Opinione scritta da Valerio91
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Brividi D’incanto
Siamo tutti stati in una Joyland. Alle soglie del regno delle meraviglie, palcoscenico per le luci dagli innumerevoli e sfavillanti colori, terra per strambi personaggi dalle stupefacenti e variegate fattezze e per creature fiabesche, che si librano nel loro mondo che sembra materializzarsi come disegnato dal pennello di un fantasioso e magico artista. Quel mondo fatto di divertimento e gioia con le sue macchine strabilianti, di paura e tensione con i suoi castelli stregati e le evanescenti presenze nascoste negli angoli oscuri.
L’aria è pregna degli squisiti odori di zucchero filato e degli hot dog, vibrante dei suoni soavi riprodotti da quei bimbetti estasiati, ed anche della soddisfazione di quei ragazzini cresciuti, ma più nel corpo che nell’animo.
E’ questo il mondo incantato di Joyland, partorito dalla eccellente penna di Stephen King, quel luna park che è stato un po' per tutti oggetto del desiderio e dello stupore dei nostri occhi di bambino.
Il mondo dei “bifolchi” è perfetto scenario per la piacevole storia che lo scrittore ci racconta e che coglie tante sfumature quante sono le sfaccettature del parco che la ospita, talune piacevoli e sfavillanti, altre tenui e dolorose.
E come ogni luna park che si rispetti ha la sua “ectoplasmica” leggenda celata nelle pareti dell’orrore, ogni storia, compresa quella di Joyland, ha il suo “mostro” da sconfiggere. E non è detto che il mostro e l’ectoplasma debbano sempre coincidere.
Stephen King ci porta a Joyland, tra le sue luci, i suoi profumi e i suoi afratti bui, raccontandoci una storia che valeva la pena raccontare, portandoci sulla cima della ruota panoramica, dove sovrastando questo mondo fatto d’incanto, seppur con le sue luci e le sue ombre, ci sembra davvero di volare.
“La gente pensa che il primo amore sia tanto dolce, e lo diventi ancora di più quando il legame si spezza. Conoscerete almeno un migliaio di canzoni pop e country sull’argomento, con qualche povero scemo dal cuore infranto. Ma quella prima ferita è la più dolorosa, la più lenta a guarire e lascia una cicatrice orribile. Che ci sarà di dolce...”
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Paria di cieli e terra
Credo che il fatto che Isaac Asimov sia uno dei padri della fantascienza moderna sia una constatazione ampiamente riconosciuta ed appropriata.
Il caro Isaac è stato un vero e proprio visionario. Le sue idee, avute in tempi in cui le suddette erano assolutamente nuove ed impensabili, sono ancora fonte di forte ispirazione per gran parte delle opere fantascientifiche attuali, partendo dalle altre opere scritte di questo genere, fino ad arrivare ai grandi kolossal cinematografici che si ammassano negli ultimi anni.
Asimov ha avuto, con i suoi cicli (Robot, Impero e Fondazioni), l’ardire di creare un universo vero e proprio, che a differenza di quello di Guerre Stellari, è interamente popolato da esseri umani diventati colonizzatori della galassia, ma non per questo meno interessante e intrigante.
In “Paria dei cieli”, il pianeta natale di questa controversa creatura chiamata Uomo, è ormai una superficie brulla di radioattività, a conseguenza di quella che probabilmente è una delle paure più grandi che si insinua nelle nostre menti, una guerra atomica globale. La Terra non solo non è riconosciuta come la “culla” della civiltà umana, ma i suoi abitanti sono considerati i peggiori reietti della galassia, inferiori, infetti e profondamente odiati. Dei veri e propri paria.
Il fulcro della vicenda narrata da Asimov è proprio questo, l’odio reciproco tra esseri umani, che sembrano incapaci di non odiarsi tra loro, indipendentemente dalle distanze. Possono essere chilometri o anni luce, tendiamo sempre a distruggerci con le nostre stesse mani, accecati da sentimenti negativi. Nel nostro essere così profondamente sbagliati, nascondiamo però, sempre, quel barlume di bene che alberga in qualsiasi cuore, anche il più tenebroso. Quel piccolo spicchio di luce è sempre guidato dal più nobile dei sentimenti, l’amore.
Non aspettatevi un opera colossale come quelle che appartengono al grande “Ciclo delle Fondazioni”, oppure un opera della profondità di “Io, Robot”, ma Asimov, con il suo stile scorrevole, coinvolgente ed accurato, ci porta per un breve tempo nel mondo dell’”Impero galattico umano” da lui immaginato, con una storia non indimenticabile, ma comunque piacevole.
“Invecchia con me!
Il meglio deve ancora venire,
L’ultima parte della vita, di cui la prima è solo il preludio...”
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Fantascienza in generale.
Sinfonie di mare, cielo e terra
Baricco con “Novecento” ci ha regalato una piccola grande opera. Le sue parole scorrono come la musica che Danny Boodmann T. D. Lemon Novecento suona sul suo pianoforte, leggero come l’aria, sulla sua “terra” natia, la sua casa, il suo mondo, quella nave tanto amata, il Virginian.
Quella nave, residenza temporanea di un mondo in movimento, tramite quei suoi così diversi passeggeri, le cui vite sono una sinfonia unica diversa in base alla provenienza, all’esperienza, all’essere. Tutte quelle sinfonie unite in una, quella suonata da Novecento, che il mondo non l’ha visto ma l’ha udito dalle note dei suoi abitanti, abitanti temporanei di quella nave di cui in qualche modo Novecento rappresenta l’anima.
Dalla limitata grandezza della sua nave Novecento osserva il mondo di fuori, così estraneo a lui come lo è l’Oceano per noi, e ci vede una vastità di scelta impossibile da affrontare, come suonare una musica su un pianoforte dagli infiniti tasti. Come scegliere una nota a discapito di un altra? Dai suoi occhi innamorati della vita osserva nel mondo una musica potenzialmente infinita, mentre per noi spesso, nel mondo che ci appartiene, ci sentiamo come se non potessimo produrre un suono, come se di nota non ne avessimo a disposizione alcuna, quando in realtà ci rifiutiamo volontariamente di suonare, di vivere per davvero.
Eppure quel che abbiamo dentro è già di per sé una musica armoniosa, se riusciamo a mettere a posto gli accordi. Ogni uomo con la sua personale melodia, che unita a quella degli altri dà vita a una sinfonia unica che ci identifica, piccola goccia d’acqua nell’immenso oceano dell’universo.
Una piccola imperdibile perla.
“[...] d’improvviso, vedevi il mare. Non l’aveva mai visto prima, lui. Ne era rimasto fulminato. L’aveva salvato, a voler credere a quello che diceva. Diceva:" E’ come un urlo gigantesco che grida e grida, e quello che grida è: ‘banda di cornuti, la vita è una cosa immensa, lo volete capire o no? Immensa.’".”
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Un occhio nelle oscurità interiori
Ho trovato il “mio” autore. McCarthy è profondo come l’oblio, poeticamente crudo e volgare perché è la realtà in cui viviamo ad esserlo, narratore di un mondo senza colore per mezzo di tetre, melmose, sudicie, ma evocative metafore.
Scrutatore interiore degli abitanti di questo mondo, incluso sé stesso, in cui “tutte le anime sono un anima e ogni anima è sola”.
“Suttree” è un cazzotto nello stomaco di quelli davvero forti, perché ci mostra gli anfratti più bui del nostro essere interiore, delle nostre paure, compresa la più fatale, ma se siete abbastanza forti da sopportarlo, avrete tra le mani un capolavoro dove probabilmente leggerete una parte di voi. Cormac McCarthy in quest’opera ci ha scritto una parte di sé, una di quelle che ci accomuna tutti, e l’ha messa in Cornelius “Buddy” Suttree. Non a caso descrivendone gli stati d’animo, capita che lo scrittore passi dalla terza alla prima persona, identificandosi nel personaggio e costringendo il lettore a fare lo stesso.
Si. Perchè Suttree è uno, Suttree è nessuno, Suttree è 7 miliardi di persone. Suttree sarà colui che sta nascendo. Suttree è stato colui che sta morendo.
Suttree sono io con i miei demoni, i miei prezzi da pagare, sono io che cedo alle mie debolezze, alle mie efferatezze, ogni volta con un rimpianto e tante cicatrici in più.
Suttree sei tu quando non sai più chi sei, vagabondo in una terra, in un corpo e in una mente che sembrano non appartenerti, non più.
Suttree è colui che si sente senza Dio, ma che lo cerca solo quando è inghiottito dalle tenebre delle proprie sventure, Dio che volontariamente decide di non trovare, come se essere senza Dio fosse una virtù.
Suttree sono io che non vedo la luce del sole, celata dall’ombra di un infausto passato che passato non è mai, costringendomi a vivere in un presente color cenere pensando ad un futuro color pece, inconscio che per rivedere la luce con quel passato ci si deve riconciliare pur senza dimenticare.
Suttree sei tu che ti rendi conto di come la vita può essere ingiusta e, senza preavviso, ti molli un maestoso pugno sulla faccia sorridente, ma che non manca mai di darti l’occasione per sorridere nuovamente.
Suttree siamo noi che proviamo a tenere a galla quella fottuta barca nel lento e inesorabile fiume dell’esistenza, e quando la morte, coi suoi “cani sbavanti e feroci con una fame vorace d’anime di questo mondo” si presenterà, la fuggiremo gridandole dietro: “Non oggi. Non ancora.”
Capolavoro della letteratura.
“Come ultime parole direi che non sono stato infelice.”
“Ma non possiedi nulla.”
“Forse gli ultimi saranno i primi.”
“Tu ci credi?”
“No.”
“A che cosa credi?”
“Credo che gli ultimi e i primi soffrono allo stesso modo. Pari passu. Non è solo nelle tenebre della notte che tutte le anime sono una sola.”
p.s. Vedere precedenti commenti con un voto così basso e motivazioni assurde mi fa venir da piangere.
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Pelle e ossa
Inutile dire che imbattendomi nella pubblicità di questo libro, la cosa che ha colpito la mia attenzione è stata non il titolo, non l’autore (che apprezzo molto), non la copertina, ma quella frase messa ad hoc, ovvero: “Il seguito de Il collezionista di ossa”. La frase generata dalla mia mente in risposta a quella letta è stata: “Ok. Mio. Subito.”. Dopo il repentino acquisto, mi sono avviato speranzoso nella lettura, tentando invano di immaginare i collegamenti che l’autore aveva potuto fare con uno dei miei thriller preferiti, non senza la paura di avere tra le mani un libro definito come il seguito di un grande libro, solo per una mera operazione commerciale volta a fare soldi. I collegamenti a “Il collezionista di ossa” ci sono, ma forse definirlo un “sequel” è un po' eccessivo. Lo si potrebbe definire più come parte di una serie, con basi comuni e riferimenti alle parti che la compongono.
Seppur non si tratti di un vero è proprio seguito, mi sono ritrovato per le mani un thriller di ottima fattura, dal ritmo incalzante, forse non ai livelli del suo predecessore, ma comunque con degli standard alti. La scrittura di Deaver ti prende, è scorrevole, coinvolgente, con un discreto uso di “cliffhanger” di fine capitolo, imprescindibili in un buon thriller per tenere viva l’attenzione del lettore.
La trama è ben elaborata, non banale, densa di colpi di scena, fortunatamente non di quelli prevedibili dal primo capitolo come se ne incontrano, troppi, ultimamente.
L’assassino con cui il protagonista, Lincoln Rhyme, ha a che fare, “il collezionista di pelle”, è un antagonista interessante anche se, del collezionista probabilmente ha ben poco. E’ soprattutto quello che si cela dietro le sue azioni, i suoi delitti, a intrigare, Deaver è bravo a tenere nascosto al lettore quello che si cela dietro i crimini dell’assassino, soprattutto quella che sarà la vera “nemesi” del detective Rhyme, una nemesi che si rivelerà geniale quanto lui. Una rapporto tra nemici che ricorda un po' quello tra il caro Sherlock Holmes e il suo antagonista il professor Moriarty, una rivalità con alla base un profondo rispetto reciproco dovuto alla consapevolezza dell’immensa bravura dell’avversario.
Per concludere, vale davvero la pena leggere questo “sequel” de “Il collezionista di ossa”, che a quanto pare è diventato capostipite di una serie che non si concluderà con “L’ombra del collezionista”.
Caro Deaver, però, non sono ammessi passi falsi. Col collezionista non si scherza.
“Non importava che questa ipotesi fosse come minimo improbabile. La paura rendeva l’improbabile, perfino l’impossibile, più che plausibile.”
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Thriller in generale.
Metamorfizzato in un mostro
Chiunque abbia mai avuto un cane, molto probabilmente ha provato quasi impossibile non affezionarsi a quelle stupende creature che per il solo prendersi cura di loro, ci ricambiano con un intenso amore incondizionato.
Anche Pallino, protagonista di questo romanzo, prova amore per il suo benefattore, Filipp Filippovic, che lo ha strappato al freddo e alla fame per portarlo in una sorta di paradiso per cani, ovvero un appartamento caldo dove è servito del cibo succulento, apparentemente soltanto per carità, benevolenza, senza alcun secondo fine. Bulgakov fa un ottimo lavoro nel descrivere i pensieri “cagneschi” di Pallino, per mezzo dei quali è narrata la prima parte del libro.
Ma questo secondo fine non tarda a rendersi noto, noi esseri umani, difficilmente non abbiamo secondi fini, e Pallino si troverà cavia di un esperimento, verrà tramutato in un uomo in seguito ad un intervento chirurgico effettuato proprio da colui che amava e vedeva come una divinità. In questo libro ci ho letto un po' di Frankeinstein, l’uomo ambizioso che vuole sconvolgere la natura e sostuituirsi a Dio, per poi rigettare la sua creatura, come se non fosse stata da lui creata. A differenza di Frankeinstein però, nel quale la creatura seppur in superficialità orribile era inizialmente un anima buona, quella creata dal dottor Filippovic sarà fin dal principio una creatura egoista, stramba e problematica, in quanto la creatura di cui stiamo parlando, è un uomo.
Pallino diventa Pallinov, cane diventa uomo e mai metamorfosi fu peggiore. “Trasformare un cane gradevolissimo in una cosa immonda da far rizzare i capelli”, questo pensa del suo lavoro il suo stesso artefice. Eppure ha creato un suo simile. Nonostante ciò, possono esistere creature che ci amano nonostante i nostri difetti umani. Se imparassimo ad amarci gli uni gli altri come quei piccoli esseri amano noi nonostante tutto... cosa sarebbe di questo mondo secondo voi? Ho potuto provarlo sulla mia pelle, lo ho ricevuto questo amore incondizionato, e vi dirò, per me il mondo sarebbe un posto migliore.
“Ma ecco, dottore, quel che accade quando un ricercatore, anziché procedere in totale accordo con la natura, forza un problema e ne solleva il velo! E allora eccovi il nostro Pallinov e godetevelo!”
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Figli di Dio senza Dio
Credevo che dopo le mie prime avventure con i romanzi di Cormac McCarthy, difficilmente sarei rimasto stupito di fronte alla sua crudezza. Mi sbagliavo. Dei suoi romanzi che ho letto, probabilmente “Figlio di Dio” è il più crudo di tutti. Ma come a volte alcune persone ci piacciono per la loro schiettezza, così McCarthy mi piace per questa sua peculiarità: è vero, è reale, seppur deve sbatterti le cose in faccia senza mezzi termini. Ebbene, in questo romanzo avrete a che fare con un vero e proprio mostro, Lester Ballard. Egli è un figlio di Dio, come lo siamo tutti, ma che ha strappato il suo Creatore da dentro di sé, lasciandone nient’altro che minuscoli brandelli. Non conosce morale, non conosce decenza, è schiavo dei suoi istinti. E' un assassino, un vile che trascina sé stesso sempre più nell’oblio, sempre più giù, sempre più a fondo, e sembra quasi che un fondo non ci sia.
Ballard non ha vergogna di sé, egli è senza cognizione del “male”, perché ha estirpato il “bene” dalla sua anima e quindi un metro di paragone non c’è. La differenza per lui non esiste, perché non esistono minuendo e sottraendo. Non può pesare le sue azioni, non può dar loro un valore, non può ispezionare la purezza della sua anima.
Tra le pagine di questo libro lo osserviamo portare avanti la sua maledizione (perché di vita certo non si può parlare), ed è come guardare un animale in gabbia mentre stermina coloro con cui convive e, una volta finito, vederlo strappare a morsi le sue stesse membra. Staremmo fermi lì, a guardarlo, sapendo di non poterlo fermare.
Perchè in fondo siamo tutti figli di Dio, ma alcuni, a volte, nascono con dentro tutt’altro.
Questa è la crudezza di McCarthy e, sapete cosa? Mi piace. Diamine, se mi piace.
“Non sapeva nuotare, ma chi sarebbe riuscito mai ad annegarlo? Sembrava che la rabbia lo tenesse a galla. Come se l’ordine naturale delle cose venisse meno. Guardatelo. Indubbiamente sono altri uomini, uomini come voi, a sostenerlo. Ha popolato la sponda di uomini che lo chiamano. Una razza che alleva gli storpi e i folli, che vuole nella propria storia il sangue infetto di queste creature, e lo avrà. Ma quello che vogliono adesso è la vita di quest’uomo. Lui li ha sentiti cercarlo nella notte con lanterne e grida di esecrazione. Com’è possibile allora che resista? Perchè le acque del torrente non lo prendono?”
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Il collezionista di ossa.
Non tutti i misteri hanno una soluzione
Difficile per la mente umana accettare qualsiasi cosa che non abbia una conclusione, una soluzione. Cerchiamo sempre di trovare qualcosa che possa chiudere il cerchio, che possa fornisci una spiegazione, seppure dovessimo inventarcela di sana pianta. Quella di Colorado Kid è una di queste storie, una di quelle storie nelle quali i fattori ignoti sono innumerevoli, i misteri indefiniti, la soluzione indecifrabile. La scrittura di King è decisamente efficace, scorrevole, ma forse non è stato il miglior romanzo con cui cominciare la mia avventura con la letteratura ‘horror’ del Re del brivido, mi sono lasciato ingannare dalla piccola mole del libro, che mi ha portato alla mente “I Piccoli Brividi”, ricordandomi come potessero essere terrificanti anche le brevi storie dell’orrore se sviluppate bene e con una buona storia e un buon contesto. Beh, forse era la mia mente al tempo fanciullesca a rendere quelle storie più terrificanti di quanto fossero. Quest’opera di Stephen King a mia opinione non può essere definita dell’orrore, sembra più un giallo decisamente poco riuscito, probabilmente anche perché presenta il fattore “mistero irrisolto”. Non fa paura, non crea moltissima tensione, anche se le pagine possono scorrere piacevolmente, seppur suscitando curiosità solo in pochi casi. Questo probabilmente perché della vera storia di Colorado Kid, ovvero la vittima dell’omicidio, veniamo a sapere solo e soltanto le storie costruite dalle menti che hanno avuto a che fare con quella vicenda. Quella di Colorado Kid sarà una di quelle storie irrisolte che non troveranno mai una soluzione, ma probabilmente, una delle meno intriganti.
