Opinione scritta da joshua65
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I giorni delle crisalidi
Eravamo sospesi sopra il vuoto, in bilico sulla fune, mentre avanzavamo in equilibrio precario aiutandoci con un’asta per non cadere. Alle nostre spalle l’infanzia, dolce e protettiva, davanti a noi l’età adulta.
L’adolescenza è stata la corda tesa e sottile che abbiamo percorso per un periodo cosi breve della nostra vita. Solo che non lo sapevamo.
Non sapevamo quanto fosse tutto cosi precario e rischioso. Abbiamo vissuto questi pochi anni, così intensi, sentendoci già grandi, ma senza esserlo, o forse un po’ si, e per tanto tempo dopo ne abbiamo parlato, sopravvalutandoli.
La nostra adolescenza è sempre li, nei nostri ricordi, un po’ sbiaditi, sorridiamo forse un po’ sollevati, perché ci siamo tanto divertiti, ma anche perché comunque è passata. E chi ha figli fa il conto alla rovescia degli anni che gli mancano al raggiungimento della loro maturità. E passerà, dai, passerà anche per loro.
Alla fine cosa ci rimane di quegli anni, se non struggente nostalgia? E’ impossibile resistere al ricordo, e probabilmente per questo mi sono subito tuffato nel “Regno degli amici”, bellissimo libro di R. Montanari.
E’ stato facile ritrovarsi con il protagonista, Demo, sensibile ed insicuro, e i suoi amici, Fabiano, bello e arrabbiato, il Profeta, ogni frase che dice è come una sentenza, Velardi (ancora lui!), maturo e assennato e poi il “Regno degli amici”, quella misteriosa casa abbandonata sul naviglio, quale migliore luogo per rifugiarsi, ascoltare musica, leggere fumetti, stare al sicuro, lontano dai grandi, per fare i grandi.
E infine Valli, che spunta all’improvviso come un raggio di sole nella nebbia, un arcobaleno di inconsapevole ed ancora innocente bellezza.
E poi l’estate degli anni 80 in una Milano di periferia quasi deserta, la nazionale che ha appena vinto i mondiali, i fumetti marvel, playmen, i talking heads e la musica progressive. Ottima cornice per una storia che diventa subito avvincente con l’arrivo di Valli, che scatena la tempesta dopo una quiete quasi perfetta.
Intendiamoci, sono al terzo libro di Raul, scrittore che amo come pochi, e che per l’ennesima volta non mi ha deluso, anche se questa volta il suo tratto sulle pagine è, come posso dire, lieve, il suo narrare meno graffiante, i personaggi appaiono più leggeri, sembrano come osservati attraverso una lente leggermente sfocata, e questo anche perché Montanari decide di raccontare la storia attraverso il ricordo di Demo, che rivive quell'estate anni dopo grazie ai suoi diari ricchi di dettagli e descrizioni.
Che la struggente nostalgia del ricordo abbia colpito anche te, mio caro Raul?
“Prendo un gran respiro e di nuovo mi incammino, questa volta senza più girarmi indietro. Non ho più niente da fare qui.”
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Giorni strani, giorni perfetti
Lei, lui, poi lei e ancora lui, “La sposa silenziosa” è un susseguirsi di punti di vista, cambi di prospettiva, real tv in real time su una vita di coppia. Li immagino sorridenti ed un po’ emozionati mentre commentano davanti alle telecamere le loro scene di matrimonio, ordinarie, normali.
Sposata, senza figli, Jodi vive i suoi giorni perfetti, la sua vita è come una piccola scatola d’ebano e avorio, un elegante orologio regolato da meccanismi svizzeri. Psicologa, dedica poche ore al giorno alla sua professione, poi la casa, qualche amica. E’ praticamente tutta per il marito, la sua vita.
Todd, invece, è un narcisista casinaro, un ragazzone mai cresciuto, il suo caos interiore è stato per anni anestetizzato dall’oppio coniugale e dalla moglie, devota e premurosa come una antica sposa orientale. Fino a che non si innamora di Natasha, che irrompe nella sua vita come vernice spray di colore arancione spruzzata per errore sulla parete bianca del salotto.
Natasha, donna molto più giovane di Todd, oltre che figlia del suo migliore amico, spezza ovviamente gli equilibri, inclina il piano, anche se molto lentamente, avviando una corsa lenta e silenziosa verso un finale, tutto sommato inatteso.
Diversi secondo me i piani di lettura di questo libro, un po’ thriller, un po’ psicodramma, alla fine quello che più mi rimane è che non sono proprio riuscito a provare empatia per Jane, anzi mi è stata tutta il tempo sulle scatole, meglio Todd, un po’ troppo immaturo forse, ma più vivo, reale.
Quanti raggi di sole ci trafiggono durante la nostra esistenza? O meglio quanti finora ci hanno trafitti?
Diamo un senso alla nostra vita, anche se un senso non ce l’ha e aprite le persiane, per favore.
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I fantastici tempi del combustibile liquido
Ci si potrebbe restare male nel leggere in questo breve ma interessantissimo saggio, scritto da Carlo Rovelli, importante fisico e saggista italiano, che dopo più di quattro secoli non abbiamo ancora capito bene perché la Terra gira intorno al Sole.
E che non sarà facile dimostrare qual è la particella più piccola della materia, sempre che non sia piuttosto un infinitesimo grumo di particelle, o meglio delle piccole stringhe che vibrano tra loro. E che quasi sicuramente l’Universo è come un grande lago apparentemente tranquillo, ma in realtà se ti avvicini, ti accorgi che è formato da tante piccole onde che lo increspano. E se gli butti un sasso si deforma per poi ritornare come prima.
E che molto probabilmente non esiste il prima o il dopo assoluto, perché il tempo è soltanto una variabile relativa, è una variazione di stato, dal freddo al caldo, che misura soltanto quel qualcosa che cambia, si trasforma, prima che tutto ritorni come prima.
In definitiva, almeno è quello che ho capito io, viviamo in un mondo che è come una macchina con il motore acceso ma in folle, ogni tanto qualcuno schiaccia l’acceleratore, il motore romba, i giri salgono, ma poi tutto torna come prima, con i giri nuovamente al minimo. Come un minestrone che ribolle, sopra un fuoco lento che non si spegne mai.
Ma non essendoci ancora una Teoria unica, che descrive il Tutto, forse la mia è solamente una intuizione geniale oppure, sicuramente, una megacavolata.
Tutti questi dubbi non risolti dovrebbero lasciarmi l’amaro in bocca, come un giallo senza soluzione. E invece sono rimasto davvero colpito dalla bellezza di questo saggio, perché non soltanto cerca di spiegare in maniera semplice, o meglio semplificata, i principali concetti della fisica, la sua storia recente e le sue ultime evoluzioni, ma soprattutto ci fa capire che dietro queste teorie, ci sono uomini che hanno dubitato, uomini che hanno creduto, alcuni troppo precursori, sono stati lasciati da soli perché ritenuti dei pazzi visionari, altri invece sono riusciti con la loro tenacia ed incrollabile fede nelle loro idee, a convincere altri uomini a portare avanti le loro teorie, ad aiutarli a dimostrarle.
Perché l’uomo per vivere, per capire, per evolversi ha bisogno di altri uomini, relazionarsi ed interagire con loro, cosi come la Scienza ha e avrà sempre bisogno della Tecnica, la fisica della matematica, il calcolo probabilistico della velocità dei computer, il pensiero filosofico della curiosità della mente umana.
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Mezzogiorno e tre quarti di fuoco
“Nel Texas orientale, mito, balle e leggenda sono la stessa cosa.”
Deve esserci per forza qualcosa di magico nel Texas (orientale) per ispirare così tanto e bene Joe Lansdale. Thriller, fantascienza, noir, centinaia di racconti, fumetti, sceneggiature di film, la produzione di Lansdale è ampia e variegata, ma sempre croccante e piena di polpa, non deraglia né deborda, a tratti ricorda Stephen King, ma non ne fa salire a bordo i difetti, mantiene lontano gli eccessi e le lungaggini, a volta torna su generi e argomenti già raccontati, senza però mai ripetersi.
Con Tramonto e polvere, Lansdale plana sul western, e che atterraggio! Siamo in una Texas nel periodo della Grande Depressione, dove il Far West sembra non avere detto ancora goodbye e gli stilemi del genere ci sono tutti. Ma il buon Joe fa capire subito che la giostra non girerà nel verso giusto.
Miss Sunset, la meravigliosa protagonista, già nelle prime pagine uccide per legittima difesa il marito, sceriffo del villaggio, mentre tenta di aggredirla, completamente ubriaco. Sarà lapidata nella piazza del paese per averlo ucciso penserete voi, e invece no, grazie all’aiuto della suocera, altra donna con i controcavoli, ne prende il posto di rappresentante della legge. E per dimostrare di avere anche lei gli attributi inizia subito ad indagare sui misteriosi omicidi irrisolti nel villaggio, aiutata da Clyde, uomo buono e fedele, e Hillbilly, girovago cantante country, da un passato avvolto nel mistero.
Sicuramente ispirato dalla voglia di lasciare ancora una volta il segno, Lansdale mescola mirabilmente le carte, i buoni sono in realtà cattivi, i neri sono razzisti come i bianchi e sicuramente più furbi, le donne hanno la stella di latta e il fucile, gli uomini sono vigliacchi e piagnucolosi, e soprattutto riesce a non cadere nel tranello di rifare il verso a El Grinta o allo spaghetti western, cosi tanto amato in America, pur versando dappertutto vagonate di ironia e sarcasmo, scoppiettanti tra le righe, come grossi petardi rumorosi.
E infatti, dopo aver letto il libro tutto di un fiato, aver riso in diversi momenti per la irresistibile descrizione tragicomica degli eventi, essermi appassionato alla storia e alle sue pieghe noir, avere tifato spudoratamente per i buoni nella inevitabile sfida all’O.K. Corral, che ogni western che si rispetti deve assolutamente avere, mi sono convinto che il lontano West era sicuramente così, duro, faticoso, divertente e pazzo, altro che John Ford, Wayne, Mitchum e Cooper.
Ma ho capito anche che il Texas (orientale) è pieno di mosche, zanzare, piovono rane dopo l’uragano, c’è caldo, sudore, polvere, e ogni tanto passano le cavallette e si mangiano tutto.
Che terra inospitale il Texas, non andateci mai, ragazzi!
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All My Darkest Dreaming
Non faccio parte del Club “Il film non rende mai giustizia al libro da cui è tratto”, perchè ci sono film capolavoro tratti da libri così così, basta fiondarsi sulla filmografia di Kubrick per capire.
Ed è per Kubrick e non solo che mi sono convinto ad allontanarmi quasi subito dal falò dell’ovvietà, dalla sarabanda del luogo comune di cui spesso e inconsapevolmente facciamo parte, “sai ho letto il libro poi sono andato al cinema, che delusione!!!”, oppure “sono andato a vedere il film, poi ho letto il libro, tutta un’altra cosa!!!”
Non siamo a QCinema comunque (forse questa l’ho già scritta, non mi ricordo bene, ma siamo già a 60 recensioni e 50 di età, ci può stare) anche se posso dirvi che tra le immagini del film “L’amore bugiardo”, tratto dalla stessa autrice di “Nei Luoghi oscuri”, ho percepito qualcosa di, come dire, sostanzioso.
E allora, favorevolmente impressionato dal film, ho ritenuto di approfondire meglio le capacità dell’autrice Gillian Flynn con “Nei Luoghi Oscuri”. In compenso non andrò a vedere il film che ne sarà tratto, ci vuole equilibrio nella vita, e soprattutto bisogna limitare al massimo l’entropia, che purtroppo come sappiamo tutti è in continuo aumento (provate con il cucchiaino a girare il caffè nella tazzina, secondo voi è un processo reversibile?)
Ed ho fatto proprio bene, "Nei Luoghi Oscuri" è un giallo molto sostanzioso, e sin dalle prime pagine, merce molto rara da trovare nel mercato dei gialli. Vediamo perché.
Libby ha trent’anni e vivacchia senza un lavoro fisso, grazie alla fama di unica sopravvissuta al terribile all’omicidio della mamma e delle due sorelle avvenuto quando aveva solo sette anni, nonché testimone e unica accusatrice del fratello, Ben, all’epoca adolescente. Ma senza lavoro i soldi iniziano a scarseggiare, Libby decide in cambio di qualche centinaio di dollari di accettare la richiesta del Kill Club - un gruppo di pazzoidi che indagano su casi per loro irrisolti - di aiutarli a riaprire il caso per scagionare Ben, ritornando appunto nei suoi luoghi oscuri.
Ovviamente non aggiungo altro, posso però dirvi che: 1) Libby è un personaggio davvero fantastico 2) La trama è ben congegnata, soprattutto negli incastri tra presente, dove si svolge la nuova indagine e il passato, che descrive la giornata che precede l’omicidio 3) Su Ben provate ad astenervi da qualunque commento fino alla fine del libro 4) Gli anni ottanta non erano poi cosi male, suvvia 5) Il finale…beh io avrei preferito qualcosina in più
Buona lettura!
I don’t ever want to be alone
With all my darkest dreaming
https://www.youtube.com/watch?v=OQlm0Q8HKUE
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Il lunghissimo addio
E siamo al terzo capitolo della Trilogia del Male, proviamo un po’ a riepilogare.
Anno 2011, sono passati cinque anni dalla soluzione del caso dell’Uomo Invisibile, Michele Balistreri è un uomo oramai stanco e disilluso e sta provando a dissolvere lentamente gli spettri del suo passato, o forse stanno morendo insieme a lui.
Della sua vita è rimasto poco, chiuso quasi sempre nel suo ufficio con le persiane abbassate, un fratello che vede ogni tanto, i ricordi oramai sbiaditi di amori mai iniziati, caffè, alcool e sigarette, un ginocchio che lo tormenta quando cammina troppo.
E’ davvero questo il male? Un veleno sottile che non ti lascia? L’oppio che ti ottenebra portandoti ad una lenta e ovattata eutanasia? Balistreri è oramai un uomo stanco e solo, senza più presente, sconfitto dal suo passato, incapace di immaginare qualsiasi futuro.
Ma il passato non dimentica, specie quando il conto non è stato saldato, e Michele Balistreri, grazie alla Primavera Araba che di lì a poco farà cadere la dittatura di Gheddafi, si ritroverà di nuovo davanti alla cassa per pagare, questa volta per l’ultima, il rendez-vouz atteso da quarant’anni.
Cosa dire di questo libro? Che vi consiglio di leggerlo immediatamente dopo il secondo volume della Trilogia, e tutto d’un fiato. Che ancora una volta mi ha fatto sobbalzare sulla sedia per i continui colpi di scena. Che l’ho trovato emozionante e che mi ha fatto soprattutto riflettere, portandomi alla inevitabile e ovvia conseguenza che al di là del Male c’è soltanto il Bene.
