Opinione scritta da Arcangela Cammalleri

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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    11 Giugno, 2012
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Una lama di luce di Andrea Camilleri

Il 19° libro su Montalbano ricalca tutti gli altri romanzi imperniati sulle inchieste del commissario letterario più amato dagli Italiani. L’incipit che preannuncia una mattinata volubile e crapicciosa epperciò per contagio, macari il comportamento di Salvo sarebbe stato instabili. L’artificio onirico come presago di fatti imminenti che confondono il lettore e il protagonista stesso tra realtà e sogno. L’intrecciarsi di due storie parallele che poi si biforcano in due tronconi e alla fine si riuniscono come naturale epilogo della vicenda. In realtà la combinazione ha tre diramazioni: un commercio illegale di quadri, esportazione di opere d’arte rubate, un traffico d’armi di tre tunisini che rifugiati politici preparano un piano d’attacco nella loro patria dove è in corso la lotta di liberazione e una rapina con bacio rubato quanto mai singolare e misteriosa con conseguente morto ammazzato, direbbe Catarella. Venire a capo dell’intricata vicenda diventa un punto d’onore per Montalbano, colpi di genio, intuizioni, piste più o meno ortodosse contrassegnano la tattica investigativa. La conclusione delle indagini rimette tutto secondo un ordine prestabilito, ma un’amara e sofferente sorpresa si presenta a Salvo: la lama di luci che l’aviva pigliato nell’occhi…e prifiriva che l’urtimo contatto ristassi quella lama di luci che per una frazioni di secunno l’aviva ligati ‘nzemmula. E questo uno dei tanti momenti del romanzo in cui l’animo di Montalbano è sviscerato da Camilleri e le pieghe del dolore e del rimpianto scavano rivoli di lacrime segrete. Secondo un copione ben costruito il nostro autore sa miscelare toni umoristici, (grande Catarella quando storpia nomi, parole e suscita l’ilarità di chi legge) e toni anche melodrammatici, quando quel senso greve della solitudine assuglia il commissario, spesso, questo stato d’animo inquieto e pernicioso aleggia intorno alla sua persona e investe anche quelli che gli stanno attorno. Montalbano non è solo indagini poliziesche, anzi quelle si muovono con calma, senza ritmi di action movie, è anche e soprattutto riflessioni esistenziali, come quelle che rivolge al granchio di mare che lo aspetta al molo nei suoi quotidiani soliloqui, come quel male di vivere che crea tensione ed adesione al personaggio montalbaniano, c’è un senso riflesso del male del mondo che non si traduce in nichilismo, ma muove verso un umanismo pietoso o verso una giustizia umanitaria, mai vendicativa. Le figure femminili illuminano la scena come altrettante lame di luce: la sofisticata e pur carnale gallerista Marian, che offusca i sensi di Salvo, salvo poi alla fine respingerne gli assalti erotici: Livia è sempre al bivio che da sola voce telefonica, epperò impera nella mente di Montalbano e forse sradicarsi da lei è vana follia. (Noi sadicamente ci avevamo sperato, ma Camilleri questo sazio non ce lo concede). In questo frangente Livia è in preda ad un’angoscia opprimente, oscura, un peso insopportabile la cui causa lo avvincerà e lo terrà legato a lei. Loredana bellezza fresca e turbativa, Valeria gran fimmina, dotata di sangue freddo eccezionale, femme fatal che, come un pesce nella rete, cade nella trappola tesale dal commissario. Il linguaggio simbolico e cifrato con cui la mafia comunica e con cui Montalbano ricambia sono tutti segni del barcamenarsi entro strettoie convenzionali e codificate che rispecchiano equilibri malcelati e di cui spesso ci si serve, vedi Pasquale, il pregiudicato figlio di Adelina, per scopi necessari. Il fine giustifica i mezzi, qualche volta con una certa disinvoltura Montalbano bypassa le rette direzionali della giustizia perché le vie della verità non sono mai unilaterali. Il Montalbano di Una lama di luce è goffo, impacciato in campo sentimentale, stenta a discernere l’attrazione dal sentimento amoroso, con le donne, tutto il contrario di Mimì, non ha tattiche né strategie, a volte, è disarmante e disarmato e si lascia cogliere alla sprovvista; nei sentimenti è fragile e quasi spaventato. Quanto invece il suo civireddro funziona nel mettere in campo fini stratagemmi e nel concatenare i fatti che si presentano!
In questo libro, c’è tutto il Montalbano che ci piace con le sue ubbie, le sue contraddizioni, gli inafferrabili umori così neri e protervi. Un misantropo dal cuore d’oro, un personaggio di carta, certo, ma così ormai familiare da sentirlo vivere tra le pagine. Incommensurabile Camilleri, con quale padronanza linguistica e misurata ironia il suo estro narrativo ci convince e ci avvince.

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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    20 Mag, 2012
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Odore di chiuso di marco Malvaldi

Questo delizioso ed intrigante romanzo di Malvaldi si tinge di noir nel senso classico del termine, c’è un delitto con tanto di cadavere, indagini, indizi e colpevole. La pista investigativa si avvale di un rappresentante della legge che segue i canoni consueti del caso: interrogatori, intuizioni folgoranti e concatenazioni di deduzioni progressive fino all’esito finale. L’epicentro della storia si svolge nella Maremma toscana e precisamente nel castello del barone di Roccapendente, un borioso nobile arroccato nei suoi privilegi di casta che sembra non avvertire l’aria di cambiamento che investe l’Italia post unitaria, siamo nel 1895. Non a caso, spiega l’autore, i fatti narrati si collocano nel 1895, in quell’anno Guglielmo Marconi riesce ad inviare il primo segnale radio, i fratelli Lumière proiettano il primo cortometraggio della storia del cinema, Maria Montessori è la prima donna ad essere ammessa nella società Lancisiana ( riunisce i medici e i professori di medicina della capitale) e Pellegrini Artusi dà alla stampe (2° edizione) il suo libro di ricette La scienza e l’arte di mangiar bene. Una data che segna grandi innovazioni non solo scientifici e culturali, ma avvia il nostro paese, sia pure, in modo molto lento verso quel processo civile e sociale sognato dalle correnti progressiste. Geniale la metafora di Artusi sulle difficoltà del governo italiano dell’epoca di lavorare per l’unità del Paese, non bastano leggi comuni in tempi brevi ad unire due tronconi estranei l’uno all’altro da tempo immemorabile, gli alberi non crescono tirandoli dall’alto: ci vuole tempo, concime e criterio. Fa l’esempio della maionese, cimentandosi nel suo campo quello di esperto dell’arte culinaria, non si possono mettere insieme subito tutti gli ingredienti, ma bisogna procedere con calma e metodo fino ad amalgare due liquidi diversi come acqua e olio in origine refrattari a mescolarsi. L’arrivo dei due ospiti al castello, il fotografo Ciceri e Pellegrino Artusi, la cui fama di gastronomo lo procede, mette in moto e dà l’avvio alle danze dell’allegra combriccola, si fa per dire. La famiglia aristocratica è composta oltre che dal barone Romualdo in testa, dall’anziana madre Speranza con la di lei badante la tapina Barbarici, dai due figli maschi, Gaddo, un nullafacente e millantatore poeta che insegue il sogno di incontrare il vate Giosuè Carducci e Lapo sciupa femmine da strapazzo e dal cervello vacuo. La figlia Cecilia, è una giovane fanciulla la cui intelligenza mal si adatta alla grettezza intellettuale dei suoi parenti e infine, e non potevano mancare, le due zie, zitelle petulanti ed inutili. Tra i famigli spiccano l’esperta cuoca la Parisina, esempio di saggezza popolare, il giovane ed aitante maggiordomo Teodoro e la bella e procace cameriera Agatina. Questa brigata di personaggi bislacchi e per certi versi peculiari viene scossa dalla morte misteriosa del povero e sfortunato maggiordomo Teodoro e da questo fatto e momento come un gioco degli scacchi si muovono le pedine con scarti sbagliati e mosse azzeccate. Si mettono in rilevo, caratteri, tipizzazioni tra il grottesco, il triviale e l’ironico. Su tutti emerge la personalità di Pellegrino Artusi che con i suoi baffoni come un gatto sornione subdora odori ed umori, come un cane da caccia individua la preda, da un osservatorio speciale dato dai suoi studi e dal suo intuito intuisce i comportamenti e gli atteggiamenti che si celano oltre le parole. Sembra uno studioso entomologo oltre che un perito dell’arte gastronomica, un precursore del mangiare bene al pari di una guida gastronomica ante litteram. Certamente una figura indimenticabile, Artusi che annota, su un diario, con dovizia di particolari, gli accadimenti che si susseguono e che malgrado lui lo coinvolgono e le impressioni che ne ricava.

Un libro ricco di sottigliezze e raffinatezze letterarie ed intellettuali, i riferimenti all’attualità sono sottesi, ma percettibili nella loro arguzia, insomma un libro godibile dalla prima all’ultima pagina, mai banale o superficiale, trasmette certi significati del pensiero di tutti i tempi, ma la cifra sta nel tono e nello stile lievi e leggiadri.

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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    13 Aprile, 2012
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Fai bei sogni di Massimo Gramellini

Un giornalista può essere anche uno scrittore, come lo è Gramellini o come lo dimostra in questo romanzo Fai bei sogni. Nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto scrivere un saggio su come uscire dall’abulia e dalla rassegnazione con cui le persone sembrano affrontare questo momento storico e per corroborare la tesi aveva pensato di far precedere il saggio da una pagina autobiografica in cui avrebbe raccontato la rimozione della morte della madre (morta quando lui aveva 9 anni). Ma la pagina prende la forma di una narrazione vera e propria intessuta di fatti realmente accaduti. Dopo la presentazione di questo libro da parte di Gramellini nella trasmissione di Fabio Fazio, come una grancassa di risonanza le vendite sono salite vertiginosamente, decretando un successo clamoroso.
Fuori da ogni schema retorico, perché il dolore espresso è autentico, la storia rapisce dall’inizio e non abbandona il lettore fino all’ultima pagina, la commozione non la si può trattenere e inumidisce gli occhi, nonostante. La madre, evocata, ricordata e mai dimenticata, perché morta, è una presenza costante nella vita di Gramellini bambino e poi adulto, la verità sulla sua morte è misconosciuta, ma come sottesa nel suo cuore. Con parole pacate colme di profonda sofferenza la madre Giuseppina, rivive nella mente, nell’animo di Massimo, durante il suo percorso esistenziale, privato di lei e della vita stessa. Straziante la sua preghiera imperativa rivolta al Signore di rimandargli giù la madre e subito o far venire su lui, quando apprende che la madre non è uscita a fare le commissioni, come gli dicevano, ma era volata in cielo per proteggerlo meglio. Nella sua mente di bimbo vive la perdita come una forma di disamore della madre nei suoi confronti, per il fatto che non tornasse e l’avesse abbandonato solo alla deriva trascinando detriti di ricordi come il suo abbraccio o l’ultima volta ch’erano stati insieme…o quando gli augurava la buona notte : Fai bei sogni. Tutto il libro è una dolente poesia verso la madre e per la madre, ora in un crescendo di sentimenti tra i più devastanti ora tra i più contraddittori. Se la mamma non fosse morta, oggi l’amerebbe sì, la rispetterebbe, ma la sua presenza sarebbe come un dato acquisito senza la meraviglia o la suprema dolcezza di avere una madre vicino, è la perdita che suscita rimpianti per quello che non si è fatto e si poteva e doveva fare. Per Gramellini il dramma assume sfaccettature più complesse perché non sa o non vuol sapere la realtà che si cela dietro quella morte, come poi saprà: un complotto compatto di parenti e conoscenti gli aveva costruito un muro di silenzi e di menzogne su quell’evento. Solo dopo quarant’anni conoscerà la verità: sconcertante, ma nello stesso tempo sapeva da sempre com’era morta, ma aveva deciso da subito di non volerlo sapere. L’intuizione ci rivela di continuo chi siamo. Ma restiamo insensibili alla voce degli dei, coprendola con il frastuono delle emozioni. Preferiamo ignorarla, la verità. Per non soffrire. Per non guarire. Perché altrimenti diventeremmo quello che abbiamo paura di essere. Completamente vivi.
Il libro colpisce al cuore del lettore perché non ci sono fingimenti letterari né arguzie stilistiche pretestuose, è l’animo del protagonista che irrompe nelle pagine e si apre con candore come se tornasse bambino e rivivesse con la stessa forza originaria sentimenti mai sopiti.
È raro di questi tempi, O tempora O mores, mostrare emozioni vere senza l’inibizione di essere se stessi: ecco l’essere, senza armature di difesa, e non la rappresentazione di sé come vediamo in ogni ambito della vita odierna.

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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    15 Gennaio, 2012
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Il diavolo, certamente di Andrea Camilleri

Annidato nell’ombra, travestito abilmente, pronto a “scoperchiare” la vita: è il diavolo, certamente.

33 luciferini racconti, certamente per più di 33 altrettanti luciferini lettori…

L’inesausta creatività letteraria di Andrea Camilleri ha concepito questo ultimo libro “Il diavolo, certamente”, in cui ha dato ampio respiro alla sua feconda immaginazione. 33 racconti di 3 pagine l’uno, secondo un disegno o una numerologia simbolica rovesciata: non 666, ma 333 perché - citazione di Camilleri - è meglio avere a che fare con mezzo diavolo che con uno intero.
Nella nota alla fine dei racconti, l’Autore dice di sapere benissimo che esiste un film di Robert Bresson che in Italia è stato intitolato Il diavolo probabilmente … e che non ha nessuna remora a confessare d’essersene impadronito perché è stato proprio quel titolo a fargli venire l’idea di scrivere queste brevi 33 narrazioni.
Diavolo di un Camilleri! Quasi in combutta con la Bestia ci propina questi scritti diabolici, luciferini, lo zampino del diavolo…del caso…dell’imprevisto sono sempre pronti a cogliere di sorpresa la vita, a scompigliare le carte degli eventi. Nulla è prevedibile, la sorte gioca a rimpiattino con le umane vicende e non sempre quello che desideriamo avviene per vie consuete. Mettersi nei panni di questa variegata umanità è un’impresa improba, si rischia di sprofondare nel buio dell’imperscrutabile. I racconti sono congegnati all’interno di un meccanismo pressoché perfetto, i personaggi manovrati con arte e maestria sbalorditive: una rappresentazione sinistra di tutto ciò che alberga negli animi …passioni, vizi, desideri, vendette, perfidie, ma anche slanci, generosità e altro.
Fanno da cornice a tutta la raccolta, il primo e l’ultimo racconto, entrambi sono due riflessioni filosofiche che diventano l’anello di congiunzione di tutta la trama narrativa; nel primo il ricorso all’iperbole, ai paragoni supremi, ai complimenti stratosferici verso un avversario, non sostenuti da un’efficace ironia, fanno prendere per autentico il contenuto e quindi invece di una stroncatura risulta un elogio sperticato. Nell’ultimo una discussione filosofica tra due amici si trasforma in un duello argomentativo all’ultimo spasimo sulla discussa dimostrazione della verità (???????).
Ed ecco aprirsi il sipario e su un fondale grigio recita un’umanità invereconda in cui si disvelano abissi interiori: un prefetto perfetto e di cristallina onestà sente riaccendersi una giovanile passione amorosa, un partigiano, tradito dall’irrompere di memorie e sentimenti, tradirà dei suoi compagni. Un ladro d’appartamenti diventa ladro gentiluomo, un bambino dodicenne ordisce freddamente una vendetta famigliare, il monsignor, venerato come un sant’uomo dai fedeli, a causa di un refuso tipografico la sua integrità morale viene deturpata per sempre, il tacco spezzato di una scarpa segna la fine di una relazione, ma è galeotto di una nuova…Tante donne concupiscenti, mogli tradite e che tradiscono a loro volta, amanti di troppo, segretarie che custodiscono segreti…insomma molteplici sfaccettature di personalità e situazioni, a volte paradossali o assurdamente verosimili, sono sinonimi di una realtà che spesso sta davanti ai nostri occhi e non vogliamo decifrarla nella sua crudezza. Il male è spesso motore dell’agire umano, si annida e si manifesta nelle forme più subdole; è un demone che s’insinua nelle menti dei personaggi e come un tarlo scava e corrode i loro pensieri, Camilleri è stato in un certo senso demoniaco a cercare le combinazioni più bislacche, a far incrociare destini, ad architettare incontri: il caso, qualcosa d’incredibile, d’irreale. E se era accaduto doveva ben significare qualcosa.

L’attualità nella sua drammaticità è uno dei temi presenti, con la crisi economica, le difficoltà aziendali, lo spauracchio della rovina, i licenziamenti, l’impossibilità di trovare lavoro...Ho letto da qualche parte che l’inferno riesce meglio del paradiso; queste fulminanti e nere e amare storie in cui la verità si colora di menzogna e viceversa si avvalgono dello stile ineguagliato di Camilleri, così netto e deciso, con sottesa ironia, come scriverebbe lui, profusa a tinchitè ( a iosa), mai pesante e tedioso, sempre insita quella speciale leggerezza di linguaggio che lo contraddistingue.
Un’altra piacevolissima occasione di lettura.

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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    08 Giugno, 2011
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Gran Circo Taddei e altre storie di Vigàta di Andr

Come recensisce tutti i libri di Camilleri pubblicati dalla casa editrice Sellerio, Salvatore Silvano Nigro, sono otto i racconti che qui fanno libro e non semplice raccolta. Non considerare raccolta queste storie, schegge impazzite dalla tastiera del pc di Camilleri, vuol dire che si procede in un continuum crono-logico narrativo e stilistico: un rutilante susseguirsi di situazioni che suscita il riso immediato e, metaforicamente, amarezza profonda. Se la metafora domina e orchestra personaggi e fatti, l’immarcescibile lingua vigàtese sbeffeggia e satireggia come un buffone a corte. Questi racconti sono forse i più corrosivi ed invidiabilmente amabili scherzi letterari che il Maestro fa agli incauti lettori, ormai pronti a subire qualsiasi sua arditezza artistica. Cesellati insieme, incastrando con arguzia le trame, certo che il romanzo potrebbe prendere corpo e incorporare le microstorie vigàtesi in una macrostoria italica. La Storia, quella Storia, che mai così contemporanea non è stata, si presenta ai nostri occhi non come mera narrazione di ciò che fu, ma trasfigurata in ciò che ne conseguì; le ideologie rappresentate attraverso i comportamenti, le psicosi degli uomini, asserviti al potere dominante e svuotati di personalità propria. Un’umanità quasi fittizia si aggira tra le ombre dell’epoca fascista e tutto viene investito da retorica baluginante e triste presagio di velleità mortificate. É l’espressionismo della violenza che deforma volti in maschere e risate crasse in ghigni. Vigàta, teatro sublimato del fascismo, è una sorta di palcoscenico ideale ed idealizzante in cui si esaltano miti e fandonie non mai sopiti. La galleria umana intride ignobiltà e millantata virilità, tra fimmine ardimentose, devote alla causa, camerati e federali e gerarchi orwelliani e garanti della fede al Capo e paventati comunisti che da congiurati, con un colpo d’ala, sono trasformati in perseguitati: pantomima e derisione. Che dire di scene alla Quentin Tarantino o che fanno il verso a certe pillicule di covviboisi; gli anni della Liberazione amiricana rivissuti e reinterpretati tra scocci di revorbari, giochi d’azzardo in bische clandestine, denaro in discesa libera e una rapina a regola d’arte con lupara d’ordinanza che lascia scornati i soci di un circolo. Il rischio e il pericolo di portare a conoscenza intrallazzi e tresche amorose viene da un aceddro, Il merlo parlante, che ripete le frasi compromettenti che sente. Il culto dell’italianità, espresso nella mania di italianizzare i nomi stranieri e di trasformare quelli italiani con le consonanti finali, è uno dei puntelli del Gran Circo Taddei. Trame tutto sommato semplici si complicano per scarti della sorte e come riporta Camilleri, la voglia del complicare le cose è tutta siciliana: “ Cito una bellissima frase che Moravia un giorno disse a Sciascia: "La differenza tra i milanesi e i siciliani è che i milanesi tendono a semplificare un fatto complicato. I siciliani operano all’inverso: un fatto semplicissimo tendono a complicarlo". E le complicazioni portano a sotterfugi e tradimenti”. Ironia a tinchitè, erotismo sommerso che fa capolino da tutte le parti alla maniera di Brancati, tragicomicità e surrealismo alla Pirandello, sono alcuni degli ingredienti naturali che fanno da terreno di coltura per l’arte camilleriana. Un altro tassello fascista, con la sua politica demografica di incrementare le nascite, si trova ne La fine della missione; chi non può avere figli trova la soluzione a dir poco boccaccesca con pace santa della chiesa e dei mariti. Come dire il fine giustifica i mezzi. Un giro di giostra è forse il più solipsistico delle storie e una dolente riflessione esistenziale. La bruttezza fisica del protagonista è una condanna che relega alla solitudine più triste, quando una luce pare illuminare quella vita spesa vacuamente, la fine lapidaria lascia schiantati. La trovatura è veramente una trovata geniale, soprattutto nella conclusione, chi cercava non trova e viene trovato da chi non cercava. Tutto torna secondo un caso capriccioso o forse giusto? La rivelazione è una novella di beffa architettata, il comunista arraggiato, Prestìa, riceve la grazia della rivelazione nell’apparizione di Gesù, tutta racchiusa in quella frase” facitilo…sapiri a tutti…sgerzo fu”. Ogni racconto contiene uno spezzone di Storia, ogni finale è esemplare e dà a ciascuno quello che ha meritato. C’è come una sorta di giustizia a seconda delle colpe, Camilleri, al pari di un novello Caronte, assegna ai personaggi la loro etterna collocazione. Aveva perfettamente ragione l’editrice Elvira Sellerio alla quale il libro è dedicato, dopo la lettura, ebbe a dire all’autore di essere tornato il Camilleri dei vecchi tempi.

