Opinione scritta da Carlo Turco
7 risultati - visualizzati 1 - 7 |
Una scrittura debordante
Vengono qui racccolti quattro racconti di Stefan Zweig, autore di di primo piano della cultura mitteleuropea e narratore assai stimato ed ammirato (anche se non da parte di alcuni suoi contemporanei, come Schnitzler e Mann). “La donna e il paesaggio” narra dell’ addensarsi di un temporale che dovrebbe rompere un’insopportabile afa estiva, e del concomitante, quasi speculare irrompere, nel protagonista, della passione dei sensi per una adolescente incontrata casualmente. “Notte fantastica”, che dà il nome alla raccolta, si focalizza sull’esperienza di un giovane che riesce a scuotersi dall’apatia in cui l’hanno precipitato gli agi di una inattesa eredità capace di soddisfarne ogni desiderio, grazie ad un evento in cui si scopre capace di un’azione indegna che avrebbe pensato del tutto incompatibile con l’idea e la stima di sé. “Il vicolo al chiaro di luna” racconta dell’amore delirante di un uomo per una prostituta dalla quale viene respinto e sbeffeggiato. “Leporella”, infine, è la storia dei cambiamenti imprevedibili e degli eventi drammatici cui conduce la stolida, esclusiva dedizione di una serva ad un giovane padrone gaudente ed irriconoscente.
I racconti, piuttosto che sulla trama, focalizzano l’attenzione sulla percezione, i sentimenti, le sensazioni , le reazioni interiori dei protagonisti, il loro nascere ed evolversi, e la loro incidenza, in relazione a situazioni ed eventi esterni. E certamente l’inventiva e le capacità analitiche dello scrittore, la sua conoscenza dell’animo umano, la competenza nella scrittura, sono chiaramente evidenziate da questa selezione. Devo però ammettere francamente di non riuscire assolutamente a condividere, e nemmeno a comprendere, il pressoché unanime entusiasmo di lettori e recensori per questi racconti, che nel risvolto di copertina vengono definiti “superbi”.
Sulle prime queste storie sono senz’altro riuscite a suscitare il mio interesse e le mie aspettative di lettore, offrendomi anche il piacere di una scrittura raffinata e suggestiva. Procedendo nella lettura, tuttavia, ho avuto la sensazione assai netta che, quasi in tutte, le promesse degli esordi finissero per essere mancate e deluse, condotte al naufragio degli eccessi di una scrittura caratterizzata da un profluvio di aggettivi, spesso sinonimici, dal moltiplicarsi di similitudini ed immagini metaforiche, dall’insistenza con cui eventi o ambientazioni sono caricati di contenuti emblematici o simbolici. Tutto ciò alla fine si risolve in una ripetitività e sovrabbondanza gratuite, talora ossessive, secondo un ritmo che finisce per apparire prevedibile. Mi è sembrato come se la voce narrante – soprattutto nel caso dell’io protagonista, nei primi due racconti, o dell’io testimone nel terzo - voglia strafare nelle descrizioni di stati d’animo, ambienti ed eventi, non so se per una propria indecisione nell’operare una necessaria selezione in seno ad un ricco repertorio di capacità espressive, oppure nel convincimento di riuscire a conquistare il lettore sommergendolo nel bello scrivere. Descrizioni, immagini ed espressioni, singolarmente prese, risulterebbero senz’altro efficaci, originali, suggestive: ma prese nel loro insieme e nel loro accumularsi, man mano che si va avanti, conducono al lievitare di una ridondanza che a tratti appare persino sfociare in una involontaria auto-parodia. Con il che la sospensione volontaria dell’incredulità si perde irrimediabilmente e, con essa, ogni senso di coinvolgimento ed empatia.
