrand a nuotare e, sciogliendo con sapiente maestria quel nodo di insicurezza e di timorosa reverenza che tiene avvinto il giovane cuore di lui, lo lega in un coinvolgimento che parte dal contatto dei corpi nell’acqua e arriva alla mente nell’innamoramento per la parola scritta.
In quella mitica vacanza, sotto il riverbero del sole e circonfusi dagli aromi della cucina di Colette, anche la compagnia di intellettuali e artisti contribuisce a disvelare sentimenti estremi, come quello della piccola figlia di Colette, sempre in cerca di attenzione da una mamma che sembra non avere abbastanza energie anche per lei, come quello della fedele segretaria e amica di Colette, consumata in un amore senza speranza, e infine come quello dell’autrice per lo spazio acquatico, concentrata, allo stesso modo, nel movimento fluido del nuotare e dello scrivere.
Non tragga in inganno la raffinatezza nell’uso della lingua: la Fortichiari ci mette a parte di passioni forti e vitali, senza riserve, seppure con grande eleganza. Il libro si legge d’un fiato, alla riscoperta di un personaggio oggi un po’ trascurato come è quello di Colette, il cui coraggio e la cui forza meritano invece la giusta considerazione, e ci chiama al diritto di amare e di volere tutto. Salvo poi pagarne le conseguenze.

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rebeccarordeel Opinione inserita da rebeccarordeel    27 Novembre, 2010
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Madri e figlie, sole senza nessuno

Quando si è madri, lo si è prima di ogni altra cosa. Un rapporto da cui non si può prescindere, che non si interrompe mai: questa è la vera sfida di Emilia, di sua figlia, di sua madre, di sua suocera. Il racconto di una ripartenza difficile e dolorosa, per una donna che mette in gioco tutto quello che ha, ritrovando, alla fine, il punto giusto da cui prendere la spinta e saltare.

Ambientato ai nostri giorni, questo romanzo racconta una sfida: quella di un’ex modella, Emilia, figlia di una sarta che ha lavorato nel prestigioso atelier romano delle sorelle Fontana, che si ritrova per le mani un’inconsueta proposta di lavoro. A fargliela è un giapponese, Murita, che organizza, per i suoi connazionali in viaggio in Italia che bramano l’esotico occidente, pseudo-matrimoni, o meglio, benedizioni della Chiesa cattolica, e che ha bisogno di Emilia per far funzionare questa macchina delicata e complessa. Lei accetta, tirandosi dietro, quasi suo malgrado, la figlia fotografa; resuscita l’eco del lavoro di sua madre, decidendo di cimentarsi nel disegno degli abiti da sposa; recupera l’ombra di un sentimento materno, ritrovandosi a occuparsi della giapponese di turno, suscitando la gelosia della figlia. Ma fa tutto come se non lo volesse davvero, come se a sospingerla fosse uno straziante istinto di sopravvivenza.
A quasi sessant’anni, Emilia si trascina dietro le pesanti zavorre del suo passato che, quotidianamente, l’assillano da ogni parte: una madre da cui non riesce ad essere amata, una figlia che non riesce ad amare, un marito con cui – se non alla fine – non riesce a fare i conti.
Resta in bilico, Emilia, attratta da quello che è in grado di essere – una non-persona, devastata e preda di un dolore maestoso – e sospinta verso il punto in cui l’asse, su cui è sospesa, finirà.
Fino alla presa di coscienza finale: siamo in una Roma magica, quella degli androni bui e risuonanti dei vecchi palazzi signorili, tutti muri spessi e ringhiere di imponenti scalinate, una Roma che è, come il cuore di Emilia, incapace di staccarsi dalla sua storia, che non ci sta dentro i sussulti angusti del dolore e prorompe in tutta la sua maestosità, come il passato di Emilia che dilaga in “triangoli di luce che tagliano le ginocchia”. E’ la vita stessa, infine, che, insospettata e sconvolgente, costringe l’anima a vibrare e, nella semi-oscurità dell’interno di un palazzo, a brillare di nuovo, in un lento, doloroso ma ineludibile cammino verso quella pienezza di sé che da tempo Emilia si merita di ritrovare.
Questo romanzo di Letizia Muratori assomiglia a una prova ben riuscita di un esercizio alla trave: si sente, nelle parole scelte, nelle evoluzioni di una vita in cui scorrono all’unisono l’allora e l’adesso, tutto lo sforzo di restare in equilibrio e continuare a camminare fino in fondo. Si avverte la fatica dell’impegno, il duro lavoro, l’esercizio continuo: per arrivare all’atterraggio perfetto dal doppio salto mortale in punta dell’infido attrezzo, niente è lasciato al caso. C’è maestria di rifiniture, c’è accettazione e, anzi, quasi gusto, del rischio, c’è desiderio di tentare figure nuove, ma sempre ben calibrate; c’è la sfida, superbamente affrontata e risolta, a cimentarsi con sentimenti che potrebbero travolgere una mano meno responsabile. C’è tutta la bellezza di un cuore messo su un piatto.