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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    30 Mag, 2011
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La versione di Barney di Mordecai Richler

La versione di Barney pubblicato in Italia nel 2001, è stato un caso letterario clamoroso; un libro irriverente e politically incorrect e una autobiografia non dichiarata (sempre smentita da Richler) nella quale si riversano le esperienze vissute dal settantenne Barney Panofsky. È ritornato d’attualità quando il film del regista canadese Richard J. Lewis, tratto dall’opera letteraria, è stato presentato al festival di Venezia. Barney Panofsky è interpretato da Paul Giamatti, nel cast figurano anche Dustin Hoffman (nella parte del padre), Rosamund Pike e in un cameo David Cronenberg. In Italia è uscito nelle sale il 14 gennaio 2011.
Il film non è all’altezza del libro, non basta fumare e bere in continuazione per farsene l’dea di un uomo perso nei suoi vizi e nelle sue dissolutezze, il Barney letterario è un uomo complesso, a volte, contraddittorio, squallido e anche volgare, ma capace di provare un grande amore per una donna e per i figli. Consacrato come figura strabordante nei suoi eccessi, nel mettere in luce e alla berlina il conformismo sociale e sbeffeggiare l’establishment culturale ( letterario, artistico, televisivo…), è un personaggio scomodo, sempre pronto a sgomitare, ma geniale e anche simpatico.
Incipit: “Tutta colpa di Terry ( McIver che insinua volgari calunnie sul suo conto). E’ lui il mio sassolino nella scarpa. E se devo essere sincero, è per togliermelo che ho deciso di cacciarmi in questo casino, cioè di raccontare la vera storia della mia vita dissipata.” Così inizia, con un pretesto letterario, il racconto della vita di Barney Panofsky, proveniente dal quartiere ebraico di Montréal, approda a Parigi con velleità letterarie per poi far ritorno in Canada dove tramite una sua società di produzione che non a caso si chiama Totally Unnecessary Productions, sforna serie televisive antesignani della tv trash, abbastanza fesse che gli rendono successo e denaro. Tre mogli e tante altre donne intercalano i suoi settanta e passa anni. Clara, l’artista sciroccata, faceva parte del gruppo di sciamannati che frequentava a Parigi, sua moglie per poco tempo. La seconda signora Panofsky, una miliardaria, logorroica detestabile. La terza moglie è l’amata Miriam dalla quale avrà due figli; Miriam la donna di quasi tutta la sua vita, sempre rimpianta e mai dimenticata. Tra flash back, l’immancabile sigaro ( Davidoff o Montecristo) tra le labbra, il bicchiere di whisky ( il Macallan “single malt” e il Cardhu) in mano, si consuma in volute di fumo e afrori alcolici e di donne la sua esistenza, una miniera di battute corrosive e dissacranti corredano affermazioni e dialoghi, in un crescendo di fellonie che fanno, poi, solo sorridere. Barney è un personaggio che fin dalla prime pagine ami o detesti, non ci sono alternative, vizi e virtù del mondo da lui frequentato ci offrono spaccati di storia contemporanea imperdibili. Quanta arte sia sedicente, mistificazione è espresso negli obbrobri dell’amico Leo “Che lavorava ai suoi immani trittici mischiando i colori in grandi secchi, e poi applicandoli sulla tela con uno strofinaccio da cucina. A volte lo faceva mulinare sopra la testa, poi arretrava di qualche passo e lo lanciava e lo faceva lanciare anche agli amici! Quarant’anni dopo le sue “opere” sarebbero state esposte alla Tate, al Guggenheim, al MOMA, alla National Gallery di Washington e contese all’asta da piazzisti di titoli ad alto rischio e speculatori vari.” È un libro spassoso e anche amaro uscito dalla penna di uno degli scrittori più ironici e sferzanti, il suo linguaggio, venato di umorismo nero di stampo ebraico e a tratti scurrile, è ricco di digressioni, divagazioni e citazioni a gogo. Leggendo la storia di Barney è facile confonderla con quella reale dell’autore, quando soprattutto si rivolge a chi legge scrivendo: “ Ma questa è la mia storia, ed è l’unica che ho, quindi se non vi di spiace vorrei raccontarla a modo mio.

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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    03 Febbraio, 2011
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La moneta di Akragas di Andrea Camilleri

Come è aduso Camilleri, nella nota finale del libro, illustra al lettore l’origine dell’idea ispiratrice. La storia prende spunto o da un fatto di cronaca o da una leggenda famigliare. Un antenato della famiglia Camilleri, medico e numismatico, incontrò un giorno un contadino che gli mostrò una moneta d’oro antica, per regalargliela. Il medico la riconobbe come la favolosa piccola Akragas. Nell’atto di prenderla, cadde da cavallo spezzandosi una gamba. Pare che poi il medico regalò la moneta al re Vittorio Emanuele III e in cambio ricevette l’onorificenza di Grande Ufficiale. Il resto è inventiva e fantasia dello scrittore.
Quest’ultimo romanzo di Camilleri è storico, prende le mosse dal 406 A.C.: durante l’assedio di Akragas (l’antico nome greco di Agrigento) e la sua distruzione ad opera dei Cartaginesi. Un superstite akragantino Kalebas, giovane mercenario, dopo tre giorni dalla battaglia è morso da una vipera. Il sacchetto con le monete d’oro, la paga di un lungo periodo di lavoro, fa in tempo a lanciarlo lontano prima di morire e precipitare nello sperone.
Nel 1908, con un salto temporale lungo secoli, a Messina, tra le macerie del terremoto, un’altra moneta risalente all’epoca cartaginese viene rinvenuta e destinata allo zar di Russia. Nel 1909 a Vigata, Cosimo, un contadino, trova casualmente una preziosissima e rara moneta d’oro, ma non fa in tempo a regalarla al medico condotto Stefano Giubilaro, grande esperto di numismatica e collezionista d’eccezione, per uno scarto della sorte. Tra Messina distrutta dal terremoto e Vigata, la storia si sviluppa, si tinge di rosso, attinge al consueto sconcerto e concerto di personaggi metastorici che agiscono mossi dalla penna esperta di Camilleri. Questa opera gioca tutta sui dualismi, in primis sulla lingua-dialetto che si attaglia ai personaggi e ne rispecchia vizi e pregi: Camilleri usa gli stilemi linguistici come abiti confezionati per modellarli ai loro caratteri e alle loro peculiarità. Sulla Storia antica-moderna, su accenti ironici-tragici che connotano le vicende narrate. La sorte chiamata in causa come l’artefice degli eventi viene a cozzare con la logica e la razionalità scientifiche, il ruolo del destino è fautore della vita umana? La storia contemporanea non è altri che la proiezione del passato e si ripete in senso vichiano? E la Storia passata metafora del presente?
Quello che sorprende in Camilleri è la struttura narrativa, in superficie, semplice, corrispondente ad uno schema logico collaudato, in cui la complessità del pensiero è governata da uno regolato piano semiologico; é questa la stimmate dell’artista che si ri-vela e non fa trasparire quanto la materia sia stata resa duttile e consenziente?
Camilleri gattopardeggia, interscambia ciclicamente i generi, dal noir, allo storico, al saggio, rimescolando gli ingredienti tipici della sua arte in una sorta di gioco delle carte che alla fine dà il risultato voluto. Ogni volta cambia tutto per non cambiare niente, ma forse in questo sta il fascino e la devozione dei suoi lettori: addentrarsi in una materia familiare, conosciuta, è come ritrovarsi con un amico a cui si è tanto affezionati.
Il romanzo al centro è corredato da dipinti raffiguranti Agrigento antica e fotografie di scene del terremoto di Messina.

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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    31 Gennaio, 2011
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La mite di Fëdor Dostoevskij

Scrive Ernst Bloch che l'esperienza dell'attualità non è uguale per tutti. Pare che sia stata l'attualità a dettare a Dostoevskij la storia narrata nella Mite. Grossman, nel ricostruire la genesi del racconto, ricorda che lo scrittore lo aveva progettato nel 1869 e ripreso 7 anni dopo nel Diario di uno scrittore, quando rimase colpito da una serie di suicidi verificatisi in quell'epoca, ma uno in particolare lo scosse. Una giovane sarta trasferitasi da Mosca a Pietroburgo, da sola, vivendo forse un dramma personale, si butta dall'abbaino di una casa di sei piani stringendo sul petto un'immagine della Madonna. Dostoevskij annota che questa creatura mite tormenterà il suo spirito. Da qui prende l'abbrivio della storia; la ragazza giace da poche ore sul suo letto di morte e il marito un usuraio, ex ufficiale, narra la sua "versione" dei fatti. In una sorta di monologo delirante e quasi annotando i pensieri che invadono la sua mente, il marito, a ritroso, ripercorre l'incontro e il tempo vissuto con la moglie rivolgendosi ad ipotetici ascoltatori come ad una rappresentazione drammatica. All'inizio una biondina esile e di media statura veniva ad impegnare degli oggetti, poi, in una situazione particolare, egli la nota e così conosce la sua misera vita; orfana di entrambi i genitori, sotto la tirannia di due zie e sotto la minaccia di un matrimonio con un mercante molto più vecchio di lei, sedicenne, la sposa lui, comperandola dietro un somma di denaro che offre alle sordide parenti. Il matrimonio, dopo un iniziale entusiasmo della giovane donna, si frantuma davanti ai silenzi di lui, al suo passato oscuro, aver forzatamente abbandonato l'esercito per una calunnia. La malattia della moglie prima, la rinata passione per lei e dopo il suicidio, aprono una serie di interrogativi in cui è difficile dipanare la verità. Perché la scelta di una morte così tragica? Incapacità di amare? Di sottrarsi ad un uomo ormai per lei estraneo? In questi rimandi di domande senza risposte, in un farneticare di colpe ammesse e poi ritratte, in un delirio misto di dolore e rimpianto, l'io narrante rimane impotente e disperatamente solo alla morte della giovane: “Quando ormai la porteranno via, io che cosa farò”? Dinanzi alla morte, in special modo, “scelta” si presenta il mistero di chi ci abbandona e il dolore di chi rimane (sia pure temporaneamente). Dostoevskij, nella nota dell'autore afferma di offrire ai lettori un racconto “fantastico”, sebbene lo consideri reale. Chiarisce che lo scritto non è un racconto nè un memoriale in quanto il protagonista non racconta, ma si racconta la vicenda, parla da solo, si contraddice sia sul piano della logica sia dei sentimenti. Ora si discolpa, ora accusa la moglie ora si perde in spiegazioni avulse dai fatti. Pensieri incoerenti si susseguono alla ricerca di una verità difficile da disvelare in maniera chiara e definita. Lo sviluppo del fatto si protrae per alcune ore e in maniera sconnessa rivolgendosi a se stesso e anche ad un immaginario ascoltatore, una specie di giudice. Come se proprio accadesse nella realtà e tutto venisse annotato e trascritto da uno stenografo certo in modo più conciso e scarno, soprattutto sul piano psicologico. E' questo che caratterizza il fantastico dell'opera, l'inverosimiglianza di chi mentre vive una situazione di dolore prenda quasi appunti mentre soffre e si dispera. Dei critici hanno definito questo stile “stenografico” riferire minutamente, nei dettagli, cercare di dare coerenza al flusso di pensieri che incoerenti sono. Il tema è quello del dramma di un uomo a cui il tempo per la verità è ormai sfuggito: “ Ho ritardato non più di cinque minuti” e la tragicità del gesto estremo della moglie dilania la sua mente e gli pone un interrogativo non più solvibile. Questo breve racconto, complesso nelle sue trame psicologiche, ha molteplici contrapposizioni bifronti: luogo reale/mentale, tempo cronologico/flusso della memoria, riflessione/azione, psiche femminile/maschile…. Il grande scrittore penetra negli animi umani e ne rappresenta le sconcertanti ambivalenze nell’angosciante ricerca d’identità dell’io che stigmatizza la nostra feroce pena dell’esistere.
La concessione della fantasia eleva la storia dalla sua realtà contingente e ne contraddistingue la sua grandezza artistica.

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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    01 Novembre, 2010
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Il sorriso di Angelica di Andrea Camilleri

Nella nota alla fine del libro Andrea Camilleri parla del motivo ispiratore de Il Sorriso di Angelica; a Roma, qualche tempo fa, una banda di ladri ha svaligiato numerosi appartamenti con la stessa tecnica descritta nel romanzo, da questo fatto di cronaca ha desunto la traccia da dove prende l’avvio la storia, ma per quali tortuosità poi, prosegue e finisce, lo sa solo la sua fantasia.
Incipit medesimo: arrisbigliamenti di Montalbano, questa volta non è solo nel letto, c’è Livia, ma ha già dimenticato la sua presenza dormiente. Il romanzo inizia con un sollenni moto di gelosia di Montalbano e nel corso della narrazione Salvo sarà geloso, furioso e libidinoso ai limiti della lascivia.
Una serie di furti nelle case di noti professionisti animano il commissariato di Vigàta, Montalbano è alle prese con questi reati e come sempre diventa una partita personale tra lui e l’autore o gli autori dei medesimi reati. A scompaginare la faccenda, la presenza di una bella trentina, di Trieste, di “stanza” a Vigàta, pardon, cassiere capo alla Banca siculo americana, anche lei vittima di questi ladri, che farà perdere il lume della ragione a Salvo. La vicenda giudiziaria si complicherà a seguito di due omicidi, ma questo farà parte delle indagini il cui corso lo lasciamo a tutti quelli che leggeranno il libro.
La presenza che primeggia e dà il titolo al romanzo è femminile, quei ritratti di femmina che forse sono retaggio della gioventù dell’autore, in questo caso contaminato da reminescenze letterarie, ma così conturbanti e di bellezza dirompente da far uscir di senno. Il primo incontro è un’apparizione metafisica, la donna di carta, l’Angelica dell’Ariosto che s’incarna nella realtà. “Era precisa ‘ntifica, ‘na stampa e’na figura, con l’Angelica dell’Orlando furioso, accussì come lui se l’era immaginata e spasimata viva, di carne, a sidici anni, talianno ammucciuni le illustrazioni di Gustavo Doré che so zia gli aviva proibito”. E’ solo il principio di una passione tanto improvvisa quanto tardiva; non è la prima volta che il nostro eroe si trova invischiato nelle maglie degli spasimi amorosi e di esserne letteralmente travolto come un adolescente, infatti frammisti, sono inseriti due versi della poesia di Cardarelli Adolescente “Un pescatore di spugne,/avrà questa perla rara”. La confusione fatta tra il sogno di picciotto, ogni pensiero ed incontro con Angelica sono intercalati da versi dell’Orlando Furioso, e la realtà di uno squasi sessantino, lo rendono ridicolo, non era dignitoso per un uomo come lui dare di sè spettacolo indegno e miserabili. Sensi di vrigogna e pentimenti non gli impediscono di abbandonarsi con tutti i sensi tra le braccia di Angelica “ Pieno di dolce ed amoroso affetto/alla sua Donna, alla sua Diva corse/che con le braccia al collo il tenne stretto…
Il commissario romanzo su romanzo si priva della sua scorza esteriore e si disarma di volta in volta che l’età avanza, la sua è un’anàbasi indotta dall’incalzare del tempo che ce lo rendono sempre più indifeso, solo, e la sua millantata ed incauta improntitudine è una difesa sempre più debole. Le sue sfuriate memorabili, i suoi colpi di scena sono in difetto rispetto ai suoi dialoghi interiori in cui il suo io ha il sopravvento.
Mentre Salvo acquista sempre più sfaccettature introspettive e sembra uscire dalle pagine scritte come la vagheggiata Angelica, gli altri personaggi, senza sminuirli, sono cristallizzati nei loro ruoli come maschere teatrali. Se di teatro si tratta con tutte le messinscena immaginabili, quello di Camilleri è imperdibile, da teatro di prestigiosa memoria.
La scrittura sta subendo una irreversibile mutazione verso la lingua dialettale, una naturale anastomòsi più involuta e più aderente alla tradizione orale, direi ermetica, nei suoi vocaboli così fissati nel tempo, la lettura diviene un esercizio acrobatico, linguistico-espressivo anche per chi siciliano è.
Senza enfasi né lodi sperticati chioserei con uno slogan trito e un po’ frivolo: Camilleri è sempre Camilleri e…Montalbano è sempre Montalbano anche quando corre il rischio di essere nazional- popolare o considerarlo solo un marchio di garanzia.

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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    01 Novembre, 2010
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Il piccolo principe di Antoine Saint-Exupéry

Come esplicita nella dedica al libro, l’autore si rivolge ai ragazzi e “A tutti i grandi che sono stati bambini una volta. Ma pochi di essi se ne ricordano”.

Questo capolavoro, ormai un cult della letteratura europea e non, è amato da generazioni di diversa cultura, lingua e trasversalmente piace a piccoli ed adulti.

La trama è ben nota, basta solo accennarla. Un pilota a causa di un guasto del suo aereo è costretto ad atterrare nel deserto del Sahara: nella vastità sabbiosa del deserto, nella solitudine a mille miglia da una qualsiasi regione abitata, nel silenzio totale, assoluto, improvvisa, una strana vocetta: “Mi disegni, per favore, una pecora?” Il ragazzino è Il piccolo principe che ha abbandonato il suo pianeta nativo, poco più grande di una casa, e vaga per gli spazi, incontra personaggi bizzarri che impersonano vari aspetti dell’animo umano. Nel nostro pianeta indaga non solo sull’amore, l’amicizia, ma anche sul senso dell’esistere e della morte. La sua apparizione è così tanto misteriosa quanto la sua scomparsa.

Fin qui la storia, esile come il filo delle Parche, ma intensa e profonda quanto la vita di una persona.

La figura del piccolo principe nella sua essenza di completa innocenza accarezza il nostro animo di lettori e ce lo fa amare sin dalla prima comparsa in scena. Come non intenerirsi al suo bisogno di affetto, come non partecipare alla sua dolente e disperata solitudine: tutto ciò che ha compreso ce lo insegna con il linguaggio di chi sa che “ Si vede bene solo con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”

L’immagine del piccolo principe è l’emblema dell’infanzia, lo stato di grazia ritrovato, così prezioso perché raro, così possibile quando sarebbe impossibile. È un paradosso affermare che il libro è destinato o era destinato ai bambini perché non è necessario che si insegni a loro i valori autentici che noi adulti ci compiace pedissequamente ripetere, siamo noi adulti che li dimentichiamo negli atti quotidiani e che abbiamo bisogno di recuperarli ritornando bambini con la mente e il cuore.

In uno stile così semplice, oserei dire disarmante, privo di sovrastrutture lessicali, l’autore ci pone davanti a verità incontrovertibile, a considerazioni assolute ed universali, stupefacenti perché suggerite da un fanciullo.

La lettura di questo breve scritto rinfranca la mente e come una sorgente d’acqua pura ci spiana l’animo e ci dispone agli altri e a considerare che quello che ci sembra così tanto importante da occupare spesso la nostra esistenza, forse, forse…anzi proprio, non lo è.

Tanti critici hanno analizzato, questo racconto, hanno scritto fiumi di definizioni, parole difficili, interpretazioni tra le più disparate, ma oltre la critica, la grandezza e il fascino di questa opera è che attraversa il tempo e le generazioni mantenendo intatto il suo linguaggio poetico, l’autentica meraviglia di chi l’ha scritto e il fascino quando la logica della nostra ragione è incrinata e messa a dura prova da domande apparentemente ingenue e infantili.

L’autore. Antoine Saint-Exupéry nasce a Lione nel 1900 in una famiglia dell’aristocrazia francese di provincia. A 4 anni rimane orfano del padre, ma trascorre con le sorelle e il fratello un’infanzia serena e con la madre manterrà un rapporto molto stretto. Nel collegio dei gesuiti di Sainte- Crois a Le Mans soffre per la disciplina rigida di tipo militare che vige. Diventa malinconico e solitario, nel 1912 sale per la prima volta sull’aereo del futuro asso dell’aviazione francese nella prima guerra mondiale, Jules Védrines. A Parigi conclude gli studi superiori dopo la morte del fratello François, ama la meccanica e la filosofia, disegna modellini di aerei e frequenta gli ambienti letterari della capitale. Dopo non essere riuscito ad entrare all’Accademia navale, frequenta la facoltà di architettura. Conseguito il brevetto di pilota civile e militare, dopo un incidente, fa solo il pilota civile. In Africa la vita da pilota è intensa, di notte scrive. Nel 1926 pubblica il suo primo libro Volo di notte, scrive prefazioni e reportage per i giornali Paris soir da corrispondente a Mosca. Nel 1935 tenta di battere il record di volo Parigi-Saigon, ma nel deserto della Libia in un atterraggio di fortuna si salva per miracolo. Nel 1938 torna in Europa, ormai famoso, riceve la Legione d’Onore, le sue scoperte scientifiche sono significative nell’ambito della navigazione aerea. Compie missioni pericolose durante la seconda guerra mondiale, nel 1942 fugge in America in esilio, dopo la firma del trattato tra la Francia del maresciallo Pétain e la Germania di Hitler. In America vive con i diritti d’autore di Terra degli uomini, proclamato il libro dell’anno. Quando l’attacco a Pearl Harbour provoca la mobilitazione generale, lascia New York, dove ha scritto il suo capolavoro Il piccolo principe e si arruola per partire in Nord Africa. Nel 1944 durante una missione di volo nella regione di Grenoble, di lui non si saprà più niente. La sua ultima opera Cittadella esce postuma.

Del pilota Antoine de Saint-Exupéry non si è trovata traccia, sino alla primavera del 2004, quando, sono stati riconosciuti i resti del suo aereo al largo di Marsiglia.