“Per una donna un uomo è disposto a fare molte cose che, se fosse solo, non si sognerebbe neppure; cose da cui starebbe ben alla larga nove volte su dieci, anche sbronzo e con una schiera di amici a incitarlo.”
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- sì
- no
Utopia o distopia?
Hai mai desiderato vivere in un mondo stabile e perfetto in cui puoi essere perennemente felice?
Ognuno di noi lo vorrebbe. Il Mondo Nuovo immaginato da Aldous Huxley vuole presentarsi come tale. Esso è sorretto da una società divisa in caste, i cui componenti sono destinati all’una o all’altra fin dalla nascita, e felici di appartenervi perché condizionati in tal senso fin dallo stato di embrioni.
Essi non hanno genitori, considerano blasfeme le parole padre o madre, perché appartenenti ad un infelice passato, si, ora tutti gli esseri umani sono creati in provetta e destinati ad una vita, un lavoro e una mentalità specifica. Nessuna scelta, ma nelle loro menti viene inculcata la convinzione di essere felici, pur se membri della casta più infame della società. Una società che offre loro i migliori divertimenti, svaghi, una vita di mantenuta giovinezza fino alla morte, e le voglie più perverse dell’essere umano, se esse lo rendono felice, sono permesse,.
In questo libro ci ho ritrovato un po' di “1984” di Orwell, per la divisione in caste della società e per le privazioni fatte agli esseri umani “per il loro beneficio”, ed un po' di “Le tre stimmate di Palmer Eldritch” di Philip K. Dick per la ricerca della fuga dalla realtà per mezzo di droghe sintetiche.
Gli abitanti del Mondo Nuovo sono creati per essere felici, eppure devono usare una droga, il soma, per “prendersi una vacanza”, o meglio fuggire, da quella realtà che in teoria non dovrebbe generare alcun desiderio di fuga. Eppure lo fanno. Perchè? Perchè il Mondo Nuovo è una distopia mascherata da utopia, dove le persone sono “costrette” a essere felici, ma l’essere umano puro dentro di loro, che non può essere sradicato, non lo è.
Essi hanno barattato la loro libertà di scelta, di fede e di pensiero per una strana sorta di felicità. E’ abolito Dio, è abolita la grande letteratura, è abolito tutto ciò che può generare sentimenti negativi, quindi anche il più grande dei sentimenti, l’amore.
Ma la felicità non è tale senza tutte queste cose. La loro è una felicità impura, ed essi riescono a sopportarla soltanto perché condizionati in tal senso, altrimenti non la reggerebbero, così come non la regge il Selvaggio, colui che viene a contatto col Mondo Nuovo e preferisce il dolore a quella gioia cieca e monca.
“Io preferirei essere infelice piuttosto che avere questa specie di falsa, menzognera felicità che avete qui.” disse.
Bene, hai mai desiderato vivere in un mondo stabile e perfetto in cui puoi essere perennemente felice? Dopo aver letto “Il Mondo Nuovo” la risposta potrebbe essere: “Dipende”.
“La felicità effettiva sembra sempre molto squallida in confronto ai grandi compensi che la miseria trova. E si capisce anche che la stabilità non è neppure emozionante come l’instabilità. E l’essere contenti non ha nulla di affascinante al paragone di una buona lotta contro la sfortuna, nulla del pittoresco di una lotta contro la tentazione, o di una fatale sconfitta a causa della passione o del dubbio. La felicità non è mai grandiosa.”
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Le tre stimmate di Palmer Eldritch di Philip K. Dick
Fahrenheit 451 di Ray Bradbury
Romanzi distopici.
Straniero nella città di Vita
Breve ma intenso e angosciante. Questo è “Lo Straniero” di Albert Camus. Le pagine scivolano via con una velocità disarmante perché è come se tu le subissi come Meursault subisce la sua esistenza.
Partecipiamo a quello che è probabilmente un piccolissimo tratto della vita del protagonista... eppure così intenso. In queste poche pagine il protagonista affronta la morte di una madre ed è attore principale di una serie di eventi che nella vita di un uomo possono essere portatori di emozioni devastanti, di cambiamenti radicali di animo, di distruzione o di felicità.
Ma Meursault è uno straniero di quella città chiamata Vita, la sofferenza non gli porta lacrime, la gioia non gli porta sorriso, non prova empatia. Meursault è un essere che si limita a subire la vita, vittima dell’ambiente e delle persone che lo circondano, sono queste a condurre la sua esistenza, non lui. La sua personalità porta a suscitare nel lettore un angoscia continua, una sorta di astio nei suoi confronti, come può Egli essere indifferente a tutto ciò che gli accade? Come può non reagire? Come può non essere felice o in sofferenza? Questi pensieri naturali del lettore vengono condivisi da chi circonda Meursault, da coloro che lo condannano, eppure anche loro, anche noi siamo in errore. Per quanto possa sembrare inumana tale insensibilità, possiamo condannare un uomo alla pena capitale per questo? Nel giudicare il protagonista, chiunque sembra dare più peso al non aver pianto per la madre, che al fatto di aver commesso un reato. Allora è un reato non piangere per una propria madre, è un reato non gioire nell’avere una persona che ci ama, o è un reato ciò che la Legge considera reato?
Bisogna perciò fare una distinzione. Esistono le leggi degli uomini, e le leggi di Dio. Le leggi degli uomini si interessano di quel che è permesso o meno all’uomo di fare, le leggi di Dio ci sono stampate nel cuore, e sono quelle che ci permettono di giudicarci all’interno di noi stessi, che ci permettono di capire se stiamo agendo umanamente. A Meursault Dio non è mai interessato, da ciò nasce la sua indifferenza, e lui non capisce perchè gli uomini lo condannano per le sue mancanze nei riguardi delle leggi di Dio, ma con le punizioni delle leggi degli uomini. Non dovrebbe essere Dio a giudicarci riguardo alle sue leggi? Nonostante ciò accetta il suo destino, accetta tutto, e seppur nutrisse qualche speranza di salvezza, è sempre una salvezza che decide di non trovare in sé, ma che spera di trovare nel fortuito, nel caso, in una causa esterna, perché anche quando si tratta di salvare sé stesso, non ritiene di essere artefice di una sua eventuale salvezza, crede solo di poterla subire.
E’ un libro angoscioso, che fa riflettere, personalmente, la condotta di Meursault ci fa pensare seriamente a noi stessi ed al nostro approccio con ciò che ci circonda.
Subire la vita è un qualcosa di davvero terrificante. Perciò quando ci troviamo in quei momenti in cui ci abbandoniamo alle difficoltà, sperando soltanto che le cose possano migliorare, senza adoperarci affinché queste possano effettivamente prendere questa direzione, stiamo diventando stranieri in questa strana città chiamata Vita. E se effettivamente doveste farlo, pensate a Meursault, e cercate di riprenderne le redini.
"Come se quella grande ira mi avesse purgato dal male, liberato dalla speranza, davanti a quella notte carica di segni e di stelle, mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo."
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Un mondo di differenze
E’ certo che nella propria mente ognuno di noi abbia un modo proprio di vedere la “normalità”. Quante volte ci siamo imbattuti in persone con atteggiamenti, idee, modi di pensare, modi di agire diversi da noi? Molto spesso probabilmente. Qual’è la nostra reazione? C’è chi risponde alla “diversità” con disprezzo, con indifferenza, con stupore e qualcuno con un raro rispetto.
Orwell nel suo “Giorni in Birmania” ci catapulta in un mondo, in una cultura completamente diversa dalla nostra, in una Birmania durante il periodo coloniale inglese, da lui perfettamente descritta perché vissuta sulla propria pelle come membro della Indian Imperial Police. La Birmania descritta dal suo racconto si discosta decisamente dalla nostra normalità non solo per la cultura estremamente differente del suo popolo, ma anche a causa degli europei e dagli indiani che popolano la Birmania di questo romanzo Orwelliano.
Uomini senza scrupoli, razzisti, ubriaconi, attaccati alle tradizioni e ad i luoghi comuni, donne prive di amor proprio ed interessate solo a prendere marito o a dare in mogli le proprie nipoti, ma anche un barlume di speranza per questa umanità con personaggi che nascondono un barlume di bene nel proprio animo, seppur non mancando di parecchi difetti anche gravi.
E’ una storia decisamente triste questa di Orwell, un saliscendi di speranza, abbattimento, accettazione dell’inaccettabile, il tutto attorniato dai profumi, i costumi e i paesaggi a volte gradevoli, a volte ripugnanti, ma sarà il lettore a giudicarli nell’uno o nell’altro modo.
E’ come se Orwell volesse metterci alla prova, presentandoci quella che è la realtà, birmana, ma anche dell’uomo in generale, come se volesse scrutarci nell’animo, interrogarci. Accetteremmo una cultura differente? Accetteremmo un amore non corrisposto o un matrimonio unilaterale accettato solo per convenienza? Accetteremmo un ingiustizia?
Forse è quest’ultimo l’interrogativo più grande, perché come al solito Orwell ci sbatte in faccia la realtà come nessun altro autore che ho incontrato finora. Le storie d’amore, le storie meravigliose, il lieto fine non gli appartengono, per lui esiste il reale, ma non lo si può definire un pessimista. Forse eccessivamente realista.
In questo suo libro ci mostra la realtà birmana, la realtà dell’uomo, in un miscuglio particolare di Oriente e Occidente nel quale non si riesce a distinguere il giusto e lo sbagliato, il vero dal falso.
Personalmente ci ho visto anche l’affermazione dell’inesistenza di una realtà assoluta, riguardo alla fede, al destino, al karma. Lui mescola tutto, la sua conclusione è un unione di tutto, a voler probabilmente suggerire che alla fine siamo tutti esseri umani e ,nonostante le differenze, tutti abitanti dello stesso strano e talvolta ingiusto mondo.
P.S. Potrebbe farvi nascere una voglia irrefrenabile di visitare l’Oriente, oppure spingervi a starvi lontano. Personalmente? Prenoterei domani il biglietto.
“Ma vivere la propria vita in segreto è una cosa che corrode. Si dovrebbe seguire la corrente della vita, non opporvisi. Sarebbe meglio essere il più cocciuto pukka sahib (gentiluomo bianco) che sia mai esistito, piuttosto che vivere solo e in silenzio, consolandosi in segreto con parole sterili.”
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Metamorfosi esterna o interna?
L’avvenimento imprevisto è un qualcosa che può colpire chiunque. Ma se questo avvenimento modificasse irrimediabilmente la vostra condizione, quali sarebbero le conseguenze sulla vostra vita? Quale sarebbe la vostra reazione, e quale quella dei vostri cari? Gregor Samsa è un commesso viaggiatore, una persona come tante altre, devoto alla famiglia, per la quale lavora mantenendo i suoi genitori e la sua giovane sorella, permettendo loro di vivere una vita dignitosa grazie solo al proprio lavoro. Eppure un giorno, non si sa come, l’avvenimento imprevisto impatta con l’esistenza del semplice Gregor. Egli infatti, si ritrova nel letto trasformato in un enorme ed orribile scarafaggio.
Se accadesse a voi come cambierebbe la vostra vita? Innumerevoli sono le linee di pensiero, e ne “La Metamorfosi” sono illustrate le possibili conseguenze di un tale mutamento, in una visione puramente kafkiana, che ha del terrificante.
Per Kafka, nonostante la dedizione che Gregor ha potuto mostrare per il suo lavoro e per la sua famiglia, nonostante i suoi sforzi e i benevoli progetti futuri, un semplice mutamento ha potuto distruggere tutta la sua esistenza. Troppo preso dalla sua vita e dai suoi progetti, Gregor inizialmente non si rende nemmeno conto della gravità insita nella sua trasformazione, non le dà peso, come se fosse una cosa semplicemente normale, che non intaccasse il proprio percorso esistenziale. Invece man mano che l’ambiente esterno muta intorno a lui, si rende conto della metamorfosi avvenutagli esteriormente ed interiormente. Ma cosa è stato a mutare realmente Gregor? Il suo diventare un insetto, o il crollare di tutte le sue convinzioni, di tutti i suoi affetti? E’ stata la perdita del lavoro, il cambiare dell’atteggiamento da parte dei suoi cari o semplicemente lo spuntare delle sue nuove zampette? La sua stanza diventa una “tana”, ed inizialmente crede che ciò sia meglio, per poter vivere nella maniera più consona la sua nuova condizione. Tutto ciò di cui aveva bisogno nella sua condizione umana, sembrava ora superfluo. Ma dentro quella crosta di insetto c’è pur sempre Gregor, e quelle cose che vogliono fargli credere siano superflue, sono cose alle quali è pur sempre profondamente legato, tanto da aggredire chiunque voglia portargliele via (ne è un esempio il suo attaccarsi a un quadro per impedire che gli venga sottratto). Man mano Gregor è trasformato interiormente, ma stavolta non è l’avvenimento imprevisto a cambiarlo, ma l’atteggiamento dell’ambiente che lo circonda. Chi lo amava, ora quasi lo disprezza e vuole sbarazzarsi di lui. Gregor interiormente non era cambiato al suo trasformarsi in insetto, è stato cambiato dall’opinione degli altri, alla quale fin dall’inizio dava molto peso, e che alla fine ha decretato il suo destino, verso il quale si è reso impotente.
Anche se è difficile, non bisognerebbe permettere agli altri, anche se li amiamo, di cambiarci, nemmeno nel caso ci trasformassimo in orrendi insetti, come Gregor. Accettiamo soltanto le “metamorfosi” che ci imponiamo noi stessi, perchè quelle, a meno di essere dei masochisti, sono quasi le uniche che facciamo a fin di bene.
"Spesso se ne stava lì intere e lunghe notti, senza dormire un minuto e raschiando per delle ore il cuoio. Oppure, senza spaventarsi della fatica, spingeva una seggiola verso la finestra, si arrampicava sul davanzale puntellandosi sulla sedia e vi si affacciava poi, evidentemente per un vago ricordo del senso di liberazione che provava una volta a spaziare fuori con lo sguardo"
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Le corde del cuore
Avete presente quei momenti, quei gesti e quelle parole che una volta vissuti, visti e sentiti, vi causano una stretta al cuore? Entità che infiammano la voglia di vivere, scoprire, gioire, amare?
Questo è "Il piccolo principe".
L'essere umano viene al mondo come una creatura semplice, ingenua ma intenta al bene. La sua predisposizione primordiale è volta alla voglia di vivere una vita che fa dell'amore incondizionato il proprio dogma involontario e imprescindibile.
Potessimo mantenere anche solo in parte quella condizione di cuore e mente! Invece, man mano che cresciamo nelle dimensioni, cresce con noi la nostra freddezza. Quella vita alla quale avevamo regalato tutta la nostra fiducia comincia a darci delle delusioni, esperienze che ci temprano nel dolore e dalle quali usciamo paurosamente indifferenti a tutto quello che aveva avuto importanza, fino a che non sono insorti i problemi. La nostra dedizione a cose complicate e senza importanza cresce di giorno in giorno, mentre le piccole cose vengono messe ai margini.
La risata di un bambino, il piccolo gesto di una persona che amiamo, il profumo di una rosa. Una rosa. Ce ne sono miliardi a questo mondo, così come ci sono miliardi di persone. Il principe ha una rosa, una rosa diversa da tutte le altre; la rosa che lui ha accudito col proprio amore incondizionato e alla quale ha dedicato il suo tempo; la rosa che ha annaffiato e protetto nonostante tutto. Il principe ha una rosa, noi abbiamo persone da amare. Persone che ai nostri occhi appaiono diverse da tutte le altre, persone che dovremmo accudire, persone che dovremmo proteggere nonostante gli errori, gli imprevisti e le paure che ogni santo giorno ci troviamo ad affrontare.
Spesso però non lo facciamo. Abbiamo perso la nostra attitudine fanciullesca e quelle cose che dovrebbero avere maggiore importanza ne hanno meno di altre che, se analizzate a fondo, lasciano il tempo che trovano. I nostri pensieri si arrovellano per futilità e dimenticano che la gioia e la felicità spesso la si può trovare nelle piccole cose e in quelle persone che ci stanno a cuore, che ci fanno stare bene e ci mostrano il bello della vita e si offrono di prenderne il meglio insieme a noi. Il profumo di un fiore, la luce e la bellezza delle stelle, il canto di un uccellino che riecheggia nell'aria limpida. Sono cose che diamo per scontate, ma delle quali spesso non godiamo per lungo tempo. Ci sentiamo vuoti, ci chiediamo cosa manchi nella nostra vita, e spesso la risposta è sotto i nostri occhi soltanto che rifiutiamo di vederla. L'amicizia, l'amore vero. Perchè dovremmo vivere per possedere tutte le stelle, quando potremmo soltanto ammirarle? Perchè vivere nelle nostre paure quando abbiamo un'intera vita da vivere? Perchè privarci delle persone che ci hanno "addomesticato" il cuore, come noi abbiam fatto loro?
Capite cosa sveglia nell'animo quest'opera straordinaria? E non è tutto quello che ha da offrire. Nella mia età adulta, "Il piccolo principe" mi ha addomesticato il cuore, ci è entrato ed è lì che resterà. Per sempre.
Commovente e profondo nella sua immensa ma efficace semplicità.
“Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi.”
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Ognuno ha il suo bagaglio
Le esperienze ci plasmano l’anima più di quello che vogliamo ammettere. C’è chi prova rimorso per delle scelte o delle azioni sbagliate, chi prova rimpianti per quelle mancate, chi prova orgoglio per il proprio coraggio mostrato in determinate situazioni, o vergogna per la pavidità mostrata in altre ancora. Quel che non vogliamo ammettere, molto spesso, è che tutto quello che abbiamo vissuto influenza il nostro presente ed il nostro futuro. McCarthy in “Non è un paese per vecchi” ci mostra quanto il nostro essere sia determinato in buona parte dalle nostre esperienze di vita.
Lo stile dell’autore è come sempre scorrevole e chiaro, anche se in certi frangenti confusionario per quanto riguarda i dialoghi, talvolta si perde la cognizione di quale sia il personaggio che parli.
La trama del libro è intrigante, un uomo si ritrova nel luogo in cui è avvenuta una sparatoria, dovuta a una rapina o un regolamento di conti tra trafficanti di droga. E’ qui che troverà una borsa contenente milioni di dollari in contanti. Quest’uomo, Llewelyn Moss, si impossessa della borsa e sarà, a ragione, bersaglio di chi di quella borsa era possessore, ma anche di uno spietato assassino, che sembra uccidere più per una soddisfazione personale, che per altre motivazioni egoistiche.
Sono i personaggi che, accompagnati comunque da una storia interessante e coinvolgente, hanno catturato la mia attenzione.