“Non sono stati persi questi anni. Non ci sono partenze, destinazioni, arrivi. Solo viaggi se vogliamo viaggiare”
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Al di là del Male
E’ da “L’Impero Colpisce Ancora” che aspettavo questo momento.
Perennemente deluso dai secondi capitoli, spesso insipide estensioni del primo, ovvie e deludenti conseguenze di un brodo senza carne allungato con tanta acqua, devo ammettere di aver tentennato troppo ad iniziare “Alle radici del male”.
Mi chiedevo cosa potesse aggiungere Costantini su Michele Balistreri. Sapevamo già del suo tormentato passato, del suo traballante percorso di redenzione attraverso la militanza nei Servizi Segreti e poi l’ingresso in Polizia come Commissario. L’autore ci aveva efficacemente e sapientemente descritto un personaggio complesso, attraverso un cerchio che si apriva nel 1982 con l’omicidio di Elisa Sordi, per poi chiudersi nel 2006 dopo una estenuante caccia all’Uomo Invisibile
Ma Costantini sa e ci chiarisce subito che la vita non è un solo cerchio, ma è fatta da tanti cerchi che si aprono e si chiudono intersecandosi tra di loro, hula hoop colorati e impazziti che escono via dal nostro corpo volteggiando tra il prato verde e un cielo azzurro, sparpagliati. Una polaroid, leggermente sfocata e sbiadita, li riunisce.
Altro giro dunque, che inizia in Libia nel 1958, dove troviamo Michele/Mike ragazzo mentre guarda la finale di Sanremo tra la mamma Italia e Laura Hunt, le donne della sua vita.
Una Libia drammatica e intensa, tra il giallo della sabbia spazzata via dal ghibli incessante e il blu intenso del mare, teatro perfetto per post colonialisti italiani, carabinieri comunisti, preti in ascesa, ex ufficiali americani (o spie in servizio permanente effettivo?) reduci dalla guerra in Corea, Arabi pronti ad una guerra contro gli Israeliani, inconsapevoli che non durerà più di sei giorni.
In mezzo, Mike, il suo l’amore per Laura Hunt, il patto di sangue con Ahmed, Nico e Karim, la banda dei MANK, che avvia, quasi per gioco una serie di attività illecite, ma molto redditizie.
Sembra il cerchio perfetto, ma nel 1969 due terribili omicidi lo interromperanno bruscamente, per poi riaprirsi nel 1982, dove ritroveremo il nostro protagonista subito dopo la drammatica conclusione del caso Nardi che, quasi per caso, riuscirà a riannodare alcuni fili, gettando una luce parziale sulla ricerca della verità che tanto lo devasta, grazie all’aiuto di una donna coraggiosa e di ritorni inaspettati.
“Ora hai capito, Mike? E’ così che finirai”
Yes! E ora sotto con il terzo e ultimo capitolo.
1980
Le luci si erano appena accese mentre terminavano i titoli di coda. Esterrefatto da un finale così drammatico e inatteso, percepivo nella sala riecheggiare ancora, o forse solo nella mia testa, “Luke, Io sono tuo padre!”
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Killing Me Softly
“Avevo capito dove voleva andare a parare:l’avevano già fatto. 'Questa tua missione…Lo fai per il ragazzo, o è per tua moglie?’ “
Tra le trame che costituiscono un thriller, quelle che riguardano la ricerca di persone scomparse sono indubbiamente tra le più intriganti. E’ facile essere conquistati dalle indagini, ritrovarsi subito a braccetto con il detective, nel suo girovagare a zig-zag tra le tracce sbiadite dal tempo.
Ricostruendo il percorso a ritroso dello scomparso prima della sua sparizione, grazie ai ricordi delle ultime persone che lo hanno visto, e poi in avanti, durante la difficile ricerca, spesso ci ritrova a fare i conti con le miserie della natura umana, ad osservarne con impotenza l'insensibilità verso gli altri, a ritrovarsi faccia a faccia con le loro e nostre paure.
David, il protagonista di Morte Sospetta, cerca le persone svanite nel nulla, ha appena perso la moglie per un male improvviso ed incurabile ed ha bisogno di andare avanti in fretta, buttarsi nel lavoro, congelare il dolore che lo stordisce, che brucia dentro senza dargli scampo.
Il caso sembra fatto apposta per distoglierlo, è l’opportunità di aiutare una famiglia affranta dalla morte improvvisa del figlio Alex, deceduto un anno prima in un terribile incidente stradale, ma che è stato forse intravisto vivo dalla madre qualche giorno prima, anche se per un solo attimo.
A David non resta che iniziare la sua ricerca, che sin da subito appare complicata, rischiosa e con pochissime speranze di riuscita.
Davvero interessante ed intrigante questo libro, un thriller classico se vogliamo, ma di qualche spanna superiore alla media, mi è piaciuto non solo per il suo ritmo incalzante, ma soprattutto per la attenta e curata caratterizzazione dei personaggi, per la capacità dell’autore di misurarne con precisione la loro inquietudine e ambiguità. Consigliato!
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Il mio nome è Nessuno
C’è un senso di grande impresa portata a termine che si avverte tra le pagine dei ringraziamenti dell’autore. Una lista di crediti lunga più di un lenzuolo.
In effetti, come dare torto a Terry Hayes, l’autore di Pilgrim? Il lavoro che ha realizzato non è da poco, ha scritto un bel thrillerone di 889 pagine, tra spy story, intricatissimo giallo e mirabolante caccia all’uomo, più o meno a metà tra Ken Follett e Jeffrey Deaver.
Nella trama Hayes ha messo insieme, legati dal più classico dei fil rouge, una giovane superspia veterana, richiamata per risolvere un delicatissimo caso internazionale, un integralista islamico, determinato e pericolosissimo, deciso soprattutto a farla pagare agli americani e forse all’umanità intera, un tenente della squadra omicidi rimasto gravemente ferito durante l’attentato dell’11 settembre, una giovane killer che dissemina cadaveri in più di un continente.
Quanti ce ne sono di libri come questo in giro? Più di uno sicuramente, quasi sempre svettanti tra gli scaffali che si trovano non appena si entra in libreria, spesso pubblicati poco prima del periodo natalizio, destinati ad occupare un po’ di spazio tra i regali sotto l’albero.
Eppure Pilgrim non è poi cosi male, è una buona lettura consigliabile preferibilmente in estate, ma che ti tiene incollato alle pagine, grazie ad un buon ritmo stabilito dai brevi capitoli, quasi tutti con un colpo di scena alla fine, giusto per non farti perdere la voglia di andare avanti.
E poi i protagonisti anche da un punto di vista psicologico sono approfonditi, il loro passato è ben descritto, si percepisce il senso filosofico del cammino intrapreso, un percorso riabilitativo per alcuni di loro. Infine, il finale è come dire…epico.
Forse un lettore un po’ pigro come me ogni tanto si è dovuto fare forza per continuare, per evitare che le pause tra un capitolo e l’altro fossero troppo lunghe, ma questo purtroppo è un mio limite, i lettori più appassionati e desiderosi di libri di genere di più ampio respiro come questo divoreranno le pagine come ragazzi affamati in una panineria.
E poi provate voi a scrivere un thriller di 889 pagine, io non saprei proprio da dove iniziare.
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Strane cose, anche oggi
Se di fronte ad un libro che non mi è piaciuto basta mettere un argine alle parole che fluiscono spontanee, limitare il senso del cinismo, aprire la valvola dell’ironia, mi trovo quasi sempre in difficoltà nel recensire un libro che invece mi è piaciuto tanto.
So che scrivere “Bello!” non è sufficiente per una recensione accettabile, anche se la voglia di essere estremamente sintetico è tanta. Se proprio devo sforzarmi aggiungo all’aggettivo il grado superlativo.
“Sapevo che questo discorso l’avremmo fatto, io e lui, e continuo a provare sollievo perché Eliana si è limitata a far saltare il tappo dei tradimenti, che fermentava da un pezzo nella sua cantina”
Danio è uno psicologo, separato dalla moglie Eliana, che non ha smesso di amare, ha un figlio con cui ha un rapporto conflittuale, o meglio un non rapporto. E’ ossessionato dalle donne, non riesce proprio a farne a meno, alcune le evita a fatica, con altre soccombe, mostrando tutta la sua fragilità.
“Dall’orgia di curve, sguardi, cascate di capelli biondi o bruni e pelle e cosce e tacchi alti picchiettanti di quando due o tre giorni sono trascorsi in voluta o distratta castità, alla quiete autunnale che si stende su di te dopo che hai goduto, e la geometria delle cose torna a ricomporsi nelle sue cadenze”
Danio è un maschio alfa alle corde, con evidente principio di senilità, verso cui si avvicina percorrendo con il freno a mano la parabola discendente della maturità. Per questo quando si imbatte per caso in uno strano diario scritto da Federica, giovane studentessa di liceo, decide di incontrarla per conoscerla, inclinando inevitabilmente il piano già instabile su cui è poggiata la sua vita.
Danio, per concludere, nasconde due segreti, due fatti avvenuti in passato che lo perseguitano, ma il secondo segreto riguarda un evento troppo recente per non scatenare l’onda anomala, l’effetto della scintilla che causa l’esplosione nell’aria surriscaldata.
Raul Montanari io vorrei incontrarlo, e credo che prima o poi lo farò, per dirgli che scrive divinamente, che non riesco a non ritrovarmi in quello che dice, che le sue storie sono coinvolgenti, i personaggi fortissimi, e che “Strane cose, domani” mi ha fatto nuotare tra le pagine.
Intanto voi fate attenzione a questo scrittore, è come la benzina per i motori a scoppio, accende l’immaginazione e libera le endorfine, crea dipendenza.
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Nighthawks at the diner
“Benjamin, sarebbe così gentile da servirmi un Southern Comfort, per favore?”
“Naturalmente, subito”
“Noto che non hai cambiato abitudini e sei rimasta fedele al Martini bianco”
“Si, sempre: vado matta per la forma del bicchiere in cui si serve il Martini, lo sai”
Un uomo e una donna in un bar, seduti accanto, forse amanti, o solo amici. Aspettano qualcuno, oppure sono da soli, perchè si sono dati appuntamento per lasciarsi. Invece no, si sono appena rivisti per caso al Phillies, bar molto fuori mano, in un malinconico pomeriggio di settembre.
Cogliere l’attimo è dei grandi artisti, materia esclusiva dei maestri. Un disegno, un’immagine, è la sintesi perfetta del momento che libera negli animi sensibili le emozioni, Edward Hopper ci è sicuramente riuscito con Nighthawks, superlativo olio su tela, uno dei quadri più famosi della pittura contemporanea americana.
Philip Besson invece è lo scrittore rapito dall’estasi pittorica che traendo ispirazione dal quadro immagina che la donna vestita di rosso sia Louise mentre aspetta Norman, bevendo il suo solito Martini.
Norman, l’uomo che Louise ama, sta lasciando la moglie e tra poco la raggiungerà. Norman però tarda ad arrivare e Louise aspetta paziente scambiando qualche parola con Benjamin il barman che la conosce da tanto tempo, che non ha bisogno più di osservarla per coglierne gli stati d’animo, basta una sfumatura nel suo viso per avvertire il quasi impercettibile nervosismo, la porta d’ingresso del bar sta per aprirsi.
La vita ti coglie di sorpresa quando meno te l’aspetti, ti porta in avanti per poi ricacciarti indietro, strade che si dividono, vie senza ritorno, quante volte abbiamo avuto una seconda possibilità? E quante volte l’abbiamo colta?
Fermiamoci qui con la storia, continuate a leggerla voi se volete saperne di più, con l’augurio che siate trasportati dallo stesso impetuoso flusso di emozioni che Philip Besson, sensibile e raffinato scrittore, ha saputo suscitare in me, con questo libro costruito con pochi e brevi dialoghi, pennellate secche e taglienti su una tela rigorosamente bianca.
O forse ho un inguaribile debole per le storie d’amore, e tutto quello che ho scritto qui sopra quando sono protagonisti i sentimenti finisce per valere sempre e comunque.
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Paradisi perduti
Mi piace la parola distopia.
Pronunciarla sollecita in maniera pressoché uguale la lingua e le labbra, provate a dirla da soli. E se siete in compagnia, aspettate quell’attimo di silenzio prima che qualcuno trovi le parole giuste per descrivere l’idea di un mondo dove nessuno vorrebbe vivere.
Mi piace molto meno il suo significato. Distopia è l’anti-utopia, la negazione dell’utopia, del mondo perfetto, quello privo di odio, di violenze, di guerre, il luogo ideale dove tutti possono vivere felicemente. Se utopia è un luogo simile al paradiso, un mondo distopico è un mondo indesiderabile, apocalittico e infernale.
Jonas, ha quasi dodici anni e vive in una società perfettamente organizzata, dove tutti hanno un lavoro. I membri che ne fanno parte sono educati, gentili, non conoscono il dolore e le malattie, gli anziani sono rispettati e accuditi in efficienti e comode case di cura. Le infrazioni alle regole non possono essere più di tre, pena il congedo definitivo dalla comunità.
I bambini sono generati dalle Partorienti e sono divisi per anno, gli Uno, i Due, i Tre,… Gli Uno ricevono il nome e sono affidati ad una unità familiare, gli Otto iniziano a fare volontariato, i Nove ricevono una bicicletta, così possono iniziare a muoversi in autonomia all’interno della comunità. I Dodici, infine, dopo una lunga osservazione da parte degli Anziani, ricevono l’assegnazione dell’incarico che svolgeranno per tutta la vita.
Jonas, il sensibile ed intelligente protagonista di The Giver, tra poco sarà un Dodici e da qualche giorno attende con impazienza e un po’ di preoccupazione la sua designazione.
La letteratura è piena di libri che parlano di mondi distopici, Orwell, Bradbury, fino alla Collins di Hunger Games. Descrivere un mondo distorto è molto più interessante che continuare sulla falsariga dell’utopia di Tommaso Moro, il non posto dove tutti vorremmo andare ma che sappiamo non raggiungeremo mai.
Il mondo di The Giver è un mondo perfetto? E’ il non luogo che stiamo cercando? Le emozioni e i sogni devono essere condivisi ogni giorno tra i familiari, le pulsioni sedate, le diversità azzerate, gli anziani dopo una certa età congedati con una toccante festa di addio.
The Giver è un libro breve, scritto in maniera lineare e scorrevole e per questo dicono che sia adatto per qualunque età. Puoi terminarlo in poche ore, ma io ci ho messo molto di più, perché ogni pagina che giravo mi pesava come un macigno, in bilico tra desiderio di andare avanti e tanta angoscia.
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Generazioni di fenomeni
“Ma dove ca**o sei? Ti ho telefonato almeno quattro volte, non rispondi mai.”
“Gli sdraiati” era sotto l’albero per me. Padre di adolescente, genitore distratto e confuso, sicuramente incapace di comprendere il proprio figlio, anche lui, come il protagonista, in posizione perennemente orizzontale.
