Opinione scritta da Giulian
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Il vero Modigliani
Lungi dal limitarsi ai fatti, che in molti casi e per certi periodi della vita dell’artista risultano anche di difficile ricostruzione, l’autore cerca di sondare nell’animo dell’uomo Modigliani, cercando di interpretare pensieri, motivazioni, emozioni, mai però in modo meno che plausibile e realistico. Ciò facendo, riesce a demolire il cliché dell’artista “maledetto”, laddove la dipendenza da alcool e droghe che devasta la vita di Modì va vista come aperta dichiarazione di sofferenza e disperazione profonda. Interessante accompagnare Modigliani nel vagheggiamento del suo sogno, la sua affermazione come artista, riconosciuta a livello mondiale ahimé solo dopo la sua morte, ma ben chiara nella sua mente e nella sua anima. Alcuni personaggi che gli stavano attorno meravigliano, sia in senso positivo per la generosità con cui hanno sostenuto lui e le sue aspirazioni, sia in senso negativo per la superficialità, l’egoismo, a volte anche la malvagità che hanno manifestato nei suoi confronti. Il mondo della bohème parigina è ampiamente e accuratamente rappresentato. Solo parziali, ma sempre acuti, i commenti alle opere di Modigliani. Ritengo che leggere questo libro sia necessario per comprendere meglio chi fu davvero questo artista oggi tanto idealizzato quanto frainteso.
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Una normale, misera ma ispirata, giornata del poet
Con la consueta precisione storico-filologica e con grande verosimiglianza, Santagata ricostruisce una normale giornata (il 13 ottobre 1368) dell’ormai anziano Francesco Petrarca, in quel di Padova, mentre ispirato compone la canzone “Standomi un giorno solo a la fenestra” (n. CCCXXIII del Canzoniere, dedicata alla morte di Laura, ricca di allegorie che Santagata ha avuto modo di analizzare in alcuni saggi). Ma niente di complicato: il racconto non mira a fornire un erudito commentario alla poesia, bensì a fare un ritratto realistico dell’uomo Francesco, in tutta la sua fragilità ed imperfezione. Ne esce l’immagine dissacrante di un vecchio lamentoso e insolente, che rutta, scorreggia, defeca, perde orina, puzza di sudore e di piscio, sputa semi d’uva sul pavimento, parla con la bocca piena di cibo, alza il gomito e maltratta la governante con cui divide un freddo e umido appartamento. Lui stesso conosce bene la distanza fra questa misera realtà e l’immagine pubblica di poeta laureato, come anche quella fra la sacra effigie di Laura celebrata nei suoi scritti e il volgare ricordo della donna, una “matrona sfiancata dalle gravidanze” con una “pancia gonfia che neppure si distingue dalle tette”. Appunto questa sua consapevolezza, unita a forti sentimenti di solitudine e all’angoscia per la perdita del figlio e di un amato nipote, lo rendono una persona concreta alla quale ci sentiamo empaticamente vicini.
Il testo, abbastanza breve, si legge con piacere, anche sapendo che ogni riferimento storico e letterario è assolutamente fondato e filologicamente aggiornato.
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Dalla storia al dramma
Non sono d’accordo con una delle tesi centrali del racconto, secondo cui il rifiuto di Vera di dichiarare che il marito, morto suicida dopo il suo arresto, fosse un nemico della patria sia stato un tradimento nei confronti della figlia, Nina, una bambina di pochi anni, privata improvvisamente dei genitori. Vera (che corrisponde nella realtà a Eva Panic Nahir) pagò personalmente con l’internamento in uno spaventoso gulag yugoslavo questo atto di coraggio e di amore verso il marito e verso la verità. Nel romanzo, fra l’altro, si enfatizza molto la sofferenza di Nina, il suo disadattamento e il suo atteggiamento ribelle, attribuendone la causa all’abbandono subito; durante il racconto si lasciano immaginare al lettore chissà quali tragiche esperienze della bambina, ma verso il finale si scopre una vicenda di ben altro genere e gravità. Ammiro molto la figura di Vera-Eva, perché certi valori sono più grandi di ogni altra cosa, persino della vita.
In realtà la storia assume spesso i toni di un dramma tragico: memorabili, direi quasi shakespeariani, alcuni dialoghi che sondano nel profondo i pensieri e l’animo dei personaggi. Invece i fatti avvenuti nel campo di concentramento perdono questo registro enfatico e sono narrati con immediatezza, in modo molto diretto e vivo.
La narrazione procede su diversi piani temporali, che si intrecciano e si affastellano creando come dei filtri che la trasfigurano: il racconto è visto attraverso gli occhi di Ghili (la narratrice, nipote di Vera) che, nelle prime pagine in particolare, rivede a distanza di anni un filmato in cui Vera, o il padre Rafael, narrano fatti avvenuti molto tempo prima; questo espediente narrativo “multidimensionale”, in verità un po’ faticoso per chi legge, permette di coinvolgere emotivamente tutti i personaggi e di vedere come tutti in qualche modo siano partecipi dell’esperienza della protagonista e diventino protagonisti a loro volta.
È un libro sull’amore, in tutte le sue sfumature: l’amore passionale e carnale (quello di Rafael per Nina), l’amore fatto di venerazione e fedeltà a qualsiasi costo (quello di Vera per Milos), l’amore sofferente perché (apparentemente) tradito (quello di Nina per Vera, o di Ghili per Nina, o di Rafael per Nina), l’amore che viene soffocato per paura di esserne travolti (quello di Nina per tutti gli altri personaggi).
La scrittura di Grossman è come sempre elegante e di grande spessore; mi aspettavo un racconto più storico e meno psicologico, ma nel complesso è un libro che si può gustare.
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Quando la natura diventa la protagonista
È un testo dalle molte anime: nella prima parte può sembrare un romanzo di formazione per ragazzi, con pagine che potrebbero comparire (e forse compaiono) nelle antologie scolastiche delle scuole medie inferiori; assume poi i toni di un libro di denuncia sociale, soprattutto riguardo alla violenza sulle donne; è un testo di contemplazione ambientale (la descrizione della selvaggia e meravigliosa natura dell’Alaska ha un ruolo centrale); diventa ad un certo punto un vero e proprio thriller; è anche un romanzo d’amore, che acquisisce soprattutto nel finale le sfumature struggenti del racconto “rosa”. In tutti questi passaggi non viene meno il coinvolgimento del lettore, che segue con interesse l’evoluzione della situazione della famiglia Allbright.
Su tutto domina l’elemento “insicurezza”: da un lato incombe la minaccia costituita dalle turbe psichiche di Ernt, il padre, cui nessuno è riuscito a dare un valido supporto psicologico dopo il suo ritorno dal Vietnam; e dall’altro i pericoli del lungo e ostile inverno alaskiano, che la famiglia affronta senza alcuna preparazione.
Si legge volentieri e permette di conoscere un ambiente affascinante nella sua inospitalità, ben noto all’autrice che vi ha vissuto a lungo. E in fondo è proprio questo ambiente a caratterizzare il romanzo, che altrimenti risulterebbe un po’ scontato e a volte poco credibile.
Lo stile dell’autrice è piacevole, ma sicuramente molto “femminile” (lo si nota ad esempio nella descrizione piuttosto pedante di abiti, colori e acconciature dei vari personaggi). Ho trovato il finale un po’ troppo struggente e mieloso. Comunque nel complesso un libro che soddisfa.
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Ricco e documentato
È una saga familiare che interessa un periodo di circa un secolo. Come in ogni saga, i personaggi sono innumerevoli, forse anche un po’ troppi (quando si inizia un capitolo in cui viene introdotto un nuovo personaggio, il lettore può provare talvolta una certa insofferenza, poiché diventa difficile raccapezzarsi fra le tante figure, con la sensazione di aver raggiunto la saturazione). Comunque fra tutti i personaggi spicca Simcha Meyer, a mio parere il vero protagonista della storia. Persino suo fratello gemello, Yakob Bunim, a dispetto del titolo del romanzo ha un ruolo solo secondario: raggiunge la ribalta solo sul finale, mentre per tutto il racconto è solo l’alter ego di Simcha, le cui caratteristiche opposte a quelle del fratello servono per lo più a dare risalto a queste ultime.