L’assassino Chigurh, che maschera il suo essere spietato, psicopatico e privo di sensi di colpa con un’impassibilità non comune agli esseri umani tanto da fare paura; Llewelyn Moss, uomo disposto a rischiare la sua vita e quella della persona che ama in nome del Dio denaro; infine lo sceriffo Bell, che probabilmente è quello che incarna la parte più profonda del romanzo, fin dal suo titolo. E’ un uomo di esperienza, che ha le sue cicatrici, i suoi scheletri nell’armadio, i suoi fardelli che con l’avanzare dell’età diventano troppo pesanti da sopportare. E’ colui che, nonostante ne abbia viste e vissute tante nella sua vita, non smette mai di stupirsi di come questo mondo e gli uomini che lo abitano siano così bravi a peggiorarsi sempre più col passare del tempo. E’ lui che ci mostra che noi siamo il nostro passato, siamo il frutto delle nostre esperienze. Queste ci accompagneranno per il resto della nostra vita, ma non devono impedirci di vivere nel modo migliore il nostro futuro. Saremo sempre accompagnati dagli eventi del nostro passato, belli o brutti che siano. La nostra vita è un percorso, un viaggio nel quale portiamo con noi un bagaglio, nel quale mettiamo la vita stessa, sarà nostro compito renderlo il più leggero possibile, in modo da essere sempre in grado di affrontarlo questo sentiero, fino alla fine.
Da leggere.
"Tu credi che quando ti svegli la mattina quello che è successo ieri non conta. Invece è l'unica cosa che conta. La tua vita è fatta dei giorni che hai vissuto. Non c'è altro. Magari pensi di poter scappare via e cambiare nome o non so cosa, di ricominciare daccapo. E poi una mattina ti svegli, guardi il soffitto, e indovina chi è la persona sdraiata nel letto?"
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Il collezionista di ossa.
Viaggio sbrigativo al centro della terra
Seppur fino a prima della lettura di questo libro non avessi ancora letto nulla di Jules Verne, è un autore che mi ha sempre affascinato. Alcune delle sue opere sono decisamente delle pietre miliari, che leggerò sicuramente a breve dopo questo “Viaggio al centro della terra”.
La scrittura di Verne è semplice, scorrevole e coinvolgente. La storia che ci va a raccontare immagino fosse, per gli standard dell’epoca, decisamente originale, ed una volta giunti alle viscere della terra(non proprio al centro, attenzione), le ambientazioni si fanno a loro volta suggestive e ben descritte dall’autore, che permette al lettore di farsi un immagine se non ottimale, quantomeno ben chiara dei luoghi descritti.
Quello che lascia un po' con l’amaro in bocca è la velocità vertiginosa con la quale si svolgono gli eventi, dalla scoperta della possibilità di arrivare al centro della Terra da parte del geologo Lidenbrock e del nipote, che decifrano del codice runico in tempi degni di Husain Bolt, fino all’ uscita dalle profondità della Terra. Si ha la sensazione che molte situazioni si potessero sviluppare di più e meglio. Un esempio? Ma come, un geologo così affamato di scoperte e di avventure, alla vista, da lontano, di un abitante delle viscere della Terra, seppur di grandi proporzioni, scappa immediatamente a gambe levate? Ma d’altronde dovevo aspettarmelo che, dopo aver incontrato libri lunghi decisamente più del dovuto, ne avrei incontrati altri più brevi di quanto avrebbero dovuto essere.
Nonostante ciò il libro scorre piacevolmente, e veniamo accompagnati nelle viscere della terra dai nostri coraggiosi protagonisti, che ci mostreranno però, che talvolta nemmeno il coraggio più incrollabile, la fame di successo, gloria e scoperte, permettono di superare i limiti insormontabili che la natura ci impone. Ci sono cose che non sono decisamente per gli esseri umani, e mai lo saranno.
Questa recensione è decisamente breve e sbrigativa, ed è una cosa voluta, così da rendere onore al libro e renderne l’idea.
“Ma finchè il cuore batte, finchè i polmoni respirano, io non permetto che uomini dotati di volontà si abbandonino alla disperazione!”
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La fatale ambizione di voler essere come Dio
L'essere umano molto spesso ha grave problema. È ambizioso. Cosa c'è di male in ciò? Vi chiederete. Di base, nulla, anzi, dove andrebbe l'uomo senza sogni da raggiungere? L'intoppo si presenta riguardo il tipo di meta che egli si prefigge. L'ambizione del Dottor Victor Frankenstein è di quelle decisamente pericolose, e nelle pagine di questo libro siamo spettatori del suo raggiungimento, ma soprattutto delle sue conseguenze. Victor vuole assolvere il compito che fino ad allora era spettato solo al Creatore, ovvero generare la vita. Essere capaci di realizzare una cosa però, non implica necessariamente il saperla controllare, e questa nuova vita che nascerà, lo farà a discapito di quella che la ha generata, che sprofonderà nell'oblio. Victor dimostrerà fin da subito di non saper gestire la sua creatura, lasciandola in balia di sè stessa in un mondo di cui non sa nulla, che lo estrania e lo disprezza a causa della sua diversità e della sua bruttezza esteriore. Già. Perché l'essere umano ha un ulteriore problema, ovvero quello di giudicare dalle apparenze. Il mostro di Frankenstein è l'emblema di questo concetto. Inizialmente, infatti, sotto le sue orripilanti fattezze si nascondeva un'anima buona, gentile e innocente. Per quanto la sua anima sia colma d'amore però, chiunque si sia imbattuto in lui riesce giudicarlo solo dalla sua esteriorità, allontanandolo con disgusto. In tal modo, trasformeranno un essere dal cuore gentile in un mostro sanguinario assetato di vendetta. La scrittrice quindi, con la vicenda del mostro di Frankenstein, pone l'accento sugli effetti devastanti che possono avere pregiudizi degli uomini e le disgrazie che travolgono la vita di chi, per eccessiva ambizione, vuole giocare a fare Dio. La scrittura di Shelley è molto chiara, piacevole e scorrevole, non per nulla questo è uno dei grandi classici della storia. Non mancherà di far riflettere, indignare ed emozionare il lettore, e potete essere certi, vi turberà, perché non siamo di fronte a una di quelle storie dove tutto è bene ciò che finisce bene, ma siamo di fronte a una storia dove le scelte che vengono prese hanno delle conseguenze spesso tragiche ed irrimediabili, come nella realtà. Spesso associato all'horror cinematografico, quest'opera andrebbe considerata anche e soprattutto come un approfondimento di alcuni aspetti dell'animo e dei difetti umani, spesso più terrificanti della peggiore creatura mostruosa.
"[...] quando cerco una giustificazione alla nascita della passione che in seguito dominó il mio destino, la vedo sgorgare, come un fiume di montagna, da fonti umili e quasi dimenticate; ma gonfiandosi nel suo progredire, eccola trasformarsi nel torrente che ha travolto nel suo scorrere ogni mia gioia e speranza."
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Realtà alternative soggettive
Molto spesso ci ritroviamo a chiedere a noi stessi, in determinate situazioni passate: “Cosa sarebbe successo se le cose fossero andate diversamente?”.
Anche il visionario Philip K. Dick si è posto questa domanda, ma riguardo avvenimenti molto rilevanti nella Storia, ovvero: “Cosa sarebbe successo se la Seconda Guerra Mondiale fosse stata vinta dai Nazisti e i Giapponesi?”. E’ su questa base che si sviluppa “La svastica sul sole”. Il mondo è dominato prevalentemente dai tedeschi e dai giapponesi, mentre gli Stati Uniti sono ridotti a una colonia. L’idea di base è intrigante e interessante, ma Dick, riguardo ad idee geniali, non si discute. Come di consueto però, il suo stile di scrittura non è perfetto, le sue grandi idee non vengono esposte come dovrebbero e mi sono ritrovato a soffermarmi sull’idea che, se l’autore avesse avuto una capacità di esposizione delle sue idee al livello di altri autori, come Orwell, sarebbe uno dei capostipiti non solo della fantascienza, ma della letteratura contemporanea. Peccato.
Il mondo alternativo dominato dai tedeschi immaginato da uno statunitense non poteva che essere più cupo e oppressivo rispetto a quello attuale, anche se non cupo come quello rappresentato nelle altre opere di Dick. L’autore però, seppur velatamente, ostenta la convinzione che il mondo dominato dall’Asse sia decisamente peggiore di un mondo in cui la Guerra l’hanno vinta gli americani. Come fa questo? Creando il proprio corrispettivo nel mondo da lui immaginato, uno scrittore che scrive il libro analogo a “La svastica sul sole”, ovvero “La cavalletta non si alzerà più”, dove è descritta la situazione mondiale successiva alla vittoria della guerra da parte di americani ed inglesi. Un mondo decisamente migliore, seppur con i suoi difetti, ma privi di oppressione, sangue e discriminazione razziale. Non veniamo accompagnati da dei veri e propri protagonisti, ma da tanti personaggi differenti tra loro, comprimari del mondo e della società nella quale vivono, vera protagonista del romanzo. Manca quindi anche una sorta di coinvolgimento emotivo nei confronti qualche personaggio in particolare, che fa perdere qualcosa di importante al romanzo. Capita spesso di perdersi tra le parole del libro, ma non per immedesimazione, bensì perchè spesso si perde il filo del pensiero dello scrittore, che troppo frequentemente diventa confusionario. La trama di fondo poi, non è eccessivamente coinvolgente, ma credo che questo sia voluto. Dick voleva soffermarsi sull’influenza del mondo nazista nell’anima di tutti i personaggi, così differenti l’uno dall’altro.
A mia opinione però, si poteva fare decisamente meglio. Ora la mia domanda è un altra: “Come sarebbe un mondo in cui la Germania ha vinto la Guerra, immaginato da un tedesco?”
“La Verità, si disse. Terribile come la morte, ma più difficile da trovare.”
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Progresso Incontrollabile
La fantasia di Michael Crichton è senza dubbio all’apice nel suo romanzo più famoso, ovvero questo “Jurassic Park”. Probabilmente il romanzo è meno conosciuto del film, anzi, molti non sono nemmeno a conoscenza dell’esistenza del libro di Crichton. In tal caso però, non sanno cosa si sono persi. Il punto forte del romanzo, oltre al ritmo incalzante e allo stile dello scrittore, che in quest’opera è certamente ai massimi livelli, è senza dubbio la trama, originale, ben sviluppata e resa accurata scientificamente. Come molti sapranno, la storia è ambientata su Isla Nublar, dove John Hammond, fondatore della InGen, ha costruito un parco di divertimenti come mai ce ne sono stati al mondo. Le attrazioni principali non sono infatti montagne russe o case dell’orrore, ma dinosauri in carne ed ossa riprodotti grazie ad innovative tecniche dell’ingegneria genetica. Hammond organizzerà un’ escursione sull’isola portando con sé un paleontologo, Alan Grant, una paleobotanica, Ellie Sattler, ed un eccentrico matematico (il personaggio a mia opinione più interessante), Ian Malcolm. Condurrà questi uomini sull’isola allo scopo di far loro valutare, da esperti, il suo fantastico e innovativo Jurassic Park. Si susseguiranno una serie di eventi catastrofici facilmente deducibili. Il romanzo è eccelso in tutte le sue parti, Isla Nublar, è una delle ambientazioni letterarie che più ho preferito, i personaggi ben definiti, la storia intrigante, coinvolgente e piena di tensione. In particolare una cosa che ho particolarmente apprezzato, che caratterizza le migliori opere di Crichton, è l’accuratezza scientifica con la quale giustifica gli avvenimenti dei suoi romanzi. Come vi spiegate infatti la presenza su un isola costaricana di esseri estinti milioni di anni fa? Crichton lo spiega talmente bene da renderlo plausibile, tanto da farvi pensare che la tecnologia possa prima o poi raggiungere questo obiettivo (anche se speriamo vivamente di no).
Lo scrittore ci rende partecipi del suo pensiero principale, che è presente nella quasi totalità dei suoi romanzi. Si evince infatti dalle pagine di questo libro una sconfinata fiducia e riverenza nei confronti dell’intelletto umano e della tecnologia, è ostentata la consapevolezza dei grandi traguardi che essa può raggiungere, la mente umana non ha quasi limiti. In contrapposizione a questa fiducia c’è però una sfiducia di altro genere nei confronti della capacità dell’uomo di controllare il frutto del proprio intelletto. L’egoismo porta infatti l’uomo a sfruttare i risultati del proprio progresso tecnologico principalmente per trarne un profitto materiale, economico, e il Jurassic Park ne è l’esempio estremo. Hammond vuole creare coi risultati dei propri investimenti un parco di divertimenti popolato da dinosauri, nonostante gli ovvi pericoli insiti in tutto ciò, credendo di poterlo controllare. Ma la natura non si può confinare, nemmeno con tutto il denaro del mondo, ci sono cose che l’uomo non può avere la presunzione di controllare. Quando l’uomo gioca a fare Dio, i risultati non possono essere che catastrofici. E’ questa la critica che fa lo scrittore, e la fa in maniera eccelsa incorniciandola in una storia che a mia opinione è una di quelle più originali e coinvolgenti mai scritte.
"Abitiamo qui solo da un batter d'occhio. Se domani non ci fossimo più, la Terra non sentirebbe la nostra mancanza. [...] Siamo chiari. Il pianeta Terra non è in pericolo, noi siamo in pericolo. Non abbiamo il potere di distruggere il pianeta: o di salvarlo. Ma abbiamo il potere di salvare noi stessi."
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Bioshock: Rapture.
Il 1984 degli animali
Sono innumerevoli le cose che avrei da dire su quest’opera, ma proverò a non dilungarmi troppo.
“La fattoria degli animali” è un vero e proprio preludio a quel capolavoro che sarà “1984”, e le analogie tra queste due opere sono talmente tante che probabilmente ne dimenticherò qualcuna. Ma partiamo dalla trama. Gli animali di una fattoria, verranno incitati dal Vecchio Maggiore, un anziano maiale, a mettere in atto una Ribellione, scacciando gli uomini e instaurando nella fattoria un regime egualitario utopistico. La “Fattoria Padronale” diviene, dopo la sconfitta degli uomini, la “Fattoria degli animali”.
Nonostante inizialmente gli animali si sforzino di mantenere una società dove tutti sono uguali e guidati dai Sette Comandamenti dell’Animalismo, cominceranno a venir fuori le differenze di “classe”. I maiali, gli animali più intelligenti, cominceranno a sfruttare i più deboli (di carattere) tenendo per sé comodità e risorse, lasciando agli altri solo le briciole e il duro lavoro.
Pian piano iniziano a venir fuori le analogie col Socing di “1984”.
I maiali, accecati dal potere, inizieranno a praticare l’ingiustizia, convincendo tutti gli altri di stare operando per il bene comune. Faranno ciò manipolando il pensiero delle masse ottuse e cieche; plasmando per gradi il passato (vi ricorda qualcosa?), facendolo apparire sempre peggiore del presente, quando probabilmente non lo è; variando i dati di produzione ostentando una sovrabbondanza che non c’è e trovando capri espiatori esterni ai fallimenti interni della società, trasformando gli eroi scomodi in traditori utili (Palladineve il corrispettivo di Goldstein). Si instaurerà anche la figura animale analoga al Grande Fratello, verso la quale affluiscono tutti i meriti e le onoreficenze della società, ovvero il maiale Napoleone. Il potere è nettamente passato quindi nelle mani di un’unica specie. E’ qui appunto il punto focale del romanzo, tema importante anche dell’opera che lo seguirà. Secondo Orwell la società sarà sempre divisa in tre caste: Alti, ovvero coloro che detengono il potere; Medi, ovvero coloro che vogliono spodestare chi è al potere, e i Bassi; ovvero il resto del popolo. Ed è proprio questo che vediamo nella fattoria. I maiali (i Medi) spodestano gli umani (gli Alti) con l’aiuto degli altri animali (i Bassi), con promesse di una società e di una vita migliore per questi ultimi. Riuscendoci però non faranno altro che rendere i maiali e i cani rispettivamente gli Alti e i Medi, mentre coloro che appartenevano ai Bassi, tali rimangono nonostante il sangue, il lavoro e le vite perse. Il potere alla fine corrompe tutti. I principi dell’Animalismo non diverranno altro che parole senza significato, modificate a piacimento. I maiali dormiranno nei letti, berranno alcool, uccideranno altri animali per i propri interessi ed impareranno addirittura a camminare su due zampe, come gli uomini, andando contro tutti i principi cardine della Ribellione. L’unica cosa a variare, sono le persone (in questo caso i maiali) al potere. Quella che era diventata la “Fattoria degli animali” dopo la Ribellione, torna ad essere la “Fattoria Padronale”. Questo romanzo è uno specchio animalesco della società, della natura e della mente umana.
Sono perfettamente conscio che questa recensione sia una noia mortale, ma sto amando profondamente Orwell, ha uno stile magnifico, le sue idee sono coerenti e ben esposte, e mi sembrava un delitto non cogliere i suoi messaggi nascosti in un romanzo decisamente godibile anche leggendolo senza soffermarsi sui contenuti di fondo. L’unico rammarico? Orwell, perché non sei stato prolifico come tanti (molti anche inutili) romanzieri contemporanei?
“Non c’era più alcun dubbio su ciò che era successo alla faccia dei maiali. Dall’esterno le creature volgevano lo sguardo dal maiale all’uomo, e dall’uomo al maiale, e ancora dal maiale all’uomo: ma era già impossibile distinguere l’uno dall’altro.”
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Una Terra grigia e terrificante
Quanti scrittori, autori, fumettisti hanno immaginato la fine del pianeta Terra? In quanti innumerevoli modi diversi tra loro hanno descritto la fine del nostro, spesso trascurato, pianeta? Guerre nucleari, epidemie, carestie, alieni conquistatori, alieni costruttori di autostrade intergalattiche... e l’elenco potrebbe continuare per lungo tempo. Anche “La Strada” di Cormac McCarthy ci rende partecipi di un futuro apocalittico della Terra. Ma la cosa particolare è che lo scrittore non si sofferma sulle cause del declino del pianeta, bensì sulla cupezza e sul grigiore delle terre una volta piene di colore e di vita; sull’esistenza dei sopravvissuti, attanagliati da un terrore costante e privi di una qualsiasi voglia di vivere, che portano avanti la propria esistenza per inerzia, solo perché lasciarsi morire, o uccidersi sembra sbagliato, o semplicemente, perché la nostra anima si aggrappa alla vita anche nella peggiore delle condizioni. Nel libro lo scrittore lascia tutto anonimo, volutamente.
Vaghiamo quindi in un pianeta Terra distrutto (non si sa come), in compagnia di due protagonisti senza nome (un uomo con il suo piccolo figlio), in un territorio senza nome (America? Europa? Australia? Chissa.), permeato dal grigiore dell’aria e dal terrore che si presenta in modi differenti, la fame, la sete, il freddo, la pioggia, i sopravvissuti che, resi senza scrupoli dall’egoismo di una vita fatta di ristrettezze, non sono che un pericolo gli uni per gli altri.
