Opinione scritta da darkala92
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Manca di spessore
Sono... non so dire come sono. Sorpresa? Scossa? Allibita? Delusa? Non saprei, effettivamente.
Forse più delusa, che altro. Mi aspettavo di certo molto altro da un libro con una premessa coi controfiocchi. Certo che sono imparziale, io.. Se fosse stato un libro Mondadori l'avrei bocciato categoricamente, mentre... Beh, son di parte, ma perchè ce l'ha davvero un potenziale questo libro..o meglio: ce l'aveva; il problema è che non è saltato fuori, non è emerso. E' rimasto nascosto, forse solo a me, o forse a tutti, chissà. Leggendo però altre recensioni mi rendo conto che i sentimenti provati con la lettura di P. Cameron sono molto simili tra di loro.
In questo libro manca il tocco magico.. è come se non fosse realmente finito; è come se mancasse qualcosa, un evento, un episodio.. manca qualcosa, sì. Una conclusione troppo frettolosa, un finale che effettivamente non è un vero finale..
Peccato, perchè l'idea era veramente carina, i colori della storia erano belli, ma purtroppo non sono state applicate le giuste sfumature. Peccato, davvero..
Entrando nel merito del libro, vorrei semplicemente mostrare (come una sorta di sfogo, diciamo) la mia non antipatia, ma diversamente simpatia per la protagonista, Coral Glynn. Mi aspettavo un personaggio differente: lei è infermiera, è vicina alla gente, è gentile, modesta... ma eccessivamente squallida. Coral non è adatta a vivere, non è realmente in grado di farlo. I suoi gesti sono sì gentili, ma allo stesso tempo rudi; non è adatta a vivere in un certo modo, non è in grado di comprendere i suoi limiti e quelli degli altri. E' la sua perenne pseudo-sofferenza che mi innervosisce. Prende determinate decisioni, ma poi non si comporta di conseguenza. Si lamenta di essere sola, ma il problema principale è lei che non è in grado di mantenere rapporti con la gente. Gioca la parte della vittima, incapace di dare una scossa alla sua vita..Vive per inerzia. Sembra finta e costruita in tutti i suoi comportamenti, fredda e distaccata da tutto ciò che le succede, eppure è infermiera, eppure ha toccato con mano il dolore, la sofferenza, ma nonostante tutto è pietrificata, è come se lei fosse lo spettatore di se stessa, della sua misera vita.
Non ammetto che qualcuno possa provare interesse ed entusiasmo per un personaggio simile. Anzi, per quanto mi riguarda e tanto per essere eleganti, mi sta proprio sulle balle. Evviva la sincerità! :)
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Libro Bastardo!!
Prometteva bene, davvero bene. Scene iniziali atipiche, cenni storici apprezzabili, personaggi ben delineati, ma poi?
Un accumulo di informazioni e di eventi assolutamente inutili, ma soprattutto trascinati fino all'esasperazione; 500 pagine di pura futilità, in cui sono stati scritti dialoghi pseudo-filosofici, ripetuti periodi di vita del personaggio che non coloriscono la vicenda come avrebbero dovuto e principalmente un finale che non appaga per niente le pene sofferte in 500 pagine.
Luca Bastardo, protagonista della storia, sembra essere una persona alquanto camaleontica, che sembra voler ricreare e rimodellare la propria esistenza in base agli eventi ed alle situazioni. E' stato dottore, alchimista, viaggiatore, collezionista, ecc ecc ecc... mille volti per un solo viso.
Queste numerose esperienze l'hanno portato a legarsi a tanti personaggi storici come Leonardo, Cosimo e Lorenzo de Medici, Giotto, Petrarci e chi più ne ha ne metta. Leggendo tutto ciò ho avuto la sensazione che la scrittice avesse voluto sbattermi in faccia la sua cultura, la sua conoscenza in ambito storico, il quale, effettivamente, è stato tracciato sì, ma senza maestria o senza quella bravura che dovrebbe essere consona agli storici coi controca**i.
Le sue descrizioni sono illusorie: stracolme di stupidi elenchi che possono durare la bellezza di una pagina circa, e sinceramente avrei potuto farne a meno – già dal primo elenco.
“L'Immortale che cerca l'amore” : un po' patetica come cosa, non trovate? O almeno scontato.
Avrei molto da ridire...
Di conseguenza la smetto qua, altrimenti potrei discostare troppo i lettori nel prendere tra le mani questo libro; non voglio essere la causa del fallimento della Slatton ;))
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Giochi di retorica
La prima recensione di “Esercizi di stile” letta era la seguente:
“Gli amanti del significato non lo troveranno un capolavoro.
Gli amanti del significante sì.”
Sembra banale, ma non lo è, poiché esprime con due parole tutto il contenuto.
La stessa storia, scritta 99 volte, con 99 stili diversi; alcuni irripetibili, altri sensazionali, certi addirittura scadenti, ma pur sempre 99 stili che trasformano e plagiano la storia in base al “significante” utilzzato.
Un libro strano, non trovate?
Raymond Queneau è stato quasi geniale, ma di più Umberto Eco, il quale ha saputo tradurre tutte le versioni con una maestria eccezionale.
Non sto parlando degli stili, poiché alcuni sono davvero opinabili, ma parlo della traduzione. Eco ha saputo rendere perfettamente lo stile in italiano, giocando, come solo un esperto sa fare, con le parole, mescolandole, trasformandole a suo piacimento, senza però capovolgere o distruggere il “significato”.
Di sicuro il merito va per il 70% a lui.
Simpatici si sono rivelati i seguenti stili: “Animoso”, “Filosofico”, “Apostrofe”, “Maldestro”;
Insuperabili i “Litoti”, “Aspetto soggettivo I”, il “Reazionario”.
Quindi concludo dicendo:
“Gli amanti del significato non lo troveranno un capolavoro.
Gli amanti del significante sì.”
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E quindi?
Orgoglio e pregiudizio, Darcy & Elizabeth.
Darcy rappresenta l’orgoglio, la severità, la nobiltà, la compostezza. Elizabeth rappresenta la ribellione al mondo borghese, la lotta per ottenere qualcosa di diverso da ciò che una donna ottocentesca solitamente otteneva. In un mondo in cui nascere donna significa dedicare la propria esistenza a formare una famiglia, risulta come trovarsi in una società eccessivamente superficiale, in cui si prende marito in base alle sterline annuali che porta a casa. Vittima numero uno di tutto ciò è in modo particolare la mamma di Elisabeth, la quale vuole assolutamente trovare mariti alle 5 figlie. Unico obiettivo della sua vita, unica aspirazione. Diventa il personaggio più odioso del libro.
Derisa dal sig. Bennet, suo marito, il quale guarda ciò che gli circonda con occhi più ironici, ma di quell’ironia, ahimè!, per niente confortante. È là che la Austen dà il meglio di sé da un punto di vista umoristico (anche se tanto umoristico, io, non l’ho trovato!).
5 sorelle, la maggiore (Jane) più assennata ma pur sempre “donzella ottocentesca”, poi c’è Elizabeth che vivrà l’innamoramento in modo particolarmente complicato e differente dal consueto. Le altre si rivelano donnette stupide, eccessivamente superficiali e fastidiosamente noiose per via del loro accanito interesse nello spettegolare e cercare marito.
Per me si tratta di 5 ragazzine pseudo-arrapate di cui Elizabeth spicca come quella più rigida e più realista, ma come le altre pur sempre vittima di quel comportamento inutile e estremamente “barocco” della società altolocata dell’800.
Mi aspettavo molto di più da una scrittrice che, sebbene sia considerata di un calibro “banale” (relativamente parlando), non ha saputo, nemmeno con una pagina, toccarmi e scuotermi le vene.
Il suo raccontare è piatto, insoddisfacente ed inconcludente.
Ma con tutti questi alti voti inizierò a farmi delle domande, promesso! :D
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Narrativa balorda!
“Pulp” ultimo romanzo del vecchio Hank, scritto nel 1994 dopo la morte di quello che lui definisce il "cattivo ragazzo della letteratura”. Un romanzo tutto a sé stante, differente dalla consueta tradizione letteraria di Bukowski, poiché si colora di un tocco soprannaturale e surrealista. Una sfumatura che, però, Bukowski non ha saputo trattare, o meglio il suo stile è rimasto, il modo di stendere i concetti pure, ma non mi ha assolutamente entusiasmata. Se con gli altri scritti dello zio Hank ho provato una sorta di dubbioso piacere, adesso sono categoricamente convinta del flop di questa pubblicazione. Forse perché sono stanca dei suoi capricci, della sua scostumatezza, della sua inutile e banalissima vita. Ammiro l’evolversi di uno scrittore, dei suoi pensieri, dei suoi romanzi. Con Bukowski ci troviamo di fronte ad un mondo piatto, immutabile e sfacciatamente maldestro che dopo un po’ diventa talmente tanto scontato e ripetitivo da poter completamente far a meno di scoprirlo. Mi dispiace essere così drastica, ma purtroppo Bukowski non mi da più le stesse sensazioni.
Ovviamente un Bukowski non può non creare che personaggi inconsueti per la nostra società, ma allo stesso tempo prototipi fissi per la sua produzione. La seduzione rappresentata contemporaneamente con la morte; l’uomo-spazzatura che si dimena tra alcool, corse dei cavalli e sfacelo, il quale finge di lavorare come investigatore – esattamente il “più dritto di L.A., che va avanti soltanto grazie a “botte di culo” poiché l’intraprendenza e la consapevolezza del lavoro sono distanti anni-luce da Bukowski.
Altri personaggi “paranormali” sono presentati in maniera stupida ed irrazionale, come Bukowski credo che fosse.
Investigazioni balorde, trovate scadenti e vita precaria. Questo è ciò che riassume l’esistenza di Nick Belane – l’investigatore più dritto di L.A.
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Margherita si droga!
Delusa da Benni per la seconda volta in un solo mese. Che succede?
“Margherita Dolcevita” è un fallito tentativo di voler mettere in scena sempre la sua consueta critica alla società, ma amalgamandola con una pessima storia, se non orrenda.
Un insieme tra fantascienza, surrealismo o semplicemente idiozia.. pura ed estrema idiozia. Il perché di molte cose non mi è chiaro, ancora. Il motivo di alcune scelte contenutistiche proprio non mi lascia apprezzare il libro. La bambina della polvere.. Angelo.. i Del Bene, il Cubo.. ma di che cavolo stiamo parlando? Questo è un colpo basso. La cosa più sensata del romanzo sembra essere quella specie di cane “Pisolo”.. e ho detto tutto!!
Dal punto di vista contenutistico dico NO (altro che Valsoia!)
Dal punto di vista stilistico… pure.
La storia non regge. Uno svolgimento insensato completamente, un finale affrettato e banale, un epilogo insufficiente.
No, non è il mio Benni. Forse Stefano è bravo a scrivere racconti.. per i romanzi “è n’altra cosa!”.
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Tutta colpa della letteratura?
Lettura particolare, e questo va detto; sono partita con qualche pregiudizio, ed anche questo va detto.
Influenzata dalla sconfitta letteraria con Kafka e le sue “Metamorfosi”, pensavo che “Il Seno” sarebbe stato un fallito tentativo, o se non fallito direi banale, di imitare un qualcosa che ormai ha fatto storia.
L’idea stramba della trasformazione in una tetta, sì proprio lei, non mi è piaciuta chissà quanto, anche perché ho percepito un fastidio dal punto di vista, come dire… femminile (ovviamente i nostri attributi sono sempre così tenuti in considerazione!)
Il modo con il quale ha steso la storia, delineando così un bel personaggio/oggetto letterario, mi ha entusiasmata molto. Roth si è focalizzato molto su due fattori: oltre al filone erotico, il quale, a tratti, ha suscitato in me una certa forma di stizza e di pudicizia, c’è quello psicologico, davvero apprezzabile. Il motivo per il quale è avvenuta questa trasformazione, la voglia, anzi il bisogno di dimostrare di essere (e non) pazzi pur di comprendere quanto è avvenuto.. la disperazione di un uomo, ma allo stesso tempo la cinica ironia, che hanno delineato perfettamente i tratti culminanti di questa nuova figura letteraria.
Ammiro l’idea di aver mischiato insieme “metamorfosi” e “letteratura”.
E’ possibile che un uomo si sia immedesimato talmente tanto nei suoi studi letterari, da diventare soggetto/oggetto di quanto ha appreso attraverso i libri? E’ possibile una trasformazione “propria”, ovvero secondo i propri canoni, in qualcosa di anomalo e di bizzarro? Kafka e Gogol hanno tracciato e modificato l’esistenza del professore universitario di letteratura Kepesh?
“Io sono più kafkiano di Kafka”.
Questa sì che è un bel punto di vista!
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Il naso di Gogol
In medio stat virtus
Scrivere, o meglio, accozzare pensieri “psicanalitici” tra loro, non fa di sicuro “Musica” un libro di "media-psicanalisi" come questo libro vuole essere. A meno che non si parli di psicanalisi spicciola, e su quello ci siamo, bisogna esser sinceri. Questa storia manca di fondamenta, manca di sostanza, manca... manca di tutto. E' sottile quanto un capello, è insipida quanto un bicchiere di acqua, è magra quanto una barbie. Mi chiedo dove sia stato lasciato tutto il contenuto del libro. Il Vero contenuto. Il rischio di voler parlare di psicanalisi è proprio quello: ovvero di cadere nella banalità e nella superficialità, che con “Musica” ho riscontrato numerose volte. Pensieri, anche malvagiamente scritti, sono stati messi insieme come un puzzle i cui pezzetti sono stati mescolati con diversi disegni. Non può che uscirne un mélange di cattivo, pessimo gusto.