Michele Serra, il perfetto tramite per farmi capire le difficoltà di essere padre che vuole fare il padre. Io, cresciuto alle fine delle grandi contestazioni, il tramonto degli anni di piombo, i Duran Duran e gli U2, e diventato adulto mentre crollava la prima repubblica, non potevo ricevere regalo migliore.
Lo pensavo leggendo la terza di copertina, sorridente, un sorriso compiaciuto, di chi si sente già appagato alla sola vista del condizionatore, ancor prima di averlo acceso.
E invece dopo qualche pagina ho capito subito di essermi sbagliato, la penna graffiante di Serra, caustica, incisiva, appare subito spuntata. Troppo autocompiacimento, Serra scrive specchiandosi, come Narciso. E fallisce il primo bersaglio.
Intendiamoci, l’autore è un grande giornalista, e non ha certo bisogno che lo dica io. Scrive per il teatro e la televisione, e ha trovato pure l’argomento giusto, il difficile e spesso impossibile, anzi praticamente inesistente, rapporto tra padre e figlio, e il tentativo (disperato? tenero? lucido? tragicomico?) di costruirlo. Ma un libro miei cari è un’altra cosa, qui siamo piuttosto di fronte ad un eccellente articolo pieno di lucide e fulminanti riflessioni, prossime agli aforismi, poi allungato, diciamo pure annacquato, da diverse digressioni, alcune un po’ troppo macchinose, la Grande Guerra Finale e il capitolo sulle felpe Polan&Doompy su tutte.
Altro bersaglio mancato, anche se devo ammettere che non ho capito se Serra lo fa apposta, è la figura del padre che per tutto il romanzo si affanna per stabilire un contatto con il figlio sapendo già di non poter comprendere, ma solo di volere bene incondizionatamente.
In questo tentativo, che poi è il lungo monologo che ci accompagna per poco più di cento pagine, si chiarisce soltanto l’accorata rassegnazione del padre, assoluto protagonista, ma non approfondisce, come secondo me si dovrebbe, la figura del figlio e il libro si dirige in questa lunga corsa in solitario verso un finale, che ahimè odora tanto, lo so la parola che sto per dire è un po’ bruttina, di retorica.
In realtà lo “sdraiato” è novanta gradi avanti rispetto all’ hombre vertical, sa dominare la tecnologia, naviga a vele spiegate su internet, legge, ascolta musica, guarda la tv, chatta, gioca, tutto contemporaneamente. I nostri figli ci surclassano con il loro approccio in parallelo, e noi, abituati a fare una cosa alla volta - non sappiamo iniziarne un’altra se prima non abbiamo finito quello che stiamo facendo - soccombiamo.
Per sopravvivere, non ci resta che provare ad avere con loro un dialogo continuo, a volte scomposto, rumoroso, quasi fuori tempo massimo, e non solo lungo la linea del traguardo come sembra suggerirci il buon Serra.
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Ascolta, la neve sta cadendo
Che questo giallo abbia tutti gli ingredienti e nelle giuste dosi per piacermi, non ci sono dubbi.
Valdiluce è il tipico paese di provincia, anzi di più, è una piccola località sciistica tra gli Appennini tosco emiliani, dove tutti sanno tutto di tutti e dove non accade quasi mai nulla.
Marzio Santoni è il poliziotto responsabile della pubblica sicurezza del luogo, detto Lupo Bianco per una disavventura accadutagli tra i boschi da piccolo e per il suo rapporto quasi carnale con la neve e la natura.
L’evento efferato e inatteso? Quattro giovani turiste trovate inspiegabilmente morte nel residence dove alloggiavano, asfissiate dal gas fuoriuscito dai fornelli della cucina. Nessuna perdita nell’impianto, nessuna manomissione, si tratta a prima vista di un apparente anche se poco credibile suicidio collettivo, dopo una abbondante cena innaffiata da altrettanto alcool.
Aggiungiamo infine che il nostro ispettore ha appena avuto una relazione con Elisabetta, una delle quattro giovani donne, poi trovate morte nel residence, e forse se n’era pure innamorato. La fugace e calda passione con lei, ne ha inaspettatamente disgelato il cuore e l’anima, la morte improvvisa dell’amata ne ha fermato come in un istantanea, i suoi odori, sapori ed emozioni.
Ma com’è possibile che fino a qualche ora prima Elisabetta era felice con Lupo Bianco e dopo qualche ora ha deciso di farla finita assieme alle sue tre amiche? Da qui partono le indagini di Lupo Bianco che devono necessariamente pescare nel torbido, svelare legami inattesi, scomode e sconcertanti verità private. E per il protagonista ogni relitto più nascosto che fa riemergere dalle limacciose acque del passato, è una fitta lancinante che ne sconquassa l’anima, una crepa nel cuore, il gesso sulla lavagna che stride acuto al nome di Elisabetta.
Lo confesso ho sempre avuto un debole per questo tipo di romanzi, due volte su tre mi fa ricadere la scelta sul noir italiano, e sfuggire alle allettanti note di copertina del thrillerone americano, con le sue metropoli chiassose e brulicanti o alle estenuanti cacce all’uomo tra le polverose strade del New Mexico o le vaste foreste del Wyoming. Anche se dopo tante premesse qualcosa durante lo sviluppo della storia s’inceppa, l’autore non affonda come dovrebbe, ingarbugliandosi più sul cosa e come è successo, piuttosto che sul perché.
E se invece di aver descritto la trama del Suicidio perfetto, abbiamo parlato di ricette, mi sembra sia proprio quella della farfalle al salmone della zia Giusy, che spadroneggia con i suoi manicaretti proprio in questi giorni di abbondanti mangiate natalizie, belle a vedersi, inebriante l’odore, piuttosto insipide da mangiare. Per Franco Matteucci è quindi una occasione persa per metà, anche se diversi passaggi piuttosto ben scritti e una certa scorrevolezza nel testo mi inducono a pensare che l’autore debba provarci ancora.
Largo ai giovani scrittori italiani dunque, che sanno trarre dalla provincia italiana tic, rancori, mezze verità, dolori sopiti nel tempo, ma pronti a riemergere e a tracimare, mentre io devo fare a meno di mangiare un’altra fetta di panettone, non sarà bello a vedersi e profumato come le farfalle al salmone della zia Giusy, ma il sapore classico e robusto sfida il girovita, certo di vincere la partita a mani basse.
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I giorni dei vivi morenti
A guardarli in TV gli zombi mi fanno sorridere. Con quegli occhi strabuzzati, neanche tanto minacciosi, i vestiti strappati, a qualcuno gli manca un braccio, altri zoppicano vistosamente. Una volta ne ho visto uno senza gambe che strisciava.
Si muovono molto lentamente e a scatti, sono pericolosi solo se te li trovi molto vicino. E poi che ci vuole a seminarli, dai? Basta correre per un po’ e nascondersi dietro l’angolo. Al confronto con i vampiri e i licantropi non c’è storia: nel grande villaggio popolato da tutti i mostri, gli zombi sono sempre stati quelli scemi. No gli zombi non mi hanno mai fatto impressione, proprio no.
E se invece di guardarli in TV, fossero in giro per le strade della vostra città? E voi foste rimasti da soli, barricati in casa, senza capire bene cosa sta succedendo fuori? C’è stata forse una pandemia, la gente sembra impazzita e si è riversata sulle strade, ci sono i militari che cercano di stabilire l’ordine, internet ha smesso di funzionare, i notiziari sono sempre meno frequenti, bisogna raggiungere al più presto i “punti sicuri.
Voi non vi fidate di questa sorta di psicosi collettiva, ma i viveri iniziano a scarseggiare. Non vi resta che uscire, per procurarvi acqua, cibo, generi di prima necessità. Ma il mondo per come lo conoscete non esiste più, niente di niente, nessun essere vivente nel raggio di diversi chilometri, tranne loro, i non morti. Minacciosi, pronti a radunarsi in orde fameliche, ad attaccare, feroci, letali, e a trasformarvi anche con un solo graffio in uno di loro, dopo atroci sofferenze.
Apocalisse Z, parla di zombi ma questa volta non mi ha fatto per per niente sorridere, è un libro cupo e angosciante, ti lascia senza fiato, ti avvince e ti terrorizza. E’ un libro che parla di solitudine, di follia umana, scatenata dal pericolo che incombe, di istinto di sopravvivenza, ma anche di profonda umanità, che sboccia come un fiore nel fango, puro e solitario, in attesa di essere risucchiato nella melma.
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La verità mi fa male, lo so
“Un bel libro, Marcus, è un libro che dispiace aver finito”
Joel Dicker sembra come quegli alunni che potrebbero fare di più a scuola. Ha le capacità ma non si impegna abbastanza. Oppure come quelli che, pur impegnandosi al massimo, non riescono ad andare oltre la sufficienza. A fine anno sono comunque promossi, riescono in un modo o nell'altro a spuntarla.
Ha scritto un libro che è un giallo, ma non lo è davvero, è scritto bene, anche se non in tutte le pagine, parla di amicizia, di amore per la letteratura, passione per la scrittura, ma è come se questo argomento lo leggessi in un articolo scritto in una di quelle riviste patinate, che trovi quasi per caso mentre sei seduto nella sala d’aspetto del dentista.
La sensazione di “vorrei ma non posso” ti accompagna per tutte le settecento e passa pagine, mentre leggi la storia di Marcus Goldman, giovane scrittore di successo, incapace di iniziare il suo secondo libro, che va ad Aurora, paesino nel New Hampshire, a trovare l'anziano amico Harry Quebert, scrittore anche lui, e soprattutto suo maestro, per ritrovare l’ispirazione, prima che l’editore gli faccia causa.
Harry però ha un segreto che custodisce da tanti anni, l’amore per Nola, bellissima ragazza di 15 anni, ma soprattutto molto Lolita, che lui ha amato di nascosto e che lo ha fatto diventare il grande scrittore che è. Nola è sparita tanti anni prima e non è più tornata, che fine avrà fatto? Harry l'ha cercata per anni decidendo di rimanere sempre ad Aurora ad aspettarla, finché il corpo di Nola non viene ritrovato sepolto, proprio nel giardino di casa sua. A Marcus, appena giunto ad Aurora, non resta che iniziare le indagini per conto proprio per salvare la vita al suo amico e mentore, per lui ingiustamente accusato di un omicidio, che non può avere assolutamente commesso.
Cosa c’è davvero in questo libro? E questo forse è il vero mistero, perché alla fine non si capisce bene se Nola è la Lolita di Nabokov o di Kubrick, non si comprende perché le atmosfere di Aurora e del New Hamphire nel 1975 ti sembrano tanto gli “Happy Days” di Fonzie e Richie Cunningham, e soprattutto, non sai decidere se i dialoghi sono davvero così profondi o piuttosto stiamo visitando la fiera dell’ovvietà.
E alla fine (della fiera), forse non è proprio vero che Joel Dicker potrebbe fare di meglio, molto probabilmente invece ha dato invece il meglio di se scrivendo un libro con una trama progettata a regola d’arte, che inizia sviluppandosi subito bene, magari dopo un po’ si attorciglia e si incasina sballottandoti qua e là, ma poi ti trascina come un fiume in piena, fino alla roboante, ed ovvia, soluzione finale (una tra le più ovvie, via).
Joel Dicker non è italiano, ma di Ginevra, eppure mi ha fatto rivivere una sorta di effetto Sanremo, non la bellissima cittadina ligure, ma la kermesse televisivo-canora, che cerchi di evitare fino alla fine, ma che ti ritrovi a seguire proprio nella serata conclusiva, tifando e sperando nella vittoria della tua canzone preferita.
La verità sul caso Harry Quebert? Ma è proprio necessario scoprirla? Se avete tempo e voglia, perché no?
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This must be the house
Ad una lenta e lunga corsa verso la deflagrazione finale, preferisco che il botto inizi subito. Altro che antipasto e primo, passo immediatamente al secondo e prendo pure un bel contorno, poi va bene frutta e dessert. Voglio che il rock inizi con il riff, voce urlante e sezione ritmica a palla, poi la canzone può durare altri otto minuti di melodia soave e suadente. Sono contrario alle attese, soprattutto nella lettura, anche se i primi capitoli lasciano da subito presagire che poi ci sarà il Gran Finale. Al bando le introduzioni, così come le premesse, i prologhi, gli antefatti, voglio iniziare con la storia, restare incollato alle pagine. Per i riepiloghi da leggere nell’ultimo capitolo, mentre sorseggio un buon caffè, c’è tempo.
Quindi non posso che esaltarmi quando trovo il libro che parte come dico io, quello che non dici che superate le prime trecento pagine, poi inizia a farsi (finalmente) interessante, quello che ti tiene incollato fino alla fine. Se potessi incontrare Linwood Barclay vorrei proprio chiedergli come accidenti ha fatto a scrivere un libro così.
Diciamolo meglio, “Il vicino di casa” parte con un omicidio plurimo, i Langley, padre, madre e il figlio Adam, sterminati da un misterioso omicida, senza un motivo apparente.
Ma qualcuno ha visto. Derek, l’amico di Adam si è nascosto nel ripostiglio di casa Langley e aspetta che partano per le vacanze, poi potrà chiamare la sua ragazza e passare un po’ di tempo con lei. Una casa tutta per loro per una intera settimana quale posto migliore per imboscarsi?
Derek fugge appena in tempo prima di essere scoperto, ma senza riuscire a vedere l’assassino e decide di non raccontare nulla a nessuno. Ci vuole poco però prima che la polizia non scopra il suo segreto e lo incrimini di pluriomicidio.
A Jim Cutter, padre di Derek, non resta che iniziare le indagini per conto proprio nella disperata ricerca di indizi che possano scagionare il figlio e nel respingere l’insinuarsi dell’angoscia sottile che il pluriomicidio così assurdo ed inspiegabile non si possa chiarire invece con un tragico scambio di persone, anzi di famiglie, quella sua al posto dei Langley.
C’è anche tanta America ne “Il vicino di casa”. Nella voglia di riscatto di Jim, pittore mancato, costretto a fare il tagliaerba per sopravvivere, nella politica cafona e grossolana del sindaco Randall Finley, nella maturità da recuperare in fretta da parte di Derek, per fronteggiare la durissima esperienza cui è sottoposto, nella necessità di rimettere ordine nella comunità in qualunque modo da parte di Barry, il detective di Promise Falls, ma anche amico dei Cutter, e soprattutto, e qui il discorso si fa più generale, nel tenere nascosti a qualunque costo i propri segreti che non ti lasciano mai anche quando vengono inaspettatamente svelati.
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Dopo il secondo prendo solo la frutta, grazie.
Mi sono più volte ritrovato a riflettere sul perché ho scelto di leggere un libro piuttosto che un altro, ma non ci ho mai capito molto. Oramai mi lascio trasportare dall'idea che sia il titolo o più semplicemente la copertina a farmi decidere, come si faceva una volta con gli LP, oppure un periodo dell’anno, il giallo in estate, il romanzo d’autore in autunno, la saga fantasy a Natale, e così via.
