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Con gli occhi di un bambino
Come pregavano i bambini cagliaritani nel ’43?
“ Fa’ che non suoni la sirena
fa’ che non vengano gli aeroplani
fammi vivere sino a domani
e se qualche bomba casca giù
dolce Madonna salvami tu.”
È una preghiera semplice e straziante di bambini che nel ’43 sentirono la guerra da vicino.
A gennaio si contarono i primi sei morti a Elmas, il 17 febbraio furono bombardate Cagliari e Gonnosfanadiga: furono i primi grandi bombardamenti e la conta dei morti fu più straziante, nell’ordine del centinaio per località. Cagliari subì attrezzata di rifugi e consapevole di poter rappresentare un bersaglio, tanti infatti all’epoca sfollarono nei paesini della provincia, Gonnosfanadiga, centro agricolo senza importanza strategica, assistette, basita, alla carneficina che si abbatté sul rettifilo del paese, scambiato dai piloti americani per la pista dell’ aeroporto militare di Villacidro, un paese poco distante. In entrambi i casi morirono anche dei bambini. Il libro in particolare è dedicato ai bimbi di Gonnosfanadiga, paese nel quale io lavoro proprio a contatto con giovanissimi .Il ricordo è vivo, il paese conserva le tracce degli spezzoni, sui muri, sui cancelli, sui corpi, nella memoria.
Le bombe utilizzate, a frammentazione, colpirono con le loro schegge micidiali tutto e tutti, soprattutto donne e bambini.
Il romanzo di Lo Bianco narra la vicenda di Toni, Antonino, dodicenne di Gomas- verosimilmente Elmas- il quale con due amici, in piena guerra, contravvenendo a qualsiasi raccomandazione dei genitori, prende il treno per andare al cinema a Cagliari a vedere Gianni e Pinotto. Il convoglio subisce un bombardamento aereo e i tre amici si ritrovano a contatto con la guerra, l’orrore, la morte. Il trio presto si scioglie e Toni si perde, ferito, in una Cagliari colpita al cuore fino a quando incontra Beatrice...
La storia è fondamentalmente giocata su due piani temporali: un presente nel quale un giornalista, durante il dopoguerra, tenta lo scoop della vita strumentalizzando il caso umano del giovane Toni che vive nelle grotte cittadine, e un passato nel quale si rivivono i bombardamenti su Cagliari attraverso la vicenda di un dodicenne.
La lettura scorrevole e gradevole permette ai ragazzi di oggi di intravedere gli orrori della guerra, di partecipare emotivamente a eventi attraverso il punto di vista di un coetaneo che anche nei momenti più tragici , sperando di ritrovare casa, studia la scusa meno improbabile per giustificare la sua assenza che sicuramente sta facendo preoccupare la famiglia. Il lettore sardo, in particolare, si ritroverà nelle tipiche espressioni idiomatiche della lingua che rendono la narrazione ancor più realistica e vicina senza inficiare la comprensione di chi sardo non è. Ho trovato questa scelta linguistica coraggiosa ( pubblica Rizzoli) e insieme riuscitissima. Lodevole e meritevole tutto il lavoro di Lo Bianco che recuperando, mi è parso di capire dai ringraziamenti finali, una storia vera, ci dona l’emozione di una bella narrazione, ben contestualizzata a livello storico, mai pesante e molto adatta alla fruizione dei giovanissimi. Complimenti all’autore.
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O cavaliere! Mio cavaliere!
Sotto il velo di un ennesimo romanzo poliziesco, con l’intento palesato di aver invece elaborato una sotie, si parla qui di un cavaliere, un Signor cavaliere.
Quali sono le sue doti? Quali le sue caratteristiche?
Nell’immaginario collettivo si associa la figura del cavaliere a concetti quali fedeltà, dedizione, asservimento a ideali, formazione, appartenenza ad un gruppo ristretto, codice deontologico, coraggio...
Quali sono le sue attività? Cosa ci si aspetta da lui?
Combattere, proteggere deboli e bisognosi, trionfare...
Chi è il cavaliere di cui si parla qui e che ha da vedersela contro il peggior nemico? ( la morte...ma siamo sicuri?...)
Avendo recentemente approfondito la conoscenza dell’autore con la lettura della biografia scritta da Collura, recupero informazioni relative all’ultimo periodo di vita e di attività di Sciascia e sposo la tesi che il cavaliere sia lui.
Cosa ha fatto Sciascia della sua vita, consapevole ora della morte che si avvicina?
Ha evidenziato limiti e storture di un mondo asservito al potere, non solo e non necessariamente quello mafioso.
Sembra con questa opera voler ricordarci che :”C’è un potere visibile, nominabile, enumerabile; e ce n’è un altro, non enumerabile, senza nome, senza nomi che nuota sott’acqua. Quello visibile combatte quello sott’acqua, e specialmente nei momenti in cui si permette di affiorare gagliardamente, e cioè violentemente e sanguinosamente: ma il fatto è che ne ha bisogno...
Ci regala così un non personaggio , un “Vice”, un suo alter-ego, in dialettica con un “Capo” che indaga in modo più zelante, più cauto, più pragmatico, scevro da qualsiasi condizionamento metaletterario in cui vorrebbero cacciarlo il suo subordinato e il suo demiurgo.
Sandoz, avvocato, uomo potente, è stato ucciso, il suo omicidio è correlabile all’ambiente dei grandi che riuniti in tavolate da cerimonia, intessono i loro screzi e alimentano le loro conflittuali relazioni con la tipica ipocrisia della convivialità da banchetto. Durante la cena precedente l’omicidio, uno scambio di messaggi scritti sui segnaposto, uno in particolare: “Ti ucciderò”, attiva l’attenzione degli inquirenti che , a raggiera, fanno il solito giro dei conoscenti della vittima. Durante le indagini il Vice ( siciliano, accanito fumatore, estimatore dell’incisione di Durer che ispira il titolo del romanzo, combattuto tra l’amore della sua patria e il necessario realismo utile a non mitizzarla...serve altro a favore dell’identificazione di cui sopra?), va in solitaria come è quando si affronta la morte. Riuscirà il cavaliere a giungere all’alto baluardo della verità arroccato come il castello nell’angolo in alto a sinistra della stessa incisione?
Certo è che il cammino così abilmente disseminato dalle trappole della calunnia e dell’infamia dei messaggi scaturiti da un’indagine frettolosa,dalla superficiale convenienza, dal perverso meccanismo della comunicazione artificiosa e falsata del quarto potere, non lo faranno desistere. Tutt’al più si ritroverà, come altre volte, su un’isola deserta. Intanto combatte anche contro il dolore e contro la tentazione di utilizzare la morfina. Combatte dolore, malattia, tentazioni antidolorifiche spinto da “un sentimento di dignità cui concorreva l’essere stato per gran parte della sua vita a difendere la legge, le sue preclusioni, i suoi divieti”.
La soluzione del caso? Non saranno certo queste righe a svelarla, ammesso che soluzione ci sia. Buona lettura di un bellissimo congedo, degno di un vero cavaliere.
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Contro la bonaccia
Il sottile confine che separa la giovinezza dall’età più matura è, a mio parere, un tempo indefinito e indefinibile, spesso non ascrivibile ad un singolo momento o ad un’esperienza rintracciabile e identificabile con sicurezza. Certo è che, ad un dato momento, soggiunge in noi quella consapevolezza di aver varcato la linea d’ombra e da prima giunge a noi solo un lieve sentore che ci par bene allontanare, di seguito rimbomba nel nostro intimo la sua presenza e infine si prende il tempo per far parte di noi in preparazione di quello che sarà, se ci sarà concesso, il salto nella terza età.
In questo racconto lungo di Conrad, pubblicato nel 1917, si assiste proprio al passaggio d’età sopra descritto. Il protagonista è un primo ufficiale che improvvisamente lascia il servizio presso una nave, spinto dall’esigenza di cercare un qualcosa che lo soddisfi maggiormente. Sceso a terra gli capita l’occasione della vita: viene designato capitano di una imbarcazione il cui capitano precedente è morto in circostanze misteriose.
La narrazione passa da un iniziale stile piatto e monotono, assai funzionale allo stato d’animo del protagonista ( tremendamente annoiato di tutto e di tutti), del quale leggiamo appunto “la confessione”, ad un ritmo più vivace che va progressivamente a contrapporsi alla assoluta mancanza di eventi.
La nave salperà ma incapperà in una bonaccia tremenda che costringerà il nostro all’inettitudine più profonda, vinto da forze ingovernabili e paradossalmente statiche.
Avvertiti dalla nota dell’autore, non incappiamo nell’interpretazione trascendentale ed evitiamo anche la lettura in chiave allegorica ( prima guerra mondiale) per soffermarci a quella vena malinconica che il racconto può ispirare quando si legge che “l’esperienza significa sempre qualcosa di sgradevole, che s’oppone all’incanto e all’innocenza delle illusioni”. Ci si ritrova forse in quel disincanto che penso sfiori un po’ tutti quando il giovane si chiede:”Cosa m’aspettassi, non so. Null’altro che una particolare intensità dell’esistenza, forse, ciò che è il succo delle aspirazioni giovanili.”
L’iniziazione cui assistiamo produce un uomo consapevole e temprato nel carattere che tuttavia non accetterà, anche se “nella vita non bisogna dare troppo peso a niente, né al bene né al male”, “la vita a media andatura”.
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Il reale celato nell'assurdo
Otto brevi racconti riuniti in un unico volumetto (1894), lontani dalla coeva produzione letteraria francese ancora intrisa di tinte naturaliste.
Una scrittura delirante a parlare di vita e morte indissolubilmente intrecciate fra loro in situazioni al limite dell’assurdo e del paradosso ma tristemente paragonabili all’orrore della nostra cronaca quotidiana.
Il reale si tinge di fosco ne “La tisana”, primo racconto dove una madre si reca in confessione e il di lei figlio che la ascolta di nascosto ne scopre l’intento omicida che si riverserà su di lui. Il secondo racconto, “La religione di Monsieur Pleur ” presenta l’assurdo attraverso la tecnica del rovesciamento;un ricco signore vivere nella più bieca avidità(efficacemente rappresentata) e per questo viene dileggiato, in realtà...
O ancora “Il parlatorio delle tarantole” in cui si racconta lo strano caso, poi rivelatosi fortunato, di un uomo che incappa nella vena poetica e nella verve narrativa di Damasceno Chabrol, il quale “era stato medico” per poi dedicarsi a “un ostinato e intenso studio della poesia”. Attratto nella sua casa con un invito a cena l’uomo ci farà calare in un vero e proprio racconto noir per poter sperare di uscirne vivi. L’ironia è dietro la porta. Singolare poi la storia degli sposi smemorati de “I prigionieri di Longjumeau” dove l’immaginazione visionaria si nutre della formazione cattolica per far comparire protagonista indiscusso il Diavolo.
Si arriva poi al racconto che dà il titolo alla raccolta,il più riuscito nella sua efficace critica al mezzo telefonico in tempi non sospetti come quelli che viviamo.
Complessivamente interessanti, molto lontani dai miei gusti letterari li consiglio solo se interessati al genere o all’autore.
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Buzzati
E.A. Poe
Tesi interessante, argomentazioni strampalate
Impiegato delle ferrovie, vissuto in Francia nella seconda metà dell’Ottocento, morì dopo lunga malattia nel 1917. Di indole solitaria, cattolico con pseudonimo Caino, voce irriverente, scrisse racconti, saggi e articoli giornalistici. La sua opera è poco conosciuta, personalmente la affronto per curiosità avendo letto che fu particolarmente interessante la sua produzione per Borges.
L’impatto con questa sua prima produzione è disarmante, le prime pagine trasudano cupo pessimismo e delirante respiro cristiano. Leggendo la biografia si scopre che l’autore si isolò in convento proprio durante il periodo della sua scrittura.
L’opera, pubblicata per la prima volta nel 1891 presso un editore belga, si avvale di più contributi assemblati successivamente. Il titolo riprende quello della nota incisione di Dürer “Il cavaliere, la morte, il diavolo” (1513), ricca di implicazioni simboliche e raffigurante un cavaliere impavido, indifferente e calmo mentre sfila semplicemente ignorando la morte e il diavolo in secondo piano.
Il soggetto di Bloy è Maria Antonietta, è dunque lei la cavaliera della morte della quale si tenta di scrivere nonostante lo abbiamo preceduto in tanti; lo stesso autore attinge a piene mani soprattutto dallo scritto dei fratelli Gouncourt (1858) citandolo ampiamente. Eppure, a detta sua, benché il loro libro sembri “definitivo”, in realtà “essi non hanno detto tutto in primo luogo perché non si può dire tutto, in secondo luogo perché non erano cristiani, e in questa circostanza bisogna assolutamente esserlo”.
Condannando pesantemente l’epoca dei lumi e tutti gli esiti rivoluzionari, a sostegno della tesi l’assunto che porre fede nella ragione umana è impensabile poiché la conoscenza- per essere tale- può essere guidata dalla fede, si arriva a una lettura ‘storica’ disarmante. L’epoca rivoluzionaria ridotta a “carnevale della libertà”, Maria Antonietta presentata in modo frammentario e discontinuo a voler tentare invece una lettura della sua anima (per niente riuscita), qualche aneddoto già risaputo per arrivare ad un’altra affermazione disarmante: Maria Antonietta non era una santa e proprio per questa ragione divenne il capro espiatorio della Storia. Seguono la descrizione del processo, l’arringa finale del difensore, l’esame di tutti i capi d’accusa compreso il meno fondato: l’ingratitudine.
Narrazione dallo stile alto ed erudito, dalle argomentazioni strampalate, dalle tesi inutili, non aggiunge niente al processo di rivalutazione, nonostante gli intenti, di questa figura storica che deve molto più alla penna di Stefan Zweig. Rimane però il dubbio che quella farneticante condanna della Ragione illuminista e degli esiti della Rivoluzione Francese in quanto a libertà, uguaglianza e fratellanza, non sia del tutto strampalata...guardiamoci attorno dopo aver per sommi capi ripercorso i fatti storici del secolo breve e lo scempio attuale.
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Zweig
Nanà
La narrazione della vita di Leonardo Sciascia ad opera di Matteo Collura è un fedele ritratto del maestro di Regalpetra, è insieme affettuoso ricordo e prezioso lavoro. Scrivere di questo autore non è facile, farlo rispettandolo, ancora meno. La scelta di Collura è quella vincente, di Sciascia parla attraverso le sue opere e tutti i suoi scritti unendo ad essi testimonianze di prima mano. Il risultato è allora una godibilissima biografia che offre il ritratto dell’ uomo e con esso e in esso quello del letterato.
In Sciascia è preponderante la dimensione umana, la velleità del letterato non gli appartiene né gli appartengono i narcisismi che ne potrebbero derivare. Matteo Collura ci restituisce Nanà, presentandolo da morto per poi immergerci a ritroso, come in una sorta di redenzione, nel suo viaggio della vita.
20 novembre 1989 - 8 gennaio 1921
Scendiamo fino a Racalmuto ed entriamo nella Sicilia della polvere e delle zolfare. Percorriamo un’esistenza dall’era fascista allo sfascio totale degli anni ’80, passando per una repubblica dilaniata e depredata ma ancora madre di uomini generosi il cui destino atroce fu, in coda a tanti prima, segnato negli anni ’90.
Il lavoro è onesto, dice infatti Collura: “Sciascia non è un uomo da santificare. È un uomo, uno scrittore col quale bisognerà sempre fare i conti quando si affonderanno i passaggi più oscuri e inquietanti di trent’anni di vita italiana”.
Il libro pare vivere di un’interna dicotomia, giunto alla narrazione di Sciascia scrittore famoso, Collura decide di raccontare il resto dell’esistenza dell’autore focalizzando l’attenzione sulle “inquietudini”, sulle “tragedie”, sui “drammi esterni”. Lo scrittore diventa personaggio e mentre prosegue nella sua generosa produzione, intesse fitte relazioni che parrebbero ingabbiarlo in un entourage di sinistra ma che in realtà gli offriranno l’ennesima occasione per superare schieramenti e categorie a vantaggio di una spiccata onestà intellettuale. Salteranno grandi amicizie: Calvino e Guttuso, le perdite più sentite.
La politica attiva, la più difficile delle carte da giocare, complica il suo percorso verso la verità, lui che definiva la “complicazione” “la forma moderna della stupidità” e che vedeva in essa la “malafede”.
La storia dell’Italia, quella più triste, costella il resto della sua esistenza: Moro, dalla Chiesa, Tobagi, la nascita del pool antimafia. Tutto gli si rivolta contro: i suoi scritti, le sue presunte veggenze, i suoi candidi ammonimenti. La biografia però regala in parallelo l’universo culturale che lo circonda o meglio di cui si circonda: incontriamo Fellini, Borges, andiamo in Spagna e a Parigi – viaggiamo lenti, in treno-, difendiamo Tortora e ci chiariamo con Borsellino.
