Opinione scritta da silvia t
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L'Anarchia e la lirica
Intrattenimento e riflessione sono gli ingredienti di questo libro, senza ombra di dubbio il mio preferito di Marco Malvaldi.
Rimasto per ultimo tra quelli editi da Sellerio si è rivelato una vera fonte di emozioni.
L'argomento trattato è così particolare che il tutto risulta quasi privo di massa, frutto di un pensiero, di un sogno.
Anarchia e lirica, uniti su un palcoscenico ad animare le vite di personaggi attraverso lo stile autoironico di Malvaldi.
Una trama semplice, con un intreccio intuibile e forse banale ed è lo sguardo dell'autore a fare la differenza.
La dolcezza dei dialoghi e il narrare senza giudicare o indulgere ci permette di empatizzare e comprendere quella forza così impetuosa che è l' Anarchia.
Gaetano Bresci è una figura onnipresente, che colora le pagine sotto l'inchiostro, forza propulsiva e ispiratrice di tutte quelle anime che cercano libertà, giustizia e felicità.
Ci si diverte, si riflette, con dialoghi ironici e acuti, adatto per il puro intrattenimento, sono i piani di lettura a non poter essere ignorati: quello sociale nella descrizione di una società passata che porta in grembo quella successiva; quella psicologica attraverso la dinamica di gruppo che si manifesta attraverso i rapporti della compagnia teatrale.
Un mondo fatato che necessita di una forte partecipazione da parte del pubblico, si rivela dietro le quinte in tutta le sue difficoltà, le sue contraddizioni, il suo dolore e la sua umanità.
Se non si conosce Malvaldi consiglio questo libro pur essendo lontano da tutte le altre produzioni, mantenendo ironia e sarcasmo ne è uscito fuori un piccolo gioiello.
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Franzen da giovane
Se anche voi come me non avete mai visitato gli negli Stati Uniti e adorate immergervi in culture lontane , Franzen è il vostro autore.
St. Louis, Missouri, Midwest : queste le coordinate della protagonista del romanzo.
E' St.Louis a pervadere ogni pagina, a pulsare di vita, a decidere, a nascondere, a controllare, loro malgrado, i suoi abitanti.
Ormai apatica, ombra della passata dinamica città, St. Louis viene risvegliata dalla nomina di un nuovo capo della polizia: una donna indiana (ricordiamo che siamo nel 1988).
Questo il primo movens che dà inizio alla trama, caotica, a tratti senza senso, ma proprio per questo verosimile e avvincente.
I personaggi introdotti con la già sapiente penna del giovane Franzen, ci appaiono meno perfidi rispetto a quelli a cui ci abituerà in seguito, sono tratteggiati in modo da farci intuire le sfaccettature, ma senza indulgere troppo nelle descrizioni.
Lo stile è un po' acerbo, ma il potenziale è già presente e come di consueto chiudere il libro risulterà difficile.
L'intreccio fitto di fili, non tutti comprensibili, non tutti logici, è narrato come se il punto di vista non fosse quello di una persona, ma quello della città, che guarda quasi divertita ciò che gli uomini fanno, quasi grata per essere stata risvegliata dal torpore speranzosa di tornare ad essere la quarta città degli Stati Uniti e non più la ventisettesima.
Mentre si scorrono le pagine le vicende quasi si dissolvono in una nebbia densa, in un incedere lento e senza senso, la descrizione di vite inutili, che si trascinano solo per inerzia, per tradizione, per un interesse personale privo di fine, ma solo fine a se stesso.
Le emozioni non vengono riconosciute, travolgono senza che se ne capisca l'importanza.
Uno spaccato di vita davvero intenso, come di rado mi è capitato di leggere.
Il piano di lettura narrativo si muove agilmente tra il giallo, il dramma e a tratti la commedia, grazie sopratutto ai dialoghi vivaci e spesso sarcastici, ma è quello sociale il più interessante; la società di questa cittadina è portata alla luce dalle azioni e dai pensieri di coloro che la abitano e mostra tutte le contraddizioni di una collettività arretrata e arenata nelle proprie convinzioni.
Una lettura consigliata a chi ama (come me) Franzen, ma anche a tutti gli altri.
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Una lettura consigliata a chi ama (come me) Franzen, ma anche a tutti gli altri
La vita in un paese di poche anime
La penna di Malvaldi permette di trascorrere qualche ora in completa serenità, in una angolo di sicurezza emotiva che è gradevole eallo stesso tempo rassicurante.
Si potrebbe pensare che i racconti siano banali e prevedibili, ma sta qui la bravura dell'autore: rimane sempre uno spunto di riflessione su cui indugiare.
Anche in questo titolo, che non fa parte della serie del bar Lume, ci si immerge in una realtà che ad un primo sguardo potrebbe sembrare arcaica, un piccolo paese sperduto tra i monti popolato da cacciatori che si conoscono tutti.
In un paese del genere ci vivo, ma come direbbe Molvaldi ci sono piovuta, per cui mi sono immedesimata molto bene!
Lo stile di Malvaldi è lineare con un ritmo incalzante che costringe a rimanere incollati alla pagina fino alla risoluzione del caso.
La peculiarità dell'autore è non prendersi sul serio, riconoscere i propri limiti,.essere consapevole dell'opera che va a creare e questo fa si che ogni volta la lettura sia piacevole.
I personaggi trovano spazio per una evoluzione nello poco meno di duecento pagine, da macchiette si fanno vere figure tridimensionali foriere di sentimenti e recriminazioni, pochi dialoghi azzeccati permettono di comprendere la loro storia e dove mancano i particolari la nostra fantasia permette di colmare i vuoti.
Possono apparire stereotipati e in parte lo sono, espediente necessario alla comprensione delle azioni svolte, ma che non si fa limite alla sottostante sfaccettatura anche solomintuira delle varie personalità.
Una lettura leggera, piacevole ma che può lasciare il posto, soprattutto sul finale ad una riflessione sociale .
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Per rilassarsi e riflettere
Sono in un periodo in cui ho bisogno di leggerezza e cosa è più leggero e rilassante di un giallo di Malvaldi ambientato a Pineta, con i vecchietti del Bar Lume?
Così questa domenica piovosa, in cui il tono dell'umore non riesce a prendere quota, ho deciso di comprare questo ebook e mettermi, circondata dai gatti, nel letto, a leggerlo.
Una piacevolissima sorpresa, oltre all'ironia che caratterizza lo stile di Malvaldi fin dagli esordi, troviamo in questo titolo una vena di dolcezza e di delicatezza che non gli conoscevo.
I personaggi sono quelli che abbiamo imparato a conoscere negli anni, paradigmi di una toscanità fin troppo nota.
I personaggi secondari sono appena accennati e non potrebbe essere diversamente dati tempi di lockdown.
Sì, perché la storia si svolge in piena pandemia ed è trattata con una sobrietà che la rende verosimile
Nonostante sia un romanzo di intrattenimento ci sono diversi spunti di riflessione trattati con una naturalezza così delicata da generare un effetto dirompente.
Si parla di pandemia appunto, di isolamento, di lontanze forzate e di convivenze altrettanto claustrofobiche.
Tra un dialogo e l'altro c'è anche modo di confrontare le varie generazioni, da quella che la guerra l'ha fatta a quella che la guerra la studia sui libri.
Questa convivenza traspare con tutte le sue criticità le sue incomprensioni, così come traspaiono i cambiamenti sociali che sono avvenuti: la scelta del lessico e degli oggetti delle battute dei vecchietti sono inascoltabili per le orecchie e per il sentire di Tiziana la barista trentenne; segno questo che i tempi, per fortuna sono cambiati e il cambiamento è più che percepito.
Tutti questi argomenti non sono spiegato con accademica maestria, ma sono fatti intuire attraverso i dialoghi tra i personaggi ottenendo così il duplice risultato, di rendere ancora più sfaccettati i personaggi che già conosciamo e piu reale la piccola comunità di Pineta.
Non è facile non perdersi nel banale dopo così tante avventure, ma Malvaldi non solo ci è riuscito, ma è anche riuscito dell'arduo compito di fare sperare in un'altra puntata.
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Un carrello un miraggio
La vista di un semplice carrello rievocherà per sempre linfinita gamma di emozioni che "La strada" riesce a suscitare.
La gamma dei colori sui toni del grigio compongono un affresco cupo, che odora di malinconia e si veste di ricordi troppo presto dimenticati.
Vite spezzate, dalla evidente catastrofe che ha avvolto il mondo, quel mondo che non tornerà, per com'era e per come si ricorda chi lo ha vissuto.
Se la trama è stringata, quasi inesistente, a fare da calamita è la forza dei personaggi, due in realtà, padre e figlio e la loro capacità di rispondere ad un mondo con un approccio opposto, quasi la speranza, impossibile da spengere, si trasferisse da padre a figlio.
La tridimensionalità dei personaggi fa sì che ci si trovi dietro un albero a guardare queste due gocce di vita in un universo morto, consapevoli che quello che vediamo è un futuro neache poi così distopico.
Moltissimi i piani di lettura, impossibile analizzarli tutti; vorrei però evidenziare è quello sociopedagocico, in cui il figlio per vivere la sua vita, nel suo mondo deve necessariamente liberarsi di un padre che non riesce a dimenticare.
Un libro che davvero non può mancare in nessuna libreria e soprattutto in nessun immaginario.
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Il capolavoro di Charlotte
Era il 1847 e Charlotte Bronte scrive un capolavoro: Jane Eyre.
Innumerevoli i piani di lettura che offre il romanzo, innumerevoli gli spunti di riflessione.
Ambientato in età vittoriana restituisce usi e costumi dell'epoca tinteggiati di modernità ed emancipazione, il tutto con uno stile travolgente.
Un romanzo di formazione che non lascia spazio al pietismo o alle recriminazioni, Jane accetta la sua condizione senza distribuire colpe (al fato? Alla sfortuna? A Dio?) e da lì parte, come un abile giocatore sa che quelle carte sono solo l'inizio della partita.
Conosciamo Jane bambina, orfana a casa di una zia e dei di lei figli, imposta e non accolta, sopportata e non amata.
In questa prime pagine ciò che più appare chiaro è il temperamento di Jane, il suo senso di giustizia e l'oppressione che quattro mura, per quanto delimitino una superficie ampia, possono incarnare.
Scendendo in profondità, senza fermasi al piano narrativo, seppur coinvolgente, troviamo la rappresentazione, che poi si farà critica nel proseguo del romanzo, della società vittoriana: regole ferree, disciplina, moralità, spesso seguite in modo devoto, ma in contrasto con i sentimenti più profondi, spesso meschini, repressi e soppressi, che esplodono in tutta la loro forza in punto di morte, quasi per lavarsi da ogni peccato di fronte ad essa.
La descrizione della casa degli zii, (lo zio che aveva accolto Jane è morto, ma in qualche modo continua ad abitare la casa e a condizionare gli eventi) seppur non così pedissequa come in altri momenti del romanzo, trasmette l'angoscia, la paura, l'oppressione che Jane prova in quella che ad una lettura più moderna è a tutti gli effetti una situazione abusante.
L'occhio del lettore moderno non può non cogliere quella che è violenza domestica; deve staccarsi dal racconto; il cui narratore interno è non onniscente, è Jane stessa a raccontare eventi passati che sembrano essere stati metabolizzati e propedeutici ad una felicità che si percepisce dal tono sempre rassicurante e protettivo.
Questo punto di vista permette non solo di empatizzare con Jane, ma anche di sospendere il giudizio su quelle che saranno le vicende che seguiranno.
Il piano di lettura psicologico è senza dubbio quello che più affascina, perché permette di attualizzare la lettura che appare senza tempo, è ambientata in Inghilterra nell'età vittoriana ma potrebbe essere ovunque, i personaggi, sia i protagonisti che quelli secondari sono tridimensionali, hanno il loro vissuto che li determina e che determina le loro azioni, nulla appare forzato, nulla appare funzionale alla trama, ma la trama si svolge con i fili che ha a disposizione.
Jane è al di fuori fuori della società che l'opprime, non la percepisce, ama Dio e segue gli insegnamenti di Cristo.
Conosce il bene e il male, non accetta compromessi, conosce una strada e quella seguirà sempre.
Non voglio dilungarmi in una analisi tediosa, il mio intento è di spingervi a leggere questo capolavoro, classico e moderno allo stesso tempo, capace di trascendere i tempi e di essere attuale anche oggi.
Iniziare a conoscere Jane è voler essere con lei, è voler essere lei, essere cieca, ma allo stesso tempo certa e sicura di se stessa, essere così solida grazie a delle fondamenta costruite in solitudine, bastando a se stessa e riuscendo a fortificarle riconoscendo in alcune persone i propri valori e con esse instaurare rapporti duraturi e forti.
Tutta questa quantità di emozioni e azioni sono raccontate con un stile così lieve e coinvolgente, così ricco di particolari e descrizioni che permettono di guardare delle immagini non delle lettere, sembra di fluttuare su quei campi innevati, su quelle colline e in quei roseti.
Una lettura consigliata sopratutto in questo periodo in cui le donne cominciano a capire di essere oppresse da una società patriarcale; è di grande conforto sapere che già un secolo fa le poche donne alle quali era permesso studiare e comprendere la realtà che avevano intorno la considerassero sbagliata e oppressiva.
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Una lametta tra i denti
Il mio primo De Giovanni, senza dubbio l'ultimo.
La domanda che per tutto il libro mi ha invaso la mente è stata: perchè uomini cresciuti in una cultura patriarcale si intestardiscono a scrivere di cosa provano le donne?
Stereotipi privi di autoironia sono presenti in ogni pagina, ma non è neanche la parte più fastidiosa del libro.
L'unico piano di lettura che si riesce ad analizzare è quello narrativo, una trama lineare a cui manca la caratteristica più importante per una storia: la verosomiglianza.
Sappiamo bene che a volte la realtà supera la più fantasiosa delle finzioni, ma una narrazione dovrebbe cercare di evitare il più possibile le svolte forzate, come è facile intuire non avviene in questo titolo.
Ripeto non è neanche questa la parte più fastidiosa del libro.
I personaggi che si incontrato appaiono monodimensionali, privi di un qualunque spessore, approfondimento o evoluzione psicologica, sagome di cartone scolorite dal sole, incapaci di interagire in modo credibile tra di loro, immobilizzati dagli stereotipi di cui sono composti.
I personaggi femminili appaiono così stereotipati che se non fosse per la totale mancanza di ironia si potrebbe pensare di essere davanti ad una parodia: come un uomo, che crede di capire le donne, descrive i sentimenti delle donne.
Leggere questo libro dà la stessa sensazione dell'ascoltare “Quello che le donne non dicono” della Mannoia: qualcosa di simile al masticare una lametta affilata.
Ma ancora non è la cosa più fastidiosa del libro, sapete qual è questa cosa?
I dialoghi, conversazioni che mai avverrebbero nella vita reale, spesso con informazioni che per forza i personaggi devono conoscere inserite in una conversazione per introdurre situazioni che il lettore non può conoscere e che lo scrittore, evidentemente non riesce a trasmettere attraverso un uso sapiente delle parole.
Il lessico utilizzato è semplice e lineare, qualche parola ricercata che forse ci vuol avvisare che, volendo, si potrebbe anche fare di più, ma che non è necessario.
Non riuscirò mai a capire perché certi libri devono essere scritti, quale molla possa spingere a raccontare storie in cui gli spunti di riflessione annegano nella banalità, in cui la storia non permette di vivere un'altra vita, in cui le scelte o le azioni dei personaggi non hanno motivazione, ma sembrano solo vagoni posizionati a caso su un binario morto.
