Opinione scritta da Bruno Elpis

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    17 Luglio, 2014
Top 10 opinionisti  -  

Arte e intrighi

Iain Pears è giornalista, studioso e appassionato d’arte, già autore de “La quarta verità”.
Il romanzo ha per protagonisti due coniugi ben assortiti: lei, Flavia Di Stefano, italiana, è capo del Nucleo investigativo per la tutela del patrimonio artistico; lui, Jonathan Argyll, inglese, è professore di storia dell’arte. Flavia, nella sua indagine, fa riferimento al suo ex superiore, il pensionando generale Taddeo Bottardi.
Il caso è il seguente. Un quadro, prestato dal Louvre e destinato, insieme ad altri, a un’esposizione internazionale patrocinata dal governo italiano viene rubato da uno strano personaggio: mascherato da ‘Leonardo da Vinci’, con una pistola giocattolo nelle mani, fugge con la refurtiva a bordo di un furgoncino dopo aver distribuito cioccolatini alle guardie.
Flavia viene incaricata dal primo ministro in persona, Antonio Sabauda, di recuperare il quadro, pagando un riscatto milionario, che le viene fornito da un misterioso ‘benefattore’. Queste modalità per il recupero dell’opera d’arte contravvengono alle leggi dello stato e quindi la notizia del furto e del pagamento del riscatto non deve in alcun modo trapelare attraverso i mass media, per evitare un sicuro imbarazzo alle autorità italiane. Naturale per Flavia consigliarsi con il generale Bottardi, che l’aiuta a versare il riscatto e a recuperare la refurtiva.
Intanto Jonathan, per fare un regalo al generale, cerca di identificare la storia, e quindi il pittore, di un quadretto che ritrae l’Immacolata Concezione e che sta appeso a una parete dell’appartamento di Bottardi: il regalo consiste appunto nell’individuare l’autore del dipinto, impresa che prelude a un esito clamoroso, di sicuro impatto sulla quotazione del quadro.
Quando Flavia, dopo il suo encomiabile servizio, riceve – in luogo di lodi e gratificazioni – una proposta di benservito, allora si convince ad andare fino in fondo all’indagine per smascherare il complesso gioco di poteri, tutti italiani, che stanno dietro a una vicenda che interseca terrorismo, servizi segreti e poteri politici.

Il romanzo ha il pregio di abbinare il giallo al mondo dell’arte: il “Cefalo e Procri”, un quadro dipinto da Claude Lorrain detto il Lorenese, rappresenta la chiave per la soluzione del caso; l’Immacolata Concezione fa parte di un trittico smembrato, la cui individuazione passa per Fiesole, gli Uffizi e una segreta collezione vaticana, ove è custodita la “Dormitio virginis” ossia la Madonna sul letto di morte prima dell’assunzione in cielo.
La storia è ricca di capovolgimenti di fronte e ha un finale incandescente tra Montecitorio, l’inaugurazione di una galleria d’arte (ove Johnatan svela l’autore del trittico) e un’asta ove viene opportunamente riciclato il denaro del riscatto…

Bruno Elpis

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Narrativa per ragazzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    12 Luglio, 2014
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Sono innocente!

Senza voler innescare una discussione sulla barbarie della pena di morte, il carcere – secondo le differenti teorie criminologiche - nei confronti del detenuto ha una funzione riabilitativa/rieducativa ovvero afflittiva/sanzionatoria. In ogni caso la pena detentiva si giustifica come reazione a un comportamento deviante. Che si aderisca all’una o all’altra tesi, vien da chiedersi nel caso degli zoo:
- A cosa devono essere educati gli animali ivi rinchiusi?
- A causa di quale comportamento deviante gli stessi animali sono privati della libertà che li fa belli?
La penso proprio come Daniel Pennac, che situa il commovente “L’occhio del lupo” nella desolazione (“Un recinto triste, con la sua unica roccia grigia e il suo albero morto”) di una prigionia (“Piccole gabbie e grosse sbarre. Reti e recinti”) ai limiti dell’assurdo (“Un giardino di animali… Africa non capiva come si potessero piantare degli animali in un giardino”).
Qui si incontrano Lupo Azzurro e Africa (“Il giorno dopo, come tutti gli altri giorni, il ragazzo è là”), qui confluiscono due esperienze geograficamente distanti.
Lupo Azzurro viene dal Nord (“Tutt’intorno, la neve, fino all’orizzonte… dell’Alaska, laggiù, nel Grande Nord canadese”) e ha un passato di libertà in una famiglia numerosa perseguitata dai cacciatori (“gli strilli di Paillette che dominano tutto: «No, io voglio una storia sull’Uomo, una storia vera, che faccia paura…»”).
Africa ha attraversato il deserto (Africa Gialla) con un mercante, è stato pastorello nella savana (Africa Grigia) e ha trovato i suoi genitori adottivi nella foresta equatoriale (Africa Verde): ha abilità straordinarie nel raccontare storie e parla con gli animali (il dromedario Pignatta, il leone, il ghepardo, la iena).
Proprio nello zoo i due protagonisti realizzano la loro empatia, nonostante il genere umano (“Gli uomini? Due zampe e un fucile”) congiuri contro di loro, sempre pronto a distruggere i valori veri (“Gli uomini hanno due pelli: la prima nuda, senza un pelo, la seconda è la nostra”) anche soltanto per una mania (“L’uomo è un collezionista”).

Bruno Elpis

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... qualche storia di licantropi. Impallidirà, al confronto. :-)
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Libri per ragazzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    11 Luglio, 2014
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ACRONIMO – Marionetta dei miei giorni

Pinocchio fu fantastica avventura nell’
Immaginazione di bimbo che sognava a occhi aperti:
Nel carrozzone di Mangiafuoco, veleggiando su ali di gabbiano,
Oziando nel paese dei balocchi o nel ventre di pesce vorace. Nelle
Canzoni di Bennato (La fata, Il gatto e la volpe, Dotti medici e sapienti, In prigione!)
Catturò la mia ribellione di burattino senza fili e adolescenziali desideri di libertà.
Ho varcato l’età adulta, oggi Pinocchio
Induce riflessioni e nostalgie, infine
Opera come tappa nel percorso delle metamorfosi letterarie…

Bruno Elpis

Nella favola si verificano alcune trasformazioni. Nel Paese dei Balocchi, dopo un periodo di cuccagna con Lucignolo, Pinocchio si trasforma in asino e finisce in un circo nella compagnia dei pagliacci. Nel finale Pinocchio, uscito dalla bocca del pesce-cane insieme a Geppetto, abbandona la natura di burattino e diviene un ragazzo in carne ed ossa grazie all'intervento della Fata (“Quando i ragazzi, da cattivi diventano buoni, hanno la virtù di far prendere un aspetto nuovo e sorridente anche all'interno delle loro famiglie”). Ma forse la metamorfosi più vistosa e celebre di Pinocchio è il naso che si allunga quando il burattino dice le bugie…

Disse il corvo: "A mio credere il burattino è bell'e morto; ma se per disgrazia non fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo".

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... ogni declinazione delle metamorfosi!
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Classici
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    10 Luglio, 2014
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Scarafaggio!

Al suo risveglio Gregor Samsa si scopre trasformato in insetto e assiste piuttosto passivamente al mutare della propria condizione e alle reazioni degli altri. La storia è stata per lo più intesa come allegoria della diversità, della degradazione prodotta dalla società borghese e dell’alienazione indotta dai rapporti familiari, in interpretazioni che hanno variamente privilegiato la valenza metafisica, psicanalitica o sociologica. Io preferisco pensare che il lettore sia invitato a una sfida interpretativa personale.

