Opinione scritta da Stefp
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Donne bevute
Donne bevute è un libro-testimonianza, una raccolta di storie vere, narrate dalle protagoniste che raccontano la loro esperienza con l'alcol, dai primi eccessi alla dipendenza. Sono storie di donne molto diverse fra loro che approdano, alla fine del tunnel, nella stessa casa di cura, dove finiranno per rivedere piano piano la luce e la speranza, prima tenue, poi più consistente. Elisa è depressa bipolare, tenta il suicidio, poi dopo cure devastanti, la fine del rapporto con la compagna e la morte della nonna inizia a bere. E' l'amore per la lettura che l'allontanerà dall'alcol; quando si accorgerà di non riuscire più a leggere, smetterà. Cristina, una difficile infanzia, un marito violento ed indifferente, inizia a bere per riuscire a dormire e diventa dipendente del bere. Margherita, una vita piena di eccessi, droga, alcol, con disturbo borderline. Sabrina, che inizia a bere a sedici anni perché crede di sopportare l'alcol meglio di tutti e pensa di trarne benefici e sarà alcolista anche da adulta, madre di due bambini.
Tutte quattro sono sprofondate negli inferi, piano piano ma inesorabilmente, tutte hanno sottovalutato il problema, tutte hanno toccato il fondo e si sono messe anche a scavare, tutte hanno dato e avuto il peggio di sé e dalla vita e tutte, chi attraverso neurologhi o psichiatri o Alcolisti anonimi, poi la casa di cura, sono forse uscite psicologicamente dalla loro malattia e iniziano a vedere e concepire per loro una vita diversa, migliore.
Donne che credono di bere ma sono bevute dall'alcol, non sono soggetti attivi del bere, ma passivi. Un piccolo libro, questo di Mahè Mengarelli, coraggioso, che non si legge in poco tempo però. Piccolo quanto pieno di contenuti. Crudo quanto reale, un pugno allo stomaco, una finestra violentemente spalancata sul mondo dell'alcolismo femminile, terza causa di morte fra le donne, fa aprire gli occhi senza dare giudizi etici o morali, lasciando al lettore, una volta ripresosi, la possibilità di pensare.
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Un racconto avvolgente
Il mare come unione, ma anche come confine insuperabile. Il mare è vita, ma è anche morte. Jamila è una giovane libica che scappa dalla rivoluzione, viene dal deserto con il figlio Farid che non ha mai visto il mare. Cercano la salvezza, la speranza con una carretta arrugginita del mare, assieme a tanti disperati come loro. Angelina, tanti anni prima, ha lasciato la Libia, italiani cacciati da un'altra rivoluzione. Farà la profuga nella sua terra d'origine e crescerà Vito fino a che lui non la lascerà per trovare la sua patria. Due mondi, madri e figli, due vite, unite e divise solo dal mare che affrontano, l'una con una speranza di futuro, l'altra con la nostalgia del passato. Il mare divide e annulla le speranze, le nostalgie, i ricordi ed i dolori strappando vite e restituendone, piano piano, i resti, i pezzi.
Un racconto che avvolge, ti prende, ti inebria di colori forti, di sapori, di profumi. Ti permea di emozioni e ti riempie di dolore. Un'intensità palpabile, una lettura che ti lascia stanco, provato, che colpisce. Una lirica, quella della Mazzantini, cruda, ma di alto valore che tocca in ogni pagina le corde dell'emotività, dei sentimenti.
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Il macellaio
Il macellaio è un romanzo di letteratura erotica e viene ritenuto un caposaldo del genere. E' la storia di una giovane cassiera di una macelleria che viene “corteggiata” dal macellaio con allusioni forti ed esplicite al sesso. Lei non si ribella né lo incoraggia; Lui non è né bello né giovane, ma le frasi che lui gli sussurra all'orecchio la eccitano. Lo lascia fare e sa che prima o poi cederà e assoperarà sul suo corpo quello che ora sente con la fantasia stimolata benissimo dal macellaio. E la carne che lui magistralmente sistema, taglia, pesa, il sangue di cui sono sporche le sue mani e il suo grembiule si fondono e si sovrappongono con le loro carni in una passione che cresce forte e morbosa.
Alina Reyes riesce a scrivere delle buonissime pagine solo descrivendo i suoni, i colori, i movimenti delle carni trattate sul banco della macelleria e descrive bene la passione sessuale, morbosa, quasi perversa, che cresce nella fantasia e poi verrà soddisfatta, facendo buona letteratura. Posso sicuramente capire che questo libro sia una delle pietre miliare del genere erotico, ma non è un genere che mi abbia appassionato né piaciuto.
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Harry Potter e la camera dei segreti
Secondo capitolo della saga; Harry Potter è al secondo anno di scuola di magia, secondo campionato di Quidditch, continuamente in bilico fra punizioni, premi e rischi di espulsione, scopre di avere ulteriori poteri e si ritrova con i suoi inseparabili compagni, a combattere ancora con le forze oscure di Voldemort. Questo secondo capitolo è profondamente diverso dal primo; non c'è più quell'atmosfera gioiosa e magica di scoperta, la lettura non è stata, come nel caso del primo libro, un magico viaggio nel mondo fantasy, praticamente mai i protagonisti sono divertiti o rilassati. Il treno, il binario 9 e tre quarti, il mondo parallello, il castello che ospita la scuola è già stato scoperto, le case degli studenti, la foresta che lo circonda, i professori e i compagni, le lezioni, tutto è già stato conosciuto nel primo anno/libro. La tensione aumenta e le tinte si fanno cupe. I rischi e i pericoli a cui vanno incontro gli studenti sono molto più alti e alcuni rischiano la vita. Mi è sembrato un capitolo interlocutorio che dice poco di nuovo se si eccettua l'atmosfera completamente diversa, magari andando avanti nella saga scoprirò che non è così. Inferiore al primo ma comunque avvincente.
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La briscola in cinque
Un'immaginaria località balneare, Pineta, nel livornese fa da sfondo ad un delitto; una ragazza ammazzata e gettata in un cassonetto dell'immondizia. Il barista, Massimo, che scopre il corpo è il protagonista e, come in tanti gialli, si scopre investigatore di gran talento che inchioderà il colpevole. Ma il fulcro del romanzo, il luogo dove tutto converge, viene vagliato, commentato, analizzato e chiacchierato è il BarLume. Geniale trovata, spiritosissimo nome, simpaticissimo, per quanto è antipatico, il barista. Passerei in un bar del genere per almeno cinque, sei consumazioni al giorno. Corollario della storia, volutamente a rendere più leggeri i toni del giallo, quattro pensionati, fra cui il nonno del barista, che vistosi sottratti i luoghi classici deputati al trascorrere delle ore dei vecchietti, il bocciodromo, il parco-giochi della pineta, le panchine delle piazze, passano il tempo in un bel bar frequentato da turisti e bagnanti, giocando anche a carte, commentando ogni avvenimento e infarcendolo di sagaci battute toscane.
Marco Malvaldi ci regala un giallo di provincia lineare, senza risvolti storico-politici-del mistero-psicologici; una ragazza morta, qualche sospetto, un commissario che indaga senza averne capacità, un investigatore per caso ed un colpevole perché la vita vera, è sempre meno complicata dei romanzi che cercano di reinventarla e non è vero che un giallo relativamente semplice, più somigliante alla cronaca che viviamo sui giornali tutti i giorni, sia meno piacevole di un thriller pieno di colpi di scena che si succedono l'un l'altro fino allo sfinimento del lettore. La lettura è allietata dalle innumerevoli battute, scritte in livornese che alleggeriscono il clima del racconto (c'è pur sempre un assassino e una giovane morta ammazzata) e risulta molto piacevole.
Metto nella lista “da leggere” gli altri tre libri di Malvaldi.
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Le lettere del sabato
Un altro, ennesimo libro, ma non sono mai abbastanza, che racconta attraverso una piccola storia, la tragedia del nazismo, la guerra, l'olocausto. Lo fa attraverso gli occhi di un bambino, Peter, che perde la mamma da piccolissimo per un incidente e cresce un po' in Ungheria nella villa del nonno, medico, e un po' con il padre, Laszlo, trasferito con lui per un importante lavoro a Berlino alla fine degli anni '30. Un padre che si definisce “nato con la camicia”, giocoso e spensierato, che Peter adora. Dopo la “notte dei cristalli”, con l'intensificarsi della persecuzione verso gli ebrei, Peter, che non sa che la mamma era ebrea, viene rimandato in Ungheria dal nonno, burbero, all'antica e poco affettuoso e l'unico prezioso contatto con il papà rimasto a Berlino è la lettera che ogni sabato il postino consegna e alla quale lui risponde puntualmente fino a che la curiosità del bambino non rivelerà la verità sorprendente.
Il male profondo, Hitler e il nazismo visto e raccontato da Peter, quindi ridimensionato dagli occhi di un bambino che vede Hitler come una persona dall'arrabbiatura facile che urla spesso, le svastiche con lo sfondo rosso belle ma difficili da disegnare e gli ebrei come probilmente persone cattive visto che tutti ce l'hanno con loro. I due argomenti; il nazismo e la mancanza della famiglia, soprattutto del padre, sono i due temi principali che si scavalcano per importanza, si sovrappongono e si fondono e uno sarà la causa definitiva dell'altro in questo breve racconto che vinse un autorevole premio per la letteratura per ragazzi. A mio parere, non al livello ad esempio di “Il bambino con il pigiama a righe”, pur essendo piacevole avrebbe necessitato di un maggiore spessore.
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Harry Potter e la pietra filosofale
Dopo tanta resistenza, dopo aver schivato per anni, anche con un certo fastidio, il viso tanto per benino del “maghetto”, non essendo il fantasy tra i generi di lettura che preferisco, mi sono tolto, con un bel ritardo ma meglio tardi che mai, dalle fila del brutto “Partito del pregiudizio” grazie soprattutto ad un amico che probabilmente una qualche parentela con J.K. ce l'ha.
Dopo anni e anni di recensioni e di critiche positive, dire qualcosa di nuovo su Harry Potter, sul primo libro, o grosso capitolo, della saga, è praticamente impossibile. Posso raccontare la crescente voglia, pagina dopo pagina, di leggerlo alle mie bimbe di undici anni sapendo con convinzione di farle un gran bel regalo oppure raccontare di, come allo stesso modo non mi stupivo e non mettevo in dubbio, quando ero piccolo, che il lupo potesse vestirsi da nonna e mangiare in un boccone Cappuccetto Rosso, così ora non mi sono meravigliato del mondo parallelo a quello di noi babbani, del binario nove e tre quarti alla stazione, della meravigliosa ed esclusiva Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, dei trolls o degli unicorni. “Harry Potter e la pietra filosofale” è stato un viaggio stupefacente di fine settimana in un fantastico mondo magico che ti cattura e non ti lascia uscire se non all'ultima pagina sapendo poi che ritornerai con gli altri libri della saga. Questo primo libro è senza dubbio destinato ad un pubblico di ragazzi, trattando le avventure di un gruppo di undicenni con un linguaggio adatto, ma la trama è ben congegnata e sviluppata con la giusta suspense e colpo di scena finale, nessun particolare è lasciato al caso, il mondo fantasy non solo sta in piedi benissimo, ma sembra... reale. I contenuti sono apprezzabili; la Rowling illustra bene il mondo della quasi adolescenza, le paure ma anche il coraggio, l'amicizia, i primi soprusi, le prime ribellioni e il senso del dovere. Buone anche le caratterizzazioni dei personaggi e soprattutto le loro lente trasformazioni che credo si intensificheranno nei prossimi libri.