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L'empatia non è programmabile
Se dovessi vedere il futuro sono certa che avverrebbe come attraverso un vetro, la possibilità di vedere, senza quella di sentire.
Il piano narrativo su cui poggia la storia è molto semplice, piacevole e completo, non ci sono momenti in cui si sente il bisogno di conoscere di più, nonostante molti particolari siano omessi; i fili della trama sono così ben intrecciati che il disegno finale non può non lasciare che soddisfatti.
I personaggi sono ben descritti, tridimensionali e anche in questo caso basta davvero poco per far si che tutto risulti verosimile e comprensibile, azioni dialoghi e interazioni.
La scelta di raccontare la storia dal punto di vista di Klara, un androide programmato per essere amico dei bambini rende la lettura straniante, priva di empatia e quindi in qualche modo oggettiva e dà al lettore la possibilità di entrare nei cuori degli uomini in modo asettico, quasi chirurgico.
Klara è un androide sensibile, come può esserlo un'intelligenza artificiale e in questo Hishiguro è davvero bravo nel non cadere mai nel sentimentale, nel non farle provare sentimenti umani, ma solo eseguire ciò per cui è stata programmata al meglio delle sue possibilità.
Non c'è spazio per i sentimenti, neppure per gli umani.
E' questa la riflessione che mi ha più colpita e che ho trovato davvero interessante e che, pur essendo il primo libro di questo autore che leggo, mi fa capire il perchè del nobel.
La lente attraverso cui si legge il mondo, come ho già detto è quella di Klara, ma si percepisce che potrebbe essere quella di qualunque altro personaggio, nessuno riesce a trasmettere emozioni, forse nessuno riesce a provarle, ognuno ha un fine, ognuno cerca di raggiungerlo, sembrano programmati per quello, l'interazione con gli altri appare quasi casuale.
Ciò che il libro ci restituisce è un mondo in cui uomini, androidi e ginoidi non sono diversi, in tutti è stato tolta, o non è stata data, la possibilità di provare sentimenti autentici e sopratutto di trasmettere emozioni.
Il sole del titolo, essendo il suo nutrimento, è visto da Klara come una divinità, ed è la sola relazione, quella tra Klara e il sole, ad essere totalizzante, a spingere oltre il confine della programmazione per sperare e pregare.
E' curioso che nonostante le situazioni tragiche vissute solo Klara ricorra a questa possibilità, si direbbe che un robot di seconda generazione (ne esistono di terza) riesca ancora a credere nella speranza, mentre gli uomini con la tecnologia capace di fare editing genetico non riescono più a sognare un modo in cui essere felici.
Tutto bello in teoria e gli spunti di riflessione sarebbe tantissimi come i piani di lettura di cui si potrebbe scrivere per ore, gli spunti di riflessione si affollano nella mente, ma c'è qualcosa nello stile che mi è risultato forzato, che non mi ha permesso di entrare in quel mondo ma che me lo ha fatto vedere attraverso il vetro della teca in cui ero rinchiusa.
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Il disagio spiegato bene
Chi non si è mai chiesto, tra i nati nella seconda parte degli anni settanta come fosse la vita negli anni precedenti la propria nascita?
Quegli anni ricchi di avvenimenti che hanno poi portato a quei cambiamenti sociali che ci hanno visto crescere, hanno visto dar forma alla nostra identità che si plasmava al ritmo delle nuove idee.
Jonathan Franzen con Crossroad ci viene in aiuto, portandoci di prepotenza in quegli anni, dandoci la possibilità di guardare quel mondo con gli occhi di allora, facendoci vivere le emozioni che provavano adulti, ragazzi, adolescenti e bambini che si trovavano per sorte a vivere quegli anni e forse alla fine del primo volume di quella che sarà una trilogia, avremo le idee più chiare di come questa nostra società attuale ha avuto origine.
Ciò che spinge un lettore a leggere Franzen è senza dubbio lo stile: unico, ironico, perfetto.
Un lessico che nella sua semplicità riesce ad essere esauriente, mai banale e mai insufficiente.
Ogni parola, quasi fosse dotata di calamita, attrae il lettore che non può smettere di leggere, se anche lo fa, continua ad essere là a New Prospect, Chicago.
Lì nella canonica, con Russ il pastore e con sua moglie Marion e con i loro quattro figli.
Attraverso la vita di una famiglia e dei loro componenti il personale si fa universale e trascened la quotidinità: Dio, la giustizia, l'amore, il sesso, la malattia mentale, ma sopratutto il disagio è il protagonista di questo libro.
Il disagio analizzato in ogni sua forma, il disagio che impregna la vita, le ore, l'aria.
Il disagio che anestetizza le vite di ognuno, ma non fino in fondo, lascia sempre spazio per lo sconforto, per la frustrazione e quindi per l'inane tentativo di riscatto.
I personaggi sono così ben caratterizzati di risultare credibili e verosimili, ognuno, date le premesse, non avrebbe potuto agire in modo diverso, quasi come una mano, (forse divina?) li guidasse, ognuno soffre, ma spera, spera che quel miracolo americano di felicità e realizzazione possa un giorno essere realizzato.
Sul piano narrativo non ci sono dubbi, la trama è perfetta, non esistono neppure a cercarle ingronguenze.
Sul piano psicologico e socilogico si potrebbero scrivere interi capitoli, ma sarebbe inutile perchè niente potremmo dire che Franzen non ci faccia capire attraverso la sua meravigliosa penna.
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Sagome di cartone mal rappresentate.
Di certo non è facile calarsi nella Venezia del 1400, sopratutto se non si è degli storici e sopratutto se non sia ama la storia, come me.
Non voglio farla troppo lunga, non ho amato questo libro, per niente e anche se non amo scrivere di cose che non ho apprezzato, questa volta voglio fare un’eccezione, perché ho colto, nello stile una sorta di altezzosità dell’autore.
Il piano di lettura più interessante è sicuramente quello narrativo, fatto cronaca noto ai più (non a me per le motivazioni di cui sopra) che svela, in qualche modo, come nonostante siano trascorsi seicento anni, l’umanità sia mossa sempre dalle stesse passioni e pulsioni.
Quello che stride in modo fastidioso è il lessico in generale e i dialoghi in particolare: troppo moderno, un veneziano nel 1400 non può pensare quelle parole, non può rivolgersi alle altre persone con quelle frasi.
E’ dunque molto difficile immergersi in quel tempo e a nulla servono le ridondanti descrizioni dei luoghi e degli odori perché anche se la mente cerca disperatamente di figurarsi quei luoghi le parole ti trasportano su un set cinematografico, in cui tutto è posticcio; visibilmente posticcio.
I personaggi, tutti monodimensionali, sono attori che sotto il trucco svelano il loro tempo, quello contemporaneo.
Una nota particolare la merita il protagonista che almeno nelle intenzioni dovrebbe subire un processo di crescita psicologica, una redenzione di manzoniana memoria, ma che appare del tutto inadeguata nei tempi e sopratutto nei modi.
Lievi accenni di vitalità e di leggerezza si possono trovare nella descrizione dei bambini, ma troppo poco per creare davvero empatia verso almeno uno dei personaggi descritti che finiscono per diventare sagome di cartone mal rappresentate.
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L'' oblomovismo visto da me
Un provinciale idealista vive a Pietroburgo della rendita di una tenuta dimenticata, nella piú assoluta inerzia fisica e psichica. In una camera coperta di ragnatele e di libri ingialliti giace nella sua «normale posizione» su un emblematico divano, dormendo e sognando, stanco e insensibile ai rumori della vita. Specchio di un fatalismo storico, Oblomov è stato considerato dalla critica l’eroe immortale della pigrizia, prodotto di una generazione viziata
La Russia con il suo lento scorrere ottocentesco in cui sono racchiusi anni di umanità vengono concentrati in un unica persona: Oblomov.
E’ già stato detto che non è possibile fare una recensione di questo capolavoro della letteratura russa (Cit. Nori) e concordo su questo, è un romanzo che racchiude l’essenza di un cuore puro e l’unica cosa che si può fare, se come me, si vuol condividere la gioia provata nel leggerlo è cercare di trasmettere quello che si è provato e cosa ha lasciato.
A distanza di qualche settimana dalla conclusione di questa magnifica esperienza, quello che rimane è la consapevolezza dell’universalità della condizione umana, dell’imprintig che, volenti o nolenti, la famiglia ci impone e di come tutta la vita sia una infinita ricerca di destrutturare o raggiungere quell’ideale che da bambini abbiamo creduto di vedere.
Oblomov è un personaggio così complesso se si guarda con sguardo superficiale da riuscire incomprensibile, ma così semplice se ne approfondisce lo spessore psicologico.
Un uomo che riconosce i limiti propri e della sua epoca, un uomo che non può scendere a compromessi con una società che lo vuole diverso, che non capisce che la sua di felicità è racchiusa in un ideale, forse onirico, di calore domestico.
L’altro protagonista assoluto è l’Amore, analizzato, con uno stile essenziale, ma incisivo, coadiuvato da un lessico moderno (la traduzione di Nori aiuta non poco in questo particolare aspetto) e da dialoghi verosimili e mai eccessivi, mai ridondanti.
L’Amore dicevo, l’amore come àncora di salvezza dalla perdizione, dal dolore, dalla pigrizia, l’Amore spesso, ma non sempre, sovrapposto alla passione, a quel sentimento che travolge e giustifica qualunque azione, anche la più abietta, ma che perde di vista il raggiungimento della felicità, che a volte non coincide con esso.
Un piano di lettura quello psicologico che di sicuro attrae per la modernità con cui è trattato, tutta la vita di Oblomov, narrata in questo libro, è un antesignano della psicanalisi, quasi che Goncarov volesse psicanalizzare il suo personaggio per rendere universali paradigmi psicologici che ancora non erano stati teorizzati.
Moltissime altre parole si potrebbero spendere e davvero vorrei farlo perché scriverne mi fa sentire ancora dentro quello spazio e quel tempo, ma sarebbe inutile, niente può spigare l’Oblomovismo meglio della lettura di Oblomov.
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Sembra fermarsi il tempo.
Sembra fermarsi il tempo, dopo aver corso indietro fino all'inizo del secolo scorso.
Immobile come solo i vecchi sanno renderlo, il tempo si riposa e si cura le ferite, guardando, quasi inerme ciò che ha accolto.
Dal basso, come una forza sconosciuta e paranormale, sembrano uscire odori, colori, immagini ignote ai più, ma non ad Alessandro Barbero che deve aver studiato così a fondo le fonti disponibili da riuscire ad immaginare un passato così lontano, presente negli occhi di alcuni, forse dei più, solo attraverso le immagini di “Gone with the wind”, rese sopportabili dal famoso film del '39 di Fleming.
Il disagio rimane appiccicato addosso come pece, attraverso lessico e stile Barbero ci apre gli occhi, con violenza e ci obbliga a vedere, stimola i sensi per costringerci a capire e noi inermi non possiamo che vivere quella esperienza, attraverso i ricordi di un veterano della Guerra di Secessione Americana.
Le radici del razzismo non sono coperte, sono i fatti a parlare, attraverso dei dialoghi in forma indiretta che sono il miglior modo di sputarci in faccia la realtà.
Razzismo, violenza, indecenza, ma tanta povertà, fame indigenza, sono i veri protagonisti di questo libro una finestra su un mondo che non dovrebbe essere esistito, ma che a cercarlo, tra le pieghe della vita esiste ancora e Barbero ancora una volta ci obbliga a guardarlo e a cercarlo, ancora prima che nella realtà che ci circonda in noi, che non vogliamo, come l'ascoltatrice del racconto, ma che siamo scrigno di quell'immondo seme che a forza, quando ancora privi di coscienza, ci hanno ficcato nelle viscere: essere, per nascita, migliore degli altri.
Sono le parole che scorrono come un fiume in piena che portano, in un flusso disorientato di coscienza, a guardare ciò che non si vuol vedere, senza difese ci troviamo di fronte a barbarie e a quotidianità che spiegano, a voler capire, la realtà di oggi.
Barbero è uno storico e riesce attraverso questo titolo, a farci vedere la storia non solo a studiarla, ci trasporta dentro e così ci emoziona e ci appassiona.
Bidimesionale
Con ancora nella testa la detonazione all'interno del museo impariamo a conoscere il protagonista di quest'avventura Theo; smarrito tra le macerie, inorridito tra i cadaveri e i moribondi, orfano tra le vie del mondo, ancora inconsapevole di questa atroce verità.
In questo affascinante scenario si apre “Il cardellino” e il lettore pieno di curiosità e di interesse si appresta a perdersi nelle innumerevoli pagine che compongono la trama.
Trama che si può sintetizzare in una parola : bidimensionale.
Ci son alcune cose che ho amato profondamente, una delle quali è l'amore che viene trasmesso per le opere pittoriche, ci sono passi in cui il quadro descritto non solo sembra di vederlo, ma lo viviamo, attraverso le emozioni dalla madre di Theo prima di morire schiacciata dalle vigliacche macerie; la penna della Tartt riesce in questo caso e in pochi altri a far diventare tutt'uno con ciò che descrive in una sorta di realtà virtuale che non può non lasciare stupefatti e dà un senso al corpo pulsante del libro: Il cardellino, quadro mai troppo amato e mai dimenticato che si fa totem illusorio di una realtà cristallizzata e immutabile.
L'altro punto emozionante si ha nella descrizione del lavoro dell'antiquario che sarà un personaggio fondamentale nell'economia del romanzo, ma non troppo ben caratterizzato.
Hobie, questo il suo nome, ripara i mobili riuscendo a portarli a una nuova vita, metafora forse, a voler ben cercare, della vita distrutta di Theo che può attraverso mani esperte tornare a esistere sotto una nuova forma. L'amore per il proprio lavoro, la sospensione del tempo sono accattivanti e coinvolgenti e si sente la passione travolgente di quest'uomo per il suo lavoro che trascende la materialità dell'atto per divenire appunto, metafora del continuo mutamento.
Purtroppo le note di merito, per me, finiscono qui, la trama appunto come dicevo, è poco verosimile, troppi eventi, quando ne sarebbe bastato il primo, si susseguono fitti come un film d'azione.
Uno stile inutilmente descrittivo che invece che colorare l'immaginazione la stupra con un freddo realismo, scorrevole e semplice utilizza un lessico alla portata di tutti.
I personaggi anch'essi bidimensionali non riescono a interagire, a vivere, a trasmettere emozioni e finiscono per diventare cartonati obbligati a recitare una parte.
Infine i piani di lettura non si trovano, se si esclude quello narrativo poco altro riusciamo a estrarre, anche cercando, eppure un attentato terroristico avrebbe potuto spalancare scenari infiniti, riflessioni profonde.
Leggendolo ho avvertito uno sforzo enorme della scrittrice di cercare di dare calore ad una mongolfiera che testarda ed ostinata non ha voluto gonfiarsi condannandosi a restare ancorata a terra invece di spiccare il volo nell'azzurro cielo... un po' proprio come Il cardellino che dà il nome al romanzo.
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Dante visto con occhi diversi
E' la Firenze della fine del 1200 quella che è raccontata in questo libro, ma non solo.
Volendo sintetizzare questa piacevole lettura direi che si tratta di un saggio divulgativo che guarda ai giorni nostri e ci mostra quanto l'evoluzione sia lenta nella sua azione sull'uomo.