Comunque tutti i personaggi di spicco del testo hanno un connotato comune: la totale dedizione verso un obiettivo, da raggiungere indipendentemente dalle conseguenze. Per alcuni è la completa consacrazione alla religione (ne è un esempio il padre dei due gemelli, Abraham Hirsh Ashkenazi, così devoto da diventare indifferente alle esigenze familiari o alle critiche altrui); per altri l’ amore, così forte da diventare morboso (come quello di Gertrude per lo zio Jacob); per altri la passione politica (vedasi Tevyeh e Nissan sul versante socialista; o Von Heidel-Heidellau sul versante opposto); per altri ancora, e specialmente per Simcha Meyer, il potere economico e capitalistico. In quasi tutti i casi questa abnegazione viene miseramente delusa e finisce in un nulla di fatto, trasmettendo un senso di amaro pessimismo.
Memorabili in questo testo sono le pagine di storia, veri e propri affreschi di vicende e periodi realmente accaduti: straordinario il capitolo sul pogrom di Leopoli (quello del 1918), bellissimo quello sull’inflazione che seguì la I guerra mondiale. In realtà tutto il libro può considerarsi un saggio storico dello sviluppo industriale polacco fra 800 e 900 e dell’apporto ad esso dato dalla comunità ebraica.
La religiosità ebraica come viene descritta è impregnata di formalismi, spesso di ipocrisia, tormentata da divisioni ed apostasie, percorsa da fierezze ed umiliazioni.
Comunque il libro è soprattutto una documentata narrazione dei soprusi, delle discriminazioni, delle persecuzioni subite dagli ebrei dell’Europa centro-orientale e in Russia molto prima dell’avvento di Hitler. La storia narrata nel libro cessa prima dell’avvento del nazismo e ciò fa capire come l’antisemitismo propagandato da Hitler avesse radici profonde e molto lontane.
La prosa di Singer è molto ricca, ridondante, spesso ripetitiva, ma chiara e scorrevole. Ho letto il testo nell’edizione Newton Compton: il fatto che mi sia costato solo 4,90 euro per 630 pagine non giustifica a mio parere i molti refusi tipografici (quelli che sfuggono ai correttori automatici); anche certi svarioni grammaticali (vedasi un “più infimo” a pag. 208) sfuggiti ai due bravi traduttori rivelano un lavoro affrettato da parte dei curatori editoriali, e questo non rende onore a un grande autore come Israel Singer.
Il libro è da leggere, anche se “La famiglia Karnowski” mi è sembrato più appassionante.
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L'uomo Dante Alighieri
Il termine “romanzo” incluso nel titolo del libro non tragga in inganno: non è un testo di narrativa, ma un saggio storico estremamente accurato e documentato sulla vita e sulla figura di Dante Alighieri. Ma in effetti la ricostruzione degli avvenimenti fatta dall’autore, sia quella esplicitamente ricavabile dai documenti sia quella desumibile in via ipotetica dagli indizi, è così interessante e coinvolgente da assomigliare molto ad un “romanzo”.
Ammiro la straordinaria erudizione del prof. Santagata, docente di Letteratura Italiana all’Università di Pisa (ma anche autore di romanzi), che non solo sa interpretare con competenza tutti gli scritti di Dante (inclusi gli innumerevoli riferimenti spesso solo allusivi di cui sono costellati), ma ritrae l’epoca storica e gli ambienti frequentati dal poeta con una dimestichezza che sembra la testimonianza di chi vi è vissuto. Direi che questo lavoro è davvero il frutto di una vita (quella di Santagata) di studi e approfondimenti appassionati.
Emerge dal libro la figura di un Dante sì egocentrico, convinto di essere predestinato ad un ruolo eccezionale nel mondo, ma anche (e proprio per questo) estremamente solo: nonostante la fama che la pubblicazione graduale della Commedia gli procurò, la sua condizione di esule (in certi periodi senza i familiari), la difficile ricerca di un luogo che gli assicurasse protezione e un minimo di rendita, il rifiuto della classe accademica a riconoscere il valore letterario del volgare, la mediocre preparazione culturale dei signori che di volta in volta gli offrivano ospitalità, tutto ciò ha confinato il poeta in una solitudine senza rimedio. Nella parte finale della sua vita il sogno di Dante è quello di ritornare a Firenze, ma ingenuamente in una Firenze che non c’è più, in quanto nel ventennio circa del suo esilio si è profondamente modificata: come dice l’autore, “c’è qualcosa di commovente in questa fedeltà di uno sradicato a miti e a immagini che vivono ormai solo dentro di lui”.
È vero che alcuni aspetti del carattere di Dante lo renderebbero, a conoscerlo di persona, francamente antipatico (la megalomania, la superbia, l’animosità, ad esempio), ma la condizione cui approda negli ultimi anni, che lo vede chiuso nel suo sogno un po’ nostalgico e un po’ utopistico espresso negli ultimi canti del Paradiso, ce lo rende molto più attraente nella sua umanità più fragile.
Consiglio questo libro non solo a chi, per motivi di studio, vuole approfondire scientificamente la figura del sommo poeta, ma anche a chi per personale diletto desideri immergersi nel suo mondo e farsi un’idea precisa del suo fondamentale ruolo nella nostra storia.
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Poco appassionante
Alcuni aspetti di questo libro mi risultano poco nitidi. La trama è piuttosto semplice, ma l’autore le ha dato valore assegnandole dei significati profondi (non facili da afferrare, ritengo). Il tema trattato sono i sogni: sia il protagonista che gli altri personaggi agiscono in vista di un loro sogno, sempre piuttosto anticonformista e poco pratico: come a dire che ciò per cui ci agitiamo e che aspiriamo di raggiungere è sempre inconsistente e vacuo. Il protagonista è Ultimo? In realtà lui mi è sembrato piuttosto un “leitmotiv” o un filo conduttore, quasi un pretesto per presentare altri personaggi che di volta in volta assumono il ruolo di protagonisti temporanei. Ogni sezione del libro presenta un diverso stile narrativo, dal racconto al diario, dal saggio storico al testo poetico-filosofico. Tutto ciò ha reso la lettura (almeno per me) piuttosto sfuggente e un po’ faticosa. Ho apprezzato molto certi dialoghi e certi passaggi dove domina l’ironia; altre parti mi sono parse un po’ enfatiche e posticciamente didascaliche. Lettura non particolarmente appassionante.
Coraggio femminile
Dopo la prima guerra mondiale, in Inghilterra come in ogni altro Paese coinvolto dal conflitto il numero delle donne superava di gran lunga quello degli uomini. Questo romanzo, che descrive la società inglese fra gli anni ‘20 e ‘30, è quindi prevalentemente femminile, non solo perché la protagonista è una donna, non solo perché si aggrega ad un circolo di sole donne dedito ad una attività per lo più femminile, ma anche perché la figura della donna esce assolutamente vincente su quella maschile. Le uniche figure maschili totalmente positive sono quelle dei defunti (il padre e il fratello di Violet); le altre o sono del tutto marginali nel racconto o hanno comportamenti discutibili: a parte lo stolker Jack Wells, che assume il ruolo di antagonista, il campanaro Arthur, con tutti i suoi modi rispettosi e generosi, non brilla per integrità, se si pensa che, pur essendo sposato, ha sedotto una donna molto più giovane, limitandosi a qualche lacrimuccia e a quattro scampanate quando ha saputo di essere diventato padre, guardandosi bene dall’occuparsi concretamente della faccenda. Anche il fratello di Violet, Tom, dietro ai suoi modi affettuosi e ad una apparente complicità con la sorella, nasconde un atteggiamento per lo più maschilista, dando per scontato che ad occuparsi della vecchia madre dovrebbe essere lei.
Il vero esempio di coraggio lo dà la protagonista, quando decide di lasciare la città di origine nonostante l’opposizione della madre e, più subdola, del fratello e quando affronta le malignità e il disprezzo altrui, per la sua scelta di vivere da sola, di fare escursioni solitarie, di affrontare senza peli sulla lingua il suo datore di lavoro, di essere amica e persino convivente di due lesbiche, di essere una madre senza marito.
Il racconto è piacevole e accattivante; le figure rappresentate hanno tutte contorni sfumati che le rendono realistiche e umane; ho trovato molto interessanti i dettagli circa l’arte campanaria (e credo che anche quelli sul ricamo possano soddisfare chi se ne intende).