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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    13 Ottobre, 2010
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Ricostruzioni di Josephine Hart

Lo psicanalista Jack Harrington, quarantenne divorziato, vive a Londra. La sorella Kate, più giovane, fa la modella, ha un matrimonio alle spalle, tante storie sentimentali e sta per sposarsi. Un segreto famigliare accomuna e unisce i due fratelli e quando sta per essere venduta Malamore la casa d’infanzia, riaffiorano dolorosamente i ricordi e la morte della madre. La messinscena dei protagonisti diventa uno studio psicanalitico, Jack e Kate spezzati nell’animo dal dramma dell’infanzia che li ha tenuti legati morbosamente, stanno, faticosamente, ricostruendo la loro psiche. Affascinante ed inquietante lo stile narrativo della Hart, delinea le due figure letterarie attraverso dialoghi e frasi spezzate come le loro personalità interrotte e le loro vite desolate e private dall’affetto dei genitori. Da questo libro il regista Roberto Andò ne ha tratto un film dal titolo “Il viaggio segreto”, ambientato in Italia e precisamente in Sicilia. Un film introspettivo e dolente, la mano felice di Andò rende al meglio la scrittura del romanzo traducendo in immagini evocative il tormento interiore dei due protagonisti. Nel film il rapporto dei due fratelli sembra mutuare quello dei genitori, nel ballo senza musica, in una sorta di danza rituale. Il viaggio, simbolicamente, diventa la ricongiunzione con il passato rimosso e la pervenuta conoscenza di esso, la ricostruzione completa che li prospetta verso un futuro consapevole. Jack: “metterò su ancora una volta quella cassetta di ricordi prima di cancellarli definitivamente. Ancora una volta e poi più…
Poi nuotando torno a galla, e stavolta ci voglio rimanere”.
Stranamente, per chi ha visto prima il film e poi ha letto la storia, la trasposizione cinematografica, pur mantenendo una certa freddezza analitica e un distacco emozionale come quello dello psicanalista e dello scritto, traduce in forte tensione emotiva il carattere del protagonista e le figure enigmatiche dei genitori. Un processo inverso in cui un paesaggio assolato ed abbagliante, l’intensa e introspettiva recitazione degli attori danno senso all’ossessione che ha sconvolto le vite dei personaggi.

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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    09 Ottobre, 2010
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L'intermittenza di Andrea Camilleri

L’intermittenza, l’ultimo libro di Camilleri non può non richiamare alla memoria: "Un sabato con gli amici", stesso stile secco ed essenziale quasi a cogliere e collocare i personaggi (il lettore riesce, questa volta, a districarsi tra i vari nomi dei personaggi e loro relativi ruoli e legami grazie all’elenco presente all’inizio del libro) all’interno delle proprie crepe morali.
Siamo dentro il mondo degli affari sporchi, dell’imprenditoria spietata e predatrice, della politica cialtrona e opportunista. Senza soluzione di continuità s’intersecano i rami dei vari settori alla cui base ci sono profitto, convenienza e malaffare, ma Camilleri idealmente vuole spezzare questo fil rouge di vasi comunicanti inventandosi: L’intermittenza. “Silenzio totale, assoluto, come se intorno gli fosse sorta una bolla d’aria insonorizzata, inglobandolo. I muscoli paralizzati, non obbediscono agli impulsi inviati dal cervello. Poi, senza preavviso, si sblocca. Il contatto con il mondo viene ristabilito. Per una frazione di secondi i rumori hanno un così forte innalzamento di volume che gli rintronano dentro la testa, lo stordiscono”.
Una corrente che si alterna o un black-out momentaneo interrompono ambizioni ed illusorie vanaglorie di chi mercifica tutto quello che tratta.
Siamo in una metropoli del nord (Camilleri istantaneamente assume un registro linguistico formale e composto), al centro il patriarca-presidente di una grande industria, la Manuelli il cui figlio, Beppo, una nullità totale, ricopre indegnamente la carica di vice Direttore generale; il Direttore del Personale, Guido Marsili è un rullo compressore, senza ripensamenti, senza scrupoli, freddo e implacabile, ma con una segreta passione per la poesia e il Direttore generale Mauro De Blasi, manager importante che tiene tutto sotto controllo, eppure…avvisaglie di défaillance lo frastornano e lo lasciano inerme: “Fu allora che ebbe lacerante certezza della prossimità della sua morte”. La crisi nazionale aleggia sul Paese e la Manuelli fagocita l’azienda Artenia di Birolli sull’orlo del fallimento. Mauro De Blasi porta avanti trattative segrete, offrendo una certa cifra per il pacchetto azionario dell’azienda soccombente: trarre utili in diminuizione delle tasse. Personaggi maschili tagliati con l’accetta, di sordido profilo, sempre pronti a captare l’affare losco, ma mantenendo esteriore liceità e a trattenere il potere senza cedimenti. Tagli del personale, cassa integrazione galoppante e trattative con il politico di turno tracciano un quadro economico e finanziario molto simile alla realtà odierna. Le figure femminili assumono connotati propri dell’ambiente in cui vivono, Marisa, la bella moglie di De Blasi, ricca ed annoiata incline ai tradimenti; Anna, la segretaria di Mauro, la sua vita pubblica sicura e motivata contrasta con la privacy deserta e vuota, facile agli abbagli amorosi; la bella nipote di Birolli, Licia, consulente del capo di un grande gruppo industriale, Luigi Ravazzi, si occupa di economia con grande disinvoltura. Eppure queste donne, apparentemente così risolute, granitiche per il lavoro che svolgono e per i ruoli che ricoprono, sono da Camilleri rappresentate sempre con estrema cautela e, spesso, spogliate dalla scorza esteriore che le caratterizza. La donna, l’eterno femminino appare in tutto il suo spessore e anche l’oca cristallizzata nella sua apparenza gradevole e accattivante mostra le sue fragilità interiori. In questo romanzo Camilleri assume il ruolo di evocatore dei destini italici, senza cadere nella trappole della retorica e nelle insidie del moralismo. In una prosa curata e controllata, dove le parti dialogiche non sono meno a quelle narrative - riflessive non c’è scampo alfine per chi vuole alzare sempre la bandiera del vincitore. Ha ancora fatto centro Camilleri? Senza aspettarsi il capolavoro o l’intuizione geniale, a mio modesto parere e da fans della prima ora, risponderei di sì.

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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    19 Settembre, 2010
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Il cinese di Henning Mankell

In un villaggio svedese, a Hesjövallen, avviene una strage: 19 corpi trucidati, tutti di persone anziane tranne quello di un ragazzino di circa 12 anni, vengono ritrovati nelle loro case. 19 nomi, tre famiglie, un corpo dopo l’altro, tutti contraddistinti dallo stesso furore folle, le stesse ferite inferte con un’arma affilata. Non è una normale indagine, tutto è così orribile da risultare incomprensibile. La responsabilità del caso è affidata alla poliziotta Vivi Sundberg, tenace e con una grande capacità di analizzare anche i più piccoli indizi. Per una strana e misteriosa tela di parentele sarà coinvolta nell’inchiesta, sia pure non in forma ufficiale, il giudice Birgitta Roslin. Da questo truce fatto di sangue si dirama una storia le cui radici affondano in un lontano passato lungo 140 anni. Dalle gelide foreste scandinave attraverso differenti piani temporali la trama si snoderà in Cina, negli USA, in Africa per ricomporre il suo tragico epilogo in Svezia.
Mankell costruisce un libro corposo, una storia d’ampio spettro storico e riesce a dar vita ad un quadro di vite consunte dalla vendetta e dalla sete di riscatto sociale. Un frammento di storia, nell’800 molti cinesi furono venduti e sfruttati come schiavi in USA, nel Nevada, durante la costruzione della ferrovia, racconta con toni forti e partecipi la condizione di chi non ha riconosciuti nemmeno i più elementari diritti umani e soffre della propria dignità offesa. Di quanto la via del progresso e del profitto economico abbiano sacrificato migliaia di vite umane. Il passato, a volte, quando è stato troppo doloroso non si dimentica e l’odio è un fiele che avvelena l’esistenza.
Dall’inizio della storia al suo svolgimento, il lettore è trasportato all’interno di un’altra storia a tinte fosche che costituisce il corpo centrale del plot in cui si dispiegano le vicende umane di Wang San, di Ya Ru, di Liu… Il diario di San esprime la rabbia cresciuta dentro di sé, il viaggio umano nel dolore di un uomo e lo scrive perché i suoi discendenti non dimentichino le ingiustizie subite. L’ingiustizia pesava su tutta la Cina. La parte finale si ricollega all’inizio come uno schema concentrico. Mankell racconta della Cina di Mao, del movimento contadino convinto di sollevarsi dalla miseria e che ha fatto enormi passi avanti, ma devono i cinesi ancora combattere contro la miseria che è ancora grande. Il cammino è ancora lungo. La Cina pre-olimpiade che ai suoi vertici ordisce trame politiche e i cui leader moderni si sono sostituiti ai vecchi capi del partito comunista con metodi corrotti e antidemocratici. L’eterno scontro tra gli ideali che non riescono a sopravvivere alle pressioni di una realtà che i vecchi teorici non avevano mai compreso.
Mankell intreccia il genere giallo e quello storico in modo naturale senza discrepanze stilistiche né di contenuto, tutto viene ricomposto nella sua giusta collocazione. I personaggi si delineano man man che ci si addentra nello scritto, la loro natura umana emerge in tutte le proprie sfaccettature.
È un romanzo interessante che appassiona sin dalle prime pagine e si legge come “si suol dire” tutto di un fiato.

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Libri di letteratura scandinava di genere noir
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    12 Settembre, 2010
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L'Homme aux cercles bleus

Jean-Baptiste Adamsberg: l’avevano nominato commissario a Parigi, nel quinto arrondissement. Procedeva a piedi verso il nuovo ufficio, per il suo dodicesimo giorno. Diventato sbirro a 25 anni, nei Bassi Pirenei, dove aveva vissuto e risolto uno dietro l’altro 4 omicidi, era chiamato silvestre. E’ un uomo forse bello forse no, piccolino, vestito malissimo, che scarabocchia sempre qualche disegno sul lato del ginocchio destro piegato, invece di prendere appunti come un qualsiasi poliziotto nel corso delle indagini. Un uomo vago e lento nei gesti e nell’eloquio, “in certi momenti era più altrove che mai”, dalla figura piccola, solida e scura. Questo l’identikit, in breve, del poliziotto nato dalla penna di Fred Vargas,; ma che razza di tipo è questo? Si chiedono i colleghi parigini e noi lettori. Tipi strani questi commissari, solitari, ma dotati di una strana quanto inspiegabile fascinazione. Ha l’aura di genio dell’investigazione assemblata all’aspetto trasandato e niente di speciale, una complessiva trascuratezza del personaggio, Adamsberg, ma dalla voce piacevole ad udirla quasi come una carezza. Attorno ad un fatto apparentemente banale e di scarsa importanza investigativa, l’uomo che traccia durante la notte misteriosi cerchi azzurri, con un’inquietante scritta “Victor, malasorte, il domani è alle porte”, dentro i quali giacciono oggetti abbandonati ormai privi di utilità e segnalati all’attenzione degli altri, Fred Vargas ordisce un preciso meccanismo narrativo, che si sviluppa in un crescendo di attesa. Tra metodi investigativi sui generis di Adamsberg affiancato da Adrien Danglard, il suo ispettore preferito considerato reale, molto reale dal commissario, tra personaggi strambi come la scienziata Mathilde Forestier, che segue e annota gli altri per strada, la settantenne Clémence Valmont, con un’unica idea, trovare un amore e un uomo, il cieco Charles Reyer ambiguo e misterioso, l’ometto Louis Le Nermond, professore bizantinista, si amalgama un buon romanzo poliziesco, dalla prosa semplice e dalla piacevole lettura. Il nome Fred Vargas è un marchio di garanzia di qualità, senza parlare di capolavori, la sua scrittura è ben calibrata tra riflessioni serie ed ironia lucida. L’idea di letteratura come rappresentazione della realtà immaginativa o riflessiva può essere accantonata quando un buon giallo, di livello alto, un genere, può far vagare e divagare la mente per puro senso della piacevolezza della lettura.

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Già i libri dell'autrice e ne apprezza lo stile e le trame noir
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    29 Agosto, 2010
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L'ultimo libro di Zoran Zivkovic

Questo romanzo è un thriller postmoderno sulle orme di Borges, a detta di tanti critici, la cui trama ricorda alla lontana Il nome della rosa di Umberto Eco.
Il protagonista della storia è il libro e precisamente l’ultimo libro che svelerà il mistero di cui è intricato il plot.
La trama sarà solo accennata per non togliere la suspense a chi vorrebbe leggere il romanzo. Delle morti si susseguono, luogo inusuale, in una libreria Il Papiro, mentre abituali clienti stanno leggendo un libro. L’ispettore Dejan Lukic, le due libraie Vera Gavrilovic e Olga Bogdanovic indagano alla ricerca di motivazioni e colpevoli di questi decessi inspiegabili, ma la soluzione dell’enigma sarà inaspettata e imprevedibile, al limite del paradossale e metafisico.
Sullo sfondo della capitale serba, ai giorni nostri, in giornate autunnale e piovose, scorrono sensazioni di déjà lu, immagini oniriche ed incubi surreali; scaffali di libri come montagne sovrastanti occupano le pagine del romanzo. La libreria, la sala da tè in cui si consuma un cerimoniale tanto raffinato quanto orientale, in un’atmosfera di esalazioni di essenze che sovrapponendosi inebriano, l’edificio di medicina legale grigio e cupo, oltre un’alta recinzione, una villa segreta, luogo d’incontri di una setta di incappucciati, tutto secondo un sistema rigido proprio di un ordine segreto, sono gli ambienti in cui si muovono i personaggi della storia. Tema dominante è la letteratura e i suoi rapporti intercorrenti con l’autore: dov’è il confine tra immaginazione e realtà? In una fascinazione misteriosa si dipanano sogni e fantasia.
Sulla superficie della letteratura, della cultura libresca e dell’amore per la scrittura, l’autore inventa una storia dal sottofondo scuro e criptico. Il libro e il suo ambiguo contenuto di verità e menzogna diventa un sortilegio che confonde e spiazza. Lo stereotipo dell’equazione: giallo uguale bassa letteratura è da Živkovic superato; l’alta letteratura non si nutre di generi letterari, li travalica!
In uno stile alto, fascinoso e scorrevole, il romanzo s’incentra su un’idea vincente, un’emozione, un’invenzione godibile e fruibile per tutti quelli che amano le buone letture.

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Thriller d'ambientazione inusuale e misteriosa
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    24 Giugno, 2010
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Acqua in bocca di Andrea Camilleri Carlo Lucarelli

Camilleri ha rinverdito il romanzo epistolare e insieme a Lucarelli ha dato vita ad un esperimento a dir poco originale. La genesi dell’opera è quanto mai inusuale e casuale, niente di progettato a tavolino e tanto meno nella mente dei due scrittori. Come raccontato dalla nota dell’editore Daniele di Gennaro riportata alla fine della storia, tutto ha inizio nella primavera del 2005. A Roma nello studio di Andrea Camilleri, con Carlo Lucarelli si girano le immagini di un documentario per Raitre A quattro mani prodotto da minimum fax media per parlare di letteratura poliziesca, e tra battute e rimandi di frasi tra i due scrittori, l’editore butta lì una domanda su come si comporterebbero i due personaggi letterari, l’ispettrice Grazia Negro e il commissario Salvo Montalbano, le rispettive creature di Lucarelli e Camilleri, con un cadavere in mezzo, come avrebbero interagito in un’inchiesta… E’ stato il là d’inizio di una sorta di jam session letteraria, in cui l’uno parla, l’altro ascolta in un continuo sorprendere e sorprendersi. Da una semplice provocazione azzardata di scrivere una storia, nasce in nuce una trama che tramite uno scambio epistolare, ha trasformato la jam session iniziale in una partita a scacchi senza esclusione di colpi. Il gusto del rischio, dell’imprevedibile ha preso entrambi gli scrittori, il cui cimento per il gioco ha prodotto questo libro, dal plot rimaneggiato e smontato durante la lunga gestazione, con varie interruzioni, durata ben 5 anni. "Acqua in bocca" già dal titolo e dalle prime righe di lettura assume connotazioni semantiche diverse: significato letterale e metaforico. Infatti un cadavere rinvenuto con la testa dentro ad un sacchetto di plastica e tre pesciolini rossi stecchiti vicino, apre la scena del crimine: è l’inizio di un’indagine non autorizzata che in una sorta di dialogo a distanza cioè a colpi di lettere più o meno segrete Grazia Negro e Salvo Montalbano collaborano alla risoluzione del mistero. Si dà vita al genere crossover già inaugurato al cinema con Chi ha incastrato Roger Rabbit, il cosiddetto gioco degli incontri di autori, personaggi in una stessa narrazione, in uno scarto della fantasia semplicemente siderale. Questo trucco combinatorio, o pastiche o incrocio narrativo dei due campioni letterari è un vero gioco divertente sia per gli autori sia per i lettori. Ma in barba ad ogni logica Montalbano subisce due mutazioni: una fisica, è calvo; una linguistica, parla in italiano con un cabasisi ogni tanto, tanto per non perdere l’abitudine del dialetto. L’effetto prodotto è uno “straniamento brechtiano” (Camilleri), che trasferisce il lettore in quei mondi possibili e paralleli in cui tutto può accadere. I due geniali artefici di questo puro esercizio letterario non subiscono mutazioni di stile, si alternano e si completano a vicenda in un clima narrativo che di stupefacente ha l’atto dello scrivere per il piacere di raccontare storie.

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Camilleri e Lucarelli o l'uno o l'altro.
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    21 Giugno, 2010
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L'americano tranquillo di Graham Greene

Nella dedica iniziale a degli amici di Saigon, Greene precisa che questo è un racconto, non un libro di storia, per cui i fatti reali sono stati in qualche modo rimaneggiati, ciò non toglie che i fatti stessi narrati rispecchiano riflessioni, considerazioni ed attività realmente vissuti dallo scrittore durante la sua esperienza come inviato speciale anche in Indocina.
Siamo nel marzo 1952, a Saigon, durante la guerra tra Francia e Indocina, il cinquantenne cronista, o meglio come ama definirsi reporter, inglese Thomas Fowler conosce un giovane funzionario americano della Missione per gli aiuti economici Alden Pyle; tra i due nasce, nel breve rapporto intercorso, una forma labile di amicizia messa in crisi dall’amore per una stessa giovane vietnamita, la dolce Phuong “Fenice”. Il giallo assume i connotati del poliziesco psicologico nell’istante in cui Pyle viene ucciso in circostanze misteriose e Fowler cercherà la verità ripercorrendo nella memoria
tutti i momenti passati insieme, da quando tutto era cominciato, a Pyle che si era seduto al suo fianco al Continental e…alla sua morte che gli arreca dispiacere. Al centro dell’opera si pone il confronto tra due personaggi implicati in uno stesso conflitto, ma con atteggiamenti opposti: Fowler disincantato e cinico, con un matrimonio in rotta di collisione ricorre all’oppio come rimedio al tormento delle sue angosce private e Pyle, apparentemente ingenuo, è considerato un uomo tranquillo, mosso da ideali patriottici che legittimano la presenza degli USA nei punti caldi del mondo. Emergono due tipologie umane bifronti, Fowler considera con triste distacco e consapevolezza e la ruvidezza di cui è fatta la sua professione: “Ero un corrispondente e pensavo per titoli: Funzionario americano assassinato a Saigon. Nel giornalismo non si impara come comunicare le cattive notizie” e gli accadimenti bellici che diventano una sorta di amara riflessione sugli uomini e il mondo, Phyle imbevuto del sogno americano non esita a diventare complice di una serie di sanguinosi attentati su civili per favorire il sospetto dell’opinione pubblica contro i comunisti. La storia narrata ha tutti gli ingredienti tipici del giallo e del giallo di marca Greene: la suspense, i colpi di scena, il messaggio altamente etico sugli uomini sia carnefici sia vittime, l’amore tormentato per una donna più giovane. Greene nell’intreccio privilegia la dimensione morale e una posizione personale emotiva più che politica di fronte ai tragici eventi militari; i dubbi interiori di Fowler cozzano con le certezze granitiche di Pyle, ma “prima o poi bisogna scegliere con chi stare, se si vuole restare esseri umani”. Sul piano linguistico, la scrittura scivola come la sabbia nella clessidra, regolare, precisa e chiara: un formidabile uso dello strumento espressivo che rende agevole e interessante la lettura.