Quindi non saprei dirvi bene perché ho iniziato “Il superstite “, il secondo thriller di Wulf Dorn. Se avessi pochissimi secondi per rispondere, mi verrebbe subito da dire perché la trama mi ha intrigato.
I presupposti per il thrillerone ci sono tutti, il ritorno a Fahlenberg, la città natale di Jan Forstner, giovane psichiatra e criminologo, e il riaffiorare dei demoni del suo passato, la scomparsa del fratellino Sven, 23 anni prima, in una notte fredda e buia, la misteriosa morte del padre in un incidente automobilistico, uscito qualche minuto prima precipitosamente da casa, dopo una telefonata (chi era al telefono? il rapitore del figlio? Lo conosceva? E cosa voleva da lui?). E poi ancora la Waldklinik, l’ospedale psichiatrico dove Jan inizia a lavorare, brulicante di psicopatici fuori di testa pronti però a lanciare messaggi sibillini qua e là. E ancora, il piccolo dittafono che forse nella sua ultima registrazione contiene degli indizi determinanti per rintracciare il rapitore del fratello e poi le sedute di ipnosi con il dottor Rauh, cui Jan è sottoposto, e infine, Liebwerk, lo scontroso e misterioso archivista che non riesce a trovare alcune cartelle cliniche, lui così metodico e ordinato.
Tuttavia, pur essendo la storia ben articolata, sapientemente suddivisa in numerosi e brevi capitoli, e con un discreto numero di personaggi, per non restringere da subito il cerchio sul probabile (o probabili) colpevoli, “Il superstite” mi ha preso solo in parte e ho faticato un po’ a terminarlo, arricciando leggermente il naso nelle pagine finali.
Anche se devo riconoscere che grazie all’atmosfera tranquilla e familiare che si respira a Fahlenberg (Jan tra l’altro va pure a vivere a casa di un vecchio amico di famiglia), la costante presenza di paesaggi innevati, la mancanza di scene truculente e di un vero e proprio “German Psycho”, ma soprattutto grazie alla sensazione che l’ispettore Derrick da un momento all’altro spunti fuori per risolvere il mistero, “Il superstite” alla fine è diventato per me come la coperta di Linus, calda, accogliente, protettiva. E forse anche per questo ne ho centellinato la lettura, tenendolo per diversi giorni sul comodino, poche pagine lette la sera prima di addormentarmi, beato come un bambino.
Senza infamia e senza lode, dunque. Però, dopo questo libro, mi convinco sempre di più che la letteratura gialla teutonica, troppo vicina ai paesi scandinavi e distante quasi mezzo globo terracqueo dai cow boys, rimane per me un po’ così, come il semifreddo al caffè, dolce, burroso, ma non abbastanza freddo come un gelato, né con un gusto sufficientemente robusto come l’italico tiramisù.
Ma perché ho scelto il semifreddo come dessert? Mi è capitato di chiedermi più di una volta, guardando perplesso il piattino oramai vuoto.
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- sì
- no
A sangue caldo
Rimango sempre senza parole di fronte ad omicidi inspiegabili, spesso compiuti all’interno delle mura domestiche, o comunque in ambienti apparentemente tranquilli, familiari.
Le persone vicine all’omicida sono quasi sempre testimoni inconsapevoli dell’odio che monta e assistono impotenti alla rabbia cieca e assassina quando esplode, oppure, e questo avviene molto più spesso, rimangono increduli quando apprendono chi ha ucciso.
Mi colpisce, quindi, non tanto l’efferatezza del gesto, quanto l’incapacità di capire perché è stato compiuto, cosa è scattato per determinare la furia omicida e soprattutto se c’erano elementi chiari (ma mi sarei anche accontentato di segnali deboli) per prevenirlo.
Perché ogni volta è sempre la stessa storia, l’omicidio di Sara Scazzi, Erica ed Omar, il delitto di Cogne, fino ad arrivare al giovane Pietro Maso, riempiono le cronache dove si tenta di spiegare la reale dinamica dell’omicidio, chi ha collaborato e chi sapeva, si azzarda un perché. Difficile trovare, invece, chi ci spieghi come mai nessuno tra parenti, amici, conoscenti, avesse non dico capito, ma almeno intuito.
Per questo ho letto “L’inferno avrà i tuoi occhi”, per cercare soprattutto di capire come è stato possibile che tre ragazze la sera del 6 giugno 2000 hanno barbaramente ucciso Suor Maria Laura Mainetti, per offrirla in sacrificio a Satana, come avrebbero poi dichiarato agli increduli inquirenti, senza che nessuno avesse minimamente intuito cosa stessero premeditando tre adolescenti, residenti a Chiavenna, un tranquillissimo paesino di montagna, con l’unica pecca apparente di non amare lo studio e di preferire passare i pomeriggi in giro o al bar a chiacchierare.
Il libro tenta di spiegare, e in questo mi ha soddisfatto, percorrendo tre linee temporali diverse. Una è quasi una cronaca che descrive la profonda (e insana) amicizia tra le tre ragazze e il precipitare degli eventi, un’ altra racconta il sofferto ritorno a casa di una di loro dopo alcuni anni per fare da testimone di nozze ad una cugina, e l’ultima, a mio avviso la più interessante e riuscita, riguarda proprio l’autrice quasi coetanea delle tre e abitante nello stesso paese, che riflette sul legame stretto e possiamo proprio dire mortale tra Chiavenna e i suoi luoghi, l’età delle ragazze, la loro amicizia e quanto poi avvenuto.
Bell’esordio quindi per Silvia Montemurro, che grazie ad un racconto genuino, profondamente sentito, a tratti quasi intimo, ma comunque sempre lucido, supera le acerbità dello scrittore al suo esordio e prova a spiegare, riuscendoci, e a rievocare, certamente per trasporto e intensità, Truman Capote e il suo “A sangue freddo”.
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Se sbaglio col pregiudizio
Non dovrei dirlo, ma faccio ricorso al pregiudizio, e spesso. O forse dovrei dire ne ricevo soccorso, per orientarmi tra le enormi quantità di informazioni che mi bombardano ogni giorno, evitare le bufale, rimanere sordo alle sirene, resistere.
“Il romanzo che ha vinto la seconda edizione del concorso”, “un libro insolito, inedito, intenso”, “il giallo che ha conquistato il mondo”, “il titolo più atteso”. Devo sempre informarmi, riflettere, trovare riscontri, devo per forza approfondire prima di scegliere? “Farmi un’idea”?
Non volendo (e non potendo) comprarli tutti, applico il pregiudizio. Mi bastano le poche frasi di commento, la copertina, il nome dell’autore, la sua nazionalità, il genere (ancora thriller scandinavo???) e ...BOING!!! Sento il rimbalzo sullo scudo metallico, lo spostamento d’aria del colpo appena schivato, l’ebbrezza della macchina parcheggiata sulle strisce blu, anche per pochi minuti, senza pagare il ticket.
Per questo Raul Montanari ogni volta non sfuggiva al mio pregiudizio. Lui e il suo post-noir, quel diario che sembra veramente ritrovato in una panchina che ha ispirato “Strane cose, domani”, quel suo libro sconvolgente lasciato nel cassetto per diversi anni (figurati, basta parlare di sesso …), la definizione di Camilleri: “scrittore mistico”. A me Raul Montanari ha fatto SEMPRE antipatia.
E invece, mi sono ritrovato tra le mani “Il tempo dell’innocenza”, perché il pregiudizio ogni tanto va in ferie o fa semplicemente cilecca, rallegrandomi nel leggere la storia di Damiano, Ivan ed Ermanno.
Il romanzo inizia nel 1986, ai tempi di Chernobyl, dove uno scherzo tra amici apparentemente banale si trasforma in tragedia e poi fa un balzo nel 2011, subito dopo il disastro di Fukushima, dove Damiano, che adesso vive una vita decisamente “low profile” si ritrova costretto, suo malgrado, a dover compiere un gesto drammatico per salvare la vita della sorella.
C’è un non so che di magico in questa storia, nel suo protagonista, e nel suo irto percorso di redenzione. Ma anche nei coprotagonisti, soprattutto Ivan, amico e alter ego, incredibilmente trasformatosi venticinque anni dopo, la mamma di Ermanno, Regine, una strega decisamente cattiva, e Velardi, il detective privato che lo aiuta nella sua missione impossibile, un po’ Obi-Wan Kenobi, un po’ grillo parlante.
Indimenticabili anche i luoghi, Milano, metropoli pigra e cupa e poi Villavetere un immaginario paesino sul lago d’Iseo, mai così minaccioso, teatro perfetto per inscenare l’ultimo epico atto del nostro eroe. E, soprattutto, fantastica la colonna sonora, il Kraut Rock e i suoi derivati, che consiglio di ascoltare durante la lettura (Tangerine Dream su tutti!)
E il pregiudizio? Non dovrei dirlo, ma se penso che forse il buon Raul ha attinto dalle fiabe per scrivere questo bellissimo libro, sapendo di fregarmi grazie al loro fascino, forse dovrei subito riattivarlo.
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Italian Psycho
Preparatevi ad una folle discesa verso gli inferi in compagnia di Furio Guerri, protagonista di “Notte alle mie spalle”, l’uomo che “si è fatto da se”, guadagnandosi con le unghie e con i denti una posizione sociale, grazie al suo lavoro di agente di vendita. Collega stimato e odiato, una bellissima moglie, una famiglia e una casa da copertina, ma totalmente incapace di gestire con equilibrio l’ascesa verso il successo, avviando invece l'inarrestabile escalation verso uno schianto inevitabile.
Preparatevi alla sua difficile risalita mentre combatte i cupi mostri del suo passato, il peccato originale, il fragoroso big bang che ha avviato la sua seconda esistenza, alla disperata ricerca di una redenzione impossibile.
Preparatevi a percorrere due strade, due vite, apparentemente parallele, ma una finirà dove inizia l’altra. Difficile comprendere, pur nella sua crudezza, qual è la più toccante, quella che più ti agghiaccia le meningi, ti fredda il respiro, lasciandoti senza fiato.
Preparatevi a conoscere Giampaolo Simi, poco conosciuto ma promettentissimo scrittore (ancora grazie a QLibri e in particolare a Rokiweb, per la dritta!) che riesce a rendere noir il percorso interiore di un uomo, devastato, ma nello stesso tempo desideroso di riemergere dal fondo, prima che l’acqua gli allaghi per sempre i polmoni.
“Un'altra notte così e mi ammazzo” ho detto al dottore quando finalmente sono riuscito a parlarci. “Non pensi alla notte che deve ancora venire” mi ha risposto. “Pensi alla notte che si è lasciato alle spalle”
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L’impero dei sentimenti
Rimango sempre stupito nel vedere i ristoranti pieni la sera di San Valentino, coppie più o meno giovani cenare a lume di candela, tenersi per mano, dimenticare per un paio d’ore il mondo esterno, i cellulari sul tavolo silenziati e poggiati al contrario per non vedere il display illuminarsi.
Mi domando cosa stiano veramente festeggiando in quel momento, e quanta sia la retorica mischiata con l’essenza dei sentimenti. Quali sentimenti, poi?
Alla fine resto dell’idea che nel mondo ci sia più amore di quanto sembri, amore inteso come quotidianità, semplicità, piccole cose vissute insieme, una risata, un gelato prima di cena, la passeggiata insieme con il cane.
Sembra banale parlarne e soprattutto raro leggerne, troppo facile trovare nella letteratura struggimento, passione, follia, insostenibili leggerezze, cinquanta e passa sfumature di grigio, nero, rosso.
Ecco perché ho accettato la sfida di Takuji Ichikawa, del suo tentativo riuscito di descrivere la vita di Takumi e Yuji, padre e figlio, la cui vita è stata sconvolta un anno prima dalla morte di Mio, adorabile moglie e madre dolcissima.
Takumi porta avanti la famiglia con difficoltà, Yuji è un bambino giudizioso, ma c’è da fare la spesa, cucinare, tenere la casa pulita, lavare più spesso i vestiti. L’amore di Takumi deve bastare per tutti e due, bisogna continuare, anche perché Takumi sa che non appena inizieranno le piogge, Mio tornerà.
Stupefacente e leggerissimo, Takuji Ichikawa riprende il tema della possibilità che tutti noi vorremo avere, anche per un solo attimo, di rivedere le persone che abbiamo amato, per potere alleviare il dolore per la loro scomparsa, per trovare il coraggio e la forza di andare avanti, mostrando che si è capaci di colmare, anche se di poco, il vuoto enorme che la loro dipartita ci ha lasciato.
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Tre palle, un euro
Deve esserci un audace tra i tipi della Marsilio. Ogni tanto riesce ad infilarsi tra gli ingranaggi ben oleati delle rotative e a far stampare un autore italiano tra i gialli scandinavi e i loro derivati, rallentando l’onda lunga iniziata con Millenium, e poi Lackberg, Mankell, Marklund, Person.
Questa volta l’eroico è riuscito nell’intento con L’ombra del falco, di Pierluigi Porazzi, nuovo autore italiano che esordisce con un noir ambientato ad Udine, o faremmo meglio a dire nel nord est.
L’autore sceglie un inizio, direi classico per un noir: il cadavere di una ragazza trovato in una discarica, priva di organi interni, si tratta della figlia del primario che opera nella clinica Salimbeni. La clinica è strettamente connessa con l’onorevole Gonano, che per non avere troppe attenzioni da parte della stampa decide di sfruttare le sue aderenze con il Prefetto. Che a sua volta si affretta ad affidare il caso al Commissario Santoruvo. Lui, abituato a fare carriera nel modo giusto, saprà come far dirigere le indagini verso un vicolo cieco.
Ma subito dopo spunta un serial killer, che si mette una maschera a forma di teschio, filma la vittima mentre la uccide, e manda un messaggio ad Alex Nero, ex poliziotto, ritiratosi dopo la morte violenta della moglie e della figlia per causa del Becchino, un serial killer, suicidatosi subito dopo misteriosamente. E a questo punto, la situazione per Santoruvo, e il fido ispettore Scaffidi, si complica.
Porazzi ama il cinema e si capisce subito, mettendo in piedi un noir corale fitto di personaggi e di situazioni, descritte come scene di un film, montate una dietro l’altra, spesso giocando sull’equivoco che la stessa scena, descritta, crea (“impugnava un bisturi …”, chi? l’assassino? ma, no! l’anatomopatologo).
Il problema è che, caro audace della Marsilio, quando si mettono troppi personaggi in un libro, poi hai difficoltà a seguirli tutti e soprattutto l’autore non ha il tempo per approfondirli e, credimi, ce ne sono alcuni molto interessanti. Ho dovuto utilizzare a pieno le proprietà del mio ebook (e devo ammettere che di gioie me ne sta dando diverse) per annotare fatti, sensazioni, nomi. Anche se, lo riconosco, per la girandola di personaggi, situazioni, colpi di scena, alcuni davvero “fantasmagorici”, mi sono sentito come in una giostra.