La società inglese tra le due guerre, con tutti i suoi pregiudizi e le sue ipocrisie, è decisamente ben descritta e, a dirla tutta, anche molto attuale.
Nel complesso un testo di buono spessore.
Una meravigliosa e drammatica avventura
Basato sulla cronaca di Antonio Pigafetta, il libro traduce in lingua moderna la straordinaria avventura di Magellano nel viaggio che tra il 1519 e il 1521 rappresentò la prima circumnavigazione completa del globo. I due autori (l’uno affermato giornalista d’inchiesta e l’altro ufficiale di marina decorato) ricostruiscono ogni momento della grande impresa, rispettando il più possibile la verità storica, compensandone le lacune con ipotesi narrative assolutamente verosimiglianti. Il racconto è vivo e accattivante, lo stile immediato e preciso. Pur essendo in origine un resoconto storico, si trasforma in un vero e proprio libro di avventure. Consigliatissimo.
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Una Grazia a tutto tondo
Non so se Grazia Deledda si sarebbe riconosciuta in questa rappresentazione della sua persona e della sua vita; la figura che ne balza fuori è comunque vivida, ben definita, circolare. È una Grazia ruggente, determinata, contestatrice, ma nel contempo desiderosa di conferme, autocritica, persino fragile. Insomma appare vera, umana. La pièce è ben congegnata, isolando nei tre atti tre momenti cruciali della vita della scrittrice, i quali inducono in lei riflessioni profonde sul significato della sua esperienza e della sua esistenza stessa. Mi piace da sempre la scrittura di Fois, ricca, affascinante nella sua profondità, in bilico spesso tra prosa e poesia. Fate come me: leggete questo libro d’un fiato, per apprezzarne maggiormente l’ organicità.
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Inquietante
Racconto piuttosto inquietante, che attua la demolizione dello stereotipo dell’amore materno. La protagonista, che indossa le maschere della madre di famiglia e della intellettuale di successo, è preda in realtà di uno spirito di indomabile ribellione, motivato da sentimenti tutt’altro che nobili che creano in lei senso di colpa e rimorsi profondi. Circostanze non previste la portano ad un gesto in apparenza morbosamente insensato (il “rapimento” di una bambola), che alla fine diventa però uno strumento per salvare un’altra donna dagli stessi errori commessi dalla protagonista.
Stile raffinato e ponderoso, teso all’indagine profonda delle azioni e dell’intimità del personaggio.
Si legge con piacere, benché lasci l’amaro in bocca.
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Affascinante classico giallo
Delizioso racconto poliziesco, dalla struttura classica e dallo stile pulito e coinvolgente. La semplicità della trama appare evidente solo alla conclusione, quando ci si rende conto che tutti gli elementi per comprendere la situazione erano già espliciti e disponibili dall’inizio delle indagini, mentre molti indizi e testimonianze sembravano portare in altre direzioni. Sono presenti i ruoli tipici di molti gialli: a parte la protagonista (Mary Lester, la investigatrice intelligente, intraprendente, energica ed insubordinata nella giusta misura), troviamo un capo vessatore, succube delle sue ambizioni e poco dotato in campo investigativo; un aiutante della protagonista, meno lucido di lei, ma prezioso in diversi momenti della storia; un poliziotto esperto di informatica, anche se pericolosamente imbelle nelle azioni sul campo; dei testimoni reticenti o oppositori. Affascinante l’ambientazione in Bretagna, con le scogliere oceaniche, le case dei pescatori, i traghetti, le maree ed i tramonti sul mare, su cui lo scrittore indugia spesso, trasmettendoci il suo amore per questi luoghi stupendi.
Si legge d’un fiato e soddisfa.
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Sincero e profondo
Romanzo profondo e sincero. Scrittura elegante, fine, curata, fuori dagli schemi in questo tempo in cui sono tanto di moda la sgrammaticatura e l’improvvisazione. La descrizione dell’amicizia maschile fra i due protagonisti è vera, convincente, toccante. L’amore dell’autore per la montagna trasuda da ogni pagina e coinvolge anche chi non ce l’ha. A distanza di qualche anno dall’uscita, per me è stata una scoperta sorprendente. Da leggere e gustare assolutamente.
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Un eroico passato
Devo ammettere che, soprattutto all’inizio, ho faticato un po’ a leggere questo libro. La (pur motivata) frammentazione del racconto, l’andirivieni nei tempi e nei momenti narrativi, l’alternanza fra romanzo e relazione storica, l’esposizione gradualmente allusiva e non direttamente esplicita degli eventi... tutto ciò richiede un buon impegno da parte del lettore. Questo vale anche per il linguaggio, piuttosto mutevole, a volte colto, più spesso gergale e improntato sul discorso diretto libero, con frequenti cambi di soggetto e di punti di vista, che dà la sensazione di una scrittura di getto, molto improvvisata e poco curata (ma è solo una sensazione). In realtà il libro è frutto di una ricerca estremamente meticolosa, fra archivi, documenti e testimonianze e, anche se la ricostruzione della storia dei Mazzucco ha portato a risultati solo parziali, il romanzo riesce a trasmettere in modo assai vivido la realtà degli emigranti italiani in America fra ‘800 e ‘900. Soprattutto nel finale, viene data particolare (e a mio parere esagerata) enfasi alla passione amorosa adolescenziale fra i due protagonisti, Diamante e Vera, che lascia un retrogusto malinconico, un po’ troppo “rosa”, alla lettura. Nel complesso comunque ti rimane un segno, perché il libro ci mette a contatto in maniera assai realistica con un difficile ma eroico passato che ha interessato milioni di italiani e di cui rischiamo sempre di non vedere (o meglio di non voler guardare) la drammatica reiterazione nel presente da parte di tanti altri attorno a noi.
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Intrigante e profondo
Amo molto le atmosfere deleddiane dei romanzi di Fois, con la sua capacità di penetrare e trasmettere lo spirito della Sardegna più tradizionale ed esclusiva. Il racconto è intrigante e ricostruito attraverso richiami, allusioni, ricordi dei personaggi. Il linguaggio di Fois è sempre fortemente evocativo, denso, carico di simboli e metafore, mirato sul significato delle cose più che sul loro svolgersi. Ho trovato appassionante la saga dei Chironi nei romanzi Stirpe, Nel tempo di mezzo e Luce perfetta, e ne ho ritrovato i sapori in questo bel libro, veloce e sintetico, ma potente.
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Interpretazione intimistica del giallo
Questo terzo volume dedicato al maresciallo Fenoglio differisce molto dai precedenti. Se volete un giallo classico, leggete il bellissimo primo romanzo della serie (“Una mutevole verità”); se al racconto giallo volete in aggiunta una trattazione dettagliata di come è organizzata la mafia pugliese e di come funziona il pentitismo, leggete il secondo interessante romanzo (“L’estate fredda”); se preferite una serie di racconti incorniciati entro un dialogo incentrato sui metodi dell’indagine investigativa (e anche un po’ sui massimi sistemi della vita) scegliete “La versione di Fenoglio”. Personalmente, ho preferito gli altri due libri, più rispondenti alle aspettative. La scrittura di Carofiglio è sempre molto piacevole ed elegante, ma in questo romanzo ho fatto fatica ad individuare il vero tema centrale: è un’indagine nella mente e nell’animo del maresciallo? È la storia di un’amicizia fra due anime affini? È una riflessione (o addirittura un manuale) sull’investigazione, sui metodi polizieschi e su come si conducono gli interrogatori? A volte si ha l’impressione che la pagina (che includa un ricordo del maresciallo, una riflessione, un momento di dialogo fra i due interlocutori) abbia principalmente lo scopo di raccogliere, un po’ alla rinfusa come uno Zibaldone, meditazioni, emozioni, pensieri, sospiri dell’Autore, vero protagonista dell’opera. Certo più che un giallo, come ci si aspetterebbe, è una libera interpretazione del giallo, molto colta, molto intimistica, ma non sempre avvincente.