Ultima nota tecnica; ho letto l'ultima versione, uscita quest'anno, rivista da Bartezzaghi che nell'ampia e interessante nota iniziale spiega il lavoro di parziale ritraduzione ora che i libri, o mega-capitoli, sono tutti, quindi alla luce dell'opera completa.
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Mr Gwyn
Jasper Gwyn è uno scrittore di successo, in patria e all'estero, ma improvvisamente prende coscienza che non vuole e non farà più lo scrittore. Il caso e la sua comunque incancellabile capacità di dare ordine alle parole, ai verbi, agli aggettivi in modo da creare frasi musicali, incisive, eleganti, il dono insomma dello saper scrivere bene, gli suggeriscono improvvisamente quello che sarà il suo nuovo lavoro: fare ritratti alle persone. Ritratti scritti.
I tormenti di Mr Gwyn, i suoi misteri, la folle e lucida capacità di staccare con la sua vita precedente, di successo, per un progetto visionario, originale, ma come dimostrerà con la sua arte, e la sua capacità di leggere dentro le persone, fattibile, non mi hanno conquistato fino in fondo. Per Baricco ci immedesimiamo in un personaggio immaginario e ci vediamo dentro le storie, e per lui noi siamo tutta la storia, non solo il personaggio e nei suoi libri dietro ogni personaggio e quindi dietro ogni storia c'è lui, lo scrittore che forse tesse il suo ritratto scritto. Alessandro Baricco non è facile e forse non vuole esserlo, sa di essere bravo e ammirato e non ostenta ma fa capire che ne è consapevole, però non credo che sia vero, come si legge spesso, che o si ama o si odia, nei miei gusti rimane nel limbo. Sono pregevoli i caratteri dei personaggi, profondi, veri, tormentati e ben descritti i rapporti fra loro. La lettura piacevole e non mancano sprazzi di sottile umorismo. Sicuramente da approfondire andando a leggere i suoi romanzi precedenti.
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La fuga del signor Monde
Chi non ha mai provato il desiderio di scappare, di mettere in atto una fuga, una fuga da tutto e tutti, senza rimpianti e senza dolori e di vivere la vita che sotto sotto, inconsciamente si desidera vivere? Non necessariamente il bisogno è quello di vivere una vita migliore dal punto di vista sociale o economico, no, più semplicemente il bisogno è quello di scomparire lasciandosi tutto alle spalle e ricominciare. Un po' uccidere quello che si è nella vecchia vita e rinascere in quella nuova. Il signor Monde realizza questa fuga, questa sparizione, il giorno del suo compleanno, 48 anni. Non aveva mai pensato alla fuga e nonostante questo non si sorprende della naturalezza con cui lo fa. Lascia una ditta florida di import-export, la sua villa di Parigi, una florida situazione economica, un rapporto di circostanza con una moglie gelida, un figlio con cui riesce a scambiare solo i saluti e una figlia che lo cerca solo per battere cassa, entrambi nati dal primo matrimonio. Scompare da Parigi il giorno in cui nessuno si è ricordato che è il suo compleanno ed approda a Marsiglia, poi a Nizza, rinato, senza baffi, con abiti dimessi e un po' di franchi che si è portato via. Si ritrova immerso subito in un'altra vita, completamente diversa; la conoscenza di una attricetta/entraineuse, un lavoro da contabile in un locale notturno, una misera stanza a pagamento. Un giorno però il destino gli offrirà l'opportunità e forse l'obbligo di rimpossessarsi della sua vecchia identità...
Simenon non eccede in una lirica di alto valore letterario, anzi il suo stile narrativo è asciutto, tutto è crudo, reale, trasparente, ma sicuramente i suoi personaggi sono ritratti mirabilmente dal punto di vista psicologico. La fuga del signor Monde, così improvvisa quanto determinata è anticipata dalla descrizione del suo stato all'interno della famiglia e dalla stanchezza vera e propria del carico dei suoi anni e della sua condizione con quattro pennellate efficacissime così come è altrettanto efficace la descrizione del suo cambiamento finale che apparirà logico e inevitabile.
Un altro apprezzabile romanzo di Simenon ingiustamente associato e conosciuto solo per Maigret.
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Le prime luci del mattino
Cerco di variare le mie letture, ho appena ''scoperto'' Simenon e cercavo qualcosa di diverso; incuriosito dall'enorme successo che hanno i romanzi di Fabio Volo, tra l'altro con una stragrande maggioranza di lettrici, mi sono detto ''vediamo cosa gli fa alle donne'' e dopo aver letto ''Le prime luci del mattino'' la risposta ora mi è chiara: booohhhh!?
La storia non è originale; Elena si trova sposata da anni con Paolo e inizia a chiedersi perché. Non è in una fase di stanca, il rapporto non ha mai toccato vette altissime e improvvisamente ne prende coscienza. Non si sente desiderata, non si sente amata, e quando un uomo con il quale ha rapporti di lavoro la guarda con insistenza, le fa gli occhi dolci e le passa il suo numero di telefono passa in un batter d'occhio nel folto esercito delle donne soddisfatte... da altri. Tutti questo senza che il romanzo ci faccia vivere profondamente un corteggiamento, un travaglio interiore, una svolta personale. Qui inizia una lunga fase di un rapporto basato sul sesso e la quasi pudica, fino ad allora, Elena si trasforma e Fabio Volo rinverdisce il famoso ''9 settimane e mezzo'' facendo sconfinare la storia in un romanzo erotico. Neanche il seguito ed il finale stupiscono per l'originalità. Il tutto è vissuto attraverso la lettura che Elena fa del suo diario a vicenda conclusa commentando e ampliando i ricordi pagina per pagina e il racconto si snoda in modo abbastanza monotono e noioso. Solo le fasi finali acquistano un po' in spessore.
A prescindere da tutto questo, per tutta la durata del libro, leggere emozioni intime e sensazioni erotiche feminili narrate da una donna, sapendo che chi scrive è uomo mi ha fatto sentire continuamente una sensazione ambigua, una distonia. Facendo un esempio terra-terra, mi ha dato come l'impressione di ammirare una bella donna e accorgermi di guardare un travestito.
Chiusa la parentesi. Torno ad approfondire la ''scoperta'' di Simenon....
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Il gatto
Non c'è solo l'amore capace di legare due persone per sempre, indissolubilmente. Anche l'odio può arrivare a tanto. Può essere così forte da rimanere l'unica fonte di sostentamento, così familiare da averne bisogno per autoalimentarlo, così opprimente da riempire subito e chiudere i varchi lasciati dai quali potrebbe altrimenti uscire un barlume di pietà, di tenerezza, di pace. Ci vuole energia per odiare. L'odio prosciuga, invecchia e quando ti rendi conto che la vita sta passando, trascorrendo nell'odio, ti ci aggrappi di più perché è l'unica cosa che ti rimane. Georges Simenon, gran romanziere, rende tutto questo molto chiaro e lampante in un romanzo sicuramente da leggere, breve ma profondo, psicologico, che cattura, di una quiete irreale carica di tensioni.
Emile e Marguerite, entrambi vedovi, sposati in seconde nozze, non giovani, fanno un salto di qualità passando da una vita coniugale fatta di rispetto, ma di indifferenza, di profonde differenze caratteriali e sociali all'odio. Odio reciproco scatenato dalla morte per avvelenamento del gatto di lui, sempre malvisto da Marguerite, unica sospettata e dalla vendetta di Emile; l'uccisione del pappagallo di lei. Da quel giorno, i due non si sono più parlati, comunicano con bigliettini, mangiano, dormono, e fanno vita da soli pur essendo entrambi sotto lo stesso tetto.
Simenon ci propone il punto di vista di Emile e ci offre tutte le sfumature che attraversa la sua anima dall'uccisione del suo amato gatto, dallo choc alla rabbia, dalla determinazione alla vendetta al pentimento, dalla pietà al perdono, tutte però all'interno della passione più grande, quella che le racchiude tutte e le tiene sotto controllo; l'odio, che periodicamente fa sfornare un bigliettino rivolto a Marguerite a ricordarle il suo crimine con due sole semplici parole: “IL GATTO”.
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Esploratori dell'abisso
Un libro consigliatomi con un entusiasmo evidentemente contagioso al punto di farmelo mettere in cima all'elenco dei libri da leggere facendomi commettere un errore. Non è proprio un autore che fa per me. Diciannove racconti che narrano di personaggi, per un verso o l'altro, vicini, o costretti ad esplorare, l'abisso fisico, morale o sociale. Avrei apprezzato questo sguardo negli abissi del genere umano, ma i baratri di Vila-Matas non mi sono sembrati poi così profondi. La scrittura è elegante e riesce anche ad acquisire sfumature comiche nonostante i racconti narrino di solitudini e tristezze, ma è un libro che ho faticato a terminare.
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L'addestratore
Jeffery Deaver, per la prima volta nella sua lunghissima scia di romanzi, usa un io narrante protagonista; il funzionario Corte che fa parte di una agenzia di sicurezza governativa che ha come unico scopo la protezione di testimoni o comunque di soggetti in possesso di informazioni chiave. Henry Loving un cacciatore di informazioni professionista, che in passato uccise l'addestratore di Corte, è stato assoldato da una misteriosa “fonte” per estorcere informazioni ad un poliziotto che ora, con la sua famiglia, è sotto protezione di Corte ed i suoi uomini. Corte, appassionato di giochi da tavolo e di società, ingaggia un duello con Loving e i due sono ora cacciatore e ora preda in un continuo altalenarsi di mosse e contromosse.
Come al solito Deaver regala una trama complessa e ricca di colpi di scena, un'atmosfera sempre tesa, azioni mozzafiato ma soprattutto tattiche e controtattiche molto curate dal punto di vista psicologico. I protagonisti, nel bene e nel male, dello scrittore americano sono sempre molto intelligenti e prima che il compimento del loro obbiettivo, catturare Loving e scoprire la “fonte” per Corte o rapire il “bersaglio” per Loving, è importante per loro vincere la sfida di intelligenza e psicologia con il loro avversario in una gigantesca partita a scacchi dove pezzi e pedoni sono reali. Il protagonista, Corte, che narra in prima persona, se da un lato dona un punto di vista soggettivo e fa entrare di più nel personaggio principale, dall'altro appanna ed appiattisce gli altri personaggi e toglie imprevedibilità e suspense.
“L'addestratore” è un buon thriller psicologico, superiore alla media, leggo Deaver da sempre, ho tantissimi suoi libri, si rinnova, usa nuovi personaggi, ma a mio parere purtroppo, il livello dei suoi romanzi è sempre un pizzico più lontano dalle prime avventure di Lincoln Rhyme (“Il collezionista di ossa”, “Lo scheletro che balla”, “La sedia vuota”...) fatta eccezione per “I corpi lasciati indietro”.