SURREALISMO

Il racconto è surreale sia per la genesi (dal carteggio con Felice Bauer emerge che la mattina del 17 novembre 1912, dopo aver lavorato fino a tarda notte a “Il disperso”, Kafka si svegliò da un sonno agitato con un'idea fissa: che sensazione si prova se al risveglio ci si trova trasformati in un insetto?) sia per l’incipit (quando il protagonista capisce di essere stato “trasformato in un insetto gigantesco”, constata che “non era un sogno”) sia per la struttura in tre parti che potrebbero simboleggiare nascita, maturità e morte.
Ma surreale è soprattutto l’atmosfera assurda-estraniante-estraniata che domina la narrazione e sembra appartenere più al sogno che alla vita reale. La metamorfosi non è motivata in alcun modo e viene descritta con precisione nella sua evoluzione. Inizialmente Gregor è preoccupato più dal proprio impegno lavorativo (“Devo alzarmi, il mio treno parte alle cinque”), dall’impossibilità di farvi fronte (“Che cosa doveva fare ora?”) e dal timore di una sanzione (“E anche se avesse preso quel treno una sfuriata del principale sarebbe stata inevitabile”). La nuova condizione è ritenuta plausibile (“Non aveva alcun dubbio che il mutamento della voce non fosse altro che il prodromo d’un bel raffreddore, una malattia professionale dei viaggiatori in commercio”) e fin da subito accettata (“E si mise all’opera per spostare il corpo in tutta la sua lunghezza fuori dal letto mediante un dondolio uniforme”). La preoccupazione del protagonista rimane estrinseca (“Gregor cercò d’immaginare se al procuratore potesse accadere qualcosa di simile a quanto era successo a lui; bisognava ammettere che la possibilità esisteva”) e dominata da fattori esogeni (“Era curioso di sapere che cosa avrebbero detto gli altri”) e relazionali (“il pensiero di essere stati colpiti da una sciagura come nessuno nella loro cerchia di parenti e amici”) più che intimamente tragici. L’epilogo è parimenti pseudo-razionale (“Ma come potrebbe essere Gregor? Se fosse stato Gregor si sarebbe già reso conto che la convivenza di esseri umani con una bestia simile non è possibile e se ne sarebbe andato spontaneamente”) e spietatamente lucido.

IL COMMESSO VIAGGIATORE

L’opera è del 1916 e Kafka sceglie per Samsa la professione (“Samsa era un commesso viaggiatore”) che nel 1949 Arthur Miller prediligerà per Willy Loman in “Morte di un commesso viaggiatore” per rappresentare il potere reificante della felicità materiale.

L’INSETTO NELLE METAMORFOSI

Su questo punto, devo ammetterlo, ho fatto alcune riflessioni da pseudo-entomologo.
Ho pensato alla potenza poetica e metaforica della metamorfosi bruco-crisalide-farfalla.
Ho valutato che nei miti antichi i greci scelsero principalmente insetti utili, positivi, industriosi. Melissa, l’ape in greco, è il nome di alcune ninfe e designa le sacerdotesse in diversi culti (Demetra, Persefone, Artemide, Apollo Delfico). Anche Zeus viene talvolta chiamato Melisseo (uomo-ape), perché nell’infanzia era stato nutrito dalle api di Creta, alle quali aveva donato il colore dell’oro.
Nelle sue Metamorfosi Ovidio narra che Eaco viveva solo nell'isola di Egina e, per sfuggire all’isolamento, chiese al padre Zeus di dargli compagnia. Zeus esaudì il desiderio mutando le formiche in uomini (i Mirmidoni da mirmex-formica).
“Qui noi scorgemmo una fila di formiche in cerca di semi, che portavano grandi fardelli con la bocca minuta e seguivano un loro sentiero fra le rughe della corteccia. Sbalordito dal loro numero: «Tu che sei il migliore dei padri» dissi, «colma il vuoto delle mura e dammi altrettanti cittadini»…” (Ovidio, Metamorfosi VII).
Kafka esordisce in modo generico (“un insetto gigantesco”), poi circoscrive la visione con approssimazioni successive (la predilezione per i cibi avariati, l’impossibilità di vocalizzare parole, la verticalizzazione della mobilità sulle pareti). Soltanto in fase avanzata del racconto, la “servetta” qualifica la metamorfosi: “Vieni qui, vecchio scarafaggio”.
Aggiungo un ultimo pensiero, non pertinente. Lo confesso, sono andato a scartabellare se l’origine del nome del complesso pop più celebre del secolo scorso (il cui nome è una crasi tra beat-battito e beetle-scarafaggio) avesse qualche attinenza con Kafka…

Bruno Elpis

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    09 Luglio, 2014
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ACRONIMO – Due in uno

La natura umana
O la personalità

Si può sdoppiare, anche fisicamente? Stevenson
Trasforma le due componenti in
Ritratti
Antropici che si
Negano e si
Oppongono.

Così le metamorfosi si
Alternano
Sotto l’effetto di un intruglio che
Opera nel corpo del suo inventore, così

Dottor Jekyll
E Mr Hyde
Lottano in una

Dialettica non soltanto psichica, ma corporea e
Reale.

Jekyll
E’ benigno e pacato, Hyde è un mostro, potrebbe assomigliare al
Kappa della mitologia giapponese o allo
Yeti,
Le descrizioni non
Lasciano capire

Esattamente quale sia l’aspetto… Il

Dualismo poi diventa
Ingovernabile

Mentre l'avvocato Utterson e il cugino Enfield
Ricercano la verità anche presso il dottor

Hastie Lanyon e in un manoscritto:
Yes, “l’uomo non è certamente uno, ma veracemente
Due”. Questa è la verità del dottor Henry Jekyll.
E la nostra?

Bruno Elpis

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Le altre tappe del percorso "Metamorfosi letterarie"
1) Le metamorfosi di Apuleio
2) Le metamorfosi di Ovidio
3) Lo strano caso del Dr Jekyll e Mr Hyde di R.L. Stevenson
4) La metamorfosi di F. Kafka
5) Il rinoceronte di E. Ionesco
6) Pinocchio di Collodi
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Poesia italiana
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    08 Luglio, 2014
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La varietà delle trasformazioni

Il poema di Ovidio si articola in XV libri e sviluppa la propria complessa struttura intorno al tema della metamorfosi: un fenomeno che esiste variamente in natura e che l’uomo, grazie all’immaginazione e all’arte, spesso riproduce per disegnare intuizioni e metaforizzare concetti.
“Le Metamorfosi”, attraverso la musica dell’esametro, declinano miti antichi con dovizia di scene in un periodo che inizia con il Caos e si conclude con il catasterismo di Cesare. La varietà e la ricchezza dei miti pone al commentatore l’imbarazzo della sintesi nella molteplicità fantasiosa delle forme nelle quali il processo di cambiamento si realizza. Ma l’opera può anche essere letta per selezione di episodi.

TRASFORMARSI IN UN FIORE

Narciso (libro III) è giovane vanitoso che rimane vittima di un amore autoriferito: sedicenne di eccezionale bellezza, avrebbe potuto sopravvivere soltanto “se non avesse mai conosciuto se stesso”. Ma rifiuta l’amore di Eco, la ninfa dei monti: rimane vittima dell’immagine riflessa in uno specchio d’acqua e si lascia morire per struggimento. Salvo rinascere in un bocciolo…

Apollo ama Giacinto (libro X), che viene ucciso accidentalmente da un disco lanciato dallo stesso dio. La sua bellezza sarà immortale, perché le spoglie saranno trasformate in nuovo fiore.

TRASFORMARSI IN UN ANIMALE

Il cacciatore Atteone (libro III) sorprende Diana nuda mentre si bagna con le compagne e ne suscita la rabbiosa reazione: per questo viene trasformato in cervo e poi sbranato dalla muta dei suoi cani. Il mito sarà ripreso da Giordano Bruno per rappresentare “l’eroico furore”.

Aracne (libro VI), abilissima tessitrice, sfida Atena e ne provoca l’invidia: poi, per pietà della dea, verrà trasformata in un ragno. Mi vien da pensare che la saga di Spiderman si sia ispirata a Ovidio…

Leda (libro VI) fa innamorare Zeus, che si trasforma in cigno e si accoppia con lei. Da un uovo nasceranno i Dioscuri, che oggi ammiriamo - stelle del cielo - nella costellazione dei Gemelli.

Zeus (ancora lui e decisamente bisex!) si innamora di Ganimede (libro X), lo rapisce camuffandosi da aquila e lo trasporta nell’Olimpo. Nelle opere d'arte Ganimede è raffigurato accanto a un'aquila, abbracciato o in volo.

TRASFORMARSI IN UN ALTRO ESSERE UMANO

Mentre nuota in uno stagno, Ermafrodito (libro IV) viene aggredito da Salmacide, che si è incapricciata del giovane. La ninfa innamorata si avvinghia a lui e con lui si fonde in un corpo che è maschio e femmina al tempo stesso…

AFORISMI

Video meliora proboque, deteriora sequor (Vedo le cose migliori e le approvo, ma seguo quelle peggiori. VII libro): la frase rappresenta il dissidio tra ragione e azione ed è pronunciata da Medea che, per amore di Giasone, tradisce padre e patria.

“Omnia mutantur, nihil interit” (Tutto muta, nulla perisce. XV Libro): possibile che sia un’anticipazione del principio di Lavoisier “Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”?

Tempus edax rerum (Il tempo che tutto divora, XV libro). Sì, il tempo è vero artefice di mutazioni e divora tutto, proprio tutto: anche le metamorfosi!

Bruno Elpis

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Le metamorfosi di Apuleio
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    07 Luglio, 2014
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Come Lucignolo e Pinocchio!