E' una commedia.. una farsa... e ci si trova di fronte ad uno psichiatra che si muove senza cognizione di causa, e di sicuro un medico che risolve i suoi casi principalmente per soffio di fortuna; quello stesso psichiatra la cui personalità è difficile delineare: “Ci è, o ci fa?”
Reiko, costretta ad indossare panni scomodi.. un caso che suscita riso e disapprovazione soprattutto quando ci si trova davanti ad un finale estremamente affrettato e senza spessore.
Personaggi secondari che non mi hanno lasciato assolutamente nulla, esattamente quanto i protagonisti.
Da un libro tanto positivamente pubblicizzato mi aspettavo di sicuro molto meglio.
Ma c'è da dire che, essendo i giapponesi semplici e diretti, forse, con questo libro, si è voluta creare un'atmosfera pacata e.. come dire, neutrale.
Ma si sa, la troppa semplicità, come lo sfarzo estremo, storpia.
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Un Benni..spento
Un Benni fuori dal comune di sicuro, non che io sia esperta, ma si percepisce un'atmosfera differente dalle altre presentateci precedentemente.
Restano fattori come il “surrealismo”, il “simbolismo” ecc.. ma subentra adesso un'aria più cupa, a tratti gotica, il risultato della fusione tra la realtà e la magia, con note di pessimismo e di tonalità grigiastre.
Il tema centrale è la critica, sempre e solo la critica.
A cosa?
Si parte dall'accusa alle case farmaceutiche, le quali vendono prodotti, non medicine, per colpire la società in toto, vittima di un movimento ormai troppo veloce per l'essere umano.
...la fragilità dell'esistenza, la debolezza psico-fisica, esasperata al massimo con l'utilizzo di farmaci sempre più comuni e violenti, che attaccano il corpo, e la mente, soprattutto, creando danni irrisolvibili.
Tutto ciò è presentato attraverso l'entratra del paranormale, la parte che mi ha colpito di meno, ad essere sincera. Questi angeli.. a volte banali, a volte stupidi, a volte troppo surreali addirittura per il surrealismo..
Avrei preferito un Benni completamente “serio” e non sdoppiato.
Sarebbe riuscito a coronare un bel progetto, pur distaccandosi di gran lunga dalla sua consueta ed eccentrica produzione.
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Very British
Non so come sia stato possibile, giuro, proprio non lo so.
Questo è l'ultimo dei libri che mi sarei mai aspettata di leggere. E' piccolo, innocuo, sta lì, buono e mensueto tra le belve letterarie che hanno fatto parlare di sé molto di più di questo misconosciuto e “taciturno” classico di fine '800.
“Tre uomini in barca (per non parlare del cane)”: chi diavolo ha mai sentito nominarlo!!
Ecco, sono libri come questo che mi danno uno schiaffo morale e culturale; e pensare che non ho neppure mai intravisto il nome Jerome tra i miei libri scolastici. Ahh il piacere della scoperta!
Ritornando al libro (lo so, mi dilungo sempre troppo!)..
Un viaggio, una barca, il Tamigi che scorre e tre uomini pronti per l'avventura.
Jerome (protagonista e narratore), Harris e George (personaggi realmente esistiti – l'ultimo era addirittura il coinquilino di Jerome) che con le loro gag e i loro buffi comportamenti regalano ore spensierate e rasseretanti al lettore. Qualcuno esclamerebbe, a gran voce, “Very British!”... Ebbene lo è, nel senso che l'humour è quello tipico inglese, il quale suscita sorrisi ma mai risate grasse e stupide, poiché gli inglesi sono dei “gentlemen”.... caspita ragazzi!
Episodi della trama che riportano a flashback o ad avventure varie che hanno lo scopo di suscitare il “riso”, ma che in fondo vogliono mettere in risalto la vita così come ci viene data, con i suoi momenti alti e bassi, ma soprattutto incitandoci ad affrontarla con un pizzico di autoironia, che non guasta mai.
Un libro che, in realtà, nacque per essere una guida turistica, trasformato in un romanzo pseudo-spassoso dal titolo “Three Men in a Boat (To Say Nothing of the Dog)” il quale non mi sento né di consigliare e né di bocciare, poiché qualche sorrisetto me l'ha strappato (uno tra gli episodi più esilaranti, riportato effettivamente anche come uno dei più famosi del libro, è la scena dello zio Podger, alle prese con un quadro “malvagio” da appendere).
Da leggere, sì, sotto l'ombrellone, senza molte pretese e/o effetti speciali.
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Maledetti Flashback..
La prima recensione scritta su questo libro si direbbe essere più che altro uno sfogo, reperibile ancora su aNobii (http://i.anobii.com/79dc36). Recensione, però, scritta prima di aver visto il film. Errore.. o non proprio.
E' la prima volta che consiglio di vedere prima il film e dopo leggere il libro (non terminato per via dei miei nervi ormai roventi!). Ma mi sono ripromessa di leggerlo in un futuro non molto lontano, poiché adesso sarebbe inutile. Ho notato, però, che la maggior parte dei lettori de “La versione di Barney” sono stati costretti ad affrontare minimo due volte la lettura, per riuscire a capirci qualcosa.
Questa è una conseguenza dello stile.
La novità di questo libro, infatti, è proprio lo stile, poiché è costituito da flashback, da salti nel tempo talmente tanto spontanei, ma allo stesso tempo caotici, da rendere il libro come una stanza al mattino, dopo un mega party e una sbronza colossale. Fatica e lavoro sono gli unici amici per rimettere tutto in sesto. Il libro è un insieme di immagini, pezzi di vita, direi, che vogliono tutti raccontare la stramba vita di un uomo fuori dal comune di sicuro: Barney Panofsky.
Barney e Clara;
Barney e la Seconda Signora Panofsky;
BARNEY & MIRIAM.
Miriam.. Miriam era di più di una pazza scopata in una stupida stanza di uno stupido appartamento sudicio, in più per mancanza di hobby; lei era anche di più di un matrimonio fatto per interesse, oppure per noia; Miriam era Miriam.
Era.
La vita del sig. Panofsky è certamente anomale, bizzarra, e... confusa, per lui e anche per noi lettori. Direi più che altro di essere stati le sue pedine. Ci ha giocato come ha voluto.
I contenuti sono buoni, o meglio, la storia lo è senz'altro.
La pecca e, contemporaneamente, la forza di questo libro è proprio lo stile. Confonde tanto, eh!
Inoltre è un linguaggio ricco di nomi, eccessivamente direi.. Nomi di persone, nomi di locali, nomi di partite, nomi di squadre.. Nomi, per gran parte del libro ci sono nomi e scene che non sono propriamente importanti per la storia.
Io non ho apprezzato molto questa novità, infatti mi ha costretta ad abbandonare il libro, dopo tantissimi ma futili sforzi.
Spero che altri abbiano più pazienza di me.
Ripeto però: la storia merita, se non fosse per il modo in cui è stata stesa.
Consiglio vivamente di vedere il film. Eccellente.
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Interesse saltuario
Pensavo che un Fante mi avrebbe regalato più emozioni. O meglio, pensavo che io sarei stata in grado di provarle. Forse ho il cuore di ghiaccio, forse non sono la persona adatta per questo tipo di genio, e ciò mi rattrista. Ci riproverò, intanto. Prenderò qualcos'altro, anche se dubito possa farmi sentire quelle fastidiossissime ma meravigliose farfalle nello stomaco.
Non sono realmente in grado di citare le pecche di “Chiedi alla polvere”.
Arturo Bandini, l'uomo dalle tre personalità mescolate: l'uomo cattolico, l'uomo italo-americano, l'uomo che sogna di diventare scrittore. Quello stesso uomo che alla fine si innamora di Camilla, la quale apparentemente sembra una donna comune (povera ma bella), ma che si rivelerà la chiave che lo aggancerà al mondo, il foro dal quale fuorisce la sua incapacità di vivere la vita; lei rappresenta i suoi spiriti, i fantasmi del passato. Non sono sicura che questo percorso di formazione, se così può essere definito, terminerà mai o se ancora Bandini sia in procinto di cercare una via d'uscita. “Chiedi alla polvere” è un insieme di contraddizioni, o più che altro un “mélange” di tante emozioni, tanti stili, tante idee che si scontrano tra loro. Il risultato è un libro di un certo livello, almeno questo si percepisce, che però non è lineare, o almeno come io l'ho percepito.
Se potessi esprimere con un colore questo libro direi subito beige, tendente al marrone scuro. Il Beige del Colorado, il Beige di quelle catapecchie sporche americane, il Beige della terra, della polvere, il Beige della povertà.
Il dubbio principale è:
Bandini, scrittore per passione o per fama? Amore viscerale per le parole o voglia di denaro? Ci sono elementi che contraddistinguono entrambe le teorie, ma non sembrano sufficienti a darne un giudizio irremovibile e indiscutibile (almeno per me!). Questo è ciò che mi ha frustrata maggiormente. Quell'incertezza finale che non permette di porre la parola “fine”.
Altra pecca (come ho notato l'abbia percepita anche Baricco, il quale ha scritto una bella introduzione – edizione Einaudi) è quella di non aver trattato perfettamente la seconda parte del Bandini, ovvero la versione cattolica dell'alter-ego di Fante. E' soltanto accennata, poiché la storia con Camilla invade le altre sfumature, calpestandole completamente e prendendo fin troppo potere.
Uno stile in parte semplice e lineare, in altre parti invece molto dettagliato e accurato, che sa regalare molti concetti di un certo spessore e soprattutto delle immagini entusiasmanti.
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Non riesco a darli obiettivamente.
Li aggiusterò più in là.
The Boy in the Striped Pyjamas
"Il bambino con il pigiama a righe" - titolo originale "The Boy in the Striped Pyjamas" è (come sottotitolato dallo scrittore stesso) una favola, prodotta anch'essa dall'eco del nazismo, che sembra essere sempre più forte e prorompente.
Oltre ad Hans e Konradin, ci vengono svelate tante altre realtà, tante altre storie di amicizie infrante a causa di quel sottile ma crudele filo spinato che divide due civiltà, due culture, due "razze". Il più forte contro il più debole: il lupo contro l'agnello.
"E' la storia che ci ha condotto fin qui. Se non fosse per la storia, nessuno di noi oggi sarebbe seduto a questa tavola. Saremmo tranquillamente seduti nella nostra casa di Berlino. Stiamo correggendo la storia, qui." (pag 142.) Queste sono le parole del militare, capo delle operazioni, nonchè padre di Bruno, il quale si trasferisce in una casa presso Auschwitz con tutta la sua famiglia. Quest'operazione distruggerà per sempre la tranquillità domestica, svelando un finale per niente aspettato e sbalorditivo, quasi paradossale. Rivelo, inoltre, che la critica ha trovato discordanze sui veri fatti delle vicende della permanenza dei bambini in campo con quanto viene scritto nel libro (Wikipedia dixit!), ma vorrei rispondere semplicemente con una parola: romanzo - ciò non implica che tutto sia estremamente vero.
Ritornando al libro, lo stile è molto semplice poichè la vicenda è narrata da Bruno, il quale mescola perfettamente realtà ed immaginazione (vedasi l'idea di citare luoghi e personaggi in modo sbagliato - il Führer diventa il Furio, Auschwitz si trasforma in Auscit). Di conseguenza la storia si legge talmente veloce da non rendersene conto. Credo che, proprio a causa dello stile, non sempre una favola come questa riesca a catturare l'attenzione dei lettori. Usare un linguaggio infatile può, molte volte, non suscitare quei sentimenti che ci si aspetterebbe, considerando soprattutto il tema discusso. Con me non è avvenuto un colpo di fulmine, infatti se non mi avessero prestato il libro sicuramente non l'avrei comprato. Devo però ammettere che il finale mi ha un pò spiazzata.
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Love and Peace or Else
Hermann Hesse ha rischiato parecchio. Ha messo in gioco la sua reputazione, la sua fama, le sue abilità di scrittore scrivendo questo libro. Per me ha rischiato molto, ma ha perso. Succede!
Considerato uno dei più grandi capolavori della letteratura novecentesca e della cultura tedesca, posso ben affermare che di cultura “germanica” ce n'è tanta, e di sicuro non è questo fallito tentativo di voler portare su carta un misticismo che probabilmente c'è stato, ma che il sig. Hesse non ha saputo concretizzare. Ed è questo il rischio che si corre: quello di voler discutere e riportare pensieri astratti, finendo però col creare una raccolta di squallide parole, squallidi aforismi e squallide accozzaglie letterarie.
Ovviamente, considerando l'esperienza del giovane Hesse, della sua permanenza in monastero, del tentato suicidio, dei suoi numerosissimi viaggi all'estero, soprattutto in India (confrontandosi così con la cultura orientale), non possono che dargli il beneficio del dubbio che, probabilmente, un percorso formativo con marchio “buddista” c'è stato realmente. Ma forse era meglio se si fosse fermato là. O discuti di determinati valori e/o pensieri curandone gli aspetti contenutistici e stilistici, oppure non ne fai nulla poiché non è rasentado la filosofia che riesci a scrivere un capolavoro che abbia determinate pretese.
“Siddharta” viene appunto denominato Bildungsroman, ovvero “romanzo di formazione”, il quale prevede una crescita spirituale ed intellettuale del lettore pari ad un vero e proprio viaggio nei meandri delle terre lontane, quelle terre tanto diverse dalla cultura occidentale, quelle dal pallino in fronte e le gambe incrociate su un tappeto volante. Ma per quanto mi riguarda, è stato un libro tanto breve quanto interessante. Ciò è dovuto alla mia forma mentis, un po' troppo selettiva e maledettamente critica, e in più alla mia scarsissima conoscenza della filosofia/religione orientale.