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Il libraio
Ci sono libri che non vogliono insegnarti niente, non vogliono darti una morale, non hanno un significato recondito tra le righe, non pretendono di fare alta letteratura. Ci sono libri che semplicemente ti accompagnano, ti fanno un po' di compagnia, trasportandoti in un mondo immaginario quanto assurdo ed impossibile magari strappandoti ogni tanto un sorriso. Ci sono libri che ti fanno conoscere qualcuno che una volta terminate le pagine vorresti conoscere per davvero. Regis de Sà Moreria, con Il libraio, ha scritto uno di questi libri. Un libro che parla di libri e di un libraio che li ama, che ha una libreria aperta tutto il giorno e la notte, per tutto l'anno, e contro ogni logica di mercato vende poco a pochi clienti e non fa nulla per vendere di più. Il libraio ha la libreria perché si nutre di libri, di libri e di tisane e dentro la sua libreria transitano persone strane, allegoriche, inverosimili “servite” dal libraio, a volte con uno sguardo, a volte con una frase e qualche volta con un libro. La libreria del libraio vende libri che il libraio ha letto, tutti, e vengono sostituiti solo quando qualche cliente li compra. Al piano di sopra una stanza contiene libri ai quali mancano delle pagine che il libraio ha strappato e spedito ai suoi fratelli, sorelle e ai loro figli sparsi per il mondo senza altra parola aggiunta, e tutte quelle pagine, messe insieme, alla morte del libraio formeranno il libro del libraio. Un inno al libro, alla professione del libraio, all'amore per la lettura.
“Il libraio passeggiò lungo gli scaffali della libreria. Prese a caso un libro da un ripiano. Andò alla prima pagina, iniziò a leggere e sorrise. Eppure non era un libro divertente, anzi, ma quello era l'effetto che i libri facevano al libraio, ed era anche il motivo per il quale era diventato libraio. Quando apriva un libro si sentiva felice.”
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I pesci non chiudono gli occhi
Parafrasando Salinger dico che vorrei avere la possibilità di telefonare ad Erri De Luca ogni volta che voglio, che ne ho bisogno, incontrarlo e farmi raccontare qualsiasi cosa, una storia qualunque, o qualcosa come Il peso della farfalla, o un pezzo della sua vita, come è questa storia qui, davanti un caminetto acceso o in spiaggia la sera, oppure in montagna, davanti ad uno sperduto panorama. Le sue parole cullano, si prendono cura di te, formano frasi, pensieri, che planando piano nell'anima, regalano emozioni. Questo è quello che rimane, che viene fuori con forza alla fine del libro.
Erri De Luca ricorda la sua vita di cinquanta anni fa, di un bambino di dieci anni, in un'estate in vacanza, al mare. Ricorda e narra i suoi ricordi in prima persona, da bambino con un lessico semplice ma efficace. Un ragazzino che subisce il primo grande sopruso e che teorizza la prima idea di giustizia. Il rapporto con i genitori, il padre emigrato negli Stati Uniti alla ricerca di una vita migliore, la madre con il grande dilemma se seguirlo o restare ancorata ai suoi posti e lui che si prende la prima grande responsabilità di dare un consiglio alla madre. Un bambino che sente di essere più grande del corpo che ha, maturo dentro più del suo contenitore, un ragazzino che scopre l'amore per la prima volta nella vita, la sua enorme forza e la capacità che ha di segnare indelebilmente un tempo e renderlo eterno.
“A un bivio ci separammo, sciogliendoci le mani senza la necessità di un saluto. Eva e lo sposo suo, usciti dal giardino, avevano già avuto tutto il bene del mondo. La vita aggiunta dopo, lontano da quel posto, è stata una divagazione.”
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L'indice della paura
Alex Hoffmann è uno scienziato, una mente geniale che si spinge là dove il genio è separato solo da un labile confine dalla pazzia. Relativamente giovane, quarantadue anni, ha dedicato la sua vita alla ricerca di un intelligenza artificiale, un algoritmo che gravita attorno al VIX, l'indice di volatilità dei mercati, detto familiarmente “L'indice della paura”, capace non solo di analizzare dati ma di imparare e correggersi da solo. Hoffmann ha prestato il suo genio all'alta finanza, ha fondato, a Ginevra, la “Hoffmann Investment Technologies” e il software da lui creato lo ha reso ricchissimo e concede guadagni elevatissimi ai clienti indipendentemente dall'andamento dei mercati. Una notte uno sconosciuto viola i complicatissimi allarmi della sua villa e lo aggredisce. E' il primo di una serie di avvenimenti che gli fanno capire che qualcuno vuole distruggerlo, dovrà difendersi e combattere contro un nemico sconosciuto tanto potente quanto invisibile non senza la paura di essere lui, la sua mente, il nemico di se stesso.
Robert Harris mi conquista e sorprende sempre. Dopo una serie di romanzi storici, ci regala un thriller ambientato nel mondo dell'alta finanza e dell'informatica ma che tende a sconfinare nella fantascienza. Descrive da maestro il mercato finanziario mondiale ormai governato da software ed algoritimi, non da banchieri, uomini di finanza, ma da scienziati del bit, matematici, creatori di software sempre più sofisticati ed il rischio è che la creatura sfugga di mano come un moderno Frankestein. Lui in una presentazione, ha definito “L'indice della paura” una “gothic novel”. Tutti gli avvenimenti del romanzo accadono in 24 ore; una valanga improvvisa che aumenta proporzioni ed effetti mentre si sviluppa e che travolge la vita del protagonista così come, pagina dopo pagina, il lettore con una sceneggiatura che strizza l'occhio al film che inevitabilmente verrà tratto dal romanzo.
“La sola cosa che dobbiamo temere è la paura. La paura è l'emozione umana più forte. Chi mai si sveglierebbe alle quattro della mattina perché si sente felice? La nostra conclusione è che la paura sta guidando il mondo come mai prima”
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Gli ultimi giorni di Hitler
1945, la guerra per Hitler è ormai irrimediabilmente persa, solo lui e i suoi fanatici fedelissimi non lo vogliono ancora credere e fino al suo suicidio, il 30 aprile, il solo pensare alla resa era un crimine di guerra, un alto tradimento. Questo libro è il diario, della permanenza nel bunker della cancelleria, a Berlino, di Hitler e i suoi fedelissimi, Eva Braun, sposata il 29 aprile, sua moglie per un giorno, e gli ufficiali più alti in grado della Wehrmacht interpellati più volte al giorno dal fuhrer sull'andamento della guerra nei vari fronti. E' un diario asettico, senza commenti o pareri tenuto, da febbraio alla fine di aprile, dall'unico ufficiale sopravissuto presente nel bunker, Gerhard Boldt, allora giovane primo ufficiale di ordinanza del Capo di Stato Maggiore tedesco, generale Gauderian. La fredda esposizione dei fatti, le riunioni, gli scatti d'ira di Hitler intervallati da momenti di estraneità totale, il terrore che quasi tutti provavano al suo cospetto, la descrizione del tremore del suo braccio sinistro, le sue rughe sempre più profonde e il suo colorito sempre più cinereo fatti da chi ha vissuto gli ultimi giorni assieme a lui, metri e metri sotto terra in un bunker claustrofobico, rendono meglio di qualsiasi commento il livello di pazzia raggiunto dal genio del male, che mentre le bombe dei russi esplodevono sopra la sua testa vagheggiava ancora di vittoria, di nuove armi, di armate che sarebbero accorse alla salvezza di Berlino, completamente avulso dalla realtà, in un mondo, una guerra tutta sua, senza mettere il naso fuori dal bunker per mesi e mesi per non vedere la realtà; il cumulo di macerie che era ormai Berlino e la Germania.
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Il tribunale delle anime
Sandra è una poliziotta della Scientifica di Milano. Giovane vedova, dopo aver perso l'amato David, fotoreporter freelance, caduto da un palazzo in costruzione a Roma. Tra loro la sintonia era perfetta, ma perché le aveva detto invece di essere a Oslo? Sandra indaga, si trasferisce per qualche giorno a Roma e viene invischiata in una misteriosa serie di vendette perpetrate ai danni di criminali che la legge non era riuscita a punire. Qualcuno indirizza i parenti delle vittime verso i veri colpevoli. Sandra non è sola in questa indagine, un misterioso individuo, Marcus e un poliziotto dell'Interpol incrociano le loro strade e i loro destini, portando a galla un mondo segreto, nascosto, fatto di cambi di identità, individui reali ma inesistenti, confessioni, pentimenti, assoluzioni e... vendette.
L'intero romanzo di Carrisi conquista il lettore dalla prima all'ultima pagina. Le atmosfere create sono così tese che mentre leggevo un passo particolarmente elettrizzante sono letteralmente sobbalzato alla vibrazione del mio cellulare (...e la mia mano è corsa da sola verso la fondina della pistola... Si trova scritto così, spesso, però io non ho la pistola). Il personaggio di Sandra, la sua evoluzione nell'elaborazione del lutto è ben riuscito, investigatrice razionale, che si compensa e contrappone alla figura di Marcus, istintivo, veramente attraente. Affascinanti le teorie sul male... Le storie attraversate che insieme formano questo bel thriller sono tante, diverse fra loro, vengono proposte a capitoli alterni, con salti temporali, e all'inizio, come spesso accade sembra di non capirci niente, poi ogni tassello va mirabilmente al suo posto e alla fine tutto è chiaro. Con ognuna di essa si potrebbe scrivere un romanzo a sé, i colpi di scena sono tanti, e quasi nulla è così come sembra, ma, e questa secondo me è anche la pecca; la carne al fuoco è veramente tanta, forse troppa, e alla fine rimane quasi una percezione di forzatura e di inverosimile.
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La manomissione delle parole
Le parole sono importanti, servono ad esprimere quello che pensiamo, i nostri stati d'animo, chi riesce a far buon uso delle parole, ha un grande potere, saper comunicare bene è forse oggi la caratteristica più ricercata. Comunicare bene non significa dire cose giuste o verità incontrovertibili; purtroppo si possono comunicare bene verità di parte, interpretazioni, o peggio ancora falsità e una menzogna comunicata bene, nei media moderni vale più di una verità espressa male. Allo stesso livello di importanza è il cambiamento di significato che si può far assumere ad una parola, la manomissione. Questo libro analizza il significato vero di cinque importanti parole: Vergogna, Giustizia, Ribellione, Bellezza, Scelta e la manipolazione che se ne fa. Gianrico Carofiglio dice che per lui la stesura del libro è stato un gioco, in realtà “La manomissione delle parole” è un saggio. Un saggio ben fatto, scorrevole, non troppo impegnativo, ma abbastanza esauriente sul significato di quelle cinque parole, sulle manipolazioni che ne fa il potere a suo uso e consumo e soprattutto su quanto non sia facile accorgersene. Si parte da un'analisi lessicale e ci si ritrova, in maniera naturale, fisiologicamente, a leggere un saggio sul malgoverno e sull'uso ad personam che viene fatto del potere politico in Italia. I riferimenti “bibliografici” sono sorprendenti e inusuali; da Aristotele a Bob Marley, Primo Levi e Don Milani.
Dopo aver conosciuto il Carofiglio romanziere/giallista, eccone l'apprezzabilissima versione saggista.