La Tessaglia è terra di sortilegi. Lì si reca Lucio e a Hypata viene ospitato da Milone. La moglie di costui, Panfila, è una maga. Sospinto dalla curiosità e dal desiderio di vedere un incantesimo, Lucio conquista la complicità della serva Fotide e assiste alla trasformazione di Panfila in gufo. La metamorfosi è propiziata da un unguento, dunque Lucio desidera ripetere l’esperimento su di sé. Ma Fotide sceglie l’ampolla sbagliata e Lucio… si trasforma, sì, in animale, ma… diventa asino (proprio come accadrà – alcuni secoli dopo - a Pinocchio e a Lucignolo nel paese dei balocchi!). Il quadrupede tuttavia conserva facoltà intellettuali, quindi scalpita per assumere nuovamente le sembianze umane: ma ciò sembra possibile soltanto ingerendo un cespo di rose.
Nottetempo, l’asino-Lucio viene rapito dai briganti e imprigionato in una caverna; lì c’è una fanciulla prigioniera, alla quale una vecchia racconta la favola di Amore e Psiche. Grazie al fidanzato della fanciulla, Lucio viene liberato dai briganti, affronta mille peripezie, passa di padrone in padrone e ha modo di conoscere i vizi umani. Infine, sulla spiaggia di Cencrea, si addormenta e sogna la dea Iside. Durante la processione in onore della dea, Lucio ha la possibilità di mangiare le rose, riacquista sembianze antropomorfe e, in segno di riconoscenza, si consacra come sacerdote del culto di Iside e Osiride.

Che significato attribuire a questa metamorfosi?
L’incantesimo della trasformazione rende visibile la dimensione bestiale di Lucio, che ne approfitta per conoscere il mondo, per vedere uomini affaticati e sofferenti al punto "da non sembrare più uomini”. Lucio-asino riconosce nella schiavitù un'altra forma di animalità e s’impietosisce perché ha sperimentato su di sé la tortura. Quando Lucio riconquista la propria umanità, non sarà più come prima. Perché l’esperienza vissuta gli ha consentito di conoscere, di espiare le colpe, di scegliere la dimensione trascendente.
L’opera risente degli influssi della religiosità mistica che caratterizza l'epoca di Apuleio (secondo secolo dopo Cristo) ed è l’unico romanzo della letteratura latina giunto integro fino a noi. La tensione alla religiosità imparenta l’opera di Apuleio alla mistica cristiana e, forse per questo, Sant'Agostino aggiunse al titolo l'aggettivo "aureus".

La narrazione (Lucio racconta di pesi e maltrattamenti in prima persona) è ironica e arricchita con favole talvolta sboccate e violente, storie di passaggio che hanno lo scopo di intrattenere e sorprendere il lettore.

Bruno Elpis

Oggi avvio il mio percorso nelle metamorfosi della letteratura. Dopo Apuleio, vi saranno Ovidio, Stevenson, Kafka e Ionesco…

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... ogni altra metamorfosi letteraria
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Narrativa per ragazzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    06 Luglio, 2014
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La ricerca della verità

Sempre in “Un’idea di felicità” Luis Sepulveda rivela l’antefatto della sua terza favola: “… uno dei miei nipoti, Daniel… aveva una lumaca in mano e la guardava attentamente”
“Nonno, perché è così lenta?”
“Guarda, Daniel. È una domanda difficile ma ti rispondo. Non adesso, lasciami un po’ di tempo…”
“Allora ho deciso di rispondere alla domanda di mio nipote sotto forma di storia… mentre scoprivo qualcosa di sorprendente: la lentezza. Ho scoperto che la lentezza… è la possibilità di recuperare un ritmo personale di movimento, un ritmo personale di sviluppo.”

La lumachina protagonista del racconto incarna il desiderio di conoscere (“una lumaca che, pur accettando una vita lenta, molto lenta… voleva conoscere i motivi della lentezza”) e l’anticonformismo: non si rassegna alle spiegazioni dogmatiche (“«Sei lenta perché hai sulle spalle un gran peso» spiegò il gufo”) o tautologiche (“siamo lente perché non sappiamo saltare come le cavallette né volare come le farfalle”) e con tenacia vuole scoprire la verità (“La mia lentezza è servita a incontrarti, a farmi dare un nome da te, a farmi mostrare il pericolo…”).

La storia ha una potenza simbolica molto intensa: ogni concetto è rappresentato da animali e situazioni (l’incontro con la tartaruga, ad esempio, esprime il relativismo: “Io veloce? E’ la prima volta che me lo dicono”), Sepulveda non abbandona mai il punto di vista ingenuo della lumaca (il “limitare del prato che le lumache chiamavano la fine della vita”) e, attraverso l’animaletto, esprime la preoccupazione cosmica (“Gli umani copriranno tutto con uno strato di ghiaccio nero”) di fronte al pericolo ambientale (“Resta molto poco del prato che conoscevamo”).

Il registro è sempre poetico (“la scia di bava che brillava sulla rugiada… pur essendo una traccia del dolore, era anche una traccia di speranza”), la dedica ai nipoti non può che implicare un messaggio finale di ottimismo (“Il Paese del Dente di Leone, a forza di desiderarlo, era dentro di noi”)…

Bruno Elpis

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... le altre favole di Sepulveda. Il gabbiano Jonathan Livingstone.
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Racconti
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    05 Luglio, 2014
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Felicità

“Un idea di felicità” è un interessante saggio e si articola in tre parti.

PARTE PRIMA - Conversazione tra Carlo Petrini e Luis Sepulveda

I due autori dialogano, prendendo spunto dall’ultima opera di Sepulveda (“In diversi contesti etnici la lumaca è un simbolo di equilibrio”) e abbozzano le idee (“Io penso che il diritto al piacere sia un diritto universale di tutta l’umanità, non solo della parte ricca”) che poi ciascuno svilupperà nelle due parti successive.
Luis Sepulveda e Carlo Petrini argomentano in armonia (“Ci unisce… un sentimento di comunanza ideale: tu sei stato, e sei, un sincero combattente per la democrazia, per i diritti civili”), con uno sguardo privilegiato al Sud America, alle illusioni politiche (“L’attuale presidente del Nicaragua, Daniel Ortega, uno dei comandanti della rivoluzione sandinista, ora ha un patrimonio personale di milioni di dollari e ville all’estero”) e sempre criticando “il culto della velocità”.

PARTE SECONDA – Sette idee di futuro e il racconto di un’isola felice (Sepulveda)

Sepulveda riprende il tema della lentezza (“Credo che l’idea della ricerca della felicità attraverso la lentezza percorra tutta la mia opera”) e ripropone valori (“In tutte le vecchie culture, il momento sublime della vita è sempre stato questo, intorno al fuoco, insieme”) che traggono forza dal suo attivismo politico ed ecologista. Confida alcune interessanti curiosità sulla genesi delle sue opere e delinea un modello di felicità che trova la propria ambientazione nella Patagonia cilena (“L’estate australe è breve e imprevedibile, e il suo corso sembra determinato dal volo precoce o tardivo delle otarde e dei maestosi cigni dal collo nero…”). Lì ha avuto luogo la barbarie dell’allevamento dei salmoni (“molta ricchezza che ingrassa le macrocifre della crescita, le fortune delle imprese multinazionali… amministratori corrotti… ma alle popolazioni dei luoghi … ha portato solo povertà, discredito…”), lì permane tuttavia “un certo tipo di vita segnato dall’orgoglio legittimo di chi affronta situazioni estreme”, lì vive la “gente che resiste nel Sud del mondo… che realizza una piccola idea di felicità”.

PARTE TERZA – Sette idee di futuro (Petrini)

Anche Carlo Petrini, presidente di Slow Food, cerca di “definire la felicità distillata nella sua essenza come un momento, un lampo di maggiore o minore intensità, che arriva e poi, purtroppo, passa”. Lo fa a partire dalla sua realtà (“La gastronomia … è una serie di relazioni, proprio come la felicità”), senza “chiudersi in una prospettiva edonistica e ristretta” e contrastando “un’idea puramente elitaria del cibo… l’arte e la scienza gastronomica vengono trasformate in un vuoto spettacolo, come accade … in televisione”: per una “cucina anti-spreco”, che fonda la cultura del biologico e della solidarietà.

L’opera riveste un interesse specifico per chi apprezza Sepulveda e rappresenta un modo concreto di approcciare i grossi problemi (di sopravvivenza) del nostro pianeta e dei suoi – spesso infelici - abitanti.