Andiamo pure incontro alla morte, a testa alta consapevoli che non ci appartiene più ma preoccupati per il futuro di chi rimane. Abbiamo nel frattempo gustato una presentazione di tutti i suoi scritti, ritrovandoci o chiarendoci le idee su quelli già letti e pregustando il piacere che deriverà dalla conoscenza dei tanti, per fortuna, che ancora ignoriamo. Saremo sicuri che l’opera di Collura ci affiancherà come una insostituibile guida al momento giusto.
Sciascia è onestà e coraggio, verità e sconvenienza, umano sentire e lucida analisi. Per questo lo ammiro, per questo lo leggo.
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Una novella Jane Eyre
Libro per ragazzi, consigliato a partire dai dodici anni, a firma Siobhan Dowd, scrittrice inglese di origini irlandesi morta prematuramente nel 2007 e vincitrice del Premio Andersen 2012. Già attivista del Pen Club International ( contro la censura degli scrittori in numerosi paesi del mondo), prima di morire a causa di un tumore ha fondato la Siobhan Dowd Trust per consentire l’accesso alla lettura bambini svantaggiati.
La stessa Holly Hogan, protagonista e voce narrante del romanzo, è una ragazzina svantaggiata: è ospite di una struttura di accoglienza ed è sotto la tutela dei servizi sociali che riescono a inserirla in affido temporaneo presso una coppia di coniugi senza figli. La narrazione prende l’avvio quando la vicenda è in fase conclusiva; Holly, in fuga dalla nuova casa e con un identità celata da una parrucca e un paio di tacchi sì da farla apparire non un’acerba quattordicenne ma una maggiorenne, si ritrova chiusa in una macchina nella stiva di un traghetto che sta salpando alla volta dell’Irlanda. La permanenza nello spazio angusto è occasione per ripercorrere tutto il suo viaggio fin lì e per sistemare i conti con un passato che le permetterà, ora smitizzato, di accettare la sua condizione.
Tutta la narrazione, fondamentalmente il racconto di una fuga, viaggia sulle note di alcuni testi musicali e in particolare sulla bellissima “Sweet Dreams (Are Made of This)” degli Eurythmics il cui contenuto è qui riconducibile solo alla tematica del “dolce sogno” e non alla pratica sadomasochistica che non scalfì nel lontano 1983 il successo di questo brano. Altro filo conduttore è la storia di Jane Eyre, alcuni episodi del libro vengono rivisitati nel vissuto di Holly e del suo doppio Crystal a confermare le doti dell’eroina cartacea, indipendente, forte e tenace fin da bambina.
Il libro, molto episodico e frammentario nella struttura narrativa vive di una scrittura semplice e attuale anche grazie alla traduzione di Sante Bandirali, gioca sulla personalità di una ragazzina dal vissuto difficile ma dipingendo efficacemente modi di essere e di pensare tipici dei giovani adolescenti. Vi si ritrovano le critiche al mondo adulto, alla sua omologazione ai canoni della realtà, alla sua ipocrisia anche se, efficacemente la ragazzina nel suo scappare verso l’Irlanda, percorrendo le strade della Gran Bretagna , avrà modo di incontrare solo figure positive.
Il romanzo dunque è adatto a tutti i ragazzi perché permette loro di proiettare qualche loro atteggiamento, di vivere un’avventura che magari la più tranquilla delle loro esistenze non può contemplare, di capire il vissuto difficile di certi compagni di classe che non si riesce ad accettare perché si è già investiti di una triste morale accusatrice e perfezionista respirata nella famiglia “bene”dalla quale provengono e infine permette al più disgraziato di essi di sperare nel proprio futuro.
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Un ottimo acquisto
Capita, a volte, che siano i libri a scegliere noi e non viceversa, o forse per uno strano gioco del destino le forze magnetiche che legano il lettore al libro si esercitano in maniera così misteriosa che il libro arriva tra le mani e si ha appena il tempo di cogliere l’attimo per farlo proprio.
Non intendo parlare solo di un normalissimo, fortuito e fortunato esercizio di acquisto ( il libro in questione giaceva, dimenticato da tutti, in una tristissima rassegna di libri mai venduti come alcune volte li trovi nell’ipermercato meno probabile) , ma evidenziare il fatto che le parole che ho letto sono le stesse che commossero Italo Svevo quando furono ritrovati i fascicoletti che formano il diario del suo caro fratello minore, Elio, morto di nefrite a ventidue anni.
Fu la moglie dello scrittore - Livia Veneziani Svevo- a raccontare in “Vita di mio marito” l’effetto prodotto da questo ritrovamento.
Ettore, alias Italo, era particolarmente affezionato a Elio e patì molto la sua prematura scomparsa. È quindi molto bello poter leggere una scrittura così privata e pensare alle emozioni che produsse nel nostro, soprattutto se poi ci si ritrova ad allargare il proprio campo visivo ed abbracciare un vivo quadro familiare e storico che fa conoscere una famiglia molto numerosa, ebrea e triestina gravitante nell’impero austro- ungarico. Ancora più interessante, al di là delle vicende private di Elio, il rapporto tra i fratelli e tra essi e il padre dipinto come autoritario, pragmatico, dall’infanzia difficile e snervato dal suo tentativo di mantenere, tra alterne fortune, la sua famiglia allargata occupandosi, lui, rimasto orfano quando era ancora piccolissimo, di fratelli, sorelle e successivamente di cognati e cognate, di generi e nuore.
Molto spesso il destino di questa famiglia è stata in balia della malattia e del lutto e fortemente segnata dalla sua identità ebraica e triestina di matrice ungherese in un contesto storico che tendeva a escludere in base a inclinazioni politiche e religiose.
Terra di confine, identità complessa, come sappiamo.
Tutto quanto ci racconta in modo episodico e frammentario Elio, nell’arco degli anni 1870-1886, rappresenta una fonte di informazioni utilissima per inquadrare gli anni della formazione dell’autore, le sue inclinazioni, i suoi sogni, le sue aspettative, le sue letture e i suoi primi tentativi letterari. Se si considera che molti degli episodi raccontati da Elio sono entrati nel corpus narrativo de “La coscienza di Zeno” e non solo, che il curatore dell’opera, che comunque era stata già pubblicata, Luca De Angelis ci accompagna con un piccolo saggio intitolato “Nel crudo colore della vita” e che ci informa ulteriormente con una bibliografia nutritissima in una ulteriore “Notizia” e che in appendice vi è pure “Il romanzo di Elio” di Italo Svevo, posso a ragione dire di aver fatto un ottimo acquisto.
Ho inoltre potuto conoscere la storia e la sensibilità del giovane Elio, non se ne può fare a meno se si è interessati poi a capire come la vita si travasi inevitabilmente nell’opera degli scrittori che apprezziamo.
Non anticipo niente, al lettore interessato leggere e capire.
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NON È, NON HA
Avete una lista di libri da leggere? Bene, fate compiere un balzo al primo posto a questo.
Non è un libro qualsiasi, non potrebbe neanche esserlo, visto l’autore.
Non è un libro in senso stretto, è invece un libro in divenire che pare compiersi all’atto della lettura, è un libro che parla di se stesso, è un libro che parla di tutto ciò che il lettore apprezza.
Non ha trama o meglio ne ha una molto complessa.
Non ha personaggi, invero ne pullula.
Non ha un finale ma è tutto proteso verso di esso. Di contro echeggia di bellissimi incipit.
Ha fatto la storia della letteratura contemplando la rete invisibile che lega autore, ispirazione, atto della scrittura, lettore, atto della lettura, passando per i meccanismi della scrittura, la postura del lettore, le sue aspettative, la sua identità. Ci siamo tutti, compreso il non lettore.
Sociologia della letteratura, semiologia, critica letteraria fino ad arrivare alla negazione dell’autore
(“Che importa il nome dell’autore in copertina?”) o alla nostalgica evanescenza scaturita da un nome vicino al titolo in copertina.
La sensazione di un gioco di prestigio: un cilindro magico dal quale scaturisce il puro processo creativo.
Mille altri elementi, sparpagliati, disseminati, frantumati...caleidoscopici.
Si può recensire la magia?
Leggete le infinite possibilità della lettura e della scrittura, il mondo che ruota loro intorno poi offrite voi la vostra risposta.
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La casa della letteratura e il teatro della vita
Romanzo corposo ma dalla lettura scorrevole, enigmatico, diluito ad arte e indimenticabile.
Il suo fascino su di me deriva da una serie di elementi: una prosa carezzevole, allusiva, ironica e fluida, un magistrale narratore che intreccia, anticipa, condivide scelte narrative con il lettore, ma soprattutto che lo guida amorevolmente ( a tratti mi ricorda il narratore di manzoniana memoria) anche se con la prerogativa del più noto James, quello di “Giro di vite”, di confonderlo, di tenerlo sul chi va là per tutta la durata della narrazione, di sorprenderlo, anche ma soprattutto di farlo partecipe della narrazione.
Il lettore con James non si può rilassare, è portato ad assumere un atteggiamento sospettoso, a ideare futuri sviluppi, a sorprendersi per le scelte dell’autore abilmente schermato da un narratore che altro non è che un finto amico.
La storia in breve è quella di una ragazza americana, Isabel Archer, presentata a noi come “la nostra eroina” che piomba nel vecchio continente su indirizzo di una vecchia zia e , con le sue belle speranze, la sua americanità, le sue aspettative, la sua freschezza disincantata attrae a sé un polo di ammiratori più o meno dichiarati. La sua originalità risiede nella sua estrema libertà che, complice una rendita inaspettata la quale ne elèva lo status sociale, si pone nelle condizioni di pilotare a suo piacimento la propria esistenza. In realtà la sua autonomia di giudizio, la sua facoltà di scelta, la sua indipendenza, la sua libertà cessano nel momento in cui irrompe nella sua vita la zia Touchett e con essa un mondo di “personaggi” che la precipitano in una vecchia Europa dove l’elemento americano è ancora un segno di rottura, di emancipazione, di diversità molto evidente.
La giovane fa le sue scelte che irrimediabilmente per lei sono tutte di natura sentimentale, rifiutando due proposte matrimoniali per andare poi a optare liberamente per un vedovo maturo e con figlia.
Quando, visto questo lungo preambolo, il lettore si aspetterebbe la piena descrizione di quella che si viene a delineare come una scelta infelice, lì James con grande astuzia e abilità inizia a disorientare, a confondere, a tramare, a gestire mirabilmente una trama che porterà con qualche rivelazione finale a completare il suo ritratto di signora. Divenuta Signora Osmond, il lettore, già defraudato dalle pagine che avrebbero dovuto raccontare fidanzamento e matrimonio, si ritrova con cambi di scena (Italia: Firenze e Roma) a entrare quasi in un’altra storia che pare fare da calco, paradossalmente, a quella di cui si cerca di intuire gli esiti.
Assistiamo come a teatro al susseguirsi delle scene e grazie a James ci ritroviamo, come vari personaggi a cui lui ha dato questo ruolo di spettatori ( uno su tutti il cugino Ralph), a vedere l’effetto che fa: “voglio vedere che farà di voi la vita. Una cosa è certa: non vi potrà guastare. Potrà sbattervi orrendamente di qua e di là, ma sfido a distruggervi”. Poi pare ripagarci iniziando a svelare i retroscena di un dramma a cui tutti hanno assistito confidando nella commedia e ritrovandosi poi a chiedersi il perché dell’epilogo.
Se dovessi usare una metafora, direi che questo libro è un bellissimo ventaglio, i cui dettagli concorrono, una volta dispiegato, a creare una visione d’insieme del suo finissimo disegno tale da essere sempre apprezzato e la cui bellezza è insita anche in quelle pieghe necessarie al suo funzionamento.
L’autore nella ben nota prefazione ha usato invece la metafora della letteratura come casa con un affaccio portatore di infiniti punti di vista in cui però da padrone la fa la coscienza e con essa la visione dell’artista.
Il gioco dei punti di vista nella lettura del romanzo è facilmente intuibile, la visione dell’artista soprattutto in riferimento alla condizione femminile in anni in cui si ponevano, proprio in Inghilterra tra suffragette e suffragiste, le basi della emancipazione della donna, rimane per me un mistero da indagare approfondendo la conoscenza di questo americano che, cittadino del mondo, assunse la nazionalità inglese dopo aver nella sua opera ben rappresentato lo scontro e l’incontro del vecchio col nuovo.
L’aver sposato la compostezza formale inglese piuttosto che aver sbandierato il modello americano avrà significato scegliere il rigore ma con essa la maschera come ha fatto la “nostra eroina”?
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Flaubert
Tolstoj
UNIVERSO POETICO
“La radice del linguaggio è irrazionale e di carattere magico” (...) la poesia vuol tornare a quell’antica magia. Senza leggi prefissate, essa opera in modo esitante e temerario, come se camminasse nell’oscurità. Misterioso giuoco di scacchi la poesia, la cui scacchiera e i cui pezzi cambiano come in un sogno e sul quale mi chinerò quando sarò morto.”
Queste parole siglano il prologo alla raccolta e, nella loro enigmatica combinazione, già preannunciano le impressioni che la lettura di questa silloge mi ha donato.
I componimenti, appartenenti alla fase del ritorno al classicismo dopo una iniziale esperienza poetica all’insegna dell’avanguardia, variano per metro e per contenuto; vi si trovano odi, sonetti, strofe isolate, canzoni, molti all’insegna dell’endecasillabo e della rima. I temi convergono tutti in metafore più o meno ricorrenti: morte sorella del sogno, vita come specchio, tempo come fiume...le quali generano interrogativi che non hanno e non possono avere risposta.
La lettura di questi testi permette di incontrare l’inferno e il paradiso rivisitati e identificati in qualcosa di sorprendente (“Dell’inferno e del cielo”), di apprezzare l’ode agli elementi naturali (“Poesia del quarto elemento”), di trovare, forse, una velata ricerca di Dio (“L’altro”) e di scorgervi l’artista come mero suo strumento. Alcune poesie annientano il lettore, soprattutto quando il rimando (“A chi mi legge”) è così esplicito e tutto il componimento è contenuto in un ossimoro che ha come incipit “Sei invulnerabile” e come epilogo “pensa che in un certo modo sei già morto”. Tutto rimanda all’eterna riflessione sulla condizione umana. “Limiti” colpisce la mia sensibilità: vi si parla dell’incertezza della vita fatta di luoghi che si sono percorsi e non ripercorreremo più, di specchi che ci attenderanno invano, di persone che senza sapere abbiamo salutato per l’ultima volta, di libri che non potremo (ma anche potremmo) leggere.
L’insonnia, il sogno, le notti di ferro che non possono essere trapassate dall’io che invano spera “le disintegrazioni e i simboli che precedono la notte”. Il risveglio come morte che si augura porti l’oblio, opportunità non concessa in vita. Persone e luoghi della Terra ( Buenos Aires, Spagna, Texas, Carlo XII, Edgar Allan Poe, Spinoza ...) in circa settanta testi e anche qualche ode al vino : ”Altri bevano nel tuo Lete il triste oblio;/Io cerco in te il fervore, la gioia condivisa”.
Possibile in questo labirinto poetico leggere anche una poetica autobiografia ( per sentimenti, conoscenze, ardori) o meglio un originale autoritratto per esempio quando in “Altra poesia dei doni” ci si imbatte in un sentito e lirico ringraziamento per i doni della vita. Il suo grazie va al “divino/Labirinto di effetti e cause” ed è proprio quell’enjambement per me la conferma che, tutto sommato, anche il nostro cercava una qualche divinità a cui credere.
Da leggere per apprezzare un Borges forse meno criptico e una poesia dolcissima nel suono. Testo in lingua spagnola a fronte, mi raccomando.
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Sull'illusione della comprensione
E qual è la pretesa di chi ora si pone in procinto di recensire questo libro?
Presentare trama e impressioni personali?
Dire qualcosa di sensato sull’arte e sulla genialità di questo autore argentino?
Contestualizzarlo rispetto al suo tempo, alla sua patria, alla sua enorme erudizione?
NIENTE DI TUTTO QUESTO.
Non posso fare niente se non consigliarne la lettura. Dovrei a questo punto convincervi con valide motivazioni che mi riporterebbero a quella pretesa di cui sopra facendomi ovviamente incorrere nel pericolo di non poter riferire dignitosamente la trama di questi racconti, di non poter farne un ritratto opportuno e di non riuscire nemmeno a contestualizzarlo.
Allora mettiamola così...
Durante un periodo di lunga e pericolosa malattia, un ingegno ebbe modo di aguzzare la sua vista sulla realtà barcollando egli, già da piccolo, nella penombra che culminò in cecità. Amava leggere e scrivere e ragionare e cercava, come tutti, immerso in una dimensione incomprensibile, l’ultima verità.