Molto probabilmente, Hermann Hesse ha riscontrato successo, a tempo debito, proprio perchè ha messo sul palcoscenico temi ed argomenti dimenticati o tralasciati dalla cultura tedesca e non, e per questo ha condotto una via letteraria di certo non battuta da molti.
Mi ha fatto sorridere, inoltre, il fatto che, come volevasi dimostrare, “Siddharta” è stato preso come “Romanzo Guida” della cultura hippie, della serie: peace & love, bro! Gli hippie non si smentiscono mai :)) (ovviamente non vuole essere un'offesa!!)
Ps. Quello della piacevolezza è un 2 e mezzo..
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Il Dono
Ormai mi ero rattristata.
Mi ero rattristata perchè non riuscivo a ritrovare più quel libro che mi risvegliasse dal mio coma lettarario. All'improvviso è arrivato lui, come un'illuminazione, come l'arcobaleno dopo la tempesta, come l'acqua frizzante dopo il caffè. Mi ci voleva proprio.
[Entro nella libreria, come sempre in 5 anni; come al solito lui dietro il bancone, che sebbene fossi una cliente fissa, ancora non mi aveva rivolto la parola, anche se aveva ascoltato ormai i miei discorsi più strambi sui libri. All'improssivo prendo “Follia” e decido di comprarlo. Al bancone, dopo 5 lunghissimi anni, il proprietario mi dice, con gli occhi illuminati: “Sono contento che tu l'abbia preso! E' un libro straordinario”.
Esco dalla libreria euforica, semplicemente perchè quell'uomo mi aveva rivolto la parola..
Cos'avrà questo libro di tanto straordinario?]
… Ed ora eccomi qui, dopo aver aggiunto alla mia Top 5, esattamente dopo il Mio Grande Orwell, “Follia” di Patrick McGrath.
Sono passati tre giorni dalla fine della lettura, ma non ero riuscita ancora a scriverci niente. Quando qualcosa è importate, davvero importante, ho paura a cristallizzarla, come con una recensione, perchè mi rendi conto che poi non può rimanere nulla che un puro e semplice ricordo.
Un ricordo che però fa male, se penso al libro.
Ho ancora i brividi.. ho ancora gli occhi lucidi per aver letto un libro tale da farmi rinascere quei sentimenti che ormai stavo dimenticando.
Quando vedo Follia sulla mensola penso a quanto sia stata fortunata ad averlo comprato. E' come un dono. A volte è così; pensi a come avresti fatto senza quel libro, e sei fiera delle delle tue scelte e ti godi a pieno la tua “gloria”.
Follia è una storia struggente. Quando l'amore non è più un semplice/complesso rapporto tra due persone, ma diventa un'entità troppo forte, addirittura oltre l'irrazionale, oltre tutto.. Follia è... Follia, è Ossessione, è Passione, è Morte. Non credo sia possibile descrivere in maniera così perfetta un amore simile, come Patrick ha saputo fare. Stai là, incollata sulle pagine che scorrono, ma che tu vorresti bloccare, anche se non ci riesci. Con le palpebre che non ti si chiudono, sebbene la stanchezza, perchè diventa irrispettoso abbandonare a metà un capolavoro del genere. Glielo dovevo, a Patrick. Come gli dovevo questo elogio.
“Follia”.... Mi piace prenderlo come un dono regalatomi da quella parte della mia anima che ha deciso che quel giorno avrei dovuto portarlo a casa..... quel trionfo!
Troppo maestoso per riuscirne a parlare in maniera dignitosa, senza sminuirlo, troppo intimo per poterlo spiegare.
[Scusate, non parlo molto del libro in sè, ma con Follia non mi escono le parole giuste. Forse non avrei dovuto scriverci la recensione, non avrei dovuto azzardarmi.. il ricordo è ancora troppo "bollente" per riuscirne a parlare con una sorta di nonchalance. Mi sento quasi una stupida!]
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Quando il mondo esterno puzza
“Non ricordo esattamente quando decisi che Konradin avrebbe dovuto diventare mio amico, ma non ebbi dubbi sul fatto che, prima o poi, lo sarebbe diventato.”
Questa sembrava essere una storia di amicizia forte, compatta, cullata tra passeggiate e amori letterari, i quali colorivano tutte le giornate di Hans e Konradin. Ma non si è rivelata però forte abbstanza. Quando un rapporto comincia ad andare oltre il possibile, oltre quel confine labile e sottile, allora là, esattamente in quel momento, il rapporto si spezza.
Come può il mondo esterno, quello degli adulti, distruggere una storia d'amore così? Con quale coraggio dividere due amici nati per affrontare la vita insieme?
Questa è una delle tante facce della medaglia nazista. Forse è il male minore, ma è pur sempre un male. Tra i banchi di scuola nasce effettivamente la vita reale di un bambino, ed è proprio tra quei banchi di scuola che Hans vive i suoi momenti più lieti e contemporaneamente quelli più tristi della sua vita.
Ormai le leggi razziali si sono diffuse a macchia d'olio, i bambini tedeschi percepiscono l'odio nei confronti degli ebrei dagli adulti, dai loro genitori, per la strada, e reputano cosa buona e giusta riversare quell'odio su Hans.
…
E' tempo di partire. Quando il tuo stato ti si mette contro; quando tutto ciò che amavi ti ha voltato le spalle ci sono due soluzioni: o resti e combatti o vai via e crei una nuova vita.
Nel caso di Hans, però, rimanere significava ben altro. Non si trattava di orgoglio, di coraggio, ma di vita o di morte.
Un racconto (anzi, una novella, se si segue l'introduzione di Arthur Koestler) delicato, profondo ma allo stesso momento semplice. E' proprio la semplicità che dona valore alle cose; E' stata la semplicità che ha arricchito le pagine di questo piccolo bijou. Ma si sa, le cose con più valore stanno nelle scatole più piccole.
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Tentativo #1 fallito
Ormai, della Mondadori, sto iniziando ad odiare qualsiasi libro. Ogni nuova proposta, ogni nuova uscita può essere considerata un vero e proprio pugno nell'occhio alla vera narrativa, quella che, sì, viene messa in commercio anche per via della pecunia, ma almeno un briciolo di coscienza a qualcuno è rimasta. La Mondadori spaccia di tutto, vende quasi i libri a “kg”, senza però considerarne la portata. Ora questa piccola premessa non è da aggangiare solo a “Nessuno si salva da solo”, ma devo dire che quest'ultimo è uno dei tanti prodotti di chiaro e percepibile marchio Mondadori.
La storia, l'impostazione del romanzo... mi viene quasi da dire che ci troviamo di fronte ad una scrittura spicciola, da vendita a prezzo elevato, il tipico tutto fumo e niente arrosto. (Maledetta pubblicità!)
Ora, non conoscendo la penna della Mazzantini, non posso altro che giudicare solo ed esclusivamente il libro in sé, e non il percorso che l'autrice dal suo debutto, fino ad ora, ha tracciato.
Sono contraria a chi ha reputato “Nessuno si salva da solo” un neocapolavoro. Sono estremamente contraria.. per motivi che ora andrò ad esplicare.
Per prima cosa lo stile.
Sembra che la Mazzantini giochi a fare l'anticonformista, colei che ha sbattuto la sua vita tra squallidi buchi di città o di strada, e perciò conoscitrice della Vita Vera. No, il suo è un fallito tentativo di mettere in evidenza una realtà concreta, la quale viene portata alla ripetizione e alla noia. Anzi, devo dire che il suo stile mi è parso molto.. hmm.. antipatico, come i suoi personaggi, d'altronde. Ho odiato profondamente Delia. Pessimista sotto tutti gli aspetti, pesante e squallida. Gaetano, certo, non è mica perfetto, ma è meno fastidioso star dietro alle sue “avventure” e ai suoi “pensieri”. Ovviamente bisogna considerare la situazione drammatica che vivono, ma la storia, come i protagonisti, infatti, diventano appiccicosi. Come un disco che gira ormai da troppo tempo. Ti vien voglia di dire, durante la lettura, “si, l'abbiamo capito! Vai avanti..”, ed invece no, ci si ritorna sempre su quei discorsi ormai ripetuti in tutti i modi possibili ed immaginabili, in tutte le combinazioni.
“E quindi?”.. con questa esclamazione ho terminato la lettura, che non consiglio assolutamente per i fattori sopra citati.
Che i fans della Mazzantini non me ne vogliano. Ripeto: giudico il libro in sé, non l'autrice, a cui donerò un'altra possibilità con “Venuto al mondo”, sperando che mi dia qualcos'altro. Anzi, che mi dia qualcosa, differentemente da “Nessuno si salva da solo”.
Ah! e un'altra cosa.
Quelle frasi in corsivo. Quanto ho odiato le frasi in corsivo!
Ecco, questa è la Mondadori: voler soprendere a tutti i costi, senza però avere una minima idea di ciò di cui parlare. Sorprendere, non conta se in bene o in male, ma l'importante è sorprendere.
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Senza infamia e senza lode
Premetto di non essere esperta di gialli e/o polizieschi, perciò non sono in grado di fare le dovute differenze, ma parlo da ciò che ho sentito dire oppure ho letto di altri gialli et similia.
“Il giudice e il suo boia” (Der Richter und sein Henker – narrativa svizzera) è un giallo che si dipana su intrecci psicologici più complessi. Non serve il solito scenario truculento e sanguinoso per stendere un giallo. A Dürrenmatt è servito solo un assassinio, uno solo. E da là tutto ha avuto inizio. Anzi, sarà proprio la morte di Schmied che metterà fine ad una storia che ormai è andata avanti già per troppo tempo.
“Il giudice e il suo boia” è ambizione, affermazione di se stessi; è lotta per far trionfare la giustizia a qualsiasi costo, pur andando contro le regole; come si suol dire: “il fine giustifica i mezzi”. Questo giallo è un insieme di tante mosse azzardare, coraggiose e pericolose, è un insieme di incastri e di pezzetti che vanno insieme, devono andare per forza insieme. Ma sarà nella mente del commissario Bärlach che si intrecceranno i fili di quello che viene considerato un “giallo emblematico”, costituto da giochetti psicologici che sembrano non irreali, ma di sicuro non alla portata dell'uomo comune, quello quotidiano.
Per me si tratta di un libro senza lode e senza infamia, ma potrei non essere soggettiva perchè non sono affatto amante né di gialli, né di thriller e tantomeno di polizieschi. Non so perchè mi sono ritrovata tra le mani queste 109 pagine. Forse sarà stata quella recensione invitante che mi ha portato a dire “perchè no?”. Di sicuro mi hanno aiutato quelle sole 109 pagine, altrimenti non so come avrei fatto.
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- sì
- no
...alla Bukowski
Ora capisco tutto!
Capisco perchè lo zio Hank abbia nominato più volte Hemingway nei suoi racconti. Ha parlato spesso del grande scrittore, ma soprattutto del grande amico.
Ebbene Bukowski c'è. Si percepiscono le sue atmosfere, i suoi dialoghi, i suoi pensieri. La stessa tipologia di racconto, lo stesso modo di stenderlo, le stesse deduzioni.. Hemingway è Bukowski. O meglio, Bukowski è Hemingway. La differenza sta nel fatto che vengono trattati temi diversi, ma il mezzo è simile, estremamente simile.
Tutto è così maledettamente realistico, purtroppo. Attimi che precedono una battaglia, con le loro ansie, i loro timori.. e nel frattempo la morte sta là, in agguato, pronta a saltarti addosso per chissà quale riconoscimento finale, che poi in fin dei conti non ci sarà, perchè una medaglia non può rimpiazzare un Uomo. Morti per cosa, alla fine? Per la patria? Per un ideale?
Per i soldati che ci lasciano la pelle non c'è la sorpresa che ripaga la guerra, le sofferenze, la propria vita. Loro vanno via, a nome di chi, poi?
Hemingway non dice tutto questo, non è poi così logorroico, ma i suoi personaggi lo lasciando intendere là dove c'è l'occhio attento, bramoso di andare aldilà di semplici e apparentemente banali discorsi.
Sembrerà assurdo, ma anche quei discorsi possono dare speranza, perchè la guerra di sicuro non lascia modo di esprimersi.. la guerra è morte, è distruzione, non è dialogo.
La fratellanza e l'amicizia sono fondamentali per dimenticare, almeno per qualche ora, con un bicchiere di whiskey e un sigaro, ciò che avviene al di fuori di quattro mura? O sono semplici scappatoie di un vigliacco che non vuole affrontare la vera vita, quella di guerra?
I personaggi di Hemingway hanno ancora qualche briciola di sentimento, hanno ancora voglia di vivere, voglia di ritornare a casa, voglia di ricominciare..
Ma dovrà essere il lettore che deve rispondere alle domande, lui stesso dovrà intendere questo ed altro ancora dai semplici 4 racconti qui riportati. Il lettore veloce non potrebbe cogliere tutte le sfumature di ogni scena, di ogni evento.
Auguro quindi, nel caso in cui ci sia, una lettura produttiva.
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Questa è Lotta di Classe
Ho conosciuto Ascanio Celestini attraverso un video in cui innalzava una delle sue solite ed instancabili critiche all'apparato socio-economico italiano (ricordo che l'argomento trattato era proprio la crisi economica). Questo sarebbe diventato il nostro “first date”.
Dopo ci sono stati interventi “pungenti” in programmi vari, i quali mi hanno portato ad apprezzare il suo stile, il suo modus operandi..(ho notato, però, per prima cosa, il suo pizzetto davvero fashion!). Ed infine eccomi qua, a sbavare dietro video e a leggere i suoi libri.