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Racconto appassionante
Identificarsi e parteggiare con i protagonisti è un processo piuttosto automatico in tutti i racconti di Grisham, anche se - come in questo caso - si tratta di tre giovani scapestrati che, invece di impegnarsi nello studio, ideano una truffa colossale ai danni di una potente lobby. La simpatia verso questi ragazzi è favorita dal fatto che sono prima di tutto loro stessi vittime di un sistema finanziario oppressivo e dalla loro innegabile somiglianza con Robin Hood, che rubava ai ricchi prepotenti per dare ai poveri. In questo libro non ci sono delitti efferati, né sparatorie o inseguimenti alla James Bond, però la tensione narrativa non si allenta quasi mai e il racconto si gode dall’inizio alla fine.
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Orrori su cui meditare
Ricostruzione storica accuratamente documentata della vita di Rudolf Höss, il noto criminale nazista al comando del lager di Auschwitz, e del meno noto Hanns Alexander, ebreo tedesco naturalizzato inglese che ne mise a segno, dopo la caduta del nazismo, la cattura. Si legge come un romanzo, ma la consapevolezza che è vera storia infonde fortissimi sentimenti di orrore e raccapriccio, non solo in relazione alle atrocità avvenute nei campi di concentramento, ma anche per le domande che la doppia personalità di Höss suscita nel lettore: come è possibile conciliare la freddezza inumana con cui il comandante ha diretto, assistendovi personalmente, il massacro di milioni di esseri umani, inclusi bambini, con il calore affettuoso che sapeva manifestare verso i suoi familiari, in particolare verso i figli? E come è possibile mantenere anche a distanza di anni un atteggiamento di totale apatia, avulso da ogni forma di pentimento, verso le proprie colpe? Colpisce che una delle poche forme di disagio espresse da Rudolf Höss ripensando alle gassazioni fosse la puzza nauseante emanata dai forni crematori e che la “soluzione finale” venga esecrata solo perché sarebbe stata la causa della reazione delle potenze contro la Germania, provocando la caduta di Hitler. È inquietante pensare che un uomo comune, non mentalmente malato, amante della campagna e della famiglia, possa divenire e rimanere talmente succube di un sistema ideologico e politico da soffocare ogni senso morale e rieducare la propria coscienza alla sopportazione indolore delle più impressionanti efferatezze.
È un libro memorabile, su cui meditare con attenzione. Mi dispiace che il buon lavoro del traduttore non sia stato supportato da un editing accurato, che avrebbe potuto eliminare qualche refuso e qualche costruzione grammaticale non proprio perfetta, dando maggior valore all’eccellente prosa dell’autore.
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Illuminante
Lettura illuminante. La questione palestinese, dal dopoguerra ad oggi, vista dalla prospettiva araba. Esproprii, ingiustizie, violenze e massacri operati o tollerati dall’esercito israeliano ai danni della popolazione palestinese, costretta a lasciare terre e case da secoli appartenute alle loro famiglie, a vivere in tende e casupole di argilla, sotto il costante controllo di presìdi armati. I protagonisti della storia sono inventati, ma rappresentano efficacemente l’esperienza di tanti realmente vissuti e realmente morti di morte violenta in questa area geografica tormentata. Il libro non incita all’odio verso gli ebrei, ma dà voce al dolore e alla disperazione di un popolo oppresso, spesso trascurato o calunniato dai media, ben poco ascoltato da politici e governanti.
La scrittura di Susan Abulhawa è penetrante ed efficace. Ho trovato a volte ridondante il linguaggio figurato, carico di metafore e similitudini, che conferiscono al testo (specialmente negli ultimi capitoli) un tono uniformemente enfatico. Interessante invece l’alternanza fra la narrazione in terza ed in prima persona (calzante particolarmente nei momenti di maggiore tensione).
Libro scorrevole ma impegnativo, da leggere quando si è pronti a guardare in faccia lo strazio e le ingiustizie di questo mondo.
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Per lettori tenaci
In ottocento pagine non puoi non affezionarti ai tre personaggi principali (e ai due figli), indagati nei più intimi recessi del loro animo. Interessantissimi l’ambientazione geografica (non sapevo, per esempio, che in Israele ci fossero meravigliosi luoghi naturali come quelli in cui Orah e Avram fanno la loro lunga escursione) e il contesto storico (impressionante lo stato di ansia che persiste nella popolazione per timore di attacchi terroristici; angosciose le scene di guerra). Devo però dire che l’indagine psicologica dei protagonisti (in particolare di Orah) è così minuziosa da sfiorare il maniacale e talvolta così fine a se stessa da sfinire il lettore. È un bel libro, adatto però a lettori tenaci.
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Breve, ma intenso
Inizialmente ho avuto l’impressione che l’argomento principale fosse l’epilessia da cui è affetto il giovane protagonista; solo dopo qualche capitolo è stato chiaro che la malattia e la ricerca di una cura efficace non erano che un pretesto: nella storia determinano le circostanze che permettono ad un figlio adolescente e ad un padre separato di incontrarsi e di conoscersi praticamente per la prima volta. L’intimità emotiva ed intellettuale che si instaura tra i due è davvero coinvolgente, ti assorbe, tocca spesso corde sensibili in chi, come me, ad una certa età ripensa con malinconia e affetto ad un genitore ormai perduto.
La scrittura di Carofiglio è sempre chiara, intelligente, ricca. Le frequenti citazioni colte, che potrebbero apparire stucchevoli, hanno qui una ragion d’essere, se si tien conto che il padre del protagonista è un docente universitario.
Consiglio vivamente la lettura di questo romanzo, breve ma intenso.
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Idea sprecata
L’idea di base è interessante e avrebbe potuto aprire intrecci molto avvincenti… Purtroppo trovo che il romanzo di Licalzi abbia calcato la strada più scontata e convenzionale e che da un certo punto in avanti si riduca ad una semplice per quanto confusa storia d’amore. Il finale non soddisfa e le giustificazioni dell'autore a riguardo appaiono un po’ roboanti. Naturalmente, nulla da dire sullo stile, chiaro e scorrevole.
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Fuga da una società profondamente malata
La scrittura di Lionel Shriver è ontologica, punta a spiegare il significato più basilare delle cose riportandole a livello di una visione globale della vita, della società, dell’uomo. Dal romanzo emerge una concezione molto critica della società occidentale, condannata praticamente da tutti i personaggi (e quindi dall’autrice) per il suo consumismo, le sue contraddizioni, i suoi egoismi, per la non curanza della dignità delle persone (in particolare è preso di mira il sistema sanitario statunitense pre-Obama, signoreggiato dalle assicurazioni private). Proprio come reazione da questo contesto nasce il sogno di Shep: una fuga verso mondi primitivi, dove ritrovare il valore delle cose essenziali. Anche questo sogno in realtà è espressione all’inizio del romanzo di un profondo egoismo, ma le vicende che ne ostacolano la realizzazione permettono al protagonista un ripensamento di se stesso, lo aprono verso gli altri, cosicché l’attuazione del suo progetto si realizzerà – altruisticamente – in compagnia di tutti gli sfortunati della vicenda. Molto intensa e purtroppo assolutamente veritiera l’analisi delle relazioni umane nell’ambito della famiglia, della cerchia degli amici, del vicinato, dell’ambiente di lavoro. Mi ha colpito particolarmente la personalità di Jackson, l’amico del protagonista, cinico censore della società americana, e per questo principale sostenitore del sogno di fuga dell’amico Shep, ma vittima egli stesso dei modelli di quel mondo (tanto da sottoporsi ad un intervento di chirurgia plastica assolutamente inutile e dalle conseguenze disastrose). La Shriver è molto verbosa ed è inevitabile che su 550 pagine alcune risultino noiose e meno interessanti. Comunque la storia è emozionante e arricchisce.
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Lettura piacevole
L’intreccio funziona e ha tutti i crismi del giallo classico: ambiente circoscritto e numero limitato di sospettati; indizi veri e indizi falsi sapientemente miscelati in modo da fuorviare prima, instradare poi i sospetti del lettore; un inquirente ufficiale un po’ impacciato, che ottiene le dritte da un altro personaggio dalle qualità investigative più sottili; uno scenario affascinante (il castello di una famiglia nobile nella Maremma di fine Ottocento). Ciò che colpisce maggiormente è la scrittura, che miscela ironicamente un linguaggio pseudo-ottocentesco ed uno stile pomposo ad un registro colloquiale piuttosto moderno e volutamente volgarotto. Si legge con piacere.
