Opinione scritta da Interferenze letterarie
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L'amore come vorremmo che fosse
Premetto che non ho mai amato Marquez e ho sempre guardato storto chiunque mi dicesse “Cent’anni di solitudine è il libro più bello che abbia mai letto!”. Fortunatamente uno sconto spaventoso in un supermercato mi ha invogliato all’acquisto de “l’amore ai tempi del colera”. Lo stile è quello del miglior Marquez: intricato, elaborato, fatto di salti temporali e di invezioni letterarie. La storia si basa sul quesito che tutti ci poniamo: l’amore dura davvero per tutta la vita? Quello di Florentino Ariza sì. Un amore immenso, puro, che sa aspettare più di cinquant’anni per trovare la possibilità di potersi esprimere. Una relazione nata durante l’adolescenza, che ha conosciuto un lunghissimo distacco, con Florentino pronto ad attendere la morte del marito, il dottor Juvenal Urbino, per potersi ricongiungere alla bellissima Fermina Daza, la più desiderata del Caribe. L’altra domanda che Marquez si pone è: l’amore coincide con la fedeltà? In questo caso assolutamente no, dato che Florentino si comporterà come un lascivo libertino, collezionando avventure amorose con ogni tipo di donna, senza però mai smettere di amare la sua Fermina. Un romanzo monumentale, sporcato forse da improvvise digressioni che mi facevano venir voglia di buttarlo nel camino, ma che si legge interamente perché ci si continua a domandare “come andrà a finire?”.
Perché l’amore di Florentino è l’amore che tutti desideriamo, che tutti noi vorremo ricevere, che tutti noi vorremo dare. L’amore che chiunque sogna di vivere, quello che sa attraversare gli oceani del tempo rimanendo immutato.
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Un uomo unico nel suo genere
Quando ho letto “Un uomo”, nella mia mente di quindicenne Oriana Fallaci era una giornalista scomoda che sembrava avercela a morte con l’Islam e alla quale Jovanotti tirava stilettate attraverso i versi “la giornalista scrittrice che ama la guerra perché le ricorda quand’era giovane e bella”. Inoltre non conoscevo nulla del regime dei colonnelli in Grecia (a parte i ricordi di mio padre che vi aveva vissuto per lavoro e che sintetizzava tutto quanto in “era meglio se stavi zitto e facevi bene ad avere paura”) e il nome Alekos Panagulis mi era completamente sconosciuto. Quando ho iniziato la lettura di questo romanzo sono rimasto subito incantato dallo stile etereo e molto elaborato della Fallaci, senza che questo appesantisse la scorrevolezza del testo. L’attentato fallito al dittatore Papadopulos, il carcere, le torture, la resistenza, il processo, tutto descritto in maniera viva e vera, quasi dolorosa, come se le percosse fossimo noi stessi a subirle. La parte più godibile, anche se può risultare macabro, è appunto la prima, quella che indugia sulle torture subite da Panagulis, sulla “tomba”, l’ipogeo sotterraneo costruito dal direttore del carcere appositamente per contenere la furia del prigioniero, i tentativi di evasione, i tradimenti. La seconda parte mi è risultata più noiosa o perlomeno meno scorrevole rispetto alla prima ma questo giudizio è puramente soggettivo. Quello che esce dalle pagine della Fallaci è il ritratto di un uomo unico nel suo genere, un poeta, un resistente, un eroe della libertà, un fallito idealista, un uomo buono tradito da tutti ma soprattutto dell’uomo che amava e questa è la cosa importante. Un romanzo non certo leggero, non di quelli da leggere in spiaggia, ma di quelli da assaporare e rifletterci sopra. Perché di Panagulis, anche in questo momento, è pieno il mondo, costellato di regimi totalitari di ogni ideologia. La vergogna è che resteranno per sempre sconosciuti fino a che una Fallaci non ce li faccia conoscere.
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Un bel romanzo ma sa di già letto...