Bruno Elpis

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Narrativa per ragazzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    05 Luglio, 2014
Top 10 opinionisti  -  

I luoghi comuni

Luis Sepulveda afferma a proposito di quest’opera: “Ho cercato di raccontare il grande valore dell’amicizia, e di concentrarmi di nuovo sulla diversità, ma in particolare sulla possibilità anche per chi ha una disabilità di vivere una vita pienamente normale.”
L’amore per i gatti viene dichiarato esplicitamente dallo scrittore cileno nel saggio “Un’idea di felicità” e si connette anche a un curioso episodio biografico. Ad Amburgo un astrologo cinese gli confidò: “Molte vite fa, sei stato un gatto, e un gatto felice, perché eri il gatto prediletto di un mandarino… l’idea mi piacque… l’astrologo cinese, lui mi consegnò tre piccoli gatti di porcellana… Fai in modo che abbiano sempre da mangiare, ma senza esagerare.”

La storia della fiaba è semplice: Mix è un gatto bianco e nero dal profilo greco (“che metteva in risalto i suoi grandi occhi gialli”), ama esplorare il tetto del palazzo ove vive, guardare il mondo dietro ai vetri e tener compagnia all’amico Max. Quando diventa cieco, la sua vita cambia, ma il topolino Mex (“«Va bene, sentiamo un po’, che strano essere sei, tu?» domandò nella lingua dei gatti, dei topi e di altri abitanti dei tetti”) saprà svolgere una funzione vitale: diventare gli occhi di Mix e restituirgli la possibilità di vivere (“Per tutto il tempo – lungo o breve, non importa, perché la vita si misura dall'intensità con cui si vive – che il gatto e il topo trascorsero assieme, Mix vide con gli occhi del suo piccolo amico e Mex fu forte grazie al vigore del suo amico grande”).

Dal testo si ricava un decalogo sull’amicizia:
1) “Un amico si prende cura di ciò che piace all'altro.”
2) “Un amico si prende sempre cura della libertà dell’altro.”
3) “Un amico capisce i limiti dell’altro e lo aiuta.”
4) “I veri amici condividono anche il silenzio.”
5) “I veri amici si prendono sempre cura uno dell’altro.”
6) “I veri amici condividono i sogni e le speranze.”
7) “Fra amici bisogna dire sempre la verità.” (“Mix pensò che a modo suo, senza parole, aveva detto la verità, poi però si sentì triste perché quella verità nascondeva un inganno e gli amici non si ingannano mai e poi mai.”)
8) “I veri amici condividono anche le piccole cose che allietano la vita.”
9) “Quando gli amici sono uniti, non possono essere sconfitti.”
10) “I veri amici si aiutano a superare qualsiasi difficoltà”.

In fondo sono dieci “luoghi comuni” cuciti insieme con la trama della favola… Ma il “luogo comune” ha una sua realtà oggettiva autonoma rispetto a chi lo interpreta e a chi lo recepisce?

Bruno Elpis

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... le altre due fiabe di Sepulveda
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    03 Luglio, 2014
Top 10 opinionisti  -  

Genesi di una favola

Luis Sepulveda rivela la genesi de “La gabbianella e il gatto” in “Un’idea di felicità”, un saggio scritto dallo stesso scrittore cileno con Carlo Petrini.
“Andai alla biblioteca pubblica per prendere i libri che i miei figli dovevano leggere per quel trimestre… erano libri per piccoli idioti… non contenevano alcun valore…”
La reazione di Sepulveda è orgogliosa: “Voglio scrivere qualcosa per condividere con i piccoli lettori, con questa umanità di pochi anni, i valori che sono importanti per me… Così è nata la mia prima favola, Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, che è diventata una sorta di libro generazionale…”
L’obiettivo dichiarato dell’opera: “Una storia scritta per raccontare valori, tra cui il dovere che abbiamo tutti, di proteggere chi è più debole di noi… E un altro valore fondamentale, ovvero il rispetto verso chi è diverso, la capacità di vivere gioiosamente la diversità della vita e del mondo, senza averne paura.”

La storia della gabbiana morente, perché contaminata da una macchia di petrolio, che affida al gatto Zorba il compito di covare il suo uovo e quello ancor più improbo di insegnare a volare al pulcino, è ampiamente nota anche grazie alla trasposizione cinematografica in cartoon.
Dopo la rilettura della favola, ho compiuto quest’operazione: ho spigolato tra le notizie di cronaca di un quotidiano on line e ho individuato i seguenti titoli (si riferiscono al 3/7/2014, giorno in cui ho scritto questo commento):
1) California: figlio undicenne autistico viveva in gabbia, arrestati i genitori.
2) Meriam: «Ho partorito in catene». La figlia forse non potrà camminare.
3) Una app per scoprire la Milano «gay friendly»: l’applicazione, ideata da quattro startupper, si potrà scaricare dal sito del Comune.

Se l’opera di Sepulveda è giunta alla “sessantatreesima ristampa”, ci sarà un motivo, vero?

Bruno Elpis

“Zorba rimase sul balcone, accanto all’uovo e alla gabbiana morta… Si sentiva ridicolo… Pensava a quando lo avrebbero preso in giro i due gatti rissosi se per caso l’avessero visto. Ma una promessa è una promessa, e così… si addormentò con l’uovo bianco a macchioline azzurre ben stretto contro il suo ventre nero.”

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... "Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico" e "Storia di una lumaca che scoprì l'importanza della lentezza" dello stesso autore
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    01 Luglio, 2014
Top 10 opinionisti  -  

Una gocciolina di olio bollente

“La favola di Eros e Psiche” occupa tre degli undici libri delle Metamorfosi di Apuleio e, negli strati narrativi dell’opera, possiede una propria autonomia. Il mito si presta ottimamente a diverse letture e consente a lettori intemperanti o fantasiosi di sbizzarrirsi e avventurarsi in interpretazioni più o meno libere, più o meno fedeli al contesto storico...
La bellezza che esprimono i due amanti è una rappresentazione plastica del maschile e del femminile. E delle diverse connotazioni che il sentimento assume in polarità opposte.
In modalità psicanalitica, il buio al quale Psiche viene costretta è l’inconscio, Eros la pulsione, la visione di Eros è la causa del malessere psichico, le prove alle quali viene sottoposta Psiche sono il percorso terapeutico che porta alla coscienza.
In chiave erotica la vicenda esprime la volatilità dell’amore fisico, la dissolvenza della sensualità, la complessità del percorso sentimentale, l’eternità della fusione amatoria.
In senso metafisico, Amore si unisce all’Anima e le regala l’immortalità: dall’unione nasce il Piacere…

Ma la storia è bella in sé: nel rappresentare una passione contrastata che accetta di sostenere sfide e prove pur di coronare un fantastico sogno d’amore. Talmente bella che ha stimolato il senso estetico di pittori e scultori e ispirato opere a non finire: gli affreschi della loggia di Psiche di Villa Farnesina a Roma ad opera di Raffaello e della sua scuola, Amore vincitore del Caravaggio, la composizione scultorea di Canova… solo per citarne alcune.

Bruno Elpis

“… Psiche, senza accorgersene, s’innamorò di Amore. E subito arse di desiderio per lui e gli si abbandonò sopra e con labbra schiuse per il piacere, di furia, temendo che si destasse, cominciò a baciarlo tutto con baci lunghi e lascivi.
Ma mentre l’anima sua s’abbandonava a quel piacere, la lucerna maligna e invidiosa…”

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...Le metamorfosi: di Apuleio, di Ovidio e di Kafka
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    30 Giugno, 2014
Top 10 opinionisti  -  

La città delle donne

Gioconda Belli è poetessa, giornalista e scrittrice nicaraguense che ha partecipato in modo attivo alla rivoluzione sandinista. In questo romanzo realizza la sua utopia, immaginando uno stato interamente nelle mani delle donne: presidente, governo, esercito, polizia … tutte donne.
A Faguas (“paese sfortunato, dove la realtà sfidava costantemente l’immaginazione” perché “la cronaca nera era all’ordine del giorno”) s’impone “il partito della sinistra erotica”, capitanato da Viviana Sanson, donna volitiva e ricca di idee. Il successo - come sempre - è determinato dalla combinazione favorevole di qualità personali e fortuna. Quest’ultima,, nel romanzo, è una circostanza straordinaria: l’eruzione violenta del vulcano riduce il testosterone negli uomini, fiaccandoli, rendendoli imbelli…
Ma Viviana è presto vittima di un attentato. Un proiettile si conficca nel suo cervello e lei, dal letto dell’ospedale, in coma, rivive fatti politici e personali attraverso oggetti evocativi: gli occhiali da sole, la sveglia, la tazza, un anello, un ombrello uno scialle…