Vagò dunque col pensiero e con la fantasia e ci restituì un’opera bellissima, non ascrivibile a nessuna categoria, forse neanche a quella del fantastico. Sapeva egli quale effetto avrebbe fatto leggere di un’enciclopedia misteriosa che rimanda ad Uqbar e TlÖn, mondo immaginario che si fonde con la realtà?
Sapeva egli, e si divertiva a pensarlo, che avrebbe indotto il lettore a immediata rilettura per tentare di comprendere ciò che aveva appena intuito? Gongolava nel prefigurarsi la gioia che avrebbe inondato una qualsiasi inclinazione filosofica, matematica, logica, o perfino solo letteraria, a gioire nel capire un piccolo dettaglio che avrebbe illuminato il suo cammino verso la comprensione? Sapeva dunque che non ci sarebbe stata alcuna comprensione?
Creò un labirinto e ne offrì delle letterarie rappresentazioni la cui materia può essere ritrovata nel racconto “La biblioteca di Babele” aiutandosi ulteriormente col negare tutte le categorie utili alla comprensione umana: via lo spazio, via il tempo, via il finito e l’infinito. Il paradosso pare trionfare. La metafora gorgoglia, il dubbio trionfa. La letteratura? Il gioco al non c’è niente da capire.
Perso in labirinti metafisici, approdò come “l’uomo grigio” del racconto “Le rovine circolari” ad altre forme, a pura ciclicità, a negazione di ogni concezione, al trionfo della dimensione onirica (“nel sonno dell’uomo che lo sognava, il sognato si svegliò”).
Si svegliò? E si perse ne “Il giardino dei sentieri che si biforcano”: letteratura e realtà paiono fondersi. Già si era esercitato nella finta recensione in “L’accostamento ad Almatosin”, burlone il nostro.
Le biforcazioni della prima parte intitolata appunto “Il giardino dei sentieri che si biforcano”, dopo evidenti tratti esponenziali dei suoi racconti lo portarono agli “Artifici”, meno criptici ma altrettanto suggestivi.
Suggestionata io? No, direi: fortemente impressionata. Libro incorruttibile, infinito. Che si vuole di più? Pardon: sono ricaduta nelle categorie!
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Stevenson
Shaw
Leon Bloy
VITA: AMORE E MORTE
Romanzo breve pubblicato nel 1889, impegnò notevolmente nella stesura l’autore che voleva restituire una ”visione della vita, terribile, tenera e disperata”.
Un artista, un pittore, ama una signora dell’alta società, sposata. Gran parte del romanzo, come quasi tutti gli altri diviso in due parti, è teso a rappresentare la nascita del sentimento, la sua evoluzione in un menage fatto di incontri fugaci e situazioni mendaci. Parallela ad essa vi è la rappresentazione della tensione creativa nell’animo dell’artista e del menzognero trascorrere del tempo che muta il colore dei capelli, la levità del sentimento giovanile, intaccando perfino la visione estetica. Il sentimento del tempo corrode gli animi di entrambi gli amanti ma in modo differente. Olivier sente il peso di una solitudine scapola che esclude il calore della famiglia, Any viene schiacciata dalla visione dello specchio che restituisce la sua graziosa figura tradita dal cedimento della pelle, dal colore maturo, dall’appesantimento della figura. Il turbamento estetico tutto femminile è di un’eccezionale e viva attualità. A lei il peso di sopportare inoltre il confronto con Annette, la giovane figlia che crescendo ricorda al pittore l’immagine fugace della bellezza che solo l’arte ha saputo fissare. Tutta la seconda parte introduce elementi narrativi, sì prevedibili, ma che non anticipo, il cui compito è quello di confermare il titolo. “ Forte come l’amore è la morte” recita il Cantico dei cantici a regalare una visione alta di un sentimento mutevole i cui misteri sono rapportabili a quelli della morte in un binomio inscindibile che tanta letteratura ha nutrito.
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ANTICIPAZIONI
Musicisti, romanzieri, artisti di ogni qualità, misti a gente più comune, frequentano il salotto letterario di una giovane vedova. La morte del marito tiranno l’ha resa finalmente indipendente ( nella accezione più moderna del termine) e lei , memore di un’identità defraudata dal sopruso mascolino, si rifà. La sua identità è civettuola, ricorda altri ritratti femminili consegnati a memoria eterna dallo stesso Guy. Come non vedervi insieme la conferma di certi stereotipi già tracciati e di contro la negazione più assoluta di quel suo primo bozzetto regalatoci con la sognante Jeanne di “Una vita”, il suo esordio da romanziere?
Qui si giunge ad una riflessione più matura sulla donna; la civetteria e l’indipendenza intellettuale nonché l’antico gioco della seduzione restituiscono ora una tappa dell’emancipazione femminile che nessun manuale di storia potrà al pari tracciare. “Dopo le sognatrici appassionate e romantiche della restaurazione, dopo le donne di mondo dell’epoca imperiale, convinte della realtà del piacere, ecco apparire una nuova trasformazione di questo eterno femminino: un essere raffinato, di sensibilità indefinita, d’animo inquieto, agitato, irresoluto, che sembrava aver già provato tutte le droghe con cui si calmano e si eccitano i nervi: il cloroformio che abbatte, l’etere e la morfina che fustigano il sogno, spengono i sensi e addormentano le emozioni”. Altresì interessante è la riflessione che Maupassant fa esternare a Lamarthe (alter ego, si pensa di Paul Bourget): “Nei tempi in cui i romanzieri e i poeti le esaltavano e le facevano fantasticare (..) esse cercavano e credevano di trovare nella vita, l’equivalente di quanto il loro cuore aveva presentito nelle letture. Oggi voi vi ostinate a sopprimere tutte le apparenze poetiche e seducenti, per non mostrare che le realtà spoetizzanti. Ora, mio caro, senza amore nei libri, non c’è più amore nella vita. Voi eravate degli inventori d’ ideali, ed essi credevano alle vostre invenzioni. Ora non siete che degli evocatori di realtà precise, e come voi, esse si sono date a credere alla volgarità di tutto.”
Che celi questa tirata una polemica verso il nuovo realismo? Che sia questa tutta la disillusione di un uomo le cui cronache ci hanno lasciato un ritratto impietoso di tombeur de femmes e di misconoscitore della propria prole? Che sia infine la conferma che la latente vena misogina che attraversa gran parte dei suoi romanzi sia , in senso più ampio, una veduta d’insieme dell’intera razza umana, schiava di illusioni e di passioni destinate a durare quanto il soffio della vita? Che sia insomma un’indagine di quel muscolo cardiaco che palpita e sussulta trafitto al di là della nostra volontà?
Gli interrogativi sono tanti, i rimandi letterari pullulano, richiami e anticipazioni mi spingono ora alla rilettura della prima produzione di Federico de Roberto ( altro che verista minore!) e alla agognata lettura della Recherche proustiana.
Maupassant? Ci vediamo presto, i tuoi racconti già mi attendono.
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Proust
ALS IK KAN- COME POSSO
L’espressione in dialetto fiammingo del XV secolo, la stessa utilizzata come motto dal pittore Jan Von Eich che così firmava i suoi quadri, fatta propria poi dalla Yourcenar, può essere utilizzata come sintesi dell’intento che ha animato questo scritto. Come ha potuto, la grande scrittrice ha ricostruito la sua storia cercando di scorporare, isolandoli, gli ingredienti “dell’amalgama” di cui è fatta, lei come tutti gli esseri viventi, a rappresentare una parte di un tutto cosmico.
Un grande respiro storico dagli echi classicheggianti anima le memorie che regalano pagine bellissime dove di volta in volta si può individuare una sorta di materialismo intriso di pessimismo, una fine coscienza ecologista, un incantevole realismo degli affetti.
La lettura non procede spedita, arranca nella genealogia, si ferma basita ad ogni rimando culturale, la storia e l’arte primeggiano su tutti i campi del sapere. Ci si ritrova a meditare sul Medioevo per essere poi infilati nel cono d’imbuto del Novecento che l’ha partorita, ma lei è respiro universale, lei è mistero della vita, lei è diacronia e sincronia allo stesso tempo.
Originale forma autobiografica che non è vittima di quella limitata autoreferenzialità che le è propria, ma al contrario abbraccia, in un’immensa opera di ricostruzione storica, uomini e donne di epoche lontane che hanno concorso a formare una parte del presente, quella individuale di Marguerite, quella universale di ognuno di noi. In un gioco di chiaroscuri, alcune individualità assurgono a momentanea gloria, per cui l’autrice ce ne regala ritratti più complessi ( anche in virtù delle fonti in suo possesso), altre rimangono sullo sfondo o appaiono fugacemente: tutte hanno diritto di esistere.
Vivide le impressioni in me suscitate dalla lettura delle pagine dedicate ai bisnonni, la limpidezza delle immagini che offre hanno il dono di farmi ritrovare- in quello spaccato di vita rurale di un secolo fa- la vita dei miei nonni in un altro asse temporale e a una diversa latitudine.
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Alle latitudini estreme
Nel 1914 apparve un annuncio sul Times: “Cercasi uomini per viaggio rischioso. Paga bassa, freddo glaciale, lunghe ore di completa oscurità. Incolumità e ritorno incerti”. Arrivarono migliaia di candidature. L’organizzatore della spedizione che aveva come obiettivo la traversata a piedi del continente Antartico, estremo sud del mondo, era Ernest Shackleton, esploratore polare con alle spalle due spedizioni, una in qualità di terzo luogotenente (1901- 1903), l’altra come comandante (1907- 1909), che lo vide arretrare a 96 miglia dal Polo Sud e rientrare in patria senza raggiungere l’obiettivo per non mettere in pericolo la vita dei suoi uomini.
Nella vastità dei materiali disponibili: libri, film, rappresentazioni teatrali, foto, video, (si rimanda per approfondimenti al sito www.circolopolare.com,) un posto importante spetta al lavoro di Alfred Lansing che mi presto a recensire.
Il libro è stato pubblicato per la prima volta negli U.S.A. nel 1959 ed è diventato nell’immediato un best seller e un long seller poi. Shackleton di Franco Battiato ( dall’album Gommalacca, 1998, video reperibile su youtube) rappresenta una sinossi, musicale, sicuramente più interessante di quella che potrei scrivere io. A me allora il compito di lasciare qualche impressione personale.
Lansing ci avverte di aver scritto il resoconto di questa splendida avventura utilizzando i diari scritti dai membri dell’equipaggio, le interviste e i documenti di prima mano. Si assume quindi l’onere di eventuali imprecisioni.
La lettura, per me inizialmente stentata, è stata una gradevole sorpresa. Lo stile è scorrevole ma puntiglioso, vengono presentati i ventotto membri dell’equipaggio e io fatico, generalmente, a inquadrarne le singole personalità. La prima parte di sette totali scorre dunque lenta presentando già la situazione dell’abbandono della nave e dell’impresa per poi, a ritroso, raccontare i nove mesi nei quali, l’Endurance, sopportò insieme ai suoi uomini lo stritolamento costante dei ghiacci che l’avevano circondata. Superata questa prima empasse, si entra poi in una narrazione che assume i tratti del romanzo d’avventura e allora diventa difficile lasciare le pagine o gli uomini in balia di spezzoni di banchisa galleggianti in una lenta deriva o peggio, in seguito , in mare aperto col rischio di perdersi per sempre.
La lettura è interessante sotto diversi punti di vista. Si può conoscere una parte di quello spirito che animò la gara tra potenze in un colonialismo meno noto di quello che concorse ad alterare i delicati equilibri imperialistici sfocianti poi nello scoppio del primo conflitto mondiale. Shackleton rispondeva certo a necessità individuali cavalcando un interesse nazionalistico, ma non si deve dimenticare che gli estremi del mondo furono teatro di una gara fra nazioni come poi successe con gli spazi interplanetari. Fa riflettere il fatto che la partenza coincise con lo scoppio della prima guerra mondiale, mettendo a repentaglio la spedizione faticosamente allestita con fondi di diversa provenienza, ma che l’Inghilterra preferì non rinunciarvi. Gli altri aspetti che potrebbero interessare il lettore sono le descrizioni degli ambienti estremi e delle condizioni di vita che può sopportare il corpo umano. Bella è anche la mitizzazione che secondo me opera Lansing della figura di Shackleton; viene rappresentato come il leader assoluto del gruppo, l’irreprensibile comandante, l’autorevole uomo capace di riportare i suoi ragazzi a casa. Anche il lettore può ritrovarsi dunque ad apprezzare le qualità dell’uomo che non cede mai e vigila notte e dì comprendendo e gestendo tutte le dinamiche di gruppo onde evitare scompensi micidiali. La narrazione avvincente e mitizzata non si abbandona mai ad alcun giudizio morale assumendo quindi i tratti di una vera e propria cronaca come solo un giornale di bordo avrebbe potuto restituire. Interessante lettura di una delle ultime grandi avventure che animano anche lo spirito più pacato in questo scorcio di estate rovente capace di far sognare temperature decisamente meno calde.
Buon refrigerio.
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"...e ricomincia al solito ..."
“Pierre e Jean sarà un successo letterario, ma non commerciale. Sono certo che il libro è bello...ma è crudele, e questo non lo farà vendere”.
Con queste parole ad un’amica, Maupassant archiviava il suo romanzo consegnato al pubblico nel 1887, consapevole di un pensiero maturo e di un’estetica compiuta, come dimostra la prefazione intitolata “Il romanzo” che precede lo scritto. Egli si dibatte tra naturalismo, verismo, realismo ad enunciare che le opere vanno giudicate solo dal punto di vista del valore artistico , senza rimproverare all’artista la sua personale visione della vita la quale può essere frutto solo, ed esclusivamente, di una percezione relativa.
L’artista sarà solo colui che riuscirà a far percepire la sua personale illusione del mondo.
Il fatto che Maupassant, privatamente, fosse convinto della bellezza del suo romanzo la dice lunga sulla sicurezza artistica raggiunta e sulla consapevolezza della sua maestria.
Una famiglia della piccola borghesia vive a Le Havre, sono un padre, una madre e due figli già adulti, momentaneamente ricongiunti, a studi compiuti, ai loro genitori e in attesa di conquistare un posto onorevole l’uno come medico, l’altro come avvocato. Pierre, il maggiore e Jean il piccolo vengono rappresentati e nell’aspetto fisico e nel carattere in perfetta antinomia, subito vien da chiedersi come si svilupperà la loro relazione che si posa su basi fragili derivanti da un’infanzia nella quale il comportamento irreprensibile del minore ha fatto sempre da contraltare allo spirito più complesso del maggiore. Un’inattesa eredità a favore del più giovane spezza una tranquillità fatta di delicati equilibri, fragili compromessi, coesistenze di caratteri e personalità diverse, tutte abilmente giostrate nel breve spazio di questo siparietto dove con misurato equilibrio il nostro burattinaio fa muovere i personaggi. Punto focale è, per gran parte della narrazione, Pierre che avvelenato dalla scoperta di un terribile segreto, catalizzerà con i suoi pensieri e le sue azioni il lettore. Sarebbe però grave errore perdere di vista la rappresentazione, meno evidente ma centellinata con acutezza, dei pensieri e dei comportamenti degli altri che concorre a imbastire un microcosmo di affetti, umori, noie, gioie, risentimenti, accordi e disaccordi che solo una vera famiglia può restituire.
Mirabile rappresentazione di ogni famiglia. Si avverte certo l’ambientazione tutta ottocentesca, lo spirito dell’epoca , la rinnovata visione ipocrita della vita già restituita dalle opere precedenti, ma il succo non cambia: le passioni umane attraversano i cieli con un’attualità impressionante. I caratteri, i tipi umani, le emozioni, le gioie e i dolori vivono nella penna di un grande artista che restituisce una visione pessimista dell’esistenza ma profondamente condivisibile: “Il bacio colpisce come un fulmine, l’amore passa come un temporale e poi la vita ritorna calma come il cielo, e ricomincia al solito. Ci ricordiamo forse d’una nuvola?”
Imperdibile.
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Bel-Ami
"Madamina, il catalogo è questo..." o così fan tut
Secondo romanzo di Maupassant, si muove sul doppio binario della continuità e della frattura rispetto al primo, “Una vita”.
La continuità può essere ravvisata nella rappresentazione della società francese, riflettori puntati ora sulla rampante borghesia parigina, mentre l’elemento di frattura mi pare evidente nel registro stilistico. Se “Una vita” rappresenta con delicatezza e in equilibrio armonico, tramite i numerosi inserti descrittivi una vicenda privata nella quale il paesaggio concorre a creare l’atmosfera, “Bel- Ami”,adotta un registro a tratti volgare e scurrile consono a delineare un degrado morale e nel protagonista ma, in misura maggiore, nella società ove egli faticosamente cerca di inserirsi.