Ho letto “il gioco dell’angelo” dopo aver terminato “l’ombra del vento”, dal quale ero rimasto affascinato. Questo libro mi ha colpito per metà. Bella ovviamente l’ambientazione, le lunghe digressioni, la descrizione della Barcellona dei ruggenti anni 20, il “sottobosco culturale” che fomenterà le divisioni che porteranno la Spagna alla guerra civile. Però la vicenda, nonostante la scrittura fosse piacevolissima e scorrevole, mi sapeva di già sentito, di già visto. Zafòn infatti utilizza moltissimi personaggi del romanzo precedente, così come alcuni luoghi (soprattutto la biblioteca dei libri perduti). Questo artificio in realtà non sarebbe sbagliato, anzi, creerebbe un legame tra i due romanzi, una specie di “fil-rouge” che appassiona e diverte (sempre che non venga utilizzato solo per aggrapparsi al successo del primo romanzo). Il problema è che mi è sembrato di vedere in alcuni personaggi nuovi le stesse caratteristiche di quelli de “L’ombra del vento”. Il signor Vidal mi è parso la fotocopia di Miguel Moliner, per fare un esempio. Entrambi ricchi da far schifo, figli dell’elite industriale catalana di quegli anni, scrittori falliti, destinati a vivere una vita di facciata tra la ricchezza esteriore e la condanna all’infelicità. Questo non vuol dire che non sia un bel romanzo, scritto bene e da gustare velocemente, al contrario. Il problema è che dopo aver letto anche Marina, ho come l’impressione che Zafòn si copi moltissimo, sia come ambientazione (che ruotano sempre intorno allo stesso quartiere) ma soprattutto come termini, stile lessicale e come utilizzo delle stesse parafrasi (ho letto tutti i romanzi in spagnolo, nella versione originale). Il fatto è che, se avessi coperto i titoli dei romanzi e avessi letto una pagina a caso, probabilmente non avrei capito a quale vicenda corrispondesse, visto che si assomigliano molto. E questo, per uno scrittore come Zafòn che mi è parso uno dei migliori mai letti, è proprio un peccato.
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Una lettura che rimane dentro
Ho letto “il bambino con il pigiama a righe” ben due anni dopo aver visto il film (che tra l’altro aveva emozionato, quasi commosso, sia me che il mio amico, capitati per caso). La lettura è scorrevole e leggera, il punto di vista di Bruno, un bambino ignaro della tragedia folle e aberrante messa in atto dal regime nazista (di cui il padre è un alto esponente). Nonostante a volte ho avuto l’impressione che il piccolo Bruno avesse pensieri troppo adulti o che utilizzasse parole estranee alla sua età (a nove anni io ignoravo il significato di “perplesso” o “atterrito”), la psicologia di un bambino degli anni 40 è delineata in maniera splendida. La forza di questo libro è il raccapriccio che fa nascere dentro, come uno schifo, che fa seguire passo passo la vicenda di Bruno e Shmuel con il fiato sospeso, anche se si conosca già il finale. Il nazismo, le SS, i campi di concentramento raccontati da un bambino, e quel bimbo avremmo potuto essere noi, per questo colpisce così tanto. Un libro scritto come una fiaba ma che fa riflettere molto di più di un trattato di storia moderna. Una lettura veloce, destinata a rimanere dentro per parecchi giorni e che ti fa chiedere “Com’è stato possibile?”
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Manfredi appannato
Di Manfredi (del quale ho letto tutti i libri) ho sempre apprezzato la capacità di caratterizzare molto bene i personaggi storici, facendoteli amare o odiare, quasi ce li avessi di fronte. Come alessandro magno, con tutte le sue controversie, così ben delineato, altro che l’Alexander che poi ho visto al cinema. La prosa, inoltre è sempre stata leggera e gradevole. Forse le scene di sesso le avevo trovate un po’ banali, ma questo non significa nulla, in un romanzo storico si limitano a tre quattro righe in tutto. In questo libro ho visto ben poco di queste caratteristiche. L’idea di una donna che scappa con Senofonte e lo accompagna lungo tutta la sua peregrinazione in Asia, mi è sembrata un po’ scialba. Inoltre i mercenari greci si ritrovano tutto d’un tratto sperduti e senza guida, così, in un battito di mani. Non l’ho finito, non mi ha preso eho preferito andare a leggere, tanto per curiosità, l’Anabasi di Senofonte, la reale cronaca di quell’avvenimento. Lo stile era molto più semplice e diretto, un resoconto di un’avventura incredibile, come dovrebbe essere. Questo romanzo, credo, è l’eccezione che conferma la regola: se ti prendono sin dall’inizio, i romanzi di Manfredi si fanno divorare, altrimenti meglio lasciar perdere.