Il progetto politico di questa utopia, qual è?
Parte da una constatazione: “Abbiamo sprecato già troppo tempo a vergognarci di essere donne o a cercare di dimostrare che non lo siamo … come se essere donne non fosse la nostra grande forza .. ma ora basta: impugniamo tutti gli stereotipi femminili e portiamoli all’eccesso.”
Seguono le riforme democratiche, la pulizia anche fisica degli ambienti (“vedere le strade pulite e abitare in un quartiere senza spazzatura ti cambia la mentalità, ti fa venir voglia di darti da fare, di vivere meglio …”), l’attuazione del progetto felicità. Vengono adottate misure concrete volte a reprimere le prepotenze maschili, dallo stalking allo stupro: “L’idea di esibire gli stupratori sulla pubblica piazza, chiusi in una gabbia …” “agli stupratori sarebbe stata tatuata una S sulla fronte …”
Il governo applica un’affascinante politica economica (privilegia la produzione dei fiori da esportare), persegue un’innovativa politica sociale (fondata su nuove strutture pubbliche, su una nuova organizzazione della famiglia, della scuola e del lavoro. “Per abolire l’aborto non serve proibirlo, è necessario smettere di penalizzare la maternità …”) e interpreta una benefica vocazione ecologista (un’asta mondiale dell’ossigeno!).
La ginocrazia si fonda su una consapevolezza: “Invece di cercare di dimostrare che siamo tanto ‘uomini’ come qualunque maschio e pertanto capaci di governare, dovremmo enfatizzare le caratteristiche femminili, quelle che normalmente le donne che aspirano al potere nascondono come fossero difetti: sensibilità, emotività.”
L’attentato al presidente pone un delicato problema di successione: tra una sommossa insurrezionale, l’ansia per il risveglio dal coma di Viviana, le attestazioni di affetto (fiori e lumini sui marciapiedi, come ai tempi della morte della principessa Diana) e una manifestazione popolare plebiscitaria, “nel paese delle donne” troviamo un’altra risposta alla domanda “ha ancora un senso, ai giorni nostri, un movimento femminista?”
Voi come rispondereste a questa domanda?

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    29 Giugno, 2014
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La solitudine dei numeri primi e anche non

Nella sua terza opera, “Il nero e l’argento”, Paolo Giordano ritorna sul tema de “La solitudine dei numeri primi” affrontando il dramma dell’isolamento, delle incompatibilità e dell’inadeguatezza alle quali l’uomo sembra condannato. E compie questa operazione da un’altra prospettiva: non più quella individuale, bensì quella familiare (“Una famiglia alle prime armi è talvolta anche questo: una nebulosa contratta di egocentrismo a rischio di implodere”).
Il nucleo radiografato è composto dal narratore (un ricercatore universitario), dalla moglie Nora e dal figlio Emanuele, ai quali si aggiunge la Signora A.: “Babette, la donna che conosciamo e amiamo, la piattaforma su cui tutti si appoggiano e che non è sorretta da nessuno”. Quando costei si ammala (un tumore che non perdona), gli equilibri familiari subiscono una scossa violenta e affiora così la precarietà dei legami.

Che importanza, ruolo ed essenza di una persona cara talvolta possano dirompere più nell’assenza che in sua presenza è esperienza che personalmente ho sperimentato.
La metafora degli elementi che chimicamente rimangono individuati senza fondersi (“Eravamo, a dispetto delle nostre speranze, insolubili l’uno nell’altro”) non è nuova, ma è efficace: Paolo Giordano la rappresenta nel modo a lui più congeniale, ricorrendo a un linguaggio che mutua espressioni e concetti dalla fisica.

A parer mio questo romanzo soffre di due limiti.
Il primo: l’evoluzione della malattia è una cappa opprimente, una minaccia che getta oscurità sulle pagine del libro e sull’animo di chi legge (specie se ipocondriaco).
Il secondo: questo romanzo, a parer mio, è stilisticamente perfetto, ma è “bello senz’anima”, troppo lucido e rarefatto nel suo essere ottimamente congegnato. La freddezza letteraria calcolata, scientifica, si riflette nella drammatica immagine di Emanuele bambino, che si stende sulla tomba della signora A. e la chiama finalmente per nome...

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    28 Giugno, 2014
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Gli occhi di un bambino del medioevo

In “Tutta la luce del mondo” Aldo Nove interpreta la figura di San Francesco attraverso gli occhi del nipote Piccardo. Con sensibilità e fantasia fanciullesche, che si traducono in uno stile naïf ora divertente, ora commovente, Piccardo racconta i fatti del tredicesimo secolo (“Nel Medioevo tutto era stupendo”) e propone una lettura originale della società (“Tra i mostri, i poveri erano i più frequenti”), del millenarismo (“All’avvicinarsi dell’anno Mille il tempo della luce flebile, il tempo della storia, stava per esaurirsi… L’anno Mille così arrivò ma al suo principio d’ora il sole sorse come tutti i giorni…”), di alcuni elementari concetti filosofici (“Lo scandalo è qualcosa del mondo che va fuori posto”) e dei luoghi (“Assisi, vuol dire ascesi”). Descriverò due passaggi che mi hanno particolarmente colpito.

GLI ANIMALI

L’immaginazione puerile trova libero sfogo in quest’opera. Come quando Piccardo parla di animali (“Il mondo degli animali irrompeva spesso nel quotidiano squadernandone i confini, nei mercati i girovaghi ne portavano d’insoliti…”) e sceglie di descrivere la fenice (“La fenice è un animale di bellezza insostenibile, e brucia gli occhi a chi l’ammira troppo”), l’ostrica (“L’ostrica… ha un disperato bisogno della luce del sole”), l’unicorno (“L’unicorno… adora l’odore della verginità e per questo i cacciatori usano come esca una fanciulla…”) e il drago (“Il drago è una lucertola immensa”).

PAUPERISMO E MISTICISMO

Molto realistico è lo stupore del bambino che, in una famiglia di ricchi mercanti, respira l’imbarazzo dei parenti per la scelta di rottura (“…zio Francesco assomigliava davvero a Gesù. Gesù doveva fare il falegname, invece ha tradito suo padre e si è messo ad andare in giro a fare il Gesù”) di Francesco (“Lo zio Francesco che prima si chiamava Giovanni”) e nutre la curiosità di verificare se lo zio sia santo (“Piccardo pensò che non gli piacevano i santi che baciavano i lebbrosi. Gli piacevano i santi che volavano. Un santo furbo, se avesse incontrato un lebbroso, sarebbe volato via…”) o pazzo: così Piccardo affronta un viaggio all’insaputa dei genitori per incontrare il poverello d’Assisi, sfidando l’ira del padre.
Da brividi – anche per il contenuto che riproducono - le pagine nelle quali con toni ingenui sono affrescate ascesi, misticismo religioso (“Fuoco che aveva le ali”) ed esperienza fisica delle stimmate.

Come in “Mi chiamo…” e nella raccolta “A schemi di costellazioni”, anche con questo romanzo Aldo Nove conferma di aver virato verso la poesia, dopo un esordio “da cannibale” e romanzi “forti” come “La vita oscena”.

Bruno Elpis

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"Chiara di Assisi" di Dacia Maraini
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    27 Giugno, 2014
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Marnie feat. Hitchcock

Uno psicodramma di notevole caratura: “Marnie” di Winston Graham è l’opera dalla quale Hitchcock ha tratto l’omonimo film del 1964.

Marnie soffre di cleptomania (“A dieci anni ero stata sorpresa a rubare due volte… Imparai subito che era molto meglio non avere partner”). In particolare, nei suoi “colpi”, segue un canovaccio collaudato:
- si fa assumere preferibilmente in ruoli di cassiera/contabile (“Un anno dopo il colpo al Roxy, risposi a un’offerta della John Rutland & Co. di Barnet. Si trattava di un posto da vice cassiera”);
- dimostra grande professionalità (“Non si può dire che ti manchi l’iniziativa sul lavoro, ma è come se recitassi una parte”) e studia attentamente le abitudini del luogo di lavoro;
- coglie l’opportunità di impossessarsi dei contanti;
- sparisce con il malloppo;
- cambia identità e riparte per una nuova avventura (“Un anno dopo il colpo al Roxy, risposi a un’offerta della John Rutland & Co. di Barnet. Si trattava di un posto da vice cassiera”).
Con questi furti, la donna mantiene l’anziana madre, che ha un passato ambiguo nel quale i problemi di Marnie affondano le loro radici (“…sebbene fossi la luce dei suoi occhi, non mi baciava mai con un sincero slancio d’affetto”) e vive a Torquay con un’inserviente.
Nel corso dell’ennesimo cambio d’identità (“A volte mi viene il dubbio che nascondi un insospettabile passato”), la ladra approda alla Rutland & Co. E lì, i due giovani rampolli della proprietà aziendale - Terry e Mark - la corteggiano (“Volevo evitare di rovinare i rapporti anche con l’altro dirigente giovane dell’azienda… In realtà non sapevo cosa farmene, né di lui né di suo cugino”). Perché Marnie è tanto bugiarda (“So che hai ventitré anni e che sei vedova. Tuo padre e tua madre vivono in Australia e tu hai studiato a Norwich. Sei bravissima con i numeri, i temporali ti spaventano a morte e vai spesso alle corse…”) quanto bella.
Ma la cleptomania non è l’unico complesso che affligge l’apparentemente inappuntabile impiegata: Marnie è ceraunofoba, ossia ha una paura ancestrale per i temporali (“Se un lampo si riflette in uno specchio, vedrai lo sguardo del diavolo”) e – se ne accorgerà ben presto Mark, che scopre il tentativo di furto e ciononostante la sposa – è frigida (“No, non sei tu il problema. Non sopporto il contatto fisico”).
L’unica situazione nella quale la donna sembra felice è il contatto con il cavallo che possiede (“Mi piacciono i cavalli. Per me non c’è niente di più bello”)…
Mark convince la moglie a sottoporsi a psicoterapia e Marnie oppone anche a questo tentativo ogni resistenza possibile, frapponendo tra sé e lo psicanalista la sua fortissima tendenza a mentire (“E’ come se un bocciolo rifiutasse di schiudersi o una farfalla volesse a tutti i costi rimanere crisalide”): mentire sempre e comunque (“le lacrime erano finte, naturalmente, non provavo il minimo rimorso”).