Alessandro Barbero, per i pochi che non lo conoscessero è uno storico di indubbia bravura e simpatia, completamente fuori gli schemi, capace di mostrare la storia da una prospettiva il più oggettiva possibile e mettere da parte le proprie opinioni personali o meglio, capace di non farsi condizionare da esse.
Uno storico che riesce ad appassionare in prima battuta e a far riflettere a lettura conclusa.
Ero certa che anche in questo saggio sarebbe riuscito a dare nuova luce al Poeta.
Non sono stata delusa, partendo dall'infanzia di Dante non tralasciando il contesto storico in cui egli cresce, ci accompagna nella sua crescita riuscendo a farci capire quanto gli uomini del '200 fossero simili a noi e quanto le loro azioni fossero simili alle nostre.
Ho letto da più parti che questo sarebbe una biografia romanzata, secondo me non lo è è soltanto un saggio scritto in modo divulgativo, in cui tutte le nozioni, compresa la bibliografia e le note a margine, sono presenti, ma in modo simpatico e scorrevole.
Lo stile di Barbero riempie gli occhi di immagini, che spesso di sovrammettono scardinando i piani temporali, Dante alle prese con i suoi ricordi in esilio letto da dantisti che litigano tra di loro cinquecento anni dopo.
Un'esperienza davvero piacevole il cui risultato, oltre a conoscere meglio Dante è quello di andare a rileggere la Divina Commedia con un occhio diverso.
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Le emozioni abitano le case
Mi è capitato sotto gli occhi come una luce, per caso, che ha risvegliato la mia curiosità.
Non sono rimasta delusa, una scoperta davvero piacevole e inaspettata.
Con uno stile originale e coinvolgente Bajani riesce a scardinare ogni chiodo che forma le sovrastrutture lasciando il posto a ciò che davvero è essenziale: le emozioni.
Le emozioni rimangono come echi nelle case vuote, i concetti stessi si fanno casa di emozioni proteggendole e amplificandole.
Lo stile, come accennato prima, è senza dubbio la caratteristica che più risalta, esalta una trama banale, la storia di una vita fatta di amore, paure, tristezza, odio, malinconia, liberata dalla pesantezza dei particolari, dei dialoghi spesso inutili.
I personaggi,quelli viventi, (ma possiamo davvero affermare che le case non abbiano una loro vita aldilà di coloro che la occupano?) seppure appena accennati sono tridimensionali, vivi, potrebbero essere ognuno di noi e la scelta di chiamarli con il nome comune di persona rende ancora più universale il concetto.
Difficile poter trasmettere il senso di fusione che si realizza durante la lettura di qeusto libro, ogni individualità si disperde e si fonde, appunto, con il resto, diventando parte di un tutto, quasi ancestrale, in cui spicca come emozione paradigmatica, fattasi casa per antonomasia la Tartaruga, vera chiave di lettura di tutto il libro.
Piena di sensazioni piacevoli ho lasciato questa lettura, felice per aver finalmente trovato un autore italiano che mi ha davvero completamente convinta.
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Conosciamo gli Hillbilly
Quest’anno per Natale eravamo in zona rossa, così il gradito regalo di mio fratello è arrivato in ritardo di qualche giorno: era questo titolo che non avevo mai sentito nominare, ma che ho poi saputo essere piuttosto popolare anche in seguito al film omonimo trasmesso da Netflix.
Fin dalle prime pagine ho sviluppato un’ antipatia per il protagonista, complice lo stile autobiografico che sfrutta l’io narrante, tipologia di narrazione che non amo e molto di raro mi appassiona.
La traduzione del titolo, come troppo spesso accade, non ha niente a che vedere con il titolo originale: “Hillbilly elegy; questo titolo rende almeno comprensibile il testo del libro.
La trama, come ho accennato è una sorta di autobiografia con velleità di denuncia sociale: la discriminazione degli americani irlandesi, vista attraverso gli occhi di uno che “ce l’ha fatta”.
La lettura scorre veloce, le immagini si ammassano davanti agli occhi richiamando alla memoria innumerevoli scene di film americani, case fatiscenti, adulti rimasti bambini, che inseguono maniacalmente il sogno americano, trappola dorata che fagocita chiunque non abbia una totale assenza di sensibilità e empatia, riducendolo a rifiuto tossico per poi risputarlo nella realtà capitalistica in cui la colpa inespiabile si chiama fallimento.
Uomini e donne, bambini e ragazzi, intere famiglie si muovono in un sottobosco fatto di povertà, ignoranza, superficialità, un mondo in cui la violenza è così normalizzata da far sembrare le offese un nomigliolo, le botte baci della buonanotte.
Non so se l’autore, J.D. Vance, sia consapevole che raccontando quello spaccato di realtà e sottolineando più volte che “lui ce l’ha fatta nonostante sia un Hillbilly”, dimostra esattamente il contrario: si è solo arreso a ciò che la società americana aveva deciso per lui, incarnare il sogno di altri.
Lettura non del tutto piacevole, ma che presenta più piani di lettura, oltre a quello narrativo che senza dubbio risulta fruibile, c’è quello sociale, che a mio avviso inconsapevolmente Vance riesce a rendere molto interessante: negli Stati Uniti o concorri a fortificare il “sogno americano” oppure vai ad aumentare il numero di coloro che ad esso si contrappongono rendendolo reale, il numero dei falliti e i falliti negli Stati Uniti non hanno la dignità neppure di sognare un altro sogno
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Circolo Pickwick
Quando penso a delle letture da intrattenimento Io penso proprio a questo genere di romanzo.
Circolo Pickwick riesce nell'intento di far trascorrere molte ore in piena serenità, ha il dono di far riconciliare col mondo indirizzando la luce su tutto ciò che di bello può esistere, su tutto ciò che l'umanità possiede per trasformare il male in bene. Pickwick è un padrone, certo uno di quelli buoni che ama il proprio servitore, è ricco con un atteggiamento paternalistico, ma non è possibile non volergli bene, essendo figlio del suo tempo non si può pretendere di più : cerca il buono in tutti, ma non solo tenta, una volta trovato, di valorizzarlo e renderlo visibile.
Tutto quello che viene narrato, anche nei momenti più bui e più tetri, ha uno scopo catartico, fa soffrire, ma c'è sempre una luce di speranza e di giustizia che permette, davvero, a tutte le buone emozioni di scivolare a livello conscio e regalare uno stato di benessere e voglia di fare del bene.
Dickens in questo libro è allegro positivo, si iniziano già a vedere anzi ad intravedere, le pieghe amare della società che verranno descritte e analizzate nei lavori successivi, ma sono avvolte da una coltre di speranza: la speranza che gli uomini che le hanno generate possano appianare.
I personaggi, inutile dirlo ,sono straordinari: ognuno sembra avere una vita oltre le pagine descritte, è facile immaginarli viverla mentre si seguono le avventure di un altro personaggio la tridimensionalità di cui sono dotati è incredibile, sempre del tutto coerenti con se stessi.
Infine lo stile minimalista, fresco e asciutto con dialoghi brillanti e iconici.
Cos'altro dire se non consigliere di leggerlo al più presto con animo leggero, sicuri che se una vena di tristezza attraverserà le pagine sarà sempre ripagata da una gioia tale da far sì che ci si possa riconciliare con mondo
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Tre camere a Manhattan
Ho appena finito di leggere tre camere a Manhattan di Simenon
Qualcosa in questo titolo non mi ha convinto.
All’inizio non riuscivo a capire che cosa fosse: ho pensato che esperienze personali di vita passata mi avessero condizionata nel giudizio e che quindi non fosse del tutto oggettivo.
Quel continuo seguire, controllare, indagare, quella gelosia patologica quel bisogno incredibile di possesso da parte del protagonista mi avevano creato un disagio pressoché continuo una difficoltà nella lettura che rasentava quasi il dolore fisico, ma poi una volta finito e lasciato decantare ho capito, c’era qualcosa che non mi piaceva di questo libro ed era la superficialità dei sentimenti, quel bisogno incredibile di voler vivere qualcosa che in realtà non esisteva
Allora ho lasciato passare qualche altro giorno e ho continuato a riflettere, ho continuato ad analizzare i personaggi, le situazioni, l’intensità della scrittura di Simenon che raramente ha raggiunto questi livelli, ma non nel senso classico del termine, non come forza nella descrizione e nella caratterizzazione dei personaggi, bensì come forza dell’idea; dell’idea di amore, dell’idea di innamoramento romantico, un amore che può tutto, un amore che cancella il passato che scrive il presente che immagina il futuro, un amore che solo con la forza che gli appartiene può decidere una vita, può decidere di dare una svolta, può decidere di cambiare le persone.
Era questo quello che non mi piaceva e non riuscivo a comprendere, perché così lontano da quella realtà da quella forza che mi solito Simenon mette nei suoi romanzi.
Allora ho capito.
Ho capito che cosa ci voleva dire, ho capito che era proprio questo quello ci voleva trasmettere e l’unico modo per poterlo fare in modo così forte ed efficace era proprio quello di renderlo posticcio.
Un amore nato per caso in un bar, con uno sguardo, con una donna nè bella né brutta, né affascinante né indifferente, una donna normale una donna con i suoi problemi una donna chiaramente vera.
Un uomo, stessa cosa, con i suoi problemi con la sua vissuta o con la sua con vita difficile, un attore, non a caso, e così il romanzo va avanti; va avanti in questa ricerca spasmodica di bisogno da colmare di un amore a cui si vuole fortemente credere a cui si deve credere, per smettere di soffrire e devo dire che alla fine una volta compreso questo, una volta analizzata questa chiave di lettura il romanzo diviene molto interessante: grazie alla caratterizzazione scelta da Simenon, non riusciamo mai a conoscere fino in fondo, non riusciamo mai attraverso un abile gioco di specchi a conoscere la loro reale essenza, sappiamo solo che hanno bisogno l’uno dell’altro sappiamo che solo l’uno nell’altro potranno sopravvivere e così sarà.
Lascia una tristezza infinita, un pezzo di realtà ben impacchettata, ma che lascia intravedere l’abisso di solitudine in cui si può precipitare.
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Pastorale americana
Adesso che la 444 pagina è stata letta mi chiedo, a distanza di ventiquattro ore, come sia stato possibile che non avessi ancora letto questo libro, eppure è del 1997, avevo vent'anni in quell'anno; cosa stavo leggendo di così strabiliante da far andare in secondo piano Pastorale americana?
E gli anni successivi? Dov'era la mia curiosità, la mia intelligenza?
Non riuscivo a capire che quel titolo era fondamentale? Che in qualche modo mi avrebbe aiutata a meglio leggere quello che poi sarebbe capitato nella mia vita?
Forse sono davvero i libri a decidere quando è il momento di essere letti e noi crediamo invece di avere potere decisionale, solo loro che ad un certo punto capiscono di avere una possibilità di cambiarti la vita.
Così è successo a me, la settimana scorsa, Pastorale americana era in lista da più di due mesi, ma altri libri l'avevano barbaramente sorpassato e giunti alla mia coscienza prima; quello che lo ha fatto in modo più doloroso, preponente, devastante è stato La Storia della Morante, ma sarà forse materiale di un'altra riflessione.
L'edizione che mi ha scelta è quella che veniva allegata a Repubblica, la copertina è di un grigio anonimo, non invoglia, non emana quel bisogno di essere letta, non illude con promesse illusorie che in qualche modo verranno disattese: no non lo fa, infatti la sovracopertina è finita sotto la coperta dei gatti posata sul divano.
Così ho iniziato Pastorale Americana, mi ha avvolto in uno scialle di sogno, mi ha portato nell'America del secolo scorso, mi ha sventrato la coscienza ricostruendola più solida.
Subito dopo aver finito il libro ho deciso di noleggaire il film di Ewan Mc Gregor, ma non ha saputo neppure scalfire la grandezza del libro, incredibile come tutto intorno a me fosse tridimensionale mentre leggevo e sia diventato piatto mentre osservavo le scene del film, che avrebbero dovuto rappresentare lo Svedese, Jerry, Nathan, Merry, Dawn, Lou, Sylvia, Shila, ma che non era che pezzi di cartone che si muovevano su un binario.
Sono state scritte migliaia di parole sui personaggi, è stato spiegato il piano narrativo, quello sociale, quello economico, psicologico e anche forse finanziario; difficilmente potrò aggiungere qualcosa di più, che non si possa trovare su un qualunque sito di lettura.
Allora cosa mi trovo a cercare di tramettere con queste mie parole?
L'empatia che ogni personaggio ti obbliga a provare, quel vissuto maniacale di ognuno che continua e continua incessante come gli ingranaggi di una catena di montaggio, quel voler capire, incolpare, spiegare, aggiustare, ricostruire, ridipingere, ridisegnare... tutto fuorché ascoltare, accogliere, cullare il disagio, la sofferenza, la frustrazione di qualcosa che poteva essere e non sarà, che avrebbe dovuto essere e non sarà, di una felicità promessa, di un potere illimitato e aleatorio che non basta se non si evolve, che non basta non si plasma sul tempo, sullo spazio, sull'altro.
Un capolavoro paragonabile solo ai grandi classici del passato, in cui una storia si fa universale, in cui i personaggi divengono paradigmi, in cui quella che viene raccontata è l'umanità e non una storia.
Inutile dire che lo consiglio perché al pari dei gradi classici del passato non può lasciare indifferenti e Roth questo lo sa, sa di scrivere con inchiostro indelebile.
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Guerra e Pace
Quando ho deciso di leggere "Guerra e Pace" non mi ha spaventato la mole (complice anche la bellissima edizione Einaudi, cofanetto in rilegatura cartonata con sovracopertina, tradotta da Emanuela Guercetti) perché avevo già letto "Anna Karenina" e l'avevo adorato.
Quello che mi spaventava e che mi teneva lontana era l'argomento: Napoleone, la guerra, le battaglie, le strategie, isomma una noia mortale.
Ll'uscita, a gennaio, di questa nuova edizione, mi ha dato la spinta a compiere questo passo. Milleseicento pagine lette in un mese (per me un record, poiché leggo molto lentamente e spesso rileggo i passi che trovo belli).
Leggo spesso che non si dovrebbe descrivere nei romanzi: ma io amo le descrizioni , è come se le immagini comparissero davanti a me, come se ogni palla di cannone portasse con sé lo spostamento d'aria e il frastuono.
Un'immersione totale nella scena e nel 1800, che, forse, neppure la più realistica realtà virtuale potrebbe generare, poichè quello che si vede è filtrato dell'immaginazione e i particolari sono descritti in modo così vivido che non è possibile, neppure vivendolo, renderlo così sublime.
Quello che temevo si è rivelato non solo falso, ma la parte più bella, le battaglie perdono quell'alone di noia per acquistare una forza umana incredibile non ci sono soldati ci sono persone: che soffrono, che credono e sperano o che si disperano; i personaggi danno solo voce a quelle, migliaia di soldati, di civili di Uomini e Donne che si vedono attori di un'epoca che hanno la sfortuna di vivere.
I personaggi storici rendono il tutto più vero e tangibile la forza delle parole e la scorrevolezza della trama non permettono di interrompere la lettura.
Infine lui, Tolstoj, l'autore di questo capolavoro: è presente in ogni parola, in ogni dialogo.
Si conosce parte del suo pensiero e del suo agire, se ne esce gioco forza condizionati e l'epilogo è davvero moderno e attuale; Quell' epilogo in cui si analizza il concetto stesso di libertà così tanto utilizzato, ma mai così tanto ignorato come aggiorni nostri
Non posso non consigliare la lettura di questo libro, credo debba fare parte del bagaglio culturale di ognuno, non solo perchè Natasha, Pierre, Andrej, Nikolai, Sonja è tutti gli altri entreranno di prepotenza nei meandri della vostra intimità, ma perchè la visione dell'umanità e della Storia ne usciranno diversi e voi ne uscirete cambiati, più propensi a chiedervi quale sia il vostro ruolo in questo mondo.