E in genere quando vado al Luna Park, mi diverto.
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IF I ONLY COULD REMEMBER MY NAME
“La stanza è strana. Sconosciuta. Non so dove mi trovo, come ci sono arrivata. Non so come farò ad arrivare a casa.”
Lo dico subito, l’avvio di “Non ti addormentare” è irresistibile. Ti colloca subito al centro del labirinto senza darti alcuna indicazione per tornare indietro. Ti fa giocare a mosca cieca, dopo aver fatto tre giri con gli occhi bendati. Ma attorno a te non c’è nessuno, anzi se ti togli la benda ti ritrovi nel bosco, senza la bussola, al tramonto.
Ma non è solo questo. Perché continuando a leggere si entra nella vita di Christine, affetta da una rara forma di amnesia che trattiene la memoria per un solo giorno, per poi azzerarla la notte, come una tela di Penelope impazzita. Come le tessere di un puzzle recuperate a fatica, per poi dissolversi. Ogni volta, ogni notte.
Christine non ha ricordi, almeno non li ha a partire da un certo punto della sua vita, quando un incidente d’auto le ha fatto perdere la memoria, ha solo Ben, il marito, che le rammenta chi è, perché si trova lì, e cosa le è successo.
La memoria di Christine appartiene a Ben, dunque, e a quelle poche foto che sono rimaste, sfuggite miracolosamente ad un incendio. Brevi fotogrammi oramai sbiaditi, fugaci attimi di una vita mai veramente vissuta.
Da qualche giorno però Christine ha affidato i suoi ricordi ad un diario, che ogni mattina rilegge per poi aggiornarlo, Glielo ha consigliato il dottor Nash, giovane neuropsichiatra che l’ha contattata di nascosto dal marito per studiare la sua rara forma di amnesia.
Nel diario le tessere che compongono la memoria di Christine non sbiadiscono, anzi rimangono impresse, indelebili, ricostruiscono la sua vita, ogni giorno, sempre di più, e inevitabilmente collidono con i ricordi di Ben, aggiungendone altri. Ma i ricordi faticosamente recuperati, sono stati volutamente omessi dal marito, o tralasciati per amorosa pietà?
Strano libro “Non ti addormentare”, opera prima di S. J. Watson, ti afferra ed irretisce come un signor thriller psicologico, ma non smette mai di farti riflettere sul valore della memoria, sull'importanza che ha nelle nostre decisioni, sul nostro istinto, quando riaffiora dall'inconscio, rilasciando l’esperienza, che crediamo di aver dimenticato.
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L’elefante nella stanza
E’ praticamente impossibile non tornare alla strage nella scuola del Connecticut, o a qualche mese prima al Joker pazzo che ha ucciso 12 persone mentre assistevano alla prima di Batman. E così, a ritroso fino alla strage della Columbine High School, avvenuta nel 1999, dove questa volta due studenti massacrarono 12 compagni di scuola e un insegnante.
Eventi efferati, dicevamo, compiuti da folli, disadattati, psicopatici assassini senza movente se non quello della pazzia. Drammatici eventi di cui nessuno ha mai voglia di trovare una reale spiegazione, perché velocemente sopraffatto dagli scatenati tam tam mediatici sulla necessità di fermare o almeno limitare la folle corsa al reperimento delle armi. Proprio pochi giorni fa abbiamo assistito alle lacrime di Obama.
Non ci chiediamo quasi mai qual è stato il punto di rottura. Il momento in cui il piano si è inclinato, facendo precipitare le cose irreversibilmente. Il momento in cui l’assassino si è armato per dirigersi verso l’infausto appuntamento. Simon Lelic prova a darne una spiegazione in questo bel libro.
Siamo in una scuola inglese, durante un assemblea un mite professore irrompe uccidendo 4 alunni e un insegnante, per togliersi subito dopo la vita. Caso da chiudere velocemente anche questa volta, ma non per l’ispettore Lucia May, che attraverso una indagine attenta e scrupolosa cerca di andare verso la radice del problema, di capire cosa è scattato in Samuel Szajkowski, timido e riservato insegnante di storia, per compiere questo folle gesto assurdo e inatteso.
L’indagine di Lucia May è frenetica, deve chiudersi rapidamente, lo richiedono i suoi capi, l’autore riesce a dare ritmo alla lettura con una trovata davvero originale, intercalando i capitoli riguardanti l’indagine con quelli dedicati alle interviste fatte ai diversi testimoni, colleghi, studenti, parenti, anzi dei veri e propri monologhi, dove tutti quanti cercano di esprimere il loro punto di vista, qualcuno basato solamente su interpretazioni personali, perché non presente alla strage.
Forse le pagine non sono state sufficienti per approfondire al meglio le motivazioni che hanno spinto il professore a compiere questo crimine così efferato, per chiarire il legame a precedenti fenomeni di bullismo, alla disattenzione in generale delle istituzioni, ed anche il finale è un po’ frettoloso, diciamo aperto.
Tuttavia, Punto di Rottura rimane un bel libro, interessante, attuale, e a tratti originale, e per questo ve lo consiglio.
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Psycho Killers
Dove eravate la sera dell’11 luglio 1982, mentre la nazionale italiana di calcio dopo una trionfale cavalcata si giocava la finale con la Germania? Io, allora adolescente, ero assieme ad altri coetanei seduto sul divano, nello stesso posto che non avevo più lasciato dopo l’inattesa vittoria con l’Argentina.
Anche il Commissario Michele Balistreri, eccezionale protagonista di questo libro, se ne stava davanti alla TV a tifare, poi avrebbe fatto festa con la bella conquista di turno. Lui, così beffardo e strafottente, ex militante di Ordine Nuovo, già deluso dalla pur giovane vita e da un oscuro recente passato.
Ma l’appuntamento con la propria coscienza arriva prima del previsto, Elisa Sordi, giovane e bellissima impiegata negli uffici amministrativi del Cardinale Alessandrini, situati nella palazzina B di via Camilluccia, è sparita nel pomeriggio senza lasciare tracce, mentre tornava a casa attraversando una Roma assolata e deserta.
Balistreri chiamato dai familiari durante la finale, liquida velocemente la questione rimandandola al giorno successivo. Poi, il ritrovamento del corpo martoriato di Elisa nel Tevere, avvia le indagini, che vengono incasinate a dovere dalla inesperienza del nostro e dalla oscura volontà di qualcuno. Ventiquattro anni dopo, il suicidio della madre di Elisa Sordi, avvenuto durante la finale contro la Francia, fa riaprire il caso.
Gran bel libro, “Tu sei il male”, noir con i controfiocchi, dal protagonista, una sorta di Pellegrini di Camillotto, che però compie un percorso contrario, una Roma dei delitti irrisolti (Via Poma, l’Olgiata, l’omicidio di Marta Russo), e dei poteri forti (Vaticano, Servizi Segreti, Servizi Deviati, ex Monarchici pronti a riprendersi il potere), una storia ampia, complessa, che dipinge un affresco corale sull'Italia e su come siamo diventati noi italiani.
Fantastico ed emozionante seguire il percorso di riabilitazione di Balistreri, disperatamente aggrappato ad un male senza volto, inseguito lungo un arco temporale così ampio, oppure no, dove ci si accorge che la fine è inevitabilmente legata all’inizio, disegnando un cerchio ozioso e diabolico.
“Piatto” fu la prima parola che Balistreri sentii dire ad Angelo Dioguardi, “Bingo!” è quella che vi dico io.
[LA RECENSIONE TERMINA QUI, MA SE VOLETE VI RACCONTO COME MI E’ ANDATA A FINIRE]
Dopo la splendida vittoria dell’Italia non andai però a festeggiare, rimasi con la mia fiamma di allora, perché i suoi genitori non volevano uscisse. Il piccolo grande amore estivo si dissolse in fretta, ed io sono rimasto con il retrogusto amaro del pentimento per non essere andato a festeggiare con gli amici. Ho aspettato di rivivere questo momento per ventiquattro anni, dopo la vittoria questa volta più sofferta con la Francia mi misi in macchina deciso questa volta a fare il casino che l’evento meritava. Poi arrivato in prossimità della piazza, dove i festeggiamenti erano in corso, guardai i fumogeni, ascoltai le urla e i cori festanti, sorrisi e me ne tornai a casa.
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Many Happy Returns Mr. Grey!
Cinquanta sfumature di grigio si è annidato come un virus tra noi appassionati lettori.
Colti di sorpresa e sconcertati, cerchiamo di difenderci in tutti modi producendo come anticorpi un incredibile numero di recensioni brevi ed estremamente negative, o approfondite, ma comunque negative, sperando che facciano effetto e distruggano il male nel più breve tempo possibile.
Pochi, immuni, portatori sani, ammettono che a loro il libro è invece piaciuto e spiegano soddisfatti pure perché. La maggior parte di noi, febbricitante e sconvolta, aspetta che la buriana passi.
Se mi posso permettere “Fifty & co.” non è ovviamente un libro (nella sua accezione classica e diffusa tra noi appassionati) e chiudo subito la questione, ma una geniale operazione di marketing. E qui, se avete voglia, provo a ragionare con voi per un po’.
-- Cinderella woman
Si è parlato spesso di brutta copia di Twilight, a me sembra più evidente sia stato ripreso l’universale e immortale tema di Cenerentola, del Brutto Anatroccolo, e in parte della Bella e la Bestia. Ana, la ragazza goffa e impacciata, pure vergine per giunta, che fa innamorare il Principe Grigio. Diventerà sicuramente la principessa del reame e cambierà l’uomo della sua vita (quante donne in questo momento stanno investendo tanta energia nell’intento?). L’autrice si è ispirata a buona parte della produzione di Walt Disney, non c’è dubbio.
-- Sex and Violins
Il sesso è pura energia. Lo sappiamo, punto. Possiamo declinarlo come vogliamo, erotismo, pornografia, ecc ecc, ne siamo attratti, chi più e chi meno e in dosi differenti, ovviamente (e per fortuna). Questo libro ne è pieno.
-- Language is a Virus
Non solo nelle librerie, ma negli autogrill, nei supermercati, la trilogia campeggia, milioni di copie vendute. Ci saranno milioni di lettori in più? Sicuramente no, ma se qualche migliaia, o anche centinaia di lettori in questo momento occasionali scoprisse o riscoprisse il piacere della lettura, non è comunque un apprezzabile risultato?
Ok la chiudo qui con un’ultima considerazione. Ovviamente non è finita qui, prepariamoci ad una lunghissima serie di libri sul tema, alcuni saranno ironici, altri versioni più o meno hard di "Fifty", invaderanno gli scaffali delle librerie e ahinoi anche il nostro amatissimo sito, ma è la vita, che vogliamo farci?
“Non so nemmeno come considerarlo. Se accetto… sarà il mio fidanzato?”
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Checkmate, Mr. Eko
Sempre più circondato da grossi libri pieni di pagine, quasi sopraffatto da questi pesantissimi ceppi suddivisi in centinaia di fogli, blocchi pesanti pieni di tante storie o di una sola lunga storia, bloccati sul comodino soprattutto perché difficili da trasportare, sento il bisogno di fare una pausa.
Di una menta fresca mentre attraverso a piedi il deserto del Mojave, di un pomeriggio libero, preso per girare per le vie del centro. Fermarmi a guardare, poi riprendere a camminare, respirare.
Per un lettore una pausa è anche la possibilità di leggere un libro composto da poche pagine. Bastano pochi giorni per immergersi in un mondo nuovo, l’autore ha poco tempo per stupirti, sa che la tua esperienza sarà breve, deve renderla il più possibile intensa.
La variante di Luneburg ha fatto proprio al caso mio.
Costruito come un giallo e raccontato da differenti punti di vista, Maurensig ci racconta in realtà molto di più, dell’importanza della posta in gioco e delle nostre azioni che da essa scaturiscono, della eterna sfida tra il bene e il male, che spesso albergano in noi stessi, ma anche della bellezza tragica del gioco degli scacchi, che come una bellissima sirena ammaliatrice ti irretisce fino a portarti alla pazzia.
Proprio gli scacchi, soprattutto per me, che non li ho mai sopportati. Gioco che ho sempre liquidato come “noioso e complicato”, sfida impari con la mia pazienza, dove prima di ogni mossa devi assicurarti che la cordicella del paracadute funzioni, oppure attendere la mossa dell’avversario, sperando che si distragga per soffiargli la regina.
No, gli scacchi non li ho mai capiti o forse mi sono sempre rifiutato di farlo, e ho fatto male, perché dentro questo gioco universale è invece molto facile trovare la metafora della nostra vita, se riusciamo a viverla con raziocinio e pazienza, con la giusta attenzione, rendendola distinguibile dalle altre, e soprattutto se riusciamo con il nostro stile ad introdurre la giusta variante.
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Il fuoco che sembra spento dorme sotto la cenere
Che Sandor Marai fosse un grande scrittore già lo sapevo.
Se poi vogliamo approfondire un po’ di più, indagando sulla sua biografia, ritroviamo nella sua vita quei tratti di liricità e nello stesso tempo epicità che caratterizzano Le Braci, uno dei suoi libri più famosi, sicuramente tra i più riusciti.
Ci deve essere per forza qualcosa di Marai in questo libro, la decadenza dei grandi imperi, l’impossibilità ad adeguarsi ai forti cambiamenti del primo novecento, le grandi guerre che portano via benessere, affetti, ricordi, ti devastano mostrandoti la tua inadeguatezza nel ricominciare, dopo che sono terminate.
Così come mi sembra di ritrovare qualcosa di Marai anche in Henrik, l’anziano generale, che ha aspettato tutta una vita per potersi rivedere con Konrad, inseparabile amico di infanzia che quarantuno anni prima è andato via senza una apparente spiegazione, per andare a vivere in Estremo Oriente.
Il generale, ha avuto tutto dalla vita, una famiglia agiata, una brillante carriera militare, un amico fraterno ed inseparabile, una moglie amatissima, e ad un certo punto capisce di essere stato tradito.
Il tradimento, come un fuoco al calor bianco, divampa inarrestabile bruciando e distruggendo tutto attorno a lui, lasciando dopo tanto tempo braci ancora inestinguibili. Adesso, dopo quarantuno anni, Henrik si trova di fronte Konrad. E’ giunto il momento di spegnerle.
Quello che invece non sapevo, e qui secondo me sta la vera bellezza di questo libro, è stata la facilità con cui sono stato trasportato da questo intenso fiume di passione. Non mi accade spesso, ma a volte la storia, la profondità dei temi trattati oppure una accurata introspezione dei personaggi mi catturano, legandomi tra le pagine, facendomi immedesimare nei personaggi, nelle situazioni, rende difficile sottrarmi a delle riflessioni personali.
Quante braci non si sono ancora estinte dentro di noi, dopo che il fuoco è divampato? E soprattutto, quante braci sono ancora accese nelle persone che abbiamo voluto bene e che non abbiamo ancora provato a spegnere?