Mentre scorri con le pagine, sembra quasi di assistere ad una rappresentazione teatrale, in cui attraverso l'arma tagliente, quale l'ironia, si continua a sperare che qualcosa cambi..e dopo, ti ritrovi a sorridere, se non proprio ridere, con la consapevolezza che, però, quello è un sorriso amaro, perchè le situazioni raccontate in “Lotta di classe” non sono poi così surreali. E' la vita.
Devi correre, devi muoverti se vuoi portare a casa qualcosa da mettere sotto i denti, se vuoi sopravvivere. Alla fine non siamo altro che pedine di un gioco al quale ci ostiniamo a giocare, anche se molte volte non ci piace. In questo gioco ci sono i capi, di media e piccola importanza, che rappresentano il re, la regina, l'alfiere e via discorrendo; ed infine, quella misera pedina, quasi inutile, sacrificata anche per prima, sei tu, che combatti e combatti....
….questa è lotta di classe.
Sono 4 racconti che strisciano tra le scale di un condominio, in cui c'è Patrizia, la quale si ritirerà dal gioco per un anno, c'è Nicola, che si dimena tra un lavoro e l'altro, c'è Marinella, con il labbro leporino ed c'è il piccolo Salvatore, che sta iniziando a conoscere il sesso, anche se in maniera..buffa! Sono 4 storie intrecciate, ogni episodio è collegato agli altri, ma soprattutto ripreso in tutte le storie, secondo i diversi punti di vista. Ogni evento, ogni situazione è paragonabile ad un pezzetto di puzzle, che va ad incastrarsi perfettamente con tutti gli altri. Questo è stato l'elemento che mi ha incuriosito di più.
Lo stile di Ascanio, poi, è divertente, ricco di metafore e similitudini che servono a toccare un po' quelle che sono le questioni fondamentali della nostra esistenza: il sesso, il lavoro, Dio, il corso della vita, la mancanza di legami familiari. Concetti però visti con gli occhi del proletariato e della precarietà, gli occhi di chi fa numerosi lavori, tra call center e camioncini di kebab, o di chi è costretto ad allattare il proprio figlio tra le pause dal supermercato; Perchè non tutti hanno i figli dottori, o ingegneri. Ognuno fa quel che può, come può, calpestando, ruggendo, dimenandosi tra la folla. Perchè questa non è vita; questa è “Lotta di Classe”.
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Chi non apprezza la satira, la comicità, l'ironia, e peggio ancora il senso dell'umorismo, non può che condurre una vita stupida e miserabile.
(Carl William Brown)
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Eppure mi dispiace..
Caro Camus, è vero, secondo te, quando si dice che a sbagliare si è sempre in due?
Vale anche per noi questa frase cotta e ricotta?
Colpa mia, perchè ho iniziato a leggerti in un periodo tormentato: esami di maturità, studio compulsivo, ansia da prestazione (non essere malizioso!) e via discorrendo..
Colpa tua, perchè ….sei tu, Camus.
Credo che se ti avessi letto in un altro periodo della mia vita, avrei provato le stesse emozioni, ma almeno sarei riuscita a concludere la lettura; mentre adesso, per cause esterne e non, ho dovuto cedere (ed ecco che la mia autostima viene calpestata).
E' interessante quel che dici, giuro, ma...
… sei come una conferenza o un convegno in cui si discute di politica o della condizione femminile in Afghanistan: da un punto di vista contenutistico vuoi conoscere, ma dopo un po' inizi a pensare al tacchino che hai lasciato nel forno, oppure alle robe stese (pioverà, me lo sento!).
E' piatto ciò che racconti; interessante, ma piatto. Come quando un professore spiega filosofia: se trova il metodo giusto, gli studenti lo seguono come Poldo segue i panini, mentre se non riesce ad essere interessante, non può aspettarsi che gli allievi gli vengano incontro, anzi!..Sta tutto nel metodo, e su questo, caro Camus, scarseggi un po'.
Alcuni passaggi sulla peste sono formidabili, ma ahimè, non reggono tutta la baracca. Forse fare filosofia-romanzata non è una buona idea..
E' il secondo romanzo “filosofico” che leggo, ed è il secondo che fa cilecca. Ora, sono io il problema (quasi sicuramente) o e il genere che non riesce a catturare la mia stramba attenzione? …..
La peste è un argomento che ha sempre avuto una certa influenza su di me, ma questa volta mi è mancata l'aria. Ho dovuto riporre quelle pagine giallastre e cambiare..
Non ti offendere, ok? Nulla di personale.
Scusate, questa recensione è..strana, ma non riesco ad esprimere qualcosa di diverso se penso a “La peste”. Mi mancano le parole. Vorrei una spina speciale per attaccarla al cervello, o dove vi pare, per trasmettervi direttamente le mie sensazioni, che ahimè, non riesco ad esternare... purtroppo non si può...
Aspetto a fiotti i pomodori!!
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- sì
- no
Promessa mantenuta
Nell'attesa di prendere il mio caffettino pomeridiano pre-studio ho deciso di scrivere, finalmente, questa recensione, e credo con il piacere di Amalia (che ringrazio per avermi suggerito il libro). Quindi, cara Amy, indirizzo particolarmente a te, oltre al “grande pubblico”, questa mia recensione.
Devo dirti, però, che nutro opinioni contrastanti su “Diario di un killer sentimentale”, ed ora ti spiegherò il perchè.
Dopo la lettura mi è rimasto quell'amaro in bocca tipico di quei libri di cui hai sentito molto parlare (positivamente, ovviamente) ma che non rispecchiano perfettamente i pareri altrui; oppure di quelli che, all'inizio della lettura, sanno come catturare l'attenzione. Beh, “Diario di un killer sentimentale” è uno di questi ultimi.
Subito si scopre il tutto (non che ci voglia molto per arrivare alla fine), poiché nemmeno prende piede, la storia subito si svela per quella che è, e che sarà. Un po'... “banalotta” ecco.
Ma ho apprezzato tanto lo stile, davvero divertente, ma che non suscita la risata grassa. Quello di “Diario di un killer sentimentale” è il sorriso, per certi versi “agghiacciante”, oserei dire, tipico di battute sottili e sofisticate.
Nutrerò un ricordo piacevole di questa lettura pre-dormita (ebbene, il libro si legge in 20min.).
Quindi, ringrazio te, Amy, per avermene parlato e ringrazio anche me stessa per aver portato a buon fine una promessa fatta (non mi capita spesso..).
Per Anna Karenina (non me ne sono dimenticata, don't worry) mi attrezzerò.. in attesa di tempi migliori.
“Non ricordavo di essere mai stato con una ragazza così inesperta, non sapeva nulla, ma aveva voglia di imparare. E imparò, imparò a tal punto che violai la regola fondamentale della solitudine e mi trasformai in un killer con signora.”
Questa frase mi è piaciuta molto! :)
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La libertà di stampa
TUTTI I LIBRI SONO BELLI, MA ALCUNI SONO PIU' BELLI DEGLI ALTRI.
Novembre 1943 - Febbraio 1944; siamo nel bel mezzo del periodo totalitario ed Orwell continua a “ribellarsi”. Una pistola non è più letale di un libro di Orwell, non lo è affatto. Avrei paura di un'intelligenza simile. Così razionale, così sistematica, così forte. E' questo che amo di Orwell: parla sempre con cognizione di causa, perchè Lui conosce davvero ciò che significa vivere nella povertà (la sua biografia ce lo conferma), sa quali sono i rischi e i pericoli dell'esistenza che porta avanti.
“Animal Farm” è l'ennesimo tentativo di mettere in scena una realtà che purtroppo è esistita, tramutata però sottoforma di una favola, in cui ogni animale ha il suo corrispettivo concreto nel goverto totalitario, più che altro staliniano. Infatti, se si prende il libro come un semplice racconto di una fattoria, “La fattoria degli animali” appunto, può apparire troppp surreale, fantastico, quasi banale, ma se invece viene considerato per quel che è il fine della favola, allora assume le sue forme più sinuose.
Alfieri non sbagliava quando diceva che l'eroe, anche il più coraggioso e credibile, inevitabilmente diventa corrotto, perchè o per la fama di potere, o per altre circostanze, quali la società gli presenta, egli cambia, non è più l'eroe di sempre. I maiali sono gli eroi in questione, che hanno liberato la fattoria dall'uomo (La fattoria padronale), il quale trattava gli animali per quel che erano, bestie e nient'altro, con la speranza di trasformare la vita di tutti gli altri quadrupedi e non in una vera e propria “esistenza umana”.
Eccezionale, come sempre, è l'inserto “La libertà di stampa” scritto da Orwell stesso, che è paragonabile (da un punto di vista letterario) a quello storico-politico pubblicato anche in 1984.
Adoro le argomentazioni di Orwell, poiché sono così logiche, così lineari, così concrete.
“Se libertà vuol dire veramente qualcosa, significa il diritto di dire alla gente quello che che la gente non vuol sentire”. Questo è il riassunto dell'ultima parte di “Animal Farm”, che va letta con attenzione e con la consapevolezza che nulla è stato inventato.
Ps. George, mi vuoi sposare?
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It's over, Sartre!
Se lo scopo di Sartre era quello di suscitare, a sua volta, la Nausea al lettore.. beh, c'è riuscito, almeno con me. Si potrebbe dire di essere stata la lettrice perfetta, no?
Che lunghissimo e straziante cammino, quello che Sartre mi ha fatto percorrere. Ho desiderato troppe, tropp(issim)e volte cambiare strada, o più propriamente incendiare il libro, ma rispetto tutti gli autori e le loro opere, anche quando non mi sembra che siano degne di nota.
Ma lasciamo stare...
La nausea non è soltanto un sintomo mestruale (ahimè!), per Sartre non lo era di sicuro. Se volessi giocare a fare il ruolo dell'intellettuale direi così: la Nausea è quel sentimento di angoscia e di smarrimento che l'uomo prova nel momento in cui si rende conto, attraverso un semplice gesto o sguardo (etc..) della futilità dell'esistenza e dell'assenza di una possibile cura da essa. La nausea arriva senza preavviso (su questo le mestruazioni sono più gentili!), in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo... arriva e basta. L'unica soluzione è quella di conviverci, e nulla più. Pessimista Sartre, eh?! Già! la corrente esistenzialista, da un lato, aveva perfettamente ragione però: siamo gettati così, nell'universo, per chissà quale caso, chissà quale mistero, siamo “scacco e naufragio”, l'uomo lanciato nel mondo e lasciato a se stesso, senza un motivo per continuare a vivere, senza una ragione plausibile che possa giustificare le proprie e le altrui azioni.
...ma abbandono la maschera da studentessa modello, per indossare quella di Darkala, semplicemente.
Sartre! Che Nausea! Hai smesso per fortuna di starmi dietro! Che bella sensazione riporti sullo scaffale, con la consapevolezza che tra me e te non potrà più esserci una storia. Mi dispiace, ma non sei il mio tipo. Tra me e te è finita.
PS. Mi ricorderò di poggiarti al lato opposto riservato ad Orwell.
...hmm, forse era migliore la maschera d'intellettuale!! Vabbè, chissene.. :)
PPS. Il tuo stile non mi piace affatto. E' inutile descrivermi una giornata di domenica scrivendomi 15 pagine! Ti sei rivelato un miscuglio tra Oscar Wilde (e le sue pietre preziose), Flaubert e D'Annunzio (quest'ultima è una vera offesa, sappilo!).
A mai più rivederci, signor Sartre.
PPPS. NON ESISTI PIU'.. muahahahahahah e ben ti sta! u.u'
La tua (e mai più) lettrice più accanita...contro di te! :)
Adieu!
(Sento di essere stata troppo buona con i voti! Mah!)
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Tra realtà e immaginazione
“Che tu sia per me il coltello” è una lotta, probabilmente quella più dura da portare avanti, perchè conoscere se stessi risulta il percorso più articolato e più complesso da seguire. Non tutti riescono ad avere il quadro completo della situazione, quasi nessuno è riuscito a ricomporre tutto il puzzle così da ottenere un bel quadro da appendere alla parete, semmai per poter ammirare giorno dopo giorno le fatiche subite per raggiungere la meta. Conoscere se stessi è lo scopo dell'esistenza, in fin dei conti, ed è quello che preme ognuno di noi.. eppure ci ostiniamo ancora a voler conoscere ciò che c'è aldilà del nostro corpo. “L'existence avant l'essence”: L' Esistenza prima dell'essenza. Non tutti sono a conoscenza della propria esistenza. E' questo il male dei nostri giorni.
C'è chi intraprende questo percorso meditando in solitudine, isolato dalla società; c'è chi si reca dallo psicologo. C'è invece chi scrive delle lettere.. lettere ad una donna, la quale diventa soltanto il pretesto di questo percorso immaginario che Yair, protagonista del romanzo, sta cercando di compiere. I risultati non saranno poi così soddisfacenti, perchè quante più risposte si cercano, tante più domande si ottengono. I pensieri si susseguono così velocemente, gli attimi scorrono perpetuamente, ma la vita e il suo significato ci sfugge.. il tutto diventa sempre più lontano, forse inesistente.
Yair è un uomo, oserei chiamarlo “homo duplex”, perchè si riscontrano in lui varie personalità, vari mondi: l'infanzia contro la maturità, la quiete e la tempesta, l'amore e l'odio, la vita e la morte.
La vita è un velo che ti lascia vedere ciò che c'è aldilà di esso, in maniera però sfocata e irrazionale. Può darsi che l'esistenza non sia altro che questo. L'uomo non può conoscere se stesso, non è in grado di farlo.
“Che tu sia per me il coltello” è un romanzo epistolare talmente tanto intimo, talmente tanto radicato nell'anima del protagonista – forse dell'autore stesso – che mi sono vergognata, a volte, a leggerne le pagine, quasi come se volessi oltrepassare quel limite sottile tra un individuo e la sua essenza.. come se non avessi rispettato la sua privacy.