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Intelligenza, simpatica e novità
Partiamo da un presupposto. Le forze dell’ordine, in Italia, sono viste come un’accozzaglia praticamente incompentente (basti pensare alle barzellette sui carabinieri) ma comunque attraverso una lente di simpatia e rispetto. In Grecia la polizia è quasi un nemico, è tacciata di fascismo e di violare alle libertà personali. Questa mentalità è figlia del regime degli anni 70, in cui la polizia era il braccio armato dei colonnelli e non si faceva molti problemi a torturare, arrestare e far sparire persone sulla base di delazioni anche inconsistenti. In Grecia la polizia fa ancora paura. Per questo il commissario Charitos è un personaggio immediatamente simpatico. Non è un esaltato dal proprio lavoro ma nemmeno un fannullone che pensa solo a scaldare la sedia. E’ un uomo che usa l’intelligenza, che sa cercare, un personaggio buono, che il più delle volte passa per “coglione” anche quando non dovrebbe. Leggere un romanzo di Markaris è come leggere un testo di sociologia. La società ateniese moderna è descritta in maniera perfetta. Gli arrivisti, i palazzinari, le star dello spettacolo, i disoccupati, gli immigrati, i nostalgici del regime e i vecchi comunisti, le aspirazioni (tradite) del dopo-olimpiade. La realtà greca contemporanea è descritta in maniera decisa dalle impressioni del commissario, dalle sue riflessioni, dalle analisi sulla psicologia dei personaggi che incontra, il tutto unito a uno stile semplice e immediato. Il commissario Charitos è un uomo come tutti: ingabbiato tra una moglie religiosa e una figlia dalla mentalità moderna, alle prese con un capo che pensa solo a salvarsi il didietro che lo assegna alle indagini più puriginose. In questo romanzo, che prende immediatamente, Charitos è direttamente coinvolto nel rapimento della figlia su una nave diretta a Creta e poi inviato ad Atene per indagare su strani omicidi nel mondo dello star-sistem greco. Con una prosa avvicente e semplice, Markaris lascia incollati alle pagine per tutta la durata della vicenda, tra il mare di Creta e l’afa insopportabile di Atene. Forse la soluzione dell’enigma mi è sembrata un po’ banale, uno stratagemma “deus ex machina” per concludere la vicenda ma potrebbe essere solo un’impressione. Markaris riesce nell’obbiettivo ( enel sogno) di ogni scrittore: far tornare a casa solo per prendere il libro in mano e continuare nella lettura. E questo è un grande merito del “Maigret” greco.
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un libro con un'anima
Dire che un libro “abbia un’anima” può sembrare molto new age oppure quasi patetico, dipende dai punti di vista. Eppure Siddharta è uno di quei (rari) libri in cui, quando lo chiudi e lo riponi sullo scaffale, ti senti colpito nel profondo. L’assillante ricerca del giovane Siddharta, il suo cammino spirituale attraverso la meditazione, l’ascetismo, l’amore, il sesso, il denaro, il lavoro, il rifiuto della società e la pace dell’anima, è in realtà un cammino che viene fatto dal lettore. Hesse inserisce nella vicenda numerose disquisizioni e riflessioni filosofiche, anche profonde, come il senso dei propri giorni, il rifiuto della società, la voglia di cambiare. Lo fa in modo da colpire chi legge, affinchè le assimili e le faccia sue. Siddharta, un ragazzo che non si ferma presso nessun maestro, che vuole provare sulla sua pelle ogni dottrina, un affamato di saggezza e conoscenza, è in realtà la persona che tutti noi vorremmo essere. Un uomo alla ricerca di un senso più completo dell’esistenza, che si pone delle domande alle cui però vuole trovare a tutti i costi delle risposte, che non ha paura di sbagliare o di provare nuovi percorsi. Siddharta è ciò che desideriamo essere, aperti, vivi, colmi d’esperienze e di saggezza, soddisfatti di aver vissuto una vita densa di significato. Io l’ho letto mentre percorrevo il cammino di Santiago e devo dire che ho ritrovato nelle pagine molte riflessioni e spunti che erano stati presi in considerazione nelle lunghe discussioni con altri pellegrini e che si vivono durante quell’esperienza.