Non credo sia un caso che in effetti il mio maggiore apprezzamento - a differenza di quello che mi sembra essere nella generalità dei commenti - vada all’ultimo dei racconti, “Leporella”: l’unico svolto da un narratore esterno, in terza persona - anziché in prima persona dall’io narrante, protagonista o testimone, come nei primi tre - e forse proprio per questo meno soggetto agli eccessi in quelli avvertiti
Indicazioni utili
Un tragitto lungo un secolo
Questo romanzo (premio Strega nel 2004), decisamente particolare nell’impianto, nello stile, e nel linguaggio, si configura come la saga di due famiglie radicalmente diverse tra loro, per convinzioni, valori, estrazione ed aspirazioni sociali. Ambientata a Colle, un immaginario paese della maremma toscana, la saga si dipana tra l’ultimo scorcio del XIX secolo e i primi anni successivi alla seconda guerra mondiale. Da una parte la famiglia libertaria costituita dalla vedova Bartoli, con un figlio dal precedente matrimonio, che si unisce per la vita al “Maestro”, un anarchico proveniente dal lontano Mezzogiorno per insegnare a Colle; dall’altra la famiglia di Ulisse Bertorelli, titolare di una florida impresa di allevamento e commercio di maiali, dei suoi fratelli, Telemaco ed Ettorre, e della moglie Rosa.
La profonda diversità tra le due famiglie si manifesta sul piano delle convinzioni, dei valori, dell’estrazione e dei comportamenti sociali, e diventerà vera e propria contrapposizione, anche cruenta, cui però si sottrarranno alcuni personaggi primari della vicenda. I destini delle due famiglie vengono infatti ad intrecciarsi ad opera di Annina Bertorelli. Annina è il nome che assume di fatto la figlia di Ulisse e di Rosa: il padre vorrebbe chiamarla Elena, secondo un’ostinata predilezione familiare dei Bertorelli per nomi presi dai miti e dalla storia dell’antica Grecia; la madre, invece, vorrebbe chiamarla Maddalena, in segno di omaggio e gratitudine per la levatrice che l’ha miracolosamente salvata assistendola nel parto gemellare. Tra Elenina e Maddalenina si afferma, quasi un compromesso, il nome Annina. Annina sposa l’ultimo dei figli del “Maestro” e della vedova Bartoli: Cafiero, nato quando il padre era già deceduto, e sopravvissuto fortuitamente alla morte accidentale della madre.
La narrazione viene svolta da diversi punti di vista – tra cui prevale quello dell’Annina – e talora particolari eventi vengono rinarrati dal punto di vista di personaggi diversi. Ma è la voce del narratore esterno e onnisciente a dominare, spesso anche tramite commenti e giudizi espliciti sulle vicende o sui personaggi.
Le vicende si svolgono sullo sfondo di eventi storici dell’intero periodo, e ne vengono tutte toccate o anche determinate (la prima guerra con l’Etiopia, la repressione dei moti milanesi, la prima guerra mondiale, l’epidemia di spagnola, l’avvento del fascismo, la seconda guerra mondiale, la rotta del corpo di spedizione italiana in Russia, l’8 settembre, il conflitto tra repubblichini e antifascisti) mentre Colle viene trasformata dalle mutazioni economico-sociali connesse allo sviluppo di una manifattura meccanica e della ferrovia. Più che a delineare un vero e proprio romanzo storico, però, mi sembra che gli eventi in questione conferiscano un’ambientazione realistica alle storie dei personaggi e agiscano come accidenti esterni, incontrollabili, nel deciderne il corso.
La narrazione si affida assai largamente all’evocazione di ricordi, all’esercizio dell’immaginazione, alla proiezione di fantasie, alla contemplazione di situazioni e scenari; il ricorso al dialogo manca quasi del tutto, così come è assente, nei vari personaggi, una inclinazione all’introspezione; l’utilizzo di flash-back e di anticipazioni è piuttosto diffuso; la prosa è ricca di metafore misurate ed efficaci, caratterizzata da passaggi lirici, elegiaci ed anche epici, ma non priva di attenzione all’ironia ed al grottesco.
Un peso notevole è assegnato ad elementi e vicende dichiaratamente emblematici. Sono ben plausibili, oltre che simbolici, i nomi assegnati ai figli del Maestro e della vedova Bartoli (Ideale, Mikhail, Libertà, Cafiero). Ma nello straripare dei nomi classici e altisonanti della famiglia Bertorelli (oltre a quelli già ricordati, Paride , Ganimede, Oreste, Tebe, Anchise, Ecuba, Penelope, Didone, Enea, Cassandra, Polluce) appare più scoperta l’intenzione di esaltare, per contrasto, i caratteri materialistici della famiglia. E non può apparire fortuita l’assegnazione di nomi estranei a questa rigida tradizione proprio a quei personaggi che dirazzano dalla famiglia dei propri ascendenti, e finiscono quindi per apparire predestinati. La costruzione di una macchina del moto perpetuo indefinita assume un ruolo esclusivamente allegorico.