L'autore, che si è rivelato una vera e propria scoperta, ha messo in gioco più di quanto altri scrittori, i quali si sono prestati a lasciarci grandi romanzi psicologici, hanno fatto. Si percepisce la discesa verso i meandri dell'anima con questo libro. Si ha voglia di risalire ogni tanto, perchè il buio fa paura. Soprattutto questo buio.. un'oscurità che non permette di intravedere molti spiragli, che ti lascia così, abbandonato a te stesso.
E' un mondo invisibile e irreale, in cui Yair cerca di opporre, invece, la vita reale. Myriam riporta: “Non capisco, non ti capisco. Nascondi a Maya il mondo della tua immaginazione e a me quello della tua realtà. Come fai a destreggiarti fra tutte quelle porte che si aprono e si chiudono? E qual è il luogo in cui vive veramente, una vita completa?”. Sarà questo dissidio che porterà alla rottura quell'equilibrio fragile ed instabile che ognuno di noi ha, esattamente come a Yair è successo, il quale ha scoperto, con lo scorrere del tempo, quanto questo percorso epistolare lo stesse uccidendo, anziché fortificarlo.
Lo stile. Lo stile è sublime. Tutto questo cammino, alquanto complesso e concentrato, non presenta, quindi, una trama concreta. Questo è un libro senza trama, in fin dei conti. Ciò mi riporta alla citazione di G. Flaubert: “Ce qui me semble beau, ce que je voudrais faire, c’est un livre sur rien, un livre sans attache extérieure, qui se tiendrait de lui-même par la force interne de son style, comme la terre sans être soutenue se tient en l’air, un livre qui n’aurait presque pas de sujet ou du moins où le sujet serait presque invisible, si cela se peut. Les œuvres les plus belles sont celles où il y a le moins de matière.”, quello che noi conosciamo come “L'art pour l'art”, l'amore per lo stile e per “l'estetismo letterario”.
Grossman ha avuto la capacità di parlare di argomenti tanto irreali senza cadere MAI nella banalità, MAI nello scontato. Uno stile perfetto. Inimitabile. Imperdibile.
“Amore è il fatto che tu sia per me il coltello con cui frugo dentro me stesso".
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Completamente inutile
Che qualcuno mi illumini sul senso di questo libro, please!
So benissimo che le lettere di Louise rappresentano una tappa fondamentale per la vita di un bambino che sta per intraprendere il cammino della lettura e dello studio della storia. Ma pubblicarne una raccolta mi sembra 'eccessivo' per un motivo ben preciso: le lettere, che possono essere una ventina, o forse anche di più, sono tutte ESTREMAMENTE uguali. Sono identiche, quasi.
Una spiega tutte le altre. Anzi! Una può essere tutte le altre.
La giornata di Louise, la voglia di ricevere lettere dai propri parenti, la nuova vita da deportata ebrea... un fiume di frasi identiche che si susseguono tra loro.
La seconda parte, invece, è costituita da documenti nei quali sono riportati solo ed esclusivamente numeri.. numeri di deportati ebrei francesi e non. Ora, 20 pag colme e stracolme di numeri non suscitano molto il mio interesse, anche perchè, di numeri, ne sappiamo a sufficienza.
L'ultima sezione, infine, sembra essere quella più... logica, ecco! Qui si percepisce qualcosa...Infatti abbiamo la testimonianza della mamma di Louise nel momento in cui sono state entrambe catturate dalla polizia e deportate. Sembra donare uno spiraglio di luce durante la lettura vuota di questa raccolta di.... parole e numeri, e nient'altro.
Non critico la testimonianza, affatto! Critico la casa editrice per aver pubblicato un libro tale, fingendo si trattasse di un qualcosa alla portata del "Diaro" di Anna Frank. No, non ci siamo per niente.
[Ovviamente ho letto il libro non perchè lo conoscessi o perchè l'avessi acquistato, ma perchè mi è stato suggerito e consigliato con il più grande interesse.... ciò mi lascia titubante nei confronti della persona che me l'ha prestato!.. hmmm!!!..]
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Politically incorrect!
Stavo sfogliando le pagine di un libro il cui autore è George Orwell (precisamente "Nel ventre della balena", pag. 142), e mi sono soffermata su quest'affermazione: "Quando diciamo che uno scrittore è alla moda, intendiamo in pratica un autore ammirato da gente inferiore ai trent'anni".
Noi stessi ci rendiamo conto che non è sempre così, che la lettura ti porta a conoscere sempre nuovi autori più o meno degni di nota. Ma la citazione sopra riportata calza a pennello con l'autore in questione: Paulo Coelho. Come solitamente avviene nelle realtà capitalistiche, basate sulla commercializzazione della cultura, gli scrittori emergenti ottengono successo con un libro dietro l'altro, catturando l'attenzione del lettore mediocre, che per non accingersi ad ampliare lo sguardo alla ricerca di nuovi 'spiragli' letterari, prende per le mani il primo autore che attira il suo sguardo, solitamente si tratta del più reclamizzato (una più che martellante pubblicità del libro!).. Il problema però è quando non si guarda il contenuto del libro e/o lo stile che l'autore adopera. Personalmente do molta più importanza allo stile che al "prodotto", poichè sono fortemente convinta che qualsiasi libro, se viene presentato con una scrittura degna di attenzione e capace di catturare il lettore, riesce a diventare motivo di discussione.
Paulo Coelho, invece, sembra avere un unico scopo: scrivere, in primis, un libro con argomenti mistico-religiosi (per indossare tanto l'abito da intellettuale), oppure, come in questo caso, utilizzare la questione "prostituzione" come motivo per far soldi (perchè si è reso conto che il filone sessuale piace alla gente..). Il tocco magico è aggiungere più aforismi possibili, così da dare alle ragazzine la possibilità di scrivere qualcosa di interessante su facebook (stile 'donna vissuta'); e infine: - bam! - un 'capolavoro' è nato -. Ma non funziona così, diteglielo al sig. Coelho. Non basta tutto questo per definirsi "scrittore". Se poi il suo intendo è unicamente quello di 'far soldi', beh, devo dire che ha imboccato la strada giusta.
La critica più agguerrita che vorrei fare è questa:
che il signor Coelho abbia almeno la decenza di trattare un tema delicato, come quello della prostituzione, con una serietà maggiore (constatata la sua età). Queste argomentazioni fasulle e pseudo-intellettuali non fanno una piega. Inutile inserire tante più 'frasi ad effetto' possibili per sentirsi intelligente. Non si fa! E' politically incorrect!
E smettila di parlare di questo "Cammino di Santiago".. ci hai fatto il libro, ora basta!! Inutile trascriverlo anche in altre pubblicazioni... Hai avuto il tuo momento di gloria, adesso spicciala!!
Anche se devo dire che tutti abbiamo un Paolo Coelho. Il Paolo Coelho italiano sembra essere Fabio Volo, ma almeno, e questo è un merito, lui si appresta a trattare temi della sua portata: giovani, sesso, sfigati trentenni ecc ecc ecc... non Dio e il Cammino di Santiago!!!!!
Coelho, tu con me hai chiuso. Sappilo.
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Male vs Female: tutto ciò che già sai
Prendete un buon libro e mettetelo da parte. Prendete la vostra aspirazione a scoprire qualcosa di nuovo e mettetela da parte. Avrete ottenuto così "Maschi contro Femmine", oppure "Tutto ciò che già sai del dissidio male vs female, ma ugualmente pubblichiamo con la speranza che qualche idiota legga il libro". Ecco cos'è Maschi contro Femmine.
Ormai, il filone "vediamo chi è il peggiore tra i sessi" ha stancato un pò, nel senso che le argomentazioni che apportano i diversi autori che si accingono in quest'avventura sono sempre le stesse. La donna sta chiusa in bagno per la durata di tempo di tre partite, con i supplementari, rigori e tutto.. Il maschio, se si è fortunati, si lavicchia. La donna è ossessionata dalla precisione, perciò organizza tutto 24 giorni prima.. l'uomo si ricorda di una cosa 24 sec. prima.. La donna è una rompiBalle, l'uomo è uno stron*o... e via discorrendo..
...ma questo lo sapevamo già, no?...
A parte che adesso si punta sempre e comunque a generalizzare (eh vabbè!), ma sembra di vivere una situazione quotidiana dell'era paleolitica, come può essere: l'uomo che si gratta sotto le ascelle o cerca di spidocchiare la dolce metà, che si appresta, a sua volta, a tagliare le unghia del piede di lui... Il paradosso del paradosso!
Se proprio qualcuno volesse leggere un "libro" simile, dico che andrebbe fatto in compagnia o della dolce metà - chissà, forse potrebbe scatenarsi una vera e propria tempesta, e che qualcuno vinca una volta per tutte! - oppure con amici stupidi ed eccentrici, com'è successo a me, che mettono in risalto gli aspetti più squallidi di entrambi i sessi, colorandoli con esperienze varie e battutine in bilico tra l'assurdo e l'indecenza.
Aggiungo soltanto un'altra cosa!
Vorrei esprimere delle critiche aspre nei confronti della Mondadori che ha pubblicato il libro in un modo scandaloso! La foresta dell'Amazzonia ancora piange per lo spreco di carta insostenibile..
Hmmm, Mondadori..sei sempre la solita!
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Che delusione, Sig. Karlsson!
Questa è la vita di un uomo. Non di uno qualsiasi che incontri nel supermercato, a far la spesa per la moglie a casa con la febbre (moglie fortunata permettendo); Qui stiamo parlando di un uomo che è sempre stato, sin dall'età più "verde", un tipo bizzarro e particolare. Un uomo che, senza rendersene conto, è stato la pedina fondamentale che ha cambiato la storia del '900.
Quest'uomo si chiama Allan Karlsson, svedese, che vive in una fattoria insieme ai suoi genitori, fin quando suo padre non abbandona lui e la moglie per seguire, in Russia, le sue idee rivoluzionarie comuniste. Un insegnamento, però, il padre gliel'aveva dato: "Diffida sempre da chi non beve acquavite" e poi - puff! - sparito.
Sua madre, invece, gli dirà sempre: "Diffida da chi beve acquavite"; secondo voi chi seguirà il giovane Karlsson? ...
Lui si presenta sempre come l'uomo che sa fare solo due cose nella vita: trattare esplosivi e distillare latte di capre... perchè l'acquavite è fondamentale per la vita dell'uomo!
Gli esplosivi saranno il fattore fondamentale nella sua vita, e saranno proprio gli esplosivi il motivo per cui avrà la possibilità di avere a che fare con i grandi personaggi del novecento:
il generale Francisco Franco, il primo ministro americano Truman, il dittatore Stalin, il comunista Mao Tse Tung e tanti altri... Allan costruirà letteralmente la ragnatela della storia, con tutti i suoi eventi ed episodi: bomba atomica, sarà una "spia" - per modo di dire! - durante la guerra fredda, sarà prigioniero dei gulag, ma l'artefice dell'incendio di Vladivostok.. e via discorrendo.
Affronterà tantissimi viaggi, conoscerà molte lingue (svedese, russo, cinese, balinese, spagnolo), ma farà tutto questo con quella nonchalance unica e comprensibile, se si sa di ritrovarsi di fronte ad un uomo come Allan.
Qualcuno prima di me l'ha nominato il "Forrest Gump" svedese; beh, in effetti non ha poi tutti i torti; perchè Allan compie le sue "gesta" con quell'innocenza e quell'ingenuità tipica del Forrest e tutte le situazioni più buie, in cui la morte diventa solo conforto rispetto a ciò che gli spetterebbe per davvero, egli si salva con un colpo di scena che solo nei romanzi può essere consentito.
Tutto l'intreccio è diviso in due parti, due sezioni: la parte in cui parla della sua storia, l'altra invece è la vita attuale, in cui spinto dalla disperazione, è fuggito dalla casa di cure in cui abitava, proprio nel giorno del suo centesimo compleanno... una serie di 'sfortunati eventi' e non solo si susseguiranno.. e delle uccisioni saranno la molla che spingerà Allan e la sua combriccola (un elefante compreso) a vagare per la Svezia.
La trama sembra affascinante... ma non lo è, almeno per me non lo è stato.
Capisco che si tratti di un romanzo, capisco che nei libri tutto è possibile, ma è come se l'autore abbia voluto prendere in giro la mia intelligenza - non che ne abbia tanta, però! -.
Sembra di trovarsi di fronte ad un fantasy.... (e questo non va affatto bene!).
Pagine..e pagine..e ancora pagine in cui non ci sarebbe un briciolo di verità, o meglio di possibilità che le cose di cui parla possano realmente accadere.
Inoltre vorrei aggiungere un'altra cosa: c'è chi ne parla come di un libro che fa ridere a crepapelle, da lacrime agli occhi... anche a me son venute le lacrime agli occhi, in effetti... ma per altro! Le motivazioni sono due: o sono io ad avere un umorismo del cavolo (qui non si ride, ma si tratta di sorridere), oppure sono gli altri (molto probabilmente, dato il business e il mondo delle vendite) che hanno un humor fin troppo scontato.
E' leggibile, comunque, ma per chi, come me, si è fatto delle aspettative esagerate nei confronti di questo libro, è meglio tenersi alla larga.
Che grande delusione!
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Ad ognuno il suo
L'avvento freudiano viene considerato come la quarta rivoluzione, dopo quella copernicana, darwiniana e alcuni annoverano anche quella marxiana. Un evento che ha stravolto il mondo, più di quanto, in ambito sociale, hanno potuto fare le altre (e per ambito sociale parlo in modo particolare di relazioni interpersonali).