Il finale del romanzo di Graham è completamente diverso da quello rappresentato da Hitchcock nel film: più complesso (“Penso che i sentimenti siano come le scatole cinesi: ne apri una e dentro ne trovi un’altra e poi un’altra e non riesci mai ad arrivare all’ultima…”) e credibile (“Il dolore degli altri non era tanto diverso dal mio”), meno hollywoodiano, più esistenziale (“Non è la banderuola che cambia direzione, è il vento”)…

Bruno Elpis

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"Gli uccelli e altri racconti", "Psycho"...
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    25 Giugno, 2014
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PSICO 2

Vent’anni dopo ritroviamo Norman Bates nell’ospedale psichiatrico diretto dal dottor Nicholas Steiner: “In qualità di bibliotecario aveva accesso ai libri, cosa che aveva sempre amato”. Sembrerebbe guarito…
Intanto a Hollywood qualcuno pensa di realizzare un film che racconti la storia del gestore dell’horror-motel sulla strada per Fairvale (“Facciamo un film sul caso Bates”): “Crazy Lady: il film che non vedrete mai”.

Norman trova la via per evadere dal manicomio e semina una scia di morte: massacra due suore, un autostoppista, Lila Crane e Sam (personaggi di Psycho 1, che nel frattempo si sono sposati).
Per il dottor Adam Claiborne, lo psichiatra che aveva Norman in cura, la fuga del paziente è un fallimento terribile (“I suoi errori di diagnosi e prognosi erano i veri crimini”) sul piano personale e professionale: “Non avrebbe scritto nessun libro, ormai, nessun dotto e compiaciuto resoconto del trattamento grazie al quale si può restituire la ragione a uno psicotico senza far ricorso all’elettroshock, alla neurochirurgia e ad altri mezzi barbari del genere”.

Adam raggiunge il set cinematografico ove il film su Norman sta per essere realizzato: lo psichiatra è convinto che ben presto, lì, Norman farà una strage per evitare che la sua vita venga messa in piazza per il grande pubblico.
Sul set s’intrecciano le vite dell’ambiziosa Jan Harper, attrice che assomiglia a Mary Crane, lo sceneggiatore Roy Ames, il regista Santo Vizzini, che alle spalle ha una storia infantile di sofferenza ove la figura materna è in primo piano, Marty Driscoll, spregiudicato produttore disposto a tutto per il profitto, l’attore Paul Morgan, intento a misurarsi nella vita reale con le preferenze sessuali di Norman, per meglio calarsi nel personaggio.

Tra i protagonisti del set e i personaggi reali si crea una pericolosa confusione (“una specie di catessia, cioè di attaccamento inconscio alla persona di Norman”), che il regista Vizzini interpreta cercando di uccidere Jan Harper nella doccia: “Vizzini… s’identifica con Norman Bates, ed è per questo che vi ho sconsigliata dall’identificarvi con Mary Crane”.

Nonostante qualche spunto inquietante (“L’identificazione è un processo che riguarda la maggior parte di noi, a vari livelli”) e i colpi di scena finali, Psycho 2 è ben lontano dall’originalità dell’opera prima. Soprattutto nella parte centrale, si dilunga e non mantiene un adeguato livello di pathos. Come spesso accade, anche questo sequel soffre di inevitabili forzature e patisce il carico d’aspettativa di chi ha letto il primo Psycho.

Bruno Elpis

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Psycho
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    24 Giugno, 2014
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Mamma!

Un motel sinistro, su una strada poco battuta (“Ma non è probabile che qualcuno passi di qui. Tutti ormai prendono la nuova strada”). Il suo gestore è Norman Bates: un uomo succube della madre (“lei gli aveva sempre imposto la sua legge”), con evidenti problemi d’identità e di autostima (“sei una femminuccia”).
Lì capita Mary, un’avvenente giovane donna che ha rubato (“in totale quarantamila dollari”) per amore.
Dopo averle assegnato la camera numero 6, Norman invita a cena Mary nella “casa sul pendio della collina dietro il motel”, ove l’uomo vive con la stramba mamma.
Dalle parole di Norman traspaiono soggezione (“La mamma non permette che ci siano liquori in questa casa”), riconoscenza (“… so quanti sacrifici ha fatto. Se oggi appare un poco strana, è colpa mia”), senso di colpa (“sono io il responsabile. Quando è venuta da me quella volta e mi ha detto che voleva risposarsi, sono stato io a impedirglielo”) e anche qualche mania (“Volevo parlarvi delle mie piccole manie. Ho una specie di laboratorio, giù nel seminterrato…”). Mary Crane conclude che “il poveretto aveva terrore di avvicinare una donna”.
In realtà le turbe di Norman sono ben più gravi: tanto per cominciare (e non finire) sono di carattere sessuale (“impotente”) e voyeuristico (“spiare attraverso il piccolo buco che aveva praticato tanto tempo addietro”).
La reazione della mamma - gelosia? Istinto repressivo? - non tarda ad arrivare e Norman non esita a coprire il delitto (“ora l’essenziale era far sparire le prove. Il corpus delicti”): quello famosissimo e celebrato da Hitchcock nell’indimenticabile scena della doccia…
Ma la mamma è sempre la mamma e Norman la pensa proprio così: “Ed eccola scivolare fuori, con un delizioso abito a trine. Aveva il viso incipriato di fresco e appena passato il rossetto, era graziosa come un quadro e sorrideva mentre si avviava giù per le scale”.
Le gesta successive di Norman mirano a rintuzzare Lila Crane e Sam Loomis, rispettivamente sorella e fidanzato di Mary, che tentano di far luce sulla sparizione di Mary affiancati dall’investigatore assicurativo Milton Arbogast.

Questo psicothriller è un capolavoro: si trastulla tra asperità e sfaccettature del complesso di Edipo, asseconda la violenza della rimozione (“solo di una cosa era lieto: di non essere responsabile di quanto era accaduto”), rappresenta con potenza scenografica le dilacerazioni che nella psicosi dissociativa trovano teatrale e rutilante manifestazione: “Norman il ragazzino che aveva bisogno della madre e odiava tutto quello che si metteva tra lui e lei. Poi c’era Norma la madre, che non si poteva lasciar morire. Il terzo aspetto potrebbe essere chiamato Normal… il Norman Bates adulto che doveva adattarsi al lavoro quotidiano e nascondere al mondo l’esistenza delle altre personalità… l’empia trinità.”

Da leggere, mantenendo - negli occhi che scorrono sulle parole del libro - il diaframma delle immagini del film di Hitchcock.

Bruno Elpis

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...la tragedia greca
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Arte e Spettacolo
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    23 Giugno, 2014
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ACRONIMO – Il pdv di Perse ed Eeta

“Primo figlio – Ahimé, che fare? Come sfuggire alle mani della madre?
Secondo figlio – Non so, o fratello carissimo; siamo perduti.”

Mamma,
E’ orrendo quello che oggi compi contro di noi.
Devi essere accecata da un amore folle che è pazzia:
E’ l’unica spiegazione per la nostra sorte.
Altrimenti… perché?

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“Giasone – O figli, che madre scellerata vi è toccata!
Medea – O bambini, sì, siete morti per la follia di vostro padre.”

“Giasone – Per questo li hai uccisi?
Medea – Per nuocere a te!”

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....Medea della Wolf. "La lunga notte di Medea" di Corrado Alvaro
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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    22 Giugno, 2014
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Che delusione!