Tutti questi elementi contribuiscono in termini decisi ad assegnare al romanzo una connotazione fiabesca. I personaggi interpretano i ruoli assegnati dal narratore, non evolvono in termini autonomi e personali. Valga per tutti un esempio: sarebbe inutile voler comprendere ragioni, motivi e dinamiche che conducono proprio l’Annina – la figlia di Ulisse Bertorelli da lui prediletta per essersi dedicata con vigore ad affiancare l’attività paterna di allevamento e commercio dei maiali, sostituendo il figlio maschio, Sole, nel ruolo cui il padre l’avrebbe voluto – ad innamorarsi dell’esponente postumo della famiglia avversa e ad unirsi a lui.
E’ in questi termini fiabeschi che vengono affrontati i temi del romanzo: la laboriosità delle nascite, la formazione delle famiglie, la dedizione alla propria vita, la morte, la malattia, le fughe dalla realtà, la violenza domestica, la sopraffazione degli eventi collettivi, anche la diversità sessuale. E naturalmente, e soprattutto, la sofferenza, il dolore. Questa caratterizzazione fiabesca finisce però per attenuare il senso dell’empatia: attenuazione che, a mio avviso, è accentuata dalla ricorrenza insistente e, in certa misura, fuorviante, della locuzione del “dolore perfetto”.
Con questa dizione, che a prima vista si direbbe doversi riferire a un dolore assoluto, totalizzante, esclusivo – e quindi disperato e disperante – l’autore, secondo quanto da lui dichiarato in alcune occasioni, intendeva dar vita ad una antinomia in grado di rappresentare “un rumore che la vita porta con sé,… un motore che ti spinge avanti”: sensazione di una perdita, che raggiunge un culmine, e dà ai protagonisti la forza di andare avanti; un dolore che cambia e offre una possibilità di conoscenza. Con reminiscenze della gaddiana cognizione del dolore.
La citazione ricorrente – come di un ritornello, è stato osservato – si verifica nel romanzo, secondo più di un commentatore, diciannove volte. Personalmente sono riuscito a individuarne solo quindici, riferite, di volta in volta, al travaglio di parti difficili, alla perdita della verginità, al venir meno -vissuto o immaginato - dei propri cari, al conflitto insanabile tra i propri genitori, alla prospettiva di un incontro mancato, alla consapevolezza della propria solitudine, alla propria morte, all’eclisse dei ricordi d’infanzia. Circostanze estremamente differenziate, ma spesso non dissimili da quelle in relazione alle quali la frequente menzione del dolore viene associata ad altre qualificazioni (sottile, corrosivo, comune, immenso, sordo, familiare, nascosto, esploso, fisico, che impedisce il riposo, che mangia la pancia, che ci si porta appresso, che corrode). Ma ecco, direi che, salvo una parziale eccezione in cui ad esprimersi è - non a caso- l’Annina, la dizione e la concezione del “dolore perfetto” non sembra proprio poter appartenere al carattere e alla voce dei personaggi cui è attribuita; così come , altrettanto certamente, nella specificità di parecchie circostanze, non sembra possa avere alcuna valenza di agente di cambiamento, di conoscenza, di sprone. Si avverte, cioè, che si tratta dell’espressione di una visione che appartiene tutta alla voce del narratore e alla sua interpretazione- costruzione. Tutto ciò può finire per generare nel lettore una sensazione di distacco emotivo e di astrazione cognitiva. Penso che sarebbe stato più efficace, attenuandone l’impressione di artefatto, fare emergere la concezione che dà il titolo al romanzo senza costringerla in riferimenti letterali estranei a personaggi o situazioni.
Tutto ciò non inficia tuttavia il giudizio complessivo di trovarsi alle prese con un romanzo impegnativo quanto notevole, nei modi e nei contenuti, di una lettura dotata di un suo particolare fascino, che incalza il lettore a compiere, con attenzione e partecipazione crescenti, il complesso, dolente, ma anche appagante tragitto circolare che si concluderà con la morte della protagonista con la quale si apre la storia
Indicazioni utili
Coraggio e determinazione
Nella pubblicazione di questo memoir in Italia, così come nella sua riedizione in Inghilterra (l’originale è del 1968), non si manca di ricordare che ad esso si ispira la fortunata serie televisiva "Downton Abbey", cui non a caso rinvia l’immagine della magione ritratta sulla copertina del libro.