Dietro la copertina del mio libro è stata riportata la frase di Walter Benjamin (scrittore, filosofo e critico tedesco), che è la seguente: "Cinquant'anni fa, un lapsus durante una conversazione sarebbe passato più o meno inosservato... Con la 'Psicopatologia della vita quotidiana' tutto è cambiato".
Il 'caso' (o 'coincidenza'), che prima veniva preso come punto di riferimento per giustificare lapsus, atti mancati, dimenticanze e via discorrendo, ha subito un percorso all'indietro sbalorditivo, peggio di un gambero. E teoricamente, o meglio, per vie generali, accettiamo tutto questo contenti di questa ventata di novità e cultura. Ma.. bisogna fermarsi là; io ho dovuto permarmi qua.
Comprai questo libro sia per approfondire meglio gli studi scolastici e sia (soprattutto) per 'toccare' praticamente e per respirare l'aria innovatrice freudina, la quale ha influenzato tutto il periodo storico e culturale del '900. Ma non sapevo e tantomeno mi aspettavo un'aria così 'stantia'. Per leggere Freud bisogna partire, ovviamente, dal presupposto che ci si trova davanti ad un libro tecnico, ad un saggio strettamemte legato a dei termini precisi, ma speravo che nonostante tutto, Freud riuscisse ad invogliarmi ugualmente. Ascoltando opinioni sempre positive su un'altra pubblicazione freudiana, ovvero "Tre saggi sulla teoria sessuale", mi sono lasciata prendere, cercando di ampliare un discorso più pragmatico: lapsus e dimenticanze che fanno la vita di tutti i giorni.
Dopo la pseudo lettura di Freud (non terminata per via dell'esagerato tedio che mi provocava ogni volta che osavo avvicinarmi a qualsivoglia pagina), ho imparato una cosa fondamentale, del tutto irrazionale, ma parlando di psicanalisi non ci si può aspettare di sicuro un discorso prettamente scientifico. La cosa che ho scoperto è la seguente: mi sono resa conto che ci sono molti 'grandi' della letteratura e non, che hanno travolto radicalmente la vita quotidiana di un periodo ben preciso, e questi cambiamenti echeggiano ancora adesso. Bisogna apprezzare queste innovazioni per qualle che sono o per quelle che si sono mostrate, ma non bisogna sempre azzardarsi a scoprire i modi con cui ci si è arrivati a quella teoria o a quell'idea. Esempio: Freud ha 'scoperto' l'inconscio (es e super-io: forze contrarie che sono bilanciate dall'io); bene, fin qui ci siamo. Se però si va a studiare approfonditamente com'è arrivato a giustificare la sua scoperta, si rischia di cadere nell'assurdità. Dal momento che non sono esperta nel settore, preferisco tralasciare qualcosa dello studio di Freud, anzichè criticarlo senza averne delle basi solide con cui argomentare il mio dissenso (non ho mai studiato psicologia, ad es.).
Perciò anzichè continuare la lettura fingendomi interessata a queste teorie, rischiando di demolire un esempio da seguire, quale Freud è ancora oggi, preferisco chiudere il libro e cambiarlo, altrimenti l'antipatia crescerebbe ancora di più (sono arrivata ad un punto della lettura in cui ho paragonato Freud a Giacobbo. Quest'ultimo si diletta con i "templari": non importa la giustificazione che si dà, ma i templari stanno sempre dappertutto; così mi sembrano le teorie freudiane: a volte campate per aria, altre sembra siano un pò troppo forzate..)
..perciò: mollo! :)
Che i lettori di Freud non me ne vogliano, ma dico semplicemente che.. non è una lettura adatta a tutti. Il suo è un pubblico di un certo livello, che sia in grado di comprendere i discorsi di psicologia (cosa che io non sono in grado di fare), per questo lascio Freud a chi lo merita davvero.
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La favola della bizzarria
Si tratta del primo libro di Stefano Benni che ho letto.
Mi sono informata in lungo e in largo con quale iniziare questo mio flirt con il Benni.
Decisi, alla fine, di leggere "Il bar sotto il mare", più attirata dalla copertina che dai suggerimenti degli altri.
E devo dire...
CHE GRANDE RIVELAZIONE!
Sarò matta tanto da vedere Bukowski dappertutto, ma Stefano Benni e i suoi racconti, mi hanno tanto ricordato lo zio Hank; Che riposi in pace, ovunque si trovi!
Entrambi hanno scritto racconti; entrambi hanno utilizzato l'umorismo per farsi spazio tra la folla.
La differenza sta nei contenuti.
Quella del Benni è una favola bizzarra, anzi ne sono 23; quella di Buk è una favola sulla dissolutezza morale mescolata con 100 gr. di sottile umorismo e tagliente sarcasmo.
Benni, nel raccontare la bizzarria, è qualcosa di notevole, di particolare, di avvincente.
I suoi racconti sono a volte criptici e anomali, ma sono estremamente sbalorditivi e impregnati di genialità.
Non saprei definire il mio preferito: tutti mi sono piaciuti chi per un fattore, chi per un altro.. Tutti, con la loro follia e stravaganza!
Particolare è anche la scelta dei personaggi in copertina: si riconoscono i volti di Edgar Allan Poe (che racconta una storia dell'orrore, come ci si aspetterebbe - lascio al lettore l'effetto sorpresa), quello del dottor Freud, di John Belushi dei Blues Brothers, Rita Levi Montalcini e Marilyn Monroe.. Tutti hanno una storia da raccontare, da condividere con tutti gli altri frequentatori del "Bar sotto il Mare".
Che non stia vivendo anch'io, da 18 anni, nel 'Bar sotto il Mare'?
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A dystopian reality
Il comandamento dei dispotismi di una volta era: "Tu non devi!".
Il comandamento dei totalitarismi era: "Tu devi!".
Il nostro è: "TU SEI!"
Distruzione dell'individuo, spogliarlo di tutte le sue capacità, da quelle fisiche a quelle psichiche. Derubargli la sua memoria, i suoi sentimenti, la sua personalità. Questo è “1984”.
1984 rappresenta la morte. La morte dell'anima, la morte della libertà.
“Big Brother is watching you”: questa, invece, è la fine.
Orwell ci dice: “nei momenti di crisi non ci si trova mai in lotta con un nemico esterno, ma sempre contro il proprio corpo”; mai affermazione fu tanto vera. Chi ti pone contro te stesso però è il Partito, il Grande Fratello, immortale e crudele in tutte le sue forme.
1984 è l'esaltazione della dittatura, del dispotismo, dell'oppressione massima. 1984 è l'esaltazione del paradosso stesso.
La realtà non è mai stata così tanto capovolta, perchè due più due non fa quattro, ma cinque. Il Partito vuole così, e così sarà.
Lo stesso Winston scriverà nel suo diario: “la libertà sta proprio nella libertà di dire che 2 più 2 fa quattro, e non cinque”. Lui però questa libertà non l'ha avuta, perchè la società nel quale egli vive è spietata, struggente e rigorosamente controllata 24 h su 24. Non si può sfuggire dal Partito, devi imparare a condividerci, a rassegnarti della sua presenza, ad amarlo con tutto te stesso.
A lungo andare impari a controllare i tuoi movimenti, i tuoi pensieri, i tuoi sguardi, i tuoi sogni.. se non lo fai la stanza 101 è là che ti aspetta, con tutti i suoi traumi e le sue spaventose sofferenze.
1984 è anche il luogo da quale non puoi scappare, perchè qualsiasi parte tu vada, il Grande Fratello è là che ti aspetta, in agguato, pronto a distruggere la tua mente, a cancellare e a confondere i tuoi ricordi. Perchè tu devi pensare come e cosa il Partito vuole. Anche il suicidio è tanto lontano: in una realtà dove pure un goccio di veleno è introvabile; devi vivere perchè il Partito DEVE necessariamente plagiarti, deve controllarti, deve batterti, sradicando tutte le tue certezze, le tue sicurezze, eliminando la consapevolezza della tua stessa esistenza. Tu non esisti. Quando morirai nessuno si ricorderà mai di te, perchè non ci sarà più nulla di te: né una foto, né un foglio di carta che riporta il tuo nome, nulla. Ci sarà solo il tuo corpo vaporizzato che immetterà nel cielo quello che avresti potuto essere e che non sarai mai.
Questa è l'unica realtà, perchè la società dell'Oceania non ne conosce delle altre. Tutti abitano sotto lo stesso cielo, ma questo non significa che l'uomo è uguale a tutti gli altri. In una realtà in cui il confronto è severamente proibito, la libertà di ridere, di pensare, di sognare, di chiudere gli occhi anche per un attimo, di provare emozioni e di provare impulsi sessuali sono cose del tutto inimmaginabili, l'unico modo per essere lasciati in pace è essere 'prolet'.
Prolet significa avere la possibilità di pensare, pur sapendo che ti manca il cervello.
Tutto questo è 1984 (o 2011?).
Quello di Orwell è un semplice punto di vista (in parte fittizio), oppure è la predizione di quello che sarà il mondo tra qualche anno?
Orwell, grande genio o presumibile 'sciamano'?
Spero di non conoscere mai la risposta. Non voglio saperlo. Non voglio nemmeno pensarci, perchè già la realtà attuale mi fa paura, e un 1984 sarebbe... la fine di tutto.
Prima di concludere, vorrei trascrivere soltanto un piccolo sfogo, che purtroppo non riesco a tenermi dentro; dovete perdonarmi anche la volgarità..
Odio la televisione, odio i talk shows, odio quell'inutile programma del ca**o che viene chiamato Grande Fratello, che ha distrutto un concetto, un'idea. Odio tutto questo. Il termine “Grande Fratello” fa paura, ma preferisco conoscerlo e in futuro ricordarlo per quello che è, pensando a “1984” e non ad uno stupido ed insulso 'tv programm' in cui quello che viene mostrato è il culo di un'amica omnium (come avrebbe detto un 'certo' Cicerone) insieme ad altri falliti della sua specie che fanno tanto divertire questa società di merda (e passatemi il termine, questa volta).
Darkala, incazzata come non mai, passa e chiude.
Ps. Ho intenzione di portare “1984” in sede d'esame, perchè oltre alla storia che è in sé per sè qualcosa di sorprendente, ho apprezzato in un modo sbalorditivo le argomentazioni di Orwell nella parte 'storica', con cui ha giustificato il Gf e tutto ciò che ha determinato poi “1984”.
Che Orwell mi porti fortuna!!
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Piccolo bijou
Leggere "Novecento" sotto le note di Giovanni Allevi è quasi doveroso. Il rischio di scrivere di un genio della musica è quello di non trovare nessuno che possa rendere concreto quel mito. Io, però, mi affido piacevolmente a Giovanni Allevi. Lui è il mio Novecento.
Bizzarro e puro come il personaggio di G. Allevi, Novecento ha 32 anni. I suoi anni sono finiti, come gli 88 tasti del suo pianoforte, che fa danzare a suon di ragtime. Mi son ritrovata quasi a percepire quel tocco delicato che sembrava provenire dai muri della mia nuova cameretta.
32 anni. 88 tasti. Questa è geometria. Perchè noi abbiamo bisogno di sapere che ogni cosa ha un limite; Novecento ne ha bisogno. L'infinito, la vita degli uomini 'normali' gli fa paura. Ed è per questo che decide di non lasciare mai il Virginian: la sua casa, la sua vita.
Non vuole scendere a compromesso con la realtà, perchè fa troppa paura, e decide di restare fino alla fine con i suoi sogni, le illusioni, le speranze.. tutto ciò che egli riesce ad evocare attraverso quegli 88 tasti di pianoforte.
Il merito di Baricco è stato, forse, quello di aver creato una storia pura e delicata con parole struggenti e a volte leggermente volgari. Suona come una contraddizione che, a parole non la si riesce a spigare, perchè bisogna leggere il monologo per comprendere.
Novecento... lo ricorderò come la delicatezza in persona, la passione, la poesia, la purezza..
Novecento e i suoi 88 tasti di pianoforte.
Chi l'ha detto che il pianoforte di Dio ha tasti infiniti? Forse ne ha proprio 88.
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Tutto è il contrario di tutto
Mi sembra addirittura pazzesco aver letto ed apprezzato tanto "La coscienza di Zeno". Ricordo di aver provato un insieme di paura e timore prima di iniziare il libro, sia per motivi ben noti, quali delineano la storia di Zeno come la "palla letteraria" per eccellenza e sia per lo stile, che leggendo recensioni e/o parlandone con altri, è stato definito come uno stile esageratamente prolisso e tedioso.
Niente di tutto questo! E' stata una lettura stupefacente, forse un pò lunga per via degli impegni, ma davvero appassionante, e soprattutto, formativa. Annovero Svevo e Piranello come i grandi del '900, frutto di quella decadenza sociale e psicologica che si respirava in Europa prima, durante e dopo la prima e seconda guerra mondiale.
Mi preme, però, sottolineare una cosa, un fattore ASSOLUTAMENTE da non tralasciare: Italo Svevo è un economista, un imprenditore (perdonatemi il tempo verbale, ma per determinati 'geni' mi piace utilizzare il presente, per sentirli sempre vicini e attuali); questo elemento capovolge completamente la portata de "La coscienza di Zeno". Italo Svevo non ha un'educazione e una formazione umanistica, ma prettamente legata al commercio, al prodotto e all'industria. Il rapporto che ha con la letteratura è particolare: è autodidatta, si appassiona alla lettura e alla scoperta di classici e non. Ma dall'altro lato della bilanca pende il fattore 'odio' nei confronti di tutto ciò che non è calcolabile, quantizzabile, così da trasformare la letteratura in spreco, perdita di tempo. Il dissidio che si crea tra Svevo e la letteratura è forte: un odio nei confronti di quelle pagine da scrivere e da raccontare, ma una necessità nel farlo, quasi una dipendenza. Quest'incontro-scontro che si viene a formare, sarà la base di tutti i contrasti e le divergenze ne "La coscienza di Zeno".