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Altri libri dello stesso autore e ne apprezza lo stile e gli intrecci particolari.
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    24 Mag, 2010
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La caccia al tesoro di Andrea Camilleri

Il sedicesimo libro della serie con Montalbano ha un incipit diverso: il commissario non ha passato una nottata fitusa, non s’arroviglia tra le lenzuola, ma più avanti si legge: “e fu accussì che inveci d’essiri, come al solito, arrisbigliato dalla prima luci del jorno, fu lui a vidiri il jorno che s’arrisbigliava”. Sembra di entrare subito nell’atto criminoso, ma poi Camilleri ci svia, ci addentra in un commissariato sonnolento, intorpidito, senza fatti violenti o cruenti sia pure di scarsa entità, Montalbano che non sa come passare il tempo tra un libro di Simenon, una Domenica del Corriere del 1920 e l’osservazione entomologa del percorso di una mosca intorno alla scrivania.
Montalbano primo che interloquisce con Montalbano secondo sulla vecchiaglia, riflessioni sul suo modus operandi più cauteloso: si rimprovera e poi si assolve.
Catarella con le sue proverbiali storpiature lessicali, sciddricate della mano sulla porta e divagazioni con rebus e cruciverba allenta la tensione che tra le pagine s’insinua. La sempiterna e slapita Livia distante anni luce, solo telefonicamente rivendica ancora un minimo di attenzione da parte di Salvo. Fazio, Mimì Augello, Gallo, Galluzzo, la svedese Ingrid cristallizzati nei loro ruoli, ci accompagnano in questa nuova e più noir storia: due vecchi fanatici religiosi, due bambole gonfiabili, lettere anonime che in giochi enigmistici invitano il commissario ad una strana e poco credibile caccia al tesoro, la scomparsa di una giovane e bella ragazza e un giovane aspirante epistemologo, tutto questi elementi sparsi e apparentemente slegati tra loro trovano la giusta collocazione. Montalbano rimette a posto con la sottile arguzia che lo contraddistingue tutti i pezzi del puzzle, quando un lapsus e due omissioni gli illuminano la mente e la risoluzione del caso prende forma anche senza uno straccio di prova, ma “la mancanza di prove non è prova della mancanza”, (Rumsfield). Da “L’età del dubbio” e “La danza del gabbiano” il commissario di Vigàta, 57 enne, s’interroga, si analizza sempre più nel profondo: sì, ripete i suoi rituali legati alla cucina, la buona cucina di Adelina o di Enzo, la passiata al molo, fino sutta al faro, l’assittatina supra allo scoglio con relativa sicaretta, le parole che lo fanno arraggiari, il guasto della natura, della politica, dell’animo umano che lo feriscono, l’offendono, ma ad una certa età s’addiventa insofferenti su tutto. Conferme per lui che sta diventando vecchio. Una forma di spleen cova nel suo cuore e squieta la mente, la solitudine che prima era quasi uno status naturale ora l’avverte con più sofferta sensibilità. Camilleri attinge a piene mani alla sua fantasia, ma anche alle sue eccellenti letture, echi e riferimenti letterari, come il nome della via Brancati al Don Giovanni in Sicilia, bambole gonfiabili comprate all’estero, espressione di un erotismo stravagante e alla moda e altro. La caccia al tesoro è un’altra gemma letteraria di Camilleri che ci emoziona fino all’ultima riga. Come il personaggio Arturo Pennisi, il picciotto ventino, preciso intifico a un Harry Potter, è interessato al funzionamento del cervello di Montalbano quando conduce un’indagine, così noi lettori siamo incuriositi e affascinati della mirabolante struttura linguistica di Camilleri e degli architettonici ed ingegnosi intrecci narrativi delle sue opere. E come se Camilleri sfidando se stesso in un gioco di specchi lanciasse una sfida anche ai suoi lettori facendoli giostrare a più livelli mentali e ingannandoli- da ottimo giallista- per gran parte del testo.

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Montalbano e sempre e...non solo Montalbano
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    20 Mag, 2010
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L'isola della paura di Dennis Lehane

Questo romanzo è un thriller ad alta tensione, psicologico e coinvolgente. La trasposizione cinematografica di Martin Scorsese ricrea le stesse atmosfere cupe e claustrofobiche del libro, scene apocalittiche durante l’imperversare dell’uragano e personaggi tetri e foschi, alcuni dei quali hanno solo parvenze umane. L’isola è la protagonista assoluta della storia, una cosa che cattura nelle sue spire chi approda e non sa che è un viaggio senza ritorno. Ciò che appare sembra, ma non è reale, la vita reale è labile come foschia che dirada all’orizzonte, solo gli incubi depredano il cervello umano e come alieni invadono i gangli nervosi. L’agente federale Teddy Daniels, eroe di guerra ( nella seconda guerra mondiale), porta i suoi fantasmi interni sull’isola. Nel settembre del 1954, da Boston dove abita, è inviato nell’isola di Shutter, a Ashecliffe Hospital, un manicomio criminale per indagare la scomparsa di una certa paziente Rachel Solando. La trama non si può raccontare, come ogni noir degno di questo nome deve rimanere nel mistero e solo chi lo legge può trarne le sue conclusioni. Ma si può sottolineare i temi di fondo sottesi alla storia: la guerra che fabbrica eroi mediante omicidi legalizzati e devasta il cervello e il fisico fino a, volte, all’annientamento, le pratiche psichiatriche da camicia di forza e pene detentive, spacciate per cure per le malattie mentali, la società americana con i suoi perversi meccanismi di supposta autodifesa che annega i suoi fantasmi nell’alcool e in un rigido moralismo patriottico. Un finale aperto sorprende e le ultime pagine e le ultime righe sono un colpo mancino da parte dell’autore assestato con astuzia e con una buona dose di perfidia. Lambiccarsi il cervello e indurre alla riflessione sono i messaggi sublimali che Dennis Lehane lancia al lettore. Come rimanerne? Delusi? No, perché il protagonista ci entra nella mente, in quel suo continuo arrovellarsi; le visioni, i sogni, sono così fisici da frantumare l’interezza dell’io. Le sue sofferenze così tangibili dilaniano ogni fibra del suo corpo che sembra quasi di sentire e percepire, attraverso le pagine, tutte le sensazioni più intime. I traumi passati diventano un’arma che si ritorce su stessi, ci sono esperienze, quali la guerra, la morte violenta che segnano inesorabilmente l’animo sconvolgendo la psiche. In questa narrazione l’amore del protagonista per la moglie è totalizzante, terribile”Lei era stato tutto l’amore che avesse mai provato” e questo amore è descritto come gioia, esaltazione prima, dopo sofferto, tormentato e senza tregua consuma il suo spirito. Lehane coglie ogni dettaglio dei sentimenti che vivono nella mente di Teddy, esplora l’animo umano con grande psicologia. E come se svegliasse la memoria intorpidita dal troppo dolore e scavando in profondità facesse affiorare tutto l’indicibile non altrimenti sopportabile. La verità non sempre è il bene, l’apparenza di essa è eticamente accettabile quando la pretesa di possedere una verità assoluta è relativa all’individuo. Una bella scrittura, una bella riflessione sull’uomo quando la sua vita si trasforma in dramma e tutto precipita, uno dei motivi per leggere questo libro ed apprezzare l’intenzione profonda che muove l’autore a raccontare questa vicenda.

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A chi ama gli intrecci ben costruiti e una buona dose di psicologia, anche se in questo caso, di psichiatria...
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Romanzi
 
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    17 Mag, 2010
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Presagio triste di Banana Yoshimoto

Yayoi, la protagonista del romanzo, è una ragazza diciannovenne che vive apparentemente felice con i suoi genitori, amorevoli e comprensivi e il fratello Tetsuo. Tutto sembra scorrere in un clima idilliaco e calmo, ma come lampi nella mente di Yoyoi turbinano pensieri molesti che la turbano e la rendono inquieta; immagini e sogni di un passato confuso che non riesce a decifrare. Tanti sono gli interrogativi che si affollano nell’animo della giovane e la tormentano; le sue fughe improvvise sono i segnali di un disagio lontano da superare. La figura della giovane zia, insegnante di musica,
che conduce una vita solitaria e fuori dai canoni soliti, l’affascina e la spinge a ricercarne la vicinanza. Il disvelamento del mistero della sua infanzia maturerà Yoyoi rendendola consapevole di certi aspetti del suo carattere e della sua rappresentazione della realtà. Un breve romanzo dallo stile lieve e carezzevole, in cui la sensibilità della scrittrice si condensa in suggestive impressioni paesaggistiche e mentali Le tante domande che la protagonista si pone prefigurano risposte incerte e aperte sulla vita, riflessioni interiori che imprimono spessore ai personaggi. Il ritmo narrativo ha
un andamento poetico, la fluidità espressiva scorre limpida e cristallina come ruscello di montagna, i suoni diventano immagini e viceversa. E la protagonista immersa nell’ascolto di una dolce melodia si sente trascinata nelle profondità marine e un triste presagio l’avvince come se il buio fosse sceso di colpo e l’avesse trascinata lontano dalla marea con il rischio di perdersi. È la discesa negli inferi dell’animo per poi risalire in una parabola ascendente che la porta alla scoperta di sé, di una sorella e un compagno. Un bel romanzo, nella sua brevità racchiude una storia esistenziale, ammantata di fascino, sfumata e contenuta nei toni.

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Altri libri della stessa autrice o comunque vuole conoscere modus vivendi di altre culture non solo occidentali.
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Storia e biografie
 
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    17 Mag, 2010
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L'isola senza ponte di Matteo Collura

In questi saggi e storie l’autore ci addentra dentro le cose della Sicilia, nel cuore dell’Isola il cui respiro soffia in chi dall’isola è andato via, ma anche solo con la mente è ritornato dopo. In paesaggio e destino, l’ambizione di essere isola è un archetipo da Omero in poi, passando per Dante, la letteratura ha attinto riccamente al concetto di isola come valore aggiunto o perlomeno pieno di insiti significati. Giuseppe Tomasi di Lampedusa diceva che bisogna partire presto dall’Isola, altrimenti la crosta è già fatta. Leonardo Sciascia evase, ma rimase attaccato come una patella allo scoglio. Gli isolani, affermava Pirandello, avvertono il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura aperta, chiara di sole; è il mare che li isola e li fa soli, diffidano, e ognuno è e si fa isola a sé. Gesualdo Bufalino coniò il termine isolitudine, con ciò intendendo il trasporto di complice sudditanza che avvince al suo scoglio ogni naufrago. In Ombre nei luoghi dei romanzi, la citazione del bellissimo titolo di un libro dell’argentino Osvaldo Soriano: “Un’ombra ben presto sarai” per indicare l’importanza della forma che i veri artisti danno alla letteratura e usano darne la consistenza di un’ombra. L’artista è un visionario perché la visione che egli riesce a costruirsi è forma perfetta: Borges la considerava prerogativa e privilegio della letteratura. I luoghi visitati o natii, attraverso il punto di vista dei grandi scrittori, vedi Pirandello - Agrigento, si trasfigurano e si cristallizzano in visioni avvinte strettamente alla loro sensibilità e al loro attaccamento sentimentale. La poesia di Pirandello Ritorno chiude con i seguenti versi:
“…guarda la casa accanto
dall’aereo terrazzo, ove felice
visse la famigliola,
ma serra in cuore il pianto;
e sconsolata e sola
neppur tra sé con un sospiro dice:
“ Quando stavamo là…”
Sciascia, dice Collura, forse nessun scrittore italiano del ‘900, ha mostrato di essere così legato al suo paese d’origine, restringeva la Sicilia a Racalmuto” il desiderio acuto di lei”
Collura ripercorre i luoghi in cui la letteratura ha trovato casa, Santa Margherita Belice, Palma Montechiaro, … tappe dell’epopea del Gattopardo.
Una storia d’amore e di guerra racconta di due giovani siciliani che decisero di continuare la guerra secondo i loro ideali. In Luigi e Antonietta nella vampa della follia spiega quanto la drammatica vicenda umana di Pirandello è teatro allo stato puro: un teatro di natura da cui scaturisce quello artistico.. La capacità di fare teatro delle proprie angosce, dell’inferno che per lui fu il rapporto con la moglie (folle), al punto che è difficile distinguere i drammi rappresentati sui palcoscenici da quelli vissuti dal loro autore. In Enigmi analizza il dipinto L’uomo ignoto di Antonello da Messina (Museo Mandralisca, Cefalù), comunica in quel suo enigmatico ed irritante sguardo di un uomo compiaciuto di se stesso, un realismo che rende l’opera oltremodo misteriosa. Ebbene come tanti messaggi criptici inserite in opere di artisti forse il mistero sta in una virgola, una goccia, un capriccio grafico disegnato al centro di un rettangolo di colore bianco che traspare dalla giubba. Una piega? No. Le pieghe non presentano rotondità, Ecco il perché di quel sorriso beffardo. Antonello avrebbe lasciato un segno della sua virile gioia di vivere…
Disorienta e sconcerta l’epitaffio che Sciascia lascia su un biglietto alla moglie per la sua tomba perché non gli assomiglia, “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”. Nel libro-intervista La Sicilia come metafora aveva scritto che di lui si dicesse “Ha contraddetto e si è contraddetto”.
In Cimitero e Teatro si racconta dell’epitaffio di un monumento funebre ad Agrigento, dettato dalle sue alunne, di un professore del Piemonte, che per effetto della legge Casati aveva fatto confluire nel Mezzogiorno un cospicuo numero di insegnanti piemontesi.
Su un altro monumento funebre, un epitaffio in latino racconta la terribile fine di una famiglia nel terremoto di Messina del 27 dicembre 1908, La messa in scena della morte, spiega l’autore, come nelle rappresentazioni sacre in Sicilia, è una forma, forse, di elaborazione del dolore, del lutto. Una particolare ritualità dei siciliani nel celebrare il mistero della morte.
In Gattoparderie ricorda quando a Palermo negli anni Cinquanta Giuseppe Tomasi di Lampedusa stava lavorando al suo Gattopardo e delle lettere private dimostrano quanto fosse interessato alle vicende politiche dell’Italia e dell’Europa. In un altro saggio dedicato alle donne siciliane, Collura parla del personaggio Concetta, la seconda delle tre figlie del principe di Salina nel Gattopardo. Con lei si conclude il romanzo, un archetipo letterario magnifico, quel suo bagliore ferrigno, si coglie nelle donne siciliane più di quanto si pensi. Collura scorge delle dirette somiglianze tra le donne siciliane guardiane ferree del potere in famiglia e nella società, sottovalutandone il loro vero ruolo e il personaggio Concetta che in questo suo rimanere in secondo piano regge su di sé un intero romanzo. Il cospicuo contributo dato alla letteratura nazionale dagli scrittori siciliani dall’Unità d’Italia ai nostri giorni, s’impone con un dato costante: la delusione per la mancata rivoluzione promessa dal Risorgimento. Le tante, molte Sicilie che emergono da quanti ne hanno scritto e detto i viaggiatori che l’hanno visitata, perché ciascuno viaggiando visita ciò che si vuole visitare, e si vede ciò che si vuole vedere. Gli strani percorsi che sceglie la letteratura come nel romanzo Paolo il caldo di Vitaliano Brancati. In Uomo disperato, scrittore felice l’omaggio è rivolto ad un altro grande scrittore siciliano, Gesualdo Bufalino. Dal ricordo emerge un realistico, ma affettuoso ritratto dello scrittore che vive in Sicilia, ma non la vive. Un po’ come Borges con l’Argentina: la canta, la ricorda standone sempre fuori come un aristocratico inglese in una colonia del Regno Unito. In Due promontori Palermo e Cefalù affacciate sul mare ai piedi di un promontorio, come due sorelle che si specchiano, l’una pittorescamente simile all’altra., ma nei loro segreti recessi, uniche. Il ponte dei giganti una sorta di breve racconto fanta-realistico: da un’astronave l’io narrante avvista un’isola riportata su un libro antico, ma a distanza non era né un deserto né una terra fertile, ma qualcosa di morto. Inizia l’esplorazione di un’isola o quel che rimaneva di un’intera isola…Nella nota dell’autore dice che scrivendo molte volte abbia cercato di evadere dalla Sicilia, ritrovandosi sempre in una posizione più interna da dove era partito. Non perché la Sicilia è una prigione, ma perché non si finisce mai di parlare della propria terra, più si cerca altrove, più si trovano nuove occasioni per meglio comprendere il luogo dove si è nati e per un certo tempo vissuti. E’ questa “la scienza certa” di cui parla Borges. E Collura la conosce perché, come diceva Sciascia, la Sicilia è metafora del mondo: un’isola che non potrà essere collegata con un ponte, perché è impossibile collegare un continente a un altro, anche servendosi delle tecniche ingegneristiche più strabilianti.
E’ un libro “forse” che può essere apprezzato da chi è siciliano e della Sicilia condivide la storia e il sentimento che suscita in chi c’è nato e da lontano volge lo sguardo. Ho scritto, forse, perché si potrebbe specularmente parlare di un’altra terra e viverla con i medesimi e contrastanti stati d’animo. La propria terra diventa l’ombelico del mondo, più che un raffronto con il mondo e così ogni territorio diventa metafora del mondo. Si parla di luoghi amati, di scrittori amati e di momenti di vita propria e altrui vissuti.
Interessante, ricco di annotazioni letterarie e scritto con grande garbo, questo libro offre un’occasione per conoscere aspetti e lati di una Sicilia multiforme e affascinante nella sua unicità.

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Cose di Sicilia, ma non solo di mafia...
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    10 Aprile, 2010
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Il nipote del negus di Andrea Camilleri

Quest’ultimo libro di genere storico, come espresso dall’autore, ha la stessa struttura narrativa de “La concessione del telefono”- documentazioni d’archivio o missive che sembrano dispacci perentori s’intersecano a frammenti dialogici-narrativi in un rimando continuo di stampo tipico camilleriano. Secondo notizie veritiere, si narra di un nipote del Negus etiopico Haileè Sellassiè che negli anni 1929-1930, frequentò a Caltanissetta la Regia Scuola Mineraria presso la quale si diplomò perito minerario nel 1932. Qui finisce “la verità” e da qui inizia la fantasia! Sì, lo sfondo storico fa da fondale alla rappresentazione teatrale della vicenda, ma i cerchi concentrici che attorniano i fatti, i personaggi, sono frutto esclusivo dell’inventiva dello scrittore: la retorica tronfia dell’epoca investe come vento impetuoso e trascina sentimenti e azioni in una sorta d’irriverente pantomima di memoria goliardica. Tra le righe entriamo da spettatori in una sorta di film in 3D, ci sembra di rivivere, certo in toni farseschi e burleschi, situazioni quasi reali ed attuali e non già fantasmi del passato ormai desueti. Come non ridere con un retrogusto amaro agli ossequi inverecondi verso i superiori, ai titoli onorifici così ridondanti ed enfatici, alla supponente grandeur di una nazione piccina piccina. Con sarcastica vis Camilleri ci presenta una verità storica in modo talmente burlesco da risultare falsa e una falsità storica così pronunciata da risultare vera. E’ il gioco degli inganni di chi si crede furbo e s’inganna e a sua volta viene ingannato. Una farsa che ha le movenze di un minuetto e il tono scanzonato e irriverente di uno sberleffo. L’intreccio ricorda una novella boccaccesca, tra intrighi ed intrecci amorosi, tra ragion di stato e convenienze personali, tra vizi confusi con desideri in un carosello umano più farsesco che reale. Camilleri ci diverte e ci delizia, ma forse avremmo voluto ridere meno su noi stessi, su quello che siamo stati e siamo, perché c’è poco da ridere quando i sogni dei più vengono meno e non albergano speranze di reali cambiamenti positivi per tutti.

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Romanzi
 
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    06 Febbraio, 2010
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Un altro giro di giostra di Tiziano Terzani

L’autore ricorda quando un’immagine attraversò la sua mente: gli parve che tutta la sua vita fosse stata come su una giostra: su un cavallo bianco a girare a piacimento, senza che qualcuno mai gli avesse chiesto il biglietto. Ora passava il controllore e pagava il dovuto e se gli andava poteva fare ancora …un altro giro di giostra.

Quando lessi su L’ESPRESSO del libro di Terzani, rimasi colpita dalla recensione e lo comprai leggendolo con grande partecipazione. A distanza di qualche anno mi è ricapitato tra le mani e l’impulso irresistibile di rileggerlo è stato istantaneo. Come la prima lettura, questa seconda ha affondato nelle radici dell’essere ed ha lasciato una scia indelebile nell’animo. Terzani come giornalista fu un viaggiatore di paesi, profondo conoscitore di angoli del mondo lontani, in questo libro il viaggio verso la ricerca di una risoluzione del suo male diventa anche un’introspezione dentro e fuori di sè. Con speranza e con perseveranza inizia un pellegrinaggio che lo porta dagli Stati Uniti all’India alla Cina in una spasmodica ricerca e sperimentazione di medicina alternativa, tibetana, ayurveda, reiki, yoga, omeopatica, pozioni, erbe, diete…Alla fine quello ch’era stato un percorso esterno, ricco di contatti umani, tra città affollate e villaggi sperduti si volge in un percorso interno, nel silenzio immanente di paesaggi solitari ritrova un contatto diretto con la natura in un’armonia e un equilibrio tra il mondo e se stesso. Quando un problema sembra senza una soluzione, improvvisamente compare fuori della logica delle soluzioni a cui si è abituati. La domanda che Terzani si pone negli ultimi tre mesi :”Io, chi sono?” cerca risposte nelle varie religioni orientali; spesso, non si conclude con una risposta, la risposta sta nel porsi la domanda, la risposta è senza parole, è nell’immergersi silenzioso dell’Io nel Sé. La prolungata solitudine e il silenzio creano un vuoto, la mente si concentra, si ha l’impressione di capire tutto. Il tempo è solo presente, perché solo al presente se ne fa esperienza. Gli esercizi per impratichirsi a morire alla maniera dei sufi, non cambiano nulla dentro di lui. La lezione dei Vedanta: tutto ciò che nasce muore, tutto ciò che muore rinasce.. Solo il Sé, la coscienza pura che non è mai nata, che è fuori del tempo, resta.

“Come il grano

L’uomo matura,

Come il grano

Egli di nuovo rinasce”

La morte non è negativa, grazie a lei ci poniamo le grandi domande sulla vita.

Però dopo mesi di isolamento, il ritorno alla vita normale lo spaventa, capisce che dipendere dalla solitudine per essere in pace non è la soluzione. Ritorna nel suo eremo, nell’Himalaya, dove aveva sì trovato il silenzio fuori, ma non aveva fatto pace con se stesso, in quanto la lontananza dal mondo è ancora una condizione necessaria del suo stare in equilibrio. Compie degli esercizi che i sufi, i tibetani e altri hanno fatto per secoli: disteso a guardare il cielo e le nuvole e come una nuvola vagare, aleggiare fino a disfarsi e scomparire. La nuvola non c’è più, lui non c’è più. Resta solo la coscienza, libera, senza legami, una coscienza che si espande. Lavora su se stesso per trovare pace in qualsiasi luogo si trovi. Forse, riflette, senza questo malanno che lo ha colpito non avrebbe fatto il viaggio che ha fatto e non si sarebbe posto le domande che contavano. Aspira a raggiungere quel distacco che un grande poeta ha descritto con questo famoso haiku:

L’ombra del bambù spazza gli scalini di pietra

Ma la polvere resta.