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La traccia dell'angelo
Natale 1955, raccolti intorno al semplice focolare della vigilia, così com'erano semplici le vigilie di allora, Morfeo, otto anni, attende il momento in cui scarterà i suoi pochi regali, ma la pesante persiana di legno decide che proprio quello è il momento di avere la meglio del cardine vecchio e arruginito e piomba in testa al piccolo. Quella forte commozione celebrale gli sarà sempre vicino provocandogli negli anni a venire insonnia e malori diagnosticati malamente in epilessia e Morfeo adulto sarà costantemente accompagnato dalle medicine che lo porteranno all'assuefazione e alla dipendenza. Veglierà su Morfeo, Gadariel, un angelo “cattivo” perché ribelle e Elpis, un angelo bianco.
“Un angelo non c’è sempre. Se no non è un angelo. La sua prerogativa è che qualche volta arriva e qualche volta ti abbandona. Non sapere mai se arriverà, ecco l’essenza, ecco la traccia dell’angelo.”
Lo Stefano Benni al quale siamo abituati, visionario, onirico, tra reale e surreale, che attacca l'enorme potere, spesso criminale dell'industria farmaceutica. Ci offre personaggi grotteschi, caricaturali e una doppia versione di angeli; un angelo ribelle, cattivo e un angelo buono, che pensa che “il bene è sempre una goccia più del male. Tu devi coltivare quella goccia, spera che quella goccia venga da te.....”
Un romanzo breve che purtroppo non è riuscito a catturarmi e a darmi quelle emozioni che ricevo da sempre dai libri di Benni. Anche l'ironia dissacrante, pungente ed esplosiva dei suoi precedenti racconti non è presente e la sua prosa, colorata, piacevole, non è bastata purtroppo a farmi apprezzare questo libro.
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La settima onda
Emma e Leo continuano il loro scambio epistolare, con alti e bassi, con intervalli, tra una mail e l'altra, da brevi, da chat, a molto lunghi, nei momenti di crisi. Il loro rapporto conosce momenti molto brutti, a volte la parola “fine” sembra essere definitiva, a volte la vita “vera”, il marito di lei e la nuova fidanzata di lui, prende il sopravvento, ma alla base c'è la tenacia di entrambi di non mollare, la voglia, il desiderio di condividere con l'altro non solo parole su carta, anzi su schermo, e di trasformare il loro rapporto da virtuale a reale. Continuiamo a vivere tutto attraverso mail, la ricerca dell'incontro reale, i motivi che e se lo faranno saltare, quindi c'è la preparazione e l'attesa del “prima” e i commenti al “dopo”, quando attraverso le loro mail si capisce come è andata. Indubbiamente molto originale.
A Daniel Glattauer posso ascrivere diversi meriti; l'originalità della forma, l'essere riuscito a scrivere due libri con la stessa coppia, con lo stesso rapporto di mail, concernenti un lasso di tempo di due anni e mezzo (!), risultando comunque credibile e quasi mai noioso, essere stato romatico ma anche ironico, aver dato risalto ed importanza alla parola scritta e a quanto sia difficile ma bello far nascere, crescere e coltivare un rapporto solo con la forza delle parole, senza mediazione del linguaggio del corpo e di aver dimostrato che tecnologia, e-mail o chat o sms non devono significare per forza “k” al posto dei “ch”, o “x” al posto di “per”.
P. s.: Un mio amico, vedendo questo libro, mi ha detto: “Ma cosa leggi?! Questa è roba da donne.” Potevo rispondergli che visto che la buona maggioranza dei lettori sono donne, allora dovremmo dedurne che il libro in genere è “roba da donne”. Un libro che tratta i sentimenti fra uomo e donna, l'amore, o comunque un libro celebrale diventa automaticamente “da donna” come se gli uomini non fossero parte di tutto questo. Come se facessimo numero mettendo ragione e lasciando all'altra metà quello che è sentimento. Non userò più, come ho fatto anche io in passato, quella definizione.
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Il gabbiano
Un solerte funzionario del Ministero a Budapest riceve una giovane donna e questa visita lo sconvolge perfino più del documento che ha appena finito di redigere, quello che attesta l'entrata in guerra, nella seconda guerra mondiale, dell'Ungheria; la donna è la copia perfetta di quella che lui aveva amato, morta suicida anni prima. Aino Laine, così si chiama la donna, è finlandese, venuta da lui per un permesso di soggiorno, ma una semplice visita per una funzione burocratica si allungherà in una serata all'Opera e poi in una lunga notte di pensieri e ricordi dove altre verità e altre facce dei due protagonisti verranno a galla perché tutto non è mai così chiaro come appare.
Leggere Sandor Marai non è semplice, ma anzi è faticoso ed impegnativo. Un romanzo lentissimo, con il tempo dilatato, che non dà nel finale tutte le risposte che il lettore chiede e probabilmente cercare di capire fino in fondo questa storia folle, ma lucida, i suoi personaggi inquieti, delineati volutamente con tratti di acquarello che non lascia intravedere bene il profilo, non è il modo migliore per godersi questo grande scrittore ungherese. Occorre lasciarsi andare e allora in un solo attimo ci si ritrova magicamente nel freddo inverno di Budapest, nell'atmosfera tesa dei giorni immediatamente precedenti la guerra, nella precarietà di un destino che non si sente nelle proprie mani e contemporaneamente si sente la forza e la voglia di esserci quando tutto sarà finito. In tutto questo Marai è un maestro. Un romanzo che, nei lunghi monologhi, diventa a volte quasi un saggio, sull'amore, sulla giovinezza che se ne va, sul destino che ha fatto le sue scelte senza interpellarci.
“Un giorno mi risponderai. Perché i prodigi esistono, ormai lo sai anche tu, e le persone un giorno si incontrano. Le persone, tu e io e forse anche quelle masse nebulose chiamate popoli, che al di là di ogni furia e passione si cercano l'un l'altro e cercano il loro posto nel mondo... all'epoca delle migrazioni oppure oggi, e talvolta in maniera spaventosa e ripugnante come adesso, e in bizzarre tenute, in uniforme o in pelliccia color crema e abito da sera nero... E il tutto è diretto da una mano invisibile.”
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Tutto quello che gli uomini...
Cosa sanno gli uomini delle donne? 128 pagine di niente! Questo libro è un comodo, piacevole, simpaticissimo block notes, in attesa di prendere qualche appunto e iniziare a riempire le pagine. Secondo me l'ha pensato una donna. Piena di sè e con una storia colma di insuccessi con l'altro sesso che, ideando questa cosa, dimostra lei per prima di non sapere niente degli uomini.
P.s.: scusatemi, questa logicamente non è una recensione, ma il "libro" è talmente simpatico e provocatorio che mi piaceva segnalarlo e... provocare a mia volta. Un bel regalo da fare per.... litigare con qualche uomo! :-)
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Mr Wallaby
Mr Wallaby è un avventore di un bar, ma non parla, non consuma, nessuno lo nota, se ne sta lì, appoggiato al bancone ed è testimone silenzioso delle storie, delle vite che scorrono e che attraversano incatenate la storia del bar; il Consiglio comunale che delibera la costruzione di un enorme traliccio in pieno centro, l'ospedale che per proteggersi dalle radiazioni del traliccio dà l'incarico ad un pittore di imbiancare la facciata con una vernice a base di piombo, il pittore che muore per le esalazioni velenose e finisce in una specie di Paradiso che è stato privatizzato e venduto ad una multinazionale dell'hamburger....
Non è semplice seguire le storie che Lorenzo Badia intreccia in questo libro; l'allegoria ed il surreale sprizzano da tutti i pori di questo racconto alla ricerca di una comicità che stenta a decollare. Protagonisti strampalati, allucinati, irreali descritti con un lessico fin troppo condito. Un racconto dal quale si fa fatica ad estrarre un messaggio, un significato, e che onestamente non sono riuscito ad apprezzare.
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Liberazione
A Budapest è la fine del 1944, l'Armata Rossa è alle porte della città e si appresta a stringere l'assedio. Erzsébet ha venticinque anni, ha trovato un nascondiglio per il padre, uno scienzato ricercato dal regime ed essendo sua figlia è costretta a vivere sotto falsa identità e ora si appresta a trascorrere le quattro settimane di assedio nello scantinato del suo palazzo assieme a decine di altre persone in condizioni di vita al limite della sopportabilità, in una promiscuità buia fatta di odori di cucina, di altri corpi maleodoranti, di una latrina comune a tutti, respirando il respiro altrui e condividendo persino gli incubi notturni di chi è costretto a dormire di fianco a te. E Erzsébet aspetta qualcosa: la liberazione. Tutto questo finirà, Erzsebét ci crede, ci vuole credere, la guerra e l'assedio dovranno finire e la vita tornerà quella di una volta. I russi, dipinti dal regime come mostri, giorno dopo giorno hanno cambiato aspetto nei pensieri degli assediati e ora vengono visti come i liberatori, Erzsébet aspetta di vederli entrare nello scantinato e sa che questo significherà la fine della guerra. Ed ecco finalmente arrivare il primo soldato russo...
Sandor Marai dipinge magnificamente i dolori e le sofferenze della sua città sottoposta ai bombardamenti americani, assediata dai russi e tiranneggiata fino all'ultimo giorno dai fascisti al potere. Ricco di dialoghi curatissimi e di riflessioni profonde, viviamo Liberazione assieme a tutte quelle persone nascoste. E' un romanzo lentissimo come può essere lo scorrere del tempo in uno scantinato di una città sotto assedio, triste come il carico di sofferenza che ognuno dei protagonisti si porta dentro, colmo di speranza di un futuro migliore così come piena ne era Erzsbét, ma con un sottofondo latente di un pessimismo ineluttabile che, come Marai intuiva nella stesura nel '45 del romanzo e fa vivere simbolicamente alla protagonista, troverà una grigia conferma nella realtà del dopoguerra.
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Il signore delle mosche
In un tempo non precisato, con il mondo in balia di un conflitto, un aereo precipita in un'isola tropicale deserta e i soli superstiti sono bambini. Con incredibile disciplina e senso democratico, facendosi forti di essere inglesi, si organizzano eleggendo un capo, organizzando assemblee, distribuendosi compiti in quello che a loro sembra un paradiso tutto per loro, senza adulti, nell'attesa di essere salvati. Ma tutto questo dura poco.....
Il bene trionfa sempre sul male? I bambini innocenti e puri trasformati poi dalla vita? Per William Golding non è così. Nel suo romanzo d'esordio, grande successo mondiale che non riuscì più a replicare, il male è insito nell'uomo sin dalla più tenera età. L'autore sceglie per protagonisti proprio dei bambini per dimostrarlo e questi ragazzini, dopo una breve parentesi iniziale, perdono tutta la loro civiltà e liberano i peggiori istinti regredendo ad uno stato selvaggio e non per soddisfare i semplici bisogni primari ma solo per dimostrare la loro superiorità e per placare la loro sete di violenza. La paura dell'ignoto (una bestia inesistente) e una forte leadership (non importa quanto nel giusto) bastano per far emergere gli istinti primordiali e per compattare tutto il gruppo verso una deriva sanguinaria che ogni singolo aborrirebbe. Un messaggio attualissimo questo di Golding; sappiamo che se al posto della bestia dell'isola mettiamo ad esempio lo straniero, o il terrorismo, un forte capo di stato può creare nemici anche dove non esistono e guidare interi popoli verso guerre assurde e devastanti.