Questo piccolo romanzo cambia chi legge e lo ripeterò sempre, anche a costo di passare per uno stupido innamorato dei libri.
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Una bella storia sporcata da troppa filosofia
Ho deciso di acquistare “il giorno in più” di Fabio Volo dopo essere stato positivamente colpito da “E’ una vita che ti aspetto”. Il romanzo mi è piaciuto, la vicenda mi ha appassionato, è molto bella e romantica, la scrittura è piacevole ma quando ho chiuso il libro ho provato un leggero amaro in bocca.. Ovvio, chi non vorrebbe vivere una storia così, conoscersi sull’autobus, inseguirsi da New York a Parigi, passare una settimana insieme senza impegni, solo alla ricerca dell’amore e del piacere? Sotto questo punto di vista devo dire che Volo ha colpito nel segno e mi ha emozionato. Le cose che non mi sono piaciute sono principalemente due. La prima è che i personaggi di contorno servono solo per creare situazioni in cui tutti si possano rispecchiare (chi non ha avuto una nonna o un parente anziano che non metteva il blocco tasti al cellulare e chiamava chiunque involontariamente?) e questo è un pregio di Volo, che sa creare situazioni che tutti possono dire di aver vissuto, ma se alla fine dei conti li si eliminassero dalla vicenda non credo che cambierebbe molto, avremmo solo dimagrito il libro di qualche pagina. La seconda sono le riflessioni, profonde, acute e intelligenti ma forse un po’ troppo tutte uguali le une alle altre. Riflessioni che tra l’altro mi sono sembrate molto ma davvero molto simili a quelle lette nell’altro libro. Criticare un libro è più facile che leggerlo e sicuramente che scriverlo, per cui mi sento di consigliare il romanzo a chi voglia farsi una bella lettura in spiaggia o chi desideri emozionarsi. Chi cerca un romanzo intriso di profonde riflessioni psicologiche sulla vita, forse dovrebbe guardare altrove.
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Dopo un po' stanca
L’autrice riesce con molta intelligenza ed erudizione a far collimare avvenimenti storici e inventati con molta precisione, anche se lontani tra loro (le crociate, le reliquie della vera croce, gli staurofilakes, la vita di Dante), tanto da far sembrare tutto molto reale. Detto questo però devo dire che, sarà stata per la scrittura che allungava terribilmente ogni situazione fino a fartela odiare oppure le riflessioni a volte banali di suor Salina, arrivato più o meno a metà del testo mi sono stancato. La vicenda è bella e potrebbe appassionare ma è scritta in maniera volutamente arricchita, forse un artificio per superare la soglia delle 500 pagine. Sta di fatto che tra eventi rocamboleschi e vicende a volte poco credibili, l’attenzione si spegne pian piano. Suor Salina mi sembra un po’ stereotipata (essendo siciliana è stata rinchiusa in convento perché scoperta mentre usciva in barca con un amico, la famiglia è velatamente mafiosa) così come quella del professor Bommel (goffo ma molto intelligente), oppure il fatto che quest’ultimo e il capitano Roist vadano al monastero di Santa Caterina e nella biblioteca infinita del luogo riescano a rubare proprio il manoscritto che parli degli staurofilakes.
Un’occasione persa per essere un romanzo davvero avvincente.