L’autore per me in questo libro fa un lavoro egregio, seppur la trama non sia ricca di colpi di scena, le descrizioni di quella landa desolata; l’illustrazione delle ristrettezze alle quali sono costretti i protagonisti, dovute alla mancanza di risorse; il terrore che li circonda e non li abbandona in nessun momento, è descritto da McCarthy in maniera egregia e coinvolgente. Durante la lettura si crea nella mente del lettore l’esatta immagine che l’autore vuole descrivere.
Certe scene sono di una crudezza spiazzante, in alcune parti mi ha portato alla mente anche il grande Edgar Allan Poe, mettendo in risalto l’istinto crudele che si impossessa dell’essere umano che vuole sopravvivere, portandolo ad essere in grado non solo di uccidere un altro, con la forza bruta o rubandogli ciò che ha per vivere, ma anche di cibarsi dei propri simili e addirittura dei propri neonati. Questo istinto forsennato di sopravvivenza, porta all’impossibilità di rifondare una società dalle ceneri, ognuno troppo occupato a sé stesso, a sopravvivere nelle ristrettezze, pronto a sacrificare un proprio simile per un po' di cibo in scatola.
Con il loro vagare, i protagonisti ci mostrano il post-mondo immaginato da McCarthy nella sua interezza, contrapponendo lo spirito egoistico dell’uomo adulto, capace di (quasi) tutto al fine di garantire la sopravvivenza a sé e al proprio figlio, rispetto allo spirito altruistico del bambino, pronto a privarsi del cibo, dei vestiti, per aiutare anche un povero vecchio. I bambini portano il fuoco, da loro riparte la nostra speranza. Non conoscono rancore, odio, egoismo, e forse, se tutti conservassimo dentro di noi qualcosa dei bambini, potremmo impedire forse non a una razza aliena di distruggere la terra per costruire un’autostrada, ma sicuramente di andare incontro all’autodistruzione. In qualsiasi modo essa possa presentarsi.
“E forse oltre i flutti nebbiosi c’era davvero un altro uomo che camminava sulle sabbie morte e grigie insieme a un altro bambino. Dormivano solo a un mare di distanza da loro, in mezzo alle amare ceneri del mondo, oppure stavano in piedi nei loro stracci, rinnegati dallo stesso sole impassibile.”
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Bioshock: Rapture
Le avventure di Gordon Pym
Così va la vita
In “Mattatoio N.5” vediamo la Seconda Guerra Mondiale, ma soprattutto la guerra in genere, con gli occhi di Kurt Vonnegut. Egli fu testimone oculare del bombardamento di Dresda, in Germania. Questo avvenimento storico è probabilmente meno conosciuto di altri celebri massacri, come quello di Hiroshima e Nagasaki, ma sicuramente non meno distruttivo e mortale, anzi, forse anche di più. Lo scrittore ci narra la sua esperienza usando come canale la storia semi-seria e storico-fantascientifica di Billy Pilgrim, superstite di guerra anche se non tra i più valorosi, capace di viaggare, anche se inconsapevolmente, nel tempo, in vari attimi e momenti della sua vita.
Questo libro riuscirà a strapparvi qualche sorriso, ma lo farà trattando argomenti sui quali ,normalmente, c’è poco da ridere, nello stile semplice e non troppo sofisticato dell’autore.
E’ un romanzo anomalo, sicuramente non lineare nello svolgersi degli eventi, i continui e improvvisi viaggi nel tempo del protagonista ci faranno esplorare vari attimi della sua vita, in ordine sparso, ma probabilmente con una logica di fondo per quanto riguarda i collegamenti metaforici che lo scrittore vuole fare tra la guerra ed altri avvenimenti assurdi della vita di Pilgrim.
Pilgrim verrà rapito dalla razza aliena di Trafamaldore, che lo esporrà come esemplare della razza umana in uno zoo intergalattico, volendo mettere in risalto la natura animalesca dell’uomo, presente in ciascun essere, ma mostrata ai massimi livelli nello svolgimento di una qualsiasi guerra, dove gli appartenenti all’opposta fazione di una guerriglia, vengono trattati e considerati come degli animali, appartenenti si alla specie degli esseri umani, ma in qualche modo incomprensibile diversi ed inferiori rispetto a quelli della fazione di appartenenza. La guerra ci livella al più basso grado, rende nota e scatena la parte peggiore di noi, che non si manifesta nemmeno tra i più infimi animali. Eppure i grandi sostenitori della guerra, credono di perseguire un bene superiore, un ideale concreto e giusto, senza capire che la guerra è un atrocità fine a sé stessa. Guerra che provoca morti su morti, senza distinzione tra innocenti, colpevoli, uomini, donne, bambini. Guerra sostenuta e combattuta anche da chi, in fin dei conti, non sa nemmeno per quale motivo debba essere lì, a rischiare di perire tra simili atrocità. Combattuta anche da chi, di questa guerra non sa nulla, in nessuna delle sue sfaccettature tanto care ai signori che la sostengono e la portano avanti.
“Così va la vita.” E’ questa la frase che spesso lo scrittore usa al termine di ogni illustrazione di una qualsiasi atrocità o disgrazia descritta tra le pagine di questo libro. Questa frase rappresenta sì un accettazione delle atrocità che purtroppo sono presenti così nella Storia, così nella vita di ogni uomo, ma nascondono anche una nota di sarcasmo, perché, per quanto le disgrazie possano capitare, molto spesso sono gli stessi uomini a procurarle a sé stessi, per motivi futili o addirittura nulli.
Una volta concluso il libro, ci rimane quell’interrogativo tanto famoso, alle quali tante opere fanno riferimento. Interrogativo che molto spesso dovremmo porci, ma non lo facciamo, oppure, se ce lo poniamo, non sappiamo darvi una risposta immediata e subito ci rinunciamo, mentre ci sarebbe bisogno di una presa di coscienza e di posizione collettiva in merito. L’interrogativo è: ”E’ possibile evitare che tutte queste atrocità si ripetano?”. Ma l’essere umano molto spesso, tende a subire la vita invece di viverla. Le conseguenze, sono note a tutti.
“Dio mi conceda la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare quelle che posso, e la saggezza di comprendere sempre la differenza.”
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Everything burns
I libri, l'informazione, la cultura, sono al bando. Di conseguenza sono bandite le riflessioni, il pensiero, la mente. Gli uomini sono dei gusci vuoti. "Se non rifletti, se non ti soffermi sui problemi, se li ignori, non puoi essere che felice! Divertiti! Puoi avere 4 pareti TV, un'esperienza interattiva unica! Di cos'altro puoi aver bisogno?", sembra dire la società distopica di Fahrenheit 451. I "protettori dell'uomo dalla cultura" sono i militi del fuoco, una sorta di pompieri che invece di spegnere gli incendi, sono pagati per appiccarli. Distruttori dei libri, quindi distruttori della mente. Guy Montag, il protagonista, è uno di loro. Ma il fuoco che adopera per bruciare i libri, presto gli arderà dentro, acceso da Clarisse, ragazzina riflessiva ed aperta al mondo, come più nessuno in quella società dove ognuno pensa a sè stesso e nulla più. Lo svago senza sosta, imposto dalla società, dovrebbe rendere felice Montag. Ma lui è infelice. Il fuoco interiore ormai lo consuma e lo travolge. Perché ogni giorno deve affidare al fuoco quelle pagine? Perché tante persone sono disposte a bruciare con esse? Gli avevano sempre detto che i libri non contengono nulla fuorché sciocchezze! Tutto questo lo divorerà, portandolo ad andare incontro a tutta la sua vita, sua moglie, il suo lavoro, e contro ciò che egli stesso era stato fino ad allora. I libri ci aprono gli occhi sulla realtà, per questo la società vuole distruggerli. Essa ha bisogno di persone che della realtà non si impiccino, perciò li incita a vivere nello svago, in una felicità che tale non è. I "ribelli" della società, con Montag, sanno che la mente e la cultura prima o poi dovranno diffondersi nuovamente, tornare a nuova vita, ma fino ad allora vivranno nell'ombra con esse. Serberanno dentro di sè un libro, ognuno per sè, in attesa che questi possano tornare a illuminare la vita dell'uomo. E noi? Conserviamo un libro nella mente è nel cuore per salvaguardare il nostro futuro? Sicuramente si, perché ci sono libri che ci ardono dentro con la potenza di mille soli.
"I libri erano soltanto una specie di veicolo, di ricettacolo in cui riponevamo tutte le cose che temevamo di poter dimenticare. Non c'è nulla di magico, nei libri; la magia sta solo in ciò che essi dicono, nel modo in cui hanno cucito le pezze dell'Universo per mettere insieme così un mantello di cui rivestirci."
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Cronache Marziane.
Annientamento dell’individuo e della sua umanità
Cosa ci rende umani? Il libero arbitrio? La libertà di pensiero e di vivere una vita privata? L’amore?
Tutto questo nell'anno 1984 di Orwell non esiste. Non vi è libero arbitrio all’interno del Partito. Appartieni ad esso e ai suoi statuti, ai quali non puoi che assoggettarti, non v’è altra scelta. Non sei libero di pensare ad altro fuorché ciò che il Partito vuole che tu pensi. Tradirsi con una parola, con una lettera scritta, con un'espressione del viso, significa annientamento. La vita privata non esiste, il Grande Fratello vi guarda, sempre, ovunque. Non potete amare nessuno. Amore significa entusiasmo, amore significa donarsi anima e corpo ad un altra persona, alla famiglia. Ma l’uomo non ha altro da amare e a cui donarsi se non il Partito. Il Partito è monarca del presente, del futuro, grazie al completo controllo del passato, scritto e riscritto migliaia di volte a proprio piacimento e vantaggio. Ciò che hai visto, vissuto, potrebbe non essere mai accaduto, se il Partito afferma il contrario. Una persona a te cara, potrebbe non aver mai vissuto. Cancellata dalla faccia della Terra come con un colpo di spugna. I tuoi ricordi ti appartengono, ma potrebbero non essere riconosciuti come realtà da nessuno, ed è meglio che tu li tenga per te. Il presente è ciò che c’è sempre stato, ciò che è sempre stato meglio per l’umanità e sempre lo sarà. Ricordi per caso tempi migliori? Non esistono, sono solo frutto della tua mente.
E’ questa la realtà in cui il protagonista Winston Smith vive. Ma il suo essere si ribella a questa condizione, dall’interno del Partito, dall’interno del Ministero della Verità generatore di menzogne, lui si rende conto che l’umanità, la vita, è qualcosa di diverso. Lui non è lobotomizzato come gli altri, ciechi sostenitori di quella società folle. Tutto questo non è stato sempre così. Lo riscopre nel profondo dell’anima grazie all’odore del caffè vero, al sapore del vero cioccolato, così diversi da quei surrogati insapore e inodore forniti da quella società assetata di potere. Lo riscopre grazie all’amore per Julia. Lui sa che l’umanità non è fatta per vivere in tal modo. Ma la fame di potere è un qualcosa che può corrompere l’uomo fino al profondo dell’anima, e nella società descritta da Orwell è ormai fin troppo radicata per poter conoscere cura. La fame di potere non ha alcun fine benevolo, non è per un bene superiore che i totalitari ricercano il potere, ma solo per il potere in quanto tale, solo per avere la consapevolezza di essere superiori e poter governare gli uomini, le loro menti, il loro passato, accecati da un egoismo forsennato. La speranza di rovesciare una società basata su tale odio è vana, non puoi che assoggettarti. E’ come se la Terra non fosse più popolata da esseri umani, ma da una diversa specie che con l'essere umano non ha niente in comune, avendo perso tutte quelle qualità peculiari che lo caratterizzano. Il protagonista affronta lo stesso itinerario di tanti verso la distruzione del proprio io abbattendo a poco a poco le barriere che ci permettono di preservare la natura stessa dell’essere umano. Barriere abbattute dalla sofferenza, dalla paura. Vengono abbattute le nostre convinzioni ideologiche, i nostri desideri di vita e, come ultima barriera viene abbattuto l’amore. Il tradire questo sentimento ci porta alla perdita totale della nostra umanità. Quindi, ora, sappiamo rispondere alla domanda, “Cosa ci rende umani?”, o meglio, “Fin quando possiamo ancora considerarci degli esseri umani?”.
Un capolavoro.
“Non potevano cambiare i sentimenti. Anzi, neppure voi potevate cambiarli, neanche volendo. Potevano portare allo scoperto, fino all’ultimo dettaglio, tutto ciò che avevate detto, fatto o pensato, ma ciò che giaceva in fondo al cuore e che seguiva percorsi sconosciuti anche a voi stessi, restava inespugnabile.”
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Fahrenheit 451.
Purgatorio in terra
Ho conosciuto persone corrotte nel profondo dell’anima, impossibili da cambiare, da salvare. Ho conosciuto persone in grado di rinunciare al vero amore in nome dell’egoismo, di una convenienza che alla fine porta alla rovina, per la perdita di quell’amore. Ho conosciuto persone in grado di amarsi oltre i confini della ragione, oltre la follia, oltre la vita, oltre la morte. Tutti costoro ebbi modo di conoscerli a Wuthering Heights. Questo luogo dove Emily Bronte ci porta, sembra di un altro mondo, quasi ultraterreno, popolato da tante anime corrotte ed alcune, seppur poche, anime pie. Ma le anime che popolano quelle cime tempestose sembrano più in cerca di dannazione che di redenzione, come in una sorta di purgatorio all’inverso, dove l’obiettivo dell’anima è l’inferno e non più il paradiso. Il romanzo scorre via veloce con le sue suggestive ambientazioni, le sue intriganti vicende ed i suoi personaggi carichi di personalità. Ci si potrebbe soffermare tanto su ognuno di questi personaggi, ma mai quanto uno in particolare, ovvero Heathcliff. E’ lui, fin dal suo arrivo da bambino, a rendere Wuthering Heights il purgatorio, con il suo amore folle, ossessivo, vendicativo per Catherine, creatura simile ed egualmente tormentata, anima talmente simile alla sua da lasciare sconcertati. Mai tra le pagine sfogliate ebbi modo di conoscere personaggio di tal fatta, l’odio, la malvagità personificati. Egli è dotato di una cattiveria talmente profonda, che non è possibile giustificarla nemmeno in nome dell'amore palesemente sincero che prova per Catherine. Credo che sia uno dei personaggi meglio caratterizzati tra quelli che ho avuto modo di incontrare, seppur aiutato da un intreccio di eventi intrigante e presentato in maniera impeccabile dalla scrittrice, che ci fa entrare a Cime Tempestose dalla porta principale, e seppur lo spettacolo non sia di quelli che addolciscono il cuore, è comunque uno di quelli a cui fa piacere assistere. Wuthering Heights è palcoscenico di amori impossibili ed ossessivi, ma anche di altri sinceri seppur travagliati. Emily Bronte ci ha mostrato l’amore attraverso un luogo, scenario dei suoi tormenti e delle sue difficoltà, ma infine anche della sua gioia. D’altronde, conoscete sentimento più tempestoso dell’amore?
"[…] né la miseria, né la degradazione, o la morte, o qualunque pena che Dio o Satana potessero infliggere, avrebbero potuto separarci, tu lo facesti di tua stessa volontà. Non io ho infranto il tuo cuore, tu l'hai infranto, e nell'infrangerlo, hai spezzato il mio. [...] Io amo la mia assassina, ma la tua, come posso perdonarla?"
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Manuale del bambino vero
Come dice Calvino: “...viene naturale pensare che Pinocchio ci sia stato sempre, non ci si immagina un mondo senza Pinocchio”.
Tutto vero, giovani e meno giovani, tutti, siamo stati accompagnati nella crescita dallo sventurato burattino, presentatoci in tutte le salse, con svariati film, serie tv, cartoni animati(come dimenticare il capolavoro Disney?), ed infine anche a scuola, in infanzia, essendo un racconto leggero, piacevole ed educativo. Certo è che se ognuno di noi avesse avuto le stesse conseguenze che ha Pinocchio ogni volta che marina la scuola, molti di noi non sarebbero sopravvissuti. Eppure a un certo punto mi sono chiesto: “Se qualcuno mi chiedesse se ho mai letto Pinocchio, potrei rispondergli di si?”. La risposta era no, sapevo tutto di lui, eppure non potevo rispondere affermativamente. Soffermandomi su questi pensieri e considerando la mia mancanza un sacrilegio, ho deciso infine di aprire e scorrere tra le pagine di questo capolavoro senza tempo, che mi ha fatto fare un tuffo nel passato, rievocando nella memoria le tante immagini collegate alle avventure del burattino di legno, che avevo ammirato ma non in carta stampata.
Pinocchio come sempre fa sorridere, anche di più dalla penna del suo creatore, ispira tenerezza ma anche irritazione (seppur come quella di un padre verso un figlio monello) con le sue innumerevoli birichinate che sono la causa delle sue disavventure. E’ un libro perfetto per istruire, contiene molte delle norme morali di base dell’essere umano, da trasmettere ai bambini, tramite un canale così perfetto quale è quello sventurato burattino, insieme ai suoi comprimari, buoni o cattivi che siano, in scena in una bellissima storia ed anche, a mio parere, originale. Sono rimasto infatti sorpreso che qualcuno potesse considerarla banale, ma secondo me potrebbe apparire tale perché, come dicevo all’inizio, sembra che Pinocchio sia sempre esistito. Ma se vi soffermate un attimo sulla originalità della storia ai tempi della sua scrittura, non credete come me che sia bella ed estremamente originale? Siamo bravi a sparare giudizi senza riflettere, ma a mia opinione è un errore non riconoscere la grande fantasia di Collodi, non mi pare infatti che qualcuno prima di lui abbia ideato una storia di tal genere. Non vi sono personaggi in Pinocchio che non si imprimano nella memoria, nel bene o nel male, ma appare infine chiaro quali di questi godano della miglior sorte. Ebbene caro Collodi, con il tuo capolavoro mi sono sentito a tratti tornare bambino, mi hai ricordato che c’è un Pinocchio in ognuno di noi, da bambini, ma anche da grandi. Quell’ingenuità, quel lamentarci di qualsiasi inezia, talvolta la scarsa voglia di fare, accompagnata però alla fine da quella voglia di rivalsa, di riscatto, di amore verso i nostri cari, raggiungendo la nostra piena maturazione, trasformandoci infine in dei “bambini veri”.
“Che nome gli metterò? Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina.”
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Viaggio inconsapevole verso...?
Scrivo queste righe a pochi minuti dalla chiusura del romanzo ed i miei sentimenti dominanti sono un misto di stupore e curiosità, perché questo romanzo nasconde qualcosa di ignoto e celato tra le sue pagine. “Le avventure di Gordon Pym” racconta le peripezie di questo giovane per i mari e le terre antartiche, alle prese con naufragi, ammutinamenti, fame, privazioni, tribù selvagge, violenza e disperazione. Proprio quest’ultima, la disperazione, permea le parti più interessanti ed alte del romanzo. Disperazione motore delle azioni impensabili, preludio della follia. Poe la descrive con una maestria unica, mostrandoci come questa scatena l’origine animalesca ed istintiva dell’uomo, spalancando le porte ad “idee” impensabili razionalmente, come il cibarsi di compagni di sventura e vedendo in questa idea l’unica via per una possibile salvezza da morte certa. Idea che si affaccia alla mente in maniera ossessiva e che l’uomo, nella disperazione, può attuare nonostante la sua terribile natura. Lo scrittore descrive la sua realizzazione in maniera semplice ma assolutamente terrorizzante e straziante.