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Lezione di nuoto di Valentina Fortichiari
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rebeccarordeel Opinione inserita da rebeccarordeel    27 Novembre, 2010
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“Tutto sommato va bene anche così”

Revolutionary road è il pantano della classe media. Romanzo ambientato nei sobborghi benestanti di New York negli anni ’60, raffigura quella palude dove annegano le ambizioni di chi non sa bene cosa fare della propria vita, di chi non maneggia con disinvoltura le proprie ambizioni. Piccoli avvenimenti per piccole vite, per piccole persone. Il sogno americano si arena in queste sabbie mobili, di chi non trova il suo posto nel mondo.
Frank e April Wheeler, la giovane coppia di sposi con due figli di cui si raccontano le vicende fino al tragico epilogo, coltivano una tensione oscura sotto l’apparente vita “normale”: perché non tentare nuove strade? Perché non accendersi nuove possibilità? Perché rinunciare a credere di essere speciali?
Frank e April ci credono per un po’, oh sì, si convincono di potercela fare, ma poi il disorientamento, l’improvvisazione tutta sbagliata, tutta deragliante, tutta isterica, prendono il sopravvento e condizionano gli eventi, in questo romanzo che non lascia scampo, che sopprime la volontà di cambiamento quando non alimentata da una determinazione feroce .
C’è anche il pazzo che dice la verità a tutti, che disvela segreti e meschinerie, che sottolinea la follia di una vita al di fuori delle convenzioni: non è una trovata così originale, ma conferisce al romanzo una forte spinta centrifuga, con i personaggi che continuano a schizzare via dal centro senza considerare i loro limiti e si trovano costretti ad affrontare la tragedia che soffoca tutto, quando lo fanno.
Un romanzo sull’impossibilità di uscirne fuori e di prendere un secondo treno.

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La storia di un matrimonio
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rebeccarordeel Opinione inserita da rebeccarordeel    26 Novembre, 2010
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Dal matrimonio c'è da aspettarsi di tutto

La storia incredibile di un matrimonio a suo modo incredibile, raccontata non come un colpo di scena sensazionale, ma come una semplice alternativa di fronte alla quale mettere la propria vita. E decidere. Il passato che ritorna o il futuro che s’impone?
Siamo ai margini di San Francisco, ancora nell’eco della seconda guerra mondiale, in un quartiere di ex-militari; una coppia come tante, una casa come tante, un figlio. E una porta, come nell’immagine di copertina, che si spalanca su una stanza, nella quale si intravede un’altra porta, aperta pure questa: più simile a un buco nero che forse non si è mai chiuso.
“Crediamo tutti di conoscere la persona che amiamo.” Le parole dell’inizio folgorano il lettore e lo scaraventano in uno stato di attesa e di perplessità. In realtà è solo il disegno dell’esistenza, sono le linee che ciascuno traccia, che mano a mano vengono a comporsi in qualcosa di sempre più definito: se ci si accorgesse di avere sbagliato, non basterebbe girare pagina e ricominciare, o accartocciare il foglio e spingerlo lontano dal proprio tavolo di lavoro.
Questo romanzo, scritto da un uomo che racconta attraverso la sua protagonista femminile, e poi, piano piano attraverso gli altri due attori, che prepotentemente muovono i fili come burattinai occulti, parla di sentimenti, e non ce n’è di giusti e di sbagliati, di autentici o fuorvianti: c’è la verità di tutto l’amore di cui si è capaci. Con una scrittura piana, su un livello più alto del reale, più raffinato e potente. Un modo di descrivere che sembra voler costruire un modello di cartone della scena, personaggi, luci, suoni che acquistano tangibilità, vita propria ad ogni riga. Da rileggere.

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rebeccarordeel Opinione inserita da rebeccarordeel    26 Novembre, 2010
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A stare da soli si scopre se stessi

Maxwell Sim è un uomo solo. In un’Inghilterra contemporanea, circondato dalla tecnologia, si ritrova a fare i conti con una moglie che lo ha lasciato, una figlia che lo ignora, un padre che ha preferito l’Australia, un social network impietosamente silenzioso.
In una situazione del genere la maggior parte delle persone reagirebbe dandosi all’alcol o al gioco d’azzardo, si comprerebbe un cane o si convertirebbe al buddhismo e si rifugerebbe in Tibet. Ma l’eroe di Coe – perché solo un eroe, di questi tempi, farebbe una cosa del genere – lascia il suo lavoro e, fidandosi dell’unico amico che gli è rimasto, accetta la proposta di entrare a far parte della Guest Toothbrushes, una ditta produttrice di innovativi spazzolini ecocompatibili. E proprio per una speciale campagna pubblicitaria, Maxwell, foraggiato dall’azienda, si ritrova in viaggio verso la Scozia, per compiere una piccola impresa che si rivelerà la più grande della sua vita.
Nella macchina che gli hanno messo a disposizione, insonorizzata e tecnologicamente molto ben equipaggiata, si ritrova a fare i conti con un se stesso di cui è tentato di sfuggire la compagnia; guarda indietro al suo passato e quello che vede non gli piace, come se il senso di inadeguatezza che lo ha tormentato in tutti i suoi rapporti più importanti avesse a che fare con l’aver compiuto delle scelte fuori sincro rispetto alla sua vera inclinazione.
Maxwell comincia a mettere insieme i pezzi e non si tira indietro quando si presenta l’occasione di andare oltre: riparte dal rapporto più difficile, quello con un padre impossibilitato ad esserlo, che ha rinunciato ad agire e si è chiuso in un mondo tutto suo.
Riparte da lì, ma non solo; si spaccia per qualcun altro pur di riallacciare un rapporto con sua moglie e si ritrova catapultato nel suo passato peggiore, che gli chiede la verità su un esecrabile comportamento, con il quale ha distrutto un’amicizia; durante il viaggio si ritrova davanti un altro pezzo di quel passato e gli va incontro, con coraggio, solo per scoprire che non è quello che gli interessa.
La scrittura di Coe, posizionata su un registro a tratti un po’ patetico, conduce il lettore proprio dentro i pensieri, dietro le azioni e oltre le sconfitte: forse ha perso in brio, ma ha guadagnato in compassione.
Il paesaggio che diventa, nel procedere verso la gelida Scozia, man mano più estremo è contraltare perfetto per la discesa di Maxwell verso le sue più intime passioni, una scorza protettiva che gli permette di “spogliarsi” e sperimentarne la sensazione liberatoria.

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