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FOLLIA = FOLLIA?
McGrath è uno scrittore bollente. Non so se mi spiego.
I suoi libri vanno prima osservati a debita distanza, annusati, poi sorseggiati lentamente ed infine bevuti con avidità. Bevi un tè speziato, di quelli che arrivano dalle terre più lontane per allietarti il palato e lo spirito.
So che iniziare un suo libro è come intraprendere un viaggio negli abissi con un piccolissimo sommergibile o come fare rafting estremo tra le ripide di un fiume americano, ed anche questa volta ho fatto melina, scrutando Spider per diversi giorni prima di iniziare a leggerlo, come un fiorettista prima di lanciare (o ricevere) la ferale stoccata.
Ed infatti mi è bastato allacciarmi le cinture per calarmi immediatamente nell’atmosfera fumosa di una Londra invernale del 1957, dove Dennis, il cui nomignolo dato dalla madre è Spider, torna dopo una lunga permanenza in Canada.
Dennis/Spider alberga in una strana pensione gestita dalla Signora Wilkinson, abitata da coinquilini ancora più strani e cerca di ricordare il suo passato, ritornando sui luoghi vissuti vent’anni prima.
Ma forse Spider ha un passato ancor più misterioso, che riaffiora mentre scrive in un diario i ricordi di quel periodo, il difficile rapporto con il padre e la sempre più ingombrante presenza di Hilde, la prostituta che gli sta facendo perdere la testa, lasciando nello sconforto l’amatissima madre.
Ma il passato rievoca in Dennis anche gli odori di quel tempo, un’insopportabile puzza di gas, gli fa vedere escrementi, facendogli percepire morte e decomposizione. Poi i suoi ricordi altalenanti rimbalzano sui successivi anni vissuti in manicomio.
Ma allora Spider è un pazzo? Stiamo leggendo la sua vera storia o si tratta di un delirio? Di una lucida e nello stesso tempo folle trasfigurazione degli eventi?
A furia di togliere e mettere, McGrath questa volta pur deliziandomi con il suo solito stile ricco e nello stesso tempo raffinato, mi ha fatto un po’ incartare. Almeno a me, lettore forse troppo esigente che ha quasi sempre bisogno di un solido finale.
Oppure, rimasto invischiato nella tela mi è dispiaciuto che alla fine Spider, il ragno, non è più arrivato.
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Roller Coaster Revolution
Non ci vuole molto a capire che l’ “Igiene dell’assassino” è un bel libro, perché è scritto benissimo.
Ma leggerlo è stato come fare un giro sull’ottovolante: brivido durante la ripida salita iniziale, un po’ di paura tra le curve paraboliche, senso di nausea all’uscita.
Forse avrei fatto meglio a rinnegarne lo spirito e leggerlo a velocità di crociera, soffermandomi sui sofismi rifiutati, le metafore schivate, l’imperativa necessità di coniugare i verbi, le incredibili citazioni, il sagace umorismo al vetriolo, l’illuminante classificazione anatomica degli scrittori. Poi, dopo aver sparso tutte le sue pagine sul pavimento, sottolineare i brillanti aforismi e ricopiarli a matita su un foglio a quadretti.
Perché non deve essere stato facile, per Amélie Nothomb, convogliare nel suo primo libro tutta l’energia creativo-distruttiva accumulata negli anni della sua travagliata vita personale, e darcene un assaggio con questo breve romanzo, che racconta le interviste tra Prétaxtat Tach, scrittore premio nobel ritiratosi da diversi anni e con ormai pochi mesi da vivere, e quattro malcapitati giornalisti (uomini).
Poi l’incontro-scontro con Nina, l’enigmatica giovane giornalista (donna), che, con un estenuante botta e risposta, mette a nudo la contorta personalità dell’anziano scrittore, trasportandoci in maniera sempre più incalzante verso un inatteso, rivelatore, catartico finale.
Sì, avrei proprio fatto meglio a tirare tre palle con un euro, oppure comprarmi lo zucchero filato, ma le luci colorate, la musica assordante e un brivido lungo la schiena mentre rivolgevo lo sguardo verso l’alto, mi hanno convinto a salire su questo diabolico trenino.
Nothomb si, Nothomb no, Nothomb si
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Non c'era una volta
Susanne Meyer rivela alla fine del libro che ha tratto ispirazione per la trama dal deserto americano, mentre lo attraversava durante i suoi lunghi viaggi in auto. In effetti, non posso proprio darle torto, è un arido deserto di idee che ha ispirato l’Ospite, con tanto di aria irrespirabile sopra e totale assenza di vita sotto.
“La Marisa va al mercato, fa la spesa, poi torna a casa a cucinare”. E’ una storia? Certamente. Ma non voglio leggerla per quasi seicento pagine, trascinandomi il libro come fosse un ceppo di legno, pronto per essere lanciato dentro al mio caminetto. Piuttosto imparo il tedesco, anche se so che mi servirà solo se un giorno vorrò leggere “I Buddenbrook” in lingua originale.
Eppure, ero proprio pieno di buone intenzioni, desideroso di trovare la vera stoffa di un’autrice che se ne infischia del successo planetario di Twilight, con tanto di movies e merchandising al seguito, e adesso scrive il libro che più le pare.
E’ invece l’Ospite è un’insipida brodaglia, una sci-fi story in salsa rosa raccontata dai teletubbies, mentre ti saltellano intorno facendoti la loro interminabile serie di faccette, una incredibile paccottiglia di ovvietà etico morali, sulla forza dell’amore, l’amicizia vera, la fratellanza tra i popoli, la paura per l’ignoto, e via dicendo.
Serve altro cenno sulla trama? No, perché in realtà l’ho già raccontata se sostituite Wanda/Melania, l’eroina del libro, con la Marisa che va al mercato, oppure con Cappuccetto Rosso senza il lupo e la nonna, o con Biancaneve senza la strega, lo specchio e la mela.
Piuttosto mi soffermerei sul fatto che ci sono voluti ben quarantacinque lunghissimi giorni per terminare questo libro, nel frattempo ci sono stati gli Europei di calcio e sono iniziate le Olimpiadi, lo spread è rimasto sempre lo stesso, ci sono file chilometriche per la benzina nei fine settimana, ma soprattutto ho messo sul comodino altre seicento pagine, suddivise però in ben cinque libri.
E se la matematica non è un’opinione, almeno uno scrittore buono questa volta lo trovo.
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Seasons of love
Invisibile, invisibile, invisibile …
Come un mantra, ipnotico, ossessivo, il titolo del libro mi pulsa nella mente e non mi lascia, neanche dopo aver letto le ultime pagine. Invisibile, ma che c’entra?
Adam, il protagonista, vive la passione per l’arte, per la poesia, subisce l’ambiguità di Rudolf Born, si arrende alla seduzione di Margot. Vive il sesso e la rabbia, l’odio e la paura.
Vive il temporaneo ritorno a casa dalla sorella Gwyn, anche se è una casa inospitale, piena di ricordi, di fantasmi del passato. Rivive con lei il compleanno del fratello scomparso in tenera età, i genitori distrutti e assenti. Si arrende al forte legame che lo ha sempre unito alla sorella maggiore.
Adam è visibile, mi trasmette le sue esperienze, lasciandomele dentro come marchi a fuoco sulla pelle. Esperienze che restano anche nella vita di chi le ha vissute con lui, durante le stagioni di quel maledetto, iniziatico, 1967, tra la Summer of Love, che neanche lo sfiorerà, e Parigi, nella quale soggiornerà durante un languido autunno, così vicino, ma così lontano dal quel rivoluzionario maggio francese.
Invisibile allora è la realtà? La realtà è quella che percepiamo, è quella che trasmettiamo agli altri raccontandola con i nostri punti di vista, aggiungendo le nostre sensazioni, le nostre emozioni. E non è proprio per questo che la realtà non esiste, “realmente”?
Quindi, chi era veramente Adam? Cosa è stato per lui il 1967, e chi erano Rudolf, Gwyn, Margot, Cecile? Protagonisti insieme a lui di quelle stagioni così intense e drammatiche?
Alla fine credo proprio di non saperlo, perché questo bellissimo libro non lo spiega. So, però, perché Paul Auster lo racconta, come sono quelle stesse persone quarant’anni dopo.
Sono invisibili, come i fari spenti di un auto guidata nella notte, come chi ha vissuto senza lasciare tracce della sua esistenza, oppure le ha lasciate, ma sono state cancellate. Come chi è andato via senza salutare, chiudendo la porta, piano.
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Fame, amore e gelosia
Si potrebbe dire che oramai è difficile trovare delitti ben congegnati compiuti in una stanza chiusa, che la soluzione del mistero è spesso banale o troppo articolata, ma questa volta non è la cosa più importante, perché De Giovanni riesce a subito distoglierti dal giallo trasportandoti verso un’indagine sulla degenerazione dell’animo umano, spinto irreversibilmente dalla fame e dall’amore.
L’autore trova per fare questo un meraviglioso pretesto: la capacità del protagonista, il commissario Ricciardi, di vedere i morti nel loro ultimo anelito di vita, mentre ridono, oppure piangono, mentre imprecano o implorano perdono. Immagini impresse che prima di sbiadire riecheggiano nella mente del nostro investigatore, lasciandogli segnali e voci da interpretare, da ricombinare come puzzle sparsi per terra e privi di diverse tessere.
“Io sangue voglio, all’ira mi abbandono, in odio tutto l’amor mio finì…”
L’ambientazione, poi, è fantastica. La Napoli del 1931, com’era? Ne vediamo alcuni scorci, il Real Teatro di San Carlo, la Via Toledo, i quartieri alti in costruzione verso il Vomero. Per non dimenticare che siamo in pieno regime fascista, con i suoi questurini e i gerarchi, anche se in questa Napoli (milionaria?) tutto viene triturato e fagocitato tra le viuzze dei quartieri spagnoli, brulicanti di scugnizzi e battuta dai carretti degli ambulanti. La Napoli del 1931 è una babele di sentimenti ed emozioni, sa trovare spazio per la solidarietà e per la pietà umana, rimane distante anni luce dalle metropoli di oggi.
E’ l’inverno la prima stagione del commissario Ricciardi, ma siamo a marzo, perché è un inverno che non finisce mai, tra la pioggia battente e il vento che ulula incessante scompigliandoti i capelli, ti penetra nella pelle, ti fredda la mente congelandoti i pensieri e le emozioni. Questo inverno finirà dopo che il commissario avrà scoperto chi ha ucciso il grande tenore Arnaldo Vezzi?
Caro De Giovanni hai scritto davvero un bel libro, ma quanti autori ci sono come te? Pubblicati da piccole case editoriali gestite da professionisti appassionati, diffusi grazie ai passaparola dei lettori più incalliti e affezionati.
Voglio trovare anch'io la chiave per aprire lo scrigno che custodisce queste perle nere e rare.
“Sempre e comunque, la fame e l’amore. Li trovavi in ogni delitto, una volta semplificato all’estremo, eliminati gli orpelli dell’apparenza: la fame o l’amore, o entrambi, e il dolore che generano”
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Japanese whispers
Kurosawa, Nagatomo, Kawasaki, Fujiyama, Hirohito, Yamamoto. Si, sono proprio le prime parole che mi vengono in testa quando mi dicono di pensare al Giappone, come quando mi chiedono “conosci il francese?”, “Oui, Je suis Caterine Deneuve!”.
La sintesi dell’ovvio, o la tuttologia in una scatola di fiammiferi, scatta subito alla parola Japàn, con l’accento sulla a. Il Giappone per me è un mistero, ma un mistero noioso, che non ti fa venire voglia di svelarlo. Piuttosto lo lascio dentro un cofanetto impolverato.
Per cui: “senso di nausea”, quando vedo mia figlia leggere i manga al contrario e poi impilarli ordinati negli scaffali della sua libreria, sempre più colorata e stracolma. Per me, cresciuto ad Alan Ford e Dare Devils, Goldrake e Heidi (che poi come facevano ad essere realizzati in Giappone? così diversi, eppure …), non resta che andare via rapidamente. Perplesso.
Tenta e ritenta, l’ultima volta sono uscito dalla stanza con “Battle Royal”, forse perché è un libro, o più probabilmente perché esortato dall’ennesimo: “Papà, leggilo!”
Infatti, “Battle Royale” è un best seller assoluto, è un libro cult che ha ispirato diversi manga e videgiochi. Inizia alla grande con quarantadue ragazzi confinati in un’isola che sono costretti ad uccidersi tra loro, il superstite vince. E la battaglia (o il gioco, se volete) si scatena subito, cattiva, violenta, assurda. Richiama immediatamente al “Signore delle Mosche” o a “1984”, sviluppandosi freneticamente e scandita tragicamente dal numero di studenti rimasti, riportati alla fine di ogni capitolo. Alcune morti sono efferate, altre improbabili, altre ancora casuali, tutte quante però descritte dettagliatamente.
Follia allo stato puro, direte? Forse sì. Oppure no. Perché quando ti allarghi troppo, caro Takami, poi rischi di esagerare, vanifichi la dirompenza del messaggio, rischi di non trasferire drammaticità, mantenendo la trama troppo distante dal lettore, e forse anche troppo assurda.
E’ un libro che ha ispirato diversi manga, dicevamo, e forse questo è il suo limite, dopo seicento e passa pagine, rimani un po’ così, come quando mangi sushi con molto appetito. Capolavoro o “boiata pazzesca?”
Voglio salvare qualcosa però. Tengo per me le riflessioni che mi hanno accompagnato durante la lettura. “Ma chi sono io? Shuya o Shogo? Shinji o Yutaka? “La migliore risposta la da, per me, Mitsuko a Hiroki:
“Le persone buone sono così. Ma anche tra loro ci sono quelle che possono diventare cattive. Altre invece finiscono per restare buone tutta la vita. Tu sei una di queste”
Sayonara
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- sì
- no
La donna che visse due volte
Alla riunione sono in cinque, Olindo, il capitano, Dria, ragazzone di poche parole, il Lanza, cha ha lasciato la carriera in marina dopo l’8 settembre, Calcagno, il giovane intellettuale (“è indietro con gli esami, ma ha letto quasi tutti i testi di Marx e Lenin”), e Biscia, magro e biondissimo, non smette di fumare. Aspettano Tilde, la giovane staffetta partigiana, che qualche giorno prima si è insinuata in una festa, ha fatto ballare e bere il capitano Helmut Hessen, ufficiale della Wehrmacht. Così lui le ha rivelato il nome della spia, che con le sue soffiate potrebbe fa spazzare via le brigate della Resistenza genovese, che sta agendo in piccoli gruppi, tra le bombe degli alleati e le rappresaglie fasciste. Adesso è il momento di decidere cosa fare.