Il romanzo, anche se scritto con una prosa un po' troppo elaborata a volte, siamo negli anni cinquanta, è coinvolgente e trascina il lettore in un incubo che cresce pagina dopo pagina. Il finale, Deus ex machina, poteva anche essere diverso, ma non ha poi grande importanza visti i tanti spunti e significati che ha offerto il romanzo. Non può mancare in una libreria.
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L'occhio del lupo
Un giardino zoologico ed un lupo, Lupo Azzurro, un lupo in prigionia che ha da poco perso la compagna, indifferente a tutto quello che gli sta intorno, un lupo con un solo occhio, l'altro sempre chiuso, l'ha perso nello scontro con l'uomo che gli ha tolto la libertà. Davanti la sua gabbia si ferma Africa, un bambino che a differenza degli altri, lo fissa, per ore e ore, per giorni, senza far niente mettendolo un po' a disagio, poi, un piccolo grande gesto; anche il bambino chiude un occhio e rimane a fissare il lupo anche lui con solo occhio. Ed ecco creata una speciale empatia fra i due ed entrambi nel fondo del loro unico occhio vedono, scoprono, si raccontano quella che è stata la loro vita fino a quel giorno.
Un romanzo per ragazzi, che Daniel Pennac ha dichiarato sia quello a cui più è legato, una storia delicata, scritta per un lettore sensibile. Una storia che racconta solitudini, vite ed esperienze, del lupo, del bambino, di altri animali, storie tristi, ma che si sommano fra loro, si fondono e terminano tutte nel giardino zoologico in un finale che triste non è. Una piccola grande storia di amicizia, tolleranza ed empatia. Un insegnamento a superare le difficoltà, a rimettersi in gioco senza perdere la propria identità, un incoraggiamento all'aiuto verso gli altri perché è soprattutto il più grande aiuto che si può fare a sé stessi. Una poesia che mi ha confermato quanto sia importante la letteratura che erroneamente cataloghiamo “per ragazzi” e ancora una volta che è fondamentale non dimenticarsi mai di far venire fuori ogni tanto il bambino che è in tutti noi.
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Biancaneve deve morire
Cerco di variare il genere delle mie letture e dopo Ginzburg e Burgess cercavo un thriller e non volendo tuffarmi nel mare di gialli scandinavi che ci hanno invaso sono stato attratto dalla copertina e dal titolo di questo libro: “Biancaneve deve morire” che già qualche sensazione distonica la dà, poi le goccioline di sangue su di un immagine simbolo della tranquillità come il gallo segnavento di un campanile... Inoltre la fascetta recita: “275 giorni numero uno in amazon.de 400000 copie vendute in Germania”. Detesto le fascette e cerco di non dargli peso, ma indubbiamente una qualche influenza ce l'hanno anche perché se ci fosse stato scritto “Flop editoriale. Solo 100 copie vendute nel paese d'origine” qualche dubbio in più se prenderlo o no l'avrei avuto. Quindi un thriller, testualmente: “che tiene avvinto producendo tensione e suspense”. In questo caso, definizione azzeccatissima e ...grazie alla fascetta! Letto in due giorni. Con tanti saluti al resto del mondo, sono sparito in questo piccolo paese perduto fra i monti tedeschi, Altenhain, trepidando per Tobias, maledicendo le piccole comunità chiuse, ipocrite e perbeniste, ammirando Pia, la detective e sentendomi in piena solidarietà con il suo comissario capo per le vicissitudini che leggerete. Insomma, rapito, coinvolto, thrillereggiato! Una scelta azzeccata, peccato che sia finito.
E….. andare qualche giorno in vacanza a Althenain? :-)))
Beh, un commento poco ortodosso, sarà il caldo.... per chi voglia una “recensione” più seria, eccola qua:
Tobias Sartorius esce di prigione dopo aver scontato una pena di dieci anni per aver ucciso due sue coetanee. Tobias, all'epoca minorenne, non ricorda quasi nulla di quella sera, era ubriaco, c'era una festa nel paese, ma si è sempre proclamato innocente. Il processo fu indiziario e i corpi delle due ragazze non furono mai trovati. Al suo ritorno ad Altenhain, il piccolo paese in Germania, scopre che oltre la sua vita anche quella della sua famiglia è stata devastata; la madre se n'è andata, il locale del padre, Il gatto nero è chiuso, parte delle loro proprietà sono state vendute e il resto è in rovina. La piccola comunità ha fatto pagare le colpe del figlio alla sua famiglia e il suo ritorno in paese farà l'effetto di un sasso gettato in uno stagno portando a galla misteri, orrori, colpe, sepolti da una coltre di perbenismo e ipocrisia.
Nele Neuhaus costruisce una vicenda avvincente, complessa, profonda e ricca di colpi di scena con personaggi ben delineati con le loro vite che si snodano al di là di quello che è il sentiero narrativo attinente al romanzo, come succede nella vita. Ambienta la storia in un piccolo paese fra i monti della Germania, e lo descrive benissimo, un mondo chiuso in sé stesso, una piccola comunità che fa quadrato per difendersi, per non cambiare, per non permettere che niente possa scalfire il loro status, i loro punti fermi, le loro certezze anche se in quel duplice omicidio di certo non c'è niente. Una narrazione avvincente, incalzante che non consente divagazioni, non lascia prendere pause e regala tensione. Solo, a mio parere, i troppi colpi di scena finali non gli fanno raggiungere il massimo dei voti.
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Arancia meccanica
Alex è minorenne, conosciuto dalle forze dell'ordine e già passato per il carcere minorile. E' il capo di una piccola banda di violenti, lui ed i suoi “soma” sono dediti con piacere a pestaggi immotivati, violenze sessuali, risse, rapine. A coronamento della sua carriera arriva anche l'omicidio, e il carcere. Il governo del paese ha il progetto di estirpare la violenza dalla società e Alex viene sottoposto ad un lavaggio del cervello e condizionato al rigetto della sola idea di violenza. Alex non avrà più la possibilità di scegliere, sarà ''buono'' per forza.
Il sentimento che fa scaturire Alex attraverso il suo racconto in prima persona, con il suo slang giovanile, spesso difficile da decifrare, è la pena, una triste pena. Alex non sceglie nella prima parte del romanzo; è violento, sempre e comunque, conosce solo quella lingua, e come tutti i violenti, fa pena, e non sceglie dopo il condizionamento; è per forza buono, non può decidere se fare bene o male, può fare solo bene, un docile automa che fa pena. La stessa musica che lui ''ama'', la classica e Beethoven in particolare, gli stimola violenza e dopo il condizionamento, non riuscirà più ad ascoltarla; privato anche di questo. Anthony Burgess, attraverso il racconto di Alex, ci pone davanti ad una scelta e non la rende facile; o un Alex socialmente pericolosissimo, stupratore ed assassino o un Alex automa, condizionato ad essere sempre inoffensivo. Se dovessi per forza scegliere, forse, per il bene della comunità, sceglierei il secondo, ma un governo, una società che possa, per legge, condizionare le scelte della persona fa orrore. Burgess, con questo romanzo, non esalta la violenza, peraltro scritto 40 anni fa, oggi è surclassato per litri di sangue da qualsiasi romanzo noir, ma pone l'accento su quanto possa essere pericolosa una società che condizioni le scelte degli individui. Accostabile a 1984 di Orwell, e forse a Fahrenheit 451, Arancia meccanica mina la fiducia incondizionata nel governo e nella giustizia. Un romanzo sempre attuale.
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La strada che va in città
Delia, vive in un piccolo paese, in una famiglia povera e sogna una vita migliore. Il traguardo, che è anche un punto di partenza, per lei, è la città. Ogni giorno, Delia prende la strada che va in città, per respirare benessere, per guardare negozi, bella gente, dimenticare la povertà della sua famiglia della quale si vergogna. In questo racconto, ci sono gli anni che hanno cambiato la vita di Delia che lei stessa, attraverso la memoria, ricorda e analizza. Gli eventi che le sono passati accanto, per lei, a volte, incomprensibi e ineluttabili. Delia cerca il matrimonio d'interesse, forse con ingenuità, ma alla fine con determinazione e scoprirà quando sarà ormai troppo tardi, che il vero amore è un'altra cosa.
La strada che va in città è il primo romanzo di Natalia Ginzburg. E' uno sguardo impietosamente realista di quelle che già, decine e decine di anni fa, erano giovani vite allo sbando che nel mare della povertà e dell'ignoranza cercavano un approdo nella spiaggia della tranquillità economica, all'ombra del rispetto dato dallo stato sociale. Natalia Ginzburg non dà nessun giudizio etico e morale e fa uscire dalla bocca di Delia, con un lessico appositamente semplice, acerbo, ma immediato e molto efficace il racconto della sua arrampicata sociale, riuscita con l'esempio da emulare, costante davanti agli occhi, della sorella più grande, da tempo sposata, con casa in città, due figure femminili che, agli opposti all'inizio, una ingenua e quasi vittima, l'altra scaltra, disinibita, “arrivata”, finiscono poi per essere simili e sovrapponibili. Sicuramente da leggere.
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Niente, tranne la pioggia
Dalla Moldavia all'Italia del Nord, Bergamo. Allettate dalla promessa, dalla prospettiva di un lavoro, di una vita vera, normale, speranzose di fuggire la miseria che da sempre è la loro compagna, si ritrovano rapite, violentate, costrette a prostituirsi, in strada. Se sono brave, dopo qualche tempo possono ambire ad una posizione più elevata; escort. Una parola che da noi ha acquisito un sapore esotico, pruriginoso, quasi nobilitata viste le avventure del nostro Presidente del Consiglio. In realtà sono schiave. La moderna tratta delle schiave produce soldi, una montagna di soldi e una scia nauseante di crimini in una joint venture a delinquere formata da criminali moldavi, mafia slava e italiana. Vasco Lubrano, sovrintendente capo della Polizia Giudiziaria di Bergamo deve indagare sulla morte di una ragazza, trovata a pezzi in un sacco della spazzatura, prostituta moldava. Il suo senso estremo della giustizia gli impone di indagare a fondo, anche se per molti la vita di una prostituta clandestina moldava non è poi così importante. In un crescendo di violenza, sarà assassinata un'altra prostituta moldava e un libraio. Gli omicidi sembrano collegati fra loro....
Un noir.... nerissimo, crudo, non risparmia nessun orrore al lettore. Coinvolgente, è vivere un incubo intraprendere il viaggio dalla Moldavia a Bergamo insieme alle ragazze rapite, nella parte iniziale del romanzo. Un ritmo lento, riflessivo, con brusche accelerate, con il protagonista, Vasco Lubrano, un personaggio profondo, ben delineato che si sente come il criceto Campbell che corre, corre, dentro la ruota che però non lo porterà mai da nessuna parte. Un ritratto di Bergamo, di un certo nord Italia e di una certa classe politica, che non fa sconti a nessuno, scomodo quanto reale, grigio e... piovoso. Un romanzo condito da una bella colonna sonora, tanti sono i riferimenti a bei pezzi della musica pop e rock.