Straziante come la speranza vana che si affaccia improvvisa tra gli sventurati, trascinandoli in una gioia delirante, ma poi, una volta scoperta la vanità di questa speranza, li trascina nuovamente in un oblio ancor più fitto e profondo, che l’autore ci fa assaporare in maniera magistrale con l’apparizione del vascello fantasma, dimostrando che in certi casi la speranza diventa più un male che un bene. Pensieri cupi vero? Cosa vi aspettavate da Edgar Allan Poe? Io niente di diverso, eppure, come dicevo, mi ha stupito. Perchè? Perchè la storia narrata nel romanzo, nonostante una premessa dell’autore (o del personaggio di “Gordon Pym”, la faccenda è decisamente controversa) sulla presunta “prodigiosa natura delle vicende da raccontare”, scorre con eventi obiettivamente accettabili senza sfociare troppo, o quasi per niente, nel soprannaturale. Eppure a un certo punto tutto cambia, e quando? Quando il lettore mai potrebbe aspettarselo. Le tue convinzioni si sgretolano, come roccia che si trasformi in sabbia. Ci rendiamo alla fine conto che quello del protagonista è un viaggio, ma non sappiamo di che natura, fisica o spirituale, non sappiamo verso dove, e non sappiamo ovviamente cosa alla fine questi raggiunge. E’ qui la grandezza di Poe, ed è per questo che “Gordon Pym”, fa ancora oggi parlare di sé, in un modo o nell’altro.
“...le parole non hanno il potere di imprimersi nella mente con l’orrore vivo della realtà a cui corrispondono.”
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Jules Verne.
Stevenson.
Piacevole e scorrevole (Efficacia Binaria)
E’ palese che si stia cercando di trarre il massimo profitto dal nome di Michael Crichton, cercando di recuperare tutte le sue opere, complete e incomplete, e fornirle al pubblico e agli appassionati. E’ anche il caso di Codice Beta.
In breve la storia è incentrata sul tentativo di un personaggio folle ed estremamente intelligente (combinazione distruttiva), appartenente ad un movimento politico estremista, John Wright, di liberare un gas nervino potentissimo nell’intenzione di uccidere un milione di persone, eliminare un intero partito politico e, giusto per concludere in bellezza, il presidente degli Stati Uniti, tutti riuniti a San Diego. A sventare il suo piano, l’altrettanto intelligente anche se estremamente impulsivo e con un senso della competizione troppo accentuato, l’agente dei servizi segreti John Graves. Tra i due inizierà una sorta di duello di intelligenza, una partita a scacchi senza esclusione di colpi. La trama ovviamente non è delle più originali, anche dello stesso autore, ma il libro, anche essendo breve, scorre via piacevolmente e può offrire qualche ora di buona lettura di intrattenimento. Ovviamente Crichton ci delizia con la sua scrittura sempre scorrevole, ricca di elementi scientifici accurati e chiari, e con tensione sempre abbastanza alta, anche se in questo caso non ai suoi massimi.
Un buon libro per cimentarsi in una lettura spensierata, piacevole, ideale probabilmente sotto l’ombrellone.
Caro Michael, se non fosse per la tua prematura scomparsa, quanto avresti potuto regalarci ancora!
“Non sai già tutto? Il fascicolo parla di te.”
“No, si tratta di ciò che qualcun altro pensa di me, non è la stessa cosa.”
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Discesa nel baratro
Essendomi ultimamente cimentato in molti classici anche impegnativi, ed avendoli trovati quasi tutti capolavori, avevo iniziato a chiedermi se non fosse per una sorta di “timore reverenziale”, che li avessi giudicati tutti positivamente.
Purtroppo per Tolstoj, Anna Karènina mi ha concesso la risposta.
Dopo Dostoevskij, l’altro grande scrittore russo mi ha deluso, sarà che non sono convinto fautore delle storie incentrate sull’amore, ma più per quelle che lo accolgono come una sfumatura, ma Anna Karènina mi è risultato abbastanza pesante, e non solo per questo motivo. Mi ha dato l’impressione di essere lungo di almeno 400 pagine più del dovuto, perchè l’autore si sofferma in maniera troppo, troppo, troppo prolissa e non molto coinvolgente in argomenti che già, almeno per me, non sono molto interessanti di per sé, come i diritti, i metodi di lavoro e la vita dei contadini, la caccia e la politica russa (dell’epoca). E’ ovvio che ogni autore ha il diritto di soffermarsi sugli argomenti che desidera approfondire e che gli stanno a cuore, ma Tolstoj ha avuto per me la pecca di trattarli in maniera troppo fredda e distaccata, anche se obiettivamente precisa e minuziosa, ma senza renderli interessanti con pensieri magari personali e profondi. Inoltre, non riesce ad inglobare questi temi all’interno della storia in maniera omogenea, ma ci si sofferma creando un distacco troppo ampio con le vicende dei personaggi.
Riguardo a questi ultimi inoltre, sono davvero tanti, troppi, molti dei quali anche superflui e che portano confusione. La trama era probabilmente originale per l’epoca, perchè la figura della donna che si ribella alle convenzioni sociali, che condannano rigorosamente la ribellione di Anna alla società in nome dell’amore, non erano certamente qualcosa che si leggeva spesso. Nonostante ciò la storia non mi ha preso. Tornando ai personaggi, i più degni di nota sono ovviamente i protagonisti, ovvero Anna, Vronskij, Kitty, Lèvin e in parte Aleksej Aleksandrovic, ma anche con questi non sono riuscito a “fare amicizia” o provare empatia per loro. Anna, nello specifico, mi è risultata a tratti ripugnante. Sarà perchè l’infedeltà è il peccato che più mi fa ribrezzo, ed Anna, con i suoi comportamenti, i suoi pensieri, la sua anima corrotta, la sua continua ricerca dell’approvazione degli altri nonostante i suoi comportamenti altamente discutibili, mi sono risultati davvero odiosi. Forse il mio pensiero è simile alla società “retrograda” russa, ma per me non c’è attenuante per Anna, nemmeno l’amore per Vronskij che sembra sincero, anche se non trovo nel personaggio quelle qualità tali da far perdere la testa al punto di sacrificare tutto. Probabilmente Anna non amava il marito da quando lo ha sposato, ed il suo errore è questo da principio, ma poi persevera nei suoi errori, sacrificando tutto ciò che fino a conoscere Vronskij le bastava, per poi rimpiangerlo e sprofondare nel baratro, nella follia più totale. Il suo amore diventa morboso, ossessivo, maniacale. E’ certamente uno dei personaggi più controversi che abbia mai incontrato, e ciò che mi ha lasciato, è la consapevolezza di non dover mai prendere alla leggera decisioni importanti, senza ritorno, quale può essere il matrimonio, scegliere la persona con cui dividere la vita. Mai accontentarsi, mai farlo senza convinzione, senza amore sincero e certo. Da certe decisioni non si può tornare indietro, o meglio, si può, ma spesso le conseguenze che ne derivano possono essere fatali, ed esser molto peggiori dalla realtà dalla quale scappiamo, apparentemente inseguendo qualcosa di migliore.
“Io conosco matrimoni felici soltanto per ragionamento.”
“Si, ma in compenso quanto spesso la felicità dei matrimoni per ragionamento vola via come la polvere, proprio perché compare quella passione che non avevano ammesso!”
La strada per la felicità
Quante volte abbiamo ripetuto a noi stessi: “Capitano tutte a me?” Spesso vero? Succede anche a me. Eppure, considerando le avventure di Oliver Twist, consideravo le mie “peripezie” un inezia, confrontate con quelle del piccolo orfano. Aver perso i genitori infatti, è solo il primo dei suoi guai, che comprenderanno maltrattamenti, fame e miseria nella prima infanzia nell’ospizio, l’arruolamento (non voluto) in una banda di ladri londinesi, l’allontanamento dalle uniche persone che verso di lui avevano mostrato un po' di bontà e gli avevano reso un minimo di felicità, da parte di nemici oscuri, che inizialmente inquadriamo come semplice sfortuna. Chi di noi può vantare un simile curriculum di disgrazie? Pochi probabilmente. Eppure Dickens, con la sua scrittura piacevole, scorrevole, nel raccontare la storia del piccolo Oliver, ci vuole mostrare che per i cuori nobili e intenti al bene, la felicità, anche se tarderà ad arrivare, ci sarà, così come la punizione per i malvagi. E sarà la felicità più pura, perchè raggiunta con la nobiltà d’animo e libera da rimorsi di coscienza o da tormentosi ricordi. Infatti, seppure i ladri e i criminali possano aver conosciuto momenti di vita fortunati, questi non saranno mai di pura felicità, perchè la coscienza umana, per quanto corrotta, è pur sempre basata sulle leggi di Dio, ed i malvagi, pure nei periodi di miglior fortuna, la sentiranno, seppur in minima parte, far valere le sue ragioni, minando la pienezza della loro felicità. E’ questo il principale messaggio che Charles Dickens ci trasmette, e lo fa con i suoi personaggi perfettamente caratterizzati, ognuno con le sue virtù ed i suoi vizi, contrapponendoli in due fazioni, le più classiche, il bene e il male, con l’immancabile estraneo all’interno di entrambe.
Alla malvagia fazione appartengono l’ebreo Fagin, ladro avaro e senza scrupoli, che non comprende le sofferenze che crea fin quando non ne è vittima, l’assassino Sikes, uomo di malvagità pura senza traccia di amore, che nonostante sia in alcuni momenti tormentato dalla memoria delle sue efferatezze e dei suoi delitti, non ne interrompe il ciclo, peggiorandosi gradualmente invece di migliorare. Ai malvagi appartenne anche Nancy, uno dei personaggi più degni di nota, che in fondo al cuore possiede quel barlume di bene, che permette di fare giustizia al piccolo Oliver. Questa sua buona azione, le offre l’opportunità di redimersi e di iniziare una vita onesta, Nancy però la rifiuta, a causa di un attaccamento morboso al passato, per una paura inconscia del futuro e del cambiamento, che, anche nella nostra vita come in quella di Nancy, non può portare che pessimi risultati. Alla benigna fazione appartengono ovviamente il piccolo Oliver, nobile di cuore, che non mancherà spesso nella sua innocenza e nella sua dolcezza di strapparci qualche sorriso e qualche emozione, e tutti coloro che si lasciano intenerire da questo piccolo giovine, aiutandolo con amore a trovare la felicità mai vissuta se non raramente, tra cui il signor Brownlow, la signora e la signorina Maylie e il dottor Losberne.
Oliver rappresenta un po' tutti noi, alle prese con le difficoltà e le disavventure della vita, alle prese con il nostro Fagin (malvagio) di turno, e sorretti dai nostri Brownlow e Rose, che ci aiutano e ci sorreggono accompagnandoci nella nostra strada verso la felicità, che sarà completa accompagnandoci a una condotta pura e un cuore nobile come quello del piccolo Twist.
“...senza un affetto sincero e l’umanità del cuore e la gratitudine a quell’Essere il cui codice è grazia e il cui grande attributo è la benevolenza verso tutte le cose che respirano, la felicità non può esser mai raggiunta.”
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Dan(te) Brown’s Inferno
“I luoghi più caldi dell’inferno sono riservati a quelli che in tempi di grande crisi morale si mantengono neutrali”. L’autore del celebre “Codice Da Vinci” si conferma Re indiscusso del genere thriller, al punto da farci ringraziare il cielo che non sia particolarmente prolifico, perchè a differenza di altri scrittori che sfornano uno o più libri all’anno di qualità discutibile, Dan brown si fa attendere, ma non sbaglia un colpo.
E’ anche il caso di Inferno, che attinge a piene mani dall’omonima opera di Dante, ispiratrice di questo thriller dai ritmi elevatissimi.
Dan Brown non perde il suo stile inconfondibile e perfetto per il genere, coinvolgente, veloce, intrigante, ricco di colpi di scena e soprattutto caratterizzato dall’ “ansia di fine capitolo”, ovvero la sensazione di non poter fare a meno di leggere il capitolo successivo, qualità non da poco per un libro del genere, inoltre l’abilità che ha Dan Brown di ribaltare le situazioni nel corso della lettura è davvero inimitabile.
Tutto è incorniciato da delle ambientazioni fantasticamente suggestive, come di consueto nei libri dell’autore, che in questo specifico caso sono Firenze, Venezia e Istanbul (scusate se è poco), che l’autore descrive con la sua solita minuziosità e cura senza mai essere pesante.
Forse rispetto al “Codice” e ad “Angeli e Demoni” è quello meno ricco di mistero, ma non meno intrigante, e, anche nel contesto spesso frenetico delle pagine, non manca di farci soffermare su determinati argomenti, principalmente, alle conseguenze della sovrappopolazione del pianeta, che è uno dei tanti argomenti su cui bisognerebbe soffermarsi, ma che prendiamo spesso sottogamba.
Il vero punto di forza del libro però, è proprio l’opera che ispira l’opera, ovvero il capolavoro di Dante Alighieri, l’Inferno della Divina Commedia, affascinante come sempre. Dan Brown la rende quantomai intrigante, inserendola nella originale trama di questa sua ultima fatica, suscitando nel lettore il dubbio di aver forse sottovalutato la Grande Opera dello scrittore fiorentino, da molti di noi tanto odiato tra i banchi di scuola. Personalmente mi ha portato a riconsiderarlo, non a caso, ora ho iniziato la lettura della Divina Commedia.
Dan Brown non si smentisce mai, se poi decide di allearsi con un grande come Dante, allora non ce n’è per nessuno.
“La via del paradiso passa per l’inferno.”
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Glenn Cooper
Thriller
Passione, Fede e Ragione
Dostoevskij era un grande filosofo, conoscitore dell'animo umano e dei suoi tormenti, oltre che uno scrittore e letterato d'altri tempi. Ne "I Fratelli Karamazov" racchiude ed espone la sua immensa conoscenza dell'uomo e dei suoi sentimenti, della società e della vita, trovando nella storia narrata un mezzo per discorrere con il lettore riguardo tutto ciò.
Protagonisti indiscussi sono, ovviamente, i tre fratelli, figli di Fedor Pavlovic Karamazov.
Ognuno di essi racchiude in sè "l'abisso", inteso come esempio più puro e profondo di determinate qualità. Il primo fratello, Dmitrij, rappresenta la passione irrefrenabile, passione che se non dominata dalla mente e dalla morale, può portarci nella sua frenesia a compiere i peggiori misfatti, trascinandoci nell'oblio. Ivan, il secondo, è la ragione, ragione portata all'estremo, che non lascia spazio al cuore, sopprime l'amore e la fede in Dio, portandoci a rigettarLo alla ricerca di una società perfetta priva della Sua presenza. Ragione che porta però, ad una inevitabile follia. Infine, Alesa, rappresentante della fede più pura, che racchiude in essa tante altre qualità, quali amore, bontà d'animo, onestà.
Oltre questi, protagonista è anche la donna, qui impersonata da Grusen'ka, la donna, scatenatrice di passioni, emozioni e gesta folli.
Lo scrittore, nello esaminare e sviscerare le personalità di questi personaggi, ci fa scorgere le affinità che abbiamo con loro, permettendoci di scrutare dentro noi stessi.
Il libro ci scuote, ci sorprende, perchè a volte troviamo stampati i nostri pensieri, le nostre emozioni, le nostre paure in determinati momenti della nostra vita, come se lo scrittore ci conoscesse e sapesse come ci sentissimo e cosa pensavamo nello specifico in quei momenti. Ma non è questo, la verità è che gli uomini, seppur diversi gli uni dagli altri, racchiudono dentro sè stessi le medesime qualità. Non sono queste a cambiare da uomo a uomo, ma semplicemente la quantità presente in noi di ognuna di esse. Il modo di interagire tra loro, e il prevalere dell'una o dell'altra determina le nostre azioni e il nostro essere.
Non è un libro per tutti, è un libro introspettivo, contenente la filosofia dello scrittore, che ha racchiuso sè stesso, e un pò anche tutti noi, in questa sua ultima opera. Vi sconcerterà in certe sue parti, come nel capitolo del Grande Inquisitore, giustamente considerato da Freud uno dei più grandi pezzi di letteratura di sempre.
Imperdibile per chi, come me, intende la lettura non solo come intrattenimento, ma anche, e soprattutto, come cultura.
"E direi, in me c'è tanta di questa forza, ormai, che io prevarrò su ogni cosa, su tutte le sofferenze, non per altro che per dire a me stesso di continuo: io esisto; mi dibatto nella tortura, ma esisto! Sto legato al pilastro ma esisto pur sempre, vedo il sole, e se il sole non lo vedo, so che c'è. E saper che c'è il sole, è già tutta la vita."
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Psicologia.
Classici.
The Third Piece
Ed eccoci qua. Terzo appuntamento con Zafòn e la sua serie del Cimitero dei Libri Dimenticati. Terzo pezzo del puzzle che si aggiunge al quadro.
Parto dal dire che probabilmente è quello che dei tre mi ha preso meno.
Ciò non vuol dire che non mi sia piaciuto. Mi spiego meglio. “Il Prigioniero del Cielo” ha l’aria di essere un romanzo di transizione, dove incontriamo facce conosciute e realizziamo i collegamenti che queste hanno tra loro. Scopriamo che Fermìn è legato alla nostra vecchia conoscenza David Martìn, ed il quadro comincia a farsi decisamente più chiaro. Ho l’impressione che questo romanzo sia una sorta di preparazione al lettore per il gran finale, che promette di essere un grande libro. Proprio perché è una sorta di preparazione al seguito, che questo libro perde un po'. Vi spiego. Punto uno, Il caro Zafòn che ho imparato ad apprezzare molto nelle sue ultime opere da me lette, ha perso un po' di smalto nella scrittura, mi è sembrata molto sbrigativa, il libro è decisamente meno poetico degli altri due, soprattutto de “L’Ombra del Vento”. Punto due, essendo appunto un romanzo di transizione, non ha una trama consistentissima, abbiamo il losco figuro all’inizio del libro che ci ricorda un pò il caro Juliàn Carax, che sembra promettere bene, ma che alla fine non soddisfa le aspettative che crea con la sua entrata in scena pittoresca. Punto tre, il romanzo finisce presto, perché è si di piacevole lettura, ma è a mio parere un po' breve, anche se dalle dimensioni del libro non si direbbe(il trucchetto dei caratteri grandi).