La luna si riflette sul fondo dello stagno

Ma non tocca l’acqua.

Terzani non ha trovato nessuna medicina per guarire, ma il malanno l’ha spinto a rivedere le sue priorità, a riflettere, a cambiare prospettiva e cambiare vita. Cambiare vita per curarsi, cambiare vita per cambiare se stessi. I libri sacri, i maestri, i guru, le religioni servono, dice, come gli ascensori per risparmiare le scale, ma l’ultimo pezzo del cammino va fatto a piedi, da soli. Non aspettarsi risultati, senza sperare in ricompense. Terzani vive con la sensazione che l’universo è straordinario, che niente mai ci succede per caso e che la vita è una continua scoperta. Si sente fortunato perché, ora più che mai, ogni giorno è davvero un altro giro di giostra. Dopo poco tempo Terzani morì, come le sue parole lasciano presagire, probabilmente in pace con se stesso.

Questo libro oltre ad essere un testamento spirituale, è la testimonianza di una vita vissuta fino alle radici dell’esistenza, intensamente e profondamente in un continuo lavoro su se stessi. Una straordinaria vita nella sua ordinaria umanità.

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Autobiografie di uomini straordinari o esperienzae di vita sconvolgenti.
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    14 Gennaio, 2010
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Un onorevole siciliano di Andrea Camilleri

Andrea Camilleri in questo scritto riporta e commenta Sciascia politico, le interrogazioni e le interpellanze che presentò quando (il suo primo impegno politico risale al 1975 quando si candidò come indipendente nelle liste del partito del PCI alle elezioni comunali di Palermo), fu deputato alla Camera come indipendente nelle liste dei radicali nell’arco di tempo tra il 1979 e il 1983. Fece parte della commissione per gli Affari esteri e della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro. L’impegno politico dello scrittore siciliano fu diretto come deputato e indiretto attraverso degli articoli che pubblicò prima sul Corriere della Sera e poi sulla Stampa relativi all’evolversi delle BR, al terrorismo. Veemente, incisivo ed eticamente impegnato sia nella scrittura sia nella politica profuse idee, energie e grande forza espressiva. Nella realtà politica vedeva come una specie di proiezione dei fatti immaginati nei suoi scritti, la prefigurazione e poi il verificarsi di essi erano la comprova di quanto smarrimento e preoccupazione potesse destare una classe politica criticabile nei suoi atti; “il mio essere contro lo Stato” va visto – diceva - come una delusione e non come un’avversione”. Infatti affermava che la politica fosse un’attività mediocre per uomini mediocri. Ma a chi gli chiedesse perché facesse politica lui che mediocre non era né pensava di esserlo rispondeva che un uomo vivo ha diritto alla contraddizione, in nome della vita, della speranza. Occuparsi di politica nel senso etico, anche se è confusione voler scambiare la politica con l’etica, sarebbe stato felice se gli italiani cadessero in tale ben salutare confusione.
Camilleri riporta fedelmente gli undici interventi di Sciascia che sicuramente risultano di suo pugno e li commenta brevemente evidenziando i punti cardine di ciascuno.
Come deputato, Sciascia partecipò attivamente alle sedute della commissione d’inchiesta sul sequestro e l’assassinio di Moro, redigendo una relazione di minoranza; fu attivo con interrogazioni e interpellanze (in tutto 19) su diversi argomenti: sull’uso delle armi da parte delle forze dell’ordine, sul fenomeno della mafia, sulla vicenda dei petroli e sul caso Pecorelli, sull’uccisione del magistrato Ciaccio Montalto…Ricorda Marco Boato che nell’aula della camera parlò pochissimo e sempre con interventi di pochi minuti, leggeva con voce lenta e roca, dopo averli preparati con una scrittura minuta e minuziosa. Emblema dell ‘icasticità di parole brevi e quasi scolpite sulla pietra… mentre un silenzio assoluto regnava in aula. Attraverso alcune interpellanze veniamo a conoscere le idee di Sciascia: in merito all’uso delle armi da parte delle forze dell’ordine, affermava che il dare alla polizia più poteri e ai colpevoli pene più dure non avrebbe fatto diminuire di un millesimo i fenomeni delinquenziali; non di leggi speciali, di poteri più vasti e arbitrari, la polizia aveva bisogno, ma di una buona istruzione, di un addestramento accurato, di una direzione intelligente; leggi speciali e poteri più ampi fanno demagogia e sarebbero pericolosi per noi cittadini e per la polizia stessa ( tutte cose che vennero a mancare per esempio alle forze dell’ordine durante il G8 di Genova). Queste leggi servono “A fare tabula rasa in questo paese dell’idea stessa del diritto”. Nell’interpellanza riguardante il fenomeno della mafia faceva riferimento ad un suo racconto paradossale Filologia cioè un dialogo sull’etimologia della parola mafia; ebbene, Sciascia, dice che si è rimasti alla filologia, alla sociologia del fenomeno non perché i carabinieri, i marescialli di pubblica sicurezza non facevano il loro dovere, ma più in alto non si era fatto quello che si doveva fare. Cita l’esempio del commissario Giuliano quando indagava sul caso De Mauro, un uomo riservatissimo, aveva, Sciascia, notato nel suo comportamento una sorta di diagramma, era partito con una certa euforia, poi era subentrata la delusione. Per Sciascia il fenomeno mafioso si poteva combattere ”Riformando il sistema delle misure di prevenzione secondo criteri che introducano forme di controllo sugli illeciti arricchimenti”…( Quarta di copertina).
Nella nota bibliografica Camilleri annota di aver attinto il materiale del libro dalla rivista “Euros” diretta da Vittorio Nisticò (maggio-agosto 1993), dove sono raccolte le interpellanze e le interrogazioni d Leonardo Sciascia con note e commenti di Alfonso Madeo, Marco Boato, Igor Man, Fernando Savater. Inoltre è stato fondamentale anche il volume-intervista La palma va a nord Gammalibri, 1982.
Noi lettori possiamo ringraziare Camilleri per averci fatto conoscere Leonardo Sciascia come politico e di quanto il suo pensiero sia attuale in un’Italia di ieri e di oggi immutabile nelle sue anomalie, viziata da un immobilismo ignorato dai politici professionisti, ma additato da quella razza rara di scrittori il cui acume e la cui indignazione non li mette a tacere. E Sciascia è stato uno di quella speciale razza.
Arcangela Cammalleri

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Camilleri, Sciascia.
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    10 Gennaio, 2010
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Gocce di Sicilia

In sette scintillanti storie, il nostro autore distilla immagini di una Sicilia personale ed intima e nel contempo collettiva, di tutti.
Nel suo stile inconfondibile, nella sua parlata distintiva di un siciliano ragionato e strutturato, Camilleri pennella ritratti di persone, evoca fatti e detti che trasferisce dalla memoria sulla carta e sa renderli unici ed irripetibili.
In Gocce di Sicilia sono raccolti gli scritti originali comparsi sull’Almanacco dell’Altana negli anni 1995-96-97-98-99-2000. Parte di Piace il vino a San Calò è stata revisionata e rielaborata dal romanzo Il corso delle cose (1978 Sellerio 1998). Il racconto Ipotesi sulla scomparsa di Antonio Patò è comparso in forma ridotta sul quotidiano La Stampa e poi ampliato, è diventato il volume La scomparsa di Patò (Mondadori 2000). Il cappello e la coppola fa parte delle Favole del tramonto (ed. Dell’Altana 2000). Ne Lo zù Cola, persona pulita, l’autore specifica che è un falso monologo e si usa dire a teatro quando chi parla non si rivolge a se stesso, ma ad un interlocutore che non risponde o le cui risposte non vengono riferite. A parte questo dettaglio tecnico, il contenuto è vero.
A Roma in un pomeriggio del 1950 in una banca, Camilleri incontrò il noto boss dell’Agrigentino Nicola “Nick” Gentile. Nel colloquio avuto, Camilleri prese nota a casa, per, poi, scriverne la storia. Il giornalista Felice Chilanti riportò l’intervista avuta con il boss in un libro intitolato “Vita di gangster”. Il mafioso era ritornato clandestinamente in Italia dagli U.S.A., nell’aprile del ’43 per preparare lo sbarco degli Alleati in Sicilia. Camilleri afferma che a rileggere adesso l’incontro, appare anacronistica la figura del boss lontana da certi schemi operandi della mafia. Riguardo a convincere qualcuno a fare qualcosa che non vuol fare, dice il boss, ci vuole pazienza e persuasione senza perdere la pazienza ed arrivare all’omicidio. Perché muore la persona, ma il mafioso perde la battaglia perché è stato incapace. “Ad ammazzare tutti sono buoni!” Logica distorta e criminale certo, ma lontana da quella di oggi in cui la morale, la deontologia a modo loro erano rispettate.
“U zz’Arfredu” : la memoria di uno zio speciale, colto, ricco di interessi è ammantata da affettuosa nostalgia e dolce rievocazione; grazie a lui, l’amore per i libri divenne sacro.
“Piace il vino a San Calò”: le feste religiose legate strettamente alle tradizioni, al folclorismo, quando la statua del Santo portata in processione è oggetto di culto semi-pagano e diventa tutta la scenografia parossismo collettivo. Con una sorta di compiacimento e allegria, Camilleri ricorda queste rappresentazioni sacre come quadri oleografici in cui la voce del popolo è la vera anima di una sacralità fattasi spettacolo.
“Il primo voto”: Camilleri ricorda, divertito, la paradossale guerra scatenatasi tra i Separatisti, i Comunisti e i Democristiani per il colore di una bandiera alla vigilia delle prime elezioni regionali in Sicilia.
“L’ipotesi sulla scomparsa di Antonio Patò”: il nostro autore fa riferimento a teorie scientifiche sull’universo fluttuante in un continuum spazio-temporale, oggetto di accanite discussioni accademiche. La scomparsa di qualcuno in un fosso del tempo, non materiale, ma all’interno di quel continuum spazio-temporale dentro il quale fluttua l’universo, spiegherebbe il fenomeno. Chi cade all’indietro di questa piega comporta una risalita verso il passato, chi in avanti comporta una risalita verso il futuro. La scala dei Penrose sarebbe la materializzazione di un incubo; essa obbligherebbe chi si viene a trovare in cima ad una singola scala quadrata e intraprende la discesa, a scendere sempre. Così Patò impersonando Giuda, nella rappresentazione del venerdì santo de“Il Mortorio” nel momento dell’impiccagione, cadde nella botola del palco e scomparve.
“L’incontro tra il cappello e la coppola”: ambigua e singolare metafora di un incontro tra due cose inanimate e chi li indossa in una sorta di sineddoche.
“Vicenda di un lunario”: è la storia di un mensile letterario“Lunario siciliano”, pubblicato intorno agli anni 1927/28, attento ai valori e agli apporti isolani, in un tentativo di saldare la letteratura e la cultura alla creatività popolare. Un articolo merita menzione, “Le considerazioni sui punti cardinali”, un rovesciamento dell’atlante in modo che le Alpi siano la base di un tronco che ha come cielo, il mare mediterraneo. Il Sud al posto del nord. Il lunario dopo due annate (1927/28), ebbe una ripresa nel 1931, ma la rivista, ormai, prescindeva dalla realtà per arroccarsi nello studio delle tradizioni popolari.
“Gocce di Sicilia” si legge, tutto di un fiato; la forza dell’evocazione trova riscontro nella forza delle parole fattesi persone, pensieri. L’intensità concreta della parola scritta, in Camilleri, densa e corposa, esprime con vigore quello che racconta, la realtà prosaica nel ricordo assume dimensioni fantastiche e suggestive.

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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    05 Dicembre, 2009
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Ti prendo e ti porto via di Niccolò Ammaniti

Letto quando era uscito, mi era piaciuto per lo stile dell’autore e per la storia dei personaggi fuori da certi schemi: balordi, incasinati, problematici, ingenui; insomma la gamma infinita dei caratteri umani. Una galleria d’individui viva e tragicomica, data in pasto ai lettori. Oggi rileggerlo, offre le stesse sensazioni positive, non certo di un libro dalla lettura frettolosa e via al prossimo. Un vero libro si rivela e poi si conferma quando una seconda lettura è più interessante e apre altre chiavi d’interpretazione e approfondisce pensieri e suggestioni. La trama in breve: a Ischiano Scalo, piccolo paese con poche opportunità di svago e di cultura vivono i nostri eroi: due ragazzini Pietro e Gloria, compagni di scuola, d’estrazione sociale ed economica diversi. Gloria, bella e spavalda, di famiglia ricca e perbene e Pietro, timido e introverso, di famiglia proletaria che più non si può, e anche disastrata: padre violento e alcolizzato, madre con problemi psichici e un fratello incolto che nutre vaghi ed assurdi sogni; insomma un bambino definito, secondo il linguaggio scolastico, un caratteriale. Tra l’altro perseguitato da tre compagni bulli e balordi, che così esprimono il degrado e il disagio di certe realtà umane: lo opprimono con continue offese verbali e fisiche. Eppure tra questi due ragazzi Pietro e Gloria c’è una sintonia d’intenti e una vicinanza affettiva che va oltre una semplice amicizia adolescenziale. L’altra coppia scombinata è quella di Graziano Biglia play boy da strapazzo, un po’ attempato che insegue ancora futilità e vanaglorie trascorse e la professoressa Flora Palmieri, donna trentenne dall’aspetto misteriosamente bello e dal carattere riservato e solitario. Eppure casualmente i due destini ad un certo punto del loro curriculum vitae s’incrociano e le due diversità si combinano.
Ammaniti scandisce le tappe della vita, contrassegnate da rituali obbligati, marcatori dei passaggi generazionali e lo fa con graffiante ironia e con partecipe adesione sentimentale.
L’autore ci ammannisce con un lessico immediato ed autentico ed un periodare breve e conciso; alterna una scrittura calibrata e precisa, ad un’altrettanta scrittura non osservante di precise schemi narrativi. Alterna registri verbali diversificati dando la misura del suo profondo scavare nel centro delle vite umane e restituendoci non tanto personaggi, ma persone in carne ed ossa. Carpisce con sorprendente inquietudine i lati oscuri e controversi dell’animo umano dosando malinconiche asprezze e ironiche dolcezze. Senz’altro questo romanzo più che godibile, è amabile come certi vini dal sapore dolce e dal retrogusto asprigno.

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Dello stesso autore "Io non ho paura" e altro...
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    21 Novembre, 2009
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Marina di Carlos Ruiz Zafòn

Carlos Ruiz Zafòn ha scritto questo romanzo anticipando quelli che sarebbero stati i topos comuni agli altri due grandi scritti di successo: “L’ombra del vento” e “Il gioco dell’angelo”: la Barcellona, gotica, ammantata dal mistero del suo passato, le atmosfere magiche, gli intrighi che creano aspettative nel lettore. Certo aver letto Marina, dopo i due precedenti, il romanzo se ne svantaggia perché abituati al tipico linguaggio avvolto di enigma e sorpresa, perde tanto della sua autenticità. Sembra tutto già letto e conosciuto prima, si anticipano le mosse investigative ed espressive dell’autore, la risultanza è una tiepida piacevolezza scevra di quel sentimento di trepidazione e sospensione dell’Ombra del vento, in particolare. Trait d’union dei tre romanzi è un protagonista, ragazzo impelagato in storie più grandi di lui, con lo stesso amore per la bellezza, la conoscenza e una sorta d’ingenuità d’animo in contrasto netto con i fatti in cui è coinvolto. Si tratta di Oscar Drai, un giovane trentenne che rievoca un periodo della sua vita quando studente quindicenne studiava al collegio di Vallvidrera a Barcellona. “Era la fine degli anni ’70 Barcellona era un’illusione di vicoli e viali in cui si poteva viaggiare a ritroso nel tempo oltrepassando la soglia di una portineria o di un caffè. Il tempo e la memoria, la storia e la finzione, si fondevano in quella città stregata come acquarelli sotto la pioggia”. Fu lì…così l’incipit del romanzo. Conoscere una giovane ed enigmatica fanciulla d’altri tempi come Marina, dalla bellezza incorporea e delicata, portatrice di un dolore nascosto, suo padre, il pittore German e la defunta e rimpianta moglie Kirsten sconvolgerà la sua vita; sarà un percorso di maturazione e di passaggio verso l’età adulta. Il mistero della scomparsa di Kolvenik, di sua moglie Eva e di altri oscuri personaggi connotati da una forte carica fiabesca e surrealistica contornano tutta la vicenda. Siamo nei meandri di una città che nasconde nel suo ventre segreti di un passato mitizzato. Le figure così ammantate di misteriosa aura fluttuano sospese ed evanescenti nella mente del giovane Oscar e la realtà è un sogno ad occhi aperti. Le antinomie tra realtà e immaginazione, tra amore e odio, tra bellezza ed orrore sono i tratti distintivi della materia narrativa di Zafon, le similitudini enfatiche percorse da un senso lugubre e sepolcrale, il fascino per l’ignoto e, spesso, il dolore della scoperta di ciò che non vorremmo. Segni del destino ricorrenti trascinano i personaggi verso confini inconoscibili.
Qua e là Zafòn fa dire ai suoi personaggi frasi di saggezza come perle “rare” tipo: “Dipingere è scrivere con la luce. Innanzitutto devi imparare il suo alfabeto; poi la sua grammatica. Solo allora potrai avere stile e magia”. “La bellezza è un soffio rispetto al vento della realtà”. “Se la gente pensasse un quarto di quanto parla, questo mondo sarebbe il paradiso”. “La verità non si trova, è lei che trova noi . “Ricordiamo solo quello che non è mai accaduto perchè le cose reali succedono solo nell’immaginazione”. Queste trame, così coinvolgenti, ricordano certi romanzi ottocenteschi ricchi di colpi di scena che si prestano a traduzioni filmiche, perché Zafon sa rendere visive le descrizioni che scrive come sequenze cinematografiche. Sembra di essere dentro il film mentre si legge... quella polvere nebulosa che si posa su palazzi e cose abbandonati dall’incuria del tempo, quei silenzi sinistri rotti da impercettibili rumori di sottofondo e creature che emergono dal nulla e al nulla ritornano. Zafòn rispolvera il passato e ce lo presenta trasfigurato dalla memoria e in una commistione di fantasia e vero. Un romanzo godibile, da lettura veloce e ininterrotta, dallo stile ampolloso e, a volte, stucchevole, un puro romanzo d’evasione: e forse, non è poco.

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"L'ombra del vento" "Il gioco dell'angelo" e le loro magiche atmosfere cupe ed ammalianti
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    17 Novembre, 2009
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Che la festa cominci di Niccolò Ammaniti

Un Ammaniti inedito per certi versi; toltasi la pesantezza di testi più grevi, si è lasciato scivolare una storia impazzita che ricorda certi musical degli anni ottanta dove tutto è esagerato e paradossale ( ma non troppo). La trama, in breve, è quella di un parvenu della peggior specie, Sasà Chiatti, un immobiliarista/palazzinaro, cafone quanto non basta e megalomane all’ennesima potenza, il quale organizza una super-mega festa a Roma, a Villa Ada, sua proprietà, ed invita “Tutti i nomi che contano” del rutilante mondo dei VIP. Ci sono proprio tutti, politici, attori e attoruncoli, artisti di svariati generi, calciatori, donne e donnine inconsistenti se non ornate di bellezza, per lo più rifatta, elefanti, tigri e quant’altro, insomma un campionario e una fauna umana, archetipi di una specie tanto stigmatizzata e, al contempo, corteggiata dai mass media perché spettacolarizza e sensazionalizza! C’è lo scrittore di successo, “Tu sei forte, tu sei bello, tu sei imbattibile, tu sei incorruttibile, tu sei un Cantautore”, Fabrizio Ciba, preoccupato solo del suo ego e dell’immagine che deve dare di sé. Ci sono le belve di Abaddon, una patetica setta satanica di Oriolo Romano, il cui leader Saverio Moneta cerca nel male un riscatto alla sua tapina e fantozziana vita. Una folla di personaggi affolla la scena narrativa, impazza in preda ad un’euforia lugubre da bolgia infernale, è una festa tragicomica, iperrealistica e sopra le righe dall’inizio alla fine. Un’umanità tronfia e ridicola, persa nel suo isterico vaneggiare, tesa ad inseguire e perseguire, spesso il nulla, cieca nel non vedere il precipizio che gli si para di fronte. Sono scene apocalittiche, in tono mondano, fatuo e satirico, quelle che si palesano davanti agli occhi dei lettori, dove tutto è esasperato fino al parossismo, la comicità graffia e irride. Sembrano tutti delle marionette senza umanità e sensibilità “Con il tempo, anche questa brutta esperienza sarebbe passata, avrebbe perso la sua drammaticità e l’avrebbe ricordata con un misto di divertimento e di rimpianto”, gli Umani si orientano come certi voltagabbana della politica e non. Critica feroce all’ex URSS, gli atleti sovietici partecipanti alle olimpiade del ’60 a Roma che preferiscono alla vita soffocante in Unione Sovietica quella altrettanto soffocante, ma libera delle catacombe: alla prigionia della mente, la libertà di scelta. Siamo una società, si spera una parte, alla deriva, travolti da quell’onda anomala, “ l’acqua della condotta esplose dal bacino ed aprì una voragine nella terra e sfondò la volta di tufo di una galleria che passava proprio sotto il lago, e cominciò a riempirla come fosse un’enorme tubazione”, che tracima e porta a galla senza una razionale selezione. Certo che siamo anni luce lontani dalla morale manzoniana della peste che amministra la giustizia separando i vizi dalle virtù; i confini tra il male e il bene non sono più tracciabili, tutto può essere accettato, importante che raccolga consensi e plausi pubblici. Il romanzo non è un pamphlet, Ammaniti non è un fustigatore delle storture e delle deviazioni di certa umanità, ma come gli artisti di razza, imbastisce una favola, ma rovesciata, non sono protagonisti gli animali umanizzati, bensì gli uomini animalizzati in tutta la loro ferinità. Dialoghi comici e battute mordaci contrappuntano uno stile attuale e carico di vena sardonica dove galleggia ciò che resta della nostra “Povera Patria” , gli avanzi di un pranzo o di una cena mal digerita.