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Giallo di spessore
Giallo di spessore dall’intreccio appassionante, imperniato sull’idea di una società profondamente corrotta, dove i potenti senza scrupoli usano il loro potere per soddisfare i propri desideri e difendere la propria impunità, mentre chi, come il protagonista Laurana, si prende la libertà (anche per semplice esercizio intellettuale) di esplorare nelle trame oscure lo fa a suo rischio e pericolo e perciò non può essere definito altrimenti che un “cretino” (questo è il giudizio conclusivo emesso dai compaesani, e amaramente dallo stesso autore, su Laurana nell’ultima battuta del libro).
La trama è prevalente rispetto alla rappresentazione dei personaggi, che pur nella diversità dei ruoli si assomigliano un po’ tutti, incarnando il siciliano colto ma pettegolo e dando risalto ad una sicilianità passionale ma passivamente assuefatta agli intrighi dei potenti.
La prosa di Sciascia è speciale, dotta, sintatticamente molto elaborata, ricca di allusioni e di citazioni erudite.
Meglio resistere alla tentazione di leggerlo in fretta, per assimilarne più a fondo le ricchezze.
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Lettura emozionante
Grazia Deledda ha sicuramente meritato il premio Nobel e questo romanzo (che fu menzionato dalla commissione giudicatrice nella cerimonia di conferimento) ne è una forte dimostrazione. La vera protagonista è la Sardegna che non rappresenta solo lo sfondo della vicenda, ma ne impregna lo svolgimento ed i personaggi con le sue tradizioni, le sue credenze, i suoi costumi, la sua mentalità, la sua umanità. I personaggi sono assolutamente veri, tutti convincenti, anche quelli che fungono da comparse fugaci. Anania, il personaggio centrale, è rappresentato nel suo crescere da sprovveduto fanciullo a giovane adulto più consapevole (ma non troppo) in modo profondo ed articolato. La storia è avvincente, anche se narrata in uno stile molto lontano da quello cui ci hanno abituati il cinema d’azione e la letteratura contemporanea: le parti descrittive a volte prevalgono sull’intreccio (anche perché, come spiegano i critici, svolgono la funzione di corrispondere oggettivamente agli stati d’animo dei personaggi) e in certi casi assumono toni elegiaci che rischiano qua e là l’esagerazione. Anche la relazione amorosa fra Anania e Margherita è narrata con accenti enfatici cui non siamo forse più avvezzi, ma che naturalmente vanno collocati nell’epoca di composizione del romanzo e si possono spiegare con la stessa ingenuità dei due adolescenti. E’ stata una lettura emozionante, una riscoperta da non sottovalutare.
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Lettura irrinunciabile
Pur essendo narrata dal punto di vista privilegiato di un personaggio (il servo Efix), è una storia corale, animata da tante personalità molto ben definite, con caratteri, abitudini, mentalità assolutamente plausibili ed approfonditi. Alcune scene collettive (come la festa di Nostra Signora del Rimedio descritta nel quarto capitolo) immergono il lettore nello spirito della tradizione sarda, con la sua religiosità popolare, i suoi colori e accenti, i suoi principi di vita e valori, spesso sintetizzabili in un detto, un proverbio, una racconto magico, una superstizione, e assumono una risonanza quasi epica. Sono molto accattivanti i dialoghi, che sanno riflettere in modo coerente e naturale le caratteristiche di ciascun personaggio. La storia è appassionante e carica di tensioni. La descrizione paesaggistica (ridondante, come in tutti i romanzi della Deledda) dà risalto alla straordinario ambiente naturale della Sardegna, aspro, selvaggio eppure ricco di colori e sfumature. Il tono della narrazione è spesso enfatico, e ciò può alla lunga disturbare il lettore contemporaneo abituato ad una prosa più informale, ma va ragionevolmente collocato nel periodo storico-letterario della composizione del romanzo. Lettura di alto pregio, irrinunciabile per chi non conoscesse l’opera, da replicare per chi (come me) l’avesse affrontata solo a scuola.
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Romanzo intelligente e piacevole
Romanzo intelligente e profondo. La tensione narrativa rimane viva non grazie alle vicende (ridotte al minimo; tutto il testo è basato su ricordi di un lontano passato ripensati, riesaminati e rielaborati ), ma grazie all’attesa di qualcosa, una rivelazione, una spiegazione, una risposta, che tarda a venire. Lo svelamento graduale di certi particolari reitera più volte l’effetto sorpresa, rafforzando in tutto il libro la curiosità del lettore.
Stile sostenuto e raffinato. Ho trovato un po’ pesante l’utilizzo frequentissimo delle similitudini, proposte nella prima parte del libro praticamente ad ogni frase; la lettura diventa più sciolta nella seconda parte, durante il lungo monologo del protagonista.
Il finale sarebbe deludente se ci si aspettasse un evento drammatico o un colpo di scena; in realtà l’intero monologo del protagonista punta a stemperare l’esigenza di ulteriori svelamenti sugli eventi e l’interpretazione che ne viene data soddisfa sia lui che il lettore.
Ringrazio gli opinionisti di Qlibri che hanno consigliato questo bel romanzo.
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Fenomenale
Rileggere classici come questo suscita una gran nostalgia verso una letteratura che non solo sapeva rappresentare l’umanità nelle sue pieghe più eterogenee ma aveva anche l’obiettivo di trasmetterti un messaggio costruttivo ed edificante. Purtroppo chi anche leggesse il libro oggi per la prima volta potrebbe difficilmente eludere l’influenza del famoso (e bellissimo) film del 1962 di Robert Mulligan: il personaggio di Atticus non può non avere le fattezze di Gregory Peck, gli ambienti della vicenda (il quartiere, il bosco, il tribunale) sono inevitabilmente quelli della pellicola. Peccato, perché il romanzo è molto più ricco, colorato e “tridimensionale” del film: Atticus non è solo un eroe e paladino della giustizia, ma un papà premuroso, talvolta severo, talvolta complice e non sempre impeccabile; i bambini hanno caratteri differenti e mutevoli (in particolare è interessante il graduale distacco tra Scout e il fratello maggiore, entrato nell'adolescenza e sempre meno coinvolto dai discorsi e dai giochi della sorella). Mirabile la descrizione della provincia del sud degli Stati Uniti, disperatamente ancorata alle proprie tradizioni ed al razzismo impietoso verso i “negri” e i diversi d’ogni genere: il fatto che ne venga fatta una descrizione dal punto di vista di una bambina trasmette l’idea che il senso di giustizia innato in ciascuno di noi vada perdendosi, salvo rare eccezioni, quando da adulti si aderisce alle convenzioni sociali; lo stesso sistema giudiziario (meno che mai quello americano) non è in grado di difendere ciò che è giusto dagli attacchi dei pregiudizi e dell’astio. Lo stile narrativo è efficace perché associa la mentalità infantile della voce narrante con un registro linguistico piuttosto sostenuto ed elegante. L’unica forzatura è un certo parlar sentenzioso messo in bocca, qua e là, ai bambini, che – poco credibilmente – riescono a cogliere in una frase l’essenza di certe situazioni. L’ho letto da ragazzo, e mi è piaciuto. L’ho riletto a cinquant’anni, e l’ho trovato fenomenale.
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Da leggere d'un fiato
Camilleri e Montalbano non deludono mai. Stavolta i casi che coinvolgono il commissario sono tre, contemporanei ma indipendenti: una storia “vigatese” ricca di passioni e intrighi; una vicenda di traffico d’armi, nobilitata – se così si può dire – dall’obiettivo rivoluzionario in Tunisia e con un colpo di scena finale sconvolgente per Montalbano; uno “sbandamento” romantico del commissario, che gli permette di subodorare (con un ritardo notevole rispetto al lettore, non accecato come lui dalla passione) e poi di sventare un commercio illecito. Consueto mix di umorismo, avventura, introspezione, dramma, sentimento, che soddisfa pienamente. Da leggere d’un fiato.