Da tutto questo può sembrare che il libro non mi sia piaciuto, non è così, è un bel libro, ma credo possa essere apprezzato solo da chi ha letto gli altri due, perché la parte più bella del libro è appunto ammirare tutte le connessioni che si creano tra i personaggi dell’opera presente e di quelle passate. Per quanto Zafòn si sforzi di creare opere distinte tra loro, cioè che possano essere lette anche da sole e non necessariamente in ordine cronologico, ci è riuscito con i primi due, ma qui, mi tocca dire che non ci è riuscito appieno. Perchè? Soprattutto perché si sofferma sul passato di Fermìn, personaggio a noi molto caro, ma che abbiamo imparato ad apprezzare soprattutto nel primo libro. Da sola, e lo sottolineo, da sola, la storia è un po' scialba, e mettendomi nei panni di chi dovesse leggere questo per primo, rimarrei non poco frastornato e confuso. Io, avendo letto i primi due, ne sono rimasto ammaliato ed ho apprezzato molto i nuovi scenari che si sono creati tra i protagonisti. Il mio consiglio finale è, leggete questo libro assolutamente, ma vi prego, leggete prima “L’ombra del vento” e “Il gioco dell’angelo”. Caro Zafòn, ora tocca a te, stupiscimi con l’ultimo capitolo di questa serie di opere che devo ammettere sia di quelle che preferisco in assoluto.
“Deve pensare che sono uno stupido Fermìn”
“No, credo che lei sia un uomo fortunato, almeno in amore, e che, come quasi tutti quelli che lo sono, non se ne renda conto.”
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Il gioco dell'angelo.
La vendetta è fredda e indigesta
Provate a immaginarvi in questa situazione. State per sposarvi con la donna che amate, state per raggiungere l’apice della vostra carriera, avete una famiglia e tanti amici che vi amano e vi stimano. Bello no? Immaginate ora che dei nemici silenziosi, invidiosi della vostra felicità, innamorati della vostra futura sposa, ordiscano contro di voi un complotto per strapparvi a tutto ciò che avete. Dalla felicità vi butteranno ingiustamente nell’oblio, facendovi marcire per 14 anni nelle segrete di una prigione, a patire la fame, la solitudine, il buio, e cosa peggiore, convivendo col pensiero che tutto ciò che avevate di buono al mondo, va avanti senza di voi.
Se siete riusciti ad immedesimarvi in questi pensieri, avrete non poca empatia nei confronti di Edmond Dantès, protagonista di questa opera storica, giustamente posta tra i migliori classici mai scritti. Una raccomandazione, non lasciatevi assolutamente spaventare dalla mole del libro, pensate che invece di leggerne due, ne leggete uno, ma ne varrà sul serio la pena. Inutile dire che la scrittura di Dumas rende chiaro l’abisso che c’è tra la cultura degli scrittori dei suoi tempi, rispetto agli scrittori attuali. Dumas ed i suoi contemporanei erano dei veri intellettuali, oggi invece chiunque sia in grado di impugnare una penna crede di poter scrivere un libro. Ma questo è un altro discorso, passiamo alle emozioni che il libro suscita.
Edmond Dantès, arricchito culturalmente ed economicamente dall’abate Faria, suo compagno in prigione dall’immensa saggezza, fugge per consumare la sua vendetta lenta e perfetta nei confronti di coloro che gli hanno rubato l’amore della sua vita, che hanno lasciato morire di fame il padre e che ora vivono una vita di lusso e ricchezza nonostante le loro cattive azioni. Sorprende il cambiamento che Edmond mostra, diventando il Conte di Montecristo, una figura quasi divina, dotata di un sapere e una ricchezza immensi. Il Conte è spietato, silenzioso, talmente potente che egli stesso crede di poter essere lo strumento di Dio per attuare la sua giustizia, mano a mano che la sua vendetta si compie. Ma Edmond è ancora vivo nelle profondità del conte, prova ancora amore, anche se non vuole ammetterlo, pietà per coloro sui quali la sua ira si abbatte implacabile, perché in fondo, è molto diverso da loro, ed il modo in cui vuole distruggerli uno ad uno, lo fa sentire allo stesso livello di questi ultimi, provocandogli non pochi rimorsi. Edmond rappresenta alla perfezione l’animo umano, che una barca malmessa buttata alla deriva da una tempesta di sentimenti. Siamo spettatori delle ansie di tutti i personaggi, che assumono ognuno la propria personalità ben distinta e definita, ne amiamo alcuni, ne odiamo altri, Dumas è molto bravo a renderne chiari i tratti. Inutile dire che la storia è affascinante, ed ogni pezzo del puzzle piano piano va ad incastrarsi alla perfezione.
E’ un libro che da tanto spunto di riflessione sui temi più svariati, l’amore, la vendetta, l’amicizia, l’onore, e ci fa vedere stampata su carta la mentalità, le usanze, le idee che si avevano in quel periodo storico, così lontano da noi non solo per il tempo che è passato.
Inutile dirlo, è un libro assolutamente da non perdere.
“Non v’è né felicità né infelicità a questo mondo, v’è la comparazione tra una condizione e l’altra, nulla più. Solo colui che ha conosciuto l’estrema sventura è in grado di provare l’estrema felicità. Bisogna aver desiderato morire, per sapere quanto sia bello vivere.”
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The Second Door
Zafòn in un’intervista ha definito la tetralogia del Cimitero Dei Libri Dimenticati una sorta di labirinto di 4 storie, storie che si concatenano tra loro creando nel lettore un esperienza emotiva particolare. Definisce ogni libro come una porta di ingresso differente alla stessa stanza.
Che dire, non posso che ammirare la coerenza di quello che ho letto con le parole dello scrittore. Non vi aspettate che le storie siano palesemente collegate fra loro, l’idea di Zafòn era infatti quella di rendere possibile la lettura di ciascun libro indipendentemente dagli altri. Avendo però letto anche gli altri si ha un esperienza diversa. La sua seconda storia viene collegata alla prima soprattutto attraverso alcuni personaggi, che fanno da punto di collegamento, personaggi che abbiamo conosciuto bene o solo sentito nominare nel primo racconto, che fanno la loro apparizione più o meno approfondita ne “Il gioco dell’angelo”. Il protagonista della storia è Davìd Martìn, ragazzo dall’infanzia e adolescenza difficile che sogna di diventare uno scrittore. Questa opportunità gli viene offerta da un editore misterioso, tale Andreas Corelli, la cui casa editrice sembra non esistere. Lo stesso editore è circondato da un aria di mistero e minaccia, nascosta dai suoi apparenti modi cordiali. Affiderà a Martìn il compito di scrivere un opera mastodontica, la cui stesura porterà la vita dello scrittore alla deriva.
Anche in questo romanzo, Zafòn ci presenta un mistero di “background”, come quello che avvolgeva Juliàn Carax ne “L’ombra del vento” (seppur con minore spessore rispetto a quest'ultimo), il cui protagonista è Diego Marlasca, precedente inquilino della casa di Martìn, che sembra aver avuto, anni addietro, la stessa offerta dallo stesso misterioso editore, Corelli.
La scrittura di Zafòn è come sempre coinvolgente ed emotiva, con un ottima caratterizzazione dei personaggi, che ci lasciano sempre qualcosa di sé stessi, e che restano più impressi nella memoria, anche se secondari, rispetto a molti protagonisti delle opere di altri autori.
Credo che Zafòn sia riuscito nell’intento di creare una “sua” Barcellona, con le sue storie da raccontare, tutte legate tra loro, nelle quali si respira la stessa aria. Ne “Il gioco dell’angelo” lo scrittore spagnolo dà più spazio al soprannaturale, impersonato soprattutto nella persona di Andrèas Corelli, ed è forse questo il punto che mi ha lasciato qualche perplessità, perchè in certi punti mi sembra si usi il soprannaturale per permettere qualche “forzatura” di troppo nello svolgimento della storia. D’altronde mi è sembrato che nel primo romanzo della tetralogia, si giocasse sì con il soprannaturale, ma smentendolo mano a mano che i fatti venivano a galla. In questo libro invece il soprannaturale non viene smentito ma preso come parte della storia da raccontare, quindi se devo trovare un unico punto di incoerenza di questa opera con la precedente, direi che è questo. Ciò non toglie che la storia sia avvincente e ben raccontata, davvero un bellissimo seguito che non delude assolutamente, ma probabilmente non raggiunge i livelli del suo predecessore.
Per chi decidesse di leggerlo, voglio dare un consiglio che sembra scontato, ma che è meglio dare. Nonostante l'opera sia apprezzabile anche da sola e non è necessario leggere il predecessore per capirne la storia, leggete prima "L'Ombra del vento". E' vero quel che dice Zafòn, avrete un esperienza emotiva diversa e apprezzerete di più "Il gioco dell'angelo".
"Sa qual è il bello dei cuori infranti? [...] Che possono rompersi davvero soltanto una volta. Il resto sono graffi."
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Fear and Madness
Inutile dire che Agatha Christie ha meritato ampiamente il titolo di regina del giallo.
Senza ombra di dubbio “Dieci Piccoli Indiani” può essere definito il suo capolavoro, incarna perfettamente quella che è l’essenza di questo tipo di opere. Non credo infatti di aver letto un giallo più “puro” di questo (attenzione, non ho detto bello). Partiamo dalla trama. Otto persone, molto diverse e apparentemente con nessun legame tra loro, vengono invitate in una villa su un isola a forma di testa di negro. L’invito proviene da un misterioso individuo, il signor Owen, che, non essendo presente, ha lasciato due domestici ad attendere i suoi invitati. I contatti con la terraferma, dato il maltempo, sono interrotti, e la paura inizia ad attanagliare la mente degli ospiti fin dall’inizio, quando trovano in ognuna delle loro stanze una filastrocca che inneggia alla morte di “dieci piccoli negretti”. In quella casa, sono proprio in dieci. Quando uno degli ospiti morirà nello stesso modo descritto nella prima parte della filastrocca, la tensione si trasformerà in panico. La Christie scrive molto bene, e riesce a suscitare nel lettore la voglia di leggere il libro tutto di un fiato, non ha risparmiato nemmeno me. Questo è dovuto al fatto che la trama è molto bella e originale, sviluppata dalla scrittrice in modo perfetto. Riusciamo a comprendere e assaporare le paure dei personaggi, a respirare l’aria tetra che permea quella bellissima villa da incubo. Il susseguirsi degli eventi è un crescendo di tensione, assisteremo alla follia dilagante tra gli ospiti, che sarà sempre più evidente pagina dopo pagina. Quello che più mi ha colpito di questo libro è che la Christie ci rende spettatori delle reazioni dell’animo umano di fronte al pericolo, un pericolo silenzioso, che rimane nell'ombra, ma sembra onnipresente. Gli uomini, per quanto possano essere diversi gli uni dagli altri, reagiscono in maniera molto simile quando minacciati della propria incolumità. L’uomo diventa egoista, dubita di chiunque gli sia accanto, è disposto a tutto pur di salvaguardare la propria sopravvivenza, e quando questa diventa irrimediabilmente compromessa, la mente si rifugia nella più totale follia per sfuggire all’accettazione della morte inevitabile.
Agatha Christie riesce a creare la situazione perfetta per scatenare e descrivere tutto questo, lo fa in maniera davvero sublime e coinvolgente.
Concludo con un commento strettamente personale... che potrete condividere o meno, questione di gusti. La Christie è senza dubbio la regina del giallo, ma il Re è Conan Doyle col suo Sherlock Holmes e, normalmente, è il Re a detenere il potere. Non fraintendetemi, è un modo come un altro per dire che preferisco Conan Doyle, ma tanto di cappello alla Christie.
“[...] Solo, il povero negretto
in un bosco se ne andò:
ad un pino si impiccò,
e nessuno ne restò.”
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Spunto per riflessioni profonde
Adesso è ufficiale, Zafòn, è uno scrittore che mi piace molto.
Riesce a dare anima e consistenza alle pagine che scrive, a coinvolgere il lettore nella storia ed a creare in lui una connessione con i personaggi, perlomeno i principali che popolano i suoi libri.
“Marina” come “L’ombra del vento” riesce in questi intenti, la sua lettura è molto piacevole e veloce. Le descrizioni di ambienti e personaggi, dettagliate ma non prolisse sono un piacere per la mente, ci sono pochi scrittori che riescono a farmi entrare nelle realtà che vogliono descrivere come ci sta riuscendo lo scrittore spagnolo.
“Marina” è ambientato nella sua tanto amata Barcellona, e vede come protagonisti Oscàr Drai, ragazzo che studia in un collegio, e la sua nuova amica Marina, bella quanto enigmatica, così come suo padre Germàn. Tra di loro nascerà un legame molto forte che si rafforzerà sempre più mentre cercano di scoprire il mistero che avvolge una tomba senza nome sulla quale è raffigurata una farfalla nera. Si imbatteranno in strane creature ibride tra umano e meccanico, figlie di una mente diventata ormai malata che nasconde una storia a dir poco particolare.
La storia è originale, molto piacevole e intrigante a leggersi. Se posso dire la mia “Marina” è un libro molto più leggero rispetto all’ Ombra Del Vento. Ma forse anche per questo non raggiunge i suoi livelli. Anche in questo libro però non ho potuto non notare che Zafòn è uno scrittore che io definirei un “manipolatore di emozioni”. Tiene il lettore nella sua morsa, ne manipola i sentimenti, con le situazioni che descrive ne guida le emozioni, le speranze riguardo i personaggi e gli eventi, riesce a creare un legame con i protagonisti, una fortissima empatia. Non posso dire che sia una delle trame più appassionanti e belle della mia modesta carriera di lettore, ma devo dire che lo spagnolo si difende bene, ed ha un punto di vista che mi piace molto riguardo all’amore. Ne ha una visione magica, quasi surreale, e senza alcun dubbio nel suo pensiero l’amore domina le persone, gli eventi, il mondo intero. Ma sono i legami descritti tra i personaggi ad essere molto forti, è questo è un aspetto che incute un po' di timore. Perchè? Perchè pare che nella realtà questi sentimenti si stiano un po' perdendo, pare che più la tecnologia vada avanti, più si facciano avanti e progrediscano realtà come i social network, più arriviamo ad essere in contatto con un’infinità di persone ma sempre meno profondamente. Nei tempi descritti nei romanzi di Zafòn, i legami tra le persone, amore o amicizia che siano, erano molto più forti. Questo è triste, perché l’opinione che ho io in merito alle persone che dovrebbero far parte della mia vita è molto rigida: meglio pochi ma buoni. Allora chiediamoci, è questa la direzione giusta da prendere? Secondo me no. Per questo Zafòn, mi stai piacendo, perché mi dai spunti di riflessione, ed è questo che un libro deve fare, non mi stancherò mai di ripeterlo, deve arricchirci e farci crescere. Ed è forse anche questo il motivo per cui le cose piano piano vanno alla deriva, si legge sempre meno, di conseguenza si riflette, e ci si interroga sui problemi sempre più raramente perché mancano gli spunti. Caro Zafòn, di spunti ne dai eccome, per questo meriti solo il mio plauso. Unica nota dolente... la conclusione, che abbassa un pochino il voto finale, ma è un opinione strettamente personale. Non dico altro.
"Il tempo fa al corpo ciò che la stupidità fa all'anima."
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Una forte scossa al cuore e all’anima
Una cosa è certa, dopo aver letto questo libro, ho avuto la conferma che merita la sua fama e che Zafòn scrive in maniera sublime, avendomi profondamente sorpreso.
Preferisco non dilungarmi in riassunti della trama, brevemente, il giovane Daniel Sempere verrà condotto dal padre al Cimitero Dei Libri Dimenticati, dove vengono preservate copie di libri che rischiano di scomparire dalla circolazione, il giovane Daniel prende in custodia uno di questi libri, L’Ombra Del Vento scritto da Juliàn Carax, questo libro e la sua passione per i misteri che avvolgono l’autore lo porteranno ad una serie di eventi che cambieranno la sua vita.
Ho letto questo libro in una settimana, molto poco essendo che ho sempre poco tempo a disposizione, ma mi ha davvero catturato. Non ho mai visitato Barcellona, ma Zafòn, con la sua scrittura avvolgente mi ci ha condotto, mi sembrava di esserci, sentivo l’aria, il suo odore, il suo sapore, ero spettatore invisibile delle vicende narrate in queste pagine, ero lì, accanto a Daniel e Fermìn, anche se loro non potevano vedermi. Riesce a crearsi un legame di profonda empatia tra il lettore e i personaggi che popolano questa storia che non so se definire un giallo, un thriller, un romanzo sentimentale o altro. Probabilmente un po' di tutto. E’ un mix perfetto, ti tiene sulle spine, fa ardere in te il desiderio di conoscere l’evolversi degli eventi, sapere come evolverà la vita di Daniel, così simile a quella del suo tanto stimato scrittore Juliàn, vite talmente simili che talvolta mandano il lettore in confusione. Nonostante la storia ti prenda perché è decisamente intrigante e ricca di colpi di scena, protagonista indiscusso del libro è l’amore. Si l’amore, quello vero, quello puro, che non conosce freni o limiti, amore proibito, amore che viene sottratto provocando uno dei più grandi dolori che l’animo umano possa percepire. E tu questo amore lo senti, quel dolore lo provi, mentre scorri le pagine che si susseguono sempre più veloci. Durante la lettura ti senti travolto da un turbine di emozioni, empatia, compassione, simpatia, odio per uno o per un altro personaggio. La scrittura di Zafòn è davvero di altissimo livello, è uno scrittore con la S maiuscola, scrive benissimo, in maniera direi poetica. Cos’altro dire, la cosa più bella che questo libro ti lascia è la consapevolezza che l’amore è qualcosa di magico, regolato da un qualcosa che non possiamo comprendere, ed è questo che lo rende il più puro ed inimitabile dei sentimenti, e che vale la pena lottare e soffrire per poterne assaporare la magia. L’amore vince sempre, nonostante tutto e tutti, ma bisogna lottare con tutte le proprie forze, altrimenti non lo meriti.
Un terremoto nel cuore e nell’animo.
"Indossava un abito color avorio e nel suo sguardo c'era tutto il mondo. Rammento solo le nostre labbra che si sfioravano e il giuramento segreto che feci a me stesso e che avrei rispettato ogni giorno della mia vita."
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Senza infamia e senza lode
Credo che questo libro verrà sempre considerato da me come “il libro sfortunato”.
Perchè? Perché il fatto che io abbia iniziato a leggere questo libro nello stesso momento in cui ho iniziato a vedere quel capolavoro di serie tv che è “Breaking Bad” è una sfortuna che definire immensa è un mero eufemismo. Da Timeline mi aspettavo molto, soprattutto dopo la mezza delusione che è stata “Preda”, ed essendo che Michael Crichton è uno degli scrittori che più gradisco in assoluto. Purtroppo però inizio a temere che con “Sfera” io abbia già letto il capolavoro assoluto e massimo dell’autore.