Un posto al sole ambisce il provinciale giunto dalla Normandia, poco impegno, scaltro ingegno: abile opportunista. Maupassant lo crea ad arte per inserirlo, in un continuo gioco di specchi e di rimandi, dentro uno spaccato a lui noto, per i soliti motivi autobiografici che fustellano la sua opera, fatto di eccessi sessuali, tentativi letterari, carriera giornalistica, frequentazioni altolocate. Leggere la biografia dell’autore permette di individuare gli spunti autobiografici e forse anche di comprendere la frase emulatrice di quella flaubertiana che lo portò, giocando (?), a dire: “Bel- Ami sono io”.
Ma chi è Bel-Ami?
È George, l’arrivista perfetto, la cocotte declinata al maschile, la prova provata dell’esistenza della mobilità sociale. Privo di talento e di formazione, si inserisce nel mondo agognato che dai boulevard osserva, schivato, denigrandone, ipocrisia e falsità. L’invidia lo punge, è il motore che gli permette la scalata sociale. Noi lettori attraversiamo con lui sobborghi, bettole, lussuosi saloni, redazioni giornalistiche manipolatrici delle informazioni e degli interessi privati, conosciamo donne, donnette e donnacce e macchiette umane. Un solo personaggio assurge ad un ruolo diverso, Maupassant lo usa per trasferire al suo protagonista una lettura della vita che è la riprova di quanto comune sia, in un modo o nell’altro, errare. Sono le parole del poeta Norbert de Varenne le pagine più belle del romanzo, le declama quasi di notte all’errante Bel – Ami per confermare a se stesso l’esistenza dell’errore nella breve parabola esistenziale di ciascun uomo. Lo affranca da sentirne il peso perché quando questo si farà sentire il tempo sarà già trascorso. Lo invita a circondarsi di affetti per non temere la solitudine. È una pagina sola, non può nulla contro la forza del protagonista. È una macina, stritola tutto, mette a nudo il marcio, vi affonda le fauci, se ne alimenta divenendone finalmente parte.
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Fantasticherie
Nato dall’unione di un padre appartenente alla piccola nobiltà e di una madre borghese, discepolo di Flaubert che lo educò allo stile ma non riuscì a conoscere i suoi successi letterari se non l’esordio di “Palla di sego”, Maupassant fu un autore prolifico, contestato e acclamato. Scomparso poco più che quarantenne dopo una vita segnata da eccessi e malattia, concentrò la produzione dei suoi romanzi nell’arco di un decennio esaurendo la sua forza vitale.
Ha lasciato ampia traccia del suo pensiero estetico chiarendo la sua non appartenenza ad alcuna categoria :
«Non credo al naturalismo più che al realismo o al romanticismo [...] Cerchiamo di essere originali,
qualsiasi siano le caratteristiche del nostro talento [...] La reale potenza letteraria, il talento, il genio
sono nell'interpretazione. La cosa passa attraverso lo scrittore.» (Maupassant a Paul Alexis, 17 gennaio 1877)
Il suo primo romanzo fa proprio intravedere il talento rappresentando semplicemente un’esistenza che non fa altro che portarci all’ ”umile verità” del sottotitolo: “ La vita, sapete, non è mai così bella o così brutta come la si crede”. Questa lapidaria frase viene pronunciata da uno spirito semplice e pragmatico, Rosalie, sorella di balia nonché serva personale e infine redentrice della protagonista. Ha il potere di siglare una storia che si pensava giunta ad un triste e scontato epilogo e che riapre, invece, le prospettive del reale. L’autore ha infatti questo intento, illudere il lettore con un’apparenza di realtà che riesca oltremodo a superare la stessa: ecco perché Jeanne è così vicina anche al lettore contemporaneo. Il romanzo ne rappresenta la vita.
Normandia – ‘800 francese – tramonto lento dei ceti sociali, declino di una nobiltà che trascina le sue esistenze vivendo di rendita. Jeanne, come Guy, è figlia di questa decadente nobiltà che educa le fanciulle al matrimonio di casata e non le attrezza adeguatamente alla vita. Viene educata in un collegio religioso benché il padre abbia abbracciato gli ideali laici. Innamorata dell’amore sposa l’unico uomo che le è dato conoscere e si inabissa in una vita matrimoniale ipocrita e ingiusta. Immatura dal punto di vista affettivo, trascorre la sua esistenza tra gioie e dolori, molto più numerosi, lentamente abbandonando le sue illusioni e subendo gli eventi.
La società nella quale la sua triste parabola esistenziale ha vita è un coacervo di ipocrisia e perbenismo di facciata, la critica è evidente e mette a nudo la falsa morale che nutre le stesse persone che temeranno il divulgarsi di un’amoralità così forte attraverso la lettura di queste opere senza vedere la loro immagine riflessa in esse.
Perché leggere oggi di un sì infelice destino? Vedo in Jeanne le speranze e le illusioni che hanno animato e animano tutte noi donne , vedo in lei tanti identici tristi destini, il fallimento di tante contemporanee esistenze femminili. Quante giovani oggi si affacciano alla vita ricche di speranze e quante sono educate ai sentimenti, quanto sono strutturate per mettere in armonia le illusioni giovanili con una reale e appagante felicità? Quante subiranno infine, nella loro opulenza contemporanea che si nutre ancora di tristi miti nobiliari, la loro breve esistenza?
Mi auguro poche anzi pochissime perché altrimenti farei come Rosalie che intima la sua padroncina a guardare oltre se stessa e a reputare infelice il destino non suo ma di chi vive diversi scenari caratterizzati da povertà, guerra, miseria.
Da leggere sicuramente anche se non si è donna perché il ritratto dell’uomo, declinato in varie sfumature, è altrettanto interessante e ricco di spunti di riflessione per i maschi del nuovo millennio.
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Lettura, scrittura, vita
“La bellezza non è solo un tratto somatico, eleganza, luce, fascino. È la capacità di far vedere ciò che si è. Assomigliare a ciò che si immagina, mostrare ciò che si è veramente”.
L’inferno è semplicemente il suo contrario: è la negazione di bellezza e di libertà.
Gli scritti, apparentemente datati e lontani nel tempo, tutti già pubblicati sui quotidiani con i quali l’autore collabora o apparsi in occasione di eventi pubblici, ad eccezione di due, hanno il loro pregio proprio nella continuità raggiunta con la pubblicazione in volume. Offrono infatti una galleria di fatti, persone, personaggi e insieme la storia, la formazione, il pensiero e la forza di Saviano. La forza della lettura, la forza del coraggio, la forza della scelta e con essi il rispecchiamento in destini umani narrati e commentati con l’intento di ribadire la forza della parola scritta. È noto a tutti che proprio la libertà di parola lo ha condannato ad una vita blindata dopo essere stato minacciato di morte per ciò che aveva espresso in “Gomorra”.
L’opera e la vita di Camus lo hanno influenzato notevolmente e la stessa citazione del suo autore preferito: “Esiste la bellezza ed esiste l’inferno, vorrei - per quanto posso- rimanere fedele a entrambi”, diventa per lui un assunto da ribadire a se stesso nei momenti di umana debolezza.
Cinque sezioni intitolate SUD, UOMINI, BUSINESS, GUERRA, NORD aiutano a capire le grandi tematiche di cui trattano i suoi pezzi, tutti molto interessanti, e così si ripercorre parte della storia nazionale quando ad esempio si ricorda la signora Felicia, mamma di Peppino Impastato, o si accosta il giovane Messi, dopo averne narrato la difficile infanzia contrassegnata dalla malattia, al prode Maradona o più semplicemente ci si chiede come mai la scuola abbia bocciato i suoi acclamati ragazzini di Scampia divenuti attori nel film “Gomorra”. Si ricorda il terremoto dell’Abruzzo, Mirian Makeba, Anna Stepanova Politkovskaja, si leggono le sue opinioni sulla guerra rappresentata da opere letterarie e cinematografiche, si legge di Singer, Camus, Uwe Johnson, Gustaw Herling.
La lettura è gradevole e offre lo spunto per ulteriori approfondimenti letterari e cinematografici, lasciando un messaggio sulla forza della scrittura, della letteratura e dell’arte che ancora una volta rispecchia il pensiero del grande Camus: “ Personalmente non posso vivere senza la mia arte. Ma non l’ho mai posta al di sopra di ogni cosa. Mi è necessaria, al contrario, perché non si distacca da nessuno dei miei simili e mi permette di vivere, come quello che sono, a livello di tutti. (...) E spesso colui che ha scelto il suo destino di artista perché si sentiva diverso apprenderà presto che non nutrirà né la sua arte né la sua differenza, se non ammettendo la sua somiglianza con tutti. Nessuno di noi è grande abbastanza per una simile vocazione. Ma in tutte le circostanze della propria vita, che sia oscuro o provvisoriamente celebre, legato dai ferri della tirannia o temporaneamente libero di esprimersi, lo scrittore può ritrovare il sentimento di una comunità vivente che lo giustificherà, alla sola condizione che accetti, come può, i due incarichi che fanno la grandezza del suo mestiere: il servizio della verità e quello della libertà.”
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https://www.missingchildren.ch
Numerosi potrebbero essere i motivi che spingono alla lettura di questo libro. I fatti, per la risonanza mediatica che hanno avuto e per l’assurdità in essi racchiusa, sono noti a tutti.
Irina, madre di due gemelle di sei anni, perde nel giro di pochi giorni figlie e marito. Le bambine sono sparite, il loro papà pone fine alla sua vita in Italia, facendosi travolgere da un treno dopo aver meticolosamente parcheggiato l’ auto e ancor prima distrutto qualsiasi traccia del suo operato.
Quando si viene a conoscenza di queste tragedie, la compartecipazione emotiva è immediata e trasversale, calata l’onda di piena rimangono però i morti viventi, coloro che la tragedia l’hanno vissuta ma non come l’ennesimo spettacolo di cui, in questa triste realtà, si offre la tragica trasposizione, dilatata, diluita, amplificata, confusa, distorta a uso e consumo.
Si avverte nell’animo umano un desiderio di sapere, di giustificare, di incolpare, di assurgersi tutti, indiscriminatamente, a ruolo di giudici. Mi capita e mi costa fatica ammetterlo. Si cerca forse, nell’intimo, di appianare le proprie paure, di scandagliare a fondo anime e psicologie per evitare di farlo con le nostre o con quelle dei propri cari e così, repentinamente, si diventa morale, giudice, etica e regola.
Leggere questo piccolo libro potrebbe allora portare ad una riflessione profonda, al superamento di una certa malcelata morbosità, a scoprire un messaggio positivo ed equilibrato. Irina ha bisogno, a distanza di quattro anni dai tragici fatti, di scrivere e quindi di comunicare e lo fa cercando e usando come intermediaria la De Gregorio che, con grande delicatezza, sparisce quasi in queste pagine e si presta mirabilmente a restituirci l’immagine di una donna che si ama e che ama, a dispetto di tutto.
Brevi capitoletti alternano le voci femminili in questione; Concita offre una sorta di cronistoria dell’incontro fra le due e del loro lavoro di conoscenza reciproca, Irina scrive missive e rivolgendosi all’archivista ottusa, alla maestra latitante, alla nonna, al padre, al giudice o allo stesso marito all’epoca dei fatti, offre la storia di se stessa, della sua famiglia d’origine, della sua famiglia, delle indagini e del suo percorso successivo. Si rapporta ad una dimensione temporale che ormai non la rende più schiava delle quotidiane categorie temporali di ieri, oggi e domani, vive il presente e riscopre se stessa e l’amore.
Riporta una serie di coincidenze nella propria storia che la fortificano nella convinzione di essere parte di un tutto che tende a presentarsi e ripresentarsi per annullarsi e risolversi per poi riproporsi.
La lettura è consigliabile se si riesce a superare l’atteggiamento sopra descritto e se si ha voglia di avere una soluzione del caso che la giustizia umana non ha ancora prodotto ma che permette, rara se non unica volta, in un arco di tempo relativamente breve- quattro anni- ,di sapere come riesce una mamma a vivere e a non sopravvivere.
Brava Irina!
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Trasformismo e ironia
Gli zii di Sicilia apparve nel ’58 quando Sciascia aveva già pubblicato “Le parrocchie di Regalpetra” (1956) e la raccolta di poesie “La Sicilia e il suo cuore”. Nel ‘50 aveva scritto anche “Favole della dittatura”. La raccolta di racconti di cui si parla si inserisce dunque nella incipiente produzione che sarà caratterizzata dall’impegno teso a far conoscere la realtà siciliana. I quattro lunghi racconti hanno poi il valore aggiunto dell’ambientazione storica:” La zia d’America” è ambientato in epoca fascista,” La morte di Stalin “dal 1949 al ’56, “Il quarantotto” tra il 1848 e il 1860, “L’antimonio “durante la guerra civile spagnola.
Ma chi sono gli zii di Sicilia?
“...chiamavano zii tutti gli uomini che portavano giustizia o vendetta, l’eroe e il capomafia, l’idea di giustizia sempre splende nella decantazione di vendicativi pensieri”.
Zio è quindi Stalin “ il protettore dei poveri e dei deboli”, come lo era già stato Garibaldi, e neanche il rapporto Kruscev lo può smentire, può essere piuttosto che a Stalin si fosse “sfaldato il cervello a pensare sempre il bene degli uomini: ad un certo punto diventò strambo”...giusto per far capire quale sottile ironia invada le pagine di questi racconti.
Zio è la macchietta fascista del primo racconto che con grande trasformismo abbraccia il sogno americano portato e sbandierato da un’altra bellissima macchietta, la zia d’America appunto, che torna al suo paese natio per cantare la giobba ( il lavoro), le farma ( fattorie), l’aiuscule ( la scuola superiore), il carro ( l’automobile) e l’aisebocchese ( icebox!!).
Ma il re del trasformismo è il barone Garziano che abbraccia il giglio e il fascio littorio con verosimile pragmaticità dove unica cosa certa è la Trinacria, terra nella quale la smania di potere uccide ogni afflato democratico, compreso quello che si incarna nel sogno di diventare la 49° stella degli U.S.A.
L’ironia trasuda però preoccupazione per una Sicilia i cui problemi emergono trasversalmente in tutti i momenti storici rappresentati e la cui più grande tristezza può essere rappresentata anche da un giovane che rifugge le zolfatare e il temuto grisou preferendo fingersi fascista per combattere la triste guerra civile spagnola, unica fonte di reddito.
Come sempre Sciascia oltre la sua gradevolezza di lettura è capace di spingere il lettore ad una riflessione di ampio respiro che pare ricordare : l’uomo siciliano nasce buono, è il contesto sociale che lo trasforma.
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Io non partecipo
Essere uomini, come voleva Platone, significa in qualche modo essere filosofi.
...anticipazioni sulla trama....
Chi di noi vivendo non si interroga sulla complessità della vita, sul suo valore, chi mai non si è girato al passato per riavvolgere la pellicola o, speranzoso, ha volto lo sguardo al futuro?
La lettura di questo testo ci ricorda l’appartenenza comune ad una dimensione vitale che, al di là di ogni apparenza, è caratterizzata dalla complessità, dalla fuggevolezza, dall’inconsistenza palpabile ma facilmente celabile. Nella società attuale si rincorrono i miti più impensabili: annullamento del dolore in ogni sua forma e manifestazione, ricerca della felicità strettamente correlata al benessere materiale, presunzione scientifica di varcare la soglia del mistero e di farla propria. Sono molteplici le manifestazioni che tutti abbiamo sotto gli occhi di una pulsione tutta umana di voler cogliere l’inafferrabile.
Meursault no, egli è l’antitesi di tutto ciò: è apatia, è abbandono, è negazione. Vive da impiegato un’esistenza che pare non scalfirlo; la morte della madre non lo fa piangere, le lusinghe dell’amore non lo fanno gioire. L’atto gratuito che lo manda al patibolo non modifica di molto il suo sentire. Meursault in realtà vive di percezioni sensoriali: patisce il caldo e commette l’omicidio in un clima di rarefazione sensoriale. Percepisce con tutto il suo apparato sensoriale lo scorrere degli eventi e se ne fa influenzare. Le orecchie sentono nel ricordo la mamma parlare, gli occhi colgono fotogrammi di raro squallore ( emblematico il cane malato) e di piena bellezza ( il cielo e le sue sfumature), la pelle sente il calore della donna e il refrigerio del mare con la sua pungente salinità: tutti i sensi sono coinvolti e stravolti al tempo stesso. Acuiscono il fastidio della vita e non ne modificano in positivo l’essenza.
Non stupisce che rimangano così attivi in carcere e che permettano di ricordare percezioni già incamerate e ora faticosamente ricercate. Il cielo è inquadrabile solo dal perimetro ridotto di un pertugio sul soffitto ma non ha perso la sua capacità di comunicare. Vira al rosa per annunciare la sera che qui si fa metafora della raggiunta consapevolezza dell’uomo e del suo breve e sempre limitato segmento di vita. Non stupisce constatare che la sua lunghezza non è importante, che la stessa sua fine sia solo un dettaglio e che in fondo Meursault con la sua mancata partecipazione emotiva agli eventi di cui è il protagonista incarni, volenti o nolenti, l’intima solitudine umana e la sua condizione di estraneità al tutto e a se stessi.