Occorrerebbe “sentire” nel profondo il disprezzo per l'uso che si fa, in tanti campi, del corpo femminile come merce, come “cosa” sempre ammiccante e pronto all'uso sessuale. Non si sente... niente, tranne la pioggia.
Grazie a Qlibri per avermi dato, attraverso Sergio Paoli, l'autore, l'opportunità di leggere questo libro.
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Il negoziatore
A New York, i funerali della moglie dell'ex presidente degli Stati Uniti si trasformano in un eccezionale sequestro di decine di partecipanti; politici, personalità del cinema e dello spettacolo sono tenuti in ostaggio da parte di un gruppo di rapitori/terroristi armati, spietati, organizzatissimi, all'interno della cattedrale di San Patrizio. I contatti con i rapitori, per le trattative, sono in mano a Michael Bennett. Michael sta attraversando il periodo più brutto della sua esistenza; la sua amatissima moglie è in ospedale, malata terminale, con pochi giorni di vita, ma per negoziare con abilità e freddezza deve dimenticare che sta perdendo la cosa più preziosa che ha.
James Patterson, “l'autore di thriller più venduto nel mondo”, ci propone un'idea sicuramente non originale, il negoziatore già pieno di problemi personali, che deve far ricorso a tutta la sua freddezza per trattare proficuamente con i rapitori e cercare di salvare delle vite. Il personaggio di Michael non esce poi così profondo e complesso, i cattivi sono proprio cattivi, senza cedimenti, e gli ostaggi, ricchi e famosi, con la minaccia di morte sotto il naso, non sono poi così sconvolti. Si poteva offrire di più, ma nel complesso il libro tiene attaccati alle sue pagine. Patterson è bravo ad attingere a piene mani nei “classici elementi” che siamo abituati a conoscere da anni e anni di libri e film dagli States; Fbi, NY Police Department, ultimatum e corse contro il tempo, The Big Apple e le sue contraddizioni, violenza, azione. Piacevole svago.
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L'ultima eredità
Matilde non è più in fuga dai ricordi del passato, si è stabilita ad Orvieto ed è ormai inserita nella piccola comunità e anche in questo secondo libro deve risolvere un piccolo giallo; qualcuno scava nel cimitero della cittadina, ma anche in quello di guerra e perfino nella necropoli etrusca. Non profanazioni ma buche vicine alle tombe. Chi è e cosa cerca il misterioso scavatore? La risposta viene dal 1944, dalla seconda guerra mondiale.
Avevo apprezzato il primo libro, “La libraia di Orvieto”, purtroppo questo secondo volume della “serie” non è all'altezza del primo e non soddisfa le speranze che aveva suscitato. Il “giallo” è veramente poca cosa, i personaggi già introdotti nel primo libro sono impalpabili, l'ironia sconfina nel grottesco, i drammi del passato di Matilde, la protagonista, vengono accennati in poche righe e continuano a non essere affrontati non donando spessore al personaggio che invece è interessante e meriterebbe. Aspetto il terzo libro, secondo me la libraia di Orvieto merita un'ulteriore chance.
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La scrittrice criminale
Marina è “La scrittrice potenziale”, con enormi aspettative e ambizioni di alta letteratura. Ha pubblicato un libro con piccoli racconti che ha incontrato i favori del pubblico e ora è sotto contratto con un editore che questa volta si aspetta un romanzo, così come i conoscenti che la incontrano, i parenti, gli amici, ma lei è pericolosamente, da tempo, terrorizzata davanti la pagina bianca e ormai è talmente in ansia che esce solo di sera a passeggiare il cane quando è sicura di non incontrare nessuno e si consola a vicenda con un amico di Facebook mai visto, anche lui scrittore, non ancora pubblicato. Finalmente ha l'idea che potrà salvarla: scriverà un mega romanzo che ricalchi nientemeno che i Promessi sposi in taglio moderno, rosa/piccante! Il successo arriva ma Marina ora è “La scrittrice dozzinale”. Beh, per l'alta letteratura ci sarà tempo...
Marina Morpurgo, come definirla, “La scrittrice umorista”? Con questo breve romanzo mi ha proprio divertito, il sorriso accompagna la lettura di ogni pagina, una costante umoristica in un'escalation surreale di situazioni che si avvitano sempre più verso il finale col botto! Un personaggio quello della “Scrittrice potenziale/dozzinale/criminale” divertentissimo, forse un po' autobiografico. Paragrafi molto corti, comicità secca e molto particolare. Molto piacevole.
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La cena
Due fratelli e rispettive mogli della media borghesia olandese, Serge candidato primo ministro alle prossime elezioni e suo fratello Paul, che è la voce narrante, si ritrovano a cena in un ristorante molto esclusivo per discutere del futuro dei loro figli e quello delle rispettive famiglie, infatti Michael e Rick, i figli sedicenni, hanno picchiato e ucciso una barbona “colpevole” di dormire dentro una sala Bancomat.
Tra perentesi la rivelazione dell'omicidio avviene dopo circa 100 pagine, più di un terzo del libro, ma è nel retro copertina e su tutti gli articoli che parlano di questo romanzo, impossibile non saperlo prima di iniziare a leggere, cosa che mi ha dato fastidio.
Durante questa lunghissima cena i quattro genitori dei piccoli assassini dovranno decidere come comportarsi; l'omicidio è stato ripreso dalle telecamere della banca e i due non sono stati ancora riconosciuti, forse non lo saranno mai.
Una narrazione pesante, lenta, lunghissime descrizioni dei piatti, del maitre, abbastanza fini a se stesse, intervallate però da buoni flashback in cui Paul si scopre sempre più personaggio inquietante e assieme a lui, gli altri attori della vicenda si trasformano, dal punto di vista psicologico, sotto i nostri occhi. Herman Koch tralascia accuratamente di farci conoscere il pensiero dei ragazzi; il vero nodo del romanzo è lo “sconquasso interiore” dei genitori.
Un romanzo politicamente scorretto, provocatorio, fa riflettere sì, ma che con i tempi che corrono più che una provocazione, avrei preferito leggere una condanna. Con forza.
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Per dare un'opinione compiuta devo per forza parlare del finale. Chi non volesse conoscerlo si fermi qui.
Molto buono il profilo di Paul, il narratore; sembra essere un personaggio positivo, dilaniato dalla notizia e dal dramma interiore e invece, piano piano si scopre e diventa il vero protagonista oscuro della vicenda. Seri problemi psichiatrici, una propensione naturale alla violenza, un teorico della selezione naturale, razzista e convinto assertore della superiorità di menti intelligenti come la sua rispetto alle povere persone comuni in nome della quale poter comportarsi secondo la legge, la sua. Con manifesta soddisfazione scopre di aver allevato un figlio come lui. E la moglie Claire, basso profilo, ma per il bene della famiglia più feroce del marito, disposta a coprire l'omicidio del figlio, con la violenza e addirittura a consentirgli ed ispirargli un secondo omicidio. Serge, descritto come un politico nel vero senso della parola, falso, opportunista, scaltro ma poco intelligente, alla fine, abbastanza sorprendentemente, sarà l'unico personaggio positivo deciso a denunciare il figlio e a rinunciare alla carriera e sarà punito per questo. Babette, la moglie, disposta a tutto per non perdere il suo stato sociale.
Ripeto, vista la pericolosità di questi tempi, per questi argomenti, avrei preferito un taglio diverso; non si può, seppur provocando scorrettamente, assolvere e giustificare come fa questo libro.
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Notte buia, niente stelle
Quattro racconti, quasi quattro romanzi. In “1922”, Wilfred, un agricoltore, pianifica e mette in atto l'omicidio della moglie rea di voler vendere la terra per andare a vivere in città, coinvolgendo e facendosi aiutare dal figlio minorenne. Il racconto più horror dei quattro, raccontato, attraverso una confessione scritta, in prima persona dall'omicida. Bellissima ambientazione nel profondissimo country, tra le due guerre con bellissimi personaggi. Forse il più bello dei quattro.
In “Maxicamionista” una scrittrice di successo viene stuprata e abbandonata perché creduta morta. Si trasformerà da tranquilla scrittrice in cacciatrice di vendetta. Forse il più debole dei quattro, ma con una trasformazione psicologica della protagonista apprezzabile.
Poi “La giusta estensione”; un malato di cancro incontra un venditore ambulante che altri non è che un demone che gli propone un'estensione di vita, in cambio di..... Il classico patto col Diavolo. Qui affiora il paranormale tanto caro al nostro Stephen King.
Infine “Un bel matrimonio”; per caso Darcy scopre un terribile segreto custodito dal marito per tantissimi anni, un segreto che sconvolge una tranquilla, quasi noiosa, ma tutto sommato, bella vita matrimoniale di una coppia piccolo borghese. Con chi ho vissuto tutti questi anni? E ora che fare?
Denominatore comune delle quattro vicende una tranquilla esistenza di persone comuni improvvisamente sconvolta da un evento imprevedibile e irrimediabile e quindi Stephen King avvia magistralmente l'escalation di pazzia, orrore, perdizione o vendetta e salvezza. Un gorgo impietoso, inevitabile che trascina dentro i propri personaggi e noi che leggiamo, non prima di averci comunque profondamente turbato, con la capacità che ha di farci calare nei panni dei suoi protagonisti, a chiederci: cosa farei io?
Non leggevo Stephen King da “La bambina che amava Ton Gordon”, ed è stato come reincontrare un caro amico e scoprire dopo anni che il feeling è sempre quello, acceso, lì sotto la cenere. Non mi mancava lo Stephen King infarcito di paranormale, ma questo, con i personaggi vivi, veri, i dialoghi perfetti, reali, le ottime ambientazioni dove sembra di aver sempre vissuto, il senso di angoscia, di terrore che sale, è una grande riscoperta.
Piacevolissima la postilla dove lo stesso King parla con il lettore e spiega anche come ha pensato a queste storie; dovrebbero metterla tutti gli scrittori.
“....Nei miei lettori voglio provocare una reazione emotiva, quasi viscerale. Il mio scopo non è farli pensare MENTRE leggono...”
Obbiettivo centrato!
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Il cappotto
Pietroburgo, metà ottocento, Akakij Akakievic è un impiegato grigio, mediocre, insignificante, deriso dai colleghi, che ha una sola passione e un solo scopo nella vita: il lavoro. Copiare documenti è tutto quello che sa e vuole fare. Il freddissimo inverno russo gli suggerisce che è ora di cambiare il proprio cappotto, liso, consunto, come la sua vita. Con sacrifici e rinunce mette da parte i soldi necessari e si fa confezionare il nuovo cappotto. La sua vita cambia; si sente più forte e determinato, i colleghi si complimentato con lui, tutto diventa più bello ed interessante, ma non durerà molto; una sera viene aggredito e derubato del nuovo cappotto.