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Ammaniti e i suoi romanzi ed ha visto le ottime trasposizioni cinematografiche di alcuni suoi scritti.
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    14 Novembre, 2009
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Quando la notte di Cristina Comencini

Due protagonisti assoluti, Marina, giovane madre del piccolo Marco, sposata con Mario e Manfred separato da Luna. Due vite complicate e chiuse s’incontrano e si aprono l’uno all’altra per un’attrazione misteriosa ed un’affinità intrinseca che si mostra in apparente ritrosia e avversione. L’autrice al di là dei dialoghi stringati ed essenziali, fa parlare le menti di Marina e Manfred in una sorta di inconsapevole telepatia che li fa comunicare a distanza; si leggono reciprocamente i pensieri misti a diffidenza e fastidio, l’uno conosce quello che solo lui/lei sa del proprio intimo agire e sentire. La montagna, il freddo, i paesaggi aspri e silenziosi come i caratteri dei suoi abitanti fanno da sfondo alla vicenda, lontane dai rumori frenetici delle città, sembra che le sofferenze si attutiscono o si esacerbano in ruvidezza e singolarità dei comportamenti. Manfred appare come il tipico montanaro “strano” chiuso nel suo bozzolo di vita scandita dalle azioni quotidiane in cui la scontrosità e le parole smozzicate e rade ne caratterizzano l’indole, esasperata dall’infanzia spezzata per aver vissuto due abbandoni femminili. Il rancore verso il genere femminile ne limita le prospettive esistenziali donandogli una corazza che difficilmente si lascia scalfire, ma quando arriva Marina una crepa scalfisce le sue difese così ostinatamente costruite. Marina vive una maternità sofferta ed inconfessabile, cerca di controllare la sua mente moltiplicando le attenzioni verso il figlioletto e contrastando un’oscura e insopprimibile inadeguatezza di madre che la colpevolizza e la tormenta. Le fragilità e le contraddizioni di due animi si rivelano a ciascuno e in un tempo infinitesimale a fronte di un’intera esistenza, quel desiderio estremo che provano l’uno per l’altro, trasporta Marina a cercarlo dopo anni, a rivedersi e ad avvicinarsi. Questo romanzo dallo stile asciutto e dalla prosa colloquiale, parla di sentimenti senza scadere nel sentimentalismo, certo non è tra i romanzi migliori dell’autrice, laddove il tunnel interiore dei personaggi era percorso in profondità e capace di rifrangere nel lettore coinvolgimento emotivo (vedi La bestia nel cuore), tuttavia si lascia leggere senza annoiare, diremmo, a mio modesto parere, senza infamia né lode.

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Delle stessa autrice La bestia nel cuore
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    07 Novembre, 2009
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Un giorno perfetto di Melania Mazzucco

L’elemento distruttivo campeggia e dilania alcuni dei personaggi, la tensione accomuna e unisce il lettore e sullo sfondo una Roma vista dagli occhi di chi la ama e la vive. Tutto accade nell’arco di 24 ore, in una notte di maggio, a Roma, un giorno che per tutti i protagonisti della pietosa storia doveva essere perfetto e compiuto, in un appartamento di via Carlo Alberto riecheggiano degli spari, si sentono delle grida d’aiuto. Il romanzo inizia dalla fine e come uno squarcio che si apre vivono a ritroso Emma Tempesta separata dal poliziotto scelto Antonio Bonocore e i due figli, l’adolescente Valentina e il piccolo Kevin, dall’altra barricata l’onorevole avvocato Elio Fioravanti a cui Antonio fa da capo - scorta, la seconda giovane moglie Maja, il figlio del primo matrimonio Ari - Zero, il nome che rispecchia il nichilismo e l’anarchia del suo carattere e la piccola Camilla. Come figure marginali, ma non per questo meno importanti, il professore d’italiano di Valentina e la madre di Emma. I destini degli uni s’intersecano con i destini degli altri in un apparente e casuale gioco di vite incrociate e sospese. Sentimenti di fondo, una profonda sofferenza e un’estenuante lacerazione degli animi che non lasciano spazio alla speranza se non per intermittenti barlumi di luce. Grande l’introspezione psicologica dei personaggi, Emma ritratto di donna sensuale e ferita più volte dalla vita, Maja, delicata e preziosa che pur sente un’enigmatica attrazione per Aris – Zero, lontano dal suo patinato e ipocrita mondo alto-borghese; Antonio che come un animale ferito, nella sua nebulosa sofferenza cova la più inammissibile vendetta trasversale e innaturale e l’onorevole Fioravanti che sente pesare amaramente come un totale fallimento e la sua carriera politica giunta al capolinea e la sua identità di essere. Grande spazio ai dettagli, ai particolari dell’anima e del cuore. Roma bella suggestiva e grandiosa, carnale, sfatta, vista attraverso i finestrini della metropolitana, dai quartieri esclusivi tra palme e magnolie di ville e giardini privati ai palazzoni di periferia come torri di cemento armato scrostato, ultimi avamposti della città fra un prato punteggiato di panchine divelte e una brughiera incolta. Edifici simili a caserme o prigioni dalle verande abusive, dalle padelle di parabole e panni stesi ad asciugare sui balconi. Sul filo di una catastrofe imminente si dispiega la struttura narrativa come un’erosione mentale e fisica, l’autrice racconta paure e infelicità, stati d’animo stratificati e mai in superficie in uno stile fluente di parole dense e forti che lasciano il segno.

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Già i romanzi dell'autrice e ne conosce la scrittura forte e convincente.
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    03 Novembre, 2009
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La rizzagliata di Andrea Camilleri

Dal titolo: dicesi rizzaglio, una rete a forma di campana, chiusa in alto e aperta sotto, contornata da piombini. Si fa roteare perché deve ricadere come un ombrello aperto, cade in acqua per il peso dei piombini, il pescatore tira una corda e la parte inferiore si chiude. Dentro restano i pesci: una bella rizzagliata. Questo romanzo, pubblicato prima in Spagna con il titolo “La muerte de Amalia Sacerdote”, ruota attorno all’omicidio di una studentessa universitaria, Amalia, figlia di Antonino Sacerdote, il segretario capo dell’assemblea regionale, trovata uccisa e che per atto dovuto è inviato un avviso di garanzia al fidanzato Manlio, figlio dell’onorevole senatore Caputo. Relazioni pericolose, macchinazioni, geometrie occulte e disegni criptati s’intersecano in un gioco che di teatrale ha poco e di reale molto, la politica volta e travolta, come le cronache ci insegnano, nel suo inesorabile deviamento verso sordidi obiettivi ed interessi personali. Il caso è seguito da Michele Caruso,il direttore della testata giornalistica regionale della Rai “Telepanormus”, la sua storia intima e privata fa da contraltare alla vicenda, in generale, come un cerchio concentrico che si espande e pesca solo quello e quelli che deve pescare. Camilleri fa muovere i personaggi come dentro una scacchiera, le mosse delle pedine inizialmente un po’ imprecise, reticenti, man mano trovano la loro naturale collocazione e alla fine non c’è la sorpresa o il botto come se fin da principio una strategia pianificata portasse alla risoluzione del caso “Ad usum Delphini”. L’imbarbarimento della società e sommamente della politica, il malaffare, la corruzione globalizzati, un blob che ingloba partiti politici, finanza, magistratura, mafia, poteri pubblici…il tutto mixato da battute mordaci e allusive, con il doppio senso della parola siciliana che l’autore orchestra con svariate coloriture stilistiche. Personaggi e situazioni, come tiene a dichiarare e ribadire Camilleri sono frutto di una pura e semplice invenzione senza nessun riferimento con persone realmente esistenti, ma come non poter ravvisare gli stessi scenari che quotidianamente giornali e televisioni ci mostrano e quanto le anomalie italiane ci stanno trascinando in uno dei punti più bassi della nostra storia.

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...E continua a leggere i libri di Camilleri
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    04 Ottobre, 2009
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Nelle terre estreme di Jon Krakauer

Nell’aprile del 1992 un ragazzo di buona famiglia della costa orientale degli Stati Uniti raggiunse l’Alaska in autostop e si addentrò nel territorio selvaggio a nord del monte McKinley. Quattro mesi più tardi un gruppo di cacciatori d’alci rinvenne il suo corpo ormai in decomposizione. Così inizia la storia di Into the wild; Christopher McCandless un giovane di 22 anni, conseguita la laurea e dati in beneficenza tutti i risparmi, sparì dalla circolazione. Per due anni peregrinò attraverso l’America del Nord in cerca di un’esperienza trascendentale, ma in Alaska, male equipaggiato, senza alcuna preparazione alle condizioni estreme che avrebbe incontrato, morì di stenti all’interno di un autobus abbandonato: il 142 di Fairbanks. Accanto al cadavere fu rinvenuto il diario che ha permesso di ricostruire le sue ultime settimane di vita. Krakauer scrisse sulla rivista “Outside”un articolo sulle misteriose circostanze della morte del giovane e dopo, il suo interesse non si spense, anzi si appassionò alla storia riscontrando dei vaghi ed inquietanti paralleli tra gli eventi di McCandless e la sua vita. Così prese corpo il libro che non è solo una biografia, ma una riflessione su temi quali, il fascino che i territori selvaggi suscitano nell’immaginario americano, l’attrattiva che le attività ad alto rischio esercitano su certi giovani, il complicato e delicato legame che unisce padri e figli. Dalle note dell’autore emerge un ragazzo molto profondo, il cui forte idealismo era difficilmente compatibile con la vita moderna. Affascinato dall’opera di Tolstoj, Mc Candless ammirava il modo in cui il grande scrittore aveva saputo abbandonare una vita di benessere e privilegi per frequentare gli indigenti. Infatti affrontò questo viaggio più che per spirito di avventura come forma di ascetismo, caratterizzato da un assolutismo morale e grande amore per i paesaggi impenetrabili, privi di segni di vita, come in Zanna bianca di Jack London, era nel selvaggio Wild delle spietatamente gelide terre del Nord.
L’autore descrive con grande cura dei dettagli quei luoghi teatro del peregrinare di Cris, le strade, le foreste, le montagne, i fiumi e torrenti fluttuanti nelle loro indescrivibili combinazioni di curve verticali e orizzontali, riporta ad ogni inizio di capitolo stralci di pagine in cui la natura è vissuta come qualcosa di selvaggio e terribile benché bellissimo.
Il protagonista di questa tragica vicenda sente il bisogno di mettersi alla prova di continuo e di portare il rischio al suo estremo logico. A differenza di tanti audaci scalatori, viaggiatori, Mc Candless si avventurò nella foresta non tanto per riflettere sulla natura e sul mondo in generale, quanto per esplorare il paesaggio interiore della propria anima. Sul diario sono poche le divagazioni sulla natura, scarsa la menzione del paesaggio, non che non riuscisse ad apprezzare le bellezza circostante e che non fosse toccato dal potere del paesaggio, ma non era tormentato dalla disperazione esistenziale, diffidava del valore dei traguardi facili e pretendeva molto da sé di più di quanto fosse in grado di dare. Rimane comunque elusiva, sfuggente e vaga l’essenza della vita e della morte di giovane.

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Libri in cui il viaggio è vissuto come parabola esistenziale di valore assoluto.
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    22 Settembre, 2009
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Muriel Barbery

Monsieur Arthens, il più grande critico gastronomico del mondo, a sessantotto anni, sta per morire. Per ironia della sorte, per un’insufficienza cardiaca, lui che aveva sempre rimproverato agli altri di non mettere abbastanza cuore nella loro cucina e nella loro arte, alla fine manca proprio a lui. Ma morire non ha importanza, solo una cosa gli interessa: cercare e trovare un sapore che gli frulla nel cuore. Un sapore dell’infanzia o dell’adolescenza, una pietanza primordiale e sublime, annidato nel più profondo di se stesso e che, alle soglie della morte, si manifesta come l’unica verità che in vita sua sia stata detta. Nel palazzo lussuoso di rue de Grenelle ( lo stesso de L’eleganza del riccio), si consuma, si fa per dir, questa spasmodica ricerca del “Sapore per eccellenza”. Attraverso la memoria, va a ritroso, nel suo passato Monsieur Arthens, ripercorrendo le tappe più importanti della sua vita: dai piatti poveri dell’infanzia alle prelibatezze di haute cuisine. Le testimonianze a più voci ( i famigliari, l’amante, l’allievo, il gatto, la portinaia Renèe…), ciascuna delle quali prende la parola ed esprime il suo punto di vista sulla grandezza dell'uomo pubblico e sulla miseria dell'uomo privato. Lui, in prima persona, celebra se stesso, di aver elevato un’arte minore, quella culinaria, ad una disciplina tra le più prestigiose e di aver assaporato il profumo inebriante del potere creando e demolendo reputazioni; con la sua penna ha dispensato sale e miele ai quattro venti attraverso giornali, trasmissioni e dibattiti. Uomo dispotico e pieno di sé, ama tra tutti i famigliari solo un nipote, Paul, a lui solo e alla moglie ha confidato la sua angoscia. Il romanzo è l’esaltazione del gusto per il cibo, le ricette sfavillano nei loro colori davanti ai nostri occhi e i profumi quasi pare di sentirli, per non parlare del gusto, dolce e salato; frammenti voluttuosi, poesia precisa, la cucina: un’opera d’arte tra le più sontuose e magnifiche in quanto comprende tutti i sensi…( il pasto si rivela decisamente sinestetico). Un uragano di emozioni, come bolle d’aria che risalgono rapide verso la superficie dell’acqua e, liberate, scoppiano in uno scroscio di applausi. In un finale imprevedibile, Arthens trova quel gusto indefinibile, un sapore ritrovato in un’apoteosi di desiderio autentico e piacere incontrastato!
Le pagine di questo romanzo zampillano di immagini, sensazioni e percezioni quasi erotiche del cibo, tanto sono intrise di emotività ed estasi (calpestavo l’erba secca e folta del giardino, e in questo sogno di fiori e ortaggi mi inebriavo di profumi). Alcune similitudini di pag. 46 “L’orto” ricordano delle poesie di Pablo Neruda. Il libro presenta, a mio avviso, due pregi: il primo la tecnica narrativa di far parlare i personaggi ciascuno dal proprio punto di vista; il secondo lo stile ricco e sontuoso, ogni parola è cesellata come metallo prezioso e plasmata in un trionfo di modulazioni musicali e poetiche.

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A chi ha già letto:" L'eleganza del riccio".
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    16 Settembre, 2009
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Il fabbricante di sogni

Pakistan, in un villaggio sperduto Muridke, ai giorni nostri, vive Iqbal, un bambino come tanti altri strappato crudelmente all’infanzia per lavorare in una fabbrica di tappeti. Sembrerebbe una delle tante sorti che toccano tristemente a quei bambini dall’infanzia negata che schiavi sopravvivono tra crudeltà inaudite e patimenti di fame e di violenza fisica. Iqbal bambino dalla mente sveglia e precocemente invecchiato non si rassegna alla perdita della libertà e in uno dei suoi tentativi di fuga incontrerà fortunosamente Ehsan, il fondatore del Bonded Labour Liberation Front. Verrà a sapere che il lavoro schiavizzato in Pakistan è illegale, nessuno può obbligare i bambini a lavorare nelle fabbriche, né nelle fornaci di mattoni…Parole come schiavitù e libertà entrano nel cuore di Iqbal che con l’aiuto dell’organizzazione libererà tanti innocenti (Ogni bimbo salvato è un passo in avanti), resi schiavi da padroni senza scrupoli con la scusa di saldare debiti contratti dalle famiglie, debiti che mai sarebbero finiti…Una febbre divorante che non l’abbandona lo porterà a correre rischi e pericoli, Iqbal lotterà con tutte le sue piccole forze focalizzando l’attenzione internazionale sul tema del lavoro schiavizzato, in quanto l’opinione pubblica non è informata, come l’industria degli articoli sportivi nel Terzo mondo, uno dei maggiori datori di lavoro per gli schiavi. Diventerà un eroe e come tutti gli eroi avrà vita breve, ma l’epilogo lo lascio al lettore. E’ una storia commossa e commovente, il tema trattato è a noi occidentali sì conosciuto, ma lontano nello spazio. Lo stile è semplice e lineare, l’autore usa un’espressione linguistica umile ed immediata aderente ai personaggi di cui narra le vicissitudini, per cui anche se fa bene la lettura agli adulti è, precipuamente, rivolto ad un pubblico di ragazzi.

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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    10 Settembre, 2009
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La tripla vita di Michele Sparacino

Questo racconto, preso da una serie di storie che Camilleri scrive per “divertimento personale” e che nelle sue intenzioni non hanno una destinazione editoriale, è un autentico, piccolo capolavoro, che il Maestro cesella con fine arguzia e sapiente costruzione tecnica. L’antefatto della creazione del libro è nelle parole dello stesso Camilleri nell’appendice “Un destino ritardato”, conversazione con Andrea Camilleri di Francesco Piccolo. “Si arriva a scrivere un racconto per suggestioni lontanissime. La prima suggestione per creare il personaggio di Michele Sparacino è nata dalla frase conclusiva de “I vecchi e i giovani” di Luigi Pirandello, perché dovendo rispondere ad una domanda: “ Cos’è un italiano?”, la va a cercare nel testo pirandelliano. Un ex garibaldino equivocando i fatti, si veste con le medaglie, l’esercito gli spara e quando lo rivoltano è pieno di medaglie risorgimentali e allora si chiedono: “Chi avevano ucciso?”Questa è l’ultima frase del libro. E dunque nasce l’idea di scrivere, di uno che è esistito ma era come se non fosse esistito; o è sempre esistito equivocato ogni volta per essere un altro e che, quando muore, nella terza vita riesce ad essere quello che è, cioè un ignoto”. Michele Sparacino vive un’altra vita, ma è una vita antecedente, cioè vive una vita da adulto quando è ancora neonato e vive una vita da uomo ormai leggenda quando è appena adulto. Quando è ormai già morto diventa un eroe ignoto, emblema di tutti gli eroi di guerra: il milite ignoto. Camilleri, in questo gioco pirandelliano, lascia sulla corda il lettore che si chiede quando gli investigatori capiranno la verità. Una spiegazione esplicita dello sfasamento temporale dell’equivoco non ci sarà, Camilleri dice che non si può dare sempre la caramella al lettore, ogni volta che piange. In questo racconto della serie fantastici c’è l’Italia di ieri, ma anche quella di oggi, un riferimento al cattivo giornalismo (A che cosa porta il cattivo giornalismo), alla bieca informazione che manipola l’opinione dei lettori; alla ricerca di un capro espiatorio, nella finta intervista Michele Sparacino diventa il colpevole di ogni misfatto. L’ambientazione di questa improbabile storia è Vigata e non poteva essere altrimenti, il tessuto linguistico è sempre quello così arricchito e variato nelle sue ampie reti stilistiche, nato, oltre per le già note spiegazioni dell’autore, per spiegarsi e piegarsi ad una realtà poliforma e complessa. Egli trova infinite risorse espressive in questo scomporre e ricreare linguistico, questa originale e collaudata commistione linguistica ha superato la fase sperimentale a tal punto da diventare a tutto diritto una lingua classica e storica. Una volta si diceva lunga vita al re, o come gli Inglesi “ Dio salvi la regina”, noi cultori del mondo letterario di Camilleri diciamo: “Possa la sua longeva e artistica vena scorrere come fiume perenne.

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I romanzi di Camilleri di ogni genere...
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    07 Settembre, 2009
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La bambina pericolosa di Silvana La Spina

Questa romanzo, ambientato in Sicilia, tra Catania e le pendici dell’Etna, ha per protagonista il commissario di polizia Maria Laura Gangemi, una femmina sbirro coinvolta da un passato sepolto nella memoria e un presente tutto da ricostruire. L’indagine in corso è intricata, un misto di mistero, leggende contadine, arcaiche e superstizioni ataviche, Maria Laura deve fare i conti con una parte di sé oscura nell’impossibilità di ricordare, un matrimonio infelice, un figlio e una sofferenza esternata con depressione e alcolismo. E’ un ritratto di donna fragile nell’apparente dominio del suo agire di poliziotta e intrisa di contraddizioni e conflitti interiori. In uno stile terso e inframmezzato da termini dialettali, l’autrice ci restituisce personaggi costruiti con sottigliezze e sfaccettature psicologiche, dove negli animi s’annidano tensioni, paure ancestrali nello sfondo paesaggistico montano in cui la forza lavica del vulcano ne modella i caratteri. La bellezza dei paesaggi esplode in tutto il suo fulgore, il mutare dei colori accesi ed esplosivi come rocce laviche, gli odori pregnanti della terra, degli alberi, la vastità delle vallate e del sole che splende, anzi, brucia! C’è amore dichiarato per la propria terra, ma anche tanta amara consapevolezza di credere nella giustizia in una terra in cui la giustizia è un non senso.
Estrapolo due periodi ugualmente degni di nota: il primo per la bellezza incantata, poetica, il secondo per il gusto del mito e del fiabesco.

“L’autunno vero quello che chiude i cuori e fa attendere la luce, mentre l’ombra si diffonde dappertutto. Sulle case, sulle fronde degli alberi, nell’altura del vulcano, lassù, oltre i castagni”.