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Unico cibo: l'amore
“È bello fare banchetti nella fantasia (...) Hanno un sapore migliore di quelli reali.”
Realtà e fantasia sono i protagonisti di questo scritto. Quanto la dimensione del reale è ostica, tanto la visione onirica, demistificatrice e fantastica ne aiuta l’accettazione.
Jan, un pover’ uomo già avanti negli anni, sposa Katrinna; è alle dipendenze di ricchi signori e vive di un duro lavoro in una terra sospesa anch’essa tra realismo e fantastico: le valli delle Askedalar nel Varmeland, regione centrale della Svezia trapuntata da laghi, circondata dai boschi, sospesa tra cielo e terra ma soprattutto isolata e con una forte tradizione orale che anima di fantastico ogni paura.
Il romanzo è la sua storia: nasce come uomo il giorno che il caso inaspettatamente le regala una figlia che subito ha il potere di elevarlo alla condizione di uomo buono. La sua piccola è eccezionale e tutta la prima parte del romanzo è tesa a descriverne il suo essere e il suo ascendente nei confronti del padre. Il binomio padre- figlia aiuta a percepire la potenza dell’amore: nobile sentimento che permette di superare le difficoltà della vita, di perdonare le cattiverie altrui, di soprassedere ai torti perché intimamente in pace con se stessi e con il mondo. La piccola Klara Gulla è armonia e pace per l’attempata coppia genitoriale e vive pian piano non tanto di una sua autonoma rappresentazione quanto, e questo il lettore lo scopre progressivamente, di tutte le proiezioni che l’amore dei genitori sa e può produrre. La sua volontaria lontananza dai luoghi natii e il suo aspettato quanto mai irrealizzato rientro, concorrono a dare una svolta alla precedente parte. La seconda vede dunque scivolare il nostro buon garzone in una dimensione fantastica, onirica, magica e meravigliosa che solo la pazzia può condensare: Jan diventa imperatore per stare al passo con il frutto della sua fantasia. Trasfigura se stesso per oggettivare l’irreale e il fantastico che danno l’unica spiegazione possibile a ciò che gli sta accadendo. Della figlia si dice tutto il male del mondo, il padre deve compiere il necessario adattamento: è divenuta imperatrice e presto tornerà.
Il romanzo vive di un implicito respiro fiabesco, lo stile è dunque avvolgente e delicato mentre rappresenta un territorio lontano e selvaggio, l’asservimento del debole, l’ordine delle cose governato dalla natura o da pochi ricchi potenti, delicati equilibri che si rompono con emancipazioni giunte da luoghi lontani. La dimensione religiosa è pervasiva e contribuisce a comprendere il tutto, dai troll all’aldilà.
Scritto della maturità della maestrina del Varmeland già insignita del Nobel, rappresentazione di uno spaccato di vita di fine ottocento, richiama vissuti personali anch’essi accarezzati e trasfigurati e ha il potere di far ripensare ad uno dei legami più forti nel corso della nostra esistenza, nel bene e nel male, quello con i nostri genitori. Profondamente scossa e commossa dalle ultime pagine ne consiglio caldamente la lettura: non potrà che farvi bene.
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Pirandello
Rigoni Stern
Nuovi brutti tempi
Un curioso movimento delle parti apre il romanzo : la parte quarta di cinque funge da incipit e contiene in sé l’epilogo della vicenda che si andrà a leggere. Il finale vero e proprio , quinta parte “INFINE”, suggerisce sviluppi futuri e in un gioco metaletterario un nuovo processo di scrittura.
Due antagonisti, due amici, due mezzo parenti e una ragazza danno l’avvio alla narrazione: sono Domenico Guiso , Cristian Chironi e Maddalena Pes. Rappresentano le nuove generazioni delle famiglie Chironi e Guiso - la ragazza è un chiaro elemento di rottura - e in una sorta di resa dei conti sono la cartina al tornasole di una spietata degenerazione di valori, di costumi, di sentimenti, di famiglia.
Terzo volume dunque per una saga familiare che attraversando il tempo e i tempi porta il lettore ad una riflessione sugli anni più recenti della nostra storia. Vive di un’autonomia di lettura che lo rende facilmente fruibile anche a chi non ha letto i due precedenti “capitoli”. Offre una storia gradevole ma amara.
Lo stile di scrittura è efficace e veloce, spesso caratterizzato da dialoghi fulminei e inframmezzato da punti fermi che fanno avvertire l’assenza di periodi di una certa consistenza. Si avverte l’amore profondo per la Sardegna rappresentata soprattutto nei suoi aspetti paesaggistici e culturali: il profumo di Sardegna, le sue città, la sua strada statale. Traghetti e aerei che faticosamente ci allontanano dalla nostra terra per poi farci tornare con i nostri nuovi vissuti partecipi di una storia millenaria di cui siamo invisibili particelle. Letteratura regionale alla base della rappresentazione e della riflessione che si vuole offrire: difficile non riconoscere il debito a Satta de “Il giorno del Giudizio”. Opera nel complesso gradevole e avvincente ma nulla più.
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Nel tempo di mezzo
Memorie non semplici
Frammenti di vita richiamati alla memoria, ricordi puri, nessun filo conduttore, il trionfo dell’anarchia spazio-temporale. Un fiume : il Mekong. Saigon e la Cocincina. Anni Trenta del ‘900.
Un’imbarcazione solca lenta le acque del fiume, una ragazzina si affaccia alla vita. Lo scorrere degli eventi, il suo fluire, i cambi di direzione, i mulinelli, le correnti, un vasto delta. Le immagini sono queste. Un paesaggio fluviale e una pennellata di colore repentina ed esotica in senso inverso. È lei : un’ occidentale. Modifica il paesaggio come solo l’architettura coloniale sa fare.
È un elemento di rottura: quindici anni e mezzo, un approccio con un ricco e quasi trentenne cinese e lei diventa altro. Donna prima, scrittrice dopo. Ciò che emerge dai suoi frammenti che alternano la terza persona alla prima è il passaggio da una vita all’altra. Una sorta di catarsi della quale, ora vecchia, lei prende atto. I panni da bambina e il suo bagaglio di vita: un padre morto, una madre prima vedova poi truffata da concessioni non redditizie infine sofferente mentale, un’ identità europea in un territorio conquistato, vengono dismessi per abbandonarsi allo scorrere del fiume della sua vita. Nessun rimorso, nessun rimpianto. Semplicemente il racconto della sua famiglia tra Francia e Indocina fino al rientro in patria.
Il linguaggio è fotografico o meglio cinematografico, lo stile originale e gradevole, l’onestà con cui si racconta disarmante. L’uso della terza persona, intercalata all’autobiografica prima, un utile strumento per isolare avvenimenti e persone e raccontarli per ciò che sono stati.
La vita e l’amore in una delle infinite possibilità.
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L’ultimo debito
Boris Pahor, scrittore sloveno di cittadinanza italiana, nato nell’agosto del 1913, prossimo a compiere 102 anni, è la Storia che può ancora parlare, ricordare e testimoniare. In realtà lo ha fatto per molto tempo: è autore di una trentina di volumi, anche se il suo nome viene più facilmente associato a “Necropoli” la cui prima edizione in lingua italiana fu quella pubblicata dal Consorzio Culturale del Monfalconese . Questo romanzo autobiografico sulla sua prigionia a Natzweiler-Struthof è stato scritto nel 1967 e tradotto in venti lingue, Fazi editore ha avuto il merito di riproporlo nel 2008 all’attenzione dell’Italia.
“Triangoli rossi” nasce invece da una sorta di risentimento verso una Memoria parziale, quella degli ultimi tempi che ricorda ma ripercorre sempre gli stessi sentieri omettendo una parte di storia meno conosciuta ma altrettanto dolorosa. Boris Pahor fu arrestato nel 1944 dopo aver prestato servizio militare nell’esercito italiano fino all’8 settembre del ’43 quando rientrò clandestino a Trieste per aderire alla resistenza slovena. Fu arrestato da sloveni collaborazionisti proprio nella sua città e fu internato per motivi politici: il suo numero venne dunque associato al triangolo rosso che nel sistema dei contrassegni nazisti indicava i prigionieri politici ma in realtà ,molto più semplicemente ,ogni oppositore al nazionalsocialismo.
Si racconta in quest’opera un genocidio misurato in termini di vite umane certo, ma partendo da un primitivo genocidio culturale, quello compiuto ai danni di una minoranza annessa all’Italia con Il Trattato di Rapallo del 1920 e progressivamente snazionalizzata durante il ventennio fascista. Si racconta altresì di una geografia di confine che ha visto il nazifascismo occupare la Slovenia nel 1941 e che alle misure della “circolare 3C” la quale prevedeva rastrellamenti, internamenti, deportazioni, esecuzioni sommarie ha risposto con una forte Resistenza.
I continui rimandi a eventi già narrati nelle sue precedenti opere permettono di collocarli, grazie ad un ricco ma essenziale apparato di note, con una certa sicurezza e si ha l’impressione di percorrere a ritroso una vicenda personale e storica insieme.
Non si leggerà nel dettaglio di orrori, si prenderà atto invece dell’esistenza di campi di concentramento atipici per collocazione geografica ( montagna: 800 metri organizzato con la tecnica del terrazzamento, uno per tutti), di intellettuali morti per un ideale, di giusti dimenticati e sconosciuti ai più, di uomini che da internati riuscirono a sabotare il volo di morte e distruzione dei V2 che erano costretti a creare in gallerie scavate nel sottosuolo, di trasporti forzati da un campo all’altro, di ultimi e precipitosi sfollamenti finiti in tragedie immani.
Il volume è agile e snello, ricco di informazioni, strutturato in tre parti funzionali: prima parte- la mia esperienza, seconda parte- gli altri lager nazisti, terza parte- i campi fascisti, segue l’elenco delle carceri, in Slovenia e in Italia, da cui si veniva deportati nei campi.
Ogni breve capitolo che descrive i campi termina con la sezione PER APPROFONDIRE: nome del sito da visitare, indirizzo completo, numero di telefono e fax, sito internet.
Boris Pahor ha potuto così sdebitarsi con tutte le persone incontrate nei campi di concentramento e che in qualità di interprete e di infermiere non ha potuto aiutare “a evitare il sadico torchio del male”.
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Cara terra mia
La misteriosa morte di un amico, occasione di vita mancata, riporta Irma, studentessa universitaria, da Bologna a Cividale dove la sua breve permanenza occasionale, benché lì abbia ancora il padre, si trasforma in un soggiorno più lungo e involontario. Il biglietto di ritorno alla sua vita non può essere obliterato prima di un viaggio all’inferno sotto l’ombra della mantella del diavolo che, scomodato ai tempi dell’edificazione del famoso ponte della cittadina, non vuole saperne di lasciare quella amena e selvaggia terra.
Cividale del Friuli, richiamata al lettore per la sua importanza storica- Forum Iulii in epoca romana, primo ducato longobardo in Italia, Civitas Austriae nella marca Orientale dei Carolingi, relegata successivamente dalla sua stessa natura a terra di confine nelle epoche successive, viene caratterizzata abilmente da un suggestivo amalgama di passato e presente. Si fondono dunque nella narrazione tratti caratterizzati da un bieco e sinistro provincialismo, con riferimenti ad un passato che si perde nella storia più recente (fascismo, seconda guerra mondiale, disgregazione della ex-Jugoslavia) per affondare nelle leggende. Protagonisti un diavolo beffato o le krivapete (dallo sloveno kriv = curvo, ritorto e peta = tallone) creature femminili della tradizione orale delle valli del Natisone utilizzate come spauracchio per i bambini allo scopo di tenerli lontani dai pericoli, prima di tutto quelli rappresentati dai luoghi selvaggi, rupi e torrenti, che caratterizzano quelle terre.
La stessa protagonista subisce una sorta di caccia alla strega mentre il passato: una mamma morta in circostanze misteriose, un padre premuroso ma enigmatico, un nonno innominabile, riallaccia i fili col presente scandito da morti violente e frequenti. Dimensione del reale e atmosfere oniriche si mescolano in una narrazione fluida ma finemente narrata il cui valore aggiunto, aldilà dei gusti personali poco inclini al noir, rimangono indubbiamente l’ambientazione e lo stile fine e ricercato.
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Una questione privata?
A Orano, città algerina, scoppia improvvisamente la peste. Lentamente la cittadina si sveglia dal suo torpore caratterizzato da una banale tranquillità, scandita dall’abitudine, per prendere atto della situazione.
La narrazione cronachistica e oggettiva presenta i pochi personaggi di un romanzo dove però impera la prospettiva corale. Spicca come protagonista indiscusso il Dottor Rieux affiancato da pochissimi altri funzionali a rappresentare diverse prospettive ideologiche e possibili comportamenti umani.
La cittadina viene isolata da uno stretto quanto repentino cordone sanitario che obbliga abitanti e temporanei ospiti stranieri a permanenza coatta.
È proprio lo straniero Rambert a dire:”Questa storia riguarda tutti” quando, dopo aver tentato con tutti i suoi mezzi di ricongiungersi all’amata fuggendo dalla città appestata, sceglie invece di rimanervi combattendo con gli altri per sanare la situazione. Non potrebbe essere altrimenti: dietro la peste si cela un’ampia allegoria che rappresenta di volta in volta guerra, malattia per estensione, condizione umana, vita. Tutte queste letture sono state già fatte e anche volendo prescinderne non si eviterà di coglierne nessi, assonanze, simbolismi in un gioco associativo inevitabile. Leggere l’opera sul puro piano narrativo rischierebbe, di contro, di far perseguire un piacere aleatorio, quello di una trama che accattivante non è, o ancora di ricercare una narrazione tesa a compiacere esteticamente il lettore, neanche ciò è.
L’opera è antipatica, respingente, asettica e riflette appieno l’intento dell’autore celato dietro un narratore il cui scopo non è quello di narrare per compiacere, per dilettare, per accattivare ma per informare con i toni della cronaca chi ancora cede al torpore intellettuale e preferisce vivacizzare la sua vita con semplice intento godereccio. Così non c’è spazio per eroi ed eroismi, sentimentalismi e toni edificanti. La peste non è uno spettacolo. L’uomo è visto nella sua interezza: un misto di bene e di male tendente ad un cieco individualismo che, scosso da un evento iscrivibile ad una situazione non controllabile( peste : malattia, guerra, vita, morte...), riscopre la sua umanità perché “ci sono negli uomini più cose da ammirare che da disprezzare”. Ne consiglio la lettura proprio in virtù di quanto detto per scoprire un’etica laica i cui valori si poggiano sulla sincerità dell’individuo con se stesso e la fratellanza all’insegna della solidarietà. La vita dunque non è proprio una storia che riguarda tutti?
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Divertissement
Un uomo racconta la sua ultima settimana lavorativa e la fine del suo amore rilasciando le sue impressioni tra le righe di un piccolo diario dei sette giorni che il passato remoto relega ad un tempo trascorso e indeterminato quanto il protagonista.
Veniamo a sapere che lui è un killer professionista e serio che porta a termine un lavoro di cui si narrano genesi, evoluzione ed epilogo , in un momento in cui la sua identità e il suo ruolo sono giunti all’apice della disgregazione essendo minati alla base da un rapporto con una giovane donna la quale ha deciso di lasciarlo durante uno dei suoi viaggi regalo organizzati dal killer per allontanarla mentre è impegnato in uno dei suoi lavori.
Scritto nel 1996, coevo a “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”, nella mia biblioteca emotiva accostabile solo a “Patagonia express”, altro suo scritto da me letto, oltre alla gabbianella e ai suoi recenti parenti stretti , questo testo si presenta spiazzante rispetto ad un sommario giudizio che così scarsa conoscenza dei suoi scritti o la biografia dell’autore mi suggerivano.
Il contenuto è lontano dalle tematiche ricorrenti nella sua produzione e ancor prima nella sua vita.
L’intreccio scarno e superficiale è subito, volutamente, prevedibile per cui è quasi ovvio considerare che non sia una prova di genere ( noir?) . Il tono è secco, la prosa veloce, la cronaca rocambolesca, i cliché presenti tutti, regna però un valore aggiunto tra le righe. Il plus è proprio la travolgente ironia che accompagna il narratore nella rappresentazione di se stesso, io sdoppiato che parla con la sua immagine riflessa allo specchio, mentre ripercorre le tappe di una storia di sesso che ha fatto di lui un uomo prima innamorato, in virtù di questo modificato nella sua intima essenza, e poi quasi imborghesito da una giovincella per ritrovarsi infine tradito e smarrito.
Leggerlo come divertissement letterario o, e qui gatta ci cova, come possibile episodio autobiografico ( naturalmente riconducibile solo all’esperienza amorosa) mascherato da parodia di un genere.