Timeline racconta la storia di un gruppo di storici che svolgono le loro mansioni di ricostruzioni di un antico borgo medievale in Francia. L’azienda che finanzia le loro ricerche, la ITC, ha sperimentato una sorta di macchina del tempo, che sfruttando le teorie della meccanica quantistica, può spedire persone in periodi specifici della storia dell’umanità. Un gruppo di questi storici verrà catapultato nel Medioevo proprio nel borgo in cui lavorano nel presente, allo scopo di salvare il professor Johnston, loro supervisore nelle ricerche spedito per primo nel passato.
La scrittura è scorrevole, Crichton come al solito ha un modo di scrivere che rende la lettura agevole, i suoi romanzi si divorano. Purtroppo però quello che manca a questo romanzo è quel fattore indefinito che ti lascia attaccato al libro e te lo lascia divorare, quel voler sapere come va avanti, ci ho messo un tempo immane a finire di leggere questo libro, e questo mi dispiace molto. Il dilemma ricorrente era, continuo a leggere, o guardo un altra puntata di BB? Mi davo una risposta in non più di un decimo di secondo. Eppure la storia di base è intrigante, le ambientazioni sono suggestive, la storia originale, perfetta per un film che è stato infatti prodotto.
Se devo fare una critica a Michael Crichton è proprio questa, i suoi libri sono perfetti per fare film. Sembra più un complimento, ma sapete perché è un limite? Perchè in alcuni casi, come questo, la storia in questione sarebbe perfetta per un film, ma è un po' povera per un libro. E’ la perfetta sceneggiatura di un film. Ma i libri non sono sceneggiature. I libri non sono un susseguirsi di eventi, di azione. I libri ci catapultano all’interno di un contesto, di un epoca, di una situazione, di un ambiente. In un libro ci aspettiamo personaggi che vengano approfonditi, nei confronti dei quali possiamo provare empatia, ci aspettiamo introspezione, riflessione, vogliamo entrare anche noi all’interno della storia e non esserne semplicemente spettatori. Questo dovrebbe essere un aspetto che non manca mai in un libro, dovrebbe essere ordinaria amministrazione. Quando vediamo un film o una serie che riesce a fare quello che fa normalmente un libro, nella maggior parte dei casi, sono capolavori. Ed io mi sono ritrovato a leggere Timeline, che non presenta molto questo aspetto pur essendo un libro, e nel contempo a vedere una serie tv che mi offriva tutto questo in un modo mai visto prima e più di quanto mi sarei mai aspettato. E perciò in questo periodo della mia vita, Timeline è passato inosservato, mentre Heisenberg e Breaking Bad mi hanno segnato profondamente. Chi lo ha visto potrà capirmi. Caro Michael... eri un grande scrittore, ma secondo me saresti stato un grandissimo produttore cinematografico. Un gran peccato.
“Se non conosci la storia, sei un perfetto ignorante, sei una foglia che non sa di essere nata dall’albero.”
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Appassionati di viaggi nel tempo e di epoca medievale.
Hitchhiker's Guide to the Galaxy
"Non fatevi prendere dal panico." Non sarebbe rassicurante avere tra le mani un libro con queste parole in copertina? Cosa importa se questo libro dovesse contenere milioni di pagine di informazioni riguardanti i sistemi più remoti dell'universo? Cosa importa se in tutte quelle milioni di pagine le uniche parole che riusciremmo a capire riguardanti il nostro caro pianeta sono soltanto: "Praticamente innocuo"? Personalmente il solo dare uno sguardo a quella copertina mi darebbe la forza di sconfiggere nemici temibili come dei topi super intelligenti e fronteggiare la fine del pianeta Terra. Un pò come capita ad Arthur Dent e Ford Prefect.
"La Guida Galattica per gli autostoppisti" ci rende infatti partecipi dell'avventura di questi due personaggi, il primo un quantomai ingenuo terrestre, il secondo un autostoppista che ha girato nei meandri dell'universo facendo appunto l'autostop e orientandosi grazie a quel magnifico strumento che è "La Guida galattica per gli autostoppisti", fantastica opera che fa dei suoi punti di forza la copertina più rassicurante della letteratura universale, ma soprattutto contiene tutte le informazioni per girare la galassia con meno di 30 dollari Altariani al giorno! Ford Prefect è però rimasto bloccato sul pianeta Terra per ben 15 anni, facendo amicizia con il tonto Arthur. Tutto cambia nella loro vita quando i Vogon, razza aliena costruttrice di autostrade galattiche, distrugge il pianeta Terra perchè sulla traiettoria della loro nuova strada ipergalattica in costruzione. Paradossalmente sarà salvandosi dalla distruzione della Terra, grazie al Sub-eta Sensomatic, che inizieranno i guai per i nostri quanto mai semplici e particolari eroi, che si ritroveranno a viaggiare negli angoli remoti della galassia a bordo della Cuore d'Oro, una nave a propulsione di improbabilità, facendo la conoscenza di un alieno a due teste, Zaphod Beeblebrox, dell'umana Trillian e del depressissimo quanto mai simpatico robot Marvin.
Quando avete letto "Sub-eta Sensomatic" oppure "propulsione di improbabilità", alcuni di voi avranno probabilmente pensato cosa diavolo stessi dicendo o magari si staranno chiedendo se in questo momento io sia ubriaco, beh, potrete capirlo solo leggendo questo libro.
La Guida galattica è un libro esilarante, non ho mai smesso di ridere, da quando ho letto la trama sul retro del libro, fino a quando lo ho chiuso. Sto mentendo. Continuo a ridere anche ora che scrivo questa recensione e ripenso alla reazione di Arthur quando si rende conto che tutti i McDonald's sono stati distrutti. Credo che anche io avrei una reazione simile in tale situazione. La scrittura di Douglas Adams è davvero comicità pura e davvero unica. E' difficile trovare libri del genere, che ti facciano ridere spontaneamente, e Douglas Adams ci riesce in modo naturale, talvolta scrivendo cose che non hanno alcun senso, ma hanno un non so che di spassoso. Mentre leggevo pensavo: "Ma come diavolo gli vengono? E' un pazzo genio!" Forse talvolta si dilunga un pò troppo nei vaneggiamenti o nei dettagli, ma non è mai pesante.
La "Guida galattica per gli autostoppisti" vi regalerà un viaggio esilarante nell'infinito e variegato universo e, ricordate sempre, con meno di trenta dollari Altariani al giorno! Se non capite qualcosa di quello che leggerete in questo libro, non sentitevi stupidi, piuttosto ricordate sempre che alla fine dei conti siamo solo la terza specie più intelligente della Terra, dopo i topi e i delfini. E se a volte pensate che la vostra vita non abbia senso, la risposta a tutto è... 42!
Buon divertimento!
Loonquawl: "Quarantadue! Questo è tutto ciò che sai dire dopo un lavoro di sette milioni e mezzo di anni?"
Computer Pensiero profondo: "La risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l'universo e tutto quanto è 42. Sì, ci ho pensato attentamente è questa, 42. Certo sarebbe stato più semplice se avessi conosciuto la domanda."
Loonquawl: "Ma era LA domanda, la domanda fondamentale di tutto quanto!"
Pensiero profondo: "Questa non è una domanda! Solo quando conoscerete la domanda comprenderete la risposta."
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Intrattenimento allo stato puro
La letteratura e il cinema pullulano di serial killer dalla fantasia quantomai variegata.
Alcuni sadici e sanguinosi, altri pazzi scatenati convinti di essere illuminati e guidati dalla volontà divina, o anche semplici assassini a pagamento. Il serial killer che ci troviamo dinanzi in quest'opera di Deaver è di certo uno dei più intriganti e particolari, come si può facilmente dedurre dal titolo del libro.
Il protagonista è Lincoln Rhyme, (tra l'altro protagonista di un ciclo di opere di Deaver di cui "Il collezionista di ossa" fa parte) un criminologo divenuto tetraplegico a causa di un incidente avvenuto nel corso di un indagine. Rhyme ha quasi del tutto perso la voglia di vivere, ma essendo stato uno dei criminologi migliori sulla piazza, viene contattato dalla polizia per condurre l'indagine su un caso particolare, di un assassino dai modi di agire quanto mai macabri.
La lettura è piacevolissima, Deaver scrive bene, il ritmo è incalzante come giusto che sia, ed essendo che l'assassino compie i suoi omicidi a poche ore di distanza l'uno dall'altro, Rhyme deve affrontare una vera e propria corsa contro il tempo, contro sè stesso, le sue limitazioni fisiche e mentali, e ovviamente contro il colpevole. Le ambientazioni sono perfette per il tipo di storia che l'autore ci vuole raccontare, atmosfere che si fanno sempre più cupe e decadenti man mano che ci si avvicina all'assassino e alla sua opera. Lo scrittore non ha timore di descrivere tutto nei dettagli provocando talvolta nel lettore un senso di disgusto provocato dai modi che l'assassino ha di torturare le sue vittime e dai luoghi in cui vengono rinvenuti i corpi, d'altra parte non si perde in descrizioni e fronzoli inutili e noiosi, come spesso fanno gli autori che scrivono libri come questo.
Deaver ci vuole coinvolgere, farci leggere la storia tutto d'un fiato, in un crescendo di emozioni e colpi di scena, e ci riesce alla grande devo dire, tanto che il film che ne è stato tratto, pur essendo interpretato da un sempre grande Denzel Washington, non riesce ad essere trascinante ed emozionante come il libro. Fin dall'inizio infatti "Il collezionista di ossa" viaggia a ritmi elevati, non ricordo infatti di aver mai letto un libro che parta così alla grande, ma la cosa migliore è che mantiene la stessa andatura in pressochè tutta la sua durata.
In conclusione, il libro riesce in quello che è, a mia opinione, l'obiettivo dei libri di questo genere. Intrattenere. Non ci sono temi profondi affrontati, non ci sono molte riflessioni da fare, sono infatti poche le storie di questo tipo che offrono qualcosa su cui riflettere (l'unica che ricordo è un grande film che è Se7en). Tanto è vero che, nonostante io dedichi sempre l'ultima parte delle mie opinioni a una citazione, la lascerò vuota perchè non ricordo frasi degne di nota. Ma non prendetela come una critica o un giudizio negativo, il libro è riuscito nel suo intento, mi ha divertito, e molto.
Ci sono autori che oltre a scrivere un libro, contemporaneamente e magari inavvertitamente, stanno scrivendo il copione di un film, e questo è il caso di Deaver con il suo "Il collezionista di ossa".
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Libri su serial killer.
The (Devastating) Butterfly Effect
"Nemmeno la gente in grado di tornare nel passato sa cosa le riservi il futuro."
Forse questa è la frase di King che può dare un idea su questo libro.
Partiamo da un presupposto, questo libro è fantastico. Appassionante, intenso, emozionante. È il primo che leggo di King, e direi che come inizio ho fatto un' ottima scelta, forse dettata dal fatto che questa sua opera si scosta un po' da quello che è il genere a cui appartiene lo scrittore. Posso dire che scrive in maniera impeccabile e scorrevole, descrive gli ambienti, i personaggi e gli avvenimenti in maniera molto dettagliata, anche se forse talvolta si dilunga un pò troppo.
In "22/11/'63" Al Templeton, possessore di una tavola calda, scoprirà al suo interno un passaggio temporale che conduce al 1958. Al, ormai morente, convincerà il protagonista Jake Epping, professore d'inglese del Maine, ad entrare nella "buca del coniglio" per cambiare il passato e impedire l'assassinio di John F. Kennedy, considerato da Al come una sorta di "momento spartiacque" della storia dell'umanità, che innescherà una serie di eventi che porterà tantissime morti.
L'avventura di Jake alias George Amberson (il nome che userà una volta diventato "cittadino del passato") gli farà scoprire che il passato è inflessibile, questi non vuole che le cose siano alterate, e farà in modo che gli eventi facciano il loro corso, a qualsiasi costo. Forse tante volte vorremmo, come Jake, avere la possibilità di poter cambiare le cose, gli errori passati, magari agire diversamente in determinate occasioni, pensando di poter migliorare le cose. E se invece, nonostante fossimo spinti da buone intenzioni come Jake e Al, finissimo per peggiorarle? È pensiero di King, e alla fine dei conti anche del protagonista, che lo sbatter d'ali di una farfalla possa avere effetti devastanti sugli eventi futuri, figurarsi cambiare un evento come l'assassinio del presidente degli Stati Uniti. "22/11/'63" è un concentrato di avventura, mistero, amore. È un libro che riesce ad emozionare, e, devo ammetterlo, in certi momenti, in particolar modo l'epilogo, le lacrime si trattengono a stento. Personalmente sono riuscito a trattenerle, perché, come Jake, "non sono mai stato un uomo facile alle lacrime", ma le lacrime sono la manifestazione esterna di un sentimento interno a noi stessi, l'assenza di una manifestazione, non implica che quel sentimento non sia presente. E vi posso assicurare che questo libro vi emozionerà, vi appassionerà, vi toccherà nel profondo, vi coinvolgerà tanto da sembrare di esserci in quegli anni Sessanta, dove i sapori, gli odori, i colori sembrano essere più intensi. Il passato è passato, e trova armonia anche negli eventi che possano sembrarci errori/orrori, nella nostra vita come nella Storia, ma questi sono parte della vita e della Storia stessa. Alcune cose non possono e non devono essere cambiate, per quanto orribili possano sembrare, ed è inutile star lì a interrogarsi su come le cose potessero andare diversamente. Il nostro compito principale è concentrarci sul presente e fare in modo che con le nostre azioni non avremo rimpianti, ma la certezza di aver fatto tutto il possibile per rendere la nostra vita migliore, nonostante le avversità.
Potrebbero scoraggiarvi le dimensioni del libro,ma posso assicurarvi che non ve ne pentirete.
Sublime.
"Ecco invece una cosa che so. Il passato è inflessibile per lo stesso motivo per cui è inflessibile un guscio di tartaruga: la carne viva che c'è dentro è tenera e senza difese. Ed ecco un altra cosa che so: le molteplici scelte e possibilità della vita quotidiana sono la musica che danziamo."
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Do androids dream of electric sheep?
"Cosa stai leggendo?"
"Ma gli androidi sognano pecore elettriche?"
"Che?!?"
"Il libro da cui è tratto il film Blade Runner."
"Ah Bello!"
Questa era la conversazione tipo che avevo con chiunque mentre leggevo questo libro.
Si perchè questo libro è indissolubilmente legato al film, anche se con questo ha in comune poco più che l'idea di base. L'ambientazione è, come spesso accade nei romanzi di Dick, un pianeta Terra ormai desolato, dai colori cupi, grigio e ormai quasi inabitabile. Le forme di vita animali (oltre l'uomo) sono estinte quasi completamente, sostituite da androidi che ne riproducono perfettamente le sembianze, ma che solo pochissime persone possono permettersi. Avere un animale domestico è infatti un pò il sogno proibito di qualsiasi abitante della Terra (il protagonista possiede una pecora sintetica malfunzionante che non vede l'ora di sostituire), tanto è vero che nel test di Voight-Kampff, per riconoscere un umano da un androide, la reazione alle domande riguardanti animali è un fattore molto importante.
Ma perchè la necessità di distinguere uomini da androidi? Perchè il compito dei cacciatori dei androidi è proprio quello di eliminare i replicanti potenzialmente pericolosi, ma questi ultimi sono talmente perfetti da rendere difficile una distinzione con gli esseri umani. Il nostro protagonista, Rick Deckard, è proprio un cacciatore di androidi, incaricato di eliminarne sei del tipo Nexus 6 di ultima generazione, fuggiti dalla colonia extramondo di Marte.
Philip K. Dick ha uno stile inconfondibile, che si può respirare a pieni polmoni anche in questo libro, davvero allo stato puro. Avessi dovuto leggere queste pagine senza sapere chi fosse l'autore, lo avrei capito senza ombra di dubbio. Le atmosfere scolorite e desolate, i temi profondi e anche la sua scrittura non impeccabile ma efficace.
Proprio come il film, il libro pullula di argomenti interessanti che però bisogna saper cogliere con una lettura attenta. Prima di tutto Philip K. Dick non manca di ostentare la mancanza di fiducia nei confronti dell'umanità di preservare il proprio pianeta, anche in questo caso la nostra povera Terra ha fatto una ignobile fine, così come l'ecosistema che la popolava, una delle poche cose che riuscirà a sopravvivere saranno proprio i "distruttori", gli esseri umani.
L'argomento chiave che sembra legare molto Blade Runner e questo libro, è la difficolta di discernere la differenza tra uomo e androide. A contribuire enormemente a questo riguardo è il personaggio di Rachel, androide dotato di ricordi preinnestati allo scopo di renderlo convinto di essere un umano, una convinzione talmente profonda da innestare il dubbio anche in Deckard, riguardo sè stesso. Chi avrebbe potuto dargli la certezza di essere davvero umano e non semplicemente convinto di esserlo?
Ciò che però incute più timore è la domanda che il libro sembra quasi porti esplicitamente: se l'avanzare dell tecnologia portasse noi esseri umani a diventare sempre più "androidi"? D'altronde i personaggi e lo stesso Deckard lasciano a una macchina il compito di decidere quali sentimenti provare, un modulatore di umore. Se andando troppo avanti nel progresso sconsiderato sacrificassimo la nostra umanità e diventassimo sempre più delle macchine, smettendo così di vivere davvero la vita? Philip K. Dick ci pone questo interrogativo principale in questo libro geniale che non poteva ispirare nient'altro che un capolavoro quale è Blade Runner.
Non manco mai di mettere una citazione alla fine di ogni recensione che scrivo, ma mi perdonerete se metterò la celeberrima tratta da Blade Runner:
"Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione... e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire."
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Chi ha visto Blade Runner.
Gli appassionati di fantascienza in generale.
Holmes è sinonimo di Genio
Personalmente ritengo che Arthur Conan Doyle e il suo Sherlock Holmes siano l'ingresso perfetto per un giovanissimo lettore che vuole entrare nel mondo della lettura vera, quella davvero bella e matura anche se non eccessivamente impegnativa. Almeno così è successo a me ed è stato un fantastico trampolino di lancio. Il motivo? Il modo di scrivere di Doyle è semplice ma accurato, ambientazioni intriganti e variegate (L'Inghilterra di fine '800 è già suggestiva di per sé), situazioni coinvolgenti e mai scontate, personaggi carismatici, a partire dal dottor Watson, arrivando a quel genio fantastico che è Sherlock Holmes, che ritengo uno dei personaggi letterari meglio riusciti della storia.
"Uno Studio In Rosso" è probabilmente, dei quattro romanzi dedicati al detective di Baker Street(oltre ai racconti), il migliore. E' riuscito a emozionarmi, stupirmi, appassionarmi oltremodo. Inoltre il genio di Holmes è magnetico, vuoi andare avanti, scoprire cosa frulla nella sua testa, perchè a lui sembra bastare una semplice occhiata alla scena del delitto per sapere nei minimi particolari come siano andate le cose. E una volta completata la sua spiegazione, la fa sembrare talmente semplice (anche se spesso è decisamente complicata), che ti chiedi: "Come ho fatto a non arrivarci?". Ma non siamo i soli, se lo chiede spesso anche lo storico compagno di avventure di Holmes, il dottor Watson, che in questo romanzo conoscerà per la prima volta il suo controverso amico. Questo romanzo si può infatti considerare come la prima avventura di questo duo letterario (e non solo) eccezionale.