"Il vulcano scatena paure primordiali, nell’arretratezza della gente. Discendenti degli antichi Sicani hanno ereditato i vecchi culti: magie e magherie. Il dio Adrano, terribile che chiedeva sacrifici rituali, che faceva inseguire le vittime dai terribili cani cirnechi, cani arraggiati come diavoli".

E’ un libro di godibile lettura, scritto con mano sapiente e felice. Un racconto che mostra una parte nera e misteriosa della Sicilia e quella che abita negli animi umani.

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Già dell'autrice La creata Antonia ed ama i libri sulla Sicilia terra di eterne contraddizioni...
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    14 Giugno, 2009
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Il cielo rubato di Andrea Camilleri

Può il cielo, essere rubato? Sì( anche se solo un frammento), se il pennello d’artista è di un sublime impressionista e se la fantasia è del nostro esimio scrittore siciliano; laddove finisce la realtà e inizia sconfinando l’immaginazione, allora tutto è possibile. Definire un noir questo scritto non solo è riduttivo, ma anche incompleto.La struttura è quella di un romanzo in forma epistolare (ricorda I dolori del giovane Werther): amore e arte s’intrecciano e poi il giallo, o il colore che si vuole attribuire, viene da sé. Lo scrivente, un notaio di Agrigento in preda all’amore, all’eros, in senso socratico, si abbandona con eccessivo ardore al piacere promesso dalla bellezza di una misteriosa quanto conturbante donna e poi diventa passione e follia; perdizione del ben dell’intelletto. L’amore come la maggiore delle felicità si nutre nel notaio, che redige le missive alla bella sconosciuta, della vista prima (la foto di un ritratto fattole da Guttuso, che ha magistralmente colto e restituito sulla tela la violenta, solare sensualità della sua carne giovane) e s’infiamma poi del desiderio di coglierne la voluttà fisica. La voce dell’arte e la voce dell’amore confluiscono attorno alla figura di Renoir e di un viaggio a Girgenti di cui non c’è traccia temporale in nessuna opera d’arte sul maestro impressionista. Nella nota a piè del libro l’autore dichiara come l’idea dello scritto sia stata suggerita da Eileen Romano che gli ha raccontato un piccolo mistero riguardante appunto Renoir; dalla biografia del pittore, scritta dal figlio Jean ( il regista di La Grande illusione e di altri capolavori cinematografici), risulta che il padre compì un viaggio a Girgenti, oggi Agrigento, in data imprecisata, assieme alla moglie Aline. I biografi del pittore non registrano il viaggio. La vita di Renoir è stata ricostruita giorno dopo giorno, non esisterebbe un periodo di tempo in cui collocarlo. Allora, si chiede Camilleri, un’invenzione? Uno sfaglio della memoria di Jean? Questo ha spinto lo scrittore ad un’attenta indagine sui materiali scritti sul pittore e scoprire una maglia larga nella rete e fare delle supposizioni e darsi delle risposte, meno una: perché non è rimasta alcuna testimonianza pittorica del soggiorno girgentano di Renoir? Questo è diventato il tema conduttore del romanzo: come e perché le tele girgentane di Renoir fossero andate perdute. Ecco il lavoro di fantasia. Il testo è arricchito dalla riproduzione di alcuni quadri dell’artista, un vero e proprio inserto, su pagine plastificate, un piccolo e prezioso omaggio al lettore. A mio parere, un piccolo dipinto quest’opera camilleriana, con i colori intensi e dominanti della passione artistica, della passione erotica; l’amore senile è fiamma bruciante, stordimento, ferita dolorosa, disperazione, senza la presenza dell’amata, le giornate dell’amante sono incolori, i giorni trascorsi insieme un breve soggiorno nel giardino dell’Eden. Camilleri si lascia trascinare dalla corrente travolgente della passione amorosa come un adolescente ai primi sussulti del cuore, senza freni si sdilinquisce e palpita! Reminiscenze, ardori tardivi?

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Camilleri sempre in tutta la sua sfolgorante opera letteraria.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    04 Giugno, 2009
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La danza del gabbiano di Andrea Camilleri

Siamo al 15°capitolo delle storie del commissario Salvo Montalbano! Il mese di maggio ha visto fiorire ben due scritti di Camilleri, non c’è stato nemmeno il tempo di depositare la memoria del suo Renoir, per raccogliere il frutto maturo, ma sempre di stagione del nostro Commissario per antonomasia. Un ennesimo noir che si tinge di sfumature sempre più sottese, baudelairiane, lo spleen di Montalbano si carica, a 57 anni, di note dolenti come se il suo animo non potesse più sopportare i contraccolpi della vita. Camilleri in un pirandelliano gioco delle parti confonde noi lettori mettendo a colloquiare idealmente il Montalbano di carta con quello televisivo e l’autore. In questo contraltare tra i due alter ego, l’autore gioca la sua finzione letteraria e spariglia le carte e ci meraviglia. L’apertura del romanzo ricalca l’incipit degli altri, le nottati sempre più spesso agitate, con le vicchiaglie dormiri diventa faticoso e una volta arrisbigliatisi non c’era più verso d’arrinesciri a ripigliari sonno. L’immagine del gabbiano morente precorre fatti connessi sì all’indagine in corso, ma diventa metafora della morte che si diverte a inscenare una danza scenografica negli ultimi spasmi di vita. I personaggi, gli ambienti naturali e i fatti criminosi hanno le stesse connotazioni e anche certi riferimenti all’attualità, quello che è diverso è la predisposizione d’animo del commissario, da una parte più cauteloso quasi trattenuto a freno da una sensazione di assuefazione, di dejà vu, dall’altra non può sottrarsi a una sorta di meraviglia dinnanzi alla natura e annichilimento dinnanzi alle perdizioni umane. La miscellanea linguistica che contraddistingue Camilleri si alterna per diventare ora lingua italiana burocratica e tecnica ora dialetto stretto; segue percorsi sinuosi e trabocchetti vari, democratica quando è necessaria, abbassandosi a livello dell’eterogeneità degli interlocutori, umorale quando il nirbuso non la regola più e la stravolge Questo romanzo è senz’altro uno dei più belli non tanto per l’originalità della storia, anzi sono presenti tutti gli ingredienti tipici del noir alla Camilleri, ma è diverso lo spirito che anima la materia narrativa e che ci rende così vicini a Montalbano e al suo artefice. Il segno inequivocabile dello scrittore ha ancora una volta inciso la nostra anima di lettori e la godibilità della lettura raggiunge vertici sempre alti.

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Montalbano e non lo immagina come un personaggio letterario, ma come una persona famosa e conosciuta.
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    28 Mag, 2009
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Gli effetti secondari dei sogni

Singolare la figura della protagonista della storia, Lou Bertignac, studentessa liceale parigina, dall’intelligenza precoce e di No, ragazza senza fissa dimora e senza nessuno, l’una lo specchio rovesciato dell’altra, eppure simili nella loro intima sofferenza. L’altro siamo noi. L’autrice utilizza una tecnica narrativa originale e tutta personale, in Lou, introietta tutto quello che vede e sente, il dramma famigliare di Lou si congiunge con quello di Nolwenn, anima persa e sola. Un intreccio profondo lega le due protagoniste, Lou e No, l’esistenza spenta dell’una si relaziona con quella invisibile dell’altra, Lou dà riconoscimento alla vita di No e No ridesta l’alterità di Lou, chiusa nella sua autistica solitudine. Comunichiamo a distanza, interagiamo in tempo reale, connessi in una rete globale, ma non vediamo chi è vicino a noi, perché inquieta la nostra fragile sicurezza di persone normali. “ Siamo capaci di spedire aerei supersonici e missili nello spazio, identificare un criminale grazie a un capello o un minuscolo lembo di stoffa, creare un pomodoro che resti tre settimane in frigorifero senza raggrinzirsi, contenere miliardi d’informazioni in un microcip. Siamo capaci di lasciar morire la gente per strada”. Gli emarginati, i senza tetto, quelli che dormono sui marciapiedi, sotto i ponti, nelle stazioni, sui cartoni o sulle panchine che ricevono solo sguardi indifferenti dagli altri, un giorno forse qualcuno li nota e si fa delle domande, cerca di trovare delle risposte, delle spiegazioni. Come scrive l’autrice, s’inizia a contarli, sono migliaia, il sintomo del nostro mondo malato. Le cose sono come sono. Il libro senza essere un saggio di sociologia o una riflessione intorno a…attraverso il personaggio letterario ci accosta verso un territorio umano che sconosciamo, di come sia compromettente accostarsi a questi altri che vivono una loro vita diversa dalla nostra, per evitare contaminazioni e la paura di perdere la propria identità. In uno stile essenziale, efficace e preciso come le catalogazioni ossessive di Lou, l’autrice riesce ad interessare e coinvolgere il lettore.

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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    27 Mag, 2009
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Il papà di Giovanna di Pupi Avati

La vicenda si dipana in un arco di tempo che va dal 1938 al 1953, 15 anni di fatti personali che travolgono una famiglia bolognese e sullo sfondo sfumati, 15 anni di fatti collettivi (il fascismo, la seconda guerra mondiale) che travolgono popoli interi. Al centro della storia, un padre, Michele Casali, un oscuro professore di storia dell’arte e la figlia Giovanna diciassettenne, labile psicologicamente, in secondo piano la madre Delia, donna di grande bellezza. Pupi Avati in uno stile immediato ed efficace scrive e descrive il dramma famigliare che già si avverte sin dalle prime note del romanzo, in questo esclusivo amore paterno verso la figlia teso a preservarne ogni delusione. I personaggi sono delineati con fulminanti tratti fisici e lampanti intuizioni psicologiche; da uomo del cinema, la tecnica narrativa è così visiva che sembra di vedere la fisionomia di ciascuno e di seguirne con sguardo attento i comportamenti. Trapela un’atmosfera drammatica e sofferente, questo padre che cerca di carpire il sorriso sul volto e nell’animo di Giovanna, volutamente, non vedendo la fragilità interiore e proteggendola fino allo spasimo del cuore. Pupi Avati riesce con poche e sparse annotazioni e particolari a restituirci il ritratto storico dell’epoca senza accenti parossistici né tantomeno giudizi politici e moralistici. Risulta chiaro come l’autore non usi indulgenza verso la madre ora condannata dal suo egoistico agire ora compatita per il suo fallimento come moglie e madre, mentre aderisce sentimentalmente a Michele devoto e protettivo verso la figlia. Forse, a volte, il troppo amore, cieco e totalizzante distrugge le persone a cui è rivolto, come un amore sotteso, non conclamato perché cova delusione e insofferenza. Giovanna già non bella e debole si trova a competere con la grazia femminile della madre e con le ansie paterne di vedere realizzati i sogni e i desideri della figlia, così, si trova schiacciata e confusa, la perdizione in un mondo tutto suo, le sarà fatale. Un breve romanzo intenso e dolente che il lettore ama sin dalle prime pagine e accompagna le parole scritte con gli stessi sentimenti che sgorgano dal libro.

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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    26 Mag, 2009
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Educazione siberiana di Nicolai Lilin

Nicolai Lilin, giovane di 29 anni, racconta la sua vita straordinaria, diversa per codici e stili da noi occidentali. La Transnistria, regione dell’ex URSS, ad est della Moldavia, autoproclamatasi indipendente nel 1990, ma non riconosciuta dal alcun Paese- al contrario di altre entità fuori ONU- ( l’unico Stato socialista a porre la falce e il martello nella bandiera nazionale), è il teatro di questa storia sconcertante e, per certi versi affascinante. Nicolai, Kolima vive a Bender, capitale della Transnistria, nel quartiere Fiume Basso, secondo la tradizione siberiana, dove il codice d’onore è regolato da un’educazione criminale. L’educazione siberiana, è, secondo il nostro punto di vista, un ossimoro: criminali onesti. “I criminali dignitosi si presentano, si salutano e si augurano ogni bene anche prima di ammazzarsi”. La criminalità retta da una giustizia violenta, s’innesta con i valori quali, l’amicizia, la solidarietà, la violenza, come un seme necessario e naturale. Nicolai trascorre l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza imparando tutto un cerimoniale fatto di parole non dette o dette in un certo modo, il gergo criminale, le gerarchie con i propri ruoli, l’uso delle armi, il coltello prima, la pistola dopo come se si maneggiassero innocenti giochi di guerra, l’odio per gli sbirri, la cui uccisione è men che meno la morte in un conflitto a fuoco dentro un video – game. I figli dei criminali adulti frequentano la scuola della strada che li abitua alla violenza come reazione primaria ad infrazioni di precise regole della comunità. I criminali anziani nel ruolo di nonni adottivi insegnano ai giovani l’uso delle armi, della violenza, come necessità-virtù, sottesi all’amore per i disabili, al rispetto per gli anziani, alla cultura del tatuaggio, della pelle che racconta il destino dell’individuo. E’ un mondo chiuso la cui trasmissione dei valori assume una sacralità antica le cui leggi affondano nella notte dei tempi: “ Homo homini lupus”. Questo giovane, dall’esperienza di un anziano, è una commistione di antichi codici d’onore che cozzano con la civiltà odierna, perché una vita violenta avvicina alle bestie, ma anche una vita pacifica, in cui i valori sono solo materiali, è una vita disonesta. La vera realtà della vita si presenta amara per Nicolai, ai diciotto anni prende coscienza di crearsi un futuro diverso, fuori dalla comunità criminale, il consumismo post-sovietico è impressionante per uno educato alla sobrietà dei costumi siberiani e si sente stanco, disorientato nella prospettiva di realizzarsi in qualche modo onesto ed utile. In uno stile semplice ed immediato, come quasi cronistoria, Lilin ci addentra in queste realtà sconosciute che solo da poco stanno perdendo la loro identità e si avviano verso l’occidentalizzazione forzata. E’ una lettura inconsueta, interessante, e al di là del tam tam mediatico, dà, se ce n’era la necessità, un’ennesima testimonianza dell’infinità gamma dei comportamenti umani e di quanto l’abisso del male sia estremamente profondo e senza fondo.

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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    04 Mag, 2009
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A voce alta di Bernhard Sclink

La città che fa da sfondo al romanzo - mai nominata ma segnalata da riferimenti toponomastici precisi - è Heidelberg, sede della più antica università tedesca; siamo negli anni ’50 e l’adolescente Michael Berg incontra Hanna, una donna affascinante e misteriosa, sulla trentina: è passione e amore travolgenti. I loro incontri s’infittiscono e vivono un’intensa relazione fatta di sensualità e pudori. Quando Hanna sparisce, Michael con strazio prima, con la voglia di vivere dopo, prosegue gli studi, gli ultimi anni di liceo, la facoltà di legge, ma il ricordo di Hanna non lo abbandona mai, fino a quando durante un seminario sui procedimenti giudiziari, connessi al passato nazista, la rivede in tribunale. Lei e altre quattro donne accusate erano state sorveglianti in un piccolo campo di concentramento nei pressi di Cracovia, un lager esterno di Auschwitz. I capi d’accusa riguardano il modo in cui le imputate avevano agito ad Auschwitz, le selezioni nel lager e la notte del bombardamento che aveva posto fine alla colonna di prigionieri per l’Ovest; la responsabilità dei reparti di guardia e delle sorveglianti che avevano rinchiuso i prigionieri - centinaia di donne - nella chiesa di un villaggio che era stato abbandonato dalla maggior parte degli abitanti. Caddero un paio di bombe, forse destinate a una linea ferroviaria vicina o a una fabbrica, una colpì la canonica, l’altra centrò il campanile, prese fuoco il tetto della chiesa, le pesanti porte rimasero chiuse, le imputate avrebbero potuto aprirle, ma non lo fecero e così le donne rinchiuse là dentro bruciarono vive. Meno due, una madre e una figlia miracolosamente salvatesi, testimoni oculari, inchiodano le imputate alle loro responsabilità. Tutto il periodo del dibattimento, la condanna di Hanna e gli anni di carcere segnano il percorso di vita di Michael fino al suo tragico epilogo. E’ una straordinaria e struggente storia d’amore, Hanna si faceva leggere ad alta voce da Michael i romanzi perché era analfabeta - ma teneva segreta questa vergogna più del suo passato di aguzzina nazista - e una intensa riflessione sul nazismo: “cosa doveva e deve farsene, la generazione dei nati dopo, delle informazioni sulle atrocità dello sterminio degli ebrei.? “Noi non dobbiamo pensare di poter comprendere ciò che è incomprensibile, non possiamo comparare ciò che è incomparabile, non possiamo indagare, perché chi indaga sulle atrocità, anche se non le mette in discussione, ne fa comunque oggetto di comunicazione e non ottiene che qualcosa di fronte a cui può solo ammutolire per l’orrore, la colpa e la vergogna. Ma era giusto così? “Come poteva essere un conforto il fatto che il mio patire per amore di Hanna era in un certo senso il destino della mia generazione, il destino dei tedeschi, al quale riuscivo a sottrarmi solo malamente, col quale mi destreggiavo ancor peggio degli altri! Quanto meno mi avrebbe fatto bene, allora, se fossi riuscito a sentirmi parte della mia generazione.” L’autore nell’ultima pagina dice che tutto ciò risale ormai a 10 anni fa: “Quel che ho fatto o non ho fatto e quel che lei mi ha fatto: è ormai la mia vita.” All’inizio scrive la storia per liberarsi, ma i ricordi non si piegano a questo scopo. Poi si rende conto che la storia gli sfugge di mano, e vuole riprenderla per mezzo della scrittura, ma anche così non riesce a carpire la memoria. Da qualche anno la lascia stare perché ha finalmente fatto pace con lei.

Il romanzo, soprattutto nella seconda parte, quando la storia tra Michael e Hanna viene rivissuta attraverso la memoria, assume una dimensione lirica, pur nei periodi di lunghi silenzi e distanze, sedimenta strati su strati di malinconia, dolcezze e sensi di colpa contrastanti; è in questi pensieri che lo scrittore usa accorgimenti stilisti toccanti pur nell’apparente distacco emotivo. La terminologia e fraseologia giuridica che si riscontra nel testo quando si descrivono gli atti processuali non sono che le proprietà di linguaggio forense di Bernhad Sclink che è magistrato e docente di diritto in una università tedesca. Un gran bel romanzo e una storia singolare a cui il film rende onore, in quanto il regista riesce a mantenere quel registro emotivo distaccato, ma mai freddo e non scade nella retorica e nell’ovvietà.

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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    03 Mag, 2009
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Brucia Troia di Sandro Veronesi

Come si esplicita nella nota dell’autore, il romanzo ha avuto una lunga gestazione, la prima stesura risale a più di vent’anni fa, lasciare liberi i personaggi dopo averli a lungo tenuti con sé, ha permesso a Veronesi di apportare quegli stessi cambiamenti che la sua vita subiva perché la distanza tra essi e lui non diventasse eccessiva. Il titolo è stato estratto da una canzone del cugino di Veronesi Vinicio Capossela, dopo che anche i titoli provvisori si sono succeduti pari passo con le nuove stesure, spera che nel trapianto, dalla canzone al romanzo, sia colata dentro un po’ di quella forza.

Tra l’orfanotrofio dei Cherubini e il Cantiere, luogo infimo e degradato, si trama la storia di Brucia Troia, in una provincia dell’Italia a cavallo degli anni 50-60. Nel brefotrofio domina la figura maestosa ed ieratica di padre Spartaco, un integralista ex missionario in Africa con la fissazione di erigere un colossale monumento alla Vergine, “La Finzione Permanente”, opera dotata di un movimento continuo, un marchingegno di neon, luci psichedeliche, tubi e giochi d’artificio di luminante ed esplosivo impatto visivo. Egli persegue questo delirante progetto con inaudita pervicacia e ostinazione, tutti i suoi sforzi fisici e mentali sono volti alla realizzazione di questa follia per la più formidabile genuflessione collettiva davanti all’altare di Maria che si fosse mai vista in quella parte del mondo. Per dimostrare, sì, di quali fatti era ancora capace la fede. Nel Cantiere s’impatana la vita miseranda di Salvatore scappato dai Cherubini, che troverà i suoi maestri di vita nel vecchio Omero e in Miccina prima e il suo compagno-allievo, nel Pampa, dopo. In queste due realtà agli antipodi l’una quella dell’orfanotrofio, emblema di presunta innocenza e fede e l’altra quella del Cantiere fatta di marginalità e bestiale delinquenza, corrono parallele vite primitive di perdenti e vinti perché già segnati dalla nascita. In questi estremi livelli di vita, i personaggi soccombono al loro infausto destino perchè nessuna redenzione può sollevarli a dignità umana. Il fuoco elemento purificatore non sconfigge il fuoco, come la sacra croce non scaccia il Male. Brucia Troia, brucia l’orfanotrofio che pone fine a numerose vicende individuali e collettive che duravano da molto tempo, ma non ne consegna nessuna alla storia. Un romanzo non indulgente verso una società apparentemente opulenta in cui, supinamente, convivono le superstizioni mistiche, i baraccati, i diseredati, gli emarginati non sfiorati dal progresso e dalla “felicità.”