Vi auguro una buona lettura!
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Infinite Jest
Ci sono mementi nella vita in cui la confusione si annuncia con delle turbolenze fatte di sbalzi d'umore, fitte allo stomaco che si trasformano in lacrime, sensazioni che portano a credere che una catstrofe imminente sia dietro l'angolo, ma in realtà sono solo intuizioni di presente mal celato che si nsconde agli occhi, ma non al cervello e si percepisce, si assapora e si ha paura di quello che già sappiamo, presto o tardi accadrà.
In un momento come questo ho deciso di tuffarmi in una lettura che avevo sempre rimandato, perché, pensavo, troppo difficile per me.
Mi ci sono immersa e come per magia da quel liquido sono rinata, mi ha protetta per almeno un paio di mesi, risucchiandomi, mio malgrado in una realtà distopica, in cui le sensazioni si sono fatte liquide; ho sentito fisicamente le emozioni descritte, gli stati d'animo, ho capito le cause che hanno portato a certe conseguenze.
Infinite Jest è molto più di un romanzo, è una esperienza di vita, è la prima vera esperienza con la realtà vituale che abbia mai provato.
Mentre lo leggevo non ero sul mio letto, nella mia casa ero là in quelle strade, in quei luoghi e per la prima volta nella mia vita, davvero mi sono drogata e ho sentito la crisi d'astinenza, ma anche la disperazione di giorni uno uguale all'altro, la dipendenza che va a braccetto della disperazione, la sostanza che si fa farmaco, per curare un bisogno disperato di felicità.
L'ho sentito attraverso i personaggi.
Ci sono domande e risposte che pongono altre domande e così per mille e passa pagine, mai una parola di troppo, lo stile perfetto, che non ho trovato in "Interviste a uomini schifosi" si fa qui mezzo per dividere in due il mondo quello reale, che pagina dopo pagina si smaterializza e quello raccontato che diventa il Mondo e ti ingloba, tanto da farti sentire impotente di fronte a tutti: tutta quella miriade di personaggi le cui vite si intreciano, si sfiorano, si distruggono, ma ti arricchiscono.
Sono tante pagine, ma sono poche...
Inifinte Jest, l'intrattenimento ricercato nel racconto, film capace di essere la droga definitiva è in realtà anche il titolo del libro e davvero l'azzurro della quarta di copertina lascia un infinito vuoto per qualcosa che esiste, ma che non potrà essere replicato e che personalmente ho trovato solo nell' Ulisse di Joyce.
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Anni lenti
Mi sono approcciata a questo libro non conoscendo l'autore, spinta dalla trama che sembrava interessante, seppur non scevra da potenziali banalità, ma si sa dipende dalla penna di chi scrive rendere la più semplice delle storie una bellissima esperienza letteraria.
L'ambientazione è la Spagna degli anni sessanta, le prime cellule separatiste basche che si formano, l'odio che trasuda verso Franco, la quotidinità delle famiglie, l'universale grettezza del popolino.
Se c'è una cosa che almeno nella prima parte del romanzo è ben fatta è l'atmosfera, polverosa di quei quartieri bagnati da una pioggia minacciosa, lenta e incessante.
Non è stata una lettura che mi ha lasciata soddisfatta, ancora prima che per la sceneggiatura per lo stile.
La scelta di utilizzare la metascrittura mi è sembrata artificiosa e inutile al fine di far vivere la storia, perché se da una parte la contrapposizione tra le memorie del protagonista e gli apunti dello scrittore danno forza alla figura del protagonista stesso, dall'altra succhiano tridimensionalità a tutti gli altri personaggi, relegandoli nella penombra di un passato lontano col quale male si empatiza.
Si capiscono le intenzioni dell'autore, ma a mio avviso il risultato è privo di forza e alla sua conclusione non si rimane con nessuna immagine fissata nella mente, con l'impressione di non aver conosciuto nulla in più se, come me, non si era appreso prima da altre fonti.
Non mi sento di consigliarne la lettura, seppur abbia molte qualità, uno stle veloce e semplice, dialoghi mai banali, lessico colto, ma comprensibile e la simpatica caratteristica di mostrare come pensa uno scrittore mentre crea, i suoi pensieri, i suoi dubbi le sue paure; ma ripeto quello che secondo me è l'essenza della storia è soffocata da artefici stilistici, che sono certa hanno fatto la fortuna del titolo, ma che io non sono riuscita ad apprezzare in pieno.
Underworld
Ho conosciuto Delillo grazie a Pynchon e al suo bellissimo “V” che ho recensito qualche secolo fa.
Appena uscito ho letto “Zerok” e mi è piaciuto, per molti motivi, ma che alla luce di “Underworld”,adesso, lo trovo deficitario di emotività.
“Underworld” è passato, presente e futuro condensato in un unico lunghissimo istante; il prima influenza il dopo, ma è vero anche il contrario; si comprende, si giudica, si vive leggendo questo libro.
Un lento scorrere di eventi, senza un fine, senza una storia, senza un inizio e senza una conclusione, la semplice forografia di un epoca, lo spaccato di una società in cui la storia ha lasciato il segno e ha condizionato gli individui nel loro privato, nel loro intimo.
La storia, spesso intesa come un fardello del passato, si trova tra gli anni cinquanta e novanta a essere protagonista della quotidianità: la paura della guerra nucleare, la costruzione dei rifiugi antiatomici, l’aria imbibita della caducità e insicurezza del futuro.
In questa America quanto mai potente, ma formata da individui impauriti e quasi paralizzati da una fine imminente alla quale di arrendono impotenti, una cosa unisce tutti e a tutti parla: il baseball, sport nazionale, foriero di spensieratezza e di miracoli.
Vera metafora della vita: quando tutto è perduto, il miracolo; quando si sta scendendo gli spalti col cuore in lacrime ecco il fuoricampo che concretizza il sogno, il colpo che ribalta la realtà.
Quella palla rappresentate di tutto questo, nella realtà fu persa e mai ritrovata, ma Delillo ne ipotizza la storia e la mette sullo sfondo di un racconto, ma non immaginate che essa sia protagonista, non immaginate un mero esercizio di stile in cui la palla scorre del tempo e sullo sfondo ci sono i personaggi; no, Delillo non farebbe mai una cosa così banale nel suo capolavoro, lui riesce a dare il giusto peso alla palla, a quell’idea di sogno, a quella scintilla che porta il cambiamento, ma che se non alimentata lo lascia a se stesso, come instante glorioso, ma relegato nel passato.
Allora ecco la palla si fa segreto cimelio di un mondo lontano in cui tutto era diverso, in cui la povertà incombeva e se anche si sarebbe voluto utilizzarla per altri scopi, si è costretti a darle un valore economico e non emotivo, materiale e non trascendentale.
La palla passa di mano in mano, come rappresentate di una speranza, cimelio segreto di una vita di stenti e di riprese, di sbagli e di redenzioni.
Tutto questo, che può essere riassunto in poche parole contiene l’essenza della vita stessa e la riporta con una forza tale da lasciare il lettore inerte alla conclusione delle novecento pagine che passano in un attimo, ma restano dentro come una pietra miliare.
Il tutto con lo stile assolutamente perfetto di Delillo che descrive ed emoziona rendendo la lettura un’esperienza quasi virtuale.
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Il fiuto del dottor Jean
Sarà a causa del mio essere medico, sarà che anch'io abito in un piccolo paese e spesso mi capita di dovere andare a fare delle visite in mezzo al nulla, ma questo dottorino mi ha davvero conquistata.
Un Simenon che ad una prima lettura può apparire sottotono, meno coinvolgente e avvolto da un'aura quasi di stanchezza; ma questa sensazione dura poco, appena il tempo di arrivare alla penultima pagina del primo racconto, quando ci si accorge che il dr. Jean si è incuneato, in punta di piedi, nelle nostre sinapsi e la voglia di vedere cosa andrà a combinare ci pervade e costringe a leggere il successivo.
Quattro racconti sono raccolti in questo volume ed è presente una continuity; leggibili singolarmente, sono molto più comprensbili e se ne apprezza più l'evolversi del personaggio se letti in successione.
Il lessico è lo stesso, ricercato, ma non troppo, essenziale, ma mai povero ea differenza dei romanzi in cui è presente Maigret si ha a che fare con un personaggio che è uno di noi ed è per questo che è adorabile.
Imamginate un giovane dottore dei tempi andati, con una macchina sgangherata, intento a medicare ferite e far nascere bambini, nel caldo afono del sud della Francia, in un'estate torrida; immaginatelo andare in una casa sperduta a fare una visita e non trovarci nessuno di umano, ma incontrare una passione sconosciuta eppure pervasiva: l'investigazione.
Per caso, per diletto il dottorino diviene un investigatore per passione e i suoi teatrini con le forze dell'ordine sono esilaranti e la sua caratterizzazione convincente.
Consiglio, come sempre la lettura, per rilassarsi e sorridere.
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Il fondo della bottiglia
Una luce appiccicosa attraversa il liquido ambrato di un bicchiere, preannunciando la disgrazia e la catarsi.
La sottile apatia tipica del sud degli Stati Uniti, almeno come noi europei siamo abituati a pensarlo, abitata da individui ancora in odor di separazione razziale, bianchi ricchi e domestici neri, ranch e giovenche, cow boy e stalloni.
I tuoni e i lampi che porteranno la pioggia, che ingrosserà i fiumi e che inonderà le strade; l'alcol che placherà la noia delle lunghe ore trascorse in attesa di uno spiraglio di sole e di normalità, che placherà i rigurgiti del passato che è anestetizzato, lontano, in un tempo di cui non si è certi, che sbiadisce al ricordo, rendendolo quasi impalpabile incerto.
Quel passato sotterrato riemerge sotto cumuli di terra e come la mano di un sepolto vivo reclama e pretende la luce e la salvezza.
Quella notte, fatta di alcol, di tuoni, di lampi e di pioggia è il passato a bussare alla porta di P.M stimato avvocato dal passato nebuloso, sposato ad una ricca donna e amico di facoltosi possidenti, con cui giocare a bridge, oziare ai bordi di una piscina o cavalcare in sella ad uno stallone.
In quella notte umida, inospitale e foriera di sventure un uomo reclama la sua libertà e la pretende da P.M., che è invaso da paure ancestrali, sensi di colpa atavici e timori sociali superficiali; di colpo la realtà è distorta, proprio come attraverso un bicchiere pieno di whisky; i colori e le forme si fanno indistinti e il futuro si fonde con un passato che non vuol obliarsi, che non vuol sparire.
La voglia di normalità, di non intaccare il pur precario equilibrio, fa sì che tutto sia una rincorsa a sotterrare qualcosa che recalcitra e non vuol morire, al contrario vuol rinascere e nonostante tutto rinascerà, ma ad un prezzo molto alto.
Se vi troverete tra le mani questo romanzo non aspettatevi il solito Simenon, sarà una lettura amara, odierete ognuno dei personaggi, ma non potrete non assolverli, perché avranno debolezze conosciute e non sarà facile condannarli; li vedrete come pedine di un destino infausto che dovrà compiersi, privi quasi di volontà, incapaci di vedere oltre il proprio protetto mondo.
Un senso di vertigine vi colpirà e il lessico di Simenon, sempre perfetto e mai banale vi sosterrà in questo viaggio, tenendo la flebile fiammella della speranza sempre accesa, fino alla fine.
Conoscere le note biografiche dell'autore aiuterà a comprendere i percorsi mentali che hanno portato alla stesura di questa storia, ma se ne fruisce in modo davvero piacevole anche senza.
Buona lettura, essersi sbronzati fin quasi al coma etilico non è strettamente necessario, ma può essere utile!
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Le ferite originali
Un tuffo perfetto in questo nostro scombinato mondo, una rappresentazione realistica di interazioni umane,con reazioni verosimili e del tutto plausibili.
La forza di questo romanzo non è nella storia in se stessa, ma nello stile fresco e mai banale.
I personaggi sono presentati in modo naturale, senza preamboli,senza inutili descrizioni che uccidono l'immaginazione, ma solo gli elementi davvero necessari sono svelati.
Nonostante i personaggi siano un po' sopra le righe, il tutto risulta amalgamato in modo coerente e immerso,appunto, in un'atmosfera che fa vivere le figure che la abitano.
Come dicevo prima più che la storia a colpire è l'ambientazione.i giorni nostri, con qualche riferimento agli anni novanta, epoca,per chi l'ha vissuta da ventenne, molto confusa, in cui tutto si scriveva "libertà", ma si leggeva "confusione",in cui il sesso, l'orientamento sessuale, i costumi avevano ambizioni avanguardiste, ma nella realtà era la paura dell'ignoto a farla da padrone.
Questa atmosfera non solo impregna tutto il romanzo,ma ne è il vero fulcro, vengono analizzate, sempre attraverso le azioni dei personaggi e i loro comportamenti, le cause che portarono a quell'epoca e le conseguenza che la stessa ha portato su di essi,in un modo così vicino al mio sentire, da rendermi questa lettura ancora più gradita.
Il tutto condito con un colonna sonora accattivante, si legge con in sottofondo Jeff Buckley, Florence and the Machine per continuare con Space Dementia dei Muse, passando da immagini tipiche di quegli anni come Twin Peaks.
Un modo per i quarantenni per ricordare da dove vengono e cercare di arginare i danni che forse inconsapevolmente stanno facendo.
Lo consiglio vivamente non solo per trascorrere qualche ora in buona compagnia,ma anche per cercare di comprendere un'epoca piena di contraddizioni non ancora del tutto svelate.
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IT
Melma, pantano e fango; odori nauseabondi,oscurità e paura, sono ciò che mi è rimasto addosso dopo aver concluso questo monumentale romanzo; famoso ed apprezzato a livello quasi globale.
Ho provato a calarmi nell’atmosfera di Derry, di cercare quella magia legata, in modo quasi mistico, all’infanzia e alla sua spensieratezza, a quei momenti felici, che poi felici non sono, ma non ci sono riuscita e credo così di essermi persa tutto ciò che di impalpabile e onirico ci fosse in questo libro.
Ho faticato a finirlo, ci ho impiegato quasi lo stesso tempo che i sette amici ci hanno messo a tornare a Derry; ho avuto il blocco del lettore leggendolo, ma sono giunta alla conclusione riuscendo ad empatizzare, alla fine solo con IT: creatura malvagia suo malgrado, creatura quasi predestinata alla cattiveria, parte di una trinità incomprensibile e immutabile.
Non ho amato questo romanzo, ma non posso non percepirne la portata in termini di contenuto: vengono affrontati tutti i temi tipici dell’infanzia ed è proprio in quel periodo in odor di adolescenza che i protagonisti si trovano a vivere e a creare un sodalizio, per sconfiggere IT: la paura, l’ignoto, l’incomprensibile.
Non serve ripetere ciò che è stato sottolineato più volte, ma mi piacerebbe soffermarmi su due punti che ho trovato davvero molto interessanti ed è il motivo per cui consiglierei la lettura sopratutto ai genitori di ragazzi di quell’età che spesso, loro sì, hanno perduto la memoria nel passaggio dall’infanzia all’età adulta.