Non leggerlo affatto se non si ha interesse verso l’autore e la conoscenza di tutta la sua produzione o se non si è spinti da altre motivazioni.
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- sì
- no
“ Perché sei diventato fascista?”
Scritta nel ’31, dopo l’evasione e la fuga da Lipari e una strenua opposizione al fascismo , l’opera si nutre dell’intento di raccontare la storia della nascita del fascismo calando la realtà nazionale a quella regionale della Sardegna con l’unico scopo di mettere in guardia, con la particolarità degli eventi italiani, l’universalità nella storia europea dei fatti e il ripetersi degli stessi meccanismi. Spagna , Portogallo, Polonia, Jugoslavia, Ungheria:“dappertutto dittature”, chi altri ancora?
Edito in Italia nel ’44 e non prima, per l’ovvia cesura temporale con conseguente morte della democrazia di cui è superfluo dire, l’autore non volle rimaneggiare lo scritto per conservarne l’autenticità insita in un memoriale dal tono squisitamente soggettivo e limitato alla visione del momento. Riscriverne le parti avrebbe significato tradire lo spirito del libro: genuino, ironico, vero, appassionato. Lussu è fedele a se stesso, sempre.
La lettura ha inizio con gli echi della conferenza di pace di Parigi, con i quattordici punti di Wilson e con il principio di autodeterminazione dei popoli. Il popolo sardo si autodetermina: orgogliosamente resiste alle tentazioni lusinghiere del nascente fascismo. Lussu, interventista pentito, ufficiale decorato della Grande Guerra, fondatore del partito Sardo D’azione, è in questi anni dal ’21 al ’26, deputato. Nel ’21, a Villacidro, terra tanto cara a Dessì, subisce il primo atto squadrista; in un crescendo narra la lenta involuzione dell’uomo in gregario, del coraggio in paura, della democrazia in tirannia.
Il Leviatano divora l’individuo e il mostro biblico coincide sempre più con lo stato assoluto.
La resistenza dei sardi inizialmente è palese, “corse voce di un movimento insurrezionale in Sardegna”, ma dopo la marcia di Roma e il balletto di onorevoli e re che permettono il fagocitamento delle strutture democratiche, la resa è inevitabile. È già tutta contenuta e anticipata nelle bellissime pagine dedicate al primo discorso di Mussolini alla Camera dopo la sua nomina a capo del governo. Le parole di Mussolini sono ricordate quasi a memoria, di poco si discostano da quelle riportate dalle fonti dell’epoca, ma i fatti sono arricchiti dall’occhio sapiente del regista che spazia per tutta l’aula inquadrando i singoli gruppi e restituendoci le loro reazioni. La dissolvenza finale è memorabile e chiude sui parlamentari che prendono parola contro Mussolini e il nuovo governo: “Se il lettore chiude gli occhi un istante e, attribuisce a quest’istante simbolico la durata di quattro anni, riaprendoli vedrà l’uno e l’altro, l’on. D’Aragona e l’on. Cao, inseriti nel fascismo.”
Quando in Sardegna, terra fiera e orgogliosa, arriva il generale Gandolfo a sostituire i prefetti con pieni poteri e a sedare ogni istinto di ribellione, a uno a uno gli amici di Lussu diventano fascisti. E allora si legge la presa d’atto, la delusione mai sbandierata ma chiusa nell’animo fiero e irremovibile. Rettitudine morale pura. La meraviglia di chi racconta, incredulo, l’appartenenza al fascismo di persone insospettabili, di amici, di politici vicini fino a poco prima della marcia su Roma, è lì palpabile e rattrista l’animo. Infinita solitudine del giusto. Gli episodi, tanti, prima raccontati in ottica antifascista vengono accennati e richiamati alla memoria ma impietosamente e dolorosamente siglati con un “Anch’egli s’inscrisse al fascismo”.
Sfioro le pagine e non leggo più, sento la storia, vedo gli eventi, odo le voci, ne partecipo gli umori. Il ritmo narrativo diventa incalzante, curiosità mista a paura e a stretta compartecipazione agli eventi e ai destini del protagonista fanno volger pagina velocemente. Antagonisti e scontri epici tra le forze del bene e del male si susseguono. Lussu è un grande narratore. Manca il lieto fine, i tempi non sono ancora maturi, la Storia lo scriverà anche grazie a uomini come lui.
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Musicali interdipendenze
Disaccordi imperfetti è una raccolta di racconti scritti tra il 2005 e il 2012 e in parte già pubblicati presso autori inglesi e francesi. Li accompagna , presentandoli, una nota dell’autore che ne spiega la genesi e la loro interdipendenza , per alcuni di essi, con romanzi già scritti e pubblicati e con un’opera in fase di scrittura.
Il titolo originale gioca sul doppio significato dell’espressione “loggerheads":“ai ferri corti” e “disaccordo” e tale valenza semantica percorre l’intera antologia. Essa può essere declinata come accordo musicale dalle infinite possibilità, quelle generate da un racconto. Il primo vive sull’onda del ricordo ed è completamente imbastito sulla supposizione. Un pianista di pianobar immagina uno sviluppo diverso, sulle corde del condizionale, ad una situazione reale appena sfiorata ma non vissuta pienamente. C’è di mezzo una donna. “Ai ferri corti” è anche il titolo di un breve racconto, voce narrante femminile, narra il disaccordo tra una coppia di pensionati per il nome da dare alla loro casa al mare. “Leida “ è un bel racconto: muove qualche corda emotiva. Si prosegue poi con altri racconti autonomi, ma spunti narrativi da sviluppare in “Unrest” l’opera alla quale Coe sta lavorando (storia di una famiglia borghese della seconda metà del ‘900).
La scrittura è tesa a evocare il passato, lo scorrere del tempo, a rappresentare il desiderio di fermarlo contrapposto alla brama del cambiamento necessario: “ per alcune persone, il tempo si ferma davvero. Lo ha sempre fatto, ed è la loro definizione dell’inferno”.
Chiude la raccolta “Billy Wilder. Diario di un’ossessione” che ripercorre nel tempo l’ interesse esagerato dell’autore per la colonna sonora di “La vita di Sherlock Holmes”, film del regista di “A qualcuno piace caldo”, “Quando la moglie è in vacanza”, fra i tanti.
Ritengo che quest’opera possa piacere a chi stima Jonathan Coe e ne condivide alcune passioni: musica e cinema. Potrebbe piacere a chi ama la forma racconto e un certo sentimento del tempo perduto.
“Spazzatura morale”
Il professor Raat da più di un ventennio insegna in un liceo, il suo cognome si presta ad un gioco di parole, semplicemente con l’aggiunta di due lettere va a significare spazzatura, lerciume, escremento. Tutti lo nominano così, in sua assenza, in sua presenza ma di nascosto; aleggia sempre nell’atmosfera il nomignolo dispregiativo e lui se ne cruccia. Diventa paranoico e ossessivo nel ricercare chi bisbiglia, mormora e si riferisce a lui direttamente per un momentaneo incespicare o indirettamente con tale soprannome. Un’occasione gli permette di rivalersi , dopo tanto tempo, di alcuni allievi che lo hanno beffeggiato durante un improbabile compito studiato e pensato per rifarsi su di loro in superiorità culturale. E il professore, nel suo intento vendicativo rivolto in particolare su un giovane, cade vittima di se stesso.
La descrizione di questo insegnante è precisa, metodica, ossessiva , ripetitiva ; inframmezza tutta la struttura narrativa. È un censore ma non lo muove la morale. È un vero e proprio conservatore e il rispetto di rigidi costumi morali è, per lui, garanzia che lo “spirito moderno” fatto di operai che rivendicano, di plebaglia che svogliata frequenta la scuola e di delinquenti,non riuscirà a farla franca. È affetto da un complesso di superiorità.
Il libro è datato 1905, l’autore è il fratello maggiore del più famoso Thomas Mann. La storia è la genesi cui segue l’epilogo di una vorticosa dissoluzione.
Scoperta la frequentazione di una sciantosa da cabaret da parte dei suoi allievi, con l’intento di salvarli da questa lussuria, vi inciampa lui. Viene ammaliato da Rosa de L’Angelo Azzurro. Il borghese diventa immorale, i valori su cui si imperniava la sua vita vengono sovvertiti facendo così emergere quanto di amorale ci possa essere nella più fine e squisita borghesia.
L’opera ha ispirato, venendo travisata e snaturata, il celebre film”l’Angelo azzurro” con Marlene Dietricht.
Le prime pubblicazioni furono un insuccesso e la popolarità del libro e del suo autore furono successive alla trasposizione cinematografica. Lo stesso fratello Thomas fu molto scettico , inizialmente, su questa produzione che relegò a letteratura di consumo. Eppure l’opera ha il potere di calcare la mano su una situazione che lo stesso Mann aveva rappresentato ne “I Buddenbrook”. Si rappresenta la decadenza del mondo imperiale, del suo sistema educativo, della sua rigidità morale e di facciata che nasconde l’apoteosi del vizio così ben smascherato dal tiranno anarchico Professor Unrat.
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L'amore
Scritto nel 1927 è un racconto breve ma intenso che ha il potere di catturare l'attenzione del lettore non solo per lo stile alto ed elegante della scrittura ma anche per la fine introspezione psicologica rappresentata.
La tematica è l'omosessualità segreta, nascosta e svelata e il naturale turbamento che ne deriva. L'io narrante è un professore che rivela il segreto che la sua biografia ufficiale non può raccontare perché non conosciuto in quanto turbatore della morale borghese. Con un 'efficace analessi si integra così una biografia con il capitolo più importante, quello vissuto in tarda adolescenza che portò al turbamento e al successivo sovvertimento dei sensi. Ragazzo , ha subito il fascino intellettuale del suo brillante professore di letteratura, un uomo non più giovane, coniugato, grande esperto del teatro elisabettiano il quale con un comportamento singolare avvinghia a sé i discenti trasportandoli grazie alla sua passione letteraria che fa di lui un brillante oratore. Eppure il professore ha poche pubblicazioni all’attivo e la sua grande opera è ancora in attesa di essere scritta. È osteggiato dall’ambiente universitario e la stessa moglie ne rappresenta il mistero. I suoi comportamenti , per quasi tutta la durata del testo, sono rappresentati come quelli di una persona affetta da un qualche disturbo di personalità fino a quando, in un efficace crescendo, si giunge a delineare l’uomo e il suo intimo turbamento.
Si aprono allora le pagine più belle dello scritto che hanno la potente delicatezza di rappresentare un essere vinto dal suo dissidio interiore, combattuto tra pulsione sessuale e amore, diviso e lacerato in ogni sua fibra e capace di grande altruismo.
Leggendo questo breve componimento ho ritrovato la scrittura potente e sincera di Zweig che ha la capacità di far entrare il lettore dentro una storia dimentico della cornice che gli ha creato intorno. La voce narrante diventa solo un tramite, potente, di un fatto immediato, di un’esistenza in corso, di un pensiero condiviso, di un sentimento autentico. La capacità espressiva unita alla caratterizzazione psicologica e condita da un lessico che rasenta altri generi letterari per cui la fanno da padrone:segreto, colpevole, confessione, fascino, rapimento, mistero, equivoco , avvinghia e turba il lettore per poi riappacificare gli animi con un’unica ,semplice, chiara ed efficace frase finale.
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Un ponte per "L'uomo senza qualità"
L’esordio narrativo di Musil, datato 1906, riflette la giovane età dell’autore, nato nel 1880, e ancor di più il suo percorso formativo; dopo aver compiuto gli studi liceali in un collegio militare ed essersi laureato in ingegneria meccanica, nel 1908 conseguì la seconda laurea in filosofia e psicologia.
L’ opera ha come protagonista un adolescente intelligente e sensibile che frequenta un esclusivo collegio militare- si nutre quindi di elementi autobiografici - e oltre a consegnarci indirettamente il ritratto morale di un’epoca di passaggio, edulcorata dal perbenismo di facciata del vecchio impero austro-ungarico, in trenta brevi capitoletti alterna una trama esile a una serie di riflessioni di ordine morale, filosofico, religioso.
La storia è quella di un ragazzo contorto, ovvero turbato intimamente, che con fine introspezione analizza se stesso, gli aspetti più intimi del suo essere, del suo sentire, del suo percepire, allentando gli schemi preconfezionati che la morale borghese, ipocrita, gli aveva confezionato. Lo stesso Musil visse una famiglia anomala e allargata che ruotava intorno alla madre circondata da due uomini, il padre dell’autore e l’amante tollerato e incluso in ambito familiare, l’amico di un triste triangolo.
In collegio Il giovane allievo segue due giovani, Beineberg e Reiting, pupilli di importanti famiglie, i quali mostreranno delle nature molto particolari coinvolgendo Törless in una situazione complessa.
Classismo, indifferenza, violenza, noia si alternano a motivazione di comportamenti disdicevoli sempre allusi e mai esplicitamente rappresentati che sfoceranno in veri e propri soprusi a sfondo sessuale. Lo stesso Musil chiamò la scuola da lui frequentata “l’ano del diavolo”, Rilke , prima di lui, l’aveva già definita l”ABC dell’orrore”.
In realtà non c’è rappresentazione diretta della crisi generazionale così efficacemente e poeticamente rappresentata da Roth e questo per me è stato motivo di profonda delusione, vi è però in nuce quel senso di inquietudine e di impotenza dell’uomo contemporaneo che farà tanta fortuna letteraria da lui in poi.
Possiede infine , questa scrittura, la capacità di suggestionare attraverso la rappresentazione delle ambientazioni, degli ambienti, dei luoghi.
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La dimensione del ricordo
Otto racconti, un ritorno.
Mario Rigoni Stern ritorna nello spazio e nel tempo che hanno segnato la sua esistenza: i luoghi sono quelli di guerra, di prigionia, di casa e del necessario tornare sul fiume dal quale l’ARMIR ripiegò in un penoso rientro. Se Il “Sergente nella neve” racconta la ritirata, questi otto componimenti raccontano la guerra, il dopoguerra, la guerra nella guerra della lotta partigiana, la comunanza dell’essere umano con i suoi patimenti perché gli eventi hanno interessato tutti: madri e padri, figli e nipoti, amici e nemici, i primi e gli ultimi.
Incontri il luogo non luogo che è lo scenario di guerra confuso nella sua essenza dagli elementi primordiali. Ritrovi i luoghi che il combattente ha lasciato trasfigurati ancora da un conflitto passato e da un altro in essere. Vivi lo spazio della memoria, il più bello, quello che in guerra o da prigioniero ti fa estraniare da una situazione inumana e insopportabile e quello del reduce quando scaccia il brutto ricordo che lo assale mentre indifeso dorme, ma che prepotente lo porta a ricercare fisicamente i luoghi fino a tornavi dopo quasi trent’anni.
Riscopri Mario Rigoni Stern e ora lo accompagni in un viaggio, che come quello che lo riportò a casa, può fare esclusivamente da solo. Lui scava, cerca, rivede, corregge percezioni, sensazioni, ricordi, emozioni. La messa a fuoco di queste diapositive compete solo a lui. Noi mestamente assistiamo ad un lento recupero di un uomo che sa, conosce, capisce.
I racconti non hanno direttamente lui per protagonista, se non l’ultimo che dà il titolo alla raccolta, ma dietro ogni storia c’è il suo ricordo di un fatto visto, narrato, ascoltato, di un universo spazio-temporale condiviso e per questo di comune appartenenza che è quello di tutti coloro che subirono la guerra.
La fratellanza emerge spontanea. Il dolore segna l’animo. Lettura molto coinvolgente dal punto di vista emotivo e ricca dell’essenza di un uomo semplice che sa raccontare il tormento dell’anima assicurandoti però un profondo sentimento di benessere e di pace.
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Acqua di neve e latte di malga
Scritto nato in tempo di prigionia quando Mario Rigoni Stern, internato in un lager nazista in Austria, fissa i suoi “ricordi della ritirata di Russia”: anno 1944.
Un rotolo di fogli ritrovato nello zaino è sufficiente per scrivere e per ricordare. Gli eventi , quelli del ’43, vengono ricostruiti con precisione e con una ricchezza di dettagli tali da impressionare per la loro esattezza.
Le rive del Don vedono combattere due eserciti, sono separati dal fiume ghiacciato, la guerra è di posizione e la narrazione si focalizza sulla quotidianità del combattere. La prosa è limpida, la sintassi essenziale, il linguaggio rasenta la poesia. Le similitudini viaggiano all’ombra dei ricordi: il nero della notte è “come il fondo esterno del paiolo della polenta”, la felicità è paragonata alla gioia che rimandano i saltelli di un capretto quando è primavera, un attacco armato e la successiva calma richiamano il frastuono di una sagra e l’acquietarsi degli animi quando la festa è finita.
La rappresentazione della quotidianità fatta di piccoli gesti è nel caffè, nella polenta, nel misto di bresciani e piemontesi, nei canti dialettali, nelle sigarette Macedonia, le Popolari te le sogni.