In realtà le fonti ispiratrici della serie TV – e di altre assai meno fortunate – non si limitano a quest’opera della Powell. Ciò che è più importante, tuttavia, è di non lasciarsi fuorviare dal lancio pubblicitario. In "Ai piani bassi" - il titolo originale è "Below Stairs" – non si trova certamente, né dovrebbe esservi ricercata, la ricchezza di intrecci caratteristica della serie TV e neppure, tanto meno, una narrazione pariteticamente divisa tra vicende, passioni e punti di vista degli abitanti dei “piani alti” e di quelli dei “piani bassi” (per non parlare di improbabili commistioni).
Il memoir narra specificamente la dura storia della Powell – allora Margaret Langley - che, avendo rinunciato a una borsa di studio per le condizioni di indigenza della famiglia, comincia a lavorare poco più che tredicenne: prima domestica-badante, quindi lavorante nella lavanderia e stireria d’un albergo, e infine a servizio. Un pesante apprendistato di sguattera, dal quale la protagonista riesce a saltare, audacemente, al rango di cuoca, presso famiglie della ricca borghesia di campagna dapprima e, in seguito, di famiglie abbienti, ma talvolta in declino, di Londra.
La narrazione rispecchia rigorosamente il punto di vista della protagonista, in cui non di rado l’identità individuale si espande a comprendere una coscienza di classe, e illustra con crudo realismo l’indigenza d’origine che spinge lei, come tanti altri, a cercare di sopravvivere e di emanciparsi attraverso le dure condizioni di lavoro e di vita della servitù dei redditieri. Nessuna inclinazione a sentimentalismi e autocommiserazione, ma la lucida consapevolezza delle barriere esistenti tra “noi”, poveri, e “loro”, i ricchi; del fatto che i padroni, persino nel momento in cui propendono ad atteggiamenti appena più aperti (o forse ancor più in queste circostanze), non riconoscono al personale di servizio la condizione piena di esseri umani. Non di rado, per converso, emerge l’orgoglioso riconoscimento di autenticità essenziali del proprio vissuto a fronte delle sfarzose superfluità delle classi privilegiate.
“Ai figli dei ricchi non era mai permesso giocare con bambini di basso ceto come noi. […] Non andavano mai in nessun posto senza tata. […] Noi, comunque, provavamo per loro un sorta di disprezzo. Non potevano fare le cose che facevamo noi […] Non potevano fare niente di emozionante. Non era colpa loro.”
Gli episodi di umiliazione assumono spesso connotati cocenti. Per aver osato di porgere dei giornali, che stava per posare su di un tavolo, al padrone di casa, nell’intento di fargli una cortesia, Margaret si guadagna un pesante, altezzoso rimbrotto: “Langley, non deve mai, in nessuna occasione, porgermi qualcosa a mani nude; usi sempre un vassoio d’argento. Dovrebbe avere un po’ più di giudizio. Sua madre è stata a servizio, non le ha insegnato niente?”
Indifferenti alle condizioni di lavoro dei sottoposti, i datori di lavoro erano invece estremamente solleciti per quanto ne riguardava i buoni costumi: “Del benessere fisico gli importava meno di niente: fintanto che eri in grado di lavorare, pazienza se avevi mal di schiena, mal di stomaco o mal di chissà che, ma si preoccupavano della tua moralità sotto tutti gli aspetti.”
La scrittura di Margaret Langley, nonostante i temi trattati, non è affatto pesante o cupa. Al contrario, essa è estremamente scorrevole e piacevole, certo anche per l’umorismo, non di rado salace, che ne è una costante permanente, e perché risulta avvincente la determinazione della protagonista a non farsi sommergere dalle condizioni avverse. Non siamo, però, nemmeno di fronte ai toni recriminatori e didascalici di un pamphlet politico. La Langley vede chiaramente come e quanto le condizioni di lavoro e di vita si siano evolute rispetto a quelle dominanti ai tempi della sua infanzia e giovinezza; non ha remore nel riconoscere, apprezzare, talora rimpiangere, senza alcun sentimento di invidia deteriore, la raffinatezza di oggetti, consuetudini, belle maniere consentiti dalla ricchezza; non è animata da spirito revanscista nei confronti dei ricchi, ma dalla volontà di riuscire nella sua lotta individuale sulla via dell’emancipazione, della conquista del benessere, dell’arricchimento culturale.