Quei bambini hanno dodici anni e, King in questo è magistrale, hanno pulsioni, compiono pensieri e azioni tipiche della loro età, infatti nessuno, almeno nelle critiche che ho letto, trova quei ragazzini troppo grandi per la loro età, o troppo audaci o troppo emancipati.
Non mi riferisco al solo campo sessuale, seppur molto importante e molto ben rappresentato, ma anche nella definizione delle singole personalità, già chiare e che col tempo diverrano solo più marcate.
Le pulsioni sessuali di Bev alla vista di Henry nudo sono verosimili, le sensazioni di Ben, innamorato dell’unica ragazza del gruppo sono molto più che platoniche, nonostante il forte sentimento.
Il sesso è vissuto da quei ragazzi come, in gran parte, lo abbiamo vissuto tutti, non riconoscendolo: il sesso è conosciuto dalle parole e dalle azioni degli adulti, ma sentito con le proprie sensazioni, emozioni e vibrazioni, ma il collegamento non è così semplice.
Quei ragazzi e Bev in particolare ha un’idea del sesso come qualcosa di potente, che porta a fare di tutto e io credo che la scena di sesso tra i ragazzi vada letta come una sorta di squarcio temporale, in cui il prima e il dopo si mischiano in un luogo sospeso dove tutto è indefinito e dove l’istinto è tutto.
Questa scena, secondo me tra le più potenti del romanzo, dato anche il contesto in cui è stato scritto e in cui si svolge, è trattata in modo troppo frettoloso, con troppa razionalità da parte di Bev, che dovrebbe intuire e al limite sentire quella forza, ma non capirla così in porfondità.
L’altro punto che ho trovato davvero interessante è la lettura più psicoanalitica: IT come rito di passaggio, l’infazia che finisce e l’età adulta che volge alla maturità, dodici e quarant’anni, ricordare ciò che si è dimenticato per vivere felici e per capire che ogni età ha le difficltà, ma che ciò che non dobbiamo mai perdere è l’entusiasmo e la fiducia di poter cambiare il mondo, a dispetto delle evidenze e dell’oscuro volto che il nemico assume, a volte lasciare che quel periodo avvolto di dolce malinconia, fatto di giornate spensierata a giocare ritorni ad essere ciò che era, un periodo difficile, in cui ogni giorno c’era una sfida da affrontare in cui nessuno ti vedeva e tutti sapevano cosa era meglio per te e in cui la tua opinione, nel mondo non contava nulla e cercare quella fiducia nel futuro, quella forza di realizzare i propri sogni perché non è mai troppo tardi per farlo e sopratutto non è per forza necessario essere degli adulti che non ascoltano i bambini e che sanno cosa è meglio per loro credendo che siano troppo piccoli per capire, privandoli così dei giusti mezzi affinché possano comprendere il mondo circostante ed aiutarci a rivederlo ancora come allora.
Un romanzo che va letto perché ha influenzato moto del nostro cinema e molti dei nostri libri, ma che non mi ha entusiasmato.
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Brevi interviste con uomini schifosi
Spunti banali per raccontare universi inesplorati, attimi di vita in cui è racchiuso il senso di un'intera esistenza.
Approcciarsi a Wallace non è facile, un lessico ricercato, variegato alla stregua dei temi trattati; un tentativo ben riuscito e all'apparenza spontaneo di rendere parola una sensazione, colorare le immagini mentali e portare il lettore a vivere quell'esperienza.
Come se Wallace avesse anticipato la realtà virtuale, si vive il racconto in soggettiva, anche se narrato in terza persona, anche se c'è un personaggio che parla di un altro personaggio, che non compare nel corpo del racconto.
Si vivono velocità opposte, attimi dilatati in eterno e eternità rinchiuse in un secondo, in una destabilizzazione che porta a vertigini senza fine, a sentire il testo, senza più comprenderlo; perché il piano narrativo perde di significato, è la forza della parola, il suono, la dolcezza che sono certa si perde in parte nella pur perfetta traduzione.
C'è un racconto fra i tanti intensi e taglienti che penetra nelle corde dell'animo e vi si attorciglia fino a stritolarlo: parla di un padre che sta morendo, il suo punto di vista nei confronti del figlio, un figlio che gli ha rubato la moglie, l'ha cambiata e della sua sofferenza per questo, del suo odio, taciuto, celato, ma non del tutto, verso questo usurpatore; un complesso d'Edipo visto dagli occhi del padre invece che del figlio.
Quell'attimo che strappa la vita sembra non concludersi, l'ansia, la voglia di giustizia, l'assurdità di un sentimento che non è poi così lontano dal comune sentire si condensa una matassa di emozioni che scavano in profondità toccando corde di cui il lettore ignorava l'esistenza.
In un percorso che ricorda Joyce per la sperimentazione e per la ricerca di uno stile che frantumi gli schemi e li renda quasi incomprensibili ad una logica ferrea, il libro nel suo insieme lascia una sensazione di disagio psichico alla sua conclusione, un senso di disgusto verso se stessi, il mondo, l'umanità; quasi Wallace fosse riuscito, senza avvalersi mai di un qualsivoglia giudizio morale a far emergere il lato più meschino e primordiale di tutti noi, come se la corteccia frontale fosse bypassata e l'istinto si liberasse e divenisse capace di sentire le sensazioni raccontate e di guardarsi in uno specchio.
Un'esperienza frammentata, che proietta la coscienza nel campo della meditazione più che della razionalità; è necessario fare uno sforzo per lasciarsi andare alle sensazioni, per guardare il singolo racconto, sentirlo e viverlo più che prenderne coscienza.
Non è una lettura semplice, né rilassante, ma senza dubbio intensa ed elettrizzante, dopo averla fatta si può affermare di aver vissuto un'altra vita!
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Purity
Un tuffo nel tempo e nello spazio alla ricerca dell'origine di tutto col rischio di perdersi nel frammento di una storia intrecciata in modo così stretto quasi da non riuscire a distinguerne i fili.
Frenzen con uno stile sobrio e scorrevole, che non varia molto per tutto il testo riesce a dar vita a un dipanarsi di eventi partendo dal momento attuale, per poi scorrere avanti e indietro, disseminando indizi qua e là, dando vita a situazioni improbabili, ma solo per chi non sa, per chi non conosce.
Ti prende per mano e ti porta dove vuole e se in un primo momento tutto appare sopra le righe, quasi forzato e inverosimile, non servono molte pagine per capire che non poteva non essere così, date le premesse; a tratti ironico e sarcastico sa essere tenero e struggente quando i personaggi vivono emozioni profonde e che incideranno, distorcendo, levigando e perfezionando la loro personalità.
Il lessico utilizzato è ricercato senza essere aulico, appropriato ai contesti, riesce a inserire parole desuete in conversazioni ordinarie senza risultare inopportuno. Si attraversano molte situazioni che verranno analizzate e ogni volta il linguaggio si cuce addosso ai personaggi rendendoli tridimensionali. Sembra una cosa banale, ma è proprio l'immediatezza dei dialoghi, la loro vero somiglianza a far si che l'insieme risulti vivo e che le frasi e i concetti espressi possano rimanere impressi nella memoria prendendo quasi il posto dei ricordi.
Tutto questo è presente in Purity in cui prendono vita uomini e donne peculiari, particolari ma definiti così bene fin dal profondo, analizzati, anzi psicoanalizzati in modo così perfetto da far pensare che quella raccontata sia una storia vera e non un romanzo di fantasia.
La protagonista è tale perché è il fulcro su sui tutti i fili tendono, un minimo comune multiplo in vite che si sono incontrate per caso, proprio come accade nella realtà.
La sua vita è complicata, ma la sua personalità è forte e definita, così come quella di Tom, di Andreas, ma soprattutto quella di Anabel personaggio sublime, al limite della poesia tanto che io avrei intitolato il libro a lei, vera colonna portante di tutta la storia con la sua forza e i suoi ideali.
L'essenza del libro è tesa a cercare una purezza, un modo per raggiungere gli ideali in cui crediamo sporcandosi il meno possibile, ma proprio in quel meno possibile che sta tutta la differenza.
Possiamo credere di essere abbastanza puri, ma la purezza è un tutto o nulla, non esistono compromessi, se una molecola di sporco appare la purezza svanisce e poco importa che si tratti di pochi o tanti soldi, poco importa se decine di anni e di soprusi, di violenze e di privazioni possono giustificare quella macchia, essa c'è e la purezza svanisce...svanisce per non tornare mai più.
Un'emozione incredibile e non stupisce che sia stato considerato il miglior libro del 2016: quello che differenzia un libro scritto bene da un'opera d'arte è la capacità di far vivere i personaggi e di far vivere al lettore quella situazione e non di farlo assistere. Il rapporto madre- figlia, amante-amante, guru-seguace e molti altri sono analizzati così bene che la sensazione alla fine questo testo è quella di aver compreso tutti i personaggi e che ogni tassello sia al proprio posto.
Non posso che consigliarne la lettura che se anche impegnativa per numero di pagine non lo è per stile, contenuto e piacevolezza.
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ZeroK
Capita a volte di imbattersi in un libro richiamati dal suo autore, costretti a sfogliare le pagine nonostante l'argomento non susciti curiosità.
Con questo stato d'animo mi sono avvicinata a ZeroK di Delillo: la certezza della bellezza, l'incertezza dell'emozione.
Quella prosa che cattura, spinge a leggere ancora, ad abbeverarsi da quella fonte così che la storia entra dentro, attraverso la descrizione degli ambienti, asettici e freddi adatti a descrivere la morte, ma anche la nascita: la morte vista come cambiamento di stato e non come fine di tutto.
Sconfiggere la morte è senza dubbio il più grande dei sogni degli uomini, ma controllarla è forse più alla loro portata: così la sapiente penna di Delillo ci scaravanta in un futuro possibile, fatto di speranza rotta dalla certezza della perdita della persona cara; così che diviene difficile scegliere, una penosa speranza in cui cullarsi sperando di riabbracciarla o una rasseganzione data da due metri di terra sopra il suo corpo?
Molte sono le domande che ci si pone, molta l'empatia per ognuno dei personaggi che in modo magistrale interpretano il loro ruolo.
Solo questo basterebbe a fare di ZeroK un bellissimo libro, il tema trattato e lo stile usato, ma c'è di più: ci sono le caratterizzazioni che rendono tutto vivo, mobile, in divenire
Jeffrey, il protagonista, vive un vero e proprio percorso psicanalitico, nella non-morte della matrigna rivive la propria vita, il rapporto con la madre, col padre, con se stesso.
Un percorso difficile, reso ancora più pesante dal fardello della morte che incombe, la morte passata della madre, quella recente della matrigna e quella futura del padre.
Si rimane straniati nella lettura, tutto prende vita, si vedono gli enormi schermi con gli occhi di Jeffrey e sempre con i suoi occhi si intuiscono le persone cercando di dar loro un nome adatto, chiaro tentativo di voler conoscerle, di voler capirle, quando di comprensibile c'è ben poco.
Lo stile è perfetto, i tempi narrativi anche, il lessico ricercato e la traduzione direi ottima.
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L'uomo nudo
Che Simenon sia uno dei più grandi scrittori del novecento è cosa risaputa, ma scoprirlo in grado di creare personaggi credibili e interessanti senza soluzione di continuo è qualcosa che non è così scontato.
Questa raccolta di gialli, tre per la precisione, non ha come protagonista Maigret, anche se la sua figura come un fantasma benevolo aleggia nell'aria; ma l' Agenzia 0 : investigazioni provate al cui comando è un ex collabaratore del commissario, che ad un certo punto della carriera decide di mettersi in proprio.
Così, almeno vuol farci credere la quarta di copertina, dovrebbe svolgersi l'azione, casi risolti da occhi privati e non dalla polizia di Stato; la realtà, come è facile aspettarsi, è molto più variegata di quello che viene mostrato e fin dal primo racconto si capisce che il suddetto ex poliziotto Torrence non è davvero il capo, ma ne recita solo il ruolo...perché? Chi è in realtà colui che manovra l'agenzia?
Emile è un ragazzo smilzo, rosso di capelli, timido e impacciato, che ama stare defilato e nascosto, ma è proprio egli il cuore pulsante e il cervello pensante dell'agenzia; spacciandosi per fotografo è sempre con Torrence sui luoghi del delitto, come un bravo impiegato sempre alla scrivania dell'ufficio adiacente, dotato di spioncino, a vigilare sull'operato di Torrence.
Come succede anche nei gialli in cui Maigret è il protagonista anche in questo caso non sono le vicende a farla da padrona, per quanto interessanti e ben raccontate, ma gli stati d'animo e la personalità dei vari personaggi, che sono così ben caratterizzati da rimanere nel'immaginario, è così per la bella ragazza del primo racconto, sarà così per l'avvocato-clochard.
Il tutto tratteggiato con il solito lessico a cui Simenon ci ha abituato essenziale, ma elegante condito con una vena umoristica molto marcata.
Questi primi tre racconti editi da Adelphi sono imperdibili, sia per chi ama il Simenon- Maigret che non Maigret, rappresentando un buon compromesso tra i due mondi dell'autore belga.
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Un altro giro di giostra
Un regalo di Natale inaspettato, ma gradito come tutti i libri che si fanno spazio nella mia libreria;
non ne avrebbe mai fatto parte se mio fratello non avesse deciso di farmene dono.
Un autore, Terzani, che ha sempre suscitato la mia antipatia e il mio disinteresse, direi oggi, la mia superficialità.
Ogni volta che mi capitava di vedere la sua immagine pensavo a santoni indiani così lontani dalla mia cultura occidentale.
Dei tre libri che erano sotto l'albero è stato l'ultimo a venire aperto e quasi come atto dovuto o sfida:
-Leggilo e poi dimmi cosa ne pensi, come medico, della scelta di Terzani di affrontare la sua malattia! Mi disse mio fratello.
Una mattina iniziai di fronte ad un cornetto caldo e a una tazza di caffè ed è stata dura oltrepassare le prime trenta pagine, fatte di azioni e reazioni che conosco fin troppo bene, che mi apparivano scontate e intrise di quel dolore che, di certo, non ricerco anche nei libri; ma poi pagina dopo pagina sembrava che l'immagine di Terzani si componesse davanti a me, prima sfumata e poi sempre più nitida, da estranea sempre più amica.
Pagina dopo pagina, viaggio dopo viaggio, mi ha fatto scoprire la prospettiva del malato, quella che i tuoi pazienti non ti diranno mai, perché in te cercano la salvezza, il miracolo.
Quasi tutto il libro è una ricerca, un ripetere che la cura ai malanni, in oriente sta nel credere alla cura e non nella cura stessa e così per me è stato questo un viaggio fatto accanto ad un paziente, quel bisogno di essere preso in carico nel suo insieme e non a pezzi.
Uno stile semplice, ma raffinato, un lessico ricercato, ma mai pomposo, lieve come una piuma, malinconico come una foglia cadente fa breccia nel cuore del lettore che è portato a sperare nel miracolo, perché la sua onestà intellettuale non ha uguali, perché alla fine quella pace che cerca la troverà e le scelte fatte, alla prova del tempo gli daranno dato ragione.
Cosa risponderò a mio fratello?
Lo ringrazierò di cuore, perché non lo avrei mai letto, ma mi sarei persa un testo che per me è già fondamentale, un libro che mi ha cambiata in profondità, che mi ha insegnato a non dare niente per scontato, che mentre traffico con le mie medicine, il mio sapere dall'altra parte della scrivania c'è qualcuno che grida “ Io sono qui, no sono solo il mio malanno”.
Un libro che va letto a piccole dosi, un po' ogni giorno, senza esagerare, perché come un seme si deve depositare e crescere piano piano.