Vorrei dare un suggerimento per chi si accinge a leggere questo libro. Bisogna ricordare una semplice formula, che permetterà di comprendere o non comprendere il testo: TUTTO E' IL CONTRARIO DI TUTTO. Zeno è un insieme di lati positivi e negativi, di si e no, di tutto e niente. Il due lati opposti di ogni cosa sono sempre presenti nel sig. Cosini. Sempre! Ecco perchè potrebbe diventare (non per tutti, ovviamente) un pò complesso riuscir a seguire il discorso sveviano.
Ma passiamo oltre!...
Tutti conosciamo, almeno spero, Zeno Cosini, detto l'inetto. Ma chi è l'inetto?
L'inetto è colui che non riesce ad agganciarsi alla realtà, colui che si pone domande alle quali non sa dare risposte, colui che è incapacitato di vivere, colui che è combattuto tra tanti mostri, cittadini perenni della sua mente, ai quali risponde con illusioni e menzogne per facilitare la sua esistenza e per incolpare gli altri dei suoi insuccessi. Dire 'insuccesso' però non mi sembra esattamente corretto, perchè ne "La coscienza di Zeno" si vede un uomo che non è lui a prendere determinate scelte, ma sono le scelte che prendono lui (es. il matrimonio con Augusta, che si rivela la moglie perfetta per lui, che funge da madre e da amante; oppure il procedere del rapporto con Carla; la vittoria in Borsa dovuta allle sue dimenticanze e via dicendo...).
Non bisogna confondere però l'inetto con il fallito, perchè l'inetto, se spronato, rende perfettamente, quasi quanto un 'normale', che Zeno criticherà per via della sua monotonia e della sua falsa sanità.
Non mi dilungo oltre, perchè non voglio annoriare nessuno. Volevo dare solo degli spunti necessari per comprendere meglio e (lo spero fortemente) apprezzare questo grande capolavoro, che purtroppo non ha riscontrato quello che avrebbe dovuto avere. Da parte mia, c'è una grande ammirazione e devozione non tanto per Zeno Cosini, ma per Italo Svevo, che ha saputo dimostrare, forse meglio di altri letterati cresciuti come tali, la duttilità dell'essere umano.
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Il trionfo della pazzia
La realtà. Cosa c'è di più complesso della realtà! Crearla, inventarla, ipotizzarla, viverla.. La realtà è ciò di cui noi abbiamo bisogno, è ciò di cui sentiamo la necessità di farne parte. 'Come' però non lo sappiamo. Il perchè neppure.
E' questo quello che si chiede Victor Mancini.
Essere una pedina della realtà, ingoiandola così com'è, oppure produrne una tutta diversa, con fiumi e monti dai nomi assurdi, bizzarri.. Iniziando da uno stupido diario dalla copertina rossa, oppure da un quadernetto nel quale scrivere la quarta fase della disintossicazione dal sesso.
Ma cos'è, in fondo, la dipendenza?
In America tutti devono averne una: più originale è la tua, e meno fallito sei.
La dipendenza (dall'alcool, dalle droghe, dal sesso), è un modo per evadere da questa pseudo-realtà, un pò difficile da definire, da delinearne i contorni. Si può essere in grado di crearne una? Bisogna avere poteri divini per poterlo fare? Oppure basta una semplice immaginazione (colei che può tutto) alimentata dalle pazzie di una madre folle, di una dottoressa folle e di un amico, Denny, altrettanto folle.
Sembra di vivere nel paese dei pazzi. Ecco il trionfo della pazzia.
Può un pazzo essere buono? essere un salvatore?
"Essere salvato per salvare", per creare degli eroi, per decorare la fantasia di poveri uomini manipolati dalla realtà, che diventa una vera matrigna. Victor VUOLE essere buono, vuole essere importante, non tanto per se stesso, ma per qualcuno. Vuole circondarsi di amore, ma il destino gli riserverà qualcosa di diverso.
Victor, "sano di mente o pazzo; stinco di santo o sessodipendente; eroe o vittima; buono o cattivo?".
... Io intanto ci penso, poi vi faccio sapere!
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Will Piper, detto Al Pacino.
L'entusiasmo incalzante che mi ha portato a comprare il libro e quello stesso entusiasmo che mi ha incanalato nella lettura mi ha abbandonato dopo le prime 5 pagine, ritornando saltuariamente tra una pagina e l'altra o tra un capitolo e l'altro.
Una miscela di 'delusione/curiosità' mi ha accompagnato durante tutta la lettura che, per via dello stile semplice e scorrevole, è stata veloce quanto una fumata di sigaretta.
La delusione arriva quando ti viene detto chi c'è dietro l'assassino già nel primo quarto del libro; Speri di esserti sbagliata oppure cominci a credere che l'autore voglia farti cadere in un incredibile tranello. Invece no. Aspetti quel colpo di scena che però non arriverà mai.
Alcuni indizi, poi, sono davvero assurdi; si sbarca quasi nel fantasy, per così dire - altro punto a svantaggio del libro.
Per quanto riguarda il protagonista, Will Piper, vorrei aggiungere una piccola cosa, insignificante, ma che vorrei condividere con voi. Il tipico affascinante ma dannato, che sbatte la sua vita (che ormai ha già trascorso il suo momento più produttivo) tra l'alcool e le belle donne, mi ha fatto subito immaginare il viso di Al Pacino. Il nome "Will" mi riportava alla mente l'attore hollywoodiano che potrebbe (secondo il mio modestissimo parere) vestire perfettamente le vesti dell'agente speciale dell'FBI in una possibile sceneggiatura.
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Odore di morte
"Una volta entravo e uscivo di galera, buttavo giù porte, fracassavo finestre, bevevo ventinove giorni su trenta. Ora me ne sto seduto davanti a questo computer con la radio accesa, ad ascoltare musica classica. Stasera non sto nemmeno bevendo. Anch'io mi sono dato una regolata. Per che cosa? Voglio arrivare a ottanta, novant'anni? Non mi importa di morire... ma non quest'anno, okay?"
Per chi ha letto altri libri di Bukowski capisce subito la differenza; per chi non li ha letti, pure.
Lo zio Hank, come egli stesso ha affermato, ha cominciato a condurre una vita molto più moderata, più pacata. Comincia a sentire l'odore della cara, vecchia morte, che sebbene egli non reputi un vero nemico, sente il suo passo farsi sempre più vicino e vendicativo.
Sono un insieme di racconti che vanno dal '91 al '93 (morirà nel '94 di tubercolosi), e Bukowski, credo, avesse paura. Ebbene sì, potrà essere un'affermazione azzardata, forse sbagliata ma, secondo me, ha paura. In TUTTI i racconti, e dico tutti, accenna alla morte, al termine della sua vita, all'indifferenza che tenta di provare nei suoi confronti, ma che non riesce mai a mostrare. Ha paura. Vuol rinviare il più possibile la fine di una vita che egli ribadisce più volte essere monotona, squallida, i cui giorni vanno 'sprecati' alle corse, luogo in cui sente l'odore della merda, che però sembra essergli di conforto.
Il tema dell'artista e della letteratura/scrittura è anche fortemente trattato.
Critica la società che ha creato nuovi 'scrittori' che non debbano essere assolutamente reputati tali, poichè rappresentano dei soggetti stereotipati, modellati e perfettamente plagiati dalla società contemporanea. No alla nuova letteratura. No alla tv. No alla musica, se non quella classica. No alle convenzioni.
Un ultimo grido disperato di un uomo combattuto tra la sua voglia di vivere e la sua pessima capacità nel farlo.
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Ogni libro al momento giusto
Ricorderò questo libro principalmente per un fattore: ho azzeccato il momento giusto per leggerlo.
Ebbene si, tempo perfetto, momento perfetto, periodo perfetto.
Con tutta la confusione di questi giorni, lo stress e le solite domande dubbiose che sembrano quasi soffocarti, questo libro mi ha regalato una giornata di serenità - soprattutto a questo servono i libri, o sbaglio? Molto probabilmente, se l'avessi letto in un altro periodo, l'avrei aggiunto alla mia "lista nera"!!!
Ovviamente ci sono aspetti negativi e positivi.
Parto dai negativi (già, sono una persona per niente ottimista):
- in molti punti, le frasi sono forzate, come anche le battute, cioè lo scopo è quello di far ridere a tutti i costi, a prescindere dal contesto in cui ci si trova;
- esempi eccessivi e quotidiani (cose a voler sottolineare nostre abitudini, soprattutto inconsce, per poi dire "Oddio, è vero!", che in parte ho apprezzato, ma in altre assolutamente NO.
- Nel capitolo sul sesso F. Volo sembra aver voluto copiare un pò lo stile bukowskiano, invano.. ciò mi ha irritato terribilmente, soprattutto per via del legame amore/odio che ho ho con lo zio Hank.
- In certi punti mi passava una semplice affermazione per la testa: un "E quindi?" grande come un grattacielo, perchè non riuscivo a capire dove andasse a parare il discorso.
- Stile alquanto infantile, che sembra essere apprezzato tanto oggigiorno, e si capisce bene il perchè.
Gli aspetti positivi, invece, sono stati sia la questione tempo, che ho precisato sopra, e sia il fatto che, nonostante le continue battutine, alcune mi hanno fatto non sorridere, ma ridere.
Inoltre, essendo uno stile molto fluido, ho letto il libro in un giorno, e ciò è positivo, perchè non riuscirei a leggere un romanzo come "Esco a fare due passi" per due giorni consecutivi.
Comunque tutto sommato è andata bene.. poteva andarmi peggio!
Fatto sta che: ho chiuso con il capitolo "Fabio Volo";
della serie: è stato bello finché è durato, ma ora smamma! :)
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Darkala: "Uno, nessuno e centomila"
Recensire un Pirandello è un qualcosa da non sottovalutare!
Il più grande, il più speciale, genio della letteratura novecentesca (almeno secondo il mio punto di vista).
Con Pirandello è stato amore a prima vista, altro che semplice colpo di fulmine. Non ci si stanca MAI di Pirandello: innovativo, geniale, ma soprattutto, maledettamente attuale.
Come negare il concetto di 'maschera' e/o di Relativismo conoscitivo?
Impossibile!
La realtà è soggettiva; ne sono pienamente d'accordo; ma soprattutto la società che diventa una parte di questa realtà, è spinta dal caso, dalle convenzioni sociali e dalla maschera che ognuno ha caricato sul proprio viso, e che porta ad intraprendere un preciso gioco di ruolo.
'Strappare il velo di carta del teatrino', ovvero andare oltre le convenzioni sociali, oltre l'apparenza, oltre la "trappola" pirandelliana, è quello che Moscarda, protagonista di questo lungo e straordinario percorso, ha fatto.
Moscarda: uno, nessuno e centomila.
Tante facce, tante realtà, quante sono le persone che soffermano l'attenzione su di noi; per l'appunto Centomila.
Pensare di conoscere se stesso è l'errore più grande e più comune della nostra società: noi non possiamo conoscere pienamente la nostra personalità e non possiamo immaginare tutte quelle che ci vengono date.
Resta tutto un mistero, un'illusione.
Darkala: "Uno, nessuno e centomila".
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Venezia: città d'arte, città decadente
[Premetto che ho letto la versione in cui sono presenti i seguenti racconti: LA MORTE A VENEZIA - TRISTANO - TONIO KRÖGER].
Il racconto che ho amato di più è stato proprio "La morte a Venezia". Dei tre, è quello che mi ha entusiasmato maggiormente, sia per la scelta della trama, ma soprattutto per la forma stilistica.
Un linguaggio davvero forbito, interessante, mai noioso, che rende efficaci tutte le descrizioni che Thomas Mann ha utilizzato per delineare e per rappresentare i paesaggi e le situazioni, con la nitidezza di una vera e propria fotografia. Avendo letto la versione in italiano, devo dire che la traduzione è stata perfetta: che non rispecchia la struttura classica della frase, ma porta cambiamenti tali da rendere il concetto poetico ed artistico.
La trama è come se si svolgesse in poco tempo, e in un piccolissimo spazio, nonostante il trascorrere dei giorni e le descrizioni accurate dei diversi luoghi. La lettura coinvolge, e la fine... che non posso svelare, lascia con un senso di vuoto, non per la scelta della conclusione, ma per altri fattori, alquanto sentimentali...
Essendo Thomas Mann un autore del primo '900, si percepisce quell'aspetto decadente (tipico del periodo) che mostra la città di Venezia sotto vari punti di vista: la città del commercio, del romanticismo, ma soprattutto una città putrida, da cui sembra quasi sentirne l'odore salmastro proveniente dai porti.
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Primo incontro col Giappone
Sono partita in quarta nel leggere questo libro.
Come un desiderio che fin quando non diventa realtà, ti tormenta fino alla disperazione. Ebbene, l'ho comprato; letto immediatamente, ma ho trovato delle sorpresine..
Non mi aspettavo di trovare dei racconti.. O almeno, non pensavo che la Yoshimoto si dedicasse maggiormente ai racconti. 'Kitchen' (sia la prima, che la seconda parte) mi ha entusiasmato molto; devo ammetterlo.
La cosa che mi ha catturato particolarmente è stato in primis lo stile (premetto che non ho mai letto un manga in vita mia - o qualcosa che riportasse allo stile manga) che mi ha ricordato dei veri e propri film, in cui le scene si susseguono rapidamente, con flashback e dialoghi molto veloci; come se si prendesse un libro e si lasciassero scorrere velocemente le pagine tra le dita.