L’ambiente è l’essere.
Quando i filosofi parlano di essere, discutono di vita. E l’ontologia (o la metafisica) non è qualcosa di astratto. L’essere è la vita. Il mondo. E noi siamo un’ipoteca per le generazioni a venire.
L’hanno sostenuto, agli albori della filosofia, i naturalisti. Come Talete, che disse: “L'acqua è la sostanza da cui traggono origine tutte le cose; la sua scorrevolezza spiega anche i mutamenti delle cose stesse. Questa concezione deriva dalla constatazione che animali e piante si nutrono di umidità, che gli alimenti sono ricchi di succhi e che gli esseri viventi si disseccano dopo la morte.”

Ho commentato con entusiasmo i precedenti romanzi di Jostein Gaarder. Ovvio per me: mi aspettavo – sull’ambiente – un’opera originale, d’impatto, una scossa vitale ed energizzante, che costituisse uno sprone a non consegnarci al fallimento planetario (che poi significa: surriscaldamento globale, viaggio verso la torrefazione).
Mi dispiace dirlo: “Il mondo di Anna” è un’accozzaglia di luoghi comuni, una storia sconclusionata e priva di mordente.
Di fronte a questa occasione sprecata di uno scrittore influente (se no, a cosa serve la cultura???), possiamo fare di meglio?
Io lo credo. Con tutte le mie forze. Per i nostri giovani. Basterebbe descrivere con entusiasmo uno dei tanti animali (in via d’estinzione o estinti) citati nel romanzo: basterebbe abbandonarsi all’etologia faunistica (e rappresentare l’etica dei grandi predatori) o all’estetica della natura (l’armonia ecologica di un ambiente, la bellezza mozzafiato di un paesaggio) per fare meglio di Gaarder.
Per questo lancio una sfida agli scrittori: perché non gareggiare su questo tema così vitale?

Di questo libro salvo il pensiero di fondo: oggi siamo responsabili del futuro del nostro pianeta. Su di noi grava il peso della sopravvivenza: dei nostri figli, delle generazioni successive. Ogni nostro comportamento – anche infinitesimo – è essenziale… E siamo ancora in tempo!
Pensiamoci: ogni volta che acquistiamo un prodotto che non sia ecologico, ogni volta che attiviamo un elettrodomestico o decidiamo di viaggiare in aereo, ogni volta che sprechiamo risorse come l’acqua… Ogni volta che agiamo…

Bruno Elpis

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... Consiglio quest'opera agli scrittori. Perché scrivano qualcosa di più stimolante. Ne abbiamo bisogno!
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    20 Giugno, 2014
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Con C.U.B., intervista a Tea Ranno

Anni venti, “nell’aria di nuovo Lola e il charleston” e nella Sicilia ove i colori sono esaltati dai contrasti e dagli estremismi di una natura incantevole (“Le rose dondolano appena. Soffia un venticello che profuma di mare. Viene dalle saline di Augusta”), Tea Ranno racconta la storia di un amore contrastato ne “La sposa vermiglia”.
I protagonisti: bella e delicata lei, Vincenzina Sparviero; ardente e affascinante lui, Filippo Gonzales. Entrambi giovani, nel pieno delle promesse vitali, si amano con una passione che è fatta di sguardi, sottintesi e attese. Tra mille sogni. Ma l’amore è tanto vero quanto impossibile. Perché Vincenzina, femmina ultimogenita che sfugge al destino di monaca soltanto perché una sorella muore (“Era su quel cadavere che aveva giurato di non ribellarsi più, di fare sempre quello che suo padre e sua madre le avrebbero comandato..."), è promessa in sposa a un vecchio arrogante, mafioso e volgare (“Nella sua vita, invece, sarebbe entrato Ottavio Licata, quello che spezza le gambe alle lepri per allenare i furetti, che scuoia i conigli mentre ancora respirano. Aveva chiuso gli occhi con raccapriccio”): Ottavio Licata, “pazzo, cocainomane, alcolizzato, violento”.

La trappola dell’amore combinato per mero interesse economico scatta perché contro i due giovani innamorati congiurano ferree regole sociali (“Ma possono le femmine abbordare un uomo e dichiararsi?”), convenzioni rigide (“Che da uno come Filippo Gonzales non verrà mai un comportamento contrario a quelle regole non scritte che in una famiglia siciliana sono più imperative d’un intero corpo di leggi?”) e connivenze più o meno consapevoli dei parenti (“Non hanno avuto neppure il tempo di dirsi una parola, neppure il tempo di scoprirsi lo stesso sentimento nel cuore. E di questo sarà colpevole Marietta Sparviero… una parola detta lì, tra gli aranci, avrebbe potuto significare la possibilità di un’altra vita”), in una società ove i violenti approfittano di un regime che soffoca la libertà (“Per iscriversi all’ordine dei giornalisti… occorre adesso un certificato di buona condotta politica rilasciato dal prefetto”) e reprime il pluralismo (“la censura che adesso vige non fa altro che sopprimere ogni contenuto ideologico alieno al fascismo”) sotto l’egida di “un partito di cui Ottavio Licata è perfetto esponente”.

I giorni che separano dalle nozze scorrono con le pagine del romanzo (“la sua vita sempre uguale, il cane furioso nella pancia, la messa la domenica, le chiacchierate con Gioconda e i libri…”), i due innamorati vivono segretamente la passione tra incontri fuggevoli (“Da quando si sono incontrati a Biduzza, anche lui pare mangiato dallo stesso bisogno: di vederla, di parlarle”) e sguardi struggenti, minacciati da una tragica domanda: “La dareste una colomba in pasto a un porco?”
In un clima appesantito dai cerimoniali complessi che precedono il matrimonio, ogni occasione – il pranzo di fidanzamento, la benedizione del talamo, il pegno rappresentato da preziosissimi orecchini con brillanti e zaffiri – è fonte di angoscia per la colombella braccata e i preliminari sono presagio di un epilogo che troverà compimento proprio il giorno delle nozze…

Lo stile dell’autrice rende verace un romanzo sospeso tra storia e dramma, anche attraverso frequenti dialoghi dialettali e descrizioni di vita trasversali rispetto ai ceti sociali. Tea Ranno utilizza una tecnica personale: nel corso della narrazione intercala soventi incursioni nel futuro, che anticipano alcuni sbocchi della vicenda, in un andirivieni tra presente e posteriorità che avvince il lettore, lasciandogli preconizzare gli eventi successivi in un clima di incertezza, sospetto, speranza…

Bruno Elpis

______________________________

Cinque (e più) domande a Tea Ranno

Bruno – Quali sono gli autori che ami leggere? Il tuo romanzo s’ispira a qualcuno in particolare? Quale rapporto hai con altri scrittori che nei loro romanzi prediligono la Sicilia come fonte d’ispirazione? Quest’anno un tema della maturità ha scelto come soggetto il Quasimodo di “Ride la gazza, nera sugli aranci”…

Tea – Amo moltissimo Stefano D’Arrigo. E’ nel mondo magarico di Horcynus Orca che – per certi versi - mi sono formata; perciò m’appassiona la prosa ricca, evocativa, piena di suggestioni, armoniosa e favolosa.
Amo anche Tomasi di Lampedusa. Sciascia. Pirandello. Vittorini. Brancati. Scrittori che hanno raccontato la mia Isola con sensibilità, disincanto o ferocia, ma sempre con un gran rispetto per la terra, per la sua gente.
E poi mi piace la Nemirovskj; e anche la Yourcenar, e la Strout, e Simenon, e Joseph Roth, e altri e altri che sarebbe lungo elencare.
Non ho avuto autori di riferimento quando ho scritto La sposa vermiglia. Solo, ogni tanto, mi tornava l’eco di “Cronaca di una morte annunciata” di Marquez.
La poesia di Quasimodo esprime quel certo incanto, quel sospetto di sogno che prende quando la realtà è così vivida da apparire surreale. Un idillio effimero come il riso della gazza tra gli aranci?

C.U.B. - Pare che la storia narrata ne “La sposa vermiglia” sia vera (se non ho capito male) ... Mi piacerebbe sapere se effettivamente la cronaca coincide con quanto narrato.

Tea – E’ vero lo spunto. Mia madre mi ha spesso raccontato la storia di Vincenzina. Ma nella realtà le cose sono andate diversamente. L’ambientazione, i personaggi, gli elementi di snodo del romanzo, sono stati tutti inventati. Quello che accadde nel 1927 (ho retrodatato la vicenda di un anno) fu molto più stupido e brutale di quanto ho trasposto sulle mie pagine.