“Non sono particolarmente invidiosa dei ricchi, ma non li biasimo: cercano di tenersi stretti i loro soldi e lo farei anch’io, se ne avessi. L’idea che i ricchi dovrebbero condividere ciò che hanno è una corbelleria: solo chi non ha un soldo può pensarla così. A me, di condividere i miei a destra e a manca non passerebbe nemmeno per la testa.”
Una lettura, in conclusione, senz’altro consigliabile (e sicuramente istruttiva per tutti i negazionisti dei progressi conseguiti rispetto a tempi relativamente recenti dalle classi più indigenti).
Unico appunto che mi sembra si possa muovere all’autobiografia è che nelle ultime parti della narrazione fa capolino una certa ripetitività di vicende e considerazioni, mentre – per converso – le ultime tappe della scalata dell’autrice-protagonista appaiono riferite piuttosto frettolosamente, in termini privi dello spessore e della vivezza che caratterizza la parte antecedente della storia.
Indicazioni utili
... hoo hoo
L’ avvio del romanzo mi è apparso assai promettente. Il meccanismo centrale della costruzione del romanzo sta nella narrazione delle storie dei due protagonisti, Amaome e Tengo, condotta tramite capitoli dedicati all’una e all’altro, rigorosamente alternati. Inizialmente le rispettive vicende si sviluppano su piani paralleli e apparentemente del tutto estranei: ma ovviamente nel lettore si crea l’aspettativa di un progressivo intrecciarsi delle due storie. Lo stesso titolo del romanzo appare promettente: l’associazione al 1984 di Orwell è inevitabile, anche se, appunto, il riferimento deve essere a un anno diverso, ma non si sa quale: la Q sta per question mark, punto interrogativo, ed il gioco è più sottile nella lingua originale, dove la pronuncia della lettera Q è pressoché identica a quella del numero 9. Insomma, il lettore viene messo di fronte a un puzzle e, quindi, all’attesa che esso genera.
Purtroppo, però, ben presto la lettura si è fatta sempre più faticosa – e sempre più irritata - nell’attesa sfibrante quanto a lungo vana della svolta rivelatrice. Man mano che si va avanti aumenta la sensazione che i pezzi del puzzle siano state disegnati e tagliati in modo assai approssimativo, rendendone difficile l’incastro e destando il sospetto che alcuni pezzi siano mancanti. Per di più, il disegno che alla fine si ricava dalla composizione del puzzle sembra mancare di qualsiasi senso compiuto: un disegno astratto dal significato oscuro, oppure uno scarabocchio effettivamente privo di senso? La questione si riflette puntualmente nel titolo, nel senso che il richiamo al 1984 di Orwell appare estremamente labile, anche se un personaggio paragonerà al mondo immaginato da Orwell lo stile di vita di una setta, ed un altro giustificherà l’invenzione dei Little People assimilandola a quella del Grande Fratello (ma pescando dichiaratamente anche in Biancaneve e i sette nani) , ed un altro ancora definirà 1984 come un “immenso bacino da cui attingere citazioni”; davvero troppo poco per stabilire un qualsiasi parallelo.
Direi che al romanzo di Murakami sia mancato l’intervento di un editor capace di trasformarlo, così come uno dei suoi protagonisti, Tengo, riesce a trasformare la storia d’esordio da una giovanissima ragazza, La crisalide d’aria, in uno straordinario successo editoriale. Questo successo ha un ruolo fondamentale nello sviluppo di 1Q84, ma le ragioni per cui essa si riveli “una narrazione davvero unica”, nei contenuti e nella scrittura, rimane uno dei tanti misteri senza risposta salvo, per l’appunto, che per le affermazioni estasiate dei suoi estimatori.
Un editor analogo al Prof. Tengo avrebbe potuto far molto per tagliare tante digressioni sui più disparati temi che interferiscono di continuo con lo sviluppo delle storie, così come anche le prolisse ripetizioni di scene, eventi o antefatti visti o raccontati da diversi personaggi in termini piattamente uniformi; ed avrebbe potuto far molto per sanare tante incongruenze che mettono reiteratamente a dura prova la più volenterosa sospensione dell’incredulità da parte di un lettore appena attento; avrebbe potuto risolvere, o almeno evitare, molte connessioni e questioni enunciate e lasciate a metà; un editor avrebbe senz’altro potuto risparmiarci metafore e immagini assolutamente esorbitanti, non di rado inclini ad una truculenza dagli effetti grotteschi.