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La colorita Roma del dopoguerra
Un repertorio pittoresco di personaggi della Roma del dopoguerra: disoccupati, sfaccendati, piccoli ladri maldestri, piccoli bottegai, fattorini, camerieri, accomunati da una scalogna congenita e irrimediabile. Le loro avventure-disavventure appaiono comiche se le consideriamo semplice invenzione letteraria; sono amare e tragiche se le vediamo come specchi di una realtà storicamente esistita nel periodo della ricostruzione subito dopo la II guerra mondiale. Riconoscibili molte situazioni alla base di tanti film del genere “commedia italiana” girati negli anni ’50 e ’60. Tutti i racconti sono narrati in prima persona dal protagonista di turno, con un linguaggio colloquiale e popolaresco che cattura e contribuisce alla definizione del clima e dell’ambiente della vicenda. La prosa di Moravia è sempre ricca, efficace ed elegante. Lettura attualissima, nonostante sia passato oltre mezzo secolo dalla pubblicazione.
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Affascinante esordio di Wilbur Smith
Il protagonista è il tipico eroe dei racconti di avventura: coraggioso, forte come un leone, intelligente, affascinante, pieno di spirito di iniziativa, fondamentalmente buono; un personaggio sul quale si attiva subito il processo dell’immedesimazione. Non è privo di debolezze, che però inserite nel contesto diventano accettabili: per esempio è irascibile, ha una certa mancanza di scrupoli, è pronto alla violenza quando i suoi interessi vengano messi in pericolo, si abbandona a piaceri non sempre moralmente leciti, ha una certa rozzezza di modi.
A questo eroe non manca la fortuna, ma in più occasioni gli si riversano addosso eventi tragici che cambiano totalmente il corso della sua vita: il suo eroismo maggiore è la capacità di sopportare e reagire a questi drammi.
È il romanzo d’esordio di Smith e ciò giustifica una certa discontinuità: la prima parte, narrata da più punti di vista, introduce una serie di interessanti tensioni narrative quasi alla Steinbeck, evidenti nel rapporto tra i membri della famiglia e in particolare nel legame via via più problematico tra i due gemelli; questa promettente base si perde del tutto nelle altre due parti del libro, nelle quali si seguono esclusivamente le movimentate vicende di Sean. In effetti anche un drammatico equivoco sorto tra i due fratelli rimane del tutto irrisolto e mai chiarito nel corso del romanzo. Persino l’Africa, che pure nei libri di Smith rappresenta spesso la vera protagonista, non è veramente presente se non nella terza sezione, dove finalmente appaiono i grandi spazi, le foreste e la savana, l'aridità assoluta e le inondazioni, gli animali selvaggi; le prime due parti potrebbero invece essere ambientate ad esempio nel far west americano, se solo si sostituissero agli zulu una guida pellerossa e un servitore afroamericano.
A parte questi limiti, il romanzo è godibile e soddisfa le attese degli amanti dell’avventura. La classe di Wilbur Smith si vede nella competenza dell’ambientazione (i particolari circa la ricerca dell’oro, ad esempio, rivelano una conoscenza tecnico-scientifica quasi da minerologo), nella spigliatezza dei dialoghi, nel dinamismo delle vicende. Mi è piaciuta molto la rappresentazione, assolutamente realistica ed efficace, della amicizia tipicamente maschile fra Sean e Duff, legati da un affetto profondo che non ha bisogno di essere ammesso né espresso. Il finale può suscitare qualche perplessità, ma serve a confermare l’eroismo stoico del protagonista, sempre pronto a ricominciare anche dopo le più penose avversità.
Smith è sicuramente uno scrittore da amare e anche questo successo editoriale che risale a circa cinquanta anni fa è ancora in grado di affascinare e di sorprendere.
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Meraviglie del cervello umano
A qualcuno che volesse accostarsi per la prima volta ad Oliver Sacks probabilmente non consiglierei questo libro, ma piuttosto “Un antropologo su Marte” o “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” o “Risvegli”, testi incentrati su casi clinici specifici particolarmente emozionanti. “L’occhio della mente” mi è apparso differente, meno diretto al grande pubblico e più interessante per gli studiosi di neurologia. Soprattutto nella sezione conclusiva le considerazioni si fanno profonde, affascinanti sì, ma colte e specialistiche. Anche il capitolo relativo all’esperienza diretta dell’autore, colpito da un tumore all’occhio, per quanto umanamente toccante, registra sensazioni e dettagli così specifici e minuziosi da apparire più che altro del materiale di prima mano messo a disposizione di future ricerche scientifiche.
Detto ciò, indagare nelle complessità del cervello umano è sempre ammaliante ed intrigante. Fa meraviglia la capacità della nostra mente di adattarsi a situazioni e cambiamenti anche radicali, come la perdita di un occhio o della vista. Aree del cervello appositamente dedicate ad una capacità sensoria specifica non vengono annullate dalla perdita di quel senso, ma continuano ad operare in modi assolutamente ingegnosi e personalizzati per offrire un prestazione alternativa, a volte più creativa ed efficace di quella “normale”. Lo stesso concetto di “normalità”, del resto, quando si parla di cervello non ha alcun senso, visto che ciascuno di noi sembra elaborare il pensiero con modalità del tutto individuali e differenziate.
Con questo libro, Sacks inserisce un ulteriore tassello all’interessante mosaico sulla mente umana che negli anni ha messo a disposizione di tutti. Da leggere, se già conosci altri tasselli.
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Un crogiolo di vicende, personaggi, emozioni
È narrato in prima persona dalla protagonista, Eva Luna, ed imita le caratteristiche tipiche dell’autobiografia: gli avvenimenti vengono non solo narrati, ma ripensati a distanza di anni, accostati per associazione di idee e reinterpretati alla luce di avvenimenti successivi o precedenti. Il filo narrativo segue due strade apparentemente separate, ma di cui si presagisce l’incontro che si verifica negli ultimi capitoli. Il tempo narrativo è flessibile, con frequenti anticipazioni, flashback, rallentamenti narrativi ed excursus rapidissimi. Colpisce l’incredibile varietà di personaggi che compaiono nella storia, la riempiono di avvenimenti ed emozioni, e poi scompaiono spesso definitivamente. Le lotte rivoluzionarie sudamericane, che per buona parte del libro restano solo uno sfondo vago, entrano in primo piano sul finale. In questo grande crogiolo di vicende, personaggi, sentimenti, qualcosa sfugge: non sono sempre chiari gli intenti della scrittrice, il messaggio di fondo, la logica che guida la narrazione. Ma forse la vita è davvero così e non tutto ciò che accade segue un percorso razionale e comprensibile. Sotto questo aspetto, Eva Luna è un libro interessante e godibile.
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Ironia, humour e inquietanti intrighi
Il filo del racconto non è sempre semplicissimo da seguire, per il numero considerevole di personaggi e per le “trame oscure” che dirigono dietro le quinte gli avvenimenti. Comunque, come avviene normalmente nei polizieschi, una specie di riassunto viene messo in bocca ad uno dei personaggi (un giornalista che conosce o intuisce i retroscena dei fatti) verso la fine del libro; dal canto suo il protagonista, caporedattore regionale della Tv di Stato, capisce, fiuta, intravede e prevede, ma accortamente tiene per sé le informazioni, non precisandole nemmeno nei suoi pensieri, almeno quelli esplicitati al lettore. La storia è inquietante, se davvero lo spaccato che offre delle interconnessioni fra giornalismo, politica, magistratura, mafia e quant’altro corrisponde alla realtà. Ed è inquietante pensare che a farla franca è chi si adegua alla situazione, come fa il protagonista, che è simpatico e “perbene”, ma non è affatto una persona cristallina e ammirevole. Il tutto viene raccontato prevalentemente sotto forma di dialoghi (un ambito nel quale Camilleri sa eccellere), simili in certi casi ad intercettazioni ambientali. Gradevole nel complesso, come è normale per i romanzi di Camilleri, ricchi di ironia, humour e intrighi.
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Appassionante
Ho trovato questo libro molto appassionante. La narrazione affidata a turno ai due protagonisti rende la lettura più movimentata e sfaccettata, e il fatto che uno dei due narratori sia un anziano (con i suoi acciacchi, le sue fissazioni, il suo mondo di memoria, la sua pazienza, i suoi disinganni, la sua consapevolezza circa il proprio futuro) è un valore aggiunto che conferisce una patina speciale alla scena (personalmente, benché non sia così anziano, ho condiviso con Julián alcuni stati d’animo, e non perché mi chiamo come lui).