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Undici
Questo romanzo sarebbe risultato più fruibile se fosse stato presentato come una raccolta di racconti; si ha infatti la sensazione che Coe abbia unito varie immagini vive nella sua testa in una storia unica, ma che appare piuttosto slegata come se, appunto, il filo conduttore non spiccasse dagli altri che formano le varie sottotrame.
Senza dubbio il piano narrativo non è quello più importante, c'è una critica sociale molto chiara, ma mai originale, anzi piuttosto banale.
Sono presenti però, alcuni stralci davvero molto belli e poetici, per esempio, "Il giardino di cristallo" che non solo ha uno stile semplice e lieve, ma il messaggio, diciamo, psicanalitico che gli sottende è originale e toccante.
Questo capitolo è posto più o meno alla metà del libro e una volta conclutosi si coglie ancora di più la mancanza di ispirazione presente nel resto del romanzo; qui si parla di un'emozione e omaggiando in qualche modo Proust, la si vuole ricercare; il percorso per farlo è così sopra le righe, ma così dolce e così penetrante che non si può non approvare e non capire il protagonista che lo percorre.
I personaggi sono piuttosto piatti, ma Coe riesce dosandoli con maestria a creare un insieme piacevole, anche se troppo definiti, quasi stereotipati, finiscono con non generare alcuna empatia riducedosi così ad attori senza carisma.
In conclusione sembra che il romanzo stia sempre per decollare, ma ogni volta è una falsa partenza, rimane in ogni caso un'opera piacevole e che consiglio anche solo per quel gioiello che al suo interno è contenuto "Il girdino di cristallo"
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Il velo dipinto
Quasi trasparente quel velo copre la realtà; si colora e sbiadisce, ma, infrangibile, può solo essere sollevato, a proprio rischio e pericolo.
Kitty vuol essere ammirata, Walter vuol ammirarla, amarla, adorarla; Kitty vuol fuggire dal fallimento di una vita da zitella, Walter neppure immagina che un amore così grande possa essere tradito; Kitty tradirà, Walter non perdonerà.
In un'aria tossica, si svolge la vicenda, la Cina lontana, il colera, il caldo, il sudore, i palanchini, la frenetica immobilità cinese, le contraddizioni che si scontrano generando scenari privi di sentimenti sinceri, morte e devastazione sommergono marito e moglie e le loro piccole inutili vite prive di misericordia e amore.
Kitty cerca qualcosa che non trova, cerca la felicità, ma la cerca in ciò che conosce, nelle feste, nei balli, in un amore fatto di passione e travolgente e le piace essere ciò che è sempre stata: la più bella.
Sola in un paese straniero, sposata ad un uomo che non ama, stufa del suo amore incondizionato si lascia andare a chi le dà ciò che vuole, una passione fisica avvolta in un sottile velo d'amore che però giustifica il tradimento, quelle braccia così forti e possenti, capaci in un solo abbraccio di contenere il mondo le danno quella sicurezza che le è sempre mancata e lei si affida a colui che non l'ama, ma la desidera.
Il cuore di fronte a questa consapevolezza deve esserle scoppiato in petto, non una goccia d'amore risiede in quel rapporto, ma ella continua a desideralo perché è una breccia per rompere quel velo che è la sua vita: ma ciò che troverà sotto non sarà niente di meglio di ciò che vi è dipinto sopra.
Kitty sente l'odore lontano di ciò che cerca tra le suore di un convento, tra coloro che hanno lasciato vite di agi per dedicarsi agli ultimi, ma quell'essenza le sfugge, diviene cieca al suo cospetto e allora ancora sofferenza, ancora morte; Walter se ne va nel modo in cui si augurava se ne andasse lei e ancora non riesce a trovare uno scopo alla sua vita.
Kitty si guarda dentro e ciò che vede non le piace, ma non può imporsi di provare sentimenti che non prova, di essere migliore di quel che è; non può tornare bimba e non cedere alle lusinghe di una madre che l'ama solo perché bella, non può mentire a se stessa ancora e ancora; deve guardarsi allo specchio e capire che quel volto non cambierà mai, nonostante i limiti della dignità siano superati quel volto sarà lì a ricordarle da dove viene e chi è, sempre e sempre e non potrà fuggire da se stessa, l'unica speranza è che quel seme che porta in grembo cresca e viva la propria vita senza costrizioni, ma conscio che quello che sente in fondo al cuore è ciò a cui dovrà aspirare.
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Di rabbia e di vento
Forse il mondo là a Milano è davvero così, forse Robecchi si limita raccontare uomini reali e la freddezza metallica dei personaggi è voluta; o forse ci mostra la pochezza degli uomini con le loro contraddizioni, la totale perdita di valori e la snervante e inutile ricerca degli stessi in situazioni al limite del credibile.
La struttura del racconto è quella di un giallo, tra l'altro neppure così banale, interessante e avvincente: se fosse letto sulle pagine di un quotidiano locale.
La vicenda si svolge in una Milano claustrofobica, le cui strade, vicoli e viali sono intrecciati in un nugolo di nomi che si sovrammettono uno sull'altro nel vano tentativo di restituire al lettore l'atmosfera con interminabili serie di nomi di strade, forse caratteristiche, ma che alla lunga rimangono solo echi vaghi e ridondanti nella mente; ma quello che davvero rende la lettura irritante è la continua aspettativa di capire i motivi che fanno nascere determinate emozioni: forti profonde, vive, ma del tutto prive di pathos.
A volte ci sono personaggi che possono, anche solo con un silenzio, una pausa, un sospiro restituire uno stato d'animo perso, una paura nascosta, un'angoscia che urla dal profondo; sono quelle figure che rimangono nella mente e di cui rimaniamo amici per sempre; non è questo il caso: qui ogni figura suscita emozioni contrastanti, da una parte l'autore cerca di spiegare le loro ragioni, dall'altra il lettore non riesce a sentire niente e alla fine non comprende il perché di tutto.
Lo stile di Robecchi è difficile da giudicare, si ha l'impressione che sia una penna classica contaminata dalla modernità: la continua rottura della quarta parete e la scelta del narratore onnisciente rendono tutto molto pesante e anche quando la trama si dipana e l'entusiasmo dovrebbe arrivare al suo apice, qualcosa non funziona, la voglia è quella di giungere alla fine e non di scoprire chi sia l'assassino e quale sia la storia che si cela dietro le vittime.
In conclusione non è una lettura spiacevole, rimane la sensazione che sotto forma di racconto avrebbe reso meglio e che una maggiore sintesi e delicatezza stilistica avrebbero reso il tutto molto più piacevole.
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La scala di ferro
Una finestra affacciata su un ampio terreno filtra le luci e i suoni di un luna-park; quelle stesse luci illuminano, con tutta la loro frenetica vitalità una camera da letto, intrisa di un plumbeo profumo di sonno.
Il chiarore emanato dai lampioni delle giostre lascia il posto, durante l'inverno, al rossore del neon di un club notturno che dipinge di una scarlatta atmosfera quelle quattro pareti.
La stanza da comune e spaziosa si fa sempre più piccola e claustrofobica, l'odore di sonno diviene odore di sospetto e di paura.
Quell'unica via di fuga, la scala di ferro, complice e traditrice allo stesso tempo, diviene la migliore amica del protagonista, nascondendo agli occhi dei dipendenti i suoi baci rubati, nascondendolo agli occhi della moglie mentre cerca di spiarla.
In un crescendo di tensione, Simenon, gioca col lettore ponendolo sulla strada giusta per poi fargli rendere conto che aveva capito male, non si trattava di quello che pensava.
Un po' come quelle giostre che volteggiano nell'aria, per poi tornare a terra per tornare ancora in aria, così anche il lettore si trova a balzare dalla sedia di fronte all'evidenza lapalissiana dei fatti che vengono smentiti in modo altrettanto evidente.
Non è possibile staccare gli occhi dalle pagine, non si riesce a d arrendersi al sonno, non si trova il coraggio si lasciare il protagonista da solo, come lui vogliamo sapere, dobbiamo sapere, perché dobbiamo emettere il nostro giudizio, dobbiamo formulare la nostra sentenza.
A lasciare le pagine si ha quasi la sensazione di perdere i personaggi tra le pagine o peggio di trovarli morti, per questo non ci è possibile non concludere.
Una storia a tratti insopportabile, per il tema, per la naturalezza con cui i personaggi sono caratterizzati, per come lo svolgersi della vicenda non possa che portare alla conclusione che non si vuole accettare, che non si può credere, ma che risulta la realtà crudele e ingiusta.
Ogni singola parola di questo romanzo è al posto giusto, tessera di un mosaico che nella sua totalità risulta essere perfetto.
Senza dubbio, per il momento, il miglior Simenon che abbia mai letto.
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La famiglia Karnowski
Il lento scorrere della vita e delle giornate, le convinzioni che condizionano le scelte e che determinano gli eventi, di questo è fatto "La famiglia Karnowski", una sorta di mosaico in cui le tessere sono i personaggi che creano un disegno realistico e ci accompagnano nella mentalità ebraica, fatta di contraddizioni e di fede.
Fin dalle prime pagine, quando conosciamo quello che è il capostipite, avvertiamo una sensazione di instabilità, un atteggiamento che mal si concilia con un mondo, appena accennato fatto di semplicità e di familiarità, di piccoli gesti, ma di tanta umanità.
David, è un ebreo moderno, che vuol vivere in europa, scappando dalla Polonia in a cui è nato, vuole emanciparsi, vuol parlare tedesco e non Yddish, in qualche modo le sue radici non gli appartengono, non le sente, non capisce che esse rimarranno stabili nel terreno senza sradicarsi, quando perseguitati nella Germania degli anni antecedenti alla seconda Guerra Mondiale dovranno fuggire in America.
La trama si snoda su tre generazioni e non è priva di difetti, di ritmi sbagliati, ma nell'insieme funzionale allo scopo; quello che si respira nella lettura non è tanto la follia del nascente nazismo, che fa da sfondo a tutta la vicenda, ma come comportamenti dettati da convinzioni sbagliate possano condizionare la propria vita e quella degli altri, come genitori privi di quella maturità emotiva possano generare figli spaesati senza una guida e senza uno scopo.
La quantità di personaggi secondari è necessaria a descrivere il mondo ebraico, che sembra brulicare nel quartiere, tutte quelle persone che sono fuggite per cercare un mondo migliore, per vedere le proprie vite innalzarsi e divenire come quelle dei tedeschi, non sarà così, non lo sarà mai, un ebreo resterà tale, nel bene e nel male e di generazione in generazione questo è ciò che viene trasmesso, nonostante le resistenze dei padri, nonostante le resistenze dei figli, non c'è riscatto se non dell' accettazione prima e nell'orgoglio poi di appartenere ad un popolo così antico e così unito.
I personaggi rinnegano le origini, quasi a voler cancellare uno stigma, ma alla fine è sempre quell'essere ebrei che li salva, che li rende parte di un'unica grande famiglia, i cui membri possono fuggire, sbagliare, rinnegare, ma che alla fine sono costretti a riconoscere e accettare.
Lo stile è molto fluido, il lessico piuttosto ricercato e nella traduzione di Anna Linda Callow per Adelphi ha una musicalità che aiuta a rendere il tutto scorrevole e piacevole quasi fosse presente una colonna sonora a sottolineare i momenti più tragici o quelli più divertenti.
In sostanza un buon libro che trova la sua forza nelle conseguenze figlie di azioni, soprattutto dei genitori nei confronti dei bambini, descrive benissimo la totale incomprensione che si viene a formare e di come questa possa devastare la mente di un bambino.
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Miele
Ho aspettato ad aprire quel libro di averne in mano un altro dello stesso autore, una sorta di scaramanzia per tenere in vita il più a lungo il mio autore contemporaneo preferito: Ian McEwan.
Prima lo facevo con Marquez, non ho il coraggio di leggere “il generale nel suo labirinto” ultimo testo rimasto della sua bibliografia, anche se ormai la magia si è dissolta e gli spiriti si sono portati via la meraviglia che incarnava.
Mi sono così apprestata a leggere “Miele”: da tempo la ragazza in copertina, che con aria furtiva si guardava indietro, sembrava chiamarmi; ho risposto alla sirena e non sono rimasta delusa.
Fin dalle prime pagine le parole danno l'impressione dell'opera d'arte, di essere al posto giusto e di avere un ruolo preciso.
La bravura di McEwan è qui esaltata dalla scelta di utilizzare come co-protagonista uno scrittore, utilizzando i di lui racconti all'interno della storia, infatti, a mio avviso, il racconto o il romanzo breve è senza dubbio la forma in cui l'autore inglese eccelle, anche se ho adorato tutti – o quasi – i suoi romanzi.
I personaggi descritti sono verosimili, pur galleggiando a mezz'aria in un mondo rarefatto che sembra appartenere alla fantasia più che alla realtà, ma riescono a trasmettere attraverso un silenzio un mondo, il loro mondo e lo mettono a disposizione del lettore introducendolo, con calma, in una dimensione sconosciuta, nel mondo dello spionaggio, del sospetto e della meschinità.
La leggerezza che, però, infonde lo stile semplice arricchito di un lessico mai banale, rende il romanzo indimenticabile, per la purezza con cui Serena, la protagonista ci viene restituita nel finale, inatteso e sorprendente.
La maestria di McEwan si manifesta sopratutto nella sua versatilità, riesce ad adattarsi ad ogni stile e in ogni occasione crea qualcosa di unico e particolare.
Come accennato poc'anzi la scelta di inserire racconti all'interno della trama esalta la sua scrittura, ma senza calcare la mano in un virtuosismo fine a se stesso in cui sarebbe stato molto facile cadere, il tutto risulta fluido e il lettore vive le emozioni con Serena, come in un gioco di specchi, come filtrate da quelle parole che sembrano rimbalzare su più mura e arrivare ovattate fino alla conclusione, fino all'ultima pagina.
Un McEwan in ottima forma, un libro da non perdere, uno dei migliori autori contemporanei.
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La relazione
Poche volte mi è capitato di leggere un libro tutto d'un fiato, senza riuscire a staccare gli occhi dalle pagine, curiosa e impaziente di giungere alla fine; mi è successo con questo titolo, di un autore che non amo in modo particolare, ma che mi ha rapita del tutto.
La trama non è poi così originale a pensarci a posteriori e forse si intuisce tutto fin dalla prima pagina, dal primo colpo di scena, ma è il modo in cui il tutto è raccontato, è plausibile, potrebbe accadere, ognuno di noi potrebbe essere risucchiato da quel vortice di irrealtà così ben tangibile.
Ci si sorprende, come nei film horror, ad urlare al protagonista di non fidarsi, di non fare una determinata cosa, di far affidamento alla propria intelligenza, ma è come se lo urlassimo a noi stessi, consci che, forse, in quella stessa situazione, con quelle stesse premesse, avremmo avuto lo stesso stupido comportamento.
Anche il finale lascia senza fiato e con un grande amaro in bocca.
La penna di Camilleri scorre veloce, regala, pochi, meravigliosi scorci di Roma che rimangono nel cuore e soprattutto delinea personaggi secondari con pochi tratti, ma in modo così plausibile e veritiero che sembra di riconoscerli, nel vicino o nel collega di lavoro.
Sono i fatti a descrivere i caratteri, le azioni, i dialoghi, non le descrizioni, si intuisce il temperamento dalle espressioni scelte.