Anche la storia è, d'altro canto, raccontata in modo veloce (ovviamente) e vuole sottolineare tematiche quali solitudine, morte (che nel libro diventa quasi un paradosso), famiglia, relazioni interpersonali, stravaganza...
Il tutto, però, è circondato da un velo di semplicità da suscitare molta tenerezza; ma in certi punti mi son ritrovata anche a ridere..
Un pò delusa, e lasciatemelo dire, per la non-conclusione del racconto..o la 'semi-conclusione' - o come volete chiamarla.
L'altro racconto, invece, non mi ha preso come Kitchen.. Sarà perchè inaspettato, sara perchè, essendo sempre stata molto distante dalla realtà nipponica, non ho saputo apprezzare pienamente le peculiarità, (davvero anomale), che fanno da sfondo al Giappone.
In complesso posso affermare che non è stata affatto una lettura inutile e/o noiosa. Anzi!!
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'Mona Lisa'
E' stata definita la 'nuova Mona Lisa', la nostra cara/odiosa Sadie, protagonista di questo divertente romanzo.
Una donna ultracentenaria - 105 anni (mi verrebbe da chiederle i metodi da applicare per durare così tanto) - che con la sua energia ha messo in ridicolo, e non poche volte, la vita della sua pronipote: Lara. Una zietta tutta particolare: amante della vita, tutta 'sprint', ossessionata dalla danza e dai vestiti anni 20 (la sua epoca d'altro canto) e felice di 'ripassare' ogni tanto.....'ogni tanto' spesso!
Una donna fuori dal comune che, sebbene mostri rughe sul viso e un maglioncino orribile su una stupida foto, è sempre rimasta una 20enne, frizzante molto di più della nipote che, già un pò pazza di natura, è stata completamente travolta da queste apparizioni (ossessive apparizioni, vorrei precisare).
E' un libro simpatico, a tratti però un pò banale (soprattutto quando Lara non vuole ammettere la reale situazione che la lega con il suo ex, Josh), ma anche divertente.. ti strappa qualche sorriso, e di sicuro ti tiene sveglia la notte, sotto le coperte, chiedendoti chissà quale stravagante progetto rende occupata la nonnetta.
In questo libro ho anche ritrovato il prototipo di 'mio-ragazzo-ideale': Ed [il libro acquista punti, infatti, almeno per me, per via della presenza di quest'uomo - senza di lui mi sarei scocciata, dopo un pò].
Lo stile è semplice, tipica lettura da sotto l'ombrellone, ma ogni tanto ci vuole, per spezzare un pò la pesantezza del quotidiano. =)
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Odi et amo
E' davvero difficile recensire un Bukowski. Davvero, davvero complesso.
Ma ci provo..
Devo dire che emozioni contrastanti si sono susseguite durante la lettura: all'inizio è stato puro amore, lo consideravo un 'grande'.. con la lettura di altri racconti, dopo altri 'conati di vomito', altre 'scopate' e 'sbronze' varie qualcosa è cambiato. Molto, è cambiato. Se all'inizio Bukowski era per me una sorta di genio, in parte incompreso, non solo dagli altri ma principalmente da se stesso (come se lui non conoscesse le sue capacità), poi è diventato un autore antipatico, banale e pesantemente volgare. Posso anche concepire la volgarità all'interno di libri, di racconti, di poesie, ma un autore che dimostra di conoscere più parolacce che parole, devo dire che un pò infastidisce. Forse perchè ho avuto un'educazione abbastanza classica, se si può dire; forse perchè non sono abituata alla letteratura di strada.. chissà.
Sta di fatto che, sebbene il suo stile sia molto irritante, c'è in Bukowski una specie di anormalità, di ironia e sarcasmo celati dietro strani e, apparentemente, stupidi racconti. Sono rimasta entusiasta di quel pizzico di ironia che utilizzava per concludere i racconti e/o per rispondere ad accuse o domande varie che gli venivano poste.
Ad un certo punto, mi son detta che quest'autore era perfettamente consapevole delle sue capacità, ma la cosa irritante di Bukowski è proprio questa. Un uomo particolare, in parte coraggioso, che spreca la sua vita dietro all'alcool, al sesso (con prostitute) e alle corse dei cavalli avrebbe potuto trascorre una vita migliore. Quando si ricordava di dover pagare delle bollette, cercava un lavoro che riusciva a seguire per solo una o massimo due giornate. E' piuttosto squallido vedere un cervello come il suo, calpestato dall'alcol e dal suo ostentato menefreghismo nei confronti della società. Ma devo dire che questo Bukowski aveva fantasia, cavolo!
Più volte ho detto: "basta, chiudo il libro e non ne parliamo più", ma più avevo voglia di smettere di leggere e più mi accanivo nella lettura. Ma come diavolo è possibile? Eppure odiavo il vecchio Hank.
Mi sono resa conto, però, di una cosa: Bukowski non lascia affatto indifferenti. Una sorta di "Odi et amo" catulliano persiste durante la lettura.
Poi penso che se lui non avesse seguito quello stile di vita, forse non ci sarebbe mai stato un Charles Bukowski.
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Ho tanta paura di diventare un baobab!
QUESTA NON VUOLE ESSERE UNA RECENSIONE, MA UNA SEMPLICE E SENTITA RIFLESSIONE.
"Tutti i grandi sono stati bambini una volta, ma pochi di essi se ne ricordano".
Ho paura. Ho paura di crescere, anche se, da tempo, non guardo più il mondo attraverso gli occhi di una bambina. Non mi entusiasmo a guardare le stelle, non mi soffermo a raccogliere un fiore sentendone il suo profumo; non 'addomestico' nulla (se volessimo usare i termini del Piccolo Principe). Tutto questo mi fa paura, perchè vuol dire che la mia anima morirà prima, io morirò prima. Chissà, forse sono morta, ma probabilmente non lo so, o non voglio ammetterlo!
Come si fa a ritornare bambini? Come si fa a gioire delle piccole cose? Di non sentirsi il re di nessuno, di non aver bisogno di applausi, di non sentir la vergogna di aver vergogna (come l'ubriacone), di non avere il bisogno di possedere tutto (in fondo, senza possedere nulla), di studiare tutto, senza avere la conoscenza di alcuna cosa. Come si fa?
Questo è un libro che, a mio parere, non va letto ai bambini. Va letto ai grandi, a coloro i quali hanno imparato o sono stati costretti a non ascoltare più la voce del Piccolo Principe; questo mi riporta essenzialmente al 'fanciullino' pascoliano.
Spero solo di ritornare, un giorno, a guardare le cose con gli occhi di una bambina, perchè questi occhi non mi piacciono più.
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La decadenza della mia voglia di vivere
Ci vuole coraggio.. molto coraggio nel leggere questo libro.
Sono presenti le tipiche caratteristiche sia della poetica d'annunziana che del movimento decadente del '900, ovvero l'estetsmo (che porta con sé l'erotismo), l'epifania e, perciò, l'amore ed un coinvolgimento con la natura.
Viene analizzata la decadenza di un esteta che, stanco di vivere la sua vita tra il lusso e la mondanità, ha voglia di cambiare, di assaporare meglio la vita e tutto ciò che porta con sé: sentimenti nei confronti di amici, di AMORE, ecc.. Una voglia che, però, è contrastata da quell'abitudine che lo aveva portato a rincorrere un piacere dopo l'altro, un'abitudine di cui non se ne libererà mai.
Conoscendo il personaggio di Andrea Sperelli e la sua voglia di 'cambiamento' si riscontrano molte somiglianze con la poetica di Baudelaire, che presenta il dualismo 'femminile', ovvero: la donna luciferina contro quella angelica. Ciò significa che si ama follemente la prima tipologia (quella 'diabolica' ovvero spinta dalle passioni, eccitante...) anche se si tende a quella angelica (pura, sia da un punto di vista fisico che intellettuale - la donna che riuscirebbe a modificare il comportamento e gli atteggiamenti dell'esteta). Sebbene si provi a combattere, il risultato non sarà mai quello desiderato.
Esattamente quello che avviene con lo Sperelli: innamorato di Maria Ferres (la donna angelica), ma fortemente proteso verso Elena Muti, l'incarnazione della bellezza, della seduzione, di quella consapevolezza del proprio potere sugli uomini, che affascina molto il personaggio.
Lo stile rispecchia fortemente l'autore: uomo di grande cultura, che utilizza un livello medio-alto e che fa riferimenti alla letteratura di altri tempi - tipico di una persona che conosce e che ostenta il suo sapere.
Il mio parere personale è abbastanza negativo, non dal punto di vista della trama (molto entusiasmante), ma da un punto di vista stilistico: sembra una raccolta di descrizioni, in cui tra una e l'altra viene riportata un pò la storia. Ovviamente questo lo sapevo già, poichè avendolo studiato me l'aspettavo, ma ho fatto davvero fatica a proseguire la lettura, tant'è che alla fine ho deciso di abbandonarlo. Là dove la lettura non è più un piacere, ma una noia è meglio voltare pagina.
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Lo consiglio anche a chi ha letto, o almeno a chi conoscere anche Baudelaire, da cui si possono comprendere determinate assonanze.
Erik - Vittima del destino e delle passioni
Che storia bizzarra ed originale è questa!
Un cocktail di emozioni: tristezza, amarezza, pietà, amore..
Devo ammettere che in un primo momento, la storia di un fantasma che vive negli inferi della casa della musica di Parigi e che chiede il suo "stipendio" ripetutamente ai direttori dell'Opera, è un qualcosa di azzardato. Il personaggio di Erik - il fantasma - può sembrare, in un primo momento, odioso, in quanto tormenta l'Opera per nessuna ragione apparente. Successivamente però si apprende la sua storia frustrante, si comincia col provare pena della sua esistenza e si finisce col compatirlo. Una creatura mostruosa, deriso da tutti per via del suo brutto aspetto, tale da sembrare la Morte vivente. I suo stessi genitori provavano un senso di disgusto nel vederlo; utilizzato addirittura come fenomeno da baraccone nelle fiere! mah,ahimè, sto svelando proprio l'Epilogo. - Pardon -
E' un personaggio, però, tremendamente normale e maledettamente fuori dal comune allo stesso tempo.
Ucciso da pene d'amore, come un qualsiasi essere umano, abile architetto di costruzioni "anomale", ma soprattutto quello che papà Daaé aveva definito: l'Angelo della Musica. Una voce, la sua, che va oltre il normale, oltre il concepibile, tale da ingannare e soggiogare tutti, compresa la povera Christine, vittima delle passioni ardenti del fantasma.
Come non compatire un uomo/fantasma che ha un aspetto talmente raccapricciante da essere costretto ad indossare una maschera (ciò può tirare in inganno, nel senso che ci si aspetterebbe un uomo, di bellissimo aspetto, dalla voce divina che con la sua mente controlla le altre), confinato in una dimora al di sotto del mondo, che desidera semplicemente essere trattato come gli altri, passeggiare per le vie di Parigi senza essere deriso, guardato, accarezzando e tenendo per mano sua moglie.
Ovviamente tutta la storia è racchiusa in un alone di mistero, di gotico, di assolutamente incantevole, che cattura l'attenzione del lettore.
Anche l'Epilogo è interessante, in quanto delinea concetti e riporta scoperte, della presunta indagine, che non sono stati trattati nel resto del libro.
Ma, dopo questa recensione, porgo a voi la domanda: Erik, mostro da compatire o da odiare?
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Musica & Filosofia
Interessante! Davvero interessante!
Non immaginavo affatto che un Giovanni Allevi sarebbe stato perfettamente in grado di cimentarsi in un autore! E devo dire che lo ha fatto in grande stile. Non si tratta di un romanzo, ma di un semplice racconto autobiografico, nel quale trovare filosofia e amore per la musica.
Avevo deciso di trascrivere tutte le frasi che più mi avevano entusiasmata.
Finendo questo lavoro ho notato che n'è venuto fuori un altro libro! :D
E' bello, divertente, interessante e sbalorditivo.
DA LEGGERE ASSOLUTAMENTE! :)
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Abbandonato!
Iniziai a leggere questo libro molto tempo fa, ma non lo finii. Poi ci riprovai ma..battaglia persa. Riuscivo a leggere fino alla metà, poi mi bloccavo.
Un tipico libro da viaggio, per ragazzine o donne mediocri che non amano abbastanza la lettura.
E' una comunissima e banalissima storia d'amore/sofferenza.
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Di alti ed altri livelli
Libro letto alle medie, che però non suscitò affatto il mio interesse poichè parla in modo TROPPO specifico delle ricerche e delle scoperte che la scienziata portava avanti.
A tratti parlava della sua vita familiare e sentimentale (quasi del tutto assente) e soffermava l'attenzione sulla scienza, ovviamente senza riuscire a catturare l'attenzione di tutti (me compresa)
Il concetto che fortemente ha ribadito più volte, però, era quello di costanza, d'impegno, d'interesse ed entusiasmo necessari per affrontare qualsiasi cosa e per arrivare alla meta che ognuno di noi ha prefissato.
Non lo consiglio a chi non è interessato alle materie scientifiche, poichè non comprenderebbe alcuni (o forse molti) passaggi.
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Il demonio (forse) è tra noi
Interessata com'ero (e come ancora sono) di diavolo al semplice fine di delineare un personaggio puramente mitologico mi cimentai in questo libro.
Scritto da un vescovo (ciò vuol dire che la realtà del libro è distolta, in quando estremamente cattolica) è abbastanza interessante.
Il diavolo, per persuadere, convince tutti di non esistere. Questo concetto mi ha molto affascinato, tant'è che se fossi cattolica, o almeno credente, ci crederei ad occhi chiusi.
Di consigliare, lo consiglio, ma badate a scindere la verità dalla fantasia cristiano/cattolica!
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