La realtà è che, probabilmente, diventa impossibile, quando un autore è divenuto un mostro sacro dal successo garantito da milioni di fedeli seguaci, sottoporne il lavoro ad una seria revisione editoriale. Ed acquista così un sapore di ironica premonizione il giudizio che nel romanzo viene attribuito alla penna di un anonimo recensore, con riguardo a La crisalide d’aria: “… riguardo a cosa siano la crisalide d’aria e i Little People, galleggiamo fino all’ultimo in una piscina piena di misteriosi punti interrogativi. Forse era proprio questo l’intento della scrittrice, ma certamente non saranno pochi i lettori a recepire questa mancanza di chiarezza come una forma di ‘pigrizia’ da parte dell’autrice.”
In conclusione, la lettura di 1Q84, non è riuscita a suscitarmi coinvolgimenti, empatie, sensazioni in misura benché minima avvincenti: né a livello di testa, né a livello di cuore, né a livello di pancia, quantunque il romanzo ambisca palesemente a interessare tutti e tre questi livelli.
(Una versione più estesa e particolareggiata di questo commento, per chi vi sia interessato, è reperibile sul mio blog personale: https://carturco.wordpress.com/2012/06/10/1q84-che-dirne-hoo-hoo/)
Indicazioni utili
Un classico da non perdere
Per me il fascino e la bellezza di questo romanzo stanno proprio nel fatto di avvincere il lettore nella scoperta e nella realizzazione progressiva dell’importanza e della grazia salvifica dell’essere rispetto all’apparire. Procedendo nella lettura si comprende quanto possa essere articolata e ricca la personalità di un personaggio che, fin dalla presentazione iniziale operata dal narratore, sembra essere del tutto comune e insignificante. Al di là delle delusioni, delle traversie, di immeritate avversità che segnano l’esistenza di Stoner, la sua storia dimostra invece la pienezza, la dignità e l’unicità del senso che può essere conquistato ad una vita apparentemente ordinaria dal carattere e dall’impegno del protagonista.
Proprio per questo a William Stoner si addice a pieno titolo la definizione letteraria di eroe della storia. E nonostante che essa sia quanto di più lontano possa immaginarsi dalle narrazioni che meglio si prestano agli espedienti del genere, gli effetti di suspense derivanti dallo svolgimento delle vicende e dalle riflessioni su di esse e sul personaggio – non di rado arricchite dall’intervento di un narratore esterno, onnisciente - appaiono del tutto paragonabili a quelli di un thriller.
All’efficacia della narrazione contribuisce in termini determinanti lo stile che gli è conferito dalla scrittura, dal fraseggio, dalla lingua del racconto, che si elevano nei toni e nell’espressività man mano che si arricchisce il ritratto di Stoner: così che l’amore per lo studio e la cultura dei classici, proprio del personaggio, trova piena corrispondenza nelle modalità classiche della narrazione.
Contrariamente all’apparenza e ai facili giudizi espressi o sottintesi da quanti accettano supinamente le convenzioni, Stoner non è certo un personaggio chiuso in se stesso o, al più, nella torre d’avorio del mondo accademico. Il tema centrale della ricerca e affermazione della propria identità, della realizzazione di sé, è intrecciato ad altri temi, sia di rilevanza sociale che di natura più intima e personale. Sono i temi della guerra, dell’educazione e della funzione dell’istruzione universitaria, dell’integrità professionale, della posizione della donna nella società e nel matrimonio, dell’emancipazione femminile, da una parte; e, dall’altra parte, sono i temi dei rapporti coniugali, dell’amore filiale e genitoriale, dell’amicizia, del conformismo, della passione amorosa. Si può certamente affermare che la coniugazione dell’amore nelle sue diverse accezioni costituisca una forza dominante nel definire vita e carattere di Stoner.