Un libro per niente impegnativo, ma davvero coinvolgente, che mi è giunto come un bel regalo inaspettato e che non avrei mai letto se mio fratello non avesse avuto l'ottima idea di farmelo trovare sotto l'albero!
Senza dubbio consigliato per passare qualche ora in buona compagnia.
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END zone
End zone è diverso da tutto quello che si può immaginare, è oltre la letteratura e il contenuto; è linguaggio e parole, è emozione che nasce dal continuo contorcersi della sintassi su se stessa.
Non c'è una trama che coinvolga o che appassioni, c'è solo una sapiente maestria nel trovare le parole giuste che creino una sinfonia piena di sussulti e vita che è davvero difficile trovare in altri autori.
Scorrendo le pagine si ha la sensazione che il suo autore sia guidato da qualcosa mentre scrive, che tutto sia in divenire e che ciò che racconta sia altro, come se quelle parole che costruiscono la storia siano criptate e che il lettore debba trovare la chiave per capirne a fondo il significato celato.
L'unico modo per lasciarsi travolgere da questo fiume in piena di termini è ascoltare e continuare comunque anche se non si capisce, anche se un intero capitolo su un incontro di football descritto con termini tecnici di cui si ignora il significato può sembrare troppo; ogni capitolo che si conclude lascia arricchiti; si esplorano campi semantici sconosciuti, associazioni di idee inedite; nonostante sia stato scritto negli anni settanta, sono i personaggi ad essere veri e profondi; descritti con la maestria della semplicità, senza invedenti particolari, solo l'essenziale è raccontato, ma quanta anima e quanta sensibilità in ogni piega dei loro dialoghi, quando appaiono attuali questi ragazzi di quarant'anni fa, con le loro paure, il loro individualismo, le loro crisi.
Vengono toccati innumerevoli temi, la guerra, lo sport, l'amore, la religione e tutto in modo lieve e profondo allo stesso tempo, deformato dalla visione di questi ragazzi le cui vite, come due biglie in movimento in una conca si sfiorano e si allontano, si urtano e si uniscono emanando un'energia tale da condizionare il mondo intorno, del tutto inconsapevoli della loro potenzialità.
Questo è uno di quei rari libri che va oltre al piano narrativo, che appare quasi banale e inutile: la stagione sportiva di una squadra di football texana.
La magia sta tutta nella realtà che descrive, nell'universalità di ciò che si racconta, di come quelle piccole vite, vissute in quelle piccole stanze diventino la Vita e la Morte e come queste pulsioni possano coesistere insieme nelle stesse persone.
Ci sono dei personaggi che non potranno mai più essere dimenticati e interi capitoli che dovranno essere riletti.
Un testo che può essere letto da tutti e che credo debba trovare la sua perfezione in lingua originale.
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Piccolo mondo moderno
Piccolo Mondo moderno – Fogazzaro
Se il passato, quando ancora è presente appare così duro e difficile non si può non trovare una speranza nel futuro che apparirà allora così roseo e ricco di doni per i figli e solo quest'illusione potrà dare la forza di vivere e sopportare, ma forse è bene portarsela nella tomba quest'illusione.
Con questa sensazione ho chiuso il volume, naturale continuazione di “Piccolo mondo antico”, in cui è narrata la vita di Pietro Maironi, figlio di Franco e Luisa.
Il tratto autobiografico che Fogazzaro ha dato a tutta la vicenda non riesce a donare quella vivacità che invece risulta esserci nel precedente volume; i personaggi seppur numerosi e interessanti sono risultano incisivi e i protagonisti, Pietro e Jeanne appaiono superficiali, pur volendo interpretare sentimenti molto profondi.
Ciò che si va a rappresentare è un mondo moderno pieno di intrighi e meschinità, ma ricco e agiato che si pone in netta contrapposizione con un mondo antico in cui la povertà dilagava, ma la forza delle idee e dei valori vinceva su tutti, vera colonna vertebrale di una società che si stava formando.
Sono molti i livelli sul quale si svolge la narrazione, politico, sociale, personale, ma nessuno di questi appare ispirato, così come nessun tema risulta davvero importante, anzi sembra che tutto venga oscurato dalla crisi del protagonista che cerca in modo disperato la propria strada senza trovarla, combattendo con sentimenti contrastanti.
Le parti del racconto che sfiorano la poesia e che trasmettono emozioni sono quelle in cui si ritrovano le atmosfere di Oria, il piccolo cimitero con le lapidi, la corrispondenza tra Franco e Luisa, il resto appare freddo, lontano, inutile.
Analizzando più in profondità questa scelta stilistica, così lontana dal precedente non può non sorgere il dubbio che l'autore abbia voluto sottolineare il degrado a cui il mondo tende, allo stillicidio di valori che non potrà essere fermato se non con la fede.
Molte volte durante la lettura si scorge la volontà di analizzare gli animi dei personaggi, ma è chiaro che qualcosa non funziona, non riescono a far breccia nell'immaginario; tutto il mondo politico, per esempio, appare soltanto meschino, triste e ancora una volta inutile.
Non si può non consigliarne la lettura perché in ogni caso, emozioni a parte racconta uno spaccato della nostra storia ed è anche attraverso di esso che si può forse imparare a comprendere un po' meglio il nostro presente.
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Piccolo mondo antico
L'aria fredda ed umida del lago di Lugano sembra avvolgere la mente del lettore, quasi incatenandolo alle vicende di questo piccolo mondo, fatto di uomini e donne che vivono, amano, soffrono, subendo gli echi della storia, alcuni ignari di ciò che accade, altri protagonisti, altri ancora fieri della propria meschina vita fatta di avidità di cuore e di denari.
Fogazzaro unisce molti elementi narrativi in questo denso romanzo, la componente storica pur rimanendo sullo sfondo fa da tessuto connnettivo di tutta la vicenda, il canovaccio su cui si stende la trama che prende vita a partire dai personaggi così ben delineati da sembrare vivi.
Ognuno di essi nell'intreccio delle loro vite non assume mai atteggiamenti non in linea con la personalità che Fogazzaro ha voluto disegnare loro addosso e allora ecco che la donna voluta come protagonista, Luisa Rigey, è moderna e forte, pronta a difendere ad ogni costo le proprie idee.
Luisa ha un carattere fiero, è intelligente, ha un modo del tutto personale di credere in Dio, la sua fede, però, non è lineare, non è indottrinata dalla Chiesa, crede, ma lo fa a modo suo e non capisce il marito che invece ne possiede una cieca, così come la madre.
I due ragazzi contraggono un matrimonio di manzoniana memoria; come Renzo e Lucia decidono di sposarsi nottetempo, col favore delle tenebre, nascosti da tutto e da tutti, ma Franco Maironi a differenza di Renzo deve combattere contro la nonna, ricca e nobile che non vede di buon occhio questo matrimonio tra un nobile e una borghese.
Le vicende che da qui si susseguono disegnano una trama fatta di tragedie e di cattiverie, di menzogne, di atti vili e spregevoli, ma a risaltare e a rimanere impressi nella mente sono i personaggi, che non sono mai descritti nel fisico, ma solo nel carattere e in modo sapiente l'autore riesce a far penetrare le loro sensazioni sotto la pelle del lettore soprattutto nelle fasi più drammatiche.
Luisa e Franco, l'amato zio Piero, l'odiata Marchesa Orsola, la dolce Maria interagiscono tra di loro in modo così semplice e naturale che pur essendo, la vicenda, ambientata in un passato remoto a noi lettori contemporanei sembra dimostrare l'univesalità dell'animo umano, come i rapporti tra le persone rimangano i medesimi attraverso il tempo e lo spazio, come le tragedie possano sconvolgere le menti più razionali e come la fede possa aiutare, più della ragione, più della fantasia, più della speranza ad affrontare il dolore più grande.
Non tutto il romanzo è a tinte scure, un barlume di speranza si intravede alla fine, anche se incombe, ancora una volta lo spettro della morte e della solitudine che sembra caratterizzare la vita della povera Luisa.
La sapiente penna di Fogazzaro riesce a fondere insieme molti elementi, rimanendo su quello che può essere definito un romanzo contemporaneo, pur risentendo in qualche modo del tempo; è senza dubbio necessaria una contestualizzazione storica per comprendere a pieno i pensieri dei personaggi.
Pur essendo il primo volume di una tetralogia risulta completo, per le vicende narrate e del tutto frubile anche come volume singolo.
La lettura è consigliata, soprattutto per come il personaggio di Luisa riesce a penetrare nella mente e a svegliare degli istinti che forse sembravano perduti!
Indicazioni utili
Introduzione alla lettura di Antonio Fogazzaro
Dopo tanti anni aveva deciso che fosse arrivato il momento di prendersi una vacanza, da tutto: quindici giorni lontano dal lavoro, dalla sveglia e soprattutto dalla mancanza di tempo.
Si recò in stazione con il suo fido zaino in spalla e il biglietto in tasca, la sosta all'edicola era d'obbligo poiché era la più fornita di fumetti arretrati e capitava spesso che trovasse dei numeri che mancavano ad una delle tantissime collezioni incomplete e che gli facevano compagnia mentre ondeggiava verso mete più o meno lontane.
Entrò e iniziò a rovistare in quella specie di santuario, in cui pareva si fossero dati appuntamento tutti gli albi meno comuni, per caso, scorse con la coda dell'occhio un volume che pareva appartenere ad un tempo ben più antico di quello contemporaneo, si avvicinò e lo prese tra le mani, lo sfogliò e si accorse che era la ristampa anastatica, voluta per i centocinquanta anni dell'unità d'Italia, di un volume del 1861 il cui titolo era "Diritto e necessità di abrogare il francese come lingua ufficiale", quasi nello stesso momento la voce metallica annunciava l'arrivo del suo treno, senza pensare lo prese e lo pagò, così quel giorno, invece delle immagini disegnate, ad accompagnarlo fu quel linguaggio aulico che gli riportava alla mente lunghe mattinate trascorse ad ascoltare noiose lezioni di storia in compagnia di Cavour, Napoleone III e Bismarck.
Salì sul vagone, scelse un posto e si sedette, iniziò a leggere quel volumetto, mentre il treno lo portava in Veneto, sul Lago di Garda, in un periodo in cui i colori stagionali vertevano al giallo e la temperatura era prossima a scendere: sperava che dalle rive del lago si alzasse quella lieve umidità che penetra nelle ossa e che genera emozioni così profonde.
Mentre scorreva le pagine dai caratteri antichi, nel suo scompartimento la pace finì, si sedettero due signori, che misero le valigie nel vano apposito e iniziarono a discorrere: prima di sport, commentando gli anticipi di campionato e come degli allenatori navigati suggerivano le loro soluzioni per una partita che sarebbe, di sicuro, risultata vincente, poi iniziarono a parlare di politica.
Gli venne un tuffo al cuore, dopo pochi minuti di involontario ascolto; i loro discorsi apparivano serrati, fitti di analisi, economiche, sociologiche, anche pertinenti, ma mancava del tutto una cosa: la fede in un ideale.
Più li ascoltava, più quel libretto sembrava urlargli che c'era stato un tempo in cui gli uomini credevano, in cui morivano per degli ideali, per delle idee che non avrebbero mai viste realizzate, ma che sapevano incarnare la giustizia.
Il tempo passava e la meta si avvicinava, la sua mente, per un'associazione di idee richiamò un romanzo che aveva letto nello stesso periodo delle noiose lezioni di storia: Piccolo mondo antico di Fogazzaro.
Forse furono le sponde di quel freddo lago, forse i discorsi così vuoti degli sconosciuti viaggiatori, forse quell'unità d'Italia per cui molti morirono, ma le immagini di quel libro si fecero vivide e una volta sceso cercò una libreria, cercò il titolo, scelse una panchina e pagina dopo pagina lo divorò e alla fine, sentì che ancora molto c'era da fare, ma che se c'era stato un tempo in cui gli uomini facevano della politica la loro vita e per essa potevano immolarsi, allora, ancora oggi era giusto credere e riscoprire degli ideali e forse il modo migliore per farlo era proprio attraverso le pagine di quel libro.
Annalena Bolsini
Annalena ha cinque figli e un marito morto, una famiglia numerosa da mantenere e tanta speranza nel cuore.
Romanzo della Deledda scritto subito dopo l'assegnazione del premio Nobel, romanzo che non riesce ad emozionare come altri, neppure dopo giorni dalla sua lettura.
Sembra quasi che cambiando l'ambientazione cambi anche l'atmosfera, come se da quella penna, intrisa di emozione quando descrive la sua Sardegna, divenisse arida e priva di anima lontano da essa.
Il soggetto del racconto è molto simile ad altri: il figlio maggiore torna in licenza e finisce con l'innamorarsi di chi non deve.
Da qui una serie di eventi si susseguono riproponendo i temi cari alla Deledda, il senso di colpa soprattutto.
Lo stile è molto fresco, moderno e riesce in questo modo a sopperire ad una mancanza di ritmo e vivacità nella trama.
Ciò per cui questo romanzo, di sicuro non il migliore dell'autrice, rimane importante è il tema del lavoro e di quanto esso possa essere importante nella vita di ognuno.
Il fulcro della storia sembra essere questo aspetto della vita della famiglia.
Se in "La chiesa della solitudine" il tema di fondo sarà la malattia e in "Elias Portolou" era la tentazione e l'assenza di forza di volontà, qui la dedizione e l'abnegazione alla terra prende il sopravvento, quasi a voler dare un lieto fine a "I malavoglia" raccogliendo quel piccolo barlume di speranza che Verga cerca di far scorgere al lettore.
Se letto in quest'ottica il romanzo appare ancora più moderno e più attuale, proponendo un tema non privo, ancora oggi, di una forza evocativa potente.
Il lavoro è qui inteso davvero come qualcosa di nobilitante e salvifico, qualcosa per cui sudare e in cui credere, in cui sperare e per cui pregare, il succedersi delle stagioni, la sua importanza nella buona riuscita del accolto vengono descritte con una forza evocativa che manca del tutto alle vicende umane, quasi a voler rendere universale la componente naturalistica del mondo, ma non quella umana, come se la Deledda potesse descrivere e raffigurare l'Umanità solo descrivendo la sua Sardegna ed e perdesse quella capacità, così dolce nella sua schiettezza quando i personaggi descritti appartengono al continente.
Una Deledda diversa, più fredda, un romanzo meno riuscito, ma comunque piacevole.
Indicazioni utili
La chiesa della solitudine
Dal buio ovattato e privo di sogni, attraverso le palpebre chiuse, la luce con violenza riporta alla vita e l'odore di morte e di malattia si rarefà laciando una sensazione di stordimento e panico; un nemico è stato estirpato, ma il danno più grande è stato ormai fatto: la convinzione tipica dei giovani di essere immmortali si è dissipata e con essa la possibilità di progettare un'esistenza che si sente come condannata e quindi inutile.
Così deve sentirsi Maria Concezione una volta scoperto che l'intevento a cui è stata sottoposta l'ha liberata da un cancro mammario, ma non certo dalle metastasi che inesorabili avrebbero rosicchiato ogni sua goccia di linfa vitale, col tempo, in modo lento, ma continuo.
Il più autobiografico dei romanzi della Deledda, senza dubbio il più intenso che abbia mai letto.
L'essenza che sottende alla struttura che lo sostiene è il senso di colpa, atavico, vissuto come precetto religioso che si oppone ad ogni pulsione carnale.
Come già avvenuto per Elias Portolou la lettura avviene in modo veloce, un lento susseguirsi di azioni, di sguardi, sensazioni ed emozioni.