Alcuni elementi della storia sono certamente carenti (trovo poco approfondito il rapporto di Sandra con la propria maternità e un po’ approssimativo e posticcio l’innamoramento con l’ “Anguilla”); nel complesso però il racconto è originale, ricco di suspense, capace di far riflettere. Uno dei recenti successi editoriali che mi sento di consigliare.
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Come si schiaccia la dignità di un uomo
La scrupolosissima indagine effettuata dall’autore su lettere, documenti, testi, scritti da Galileo e da coloro che hanno avuto in qualche modo relazione con lui e il suo entourage, dà come risultato una narrazione biografica assolutamente affidabile e precisa, inserita con molta competenza nell’ambiente culturale, scientifico e religioso dell’epoca. Egidio Festa è, prima che uno storico, uno scienziato che ha collaborato alla realizzazione del Ciclotrone criogenico: è dunque intrigante vedere come un uomo di scienza dei nostri tempi (aduso all’apertura verso ogni scoperta dimostrata) si ponga davanti al mondo scientifico del ‘600, con tutti i suoi pregiudizi, le sue opprimenti connessioni con la filosofia e teologia, i suoi miti, le sue resistenze verso ogni scoperta in grado di smantellare le certezze assolute di sempre. Il libro, nonostante l’attenzione persino pedante (da scienziato) verso certi dettagli storici, perde raramente la sua tensione narrativa, accompagnando il lettore attraverso non solo le scoperte più o meno sensazionali (e più o meno valide) di Galileo, ma anche le intenzioni, le aspettative, le speranze, i successi, le delusioni, le frustrazioni, gli sconforti del grande scienziato, fino al gran finale: lo storico processo, l’abiura e la condanna del Santo Uffizio. Dalla narrazione di Festa risulta un Galileo fortemente diviso tra le convinzioni scientifiche e la fede religiosa, tormentato da un lato dall’esigenza ormai ineluttabile di accettare e affermare ciò che è scientificamente dimostrato ( e coraggioso nella lotta contro i colleghi retrivi), ma dall’altro lato dal desiderio di sottomettersi all’autorità del magistero cattolico, dispoticamente e aggressivamente ancorato alla tradizione. Suscitano persino compassione i suoi tentativi di difesa, ricorrendo anche a qualche bugia, di fronte ai giudici del’Inquisizione e ci si chiede come sia stato possibile schiacciare un uomo della sua levatura sotto tale umiliazione. La Chiesa cattolica conserva in relazione a ciò una grave responsabilità che la riabilitazione voluta da Giovanni Paolo II non ha cancellato che in parte, come Festa dimostra acutamente. Libro da leggere e conservare tra i migliori saggi di storia della biblioteca di casa.
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Svelamento di un segreto
Sapiente mescolanza di ingredienti adatti a chi ama i drammi a forti tinte: dolore, abbandono, morte, uccisioni, trame oscure, ma anche gioie, amore, pentimento, perdono, ritrovamenti. La storia è affascinante, benché sotto alcuni aspetti poco verosimile (ma con quello che vediamo nella realtà odierna, c’è ancora qualcosa che si possa giudicare inverosimile?). I toni accesi della trama, comunque, giungono al lettore stemperati da almeno due elementi che rappresentano, più della trama stessa, gli aspetti più interessanti del romanzo:
1) la narrazione delle identiche vicende attraverso differenti punti di vista: grazie a ciò gli avvenimenti appaiono filtrati dai personaggi che tendono, spinti da motivazioni diverse, a reinterpretare la realtà a modo proprio;
2) la profonda, persino cavillosa, indagine introspettiva, per la quale ogni gesto, ogni piega della storia viene analizzata, spiegata, ampliata con digressioni e associazioni di idee e ricordi, adornata di considerazioni sul significato della vita e sulla fragilità dell’uomo.
A causa di ciò la lettura non è sempre scorrevole e facile, ma in fondo la verosimiglianza del romanzo sta proprio in questa volontà di riprodurre i flussi di pensiero e di memoria che caratterizzano il mondo interiore di ogni essere umano e di descrivere come le opinioni e le passioni possano portare alla personalizzazione della realtà.
È un libro piacevole, colto e nel complesso emozionante. Finalone a sorpresa, anche se non del tutto imprevedibile.
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Storia di passioni e morte
Storia di passioni e morte, incentrata su tre personaggi “maledetti” che ricordano – fatte le debite proporzioni – gli eroi della “Valle dell’Eden” di Steinbeck. La narrazione alterna momenti di forte dramma a descrizioni elegiache estremamente minuziose. L’introspezione nell’animo della protagonista, ma anche degli altri personaggi, si sgomitola e si dilata con una tecnica narrativa simile in certi momenti al discorso indiretto libero. Tutto sommato il romanzo si legge con piacere e con il desiderio crescente di conoscere gli sviluppi della vicenda e il finale.
Due cose non mi sono piaciute:
- l’indulgere su scene di sesso esplicito, che a mio parere scadono a volte in una volgarità quasi pornografica;
- il tono costantemente enfatico della scrittura, che rende un po’ “monocorde” lo stile e che talvolta appare artificioso e retorico.
Se sei in vena di accettare questi limiti, è un libro che vale la pena leggere.
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Verosimilissimo, ma divertentissimo
Ho trovato questo romanzo, rispetto ad altri con protagonista Montalbano, più lineare e facile da seguire – e anche un po’ da anticipare – nello sviluppo della trama, ma non per questo meno stuzzicante e piacevole. È una storia assolutamente verosimile ad attuale (lo stesso Camilleri in una nota spiega che fatti analoghi si sono verificati davvero dopo la stesura del romanzo) e perciò non mancano gli aspetti atroci e le turpitudini del mondo, non solo del mondo legato alla criminalità organizzata. Tuttavia le vicende narrate sono ordinaria amministrazione per Montalbano e al centro di tutto stanno soprattutto il suo mondo interiore, la sua consapevolezza di stare invecchiando, i suoi turbamenti non solo sessuali, i suoi dubbi. Ne vien fuori un personaggio sempre più complesso e “vero”, sempre meno macchietta e marionetta. Anche gli altri consueti personaggi che gli girano attorno, nel confermare le loro solite caratteristiche (Augello poco perspicace e molto donnaiolo; Fazio intuitivo e scrupoloso, spalla necessaria al protagonista; Catarella confusionario e deferente; Livia gelosa e litigiosa…), sono rappresentati con maggiore credibilità rispetto ad altri romanzi. Comunque, a farla da padroni sono comicità ed umorismo, prodotti sia dalle situazioni, sia dalle reazioni di Montalbano e degli altri, sia dal linguaggio. È sempre più sorprendente come Camilleri sia riuscito a rendere popolare e comprensibile all’intero popolo della penisola l’idioma siciliano, con tutte le sue peculiarità fonetiche e lessicali e i suoi ironici modi di dire.
Lettura consigliabilissima.
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Un cane indimenticabile
Chiunque possieda o abbia posseduto un cane anche meno scatenato di Marley apprezzerà in modo speciale questo racconto e gusterà le dettagliate e realistiche descrizioni relative alle abitudini, le manie, le esuberanze di questo labrador disubbidiente e adorabile. I ricordi del narratore circa il suo cane si intrecciano ad altri più personali e familiari, che probabilmente interessano meno al lettore (rientrano in una ordinaria quotidianità che non avvince: il lavoro, le gravidanze, i traslochi...), ma che danno l’idea e la misura del legame che si viene a creare tra il cane e la famiglia e aiutano chi legge ad affezionarsi al vero protagonista, Marley. Il finale, forse un po’ prolisso, è molto emozionante e invita ad interessanti riflessioni. Stile giornalistico fresco e immediato, lettura veloce ed affascinante.