Con questo romanzo ci si trova di fronte ad un classico che non può mancare dalle letture degli amanti della letteratura statunitense. All’editore Fazi, perciò, si deve essere assai grati per averlo reso disponibile al pubblico italiano. Non posso tuttavia tacere qualche perplessità e riserva per quello che riguarda la versione in italiano. Come altre volte mi è capitato di osservare nelle traduzioni dall’inglese, anche in questo caso mi sembra che ci sia una forte propensione a semplificare il linguaggio, ad alterare la punteggiatura, ad attenersi a certe regole convenzionali (per esempio, evitare la ripetizione di parole - pur scientemente prescelta dall’autore - ricorrendo a sinonimi), a rendere il testo assai più esplicativo: insomma, a privilegiare la ricerca di quello che evidentemente si ritiene essere un bell’italiano rispetto alla fedeltà all’originale. Ma quando, come nel caso di Williams, le forme dello scrivere sono connesse a contenuti e modi della narrazione in termini così stretti e funzionali, si corre seriamente il rischio di produrre non poche banalizzazioni del testo, di alterarne respiro e ritmo della prosa e, talvolta, di incorrere in veri e propri travisamenti di senso, finendo, così, per rendere un cattivo servizio all’autore non meno che al lettore.
(Chi fosse interessato può trovare un mio commento più esteso su Stoner nel mio blog personale: https://carturco.wordpress.com)
Indicazioni utili
Leggerezza senza futilità
Judd Foxman, protagonista e narratore del romanzo, si trova a dover affrontare il lutto per la morte del padre in un momento della propria vita particolarmente difficile, a causa del naufragio del proprio matrimonio.
Nonostante che il defunto fosse tutt’altro che osservante e praticante, per rispettarne le ultime volontà la commemorazione si svolgerà secondo il rito ebraico della Shivà: per sette giorni consecutivi i quattro figli – una femmina e tre maschi, tra i quali Judd è in posizione mediana – assieme ai rispettivi coniugi o compagni, soggiorneranno con la madre nella casa paterna, tornandovi da diverse località degli Stati Uniti, per osservare il lutto e ricevere le visite di condoglianze di amici e conoscenti.
Tutta la narrazione si svolge attorno a questi due punti focali. Da una parte, cioè, l’inattesa abitazione coatta dei componenti di una famiglia da lungo tempo incontratisi soltanto sporadicamente e brevemente e, dall’altra, lo sfascio di un matrimonio cui Judd non intende rassegnarsi per quanto ineluttabile gli appaia. Attraverso l’alternanza tra una cronaca delle sette giornate svolta in termini diaristici e l’evocazione di ricordi e riflessioni su eventi presenti e remoti, il narratore riesce a intrecciare in termini funzionali particolarmente efficaci ed avvincenti le storie familiari di più antica data, la cocente crisi coniugale, il confronto - non di rado anche assai virulento - di caratteri, storie, e dinamiche personali, ed anche la riemersione nostalgica di rapporti sentimentali che, radicati nei tempi e negli spazi dell’adolescenza, tornano a proiettarsi nell’attualità.
Si tratta di una lettura particolarmente brillante e gradevole, sorretta dal mestiere dell’autore, che affronta estesamente i temi delle perdite, dei lutti, dei passaggi di età, senza inclinare alla drammatizzazione e senza pretese di profondità . In effetti, anche se il titolo italiano riprende una frase e un momento significativo della narrazione, il titolo originale del romanzo - This is Where I Leave You (Qui è dove ti lascio) - esprime in termini assai più appropriati il senso complessivo della storia e del modo in cui è raccontata.
La chiave fortemente ironica, aliena da sentimentalismi e spesso dichiaratamente anticonvenzionale, contrassegna una scrittura che non di rado, anche grazie alla vivacità dei dialoghi, si fa decisamente esilarante, pur senza escludere momenti di riflessione più acuta e matura. Le vicende si caratterizzano per andamenti e sviluppi che – anche quando prevedibili o addirittura attesi – riescono, almeno per qualche aspetto o particolare, a presentare elementi di sorpresa, contribuendo così a tenere sempre avvinti la curiosità e l’interesse del lettore.
In breve, dunque, il romanzo appartiene al novero delle letture caratterizzate dalla leggerezza, ma senza scadere minimamente nella futilità e, quindi, senza indurre affatto nel lettore la sensazione di aver sprecato del tempo per qualcosa da poco. Al contrario, anche questo è un libro che, alla fine, si chiude con un certo rammarico.
Indicazioni utili
Vite in bilico nella città delle Torri gemelle
Il libro si articola in un prologo e quattro “libri”, i primi tre dei quali divisi in dieci capitoli.