Non è il piano narrativo a suscitare l'interesse del lettore, perché questo appare lineare, privo di guizzi talentuosi o originali: la vicenda è semplice e a tratti banale, ma gli attori che la interpretano la rendono viva, nonostante la morte che aleggia ovunque e che rende quasi palese la sua presenza nella pur totale assenza di consapevolezza da parte di tutti ad eccezione della malata.
I personaggi sono i fili colorati che compongono il ricamo, si intrecciano dando sostanza ad un canovaccio che altrimenti sarebbe scarno e anonimo.
Lo stile della Deledda è ancora più moderno ed essenziale che in passato: abbandonata quasi del tutto l'ispirazione verista attinge dal decadentismo, ma crea uno stile tutto personale che affonda le radici in un terreno imbibito si religione, ma anche di superstizione, di provinvialismo ed egoismo.
Ancora una volta descrive la Sardegna per raccontare il mondo, racconta la storia di Maria Concezione per parlare dell'Umanità.
Va letto, lasciato decantare e come un buon vino d'annata assaporato con calma e pazienza, affinchè possa penetrare nel profondo del proprio essere.
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Elias Portolou
Un modo piccolo circondato dal mare, un mondo sicuro, in antitesi con un continente cattivo, pregno di pericoli.
Un'isola in cui purificarsi, un mondo al di là del mare dove marcire e quasi da non nominare.
Si respira un'atmosfera lontana in “Elias Portolou”, fatta di scarpe rotte, di montagne insidiose, di natura maligna, ma di sentimenti profondi e devastanti.
La Deledda descrive i personaggi in modo da renderli quasi vivi di fronte ai nostri occhi, regalando loro una forza espressiva degna di un film.
Ciò che colpisce al di là dello stile moderno ed asciutto è la capacità di suggerire, attraverso azioni e non descrizioni, gli stati d'animo, la vicenda e gli sconvolgimenti interiori sia di Elias, protagonista indiscusso e foriero della tematica principale, ma anche dei comprimari, riuscendo così in un'intricata trama fatta di numerosi fili a definire in modo perfetto il microcosmo in cui la vicenda si svolge.
La natura si pone come sfondo di questo teatro, in cui gli attori recitano la loro opera e se Elias è la rappresentazione dell'irruenza e della colpa, della forza di volontà sconfitta dalla passione, Maddalena, sposa di suo fratello, diviene a tratti la vittima e a tratti la tentatrice, la pura “colomba” e la peccatrice.
Il punto di vista, pur rimanendo sempre neutro, poiché la Deledda non si erige mai a giudice, si limita a descrivere, con dovizia di particolari, una realtà possibile, viene cambiato di continuo e Elias genera pietà, rabbia, compassione.
Elias pecca e poi si confessa, Elias promette e non mantiene, Elias genera e non accudisce.
Se ci si ferma al piano narrativo senza dubbio non si riesce ad apprezzare fino in fondo quello che è questo romanzo ed io stessa appena concluso, ho provato una delusione; troppo semplice, troppo veloce, ma poi, col passare dei giorni, quei personaggi, quei luoghi arrampicati su rocce scoscese, riaffiorano, quei turbamenti dell'animo divengono propri e tutto assume un senso più profondo e la vicenda trascende le pagine materiali del libro per diventare essenza di un tempo e di un luogo che a suo volta diviene essenza dell'umano sentire.
Elias diviene la Sardegna e poi il mondo intero; la Deledda si fa portavoce di un disagio universale ed è per questo che pur rifacendosi al verismo di Verga e della Serao se ne discosta, perché racconta un'epoca, descrive ciò che davvero esiste, ma non si limita a questo, riesce in un modo quasi magico a far respirare le emozioni, generando nel lettore un'empatia che porta a soffrire con i personaggi, non solo durante la lettura, ma anche dopo.
Lo stile, come accennato è moderno e minimalista, l'intensità del lessico rende la lettura non sempre scorrevole e le tematiche trattate spesso sono esasperate, ma non si deve far l'errore di scindere gli elementi che compongono il romanzo, perché essi se analizzati singolarmente appaiono ridondanti e e eccessivi, la maestria della Deledda sta tutta nel creare un'alchimia tale da rendere il tutto un prodotto di strepitosa intensità evocativa.
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Introduzione alla lettura di Grazia Deledda
Quella mattina le campane suovano a morto e i rintocchi portavano una sensazione di pace e di allegria, perché il dolore non poteva soffocare la forza di quella vita che aveva infine deciso di estinguersi.
Pochi giorni prima le sue condizioni era peggiorate, malato da tempo aveva lottato con tutte le sue forze, credendo a ciò che quel giovane dottore pieno di entusismo gli pormetteva; entrambi sapevano che il nemico da sconfiggere era troppo forte, ma ad entrambi piaceva credere che insieme ci sarebbero riusciti o che almeno lo avrebbero ingannato.
Giorgio era troppo intelligente per non sapere che la fine era vicina, che la sua forza lo stava abbandonando, ma non riusciva a crederlo possibile, sua madre, suo padre molti dei suoi fratelli se ne erano già andati, ma gli sembrava impossibile che tuta la sua vita, tutto il suo patrimonio, immobiliare e non, potesse rimanere ad altri, foss'anche suo figlio.
Quando andava a trovarlo, capitava spesso dopo la visita di quel dottore, lo trovava sempre seduto sulla sua poltrona, con il giornale onnipresente sul letto, una penna e una risma di fogli sulla scrivania e una pila di libri in molte lingue diverse sul comodino.
Amava scrivere, a tutti, agli amici lontani, ai genitori morti, a suo figlio, a se stesso e amava leggere, amava i libri; infatti la sua grande casa era inondata di volumi, ce n'era ovunque, negli armadi, nelle scatole, nelle cassapanche, libri di pregio, libri da poco, titoli impegantivi insieme a autori sconosciuti e di dubbia qualità, edizioni rare che ne sostenevano dozzinali comprate forse in edicola, come dei cuccioli abbandonati che avessero trovato riparo in quella grande e confusionaria casa, che assomigliava molto all'antro di mago Merlino.
Giorgio amava regalare i propri libri, a chiunque dimostrasse amore per la letteratura e se dopo una chiaccherata riusciva a cogliere quella passione allora iniziava a parlare di ciò che aveva letto, degli autori che, in gioventù aveva conosciuto e spesso la sua vita irrompeva violenta e i racconti della sua Sardegna si coloravano d'ambra e dai comodini uscivano dagherrotipi che ritraevano avi briganti che non davano certo lustro alla famiglia, ma permettvano di stendere un velo quasi di mito sulla sua storia.
Il contrasto tra i racconti e i grandi respiri ai quali il suo cuore malandato lo costringevano creava in chi gli sedeva accanto un misto di tristezza e di malinconia e il pensiero non poteva non correre a Mastro Don Gesualdo, a quegli anni in cui un pezzo di terra valeva più di qualunque altra cosa.
Una volta, durante una visita, capitò che Giorgio gli regalasse un'edizione dei Malavoglia illustrata a cui teneva molto e fu in quell'occasione che la similitudine uscì fuori dalla sua mente e si palesò a Giorgio, il quale con quegli occhi furbi e intelligenti non esitò a chiedere se capisse la differenza tra la Sicilia e la Sardegna, quelle due terre, diceva, hanno in comune solo l'essere un'isola.
Egli era Sardo e se un provincialotto del nord come lui non ne capiva la differenza che si leggesse la Deledda.
Fu così che prese un campanaccio, quello che indossano le mucche e cominciò a farlo risuonare; poco dopo arrivò Danilo, suo figlio che con fare alquanto seccato chiese che cosa volesse ancora ed egli gli chiese, anzi gli ordinò di andare a prendere l'opera omnia della Deledda poiché voleva farne dono a questo suo gradito ospite.
Danilo tornò con quattro polverosi volumi, la cui candida copertina era divenuta grigia e le pagine piene di fioriture e macchie del tempo che emanavano, al loro sfogliare, un profumo antico, una sensazione di pace che Giorgio volle paragonare alla sua Sardegna.
Solo leggendo questi testi capirai il mio mondo e solo dopo spero potremmo discuterne.. non ci fu tempo, la morte lo colse qualche giorno dopo, ma quei rintocchi, pur annunciando un funerale, non potevano non portare con sè l'eredità di un uomo che aveva vissuto a pieno la propria vita, senza compromessi e con una cultura che non può non arricchire.
La vita in tempo di pace
Il progetto è senza dubbio ambizioso, il risultato non è all'altezza.
Il tentativo di voler scrivere un romanzo in cui si parla della storia dell'ingegner Ivo Brandani per parlare della Vita in senso assoluto e della storia dell'ultimo secolo se non del tutto originale è di sicuro molto interessante, ma qualcosa dopo le prime pagine molto belle e accattivanti non funziona.
L'originalità di voler parlare della caduta di Bisanzio, ricostruendo attraverso gli occhi del protagonista una realtà lontana, disegnata tratti vacui e pieni di emozioni, lascia presto il posto ai racconti di un uomo sulla via della vecchiaia, con i problemi di un sessantenne, pieno di luoghi comuni e di sensazioni già raccontate.
Leggendo la critica si apprende che è stato paragonato a Gadda o a Calvino, io non riesco a trovare niente dei due grandi scrittori, ma neppure di Siti, poiché quest'ultimo cerca in qualche modo di mettere su carta il suo essere, Pecoraro non ci prova neppure; le parole si susseguono, stanche e ripetitive, la sensazione che si ha è quella di una marea inutile di parole per esprimere dei concetti semplici che appesantiscono la lettura, perché non la rendono fluida.
Si capisce che l'intento dell'autore è quello di scrivere un romanzo potente, in cui attraverso la storia particolare di un uomo che sta per giungere alla conclusione della propria vita descrivere un'epoca, la nostra, fatta di molte contraddizioni e di difficile interpretazione, ma se non si vuol scrivere un saggio, ma un'opera di narrativa la componente formale è determinante ed è qui che tutto il castello cade.
Pecoraro conosce il mestiere, non utilizza escamotage tipo frasi ad effetto o periodi brevi, ma il suo stile è monocorde, intriso di una eccessiva malinconia, una nebbia avvolge i personaggi senza però donare quello spessore di cui avrebbero bisogno.
Una lettura lunga, molto pesante che non aggiunge niente al panorama italiano, ma che in ogni caso consiglio, perché lo sforzo fatto per realizzare un romanzo, nel vero senso della parola va premiato.
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I vecchi e i giovani
Il Pirandello di quest'opera è il meno conosciuto, quello meno ironico e più malinconico, ma forse il più concreto, il più completo.
Non ci si imbatte tra queste pagine nei personaggi tipici pirandelliani, sempre sopra le righe, sempre indimenticabili, ma in una miriade di uomini e donne che quasi si confondono creando un brulicare di immagini che danno vita alla realtà di allora, riproducendo l'atmosfera di un mondo che cambia e che vuol cambiare.
Quello che maggiormente si riesce a cogliere, al di là dello stile sempre perfetto, il lessico ricercato, ma semplice, il periodare che da ritmo alle vicende, è una sorta di attualità, un richiamo ai nostri giorni, quella continua voglia di cambiare, la giovinezza fatta di entusiasmo, di capacità visionaria, di ricerca di giustizia e di benessere, giovinezza che piano piano si esaurisce e diviene vecchiaia lasciando il posto ad altra giovinezza, simile, ma non uguale che non comprende più, che non accetta più i valori e gli ideali di allora e questi non riescono più ad avere la spinta propulsiva necessaria a rendere reale quel sogno, quell'ideale.
Così in una rincorsa fatta di tempo che scorre, si finisce per riflettere su tutto quello che in realtà non cambia, ma rimane uguale, tutto quello che poteva essere, ma non sarà.
Attraverso personaggi meno incisivi del solito presi singolarmente, ma molto efficaci se letti in modo corale si descrive un'epoca con le sue contraddizioni ed è necessario trascendere dal contesto per cogliere la classicità dell'opera che può adattarsi a qualunque tempo, perché pur raccontando fatti reali descrive l'umanità con le sue debolezze e le sue contraddizioni.
Un romanzo a tutti gli effetti, un classico che riesce a lasciare un segno descrivendo la propria contemporaneità, in cui si possono trovare vari piani di lettura: quello sociologico, quello storico, quello narrativo, ma anche quello tanto caro al suo autore, quello psicologico, infatti da alcuni stralci si può cogliere quell'io diviso dell'uomo moderno, quelle anime che riescono a convivere in un solo corpo che saranno il tema principale delle opere più importanti.
Lettura consigliata, anche solo per cogliere un Pirandello più malinconico.
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Storia umana e inumana
Un onirico viaggio attraverso i secoli e gli stati d'animo che richiama alla mente immagini Dantesche senza scimmiottarle o avvilirle, solo rievocandole.
L'atmosfera che avvolge il lettore è ovattata, la sensazione è quella di entrare nella nebbia e cogliere immagini, sfuocate, dagherrotipi che prendono vita e iniziano a parlare e a rievocare un passato a loro caro e talvolta doloroso.
Difficile collocare questo romanzo in un genere letterario: a tratti è una biografia, ma la profondità in cui ci si addentra, sviscerando le fibre dell'anima del protagonista, non permettono di porlo in quella casella, così come non può essere definito un saggio benché le note a piè di pagina approfondiscano tutti gli aspetti storici e culturali, innumerevoli e disseminati per le oltre quattrocento pagine.
Quello che è certo è che si sta parlando di uno scrittore che ama scrivere per esprimere delle emozioni profonde, nascoste nel suo animo, che scalciano per uscire e generare un flusso di meravigliosi pensieri e ricordi, immagini evanescenti fatte di personaggi antichi, ma morti solo nella carne, ma viventi nell'immaginario collettivo di ognuno.
Descrivere a parole quello che si prova leggendo queste pagine è difficile, perché non è una prosa semplice, non è una lettura per tutti, sia per i temi trattati, ma soprattutto per lo stile che pur essendo molto particolare e ostico è ciò che rende quest'opera un'esperienza unica.
Le parole si susseguono veloci, intervallate da spazi bianchi quasi a rendere poesia ciò che si legge, un periodare lento e a tratti veloce che dà ritmo all'azione, che obbliga a seguire il tempo dettato dall'Autore, così come il protagonista è obbligato a seguire la sua guida in quest'oscuro viaggio, per non perdersi in un oblio fatto di incomprensione di fraintendimenti, ma è perdersi in questo libro, perdere il filo, non comprenderne il senso, ma se ci si affida alla musicalità, se si lascia che esso legga noi anziché il contrario, allora non solo il suo significato diverrà chiaro, ma anche la vita del suo Autore acquisterà un senso più profondo, le sue paure saranno le nostre, le sue visioni le nostre e davanti appariranno il Che, Mao, Perlasca, ma anche Russel, Einstein, Mia, Marilyn e tanti altri che come in una sfilata si mostreranno per ciò che sono, posti infine, in quella dimensione in cui non esiste il tempo, non il passato, non il futuro, ma entrambi lo stesso istante, la completa comprensione dell'esistenza là dove l'esistenza non c'è più.
Quella nebbia avvolge tutto, quelle parole si susseguono, mentre la storia salta indietro e in avanti creando caos e la filosofia si mischia con la musica che cerca di comprendere l'essenza stessa della vita.
Un'opera che prevede una buona dose di convinzione, ma che apre le porte ad un modo diverso di fare letteratura, che esprime la voglia di regalare emozioni, non preconfezionate, non edulcorate, ma vere perché vissute e una volta liberate non potranno che moltiplicarsi in ogni lettore.
Lettura consigliata, senza dubbio.
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