Il cappotto è uno dei racconti Pietroburghesi di Gogol; letteratura russa di duecento anni fa. Una pennellata realista della società piccolo borghese di Pietroburgo i cui personaggi vivono esistenze misere, grigie, dove il possesso di un bel cappotto cambia la propria vita ai propri occhi e a quelli degli altri, dove sei giudicato e valutato per quello che hai, un consumismo ante litteram ancora lontano dall'essere spazzato via dalla Rivoluzione. Il racconto di Gogol sfuma dal realismo della descrizione di Pietroburgo e dei suoi abitanti al grottesco della trafila per la denuncia del furto e dei personaggi dell'apparato burocratico incontrati, al surreale del finale e lo fa attraverso una descrizione tragicomica e satirica della società del tempo. Un racconto piacevole, precursore di tanta letteratura.
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HHhH
La ricostruzione storica dell'operazione Antropoide; l'attentato con cui fu eliminato a Praga il Protektor nazista della Boemia e Slovacchia, Reynard Heydrich, la “bestia bionda”, nel maggio 1942. L'attentato fu organizzato dal governo di Praga, in esilio a Londra, con la collaborazione dell'Inghilterra, tramite due paracadutisti: Jozef Gabcìk e Jan Kubis. Il testo ricostruisce l'ascesa al potere di Heydrich fino a divenire capo del Protettorato della Boemia e Moravia, annesse alla Germania Nazista, il terrore, le violenze, i massacri di oppositori ed ebrei, che gli valsero il soprannome di “macellaio di Praga”, fino alla sua meritata morte.
HHhH (Himmlers Hirn heißt Heydrich, ovvero Il cervello di Himmler si chiama Heydrich) non è un classico testo di storia, né un romanzo storico, ma è la ricostruzione, anche molto ben documentata, dei fatti, stesa però sotto forma di diario dell'autore. Laurent Binet parla in prima persona, commenta le pagine cha ha appena scritto, a volte anche correggendo quello che ha scritto in un capitolo, nel successivo, racconta di come e perché ha scoperto certi particolari, parla della sua fidanzata, riesce addirittra a far dello spirito, magari alternandolo a pesanti insulti verso politici collaborazionisti dell'epoca. Una stesura quindi originale, ma che non possiede né il rigore e il distacco del testo di storia né dà il coinvolgimento e il pathos del romanzo. La storia della Seconda Guerra Mondiale e quella della Germania nazista mi interessano sempre e quindi sono contento di aver letto questo libro abbastanza esaustivo su un episodio che non conoscevo, ma la forma non mi è proprio piaciuta.
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Un padre da film
Un piccolo paese in Cile, Contulmo, un padre che improvvisamente abbandona la famiglia per trasferirsi a Parigi, la sua città d'origine e dei suoi sogni, Il figlio, insegnante, che narra in prima persona, che vorrebbe ritrovare il padre per restituire un po' di vita alla madre. Altri personaggi, tratteggiati in maniera rarefatta, ma concreti, veri. Una fauna variegata, che in quel piccolo paese lontano da tutto rispecchia comunque la società. Una storia con pochi ingredienti ma raccontata con garbo, soavemente. Un breve romanzo incentrato su di un'assenza importante e i tentativi di colmare quel vuoto dall'autore de “Il postino di Neruda”. Piacevole.
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Confessione
E' l'ultimo giorno di scuola, in una media giapponese. La professoressa Moriguchi con il saluto di fine anno annuncia alla classe le sue dimissioni e il suo abbandono dell'insegnamento ed il discorso si fa via via più agghiacciante: la figlia della professoressa, Manami, di 4 anni, morta un mese prima, non è caduta accidentalmente nella piscina della scuola, ma è stata uccisa da due dei giovani studenti di quella classe. La professoressa sa chi sono, non li nomina ma li rende riconoscibili ai compagni, non li denuncerà, ma annuncia freddamente che si vendicherà di loro in modo atroce, la vendetta è già iniziata e le conseguenze saranno lente quanto inevitabili e feroci.
Un tema sconvolgente, una trama originale, uno spaccato crudo e spietato della società giapponese. Atti e dichiarazioni che portano ad imprevedibili risvolti psicologici e reazioni. Confessione ci dipinge una giovane generazione smarrita cresciuta nell'abbandono ed indifferenza come nell'iperprotettività, in ogni caso con forti squilibri psichici e morali. Un romanzo narrato sequenzialmente attraverso lettere, blog e diari e la vicenda prende forma attraverso i punti di vista dei vari protagonisti e si dipana un po' alla volta illuminando sempre più la sconvolgente verità. Un thriller dove è impossibile trovare personaggi positivi, che trasforma i carnefici in vittime e le vittime in carnefici tramutando la ricerca della giustizia in vendetta se possibile perfino peggiore del crimine. Anche se il racconto diretto dalla voce dei protagonisti toglie, secondo me, un po' di suspense e thrilling, il libro rimane comunque inquietante, coinvolgente ed impressionante.
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Passato remoto
L'Avana, primi giorni del nuovo anno, il 1989. Uno stimato ed irreprensibile dirigente di un'azienda legata al Ministero dell'Industria, Rafael Marin Rodriguez, scompare improvvisamente ed inspiegabilmente alla vigilia di un importante incontro con una delegazione giapponese. L'indagine è affidata al tenente Mario Conde, valido quanto tormentato investigatore della polizia cubana che indagherà con sofferenza anche sul suo passato. Rafael è stato infatti suo compagno al liceo e ha sposato Tamara, altra sua compagna di classe, suo grande amore mai confessato. Rafael, il primo della classe, dell'intera scuola, ben voluto e apprezzato da tutti e Tamara che, ancora oggi, quando la rivedrà per interrogarla, susciterà in lui grandi turbamenti.
Leonardo Padura Fuentes ci regala un romanzo affascinante, un noir ambientato in una Cuba che non siamo abituati a conoscere, quella dei primi giorni di gennaio, freddina, piovosa e grigia. Una vicenda che non presenta colpi di scena apocalittici e situazioni adrenaliniche. Una storia che fila via liscia e limpida come i rhum che “il Conde” si concede con molta generosità assieme al suo amico “Magro”. Viviamo tutta l'indagine assieme al protagonista, passo dopo passo, con naturalezza, con un finale logico, quasi scontato ma assolutamente non banale.
Dialoghi molto curati. Tutti i personaggi sono ben caratterizzati, ma è profondo e apprezzabile in maniera particolare quello di Mario Conde, scrittore mancato, poliziotto per caso, introspettivo, intimista, malinconico, al quale questa indagine, mettendolo di fronte al suo passato attraverso le figure di Rafael e Tamara, costringerà a ricordare e ad interrogarsi sulla sua vita, su perché di certe scelte, sul destino che ci guida o sulla possibilità cha abbiamo di guidarlo. Disilluso, ma ancora pieno di speranze e di voglia di vivere.
Nonostante Padura Fuentes abbia da tempo vinto diversi premi letterari e sia un notevole esponente della letteratura contemporanea cubana, per me è stata una scoperta, grande e piacevole.
P.s.: la serie di Mario Conde (quattro romanzi, uno per stagione), è stata stampata per la prima volta a Cuba nel 1991, è stata pubblicata da Tropea in Italia otto anni dopo, nel 1999, e ci può stare, anzi grazie a Tropea per averla scoperta. La domanda che mi pongo ora però è: perché far andare fuori catalogo questa serie e ripubblicarla oggi, dopo 12 anni dalla prima pubblicazione, con una nuova veste editoriale e un prezzo più alto? Non bastava ristamparla? Non sarebbe stato più basso il prezzo di copertina? “Passato remoto”, in brossura, costa 16,50 euro. In rete, la prima pubblicazione, quella del 1999 fuori catalogo, si può comprare scontata a euro 4,88.
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Diario di un killer sentimentale
Un killer, stimato professionista serio e impeccabile sul suo “lavoro” sta commettendo, rendendosene conto, il più grande errore che possa fare: si è innamorato di una donna. Pericolosa distrazione per la sua professione; legandosi a qualcuno e diventando vulnerabile sentimentalmente perderà in solidità. Proprio quando ormai l'errore di innamorarsi è irreversebile e consolidato (al cuor non si comanda, evidentemente anche per un killer), viene mollato; lei si è innamorata di un altro e, guarda caso, nell'incarico che sta lavorando commette dei gravi errori al punto che l'”organizzazione” lo pensiona. Quello a cui sta lavorando sarà il suo ultimo incarico...
Un'idea sicuramente non originalissima, un finale quasi prevedibile, un breve racconto, sette giorni racchiusi in 70 pagine, ma sviluppato con maestria da Luis Sepulveda con ironia, suspence, tristezza, un pizzico di brutalità e eros. Una fiaba per adulti, gialla, noir, che sconfina nel picaresco, che Sepulveda racconta con garbo. Un breve godibilissimo libro rilassante, piacevole coinvolgente e fulminante.
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Commento
Una cena al ristorante per Gaetano e Delia per cercare di sbrigare civilmente alcune formalità burocratiche quanto dolorose in una coppia che non c'è più; a chi i bambini per la fine settimana, l'assegno mensile... E la serata, essere di fronte l'uno all'altra riporta inevitabilmente indietro, ai tanti momenti felici, ma anche alle bassezze, le incomprensioni, ai ma perché è finita, non eravamo speciali, diversi da tutti?
Un amore che finisce, la consapevolezza che è finito, devasta, distrugge anche l'amor proprio. Il senso di fallimento della propria vita, i sensi di colpa verso il partner ed i bambini sono macigni pesantissimi, che tolgono il respiro, chiudono lo stomaco e l'unico sentimento forte che riesce ad uscire è la rabbia che si trasforma perfino in odio. Un odio che fino a poco tempo prima era amore, passione e quindi pure più crudele, pericoloso. Ma c'è uno spiraglio per tornare ad essere felici? Quella vita era bella, era lì, era la nostra. Ma c'è qualcun altro, un ladro, che è entrato a vivere la felicità che era la mia? La solitudine porta alla deriva, agli sbagli. Avevamo bisogno di un aiuto da qualcuno, ne abbiamo bisogno ora, sempre. Nessuno si salva da solo. Mai un titolo mi è sembrato più indicato di questo.
Margaret Mazzantini è una maestra nel descrivere gli stati d'animo di due che si ritrovano, ancora giovani, ma non troppo, a dover già tirare le somme di una vita, ad ammettere che hanno fallito nella cosa che credevano di saper far meglio; amarsi. Amarsi con la convinzione di farlo per sempre, senza mai tradirsi. E' il primo libro della Mazzantini che leggo e qundi non posso fare confronti con i precedenti, non ho pregiudizi e non avevo aspettative; mi è piaciuto molto, mi ha colpito, toccato qualche nervo scoperto, messo al tappeto e fatto rialzare. Nessuno si salva da solo è un romanzo, doloroso, che fa male, con personaggi veri, sembra di conoscerli. Uno stile, secco, concreto, molto volgare al punto, all'inizio, di dar quasi fastidio, salvo poi accorgerti con lo scorrere delle pagine che forse è proprio quella la lingua da usare. Lo consiglio vivamente.
“....chissà quanti anni resteranno in vita ancora, lontano l'uno dall'altra. Anche loro un giorno forse saranno come quei vecchi nel tavolo accanto. Quando i figli cresceranno. Quanto bisognerà aspettare? Si rivedranno per una festa di laurea. Allora saranno fragili dorsi attaccati alla voce del figlio che ha imparato a parlare nel mondo al posto loro, meglio di loro. Si abbracceranno leggermente commossi. Quel giorno, finalmente, avranno dimenticato l'odore dell'intimità e l'odio. Non ricorderanno niente di quel corpo davanti al loro. Avranno stabilito nuove intimità, nuove rabbie. Si passeranno accanto bonariamente come carne ripulita dalla tragedia dell'amore. Nessuna tensione, nessun attrito, nessuna scossa dolorosa.”