Il prologo e i due capitoli finali del primo e del secondo libro sono dedicati alla storia romanzata, ma basata su episodi e fatti reali, dell’impresa dell’equilibrista Philippe Petit che, il mattino del 7 agosto 1974, camminò e fece diverse evoluzioni su un cavo teso tra le cime delle Torri Gemelle del World Trade Center, ancora non del tutto terminate.
Negli altri capitoli nascono, si dipanano e si intrecciano tra di loro, alcune più strettamente, altre appena sfiorandosi, le storie dei molteplici personaggi di invenzione - più complessa ed elaborata per alcuni, più sommaria per altri - che concorrono alla composizione del romanzo, rapportandosi variamente all’evento reale del funambolo.
Il tempo in cui si colloca la gran parte del romanzo è l’inizio degli anni ’70, gli anni della guerra del Vietnam, di Nixon, di Kissinger; il libro conclusivo opera un salto temporale, collocandosi quasi ai giorni nostri, nel 2006, quando oramai le Torri sono state cancellate dallo skyline di Manhattan.
I luoghi sono quelli del Bronx degradato, del Village, di Lower Manhattan, dei quartieri alti di Park Avenue. Altrettanto differenziata è la varietà dei personaggi: i due fratelli immigrati dall’Irlanda, uno dei quali affiliato ad un ordine monastico, prostitute che si tramandano il mestiere di madre in figlia, l’immigrata latino-americana, la nera Gloria proveniente dal Missouri e dalle battaglie per i diritti civili, esponenti pienamente integrati della borghesia medio-alta, come il giudice Soderberg e la moglie Claire, il pittore di graffiti, informatici alle prese con le prime fondamenta di quella che sarebbe poi divenuta la rete Internet.
Una particolarità anch’essa assai efficace nella caratterizzazione dei personaggi – e direi non solo di quelli principali – sta in una narrazione che riesce a sorprendere mettendone in evidenza aspetti, o cambiamenti, inattesi o, comunque, fuori degli schemi che pur potevano sembrare plausibili. E anche per i personaggi più sgradevoli, almeno al primo impatto, o comunque più distanti da chi legge – per scelte di vita, temperamento, gusti, valori – ci si può sorprendere a provare comprensione ed empatia. Il pulsare e il vorticare di questo mondo si riflette efficacemente nella diversità delle voci narrative e dei punti di vista che l’autore mette in campo, spesso con variazioni repentine, quasi da equilibrista, come a riflettere, anche sotto il profilo formale, il funambolismo della traversata a mezz’aria tra le Torri.
L’incipit è estremamente efficace nel creare un’atmosfera eterea, irreale, quasi magica, cui si contrappone l’ansia della folla sottostante, polarizzandosi in forme tra loro contrapposte, di angosciosa pulsione di rimozione e di morte o, al contrario, di appassionato sostegno e speranza nella riuscita dell’impresa impossibile. Contro tale atmosfera si staglia ancor più concreta ed evidente la corporeità sofferente e sofferta delle vite vissute dai personaggi: vite sempre in bilico tra le spinte verso la ricerca di gratificazioni, il nutrimento e il coronamento di aspirazioni talvolta indistinte, o che, talora, possono virare rapidamente in direzioni inattese, da un lato, la strettezza cogente della necessità o, più semplicemente e rudemente, del caso, da un altro lato e, ancora, i vincoli di un passato non superato, della faticosa elaborazione di perdite e lutti. Vite, in certo modo, cioè, da funamboli, che non di rado si manifesta in termini letterali nei modi in cui taluni dei personaggi si aggirano lungo le strade della metropoli.
Quella della traversata aerea tra le Torri diventa così un motivo unificante della narrazione anche in senso metaforico e simbolico, oltre che sotto il profilo dell’interazione dell’evento di apertura, più o meno diretta e casuale, con le vicende dei diversi personaggi. Del resto l’Autore è assolutamente esplicito, in proposito, nella nota posta alla fine del volume. Diventa perciò davvero arduo capire e giustificare la scelta dell’editore italiano nel dare il titolo al romanzo di McCann sostituendo al verso di Tennyson – che pure è lo stesso che dà il titolo al quarto capitolo del “Libro primo”, sebbene tradotto con qualche enfasi “Lascia che il mondo giri in vortici infiniti” – un verso tratto dall’”Inno alla gioia” di Schiller.
Indicazioni utili
7 risultati - visualizzati 1 - 7 |