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i libri dell'autore e ne apprezza la cifra stilistica.
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    30 Aprile, 2009
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Il giorno prima della felicità di Erri De Luca

Scritto in prima persona, un ragazzino, a Napoli, nel secondo dopoguerra, vive da solo senza più la sua madre adottiva. Mentre gioca al pallone scopre un nascondiglio, dietro la nicchia di una statua, nel cortile del palazzo in cui abita. Dal portinaio, Don Gaetano che sentiva i pensieri della gente, scoprirà che durante l’occupazione dei nazifascisti a Napoli stava nascosto un Ebreo. Il portinaio sarà la voce narrante della Storia, delle quattro gloriose giornate di Napoli in cui il popolo napoletano insorse contro i nemici per poi ritornare ad essere una folla di persone. Sarà il suo mèntore, gli insegnerà a giocare a carte, la vita come lotta e conquista della felicità. “O Guagliò” ( così chiamato dal portinaio) sarà la voce narrante della storia individuale, della passione divorante per i libri e per la ragazzina, Anna, intravista dietro i vetri di una finestra, serberà nel suo cuore l’incanto di questa fascinazione. Gli abitanti del palazzo, lo scarparo arricchito, La Capa che non conosce l’italiano, la vedova del secondo piano che chiama Don Gaetano per dei piccoli “Lavoretti”, il conte che si gioca le proprietà al circolo, il libraio Don Raimondo che farà prendere il vizio della lettura al protagonista della storia, di cui non ci è dato sapere il nome, sono emblematici di caratteri tipici umani di una certa letteratura partenopea, dove l’ignoranza è supplita dalla furbizia e dove l’arte di arrangiarsi diventa una filosofia di vita. “ Il palazzo e gli abitanti sono il medioevo che si è infilato i pantaloni del presente,” “I pensieri, l’umanità da dentro fa spavento, carne da arrostire all’inferno.” Queste alcune delle citazioni sagaci di Don Gaetano che trasmette la sua esperienza di vita al ragazzino diventato poi diciottenne che tra calcio e scuola vive i suoi rapporti di rimessa. L’incontro con Anna adulta farà scoprire al nostro protagonista di quanto l’attesa sia preannuncio di una piena felicità sia pure effimera e fugace. Il titolo del romanzo “ Il giorno prima della felicità” è per l’Ebreo nascosto, la vigilia del capodanno, che cade a settembre, secondo il rito, una pietra viene gettata nel mare, per liberarsi dalle colpe. Il giorno prima della felicità è quello precedente alla rivolta dei Napoletani. Il giorno prima della felicità è quello che precede l’incontro con Anna di “O Guagliò,” il giorno d’amore con quella del terzo piano, il giorno della felicità, il più terribile della sua poca vita. Il giorno dopo la felicità si sente un alpinista che sbanda in discesa. In questo breve romanzo si fondono due storie: quella individuale del ragazzo e la sua fulminea educazione sentimentale con Anna, una ragazza passionale che gli regalerà attimi di lampante felicità e la Storia collettiva di Napoli in rivolta contro i nazifascisti. Erri De Luca ci trasporta in questa Napoli umana e in perenne lotta con se stessa dove la lingua colorita e ricca di sfumature delinea dei personaggi forse un po’di maniera e datati come immagini oleografici, ma ci regala momenti poetici che illuminano la scena narrativa come quando la natura solidarizza con il popolo e lo stesso sole scalda quelli senza cappotto, perché vuole bene e protegge l’umanità derelitta e semplice.

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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    24 Aprile, 2009
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Rossovermiglio di Benedetta Cibrario

Torino 1928. La protagonista del romanzo, di cui non si sa il nome di battesimo, ha i contorni di un’eroina ottocentesca, bella, fragile, ancora imbavagliata dalle rigide etichette proprie, della sua classe sociale, l’aristocrazia piemontese, è spinta da una ribellione interiore in nuce non abbastanza forte da governare appieno la sua vita. Queste due antinomie solcheranno il suo percorso esistenziale che dalla adolescenza arriverà alla vecchiaia; circa un secolo di storia dal Fascismo alla Seconda Guerra Mondiale al Dopoguerra fino all’incirca ai giorni nostri, la Contessa vive questa età in bilico tra presente e passato. Un infelice matrimonio combinato prima e un amore con Trott, avventuriero e affascinante uomo dopo che alterna presenze estemporanee e assenze e silenzi prolungati.

Da Torino alla campagna senese, San Biagio, una fattoria abbandonata diverrà il suo buen retiro prima e la sua ragione di vita dopo. Con l’aiuto di Dino si trasformerà in una fiorente azienda vinicola che produrrà vini di grande qualità come il Lunediante e il Rossovermiglio, appunto il titolo del romanzo. Il finale a sorpresa sorprende il lettore e lascia un senso di sperdimento quando i sentimenti del cuore sono repressi esteriormente e la tempesta agita dall’interno abbattendo le certezze e le illusioni. Come la fiaba La bella addormentata nel bosco di Perrault che la scrittrice cita nella storia, la Contessa è addormentata da un incantesimo e il risveglio tardivo non può più modificare gli eventi. I personaggi sono emblematici di una certa classe sociale in cui arroccati nei loro privilegi di casta guardano la realtà dal loro “particolare” educati come sono senza passioni civili o politiche, serpeggia nei loro animi la paura che il mondo cambi e con esso il loro status. Interessante quello che dice un cugino della protagonista nell’attesa dell’esito del referendum del 1946: la paura che le cose cambino per i nobili i cui titoli diventeranno delle paroline in disuso, buone solo per raccontare le fiabe ai bambini, essi sanno conservare, non mutare. Un romanzo vivo, scritto con l’animo, denso di ricordi personali che diventano sociali e storici in un tutt’uno affascinante. Densa la scrittura come la terra vangata e strappata alla sterpaglia e ricondotta alla sua greve fertilità, incantevoli i paesaggi del Chianti, i colori della natura dipinti con amore e passione. Un bel romanzo che senza acclamare al capolavoro rispecchia le qualità artistico-espressive di una narratrice a tutto tondo.

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Storie di personaggi femminili che vivono storie famigliari intricate e dolorose
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    20 Aprile, 2009
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Vento scomposto di Simonetta Agnello Hornby

Nei ringraziamenti l’autrice dichiara di aver scritto il romanzo prima in inglese e dopo in italiano; la traduzione in italiano non è stata una mera traduzione, ha dovuto reinventare il tono, il passo, il ritmo della storia, dichiara il suo sforzo per rispettare in entrambe le lingue, l’anima intrinseca, l’armonia del linguaggio, la pertinenza del lessico. Un lavoro di cesello e di consulenza psichiatrica.

Nello scrivere questo romanzo ha attinto alla sua esperienza di avvocato, di docente universitario e di giudice.

Nella nota introduttiva, l’autrice ci informa che il Children’s Act del 1989 ha rivoluzionato il sistema legale inglese: il minore ha diritto a un suo tutore legale e a un avvocato a spese dello stato, come i suoi genitori, con lo scopo di sostenere le famiglie e tutelare i minori. Ma negli ultimi 20 anni molte inchieste pubbliche su tragedie causate dall’inefficienza dei servizi sociali, dovute al pesante intervento dello stato sugli organismi di controllo, all’assunzione da parte degli organici dei servizi sociali di personale di agenzie o proveniente dall’estero, inesperto e al ricorso di perizie di psichiatri infantili in situazione che nulla hanno a che fare con la malattia mentale di un minore, hanno sconvolto il pubblico inglese. “Troppi assistenti sociali sono incompetenti e arroganti, troppe famiglie di utenti sono considerati alla stregua di oggetti e non come persone, troppi periti godono di un senso di impunità, al riparo come sono del giudizio pubblico, in quanto i procedimenti sui minori avvengono a porte chiuse per proteggere il minore. E, tristemente, troppe volte la voce del minore rimane inascoltata”.

Con questa premessa inizia l’odissea legale della famiglia Pitt. Vivono a Londra, nel quartiere elegante di Kensington, Mike che lavora alla City come merchant banker, Jenny, consulente di una prestigiosa catena di negozi e le due figlie, in età scolare, Amy e Lucy. In questa, dorata, vita alto-borghese, la calma apparente di questa famiglia viene sovvertita dai sospetti della maestra d’asilo di Lucy che ravvisa nei disegni della bambina segnali di abusi sessuali da parte del padre.

Inizia un periodo nero per Mike e la moglie; vengono interrogati, controllati e passati al vaglio dai servizi sociali, i quali nella loro miope ostinazione innescano un meccanismo tortuoso che trascinano i due coniugi in un incubo che sembra non finire. Per uscire da questo labirinto di accuse ed infamie, Mike si affida all’assistenza legale di Steve Booth, avvocato specializzato in diritto di famiglia che lavora per una clientela disagiata e multietnica di Brixton.

Questo romanzo è completamente diverso dalle prime tre opere della scrittrice, dalla Sicilia con passione in affreschi di famiglia e storie di donne dal passato misterioso all’Inghilterra di oggi, in un contesto forense e di dibattimenti giuridici; storia di costume e inchiesta sociale si frappongono e rilevano le competenze precipue dell’Agnello Hornby, la quale si muove su un terreno usuale con stile e perizia specifica. Si alternano gli ambienti alto-borghesi e i quartieri di periferia, le aule di tribunale e i luoghi cittadini quali mercati, giardini. Il romanzo è costruito sulle esperienze di giurista dell’autrice, attinge ad un materiale sociale e umano che conosce nei loro intimi conflitti famigliari. E’ l’occhio dell’esperto quello che si compenetra in questa umanità in bilico tra innocenza e colpevolezza, è l’osservatorio privilegiato della giustizia che si basa su prove, ma anche su pregiudizi, sospetti o intuizioni fuorvianti, è lo stile specialistico scevro da architetture metaforiche e soluzioni linguistiche fantasiose e permeate da molteplici variazioni. Ne risulta una storia fredda non particolarmente ricca di patos e tensione, i frammenti di vite rappresentati sono ridotti a clienti con cui non solidarizzare, ma piuttosto risolverne tecnicamente le problematiche. Non traspare l’anima della scrittrice, ma la competenza disciplinare e il distacco professionale di chi opera in uno specifico settore. Simonetta nella trilogia precedente aveva abituato noi lettori a storie insaporite da un linguaggio duttile, ricco di sfumature, laddove la libertà espressiva coglie l’ineffabile, l’immanenza dell’esistenza senza la presunzione di decretarne il valore di verità; ma in questa opera prevale l’oggettività dei fatti, la necessità di regolare la molteplicità degli eventi, quando sono alterati dalla fallacità e dalla vulnerabilità umane.

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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    18 Marzo, 2009
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Il sonaglio di Andrea Camilleri

Dalla donna-sirena alla donna-albero alla donna-capra. Camilleri, in quest’ultima opera letteraria, perviene ad una trasmigrazione di anime femminine in una sorta di vera e propria metempsicosi in Terra siciliana. Giurlà, l’adolescente di 14 anni, mandriano di capre, sarà il trait d’union di questa trasfigurazione tra la capra Beba e la marchesina Anita. Dalla mitologia classica alla letteratura greco-latina, le metamorfosi, uno degli impossibili sogni dell'uomo, come il volo o l’immortalità. Scrivere per sognare, sognare per vivere, la fantasia, l’immaginazione, giochi illusori per prefigurarsi realtà sognate e possibili da realizzare. In Camilleri il gioco diventa storia tra le più romantiche e al contempo struggenti, Giurlà, il ragazzino fattosi uomo, vive un amore oltre i confini con una tale ed intensa perdizione dell’animo e dei sensi da elevarlo socialmente sfuggendo alla sorte di uno dei tanti "Vinti" di memoria verghiana. L’autore, in anteprima all’uscita del romanzo, ha raccontato le reminiscenze e i riferimenti di luoghi e sensazioni autobiografici presenti e come la costruzione della storia lo abbia condotto verso le ali della libertà espressiva. Camilleri scrive quel che vorrebbe leggere e offre al lettore quel che vorrebbe poter vivere, il magico del mito e il mistero della natura, in uno stile apparentemente semplice, ma che sottende una complessità simbolica a cui difficilmente ci si può sottrarre. Siamo trasportati, al pari di Giurlà, in quei paesaggi marini in cui sembra di "Sciaurare" il salmastro e sentire la brezza accarezzare il corpo, in quei luoghi montani in cui la natura ha il sopravvento sull’uomo e la ragione si sottomette all’istinto animalesco.Il mondo arcaico riportato alla luce e intensificato dalla nostalgia di un tempo passato, commistione di racconti popolari e realismo sociale, fa rivivere incanti e sentimenti caduti nell’oblio. E’ritornata la fantasmagorica immaginazione camilleriana, sono benvenute le mirabolanti acrobazie linguistiche e le pregnanti descrizioni paesaggistiche fatte di odori e colori saporosi a cui eravamo e siamo avvezzi. La lettura, in 191 pagine, di questo libro, ci addentra in un’epoca in cui la marginalità dei miserabili, in una società fortemente iniqua, assurge a dignità letteraria e la primitività dei “Perdenti” ricreata in questo scritto, ci induce ad una adesione fascinosa fuori da ogni logica.

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A chi ama le storie fantastiche, magiche al limite del mito in chiave camilleriana.
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    06 Marzo, 2009
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Venuto al mondo di Margaret Mazzantini

Siamo ai nostri giorni e le ambientazioni della storia sono Roma, Genova e, in Bosnia, Sarajevo; la protagonista Gemma, vive a Roma, è sposata con Giuliano; con il figlio Pietro intraprende un viaggio nella Sarajevo, post bellica, in una sorta di percorso a ritroso del suo passato. In Bosnia ha vissuto i periodi più intensi del suo amore per Diego“Il fotografo di pozzanghere”, della sua amicizia con il poeta Gojko e della sua ricerca disperata per diventare madre. Altri personaggi dalle molte sfaccettature psicologiche riempiono la scena narrativa: i genitori di Gemma e poi Velida, Sebina, Aska…tutti ricchi di umanità e sofferenze diverse, attraversati da un destino non sempre benevolo nei loro confronti. I temi esistenziali sono minuziosamente sviscerati dall’autrice e vivisezionati quotidianamente, l’amore, la guerra e la morte al centro della vicenda, complessa nello sviluppo degli eventi. Una sorta di tragicità classica aleggia su tutto il romanzo e l’epicità della guerra si dissolve in violenze e distruzioni. Gli uomini assassini, le donne tranciate dalla guerra. “ Si sfidava la morte per seppellire la morte”. La descrizione della guerra del 1984 nell’ex Iugoslavia, si connota di: polvere di rumori lontani, della gola roca dei kalashnikov, dei cecchini, dei bombardamenti cetnici, delle truppe regolari della Difesa territoriale bosniaca, delle truppe di malviventi sarajeviti serbi e dei blindati bianchi della Nato. Ma si connota anche di ombre umane che sfilavano via silenziose come alghe nel mare, di gente lieve come farfalle notturne. Le epigrammatiche riflessioni, le poetiche e dettagliate descrizioni paesaggistiche: “Azzurro e sconfinato come ogni mare, cielo sommerso, acqua che allaga la vista”, “ Le isole in basso sembrano una collana di pietre che si sono disgiunte, ma senza mai separarsi dal collo della terra”. Le crude immagini belliche, i sentimenti raccontati e vissuti senza pudori e con dolente accoramento, il fantasioso e immaginifico stile sono le valenze aggiunte dell’essere scrittrice della Mazzantini. Probabilmente, questo libro, è venuto al mondo con le stesse spasmodiche contrazioni viscerali con le quali Pietro è: “ Venuto al mondo”.

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Storie di forte impatto emotivo in uno stile elevato e fantasioso con ardite impennate retoriche.
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    14 Febbraio, 2009
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Un sabato, con gli amici di Andrea Camilleri

Senza Montalbano, senza Sicilia, senza dialetto, Camilleri “Esordisce” ottantenne con un romanzo sperimentale, come lui stesso afferma; intraprende strade diverse, con esiti un po’ disorientanti. Non sembra di leggere Camilleri, non lo stesso stile narrativo al quale siamo abituati, non lo stesso sguardo compartecipe verso i suoi personaggi. Il suo estro creativo ci estrania e ci devia verso percorsi insoliti, anche se, in pectore, forse, giaceva una storia borghese di tal fatta con magmi sotterranei di insoluti traumi e drammi a causa dei quali la vita dei protagonisti del romanzo si veste di menzogne e ambiguità. Il titolo sembra echeggiare una pièce teatrale tipo “Metti una sera a cena” di Giuseppe Patroni Griffi o i drammi pirandelliani dell'assurdo o certi film di riunioni amicali dove succede di tutto. La struttura del plot è costruita secondo tecniche teatrali, dalle scene iniziali in cui sette bambini vivono inconsapevoli situazioni scabrose alle scene successive, in un intreccio capriccioso del destino, in cui li ritroviamo adulti e tutti insieme, per relazioni di varia natura intercorrenti tra loro. Alcuni, compagni di liceo o di università, legati da un passato sotterrato che adesso riemerge e rischia di sprofondarli in abissi senza fine. E’ questa storia un dramma borghese intrisa di ogni tipo di nefandezze e obbrobri che si celano come certi incubi notturni o sogni allucinatori che ottenebrano il ben dell’intelletto e scattano meccanismi perversi spacciati per normalità. La trama, in breve, racconta, per istantanee, tranches di vita di Matteo, Gianni, Giulia, Anna, Fabio, Andrea, e Renata, detta Rena, da bambini, vittime di adulti insani e poi nell’età matura una tranquillizzante elaborazione del loro passato, ripugnante, non è catarsi, ma dannazione. Non si sciolgono i nodi dell’intricato vissuto infantile, ma si disvelano solo nella mente dei protagonisti con tutto il loro peso morboso e ineluttabile. Camilleri plasma una materia narrativa profusa a piene mani di miserie e una scrittura non indulgente, ma secca, essenziale, dialogata, scarnificata da qualsiasi pietismo personale restituendoci degli esseri umani che d’umano hanno ben poco. Che dire, spiazzante lo scrittore, non finisce di stupirci e, forse controverso ne risulta il grado di piacevolezza che questo libro ci offre. Certo è che Camilleri impavidamente si mette sempre in gioco come un giocatore d’azzardo che osa ad oltranza o come chi pratica sport estremi per misurare se stesso in una sfida continua.

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Camilleri e non può fare a meno di leggere ogni sua opera pubblicata
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Arcangela Cammalleri Opinione inserita da Arcangela Cammalleri    06 Febbraio, 2009
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Il bambino senza nome

Il bambino senza nome di Mark Kurzem Ed.Piemme

Titolo originale The Mascot 2007

Romanzo storico-sociale pag. 443

Quarta di copertina: Avevo 5 anni. C’era la neve. I lupi. Esangue. Poi ero solo. Ho perso tutto quella notte, anche il mio nome.

L’autore del libro Mark Kurzem ricercatore ad Oxford, racconta e ricostruisce la straordinaria vita del padre Alex (emigrato in Australia) attraverso gli allucinati e frammentari ricordi di lui, quando bambino ebreo, vede consumare lo sterminio dei suoi famigliari e degli Ebrei del suo villaggio e, dopo 9 mesi di vita errabonda nel bosco, catturato da un’unità lettone filonazista e fortunosamente scampato al plotone di esecuzione, usato come strumento di propaganda, diverrà, suo malgrado, la piccola mascotte del Reich e delle sue ignobili ambizioni: piccolo caporale Uldis Kurzemnieks, in divisa da SS.

Un ragazzino di non più 7 o 8 anni, in uniforme, con pantaloni alla zuava e lucidi stivali di cuoio che arrivavano al ginocchio, diventa la parodia del soldato modello, una sorta di portafortuna da esibire e manovrare dalle SS a loro uso e consumo. Una preziosa e misteriosa valigetta nera da cui, Alex, come un prestigiatore, faceva emergere, ogni volta, davanti alla famiglia una piccola parte del suo contenuto e un pezzo della sua memoria, contiene tra documenti e fotografie quello che resta della sua infanzia negata. In questo libro, riemerge dal passato, dopo 60 anni, una vicenda strabiliante, un altro tassello, un altro anello mancante nella sterminata e aberrante storia del nazismo; un’altra personale testimonianza di chi fu vittima dell’Olocausto, distrutto nell’animo e privato di tutto, perfino del nome. Quella del padre dell’autore è una storia vera, bambino ebreo cresciuto dai nazisti. Il figlio attraverso questo libro, dopo ricerche presso comunità accademiche mondiali che si occupano di Olocausto e grazie ai ricordi che affluiscono dalla memoria del padre, ha voluto ridargli la sua identità rubata, non certo cancellare il passato o ricorrere a facili soluzioni di psicologia spicciola, non resta che scendere a patti e, in qualche modo, suo padre lo aveva sempre saputo. Con quel passato dovrà conviverci non solo il padre, ma anche il figlio che per forza di cose è il suo retaggio.

Ancora un libro sulle vittime del nazismo e sulle bieche mostruosità di esso; è interessante leggere questa storia non solo per la vicenda umana in sé, altresì dal punto di vista storico, si viene a conoscenza del ruolo politico giocato dai paesi baltici durante le persecuzioni ebree e di dettagli sui massacri “Aktionem”perpetrate dalla squadre di sterminio” Einsatzgruppen” e dai volontari baltici e le brigate di polizia. Discordanti le opinioni degli storici riguardo ai motivi della complicità lettone coi nazisti. La Lettonia non fu occupata dalle truppe tedesche, i Lettoni consideravano i nazisti non degli invasori, ma dei liberatori dall’oppressione sovietica, per cui furono accolti con favore. Altri sostengono che dietro questo atteggiamento c’era qualcosa di più della convenienza politica: avrebbero i Lettoni adottato volentieri l’etica nazista anche, se non soprattutto, a causa del loro innato e spesso virulento antisemitismo.

Per chi vive la vita” normale” è difficile comprendere chi ha conosciuto “ l’Orrore” ed è stato costretto a condividerlo; significative le parole di Alex, riportate nell’ultima pagina del libro:” Non so che cosa ho perso. Come si può conoscere la vita che non si è vissuta? Ho voluto sopravvivere….innumerevoli volte ho rischiato di essere scoperto, ma io della sopravvivenza ne ho fatto una compagna che è rimasta al mio fianco per tutta la vita”.

L’autore: Mark Kurzem ha studiato a Melbourne e ha lavorato a Osaka. Oggi insegna a Oxford. Il suo primo libro, Il bambino senza nome, è un bestseller in corso di pubblicazione in dodici paesi.

Arcangela Cammalleri

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LIbri di contenuto storico-sociale e di forte drammaticità
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