È uno spirito positivo quello che ricorda : “c’era la guerra, proprio la guerra più vera dove sono io, ma io non la vivevo la guerra, vivevo intensamente cose che sognavo, che ricordavo e che erano più vere della guerra.”
Iniziano poi manovre silenziose, gli attacchi si fanno più frequenti , giunge l’ordine di ripiegare.
Con la seconda parte del racconto inizia la ritirata, quella vera: neve , freddo, una tormenta, un capitano inflessibile. Il ritmo della narrazione diventa serrato e inizia il pellegrinaggio di isba in isba , di villaggio in villaggio. La raccomandazione è una :stare uniti, ma già qualcuno cede e si abbandona là,sulla neve.
La natura benevola nel tempo e nei luoghi del ricordo nostalgico è ora selvaggia e fredda, costringe al silenzio. Basta il caldo di un rifugio, la compassione umana di una donna russa, un bicchiere di latte a risvegliare il ricordo di malga.
La ritirata può riprendere...lascio a voi la lettura.
Non c’è retorica, non c’è condanna della follia dei vertici militari: i fatti parlano da soli, il sergente maggiore del battaglione Vestone, con la sua carica umana, attraversa tutti gli stadi dell’animo che una simile esperienza scatena e ce li restituisce onestamente, semplicemente come l’armonia del suo cuore che spera e vagheggia un possibile mondo di pace.
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Remarque
Che sarà?
Quando sei al cospetto di un bel libro, lo respiri subito: basta l’incipit e sai già di essere in buone mani.
La prosa ti accarezza, la storia ti fa dimenticare il presente, la narrazione ti avvolge in modo tale da sentirti tu stesso partecipe degli eventi.
Quando un autore ha la capacità di trasferire nel lettore la sua potenza creatrice portandoti dentro un mondo e facendotelo vivere, allora sai che puoi stare comodo nella tua poltrona, nel tuo letto, nella tua nicchia e mettere in moto la tua capacità di immaginare, così come l’autore vuole che sia.
E allora si sale in carrozza, si percorre il Ring, si entra a Schönbrunn, si parla con l’imperatore, si vive l’impero dagli eventi di Solferino all’inizio della prima guerra mondiale e si vive e si invecchia dentro un mondo bellissimo e in decadenza.
L’ottica è rovesciata rispetto a quella derivata dallo studio dei classici manuali di storia: la battaglia di Solferino è l’inizio della decadenza, per noi un traguardo dell’Unità nazionale, il triestino è l’ultimo dei sudditi, per noi oggi un connazionale, i moti del ’48 e le successive battaglie per il riconoscimento dei basilari diritti una conquista civile, là una noia da risolvere.
Burocrazia, efficienza, lustrini, uniformi, regolamenti: un apparato militare che incarna la grandezza dell’impero ma che è ormai svuotato del suo compito e che non ha più senso di esistere in un inatteso tempo di pace che all’insaputa di molti ma non di tutti anticipa la più feroce delle guerre tale da cancellare lo stesso sdegno che portò alla nascita della Croce Rossa sul campo di Solferino.
Nuovi nobili ascendono i gradini della scala sociale che non permette e non riconosce alcuna mobilità come non la si riconosce al più indomito pelo che non segue la linea delle fedine, poco importa se esse sono argentate e fuori moda, il segno dei tempi avanza oltre un ritratto, oltre il limite del più controllato confine, oltre l’identità sovranazionale in disfacimento. Galizia, Ungheria, Boemia, domini oltralpe: il tempo muta gli uomini e li riaggancia alla loro identità, nazionale questa volta.
L’eroe di Solferino lascia il passo al figlio Franz ma ne detta la cadenza: lo allontana dall’esercizio militare, ne fa un servitore reverenziale della patria e del suo imperatore e del suo apparato burocratico. La nomina nobiliare porta una famiglia modesta di Sipolje, in Galizia, a tradire la sua discendenza, l’eroe non lo farà. Lo stesso Franz governerà la vita del figlio Carl Joseph, invano. Niente è più governabile meno che mai i figli.
Leggere la “Marcia di Radetzky” è come rivalersi di quel senso di delusione provato nel vedere la Vienna di oggi. Visiti il palazzo di Hofburg, passeggi nel Ring e ti senti male perché la macchina del tempo non funziona. C’è ancora tutto: stanze private, edifici suntuosi, giardini immensi ma non lo splendore, l’essenza, la profonda appartenenza all’epoca storica. Aleggia un fantasma a Vienna: il respiro di un’epoca che non c’è più e che, con tutti i suoi limiti e le sue grandezze, dovette essere bellissima. Sono nostalgica io, immaginatevi Roth la cui vita fu segnata da questo periodo di passaggio, lui nato e cresciuto, come tutti i sudditi, “sub auspiciis Imperatoris”. Noi sappiamo, forse, quel che è stato, noi conosciamo ciò che ne è derivato.
Addio Ottocento, il Novecento incalzante e breve è seppur passato, a cavallo di due secoli ci siamo noi. Che ne sarà? Quanto può essere attuale il sentimento del tempo che fu e la paura del domani!
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Una licenza poetica
Protagonista del romanzo è Mr. Henry, un americano volontario col grado di tenente nei reparti sanitari dell’esercito italiano durante la prima guerra mondiale. Racconta in prima persona e il lettore, conoscendo la biografia dell’autore che realmente fu sul fronte italiano, potrebbe pensare che questo romanzo sia fedele trasposizione dei suoi vissuti bellici.
In realtà questo non è un romanzo autobiografico, non è un memoriale di guerra, non è un libro sulla guerra o sulla pace e nemmeno un romanzo d’amore.
Un uomo, Henry, ama una donna , Catherine, questo sì, ma il romanzo è altro.
La narrazione, realistica e asciutta, vive e si nutre di brevi sequenze narrative, brevi sequenze descrittive e un flusso continuo di dialoghi asciutti quasi monosillabici . La prosa è scarna, sintatticamente povera eppure ritmica, scandita da battute regolari.
L' avvio è lento, gli scenari prevedibili.
Tutto è rappresentato o meglio niente: c’è la guerra, c’è la condizione dei soldati italiani e dei volontari americani, ci sono le donne, l’alcool, le disfatte,i morti, le licenze.
È un libro dove la vita fa capolino con un “baby” o pupo, così come volle la Pivano, il pupo è il giovane volontario. È lo sguardo giovane sull’esistenza, è la voglia di vivere. È Milano quando la nebbia la inghiotte, è la Galleria che richiama la vita, è tutto ciò che si dimentica esista quando altro pare trionfare.
Questo libro è una licenza, una licenza poetica sulla prosa, sulla narrazione e per finire sulla vita.
Faticoso da leggere, vive una svolta catartica con la descrizione, peraltro di fantasia, della disfatta di Caporetto cui segue un ritmo narrativo più veloce e avvincente che prelude alla “pace separata” e la scelta di disertare per evitare la morte.
È infine un romanzo di formazione con un conveniente finale melodrammatico su ben 47 ideati.
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Un narciso invecchiato
Matteo Collura, pur avendo esordito come scrittore con il romanzo “Associazione indigenti” , è meglio conosciuto come giornalista e autore della biografia di Leonardo Sciascia “Il maestro di Regalpetra” oltre che per numerosi altri libri, la maggior parte dei quali dedicati alla sua terra d’origine, la Sicilia. Ha scritto anche una versione teatrale del romanzo di Sciascia “Todo modo”.
Con questo romanzo si direbbe torni alle sue origini, in tutti i sensi, non solo perché riprende in mano la forma romanzo ma perché pare ripercorra tutta la sua personale formazione dagli esordi come pittore- nel romanzo si fa riferimento ad alcune opere d’arte e al loro significato emblematico rispetto alla vicenda narrata- ma anche perché propone una sorta di selezione di citazioni che ne fanno apprezzare la sua ricca formazione letteraria e non solo. Cita inizialmente Manzoni per toccare Pirandello, Borges, Pasolini, Brancati ma tanti altri senza tralasciare il filosofo Emil Cioran,l’onirico Fellini di “8 e mezzo”, piuttosto che Lucrezio, Machiavelli e Kant.
Censire le citazioni e indagarle nella loro valenza di significato porterebbe senza ombra di dubbio a tracciare un quadro più fedele della “filosofia” che sottende questo, perché no, gradevole romanzo.
Si parla, a dispetto del titolo, di Italo, Italo Gorini, 83 anni, sul limitar della vita.
Un vincente che si prepara alla sua unica sconfitta: la morte, affrontandola razionalmente e col suo bagaglio culturale il quale gli permette di darsi risposte a domande che una fede non sentita non gli permette di ottenere. Ha un figlio, disoccupato o meglio perennemente occupato dal suo smartphone, una sorella e una cognata, anche loro anziane, ed è vedovo da cinque anni. Da quel momento, complici anche gli anni che lo costringono alla sedia a rotelle, seppur ancora capace di stare in piedi, vive in casa senza mai uscire, al suo cospetto una cameriera e una badante romena. Il brillante professore universitario, divenuto tale per un caso della vita, è un narciso invecchiato che irride tutti e tutto per demonizzare forse la sua paura più grande: la morte. Si impara a conoscerlo, a volergli bene con tutti i suoi limiti e difetti, a seguirlo nella ennesima lectio magistralis, a chiedersi come riuscirà ad avvicinarsi alla morte.
Il romanzo è tripartito ma in maniera diseguale a partire dalla pagina cento o giù di lì ci sono alcuni colpi di scena e delle evoluzioni nella storia che sono però affidate, volutamente, ad un numero esiguo di pagine. Ciò che c’era da raccontare è stato già abbondantemente detto prima, nelle ultime pagine ci vengono quindi incontro le riflessioni scaturite da una lettura veloce e gradevole. Ci si ritrova a riflettere e a rivivere scenari già noti con le loro possibili esponenziali ripercussioni in un domani non troppo lontano. L’Italia conterà (me compresa) , in prevalenza, popolazione anziana che non so se avrà la fortuna di avere una badante e/o una cameriera o, ancor peggio, i figli vicini. Unica consolazione, come Italo,sarà per me, riconoscendo il mondo ormai estraneo al mio limite temporale, farmi vanto e scudo con le mie letture.
La badante? Un dettaglio in una storia attualissima che si pone a paradigma di tante esistenze.
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Felicità
Giovani francesi dopo la prima guerra mondiale rappresentati nella loro crescita che tende ad un triste imborghesimento con conseguente perdita della felicità appena assaporata e tristemente fatta convergere con l'eccesso: feste, amanti, innamoramenti, illusioni. Segue il matrimonio per tutti, al centro quello di Marianne e Antoine, sullo sfondo le storie dei primi amici, dei primi amori, dei primi intrecci amorosi. Trionfa il disincanto, l'insoddisfazione, il limite e la miseria umana di uomini e donne e della loro faticosa accettazione della vita. Lo stile è alto, la capacità di rappresentazione dei tormenti dell'anima sublime, la rappresentazione finemente psicologica e realistica insieme, il messaggio per me inaccettabile: felicità e gioia sono incompatibili con l'amore coniugale.
"La felicità coniugale non somiglia alla felicità più di quanto l'amore coniugale non somigli all'amore": che tristezza!!
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David Golder...decisamente più belli
Di padre in figlio
La storia narrata è l’evoluzione del ramo maschile della famiglia Karnowski a partire da David, antichassidico e polacco, che in atto di ribellione e rifiuto abbandona il suo villaggio per recarsi a Berlino e lì prosperare con il suo ingegno commerciale. Divenuto padre, ha difficoltà ad educare suo figlio Georg non tanto ai valori religiosi, già da lui ampiamente contestati, quanto alla scalata sociale, al doversi dare una collocazione valida e di spessore prima e dopo la Grande guerra in bilico tra l’essere ebreo in casa e tedesco fuori. La difficoltà educativa aumenta col mutar dei tempi e delle condizioni socio-economiche :il padre si allontana dal figlio proprio in virtù di un matrimonio misto e mentre gli ebrei colonizzano Berlino da Dragonerstrasse a Kuffusterdamm eccellendo nei più svariati campi, da quelli tipicamente commerciali ai ruoli intellettuali e sociali più accreditati, la pura razza ariana conoscerà un dilagante risentimento. Nuove ondate migratorie ebree avanzano minacciose da est e sono avvertite come un pericolo dagli stessi tedeschi ebrei. Un misto di sconfitta militare, dure condizioni di pace, perdita di territori e di ricchezze, crollo del mito imperiale, concreta difficoltà economica a causa della svalutazione del marco e della rapacità degli sciacalli, il tutto condito dal più pericoloso risentimento dei reduci di guerra resi inutili e non riconvertibili, alimenta l’odio ariano . Georg diventa stimato ginecologo e acquisisce la tanto agognata posizione sociale, il Nuovo Ordine ribalta il suo destino e quello della sua famiglia. Diversa è invece la formazione cui è destinato suo figlio, Jegor, il risultato dell’unione mista genera un ragazzo debole e sfiduciato che trova la massima espressione nell’ odio razziale dapprima come vittima poi come carnefice: il suo cammino di formazione sarà a cavallo di due razze, due mondi, due continenti e la sua formazione avverrà per lo più in America.
A dispetto di quanto finora detto, sono in realtà le figure femminili a vivere di maggior forza nell’economia del romanzo. La figura femminile è declinata in una ricca varietà, si incontra il prototipo della moglie devota e mansueta, quello della donna emancipata e aperta alla carriera politica, quello della fine seduttrice ed emancipata in altra veste. In quasi tutti i casi sono figure positive sul piano etico e morale mentre le principali figure maschili riflettono le fratture, i dissidi, i contrasti del rapporto padre-figlio, ebreo- tradizione, ebreo-innovazione.
Complessivamente un buon romanzo con un interessante impianto narrativo deprivato però della carica riflessiva, la scrittura è quasi puramente narrativa, raramente l’autore si abbandona a considerazioni alte e se lo fa è poco più che un accenno, per me questo il più evidente limite. Il pregio maggiore l’ambientazione berlinese e la sua contrapposizione a quella americana.
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HERR: UN SIGNOR PADRONE
Tra il marzo del 1918 e l’ottobre dello stesso anno Thomas Mann, sul finire della prima guerra mondiale e all’alba della Repubblica di Weimar, mentre con la famiglia risiedeva nei pressi di Monaco sulle sponde del fiume Isar, scrisse questo racconto lungo.
Le impressioni sulla Germania in guerra e sulla svolta democratica socialista, lui ancora ancorato ad un certo conservatorismo monarchico già archiviate in “Considerazioni di un impolitico”, il suo capolavoro “La montagna incantata” in fase di lenta elaborazione, nasce questo racconto lungo connotato ad idillio: la felicità privata contrapposta ai tempi difficili della guerra.
Chi ha un cane o chi lo ha avuto sarà grato a Thomas Mann per come abilmente ha descritto, in un misto di realismo e vivacità, l’universalità ( nei gesti e nei comportamenti) di un cane e del suo padrone intimamente legato ad esso. Il richiamo, il gioco, la gioia, il movimento, il saluto, l’accordo tacito tra i due: ci si ritrova subito.
Il cane è Bauschan, descritto dal padrone nella sua meticcia personalità, nella discendenza incrociata, nell’ascendente contadinesco a voler però sottolineare con la consueta ironia la fatica che gli dovette costare l’ entrare in una famiglia borghese e adattarvisi.
Mi colpisce la ripetuta attribuzione di intelligenza al suo cane, ricercata nella fisionomia, nello sguardo, nel comportamento ma soprattutto nella relazione con il padrone.
Il cane mostra fin da subito di riconoscere nello scrittore il suo capo- branco per cui la relazione che si viene a creare è esclusiva e tutta maschile: gli altri membri della famiglia non godranno di tale privilegio.
Il padrone non è sempre benevolo : in particolare vige il divieto di entrare nelle stanze dell’abitazione e scarse sono le possibilità offerte al cane di correre e di andare a caccia. La sensibilità con la quale descrive le mancanze perpetrate ai danni del cane indicano in realtà una viva attenzione verso i bisogni dell’animale e un’intima afflizione per non essere all’altezza di garantirgli la soddisfazione dei suoi istinti e dei suoi bisogni. Impotente risulta invece il padrone quando le più sensate leggi della natura si esprimono in comportamenti la cui logica agli umani non è dato capire: ci propone l’autore lo sconcerto che accompagna un padrone nell’osservare il suo cane che ne incontra un altro o che si para di fronte ad un suo simile rinchiuso dentro un cortile . Sarà poi Konrad Lorenz, nel ’49 a descrivere il codice linguistico insito nel comportamento canino e nel ’50 ne “L’uomo incontrò il cane”si farà portavoce della teoria che il cane è spesso specchio delle qualità del padrone asserendo anche che spesso, citando Mann e il suo libro, i bastardini hanno intelligenza e sensibilità più sviluppate dei cani di razza pura riuscendo così ad essere più capaci di amicizia verso l’uomo. La parte finale è preceduta dalla quarta sezione tutta rivolta alla descrizione quasi scientifica della tenuta di caccia che per Mann rappresentava l’eremo privato. Notevole la vicinanza espressa dall’uomo alla Natura di cui si sente parte e che viene rappresentata in chiusura anche da una velata polemica all’uomo cacciatore, violento per hobby e per estensione all’uomo soldato capace di sterminare i suoi simili.