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Non mi ha preso dall'inizio
Premetto che adoro Coelho, che quasi tutte le sue opere sono sullo scaffale della mia libreria e che prima di scrivere una recensione sfavorevole ho contato fino a dieci. Sta di fatto che Brida non mi è piaciuto. L’ho trovato troppo magico, troppo misterioso, troppo legato ai grandi temi di Coelho (la ricerca del senso della propria vita, il destino, la magia, la religione) tanto da sembrare quasi finto, scritto ad hoc. Ho letto che in realtà si tratta di uno dei primi romanzi di Coelho, pubblicato solo ora. Forse è stata solo un’operazione di marketing per vendere qualche copia, tanto il nome dell’autore è una garanzia. Penso che rileggerò “Lo Zahir” o “Undici minuti”, purtroppo Brida non mi ha coinvolto come mi sarei aspettato da un romanzo del grande scrittore brasiliano.
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Una scrittura barocca al servizio di una vicenda a
Ho letto “L’ombra del vento” direttamente in spagnolo, in un’edizione acquistata sulle Ramblas a Barcellona. La scrittura di Zafòn è barocca, a volte anche troppo articolata da risultare pesante ma tolto questo difetto, ho trovato il romanzo una meraviglia.
L’accostamento tra la parte vissuta direttamente in prima persona da Daniel Sempere, con le sue impressioni ed emozioni, si accosta perfettamente a quelle scritte in terza persona che raccontano la vita di Julian Carax.
E’ una vicenda che assorbe completamente nella lettura, un enigma che si sbroglia molto lentamente, personaggi che danno l’impressione di essere qualcosa completamente apposto a quello che poi si scoprirà che sono. Barcellona è descritta in maniera molto particolare e brillante, anche se è un po’ cupa, come però doveva esserlo una città industriale nella prima metà del Novecento.
Poi ci sono i libri, ovunque, la libreria del signor Sempere, la biblioteca dei libri dimenticati, i romanzi di Carax, i libri accompagnano tutta la vicenda con una presenza consistente, come un tributo fatto da una persona innamorata.
L’unica cosa che ho trovato un po’ fastidiosa, se così si può dire, è che tutti i personaggi mi sono sembrati irrimediabilmente tristi, pessimisti, coinvolti in vicende che ne segneranno la fine fisica o morale, condannati a vivere un destino di sofferenza.
Ma forse anche questa caratteristiche è una delle cose che rende la scrittura di Zafòn unica.
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Un romanzo insolito
“Maigret e le persone perbene” è un romanzo straordinariamente insolito. Parigi è sempre la stessa, quella del commissario, del Quai des Orfèvres (il palazzo di giustizia) e delle birre tracannate nei fumosi bistrot. Questa volta Maigret è alle prese con un inspiegabile delitto commesso in un appartamento dell’alta borghesia parigina. Un uomo perbene, senza nemici, amato da tutti, una situazione familiare impeccabile, una vita discreta e lontana dai pettegolezzi, viene freddato da un colpo di pistola mentre è seduto sulla sua poltrona. Tutti sono indiziati. La moglie, quasi un’antica matrona romana, la figlia adorata, il genero affermato pediatra, tutte persone “perbene”, con la loro vita perfetta e senza macchie. E’ un romanzo strano, dove ci si snerva insieme allo stesso Maigret, che trova insopportabile la noiosa e finta vita di questi personaggi. Per essere un romanzo giallo in realtà non succede nulla ed è questa la stranezza che affascina. La vicenda innervosisce, si comincia a odiare gli indiziati così patetici, noiosi e prevedibili, così perfetti, così perbene appunto, tanto da continuare a chiedersi chi possa mai aver ucciso un uomo così tranquillo e insipido.
La soluzione del dilemma mi è sembrata un po’ forzata, più frutto dell’acume e di un’invenzione estemporanea di Maigret che derivante da un ragionamento logico.
“Maigret e le persone perbene” è un romanzo in cui non ci sono improvvisi colpi di scena ma che appassiona nella stessa maniera, grazie alla perfetta e molto acuta delineazione psicologica dei protagonisti.
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