"Uno studio in rosso" è fondamentalmente diviso in due parti principali, la prima, in cui si racconta del fatidico primo incontro tra il dottor Watson e Sherlock Holmes. Dopo essersi conosciuti vengono subito catapultati sulla scena del delitto, la vittima è Enoch j. Drebber. Nonostante sul corpo non vi siano segni di violenza, la stanza dove viene rinvenuto il cadavere è piena di sangue, e nelle vicinanze della vittima viene trovata una fede da donna. La situazione sembra controversa ma Holmes appare già sicuro di sè e di cosa possa essere accaduto in quella stanza macchiata rosso sangue.
Nella seconda parte viene invece raccontata la storia che ha portato all'omicidio, il cui colpevole è probabilmente il personaggio più interessante del libro dopo Sherlock Holmes.
Per certi versi sembra di leggere due libri diversi, collegati tra loro da un sottile filo conduttore.
La prima parte colpisce per la caratterizzazione eccezionale che viene fatta dei personaggi di Watson e soprattutto di Holmes, di come inizia la loro immensa amicizia. Colpiscono i geniali ragionamenti fatti da Holmes per venire a capo della faccenda, cosa che lo caratterizzerà dalla prima fino alla sua ultima avventura, e vero punto di forza delle storie scritte da Doyle dedicate al detective. Non posso infatti negare che ogni volta mi cimentassi nella lettura di una storia di Holmes, non vedessi l'ora di leggere la sua logica spiegazione alle vicende.
La seconda parte è invece quella che ci fa emozionare, che ci fa capire i sentimenti dell'assassino, che ci fa odiare o amare dei personaggi rispetto ad altri, che ci coinvolge del tutto nei fatti narrati. Mentre leggevo quelle righe mi sembrava di essere lì, immerso nella storia che mi veniva raccontata, spettatore di ciò che accadeva e condividendo le sensazioni e i sentimenti dei personaggi.
Doyle è riuscito in quello che è uno degli scopi principali della lettura. Un libro deve suscitare in noi delle emozioni, coinvolgerci e lasciarci qualcosa dentro una volta chiuso definitivamente il libro. E Doyle con il suo primo Holmes, ci riesce in modo meraviglioso.
"È un errore confondere ciò che è strano con ciò che è misterioso. Spesso, il delitto più banale è il più incomprensibile proprio perché non presenta aspetti insoliti o particolari, da cui si possono trarre delle deduzioni."
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Mezza delusione
Prima di partire col recensire questo libro, occorre che io premetta una cosa molto importante: sono un fan accanito di Michael Crichton. Lo considero uno dei miei scrittori preferiti. Adoro il suo modo di scrivere, la sua genialità nell'inventare storie originali, che seppure fossero inverosimili, lui riesce a rendere verosimili con il suo modo di scrivere scientificamente accurato. Come dimenticare capolavori come "Sfera" o "Jurassic Park"?
Premesso questo a malincuore devo dire che questo libro non ha soddisfatto le mie aspettative, forse perchè abituato a capolavori di assoluto valore come quelli che ho citato in precedenza. Non fraintendetemi, la scrittura è scorrevole, è difficile non finire un libro di Crichton, le spiegazioni scientifiche sono come sempre accurate ma rese semplici, ed anche in questo libro l'autore è capace di insegnare qualcosa di interessante e che può arricchire il bagaglio culturale del lettore.
Di contro, lo svolgersi degli eventi e anche la storia in sè è un pò sottotono. A differenza di"Sfera", che mi ha praticamente lasciato incollato il libro alle mani finchè non lo avessi finito, Preda non riesce a prendere se non in rari casi. Non resti lì chiederti come andrà a finire. Non hai la tipica "ansia da fine capitolo" che ti attanaglia e dalla quale non puoi uscire, se non continuando a leggere e scoprendo come la storia va avanti. Non hai quella voglia di prendere il libro di nuovo tra le mani appena un minuto dopo averlo posato. Questo è dovuto a una trama non proprio scontata, ma poco intrigante.
Preda racconta le vicende di un ex programmatore informatico, Jack Forman (ho fatto fatica a ricordare il nome del protagonista, e questo non è certamente un buon segno) che torna a lavorare nell'azienda in cui lavora anche la moglie Julia, per gestire una situazione scomoda apparentemente senza via d'uscita. Quest' azienda, la Xymos, sta lavorando sulla creazione di nanoparticelle artificiali, che iniettate nel corpo umano fungono da telecamera per poter effettuare diagnosi mediche più accurate. O almeno questo è l'obiettivo "ufficiale" del progetto di sviluppo. Le particelle, che cooperando formano dei veri e propri sciami, sfuggono però al controllo degli sviluppatori, iniziando ad evolversi come fossero esseri dotati di una vera e propria coscienza, sempre più avanzati e pericolosi a ogni ora che passa.
Lo svolgersi degli eventi è lineare, troppo lineare, con colpi di scena un pò forzati e troppo prevedibili. Il finale inoltre ha un non so che di affrettato e insipido.
I personaggi non prendono, non sono ben approfonditi e caratterizzati, così come gli ambienti non sono suggestivi, siamo ben lontani dalle ambientazioni come Isla Nublar, dato che la storia si svolge quasi interamente in un laboratorio scientifico nel bel mezzo del deserto del Nevada. Non il massimo della suggestione.
Il tema che Crichton prova ad affrontare in questo libro è la pericolosità del progresso umano incontrollato. L'autore ha sempre mostrato di avere ammirazione per l'intelletto umano e per il progresso che riesce a generare, ma nutre scarsa fiducia nella sua capacità di controllarlo con saggezza e assenza di egoismo. E' un tema che Crichton ripropone spesso, basti pensare a Jurassic Park, dove l'uomo riesce nella mastodontica impresa scientifica di ricreare i dinosauri, accompagnata però dalla fame di denaro degli investitori, ricavando da una enorme scoperta scientifica una catastrofe completa. Anche qui lui prova a trasmettere lo stesso messaggio: dal raggiungimento di un enorme progresso scientifico, può derivare un disastro incontrollabile per l'umanità. Inutile dire che non ci riesce con la stessa intensità.
Per concludere, è davvero dura per me dare questo tipo di giudizio duro e crudele nei confronti di uno degli autori che preferisco, ma avendomi regalato ore di lettura di assoluto valore, è anche naturale che da parte mia ci fossero aspettative un pò più alte.
Tutto questo però non mi tratterrà assolutamente dal leggere altro di Crichton, anche perchè è il primo dei suoi libri che leggo a non entusiasmarmi, e non ne ho letti pochi. Ho infatti già tra le mani Timeline, che è risaputo sia un altro dei suoi capolavori. Difficilmente mi deluderà. Anzi ne sono sicuro, perchè anche ai migliori può capitare di prendere uno scivolone, e ciò non compromette il loro assoluto valore.
«"Non si erano accorti di quello che stavano facendo", forse questo sarà l'epitaffio del genere umano.»
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Folle
“Le tre stimmate di Palmer Eldritch” è un romanzo psichedelico.
Se prima questo termine non mi era pienamente chiaro, dopo aver letto l’opera di Philip K. Dick posso definirlo come una fusione di almeno due termini: delirante e allucinatorio.
Il romanzo è ambientato nel “futuro secondo Dick”, un futuro scolorito, grigio, in cui tutto è andato in malora e la realtà è diventata un brutto incubo dal quale gli esseri umani cercano di fuggire.
L’umanità ha colonizzato altri pianeti ostili, in particolar modo Marte. Per i coloni l’unica via di fuga dalla vita triste e avvilente sul Pianeta Rosso è rappresentata dal Can-D, una droga commercializzata illegalmente dall’imprenditore Leo Bulero, utilizzata insieme a una specie di "casa di bambole", composta di oggetti miniaturizzati (mobili, auto o addirittura figure sociali come dottori o psicologi) che vanno a creare un ambiente simile al pianeta Terra ancora puro e incontaminato, nel quale i coloni vivono una vita spensierata, anche se illusoria e limitata al tempo in cui permane l'effetto della droga assunta.
Lo sconvolgimento si ha col ritorno sulla Terra di Palmer Eldritch, spietato imprenditore partito per un viaggio di affari verso Proxima Centauri. Non si sa chi sia tornato da quel viaggio, se Eldritch, o “qualcos’altro”. La sua figura è avvolta fin dall’inizio da un alone di mistero e malvagità, lo stesso Leo Bulero ne è fortemente intimorito. Nel tentativo di scoprire i piani del suo avversario riguardo la messa in commercio di una nuova droga misteriosa, il Chew-Z, si troverà costretto ad essere il primo a verificarne i devastanti effetti, rimanendo intrappolato in un mondo illusorio controllato dallo stesso Eldritch.
Philip K. Dick non brillerà certo per scrittura impeccabile, ma riesce a immergerti nel suo mondo, un mondo che vale la pena di esplorare e dal quale, una volta completata la lettura, non riesci a uscire immediatamente.
L’ho letto in tempo relativamente breve, ma non è da leggere tutto d’un fiato, bisogna fermarsi, rimuginare per un po’ su quello che si è letto, allo scopo di non rendere ancora più difficile seguire un libro già abbastanza complicato di per sé.
Infatti le “Stimmate” è uno di quei libri che non si possono capire appieno, non esiste una conoscenza assoluta della trama, delle vicende, dei temi. Non ha conclusione, ti lascia mille domande e ciò che l’autore scrive ha mille possibili interpretazioni. E’ caratterizzato da continui capovolgimenti di fronte, che provocano un cambiamento continuo dei punti di vista del lettore nei confronti delle situazioni e dei personaggi, in primo luogo nei confronti dell’inquietante figura di Palmer Eldritch.
Chi è Palmer Eldritch? Un invasore alieno atipico? Una divinità malvagia? O un semplice uomo?
Durante la lettura il mondo reale si mescola continuamente con il mondo fittizio creato dal Chew-Z, mi sono sentito perso, disorientato e avvilito come i protagonisti, incapace di distinguere realtà e illusione, ma alla fine ci si rende conto che non esiste una distinzione e Eldritch diventa dominatore incontrastato di entrambe, onnipresente, padrone del destino di chiunque entri nel suo dominio.
Il libro è un viaggio nella mente umana, intricata, delirante e volubile.
Palmer Eldritch ci dimostra che non importa se abbiamo perso tutto, non importa quanto ci possa sembrare brutta la realtà in cui viviamo, quando l’unica alternativa è la morte, è sempre meglio vivere.
Davvero un libro stupendo, forse anche meglio del capolavoro acclamato dello scrittore, Ubik.
« "Dio promette la vita eterna" disse Eldritch. "Io posso fare di meglio; posso metterla in commercio." »
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Tetro e Affascinante
Cosa vi viene in mente quando qualcuno vi parla di Dracula? Difficile che qualcuno non conosca questo leggendario e tetro personaggio ideato da Bram Stoker.
E’ però probabile che gruppi di persone che conoscano il malvagio Conte, lo possano inquadrare in un modo diverso gli uni dagli altri. Perché?
Perché come ben sappiamo è un personaggio parecchio sfruttato nel mondo della letteratura, del cinema, dell’animazione, in modi vari rispetto all’originale idea dello scrittore che lo ha inventato.
Io stesso non posso negare che prima di iniziare la lettura di Dracula, avessi un idea un po’ diversa di quello che mi aspettasse. Immaginavo Dracula come un personaggio malvagio, un mostro senza eguali ma con un intelligenza fuori dal comune, immaginavo un giovane e impavido Professor Van Helsing, con un infinito coraggio e un cappello che da solo serve a far rabbrividire qualsiasi vampiro o mostro che sia. Ovviamente mi sbagliavo.
Ma allora chi è il “vero” Dracula? Il Conte è un mostro di una malvagità infinita, che coniuga un intelletto umano con istinto animalesco, facendo però prevalere quest’ultimo al primo. Tutte le azioni del Conte, sono volte alla sua sopravvivenza, al placare la sua fame di sangue. Non persegue alcun ideale di malvagità, nessuna fame di potere, è soltanto un mostro, un male da estirpare dal mondo a qualunque costo.
E sarà questo l’obiettivo del Professor Van Helsing e dei suoi fidi compagni di avventura, ma non credete che lo faccia come il cinema vi ha mostrato in alcune pellicole, con armi enormi e la forza bruta di un giovane professore che per hobby uccide vampiri e mostri. Il professor Van Helsing di Stoker, seppur colto e intelligente, è un uomo normale, un professore e medico che si autodefinisce un “povero vecchio”.
Ma il fatto che “Dracula” sia diverso da come ve lo aspettate, non significa che non sia un grande libro. Lo è. Anzi è anche meglio di quel che potete credere.
La narrazione è strutturata in modo particolare, il libro è infatti una sorta di cronistoria dei fatti basata sui diari e le lettere scritte dai protagonisti, che nonostante fossero attanagliati dal terrore che il Conte infliggeva alle loro vite, trovavano ovviamente sempre il tempo di trascrivere il loro resoconto della giornata.
E’ un libro dalle atmosfere cupe come si può ovviamente immaginare, la superstizione, la paura, l’ansia fanno da padrone, e il Conte incute un enorme timore non con la sua presenza, ma bensì con la sua assenza.
Dracula infatti compare raramente, fa solo apparizioni sporadiche e non sempre in forma umana, ma i segni che lascia, la morte che semina, sono sufficienti a colmare di tensione questo vuoto.
Impossibile non accennare alla devozione che Bram Stoker mostra di avere per la figura femminile, in questo libro le donne protagoniste vengono descritte come degli angeli, belle, perfette in ogni loro aspetto, esteriore e interiore, ragione principale di qualsiasi azione degli uomini, in certi momenti si arriva quasi a pensare che, se non fosse per proteggere le donne protagoniste del racconto, Van Helsing e compagni lascerebbero volentieri scorazzare liberamente il Conte Dracula per le strade inglesi.
Ho parlato di Inghilterra? Ecco un'altra cosa che forse non sapete, la maggior parte del romanzo si svolge perlopiù nei pressi di Londra e non nella famosa Transilvania, che però sarà la cornice dello stupendo inizio e di alcune altre parti del libro. Insomma, questo libro ha di che stupirvi ed è davvero una piacevole lettura. Un must per chi ama leggere, non per nulla, è uno dei più grandi classici di tutti i tempi.
Il crepuscolo dà inizio all’incubo, e l’unica cosa che può porvi fine è la luce dell’alba.
“Benvenuto nella mia casa!
Entrate libero e franco.
Andatevene poi sano e salvo, e lasciate alcunché della felicità che arrecate!”
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Funerale in Mare
“Bioshock: Rapture” è un romanzo stupendo, tra i migliori che abbia mai letto, e forse essere nato come un videogioco ne ha limitato le immense potenzialità, visto che il mondo videoludico è spesso sottovalutato e il suo pubblico relativamente ridotto.
Ma Bioshock è un CAPOLAVORO. Vi spiego il perché.
E’ una sinfonia perfetta di tematiche profonde, ambientazioni magiche ma allo stesso tempo permeate da follia e terrore, popolate da personaggi estremamente carismatici anche se perlopiù fuori di testa.
Rapture è, nella sua imperfezione, la città perfetta per descrivere le immense potenzialità autodistruttive dell’uomo, anche quando animato da buone intenzioni.
Non è un uomo il vero protagonista di Bioshock, ma la città, nata come utopia della società perfetta, partorita dal visionario Andrew Ryan, uomo statuario, dalle idee ferme e impossibili che cerca di concretizzare creando qualcosa di altrettanto impossibile, una città sottomarina dove la religione è messa al bando (letteralmente), dove non vengono imposti limiti morali, dove chiunque può diventare qualunque cosa, anche il padrone assoluto, grazie al “sudore della propria fronte”.
Il libro è scritto molto bene, scorrevole e si legge in poco tempo nonostante non sia breve (personalmente l’ho divorato), non si risparmia dal descrivere scene di una crudezza non indifferente. Ma Rapture è così, ti sbatte in faccia la realtà senza troppi compimenti, e il romanzo ci rende spettatori della sua nascita, partendo dalle vicissitudini della sua costruzione, fino al suo triste, graduale e inevitabile declino.
Rapture nasce nello splendore, accessibile solo a una ristretta èlite di persone, il progresso scientifico sembra correre molto più velocemente rispetto alla superficie, l’arte arriva agli apici, tutto questo grazie all’assenza di inibizioni morali e istituzionali. Ma una volta entrato non puoi tornare indietro.
Improvvisamente qualcosa va storto. Molti di coloro che sulla superficie erano persone di una certa caratura, si ritrovano a fare lavori umilianti (“Qualcuno dovrà pur pulire i cessi a Rapture”).
L’assenza di limiti morali porta l’uomo a compiere cose terrificanti, come ci dimostrano personaggi fantastici ma davvero inquietanti e folli a dir poco come l’artista Sander Cohen e il chirurgo J.S. Steinman che vi lasceranno molto spesso perplessi o disgustati. Lo stesso magnate Andrew Ryan, ideatore e realizzatore del sogno di Rapture, uscirà di senno andando contro i suoi stessi ideali nel momento in cui si accorge che il potere sulla sua città gli sta sfuggendo di mano, diventando quasi un dittatore e finendo per contribuire enormemente all’ autodistruzione della “sua” creatura.
Ci sarà guerra civile e nelle strade prima splendenti e piene di vita dilagheranno solo anarchia, follia e morte.
L’uomo si rifugia in mare, credendo di poter creare la società perfetta, lontano da Dio, del quale ritiene di non aver bisogno, e magari Lo accusa di essere una delle cause dei propri problemi.
La fine davvero terrificante di Rapture è il prodotto e risultato finale di tutto questo, a dimostrazione che l’uomo non è in grado di generare la perfezione. Mai. L’imperfezione non può che generare imperfezione. Ed è l’uomo stesso la causa principale della propria distruzione.
John Shirley ha fatto un lavoro eccellente, e ve lo posso assicurare, partorire un romanzo di tale calibro dal mondo di Bioshock deve essere stato un lavoro durissimo, oltre che carico di pressioni e responsabilità.
Imperdibile.
Citazione:
“Sono Andrew Ryan e sono qui per porvi una domanda: un uomo non ha diritti sul sudore della sua fronte? No, risponde l’uomo di Washington: appartiene ai poveri. No, dice l’uomo in Vaticano: appartiene a Dio. No, dice l’uomo di Mosca: appartiene a tutti. Io rifiuto queste risposte, piuttosto scelgo qualcosa di diverso, scelgo l’impossibile… scelgo… Rapture: una città dove l’artista non debba temere la censura, dove lo scienziato non sia limitato da ridicoli moralismi, dove il grande non sia confinato dal piccolo. E con il sudore della vostra fronte, Rapture può diventare anche la vostra città.”
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