Nicla, per Kurt Hessen, distinto signore tedesco, è la madre italiana, che lo ha partorito in Germania e subito dopo la guerra lo ha lasciato agli zii. E’ tornata in Italia, sposandosi con un ex partigiano, con il quale ha avuto un altro figlio. Quello che il signor Hessen sta proponendo all’investigatore privato, Bacci Pagano, è proprio un lavoretto facile facile, gli è rimasto poco tempo da vivere e vuole trovare il fratellastro, che non ha mai conosciuto, per lasciargli una cospicua eredità.
A Bacci Pagano i tremila euro di acconto (più quarantamila a saldo) sono proprio comodi, come comoda sembra l’opportunità di distogliere la mente dal pensiero di Jasmine, la donna che giace su di un letto di ospedale in bilico tra la vita e la morte, dopo essere stata torturata da una banda criminale.
Del resto si tratta di un tuffo nelle acque del passato, di insinuarsi tra le pieghe dei propri ricordi, e di quelli degli anziani partigiani ancora vivi, che lo conoscono da piccolo, perché hanno fatto la Resistenza come il nonno Baciccia e suoi genitori, che hanno lavorato tutta una vita come operai.
L'inchiesta sembra però molto più difficile del previsto, Olindo, Gino, il Lanza, gli anziani partigiani che Bacci sta incontrando, non conoscono Nicla, sembrano non ricordare.
Ma il passato è infido, ed emergerà come acido solforico bruciando la pelle della verità.
Rossoamaro, un po’ Scerbanenco, un po’ Carofiglio, è un ottimo Noir, denso e cupo, rischiarato da un colpo di scena finale, che lascia spazio a riflessioni sul nostro passato, sulla forza degli ideali, contrapposti alla assurda inutilità della guerra.
“Il fatto è che non abbiamo imparato la sola lezione che la storia impartisce ai popoli per umanizzarli, quella di riconoscere le sconfitte”
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The Darkest Side
Come il rumore del gesso sulla lavagna, il tuo cellulare che squilla al cinema, l’acqua calda che finisce mentre ti stai facendo la doccia, il momento di leggere un libro proposto da un tuo amico è arrivato.
A poco serve mantenere privata la tua passione per la lettura, se qualcuno viene a trovarti, per i libri sparsi tra la cucina e il salotto o accatastati sul comodino, oppure per quelli già letti e ben ordinati nella libreria, è praticamente inevitabile essere scoperti.
Le reazioni sono però diverse. Alcuni sfogliano distrattamente le pagine, altri dicono “bello” mentre guardano la copertina. L’amico che ti sta porgendo “Io confesso”, di Cody McFadyen vuole, invece, soltanto ringraziarti per avergli fatto leggere un libro che a lui è piaciuto tantissimo.
Sconosciuti a me, ovviamente, autore e libro, anonima la copertina simile a tante altre per quella sua prevalenza di colore bianco, interessante invece la storia.
Parte come un tipico noir americano dalle tinte forti “La cicatrice inizia in mezzo alla fronte, all’attaccatura dei capelli. Scende tra le sopracciglia, quindi piega a sinistra ad angolo retto”. E' non è proprio un bel modo di descrivere Smoky, la protagonista del thriller, detective tosto ma con un terribile passato, alle prese con un complicato e delicato caso di omicidio. Solo che questa volta il killer, che dopo poche pagine apprendiamo essere seriale, è Il Predicatore, uccide le vittime perché hanno un terribile passato, hanno dei segreti emersi soltanto in confessionale, davanti ad un prete che ti redime se hai un sincero pentimento.
Smoky ha tanti segreti. Ma li ha mai confessati? E soprattutto si è mai pentita veramente? “La mancanza di contrizione rende la confessione una menzogna”, è il delirio del Predicatore in uno dei sui video inviati in un sito Internet. Le implicazioni etiche ed intime di Smoky che da diverso tempo cerca di trovare una strada nella sua vita sono inevitabili, e così la protagonista durante l’affannosa caccia al furioso assassino, pronto ovviamente ad uccidere ancora, si troverà inaspettatamente a fare i conti con il suo presente.
McFadyen pur senza la presunzione di aprire questioni morali, o di dare giudizi lapidari al valore della religione rende un classico thriller noir più interessante del solito, dove ci ritroviamo coinvolti più nello scoprire i segreti dei protagonisti e delle vittime, che allo sviluppo della trama, che anche grazie ad un robusto finale ci lascia inevitabilmente riflettere su noi stessi.
Così come mi ritrovo a riflettere sul perché scegliamo di leggere un libro anziché un altro, passaparola? Qlibri? pubblicità? un regalo sotto l’albero di Natale? Un amico che vuole restituirti un favore?
Un libro è un dono.
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The King And I
La buca del coniglio esiste veramente, lo so. Devo solo trovarla.
E poi mi farà tornare nel 1965, l’anno in cui sono nato, respirerò l’aria dell’Italia del dopoguerra, del boom economico, della tv in bianco e nero. Poi farò tredici al totocalcio (una vincita non troppo grossa però, per non dare nell’occhio) e andrò negli Stati Uniti, l’inglese lo mastico bene.
Perché voglio essere presente alla season of love, andare a Houston e vedere la partenza di apollo 11 e poi a Woodstock ed assistere all’ultimo grande evento rock. Poi torno in Italia, per rivivere gli anni settanta e salvo Aldo Moro e, se ci riesco, evito anche l’attentato al Papa.
E me ne frego dei prolassi, dei paradossi e delle stringhe temporali, anche se devo stare attento a non innamorarmi, però!
Grazie, Stephen, non ci siamo incontrati molte volte noi due, una volta con It, inizio col botto, poi grande fatica per terminarlo, qualche film, alcuni belli, alcuni evitati accuratamente (ma come ti è venuto in mente di dirigere “Brivido”?). Forse scrivi troppi libri “al chilo” e hai uno staff pieno di ghost writer, la tua prolificità non riuscirei a spiegarla altrimenti, ma chissène: 22/11/’63 è un libro stupendo.
Adesso, ti prego di entrare nella buca del coniglio, in quella che ti fa tornare indietro di soli quindici giorni, e aspetta che rilegga questo libro, e poi di nuovo, ed ancora, fammi rivivere più volte le emozioni che ho provato nel leggerlo.
Fammi danzare ancora.
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Mille non più mille
Ampiamente anticipato da anteprime martellanti, il film americano “Uomini che odiano le donne” è appena uscito nelle sale italiane. Ieri sera, le immagini del trailer montate a ritmo di rock, che mi sono rimaste impresse più del film che ho visto subito dopo, mi hanno spinto a riflettere soprattutto sul fatto che il libro di Larsson l’ho letto più di un anno fa, e pur essendomi piaciuto tanto non l’ho mai recensito. Tornando a casa, ragionavo sui motivi principali.
A – “Uomini che odiano le donne” è un gran bel giallo, stile “delitto in una stanza chiusa”, ti prende, ti intriga, ed ha un buon finale, lo hanno detto e scritto già tanti al posto mio, non c’è altro da aggiungere
B – “Uomini che odiano le donne” piace soprattutto alle donne (molte me lo hanno consigliato), ed io essendo morfologicamente di genere opposto forse non riesco e non riuscirò mai a comprendere il vigore del messaggio
C – Lisbeth Salander è un personaggio intrigante, in poche parole fantastico, ma Kalle Blomqvist con la sua sottile ambiguità, mi ha sempre innervosito e parecchio. Secondo me, dopo un po’ lo ha capito pure Larsson
D – Ho letto subito dopo “La ragazza che giocava con il fuoco” e mi è piaciuto MOLTO meno, ne ho percepito l’”effetto saga”, in una accezione non proprio positiva. Il terzo volume giace da un po’ sul mio comodino
E – Ma chi era Stieg Larsson? Giornalista, legato da trentadue anni con una compagna che non ha mai sposato e che non ha ricevuto un solo euro in eredità. Provato pare da una terribile esperienza da ragazzo, che ne ha segnato l’esistenza e spinto a scrivere tempo dopo questo libro
Avrei altri motivi, ma non riesco. Troppi i flash nella mente, brevi ma intensi: gli hacker, le foto sbiadite, l’incidente sul ponte, il freddo e la neve, l’albero genealogico dei Vanger, il dragone tatuato, che fine ha fatto la nipote del vecchio, l’odio e la violenza cupa e cieca, il mistero e “ma come cavolo andrà a finire?”
Mi spiace David Fincher, sei un ottimo regista e sicuramente avrai messo tanta passione nel produrre questo film, ma credo che non andrò a vederlo, Stieg Larsson lo ha già realizzato per conto mio.
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Live Together, Die Alone
Solo sei capitoli, brevi, secchi, come degli schizzi su tela, per rappresentare il dramma di George e Lennie, che introducono la storia percorrendo a piedi una strada, che sembra non avere inizio, e forse neanche fine, ma che li sta portando verso la fattoria, dove sono attesi come braccianti occasionali.
George è quello basso di statura, Lennie, invece è quello grande e grosso, ha mani enormi come pale e una forza smisurata, ma ha l’intelligenza di un bambino e non può aprire bocca senza il consenso di George, ha combinato diversi guai in passato perché ha un’insana passione per gli animali pelosi.
Dopo qualche pagina, nel microcosmo di Lennie e Georgie si aggiungono il vecchio Candy, oramai addetto alle pulizie delle camerate, a seguito di un grave incidente ad una mano, Slim il cowboy triste, Crooks, lo stalliere di colore, cinico e arrabbiato perché sente ancora bruciare sulla pelle la segregazione razziale e Candy, la moglie di Curley, il figlio del padrone, che con la sua bellezza assurda e fuori posto si muove liberamente all’interno della fattoria, e per questo risulta tremendamente e volutamente provocante.
La tensione è nell'aria perchè siamo nel duro ovest poco prima della seconda guerra mondiale, dove si respira il lavoro faticoso dei campi, l’emarginazione dei neri, la solitudine, i sogni e le speranze, la disperata ricerca della felicità, così vicina eppure irraggiungibile.
“Ho veduto centinaia di tipi arrivare per la strada e per i ranches, coi fardelli sulla schiena e la stessa idea piantata sulla testa. Centinaia. Arrivano, si licenziano e se ne vanno, e tutti fino all’ultimo hanno il pezzetto di terra nella testaccia”
Quante pagine fanno un grande libro? A John Steinbeck ne bastano poco più di un centinaio per fare un capolavoro.
"A guy goes nuts if he ain't got nobody. It don't make any difference who the guy is, so long as he's with you. I tell ya, I tell ya, a guy gets too lonely, and he gets sick."
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Fino all’ultimo respiro
No, non siamo a QCinema. Se no, potrei recensire i film che più mi piacciono, come per esempio l’ultimo di Sorrentino “This Must Be The Place”, oppure un classico come “Eyes Wides Shut” di Kubrick e poi tanti altri film che sono stati tratti da bellissimi libri, alcuni riusciti, altri no.
E allora che ci faccio a Qlibri con “Il Ladro di anime”? Già, perché questo libro è un Film.
Si, come quelli claustrofobici, ricchi di azione, magari non particolarmente profondi o ricercati nei dialoghi, ma che con la loro incalzante velocità e i numerosi colpi di scena ti lasciano senza respiro fino alla fine.
Il libro, infatti, racconta le ultime nove ore e quarantanove minuti “prima della paura” di Caspar, paziente senza identità e memoria, ricoverato nella clinica Teufelsberg, dopo essere stato ritrovato casualmente sul ciglio di una strada, svenuto e con un principio di assideramento. E’ la notte del 23 dicembre, fuori nevica, l’ospedale è quasi disabitato, pochi infermieri, medici e pazienti. Caspar il giorno dopo sarà accompagnato in una centrale di Polizia per il riconoscimento, questa sera potrà riposarsi in clinica.
Caspar nasconde un segreto, ma non lo sa perché non lo ricorda. E deve essere un segreto terribile, perché il Ladro di anime, un serial killer che riduce ad uno stato ’di incoscienza le sue vittime, è riuscito ad intrufolarsi all’interno dell’ospedale bloccando tutte le uscite, perché il Ladro di anime vuole Caspar.
A Caspar non resta che mettersi a capo del gruppetto di persone rimasto all’interno della clinica per difendersi dagli attacchi dell’assassino, e tentare di risolvere i suoi indovinelli disseminati nei posti più impensati, mentre il tempo passa, la tensione sale e le scariche di adrenalina gli aprono degli squarci nella memoria facendogli affiorare ricordi lancinanti del passato.
Il Ladro di anime ci ruba il respiro fino all’ultima pagina. Ne sconsiglio la lettura nelle ore notturne.
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I ragazzi di Via Archirafi
Da siciliano doc (quale il sottoscritto è), mi ritrovo sempre a storcere un po’ il naso quando si associa, soprattutto nella letteratura e cinematografia, la Sicilia alla mafia.
Intendiamoci so benissimo che la Sicilia è riconosciuta universalmente anche per la sua storia, le sue tradizioni e la sua cultura, ma, ahimè, il prodotto mediatico siculo che si è sempre venduto meglio è ancora quello che contiene al suo interno cosa nostra e derivati (in effetti, vorrei proprio vedere un ambientazione di CSI o RIS a Palermo)
A nulla è valso scoprire che “100 colpi di spazzola prima di andare a dormire”, mirabile romanzo di emancipazione femminile (???) - a proposito prima o poi scriverò una recensione su questo libro - è stato scritto da una giovanissima scrittrice catanese (????) e che i romanzi di Camilleri riescono a scrivere storie gialle in Sicilia senza fare riferimento alla lupara neanche in una, sottolineo una, pagina dei suoi innumerevoli libri scritti finora
Ed è proprio per questo che con piacevolissima sorpresa mi sono ritrovato a leggere il primo ottimo libro di Piazzese. “Guarda, ti sentirai di vivere tra le vie di Palermo”, mi ha detto un amico che me lo ha consigliato.
Ed è proprio così, e non solo. I delitti di via Medina-Sidonia è un noir panormita azzeccatissimo che racconta le vicende di Lorenzo La Marca, professore di biologia di professione, scapolo un po’ annoiato ed appassionato di musica, vecchi film e ottimi libri di vocazione.
Caso vuole che il nostro si imbatta in un apparente suicidio di un suo vecchio amico e collega, tornato precipitosamente dagli Stati Uniti, per scatenare la sua voglia di indagare, mentre il Commissario e amico Spotorno brancola nel buio, soprattutto perché assorbito a tempo pieno da omicidi un po’ più eccellenti e ammazzatine varie (ci risiamo, eh?)
Per La Marca sarà facilissimo mettersi da subito i panni di Sherlock Holmes (o Nero Wolfe se preferite), ma, trattandosi pur sempre di un noir, durante le sue indagini oltre a scoprire movente e assassino incontrerà anche nuovi e vecchi amori, miserie umane e qualche rancore assopito.
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Le conseguenze dell’amore
“E quale sarebbe l’inizio? Io credo Edgar e tu?”