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Imparare divertendosi
Ho cominciato ad “entrare” nel libro, a trovarlo avvincente, solo dopo le prime cinquanta-sessanta pagine, quando ho iniziato a intuirne le intenzioni, la struttura, il linguaggio. Allora ho cominciato ad affezionarmi ai personaggi, a divertirmi per il modo popolaresco, burlesco ed ironico di rinarrare la Storia, ad appassionarmi agli sviluppi della vicenda. È un romanzo colto, che presuppone un lungo lavoro preparatorio fatto di studi e ricostruzioni storiche, perciò c'è molto da imparare; è istruttivo nelle descrizioni di cose, usi, costumi, mentalità del mondo contadino tra la prima e la seconda guerra mondiale; è intrigante nel linguaggio, un simpatico impasto fra dialetti nord-orientali e italiano che viene usato dal narratore, messo in bocca ai personaggi e – con effetto umoristico irresistibile – persino ai grandi personaggi storici (da Mussolini a Roosevelt). Il finale è inatteso e piacevole. Sono contento di aver superato i pregiudizi verso un libro troppo pubblicizzato e di averlo letto. E' senz'altro un modo divertente di imparare e meditare.
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Un best seller di qualità
W. Smith sa bene quali sono gli ingredienti di un best seller: tanta avventura; un amore sublime ma contrastato; un eroe dalle doti (fisiche, intellettive, emotive) straordinarie, circondato da una stretta cerchia di “aiutanti” simpatici e volonterosi, e contrastato da una schiera di “antagonisti” spregevoli e potenti, ma un po’ meno furbi e fortunati; un finale che soddisfa. Credo che il piacere di leggere questo romanzo tragga forza però da qualche altra componente: ad esempio da una scrittura elegante e ricca di sfumature, mai forzata né prolissa (nonostante la mole del libro); dai dialoghi sagaci, pieni di ironia e di spessore, ma mai artefatti o stonati; da scene meravigliose in mezzo alla natura selvaggia della savana (l'indulgere su cruente scene di caccia non offende il lettore, perché è ben calato nel contesto storico). È un libro affascinante, che riempie con gusto alcune trascinanti ore di lettura.
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Piccolo gioiello
Lettura piacevole, piccolo gioiello di buona letteratura, agile, introspettivo, attualissimo nel tema della difficoltà comunicativa specialmente negli adolescenti. Ho trovato splendide le descrizioni di rapide immagini relative a piccoli dettagli del mondo e della vita, quelli che tutti annotiamo mentalmente senza rendercene conto quando guardiamo dal finestrino dell’auto o visitiamo una casa di riposo. Finale commovente. Forse meno credibile – ovvero meno chiarito e più lasciato all’interpretazione del lettore – è il meccanismo che ha determinato, attraverso l’incontro con la sorella, il cambiamento interiore del protagonista (cambiamento a mio parere un po’ troppo rapido e “letterario”). Comunque, è un libro che lascia una traccia, come spesso quelli di Ammaniti.
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Come al teatro dei pupi
Non trovo che “Il sorriso di Angelica” sia più o meno bello degli altri libri di Camilleri dedicati a Moltalbano: anche questo è appassionante, divertente, intrigante. I richiami sessuali del commissario “tardone” sono presenti anche in altri romanzi e non mi sembrano il vero centro della storia. Se devo notare una caratteristica peculiare di questo racconto, è piuttosto l’esasperazione di alcuni atteggiamenti: ad essere sopra le righe non è solo Catarella, ma anche gli altri personaggi, Montalbano compreso, che in certi casi si comporta in modo esagerato e un po’ artificioso. Si tratta di un’enfasi che richiama l’eccesso buffo del teatro dei pupi: non è evidentemente un caso, visto che l’Angelica del romanzo diventa per Montalbano la materializzazione del personaggio dell’Orlando Furioso e delle avventure cavalleresche narrate dai cantastorie. Questa melodrammaticità talora esasperata non svilisce, ma arricchisce la narrazione: fa pensare ad un Camilleri burattinaio che si diverte un mondo a muovere nella storia i suoi personaggi ormai dotati di caratteri e comportamenti costanti. Questo divertimento traspare e il lettore non può che esserne coinvolto. Grazie, Camilleri; al prossimo Moltalbano.
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Come si demolisce un profeta
Mi allettava vedere come uno scrittore di grido avesse plasmato la figura del profeta Elia, un personaggio biblico che mi affascina molto. La delusione è stata grande quando mi sono reso conto che Coelho non solo incentra gran parte del suo racconto su episodi del tutto inventati ed estranei alla Bibbia, ma tradisce la personalità stessa di Elia, trasformandola da quella del grande profeta, coraggioso e sottomesso, in quella di un piccolo uomo portato alla lamentela, alla polemica con Dio e all’obbedienza controvoglia. Certo, da uno scrittore ci si poteva aspettare un’elaborazione sia della storia che dell’intimità del personaggio, ma non al punto da attuarne una demolizione. Tanto più che la storia inventata è tutt’altro che avvincente: a me è apparsa molto noiosa, scritta male, con dialoghi infarciti di sentenze ed aforismi, un semplice pretesto per inserire le idee filosofiche (alquanto nebulose e discutibili) dello scrittore. Un libro che non ho intenzione di conservare e che non mi sento di consigliare.
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Un'esperienza devastante
La vicenda di Jeanne, giovane tutsi che vive in Ruanda ai tempi della guerra civile, coinvolge, travolge e sconvolge. Conoscere l'orrore di quei giorni attraverso gli occhi di una bambina, costretta a passare dall'ingenuità dell'infanzia alla consapevolezza della crudeltà umana più efferata, è un dovere per chi - come noi europei - ha generalmente ignorato o addirittura snobbato quelle vicende drammatiche. La scrittrice, ora madre adottiva della protagonista, sa interpretare con grande penetrazione la profonde trasformazioni emotive e psicologiche vissute dalla ragazza e trasmette nei suoi confronti un affetto sincero che il lettore non può non condividere. E' un libro che lascia davvero il segno.
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Operazione editoriale più che opera letteraria
E' soltanto un divertimento letterario che, stando alle parole del curatore editoriale, è frutto di una sorta di gara fra i due autori volta a mettersi reciprocamente in difficoltà mentre sviluppavano a momenti alterni la trama.
Si legge in un momento soprattutto perché è un testo breve e piuttosto evanescente. E' un prodotto editoriale che mette in luce il mestiere dei due autori; di vera letteratura c'è ben poco.
Ne consiglio la lettura in un pomeriggio sotto l'ombrellone per scacciare la noia...
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Musica per la mente ed il cuore
La realtà a volte quotidiana, a volte dura, a volte tragica, di un villaggio del Galles viene trasfigurata attraverso gli occhi di Gwenni, una bambina ingenua e un po’ “stramba” all’inizio del racconto, una preadolescente più consapevole alla fine. Non riesci a non affezionarti a questa ragazzina e alla sua magica visione delle cose, alla sua eccezionale sensibilità, al candore con cui guarda e reagisce agli eventi. Le fa da corollario una gamma colorita di personaggi assolutamente credibili ed intriganti. La storia è piacevole ed emozionante e – indipendentemente da certi svelamenti drammatici che nell’ultima parte sembrano moltiplicarsi a dismisura - mantiene viva durante tutta la lettura un ventaglio di suggestioni e sensazioni, fra cui domina una certa malinconia. Ho letto questo libro con grande piacere e penso che sia veramente consigliabile a tutti.
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Lettura stucchevole e deludente
Sono un ammiratore di Torey Hayden, ma solo dei suoi libri “classici”, quelli che raccontano le sue esperienze di psicopatologa infantile (ad es. “Una bambina”, “Figli di nessuno”, “Una di loro”... che ritengo appassionanti ed istruttivi e che consiglio vivamente). Penso che quando si cimenta con il “romanzo” vero e proprio i risultati siano piuttosto deludenti. Penso che molte parti siano prolisse e retoriche. L’argomento scelto (la pazzia di una donna che non è riuscita a superare la tragedia vissuta in epoca nazista, quando fu inserita nel programma Lebensborn per la proliferazione della razza ariana) richiedeva a mio parere uno stile più asciutto ed essenziale, senza troppi sbrodolamenti sentimentalistici che finiscono con lo svalutare la gravità degli eventi. In particolare la parte finale (la figlia che ritorna in un luogo dove la madre ha vissuto per qualche tempo) non sembra molto legato al resto della narrazione: sembra quasi un racconto separato che sia stato inserito a forza nel libro. La conclusione del libro, inoltre, non è a mio parere molto significativa. Cara Torey, torna ai tuoi bellissimi racconti di esperienza vissuta. Consiglio la lettura di questi ultimi, non de “La foresta dei girasoli”.
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