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Sette notti con Liga
Il sogno di ogni fan; incontrare il proprio idolo. Incontrarlo, da soli, parlarci, conoscerlo, fargli sapere a parole e gesti quanto sia speciale e unico, restare con lui e....
Questo sogno ad occhi aperti si realizza per la protagonista del libro, non una volta, ma ben sette. Sette volte in sette episodi diversi questa fan di Ligabue incontra il suo amatissimo Luciano, lo incontra in sette occasioni diverse, originali e un po' strampalate, da una serata dedicata a lui, con tribute e sosia ad un cimitero deserto in una giornata assolata, da un lungomare d'inverno ad un imbarco per un aereo in ritardo, da un incidente d'auto in una stradina in mezzo alla nebbia ad un incontro nel mitico Bar Mario e anche in un lontano futuro, in ospedale. E tutte le volte la nostra innominata protagonista rimarrà paralizzata, senza parole, confusa, un po' imbranata, ma alla fine riuscirà a conquistarlo, con la sua devozione, il suo amore che traspira da ogni poro, da ogni respiro, da ogni sguardo.
Sette notti con Liga quindi, senza però mai accennare all'intimità della notte con lui. Sette notti, il numero preferito di Ligabue, così come sette sono le note che con magia Ligabue dosa, alterna, miscela, con le quali condisce i suoi bellissimi testi nelle canzoni che hanno fatto innamorare di lui Chimena Palmieri e tanti altri fan come lei. Sette episodi narrati con umorismo e autoironia, non ci sono lacrime in questo amore impossibile. Sette racconti divertenti e piacevolissimi dove non ci sono mai sdolcinate dichiarazioni d'amore dirette, ma nei quali non è difficile leggere la passione che l'autrice non nasconde, ma anzi dichiara esplicitamente. Un libro che non manca anche di commuovere.
“….tu ci davi tanta di quella vita che solo vita ti avremmo dato indietro”.
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Sorelle
In una notte lugubre e tempestosa, vennero alla luce due gemelle, Lilo e Lila, legate indissolubilmente per i capelli. Nello stesso istante in cui, per separarle, li tagliarono con le forbici, la loro madre morì. Questo è l'inizio di una storia lugubre, fosca e triste che narra di due gemelle perfettamente identiche, molto legate e chiuse nel loro mondo. Un mondo in cui nessuno poteva mettere piede. Fino a che, in una primavera, una delle due non si innamorò di un ragazzo. La gelosia dell'altra sconfinò nell'odio fino a rovinare irrimediabilmente il loro rapporto.
Un racconto molto breve, molto ritmato, quasi in versi, con bellissime illustrazioni.
Spinto, da un amico, alla lettura di questa fiaba gotica, per adulti, sconsigliabilissima ai bambini, rimango perplesso su quello che letture come queste possano donare. Nessun sorriso, nessun personaggio positivo, sentimenti negativi, tristezza e dolore. Ciò nonostante sento di ringraziare chi me l'ha consigliata, probabilmente, pur non apprezzando il genere, sento, con un filo di masochismo, un certo piacere per averla letta.
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Giornate grigie anche in estate
Una non precisata città rumena, ai tempi del regime di Ceausescu e una convocazione, l'ennesima, da parte della polizia politica. Per la protagonista del romanzo, una giovane donna, l'ingresso nel grigio palazzo del potere, “giovedì alle dieci in punto” che potrebbe non avere un'uscita. Un interrogatorio con un infido personaggio del regime che ha in mano il destino della sua vita. Tutto questo fa perdere il sonno, fa aggrapparsi a rituali e a piccole cose che devono portano fortuna, che dovranno far sì che l'interrogatorio vada bene e il viaggio in tram, più di un'ora, per arrivare alla convocazione, aiuta a rivivere tutta la propria vita, dai racconti del nonno sul lager che portò via la nonna, alla scoperta dell'amante del padre, una sua coetanea, al primo matrimonio fallito, al rapporto con Paul, che si divide fra lei e l'alcol, ma fatto anche di sprazzi di felicità, di amore. La sua amica Lilli, uccisa mentre tentava di attraversare illegalmente il confine con l'Ungheria. La fabbrica, con le invidie, le dilazioni, le paure.
Herta Muller, attraverso il viaggio nel tram, che simbolicamente diventa l'intera vita della protagonista, ci offre un ritratto crudo quanto efficace della dittatura di Ceausescu. Un racconto permeato di dolore. Una città, una società, un'esistenza grigie, soffocate dalla dittatura e una voglia opposta di essere comunque felici e di vivere, nel vero senso della parola. Tutto, in questo tram, dal ricordo del passato al presente, ogni personaggio e cosa è simbolo e metafora dell'oppressione. La Muller rende talmente bene il clima che si respirava nella Romania di Ceausescu che durante la lettura del libro, mi sono sembrate grigie anche queste nostre assolate giornate estive.
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Il linguaggio segreto dei fiori
Victoria è oggi maggiorenne e può lasciare l'istituto per bambini in cerca di adozione, di famiglia, in cui sta da sempre. E' una ragazza difficile, non riesce ad avere contatti fisici con le persone, non riesce ad amare e ad essere amata. Sono stati diversi i tentativi di adozione, tutti falliti e Victoria si porta dentro un carico enorme di rimorsi, sensi di colpa, inadeguatezza. Solo una persona, Elizabeth, è riuscita a superare quasi tutte le difficoltà e quasi esserle mamma, segnandole la vita, ma poi anche quel tentativo di entrare in una famiglia è fallito. Victoria ha però un grande potere; conosce il linguaggio dei fiori e sa parlare con i fiori come nessuno, sa comunicare emozioni e quando, uscita dall'istituto troverà lavoro da una fioraia, come per magia, le sue composizioni floreali cureranno problemi dei clienti, romperanno incomunicabilità e guariranno ferite, ma la strada per guarire le proprie sarà ancora lunga.
Una storia continuamente in bilico tra il baratro dell'isolamento e dell'autolesionismo e la salvezza, un romanzo di rimorsi, nostalgie, pentimenti, colpe, sensi di colpa e perdono. Il tutto scorre sopra il vittoriano linguaggio dei fiori che offre un taglio romantico e d'altri tempi ad una storia ambientata nella California odierna. Il personaggio di Victoria è profondo, potente e molto ben delineato. In appendice Il dizionario del linguaggio dei fiori.
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Esuli
Un testo che tratta in maniera approfondita la tragedia degli italiani di Istria, Fiume, Dalmazia, esuli e infoibati, partendo, con alcuni cenni, dal crollo dell'Impero Romano d'Occidente e successivo rimescolamento di popoli e progressive “italianità” e “slavizzazione”. Poi l'Impero Asburgico, Regno d'Italia, Grande Guerra e Seconda Guerra Mondiale che ha dato il definitivo volto a quelle terre.
Il libro di Gianni Oliva è denso di riferimenti bibliografici all'argomento, analizza cronologicamente molto bene gli sviluppi della situazione, soprattutto dal regime fascista in poi e dà grande spazio all'esodo e ai profughi. Ricco di documentazioni fotografiche fa luce su una parte di storia d'Italia che non conoscevo così approfonditamente anche perché per decenni nascosta. Interessantissimo.
Una tragedia che fa orrore, quello che ha subito la comunità italiana; l'eccidio di migliaia e migliaia di uomini gettati nelle foibe e la persecuzione di quelli rimasti. Altri crimini di guerra, quelli compiuti dagli Jugoslavi, mai puniti. L'esodo, l'abbandono delle case, la perdita della memoria, di un pezzo della propria vita passata, la scomparsa di riferimenti di un'intera comunità.
Resto convinto che il regime fascista, con la persecuzione della comunità slovena e croata, il duro, ma maldestro tentativo di “slavizzazione” della regione Dalmato-giuliana e soprattutto con i crimini compiuti, al pari dei nazisti, in terra Jugoslava (rastrellamenti, rappresaglie sui civili), allontanando definitivamente la percezione di “italiani, brava gente”, abbia seminato quel vento di odio che ci ha fatto raccogliere questa tempesta ed è come minimo fuori luogo e da smemorati storici che in prima fila oggi a ricordare i martiri delle foibe ci siano proprio i nipotini neo-fascisti di quella “brava gente”.
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Sonderkommando Auschwitz
Birkenau. Il Sonderkommando; le vittime fatte complici, obbligate ad aiutare i carnefici nel più orribile compito. Persone, uomini, che accompagnano altri uomini, donne, bambini, nelle camere a gas, le aiutano a spogliarsi, lasciano intendere che è una doccia che li aspetta. Pianti, vergogna, paura. Poi il gas. Urla, gemiti, urla. Poi silenzio. Poi tagliano capelli, tolgono denti d'oro dai cadaveri. Svuotano la sala, puliscono pavimenti e pareti dai liquidi organici lasciati nella lunga agonia, respirano l'orrendo tanfo della morte cruenta. Poi trasportano quei poveri corpi, scivolosi, nel crematorio e li bruciano. Odore di carne cotta, bruciata. Tutti i giorni per ore e ore. Questo è stato.
Poi, ciclicamente, per non lasciare testimonianze, il ricambio, la morte, fisica. Quella dell'anima è già avvenuta. Vittime più volte.
Shlomo Venezia è uno dei pochissimi sopravvissuti dei Sonderkommando e dopo tanti tanti anni è riuscito a raccontare tutto questo.
Un libro che lascia senza fiato, sconvolti, stremati.
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Le Beatrici
“Le Beatrici” è formato da otto monologhi femminili; una Beatrice dantesca, ma molto attuale, una “mocciosa” adolescente cruda e crudele figlia di questi tempi, una “presidentessa” industriale che ha risolto in maniera originale il problema degli operai in esubero, “Suor Filomena” una suora senza vocazione con tendenze ninfomani, una donna ansiosa perennemente in attesa, una “Vecchiaccia” incattivita dal tempo e rinchiusa in un ospizio, una anziana abbandonata a casa davanti al televisore che riesce ad evadere dalla sua solitudine ed una licantropa.
Otto monologhi nati per il teatro, per mettere in luce giovani attrici di talento. Otto metafore amare e crudeli che rispecchiano i nostri tempi e ci parlano di violenza, vecchiaia, abbandono, emarginazione, indifferenza. Il tutto, la penna di Stefano Benni, ammanta di ironia amara e, come sempre, tratteggia ritratti al limite del surreale, ma estremamente attuali.
Tra un capitolo e l'altro, otto ballate; sei poesie e due canzoni. Suggestive, e in linea con i monologhi.
Spicca la canzone dedicata a Fabrizio De André
...E io di voi scordarmi non posso / dentro un tramonto feroce e rosso / dentro un cielo di sangue e vino / ascoltate come sembra il primo / l'ultimo accordo che io imparai / io non voglio, non voglio morire / e a morire non riuscirò mai.
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