Si, per Stella tutto ha inizio da Edgar, lo psicopatico uxoricida che incontra nell’ospedale psichiatrico dove il marito è vicedirettore. Stella, invece, è la moglie bellissima di Max, insipido psichiatra dedito al lavoro e succube della madre. Si annoia, vuole risistemare la residenza all’interno del parco dell’istituto, dove lei, suo figlio Charlie, e il marito vanno a vivere.
Edgar è impiegato nei lavori di restauro nella vecchia serra in fondo all’orto, è stato un affermato artista, prima di uccidere ferocemente la moglie per un folle attacco di gelosia. E' un uomo forte, trasmette passione e vigore mentre lavora, e gli incontri con Stella nella serra prima casuali, diventano via via più frequenti, intensi.
Poi c’è il ballo. Edgar stringe forte Stella a se, la sconvolge, disorienta i suoi sensi, ne scatena la passione. “Essermi innamorata, questo mi sembrava inebriante”
In amore si è un po’ folli, no? Vogliamo lasciarci andare, cogliendone l’attimo, sublimandolo, vorremmo che non finisse mai, ci stordisce, esalta i nostri sensi, e nello stesso tempo ci fa perdere il contatto con la realtà. E’ adrenalina pura.
L’attimo, lo dice la parola stessa, non dura però in eterno, non possiamo calcolarlo, ma sappiamo che poi finisce, ci fa ritornare sulla terra, in mezzo ai “comuni mortali”. E’ così, “lo sappiamo”.
Patrick McGrath, invece, l’amore folle di Edgar e Stella ce lo descrive con gli occhi e la mente di Peter, psichiatra amico di famiglia, che lo vivrà in terza persona, raccontandocene la storia e del suo tentativo di razionalizzarla per poi curarne le inaspettate conseguenze.
“Follia”, non è solo un libro, è una turbinosa discesa nei meandri della psiche umana, scatenata da un’ossessione amorosa bruciante e irreversibile.
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Le scuse che non ti ho fatto
“Vuoi sapere la mia opinione sulla colpa? Che puoi tenertela. Nessuno vuole assumersela al posto tuo.”
Diciamolo subito, Sorry è un gran bel libro.
E non soltanto per l’ottima introspezione psicologica dei protagonisti, Kris, Wolf, Frauke e Tamara, giovani berlinesi disoccupati, che decidono di mettere un’agenzia che farà le scuse a pagamento per conto di altri, per i cattivi, che possiedono un barlume di umanità che li rende più credibili del previsto e per la trama ben congegnata, che ci tiene con il fiato sospeso fino alla fine.
Sorry è un gran bel libro perché parla di senso di colpa, del rimorso che ci tormenta sia per quello che abbiamo commesso, che per la nostra incapacità di scusarci.
E poi le scuse le facciamo solo per gli altri o per soddisfare egoisticamente il nostro desiderio di espiare una colpa e di toglierci prima possibile un grosso fardello di dosso?
Nelle quasi cinquecento pagine che raccontano un bellissimo thriller scandito dai diversi e continui cambi di prospettiva dei protagonisti, travolti da una inaspettata spirale di malefica follia, Sorry alla fine prova a dare una risposta.
Ma è la risposta che non ci aspettiamo, perché puoi acquistarle presso un’agenzia specializzata oppure puoi farle personalmente in maniera sentita e sincera, le scuse non servono a nulla se gli altri non sono pronti a riceverle.
“Non sanno chiedere scusa. Proprio questo gli offriremo noi. Scuse in abbondanza, a un prezzo maledettamente basso.”
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Sex, drugs and J&B
Duca Lamberti, medico radiato dall’albo per avere provocato l’eutanasia ad una sua paziente, e appena uscito dal carcere, viene ingaggiato da un industriale, amico di suo padre, per assistere il figlio Davide, da qualche tempo dedito all’alcool e con pericolose tendenze suicide.
Quello che inizialmente sembra un supporto medico e psicologico da dare con la dovuta discrezione che la situazione richiede, presto si trasforma in un caso di omicidio da risolvere, perché Davide è caduto in un profondo stato depressivo, poiché ritiene di avere incidentalmente causato la morte di Alberta Radelli, giovane donna con cui ha avuto una storia occasionale, poco prima di essere uccisa.
A Duca Lamberti, uomo che ha mantenuto un codice etico, nonostante i tre anni di carcere, non resta che aiutare la polizia a risolvere questo caso, spingendosi se serve oltre il limite.
Raccontato così sembra essere di fronte a un bel “hard boiled” di Hammett o Chandler (ma anche di Ellroy), invece è un noir tutto italiano, che anzichè andare a ritmo di rock, preferisce mostrare la miseria umana, con le sue debolezze ed ambiguità, con le sue sofferenze e i suoi barlumi di dignità, sopra un tenue sottofondo jazz.
Il libro è uscito nel 1966, ma la Milano rappresentata da Scerbanenco, altra grande protagonista del libro, è una città cupa e senza tempo, è quella di Diabolik delle sorelle Giussani, di Kriminal di Luciano Secchi, quella di “Banditi a Milano” di Lizzani, delle giulette sgommanti con le sirene spiegate, ma anche la Milano da bere, quella della prima e della seconda repubblica.
Una Milano silenziosa come un felino pronto a scattare, cruda, affascinante, bellissima.
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Cosa resterà degli anni '80?
Quando ritorno agli anni ’80 penso subito ai Duran Duran, a Simon LeBon, che canta impomatato e petulante “The Reflex”, alla nascita della videomusic, a Pertini, a Papa Wojtyla, a Reagan e Gorbaciov. Se mi chiedete, dico subito che gli anni ’80 sono stati, secondo me, anni felici.
Ellis agli inizi degli anni ’90 , invece, mi piazza un bel pugno nello stomaco con “American Psycho”, un libro terribile e disturbante, che descrive le gesta di Patrick Bateman, giovane “yuppie” newyorkese mago della finanza di giorno, serial killer psicopatico ed efferato di notte.
Ci vuole un bel po’ prima di imbattersi in un omicidio, ma il senso di straniamento ti accompagna sin dalle prime pagine, perché la descrizione meticolosa della vita di Bateman, con i suoi tic, la sua maniacale attenzione al cibo ricercato e salutista, ai capi firmati e minuziosamente descritti, la sua smodata passione per l’alta fedeltà, la sua spasmodica ricerca dell’estetica, del bello sempre e a qualunque costo a discapito di qualunque regola etica, non è inferiore all’escalation di efferatezza che si scatena nella seconda parte del libro, in una spirale potente e devastante.
Per non parlare dei falsi rapporti con la fidanzata Evelyn, cretina quanto basta, con Courtney, fidanzata del suo migliore amico, che poi si rivela essere la sua amante passionale, con gli amici e i colleghi, visti più come minacciosi nemici, pronti ad essere tolti di mezzo, se serve.
Il senso di impunità che accompagna Patrick Bateman durante i numerosi omicidi lascia però il dubbio che tutto sia soltanto immaginato e non realmente accaduto e questo Ellis, secondo me, vuole che sia volutamente percepito dal lettore. Per cui mi soffermerei più su “American Psycho” come metafora del disfacimento della società, in particolare newyorkese, agli albori degli anni ’90, dopo quasi un decennio di reaganismo, il boom di Wall Street e la cultura yuppie.
Non è un libro che ho più riletto e credo che non lo rileggerò mai più, ma ogni tanto mi capita di soffermarmi sul primo e ultimo capitolo, a mio avviso i più belli, e sui fantastici intermezzi che descrivono, come delle recensioni un po’ scolastiche ed ingenue, la musica che più piace al protagonista (i Genesis, Witney Houston, Huey Lewis and the News, mica Ozzy Osbourne e i Black Sabbath).
Per cui cosa resterà per me degli anni '80? Sicuramente questo libro.
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Black Tie Black Noise
Si, amo incondizionatamente il noir italiano, con le sue atmosfere, i suoi ritmi, i suoi sapori. Le storie sono spesso introspezioni dell’animo umano, si soffermano sulle sue miserie, preferendo raccontare perché siamo capaci di spingerci oltre il limite, invece che come.
Gianrico Carofiglio è uno dei maestri, attinge dai classici del genere, ci aggiunge la sua sensibilità e umanità, è attento alle cronache, ed è quasi indissolubile il suo legame con il protagonista, l’Avvocato Guerrieri (ricordiamo che l’autore è un magistrato), giunto oramai al quarto capitolo.
Non mi soffermo sugli altri tre libri, diciamo però che Guerrieri oggi ha raggiunto una certa stabilità professionale e personale, anche se alla carriera di discreto successo si contrappone una vita privata decisamente solitaria. Forse è per questo che si lascia intrigare dalla sparizione di Manuela, giovane figlia di una famiglia benestante di Bari. E’ passato oramai diverso tempo da quando è stata vista l’ultima volta alla stazione di Ostuni, occorre, in fretta ma con discrezione, raccogliere ulteriori elementi di indagine per non far chiudere il caso.
Non aggiungo ovviamente altro alla trama, posso solo dirvi che ancora una volta vi troverete a fare un viaggio in compagnia dell’Avv. Guerrieri, dove incontrerete diversi personaggi, alcuni puri, altri meschini, e rifletterete su quanto vale oggi il nostro senso etico, mentre percorrerete le vie di una Bari notturna, silenziosa, ma rassicurante.
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Sei = Seven meno 1?
Bisogna fidarsi dell’istinto ogni tanto.
Ti aiuta anche quando inizi libri che nelle prime pagine contengono frasi di questo tipo:
“La bruma scivolava come un sudario, spogliando i profili delle colline. Intorno, i profumi del bosco, mischiati e addolciti dall’umidità della notte che risaliva lungo gli abiti, strisciando fredda nella pelle”
Oppure, quando i primi quattro protagonisti si chiamano così: Goran Gavila, Mila Vasquez, Sarah Rosa, Klaus Boris (“c’erano un italiano, un francese, un tedesco e un americano …”)
Invece, no. Negli anni ho imparato a non fidarmi della prima impressione e, messo da parte l’istinto di ragno, ho continuato a leggere il libro fino alla fine.
Che dire? Carrisi non scrive per niente male, e in qualche punto la storia ti prende pure, i riferimenti agli autori americani di genere ci sono tutti, la trama è molto costruita, con l’intento di stupirti dall’inizio fino alla fine, ma caro Donato, mi domando, a che pro?
In questo libro è tutto drammaticamente esagerato, dai buoni, descritti sostanzialmente come una manica di disperati, al serial killer, che per la sua intelligenza e competenza mostrata in diverse discipline sicuramente sarà stato candidato a più premi nobel, oltre ad avere una moltitudine di lauree. Oppure è il Male in persona (e anche qui, mio caro …), per non parlare dei colpi di scena, tanti, troppi, alcuni decisamente assurdi.
Trovo più interessante invece cercare di capire come mai ha avuto tutto questo successo, forse perché c’è ancora voglia di stupore, di leggere storie che anche se sono poco credibili risultano comunque fantastiche, che ci fanno “sobbalzare dalla sedia”, ci “lasciano senza respiro”, ci “tengono incollati fino all’ultima pagina”, senza se e senza ma.
Ed è proprio a questo che sto pensando, mentre osservo nella quarta di copertina Donato Carrisi, che mi sorride con lo sguardo concentrato, come un Ken Follett senza capelli, e guardandolo mi domando: Donato sei forse tu il Suggeritore?
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Re di cuori
Giorgio Pellegrini is back! Sono passati dieci anni da quando lo abbiamo lasciato, e non se la passa poi così male. Proprietario del ristorante “La Nena”, riabilitato grazie agli articoli 178 e 179 del codice penale, marito “premuroso” come può e sa esserlo solo lui.
Oggi però “La Nena” è anche il giusto ambiente dove mantenere il circolo virtuoso di politica, affari, sesso e corruzione, ormai in scena da diverso tempo nel Nord Est, la “locomotiva dell’economia italiana”. E con una bella attività illecita di escort straniere, Giorgio Pellegrini favorisce gli intrallazzi dell’avvocato Sante Brianese (diventato nel frattempo onorevole) con i costruttori che contano, e nello stesso tempo salva il bilancio del ristorante spesso in passivo per le laute feste (mai pagate), organizzate proprio per aiutare l’amico Sante.
Ma Brianese è in difficoltà economiche e decide di fregare due bei milioncini di euro al nostro, che è pur sempre un loser, non dimentichiamolo. Pellegrini però non dimentica neanche di essere stato fino a qualche anno prima un criminale freddo e spietato, quindi per recuperare quello che gli è stato ingiustamente tolto non gli resta che far vedere di che pasta è veramente fatto.
Alla fine di un giorno noioso, è un altro bel noir. Privo questa volta della componente di disillusione e di denuncia civile presente nel primo libro, e Carlotto, pur presentandoci uno spaccato raggelante della società che conta e fa affari, ma a cui siamo ormai inevitabilmente assuefatti (i rimandi alle cronache di questi ultimi anni ci sono ovviamente tutti), questa volta non affonda, lasciando spazio alla trama, che però è, ancora una volta, incalzante e ben costruita.
Consueta nota a margine per le donne presenti nel libro: Giorgio Pellegrini è il re di cuori e Martina, Gemma, Nicoletta, Ylenia e Ombretta sono le sue regine, alcune sottomesse e spesso umiliate, altre altezzose e arroganti, e per questo accuratamente evitate.
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Millennium e uno, Millennium e due...
“Buona anche la seconda !” Quante volte avviene ? Purtroppo raramente. Qualche volta nei film (L’impero colpisce ancora, Il secondo Batman di Tim Burton, La moglie di Frankestein), quasi mai con i dischi (Led Zeppelin II ? il primo però non era un capolavoro), e con i libri ?
Pensavo proprio a questo mentre leggevo “La ragazza che giocava con il fuoco”, come farà Larsson a tenermi incollato alla sedia per oltre 700 pagine, come nel primo libro ?
E, infatti, non ci riesce. O meglio, riesce comunque ad interessarmi con la sua scrittura lineare, sempre ricca di particolari e mai noiosa (evidente la sua esperienza giornalistica), ma il romanzo questa volta regge solamente perché oramai sono troppo affezionato a Lizbeth “Wasp” Salander (ed anche a Kalle Blomkvist, via).
Larsson, in realtà, prova a mescolare un po’ le carte con i generi, e dopo il giallo estremamente intrigante del primo libro, claustrofobico e ricco di colpi di scena, qui propone un thriller poliziesco, dove al centro c’è la nostra Lizbeth, unica ricercata dalla polizia per aver probabilmente commesso un triplice efferato omicidio. E su questo tema (“la colpevole è veramente lei o no ?”) l’autore costruisce il crescendo del libro, che però questa volta risulta piuttosto lento, e il climax avviene solamente nelle ultime cinquanta pagine.
Ma come la voglia di torrone a Natale, la saga ti prende e ti frega, per cui a questo punto non mi resta che leggere il terzo e ultimo Millennium, perché devo maledettamente sapere come andrà a finire.
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- sì
- no
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