Complessivamente un’opera gradevole dallo stile inconfondibile, una storia d’amicizia, un ritratto inedito di un grande autore attraverso il suo cane.
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Per grandi e piccini
“Essere proposto per la lettura nelle scuole è assolutamente il massimo della soddisfazione”,
così a Giuseppe Trevisani ,l’autore, in un’intervista per presentare “Bàrnabo delle montagne”.
E quale miglior opera se non questa da far conoscere ai nostri bambini?
Leggetela mamme e papà, nonne e nonni, insegnanti, educatori, zie e zii e chiunque graviti intorno all’universo magico dell’infanzia.
Leggetela a voce alta, sfogliandola e ammirandone le tavole create a rappresentazione della vicenda dallo stesso Buzzati.
Scoprirete non solo un’opera geniale e generosa, fantastica e fantasiosa , ma anche riscoprirete quel gusto per la narrazione che incanta ogni bambino. Proponetene la lettura soprattutto quando vi capita, nel quotidiano, di aver capito che abbiamo deprivato i nostri figli, i nostri nipoti, le nuove generazioni, ingolfandoli di tanto altro ma non della fantasia, della creatività, del libero pensiero. Leggete e scoprite una storia che procede veloce per immagini e parole tra fiaba e realtà a ricordare l’essenziale ma riscoprendo moduli stilistici diversi che mischiano prosa, poesia, filastrocche, sgrammaticature, modi di dire e proverbi in mirabolanti capriole lessicali che faranno riscoprire il gusto delle parole, della loro origine, della loro divertente variabilità semantica.
Avventura, mistero, sentimenti, emozioni vi accompagneranno mentre conoscerete il Re Leonzio e tutti gli altri personaggi presentati inizialmente come in un testo teatrale, li seguirete nelle loro peripezie, ne conoscerete storia ed evoluzione e “Dunque ascoltiamo senza battere ciglia la famosa invasione degli orsi in Sicilia”.
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Una voce fuori dal coro
Scritto organizzato in cinque parti, commedia degli inganni con risvolti drammatici che lascia irrisolta qualsiasi verità e che richiama le tragicommedie di stampo shaekespeariano. La composizione infatti è sottotitolata “Sotie” dallo stesso Gide a richiamare una composizione satirico- drammatica in voga nel '700 e tesa alla denuncia delle ipocrisie sociali.
I pochi fatti narrati nascono con la naturale e innata vocazione alla messa in scena e con l'intento di rappresentare i vizi della borghesia francese su uno sfondo perfetto offerto dall'ambientazione italiana. Ironia, parodia, limiti e vizi conditi da riflessioni esistenziali di un autore che fu profondamente lacerato in vita dalla sua più intima essenza e dalla sua educazione. Opera condita di infiniti rimandi culturali che andrebbe letta e riletta per giungere a comprenderla un po’ di più, opera da conoscere per la sfida che contiene.
La vicenda intreccia le esistenze di Anthime, Amédée, Jules ,Protos, Lafcadio tra religiosità, ateismo, massoneria , essenza e apparenza, bene e male realtà e verità.
In scena un imbroglio clamoroso : una serie di raggiri ai danni dei cattolici benpensanti ai quali si fa credere che Papa Leone XIII sia stato rapito e rinchiuso in Castel Sant’Angelo mentre un finto pontefice reggerebbe la grande Chiesa. In un crescendo di piccoli eventi la storia sfocerà in un delitto come atto gratuito che fa ricordare i tormenti di Raskolnikov seppur senza il minimo ravvedimento.
La difficoltà di inquadrare una natura umana, la verità e la realtà fu il messaggio colto e utilizzato anche da Sciascia in “Todo modo” e in minor misura da Mauresing ne “La variante di Luneburg”.
L’opera seppur complessa mi è risultata gradevole per una serie di motivi: in primo luogo per l’impianto narrativo anomalo molto vicino a quello dei testi teatrali seppur diverso per forma, ha inoltre richiamato in me il carattere irriverente della poesia comica del Duecento italiano e in particolare il nostro Cecco Angiolieri e mi ha fatto nuovamente riflettere sull’opera di Sciascia tormentandomi su nuovi dubbi circa il suo finale che liquidai che tanta facilità.
Ne consiglio sicuramente la lettura
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Fantasia di Buzzati
Raccolta di elzeviri e racconti, ultimo libro pubblicato, Buzzati vivente, nel 1971 quando era già un condannato a morte: si spense nel gennaio del 1972.
I motivi sono quelli tipici della tematica buzzatiana: paure,incubi, morte, le fratture minime dello spazio, del tempo, della quotidianità, l’attesa, la solitudine, il rifugio nella fantasia come àncora di salvezza per una realtà troppo raziocinante.
La scrittura è potente e riflette la drammaticità dell’uomo moderno, malato perché vivente e con una condanna pendente: la morte. Buzzati sapeva che i suoi giorni erano contati e ha colto tutte le sfumature della condanna ( la vita) con ironia.
L’immaginazione sconfina come al solito nel surreale e ci restituisce la viva realtà dell’Uomo, l’essere debole, solo, limitato dalle sue paure,in balìa dei suoi egoismi, stupidamente banale.
La raccolta si apre con la demonizzazione del retaggio d’infanzia: il Babau. Un consiglio comunale ne decide la soppressione; la denuncia è implicita: il mondo uccide la fantasia, l’illusione, la favola.
È una raccolta caratterizzata da singoli componimenti e da brevi sezioni fatte di piccoli componimenti. La sezione “Solitudini”, (sfondo storico gli anni ’60: Vietnam, bambini focomelici, naplam) , parla sotto la veste di ordinaria quotidianità della straordinaria assurdità del comportamento umano quando eccede in egoismo e indifferenza. “I giorni perduti” ma anche “La parete” con le meravigliose Alpi Oniriche sono i racconti più riusciti ed emblematici. E che dire del geniale “Equivalenza” dove la condanna a morte per un essere umano è data dal sapere con certezza la data della propria morte anche se a distanza di due secoli?
Seguono rappresentazioni che tendono a criticare la società di massa che appiattisce e omologa stupidamente l’uomo moderno.
I medici e i loro responsi qua e là irrompono con il loro gioco di detto e non detto, con sentenze di morte miseri prolungamenti di vita. Il sogno e la potenza allegorica che richiama, la cattiveria umana, l’arte, le condizioni di vita in città, la montagna, l’auto anche personificata .
E qua e là intravedo pure Dio: bellissimo il racconto “Contestato”. E ancora la vita come droga, ma potrei continuare per molto ancora tale è il ricco catalogo contenuto in questa raccolta.
Vi lascio invece con il misto di gioia, stupore, riflessione e ammirazione che sempre mi accompagna quando leggo questo mirabolante scrittore e allora :”Galoppa, fuggi, galoppa superstite fantasia” la tua caro Buzzati che rimpingui la mia.
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Ishiguro?
Il romanzo diviso in tre parti presenta una voce narrante femminile: Kathy, trentuno anni, assistente da undici in una Inghilterra dei tardi anni '90.
Viene da Hailsham, un collegio immerso nella campagna inglese, e nel ricordare il suo vissuto ci presenta i pochi elementi su cui è basata tutta la vicenda: il suo lavoro, il suo passato, le sue amicizie, la sua infanzia.
Il lettore viene avvolto dal tono confidenziale, già conosciuto e tanto apprezzato da me in "Quel che resta del giorno" e si prepara ad assaporare una storia. In realtà i pochi elementi appaiono subito fumosi, accennati, non chiariti e tutta la narrazione lentamente tende a dipanare il mistero di queste esistenze mentre se ne ripercorre il cammino.
Ci si chiede subito cosa significhi assistente, donatore, quali siano gli scopi e gli sviluppi della storia. Nessun particolare viene offerto del quadro distopico proposto, tutto è taciuto e per me la lettura procede lenta e pesante; nemmeno la storia dell'amicizia mi smuove da un giudizio impietoso: mi sento deprivata del particolare, dello scenario sociale, delle implicazioni etiche, ma soprattutto delle emozioni. Non gioisco, non mi commuovo, non provo pietà, ansia o preoccupazione alcuna: mi invade una noia tremenda.
Riconosco di Ishiguro solo la maestria nel gestire la voce narrante, il resto mi pare una forzatura.
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L’INELUTTABILITÀ DEL DESTINO
Pubblicato postumo nel 1977 e scritto da un giurista che per un’intera esistenza coltivò gli studi letterari, l’opera può ascriversi alla condizione giuridica di lascito testamentario non come atto privato ma pubblico. La pubblicazione ha reso nota la grandezza di uno scrittore che in vita fu restio, accantonato il tentativo letterario con “La veranda”, a darsi un posto nel mondo delle lettere. Lo stesso Satta, celato sotto le spoglie del narratore, scrive e si augura che un momento di lucidità, prima della morte gli impedisca di mantenere vive e pubblicabili le sue parole facendolo così assurgere a certa immortalità.
E invece il romanzo esce ed esce postumo e ci dona il valore di un’esistenza persa dentro altre 7000, quali gli abitanti di Nuoro agli inizi del Novecento, qui rappresentati.
La voce narrante è lui, un giudice in pensione: si cela tra una miriade di personaggi che fa affiorare dalla sua memoria di vita per dar vita ad un romanzo corale dove unico protagonista è il giudice - metafora della solitudine umana - e unico oggetto il giudizio. Il narratore alterna la sua visone esterna all’ottica interna e presentandoci Don Sebastiano, notaio, e la sua famiglia, una moglie e sette figli, ci cala in un mondo che dal particolare assurge all’universale. E mentre il narratore cerca “di fermare onde di ricordi che si accavallano in un assurdo disordine, come se l’esistenza si fosse svolta in un solo istante”, si conosce Nuoro, la sua storia, le sue famiglie, l’importanza della vigna, l’atto della panificazione, il “fiat lux” dell’avvento dell’illuminazione pubblica, il progredire del tempo, dei tempi, degli uomini, dei costumi. E la terra inghiotte gli uomini e le discendenze si succedono e le storie individuali si disperdono in una storia universale e vita e morte si confondono.
Il narratore allora, fatti riaffiorare uomini e ricordi, imborghesito e al limitare della sua esistenza, dal cimitero, ove come in sogno si è recato speranzoso di non essere veduto assurge a “ridicolo dio” e chiama a sé i morti come nel “giorno del giudizio”. Scrivendone la storia si sente non tanto demiurgo quanto giudice e prosegue nel far affiorare uomini e ricordi: i maestri, la scuola, l’episcopio, i monsignori... Diventa quindi giudice di se stesso, gli altri lasciandoli all’oblio della storia e della vita, quando il ricordo soggiunge pungente e diventa anche la richiesta di perdono di un figlio che un giorno rifiutò l’atto d’amore della mamma sì da crucciarsene tutta la vita.
L’ottica straniante attinta dal modulo verista completa l’effetto di smarrimento lasciato al lettore che, scoprendo un piccolo fazzoletto di terra abitata da qualche anima, ritrova la peculiarità di una singola esistenza liquefatta nella moltitudine delle altre.
Un libro sulla morte, un libro sulla vita, una riflessione amara sulla condizione umana che a tratti mi ha ricordato Saramago, un libro sulla solitudine della condizione esistenziale, un libro sulla ineluttabilità del destino che forse alla fine assolve Dio dopo averlo a lungo chiamato in causa e a giudizio.
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Al confine della vita
Pubblicato undici anni dalla fine del conflitto, raggiunse un successo di pubblico per il messaggio pacifista ma fu osteggiato da chi faceva leva sul diffuso malumore su cui si alimentarono il nazionalsocialismo in Germania e il fascismo in Italia.Dire che nel 1933 finì al rogo pare quasi superfluo.
E oggi? Che effetto fa , leggere oggi, quest’opera?
Il 24 maggio ricorrerà il centenario dell’entrata in guerra dell’Italia e spesso ho pensato alla dialettica tra interventisti e neutralisti che animò il nostro contesto storico. Sapere quali ragioni ci portarono al conflitto non è di gran conforto. Visitare i luoghi che oggi sono sormontati da sacrari, campane della pace, lapidi siglate da cronologie troppo brevi, montagne dilaniate dalla presenza bellica, permette di toccare con mano.
Leggere l’esperienza dei nostri dalla penna di Lussu significa scoprire le drammatiche condizioni dei soldati-bambini, dei soldati-contadini, dei ragazzi del ’99 e dell’inefficienza siglata Italia.
Leggere Erich Maria Remarque significa elevarsi a una visione trans- frontaliera.
Siamo sul fronte occidentale non in quello italiano dell’altopiano di Asiago narrato da Lussu.
Se Lussu non si abbandona mai alla denuncia, Remarque invece scrive con l’ottica del reduce, di chi è consapevole che la guerra è stata solo un grande bluff.
Lui partito invasato dalle parole di un suo professore, lui volontario perde e perde tutto. Perde la sua gioventù, perde le sue certezze, perde la “concezione del mondo” che gli avevano insegnato; si mostra fortemente critico rispetto alla sua patria da subito e a maggior ragione dopo dieci anni. Il reduce fa sentire la sua voce e con essa quella di una generazione privata di sogni, bellezza, amore, futuro perché già schiacciata dai conflitti che la grande guerra non ha affatto risolto. Il reduce non ha futuro: chi torna sa già che tutto gli apparirà vuoto e desolante e l ’unica certezza sarà quella della guerra. “Crediamo alla guerra”, il resto è falsità. Gli uomini? “Povere scintille di vita”.
Racconta, descrive, non tralascia i particolari, non concordo con chi vi vede una prosa scarna, da stile giornalistico. Ho apprezzato una scrittura sincera, intrinsecamente commovente, a tratti poetica quando elevata a considerazioni sulla condizione umana. Il realismo è necessario per capire e ringrazio di aver potuto sapere ciò che non si racconta mai.
Mi ha aiutato a capire la drammatica universalità della condizione del soldato, mi ha ricordato quanto sia importante la pace, mi ha ricordato pure quanto siamo indifferenti alla sofferenza che accompagna i nostri giorni. Mi ha commosso e mi ha fatto arrabbiare. Conservo il ricordo di pagine indelebili .
Ne consiglio vivamente la lettura.
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Esordio
Romanzo scritto in venti giorni per partecipare ad un concorso. Romanzo scritto a ventiquattro anni per uscire da se stesso. Scritto che funge da cesura tra ciò che è stato e ciò che sarà. La genesi letteraria dell’autore esordiente e della sua prima opera sono offerte dallo stesso Calvino nella prefazione del ’64 che ora correda le ristampe Mondadori ed è molto importante leggerla per collocare l’opera in quella esperienza letteraria - e non solo- del secondo dopoguerra chiamata Neorealismo.
Il breve romanzo racconta un frammento di vita di un ragazzino ligure inserito in una magica sospensione temporale che ha però una connotazione fortemente storica: gli anni della macchia, gli anni delle ideologie, gli anni delle fratture, degli schieramenti, dei traditori e dei traditi.
Pin è il personaggio letterario, la finzione che condensa in sé tutto questo reale con così pesanti connotazioni storiche. È un bambino quasi ragazzino, è piccolo con modi da adulto: è estraneo a se stesso in quanto bimbo, è estraneo al mondo adulto per le stesse ragioni. È solo come può esserlo un uomo di fronte alla propria coscienza, è schiacciato dalla realtà. Assume un ruolo nella vita e ci riesce con la fantasia, innata nel bambino, anche se è precocemente reso adulto dalla condizione sociale e storica vissuta.
La fantasia alleggerisce la vita, la predisposizione al fantastico crea il mondo magico e segreto dove fanno i nidi i ragni e quello è il suo universo. È luogo di partenza, è luogo di ritorno e di rifugio. E se nella vita cerca solo un amico, non deve disperare, le brutture passeranno e ci sarà sempre il luogo magico ad aiutarlo a digerirle.
Se Pin è ciò che Italo non poté rappresentare direttamente di se stesso in un romanzo neorealista, il sentiero dei nidi di ragno è la letteratura alla quale Calvino si dedicò già orfano, come Pin, per aver ceduto alla penna il suo mondo di ricordi per intrappolarlo in quello della finzione con in nuce la predisposizione al fantastico che poi, ma non totalmente, lo rappresentò.
Se il processo di scrittura, così ben condensato dalle parole di Pavese che lo definì “scoiattolo della penna”, non poté portare ad esito diverso da questo, c’è solo da riflettere sull’onestà di questo autore giovane al suo esordio.
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Fenoglio
Vittorini
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