C.U.B. - La Bidduzza, la residenza al mare della famiglia Sparviero, esiste veramente? Sembra un posto fantastico…

Tea – Bidduzza era una tenuta dei miei nonni. Mia madre me ne ha sempre parlato come di un posto favoloso. E così è entrato nel romanzo, come posto favoloso, che si carica di ogni possibile bellezza e suggestione. Quello vissuto a Bidduzza è un giorno felice per tutti: questo desideravo e questo ho fatto in modo che fosse.

C.U.B. - Nel caso in cui la storia sia vera, che fine ha fatto Filippo nella realtà che viene dopo il racconto?

Tea – Filippo non è mai esistito. Nella storia vera, Vincenzina e suo marito erano coetanei, e lui non era così imbevuto di idee fasciste, né così ricco, né così spietato. Pare che si ubriacasse, questo sì, e che usasse droghe, ma il Licata del romanzo ha quasi nulla in comune con l’uomo vero. Ho voluto costruire un personaggio spietato (ma anche capace di improvvisi sbocchi di tenerezza verso la palombella fragile) perché avevo bisogno di un contrasto importante tra lui e lei, che giustificasse quel gesto estremo.

Bruno – Chiudiamo questa breve intervista con una domanda molto impegnativa: come si è evoluta la società siciliana rispetto a quella da te descritta ne “La sposa vermiglia”? Qual è il tuo sentimento prevalente rispetto a una terra culturalmente tanto fertile?

Tea – Posso parlare della “mia” Sicilia, di quella in cui sono cresciuta, e precisamente la parte orientale di essa: si è evoluta per via di un forte processo di industrializzazione (l’impianto, negli anni Cinquanta del secolo scorso, di un polo petrolchimico), tale da stravolgere le caratteristiche del territorio portando grande ricchezza ma anche un fortissimo inquinamento.
Il sentimento prevalente verso la Sicilia è di nostalgia. E’ questa, infatti, che muove la mia mano, che mi fa venire voglia di posare il mio paese sopra la pagina e riguardarmelo e contemplarlo e costruirlo a mio piacimento, enfatizzando ciò che amo e mettendo in ombra i vizi più eclatanti.

Ringraziamo Tea Ranno per aver soddisfatto – con simpatia e disponibilità - le nostre curiosità di lettori…

Tea Ranno, C.U.B. e Bruno

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    19 Giugno, 2014
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Un exit inaspettato

Tento una sinossi del romanzo-diario-fiction “Exit strategy” di Walter Siti attraverso i titoli dei capitoli.
“Una storia personale di uscita dall’ossessione erotica è diventata metafora di uscite ben più impegnative: da un incantamento che paralizza la vita politica italiana…” (Via, via di qua): Walter abbandona Roma (Roma palindroma) e dice addio a Marcello. Fa tappa a Modena e poi si trasferisce a Milano. Attratto da corpi maschili tonici, si consegna al costoso rapporto con il pornoattore argentino Rodrigo; intanto viene scritturato per la sceneggiatura di un reality demenziale destinato al fallimento (Prigioniero della scimmia. “Il trash è fondamentale… un po’ di voyeurismo, se no con le lezioni su Hegel il pubblico muore di pizzichi”). In balia del declino fisico senile, Walter vive cinicamente la malattia e la morte della madre; poi s’imbatte nella relazione con Gerardo (Gerontofilia) che per amore lo segue a Milano (Milano Inganni. “Angelo e Inganni. Sembra il riassunto della mia vita”). Sullo sfondo, scorrono le tensioni e gli intrighi del premio Strega (Ma che, davvero davvero), l’ascesa di Renzi e la condanna di Berlusconi (Post scriptum) in un paese dilaniato in egual misura da crisi e gossip. La strategia di uscita sembra concludersi con il tradimento ai danni di Gerardo, emblema di fedeltà e stabilità, ma una ricomposizione giunge inopinata (Addendum in extremis) con finale sospeso sul Cimitero Monumentale (“Cado in ginocchio e prego senza sapere Chi”).

Il filo conduttore dell’azione è l’inquieta evoluzione erotica che dalla relazione con il “borgataro smidollato” Marcello (“Il nostro rapporto umano è amministrazione burocratica, bilancio ancipite e ritroso, mentre la staffetta dei fuochi rischia di morire per colpa sua”) evolve prima nell’esasperazione mercenaria (“Ho pur sempre una pensione da cattedratico, per trovarmi in difficoltà deve prima fallire l’Italia”) rappresentata da Rodrigo, “un apolide furbastro”, poi nella dedizione supplice e ammirata di Gerardo.

Il parallelismo con le vicende politiche coeve trapassa la fase culminante del berlusconismo (“Grazioli - San Martino – Certosa: triangolo di forze che ipnotizza l’Italia incantandola in un frinire di onde elettromagnetiche”) e del maschilismo politico (“Silvio Berlusconi, anagramma di l’unico boss virile”) fino al crollo del Cavaliere (“Foto impietose nei giornali di famiglia mostrano Berlusconi rattrappito in una smorfia di commozione senile”) con epilogo in surroga (“Matteo Renzi è il metadone per l’antiberlusconismo tossico”).

La narrazione degli eventi è spietata (“Fatto sta che dopo la demenza di mia madre non c’è più nessuno che mi voglia bene, nessuno per cui io sia la persona più importante al mondo”), dissacrante, impietosa (le acrobazie sessuali del quasi settantenne protagonista sono rese possibili da una protesi peniena idraulica che sfida le leggi dell’andrologia) e provocatoria, ma si compiace nella redenzione di un finale struggente (“La sola cosa che mi manca ormai è la giovinezza. Il futuro è una belva accovacciata che aspetta di saltare”) che ammicca alle unioni civili, dopo aver vagheggiato le pratiche dell’eutanasia.

Lo stile è notevole: ricco di neologismi esterofili, riecheggia arte e mitologia (“A Trezene esisteva un mirto con foglie bucherellate, si raccontava che quei buchi li avesse fatti Fedra quando pazza d’amore per Ippolito andava a spiarlo nudo in palestra”), trasuda erudizione (“E’ la poesia quella che si volta indietro, versus; la prosa, prorsus, va avanti”) e fonde scandalismo, giornalismo, intemperanza esistenziale e materialismo estetico in una miscela sperimentale che per certi versi allude al Philip Roth de “Il fantasma esce di scena”, per altri a Pasolini, del quale Walter Siti è massimo studioso.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    17 Giugno, 2014
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120.000 euro, la quotazione di un omicidio

Alla crisi economica ciascuno reagisce come può.
Adelmo, per esempio, che è l’incarnazione della mediocrità, pensa bene d’improvvisarsi ladro per rimediare alla condizione di disoccupato. Ma è un ladro da strapazzo ed è incalzato dalla moglie, la Carlina, che gli telefona proprio quando lui si trova… sul posto di lavoro (“In quel momento squillò il cellulare del ladro”), per l’impazienza di conoscere in anticipo quale sarà il risultato del “colpo”.
In uno di questi furti per principianti del crimine, Adelmo incontra l’occasione per cambiare vita: l’opportunità si chiama Lise, era croupier (“Ero talmente brava da riuscire a manipolare la verità nei casinò sulle navi, dove tutto è fasullo”) e oggi costringe il poveretto a riflettere sulla sua mediocrità (“Nessuno l’ha mai rispettata nella vita e adesso il rispetto lo pretende proprio da me con le minacce. Lei è proprio un vigliacco”).
Sull’orlo del baratro (“Derivati… dài, si capisce già dal nome che sono una patacca”), Lise promette ad Adelmo 120.000 euro in cambio di un servizio: “Uccidimi, ti prego. Me lo merito”.

Un racconto che vuole, attraverso il paradosso, porre il tema delle scelte che possono imprimere una svolta alla vita, anche quando tutto è dato per acquisito (“Non c’è niente di male a volere una vita normale. Con le sue gioie e i suoi dolori, ma con la sicurezza che non ci saranno mai delle sorprese”).
La storia è ambientata nella Rimini che già fu di Fellini e descritta da Tondelli. Per Carlotto, “Rimini è una delizia da percorrere in bici. C’è un momento della notte davvero magico, quando i venti si incrociano e l’aria sa di mare e di campagna”.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    16 Giugno, 2014
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Ritorno all’infanzia

Diario nipponico di un’affermata scrittrice: la visione della tragedia di Fukushima rappresenta per Amélie Nothomb il motivo di un viaggio, che viene documentato con un filmato (“E’ il 28 marzo 2012. Sono una scrittrice belga che, dopo un’assenza molto lunga, ritrova il paese dei suoi primi ricordi”).

Tra le visite, il commovente incontro con l’anziana bambinaia, abbandonata dalle figlie (“Anch’io, Nishio-san, sono sua figlia. E sono venuta dall’Europa per vederla”) e che vive senza aver appreso del disastro nucleare. E l’appuntamento – non senza apprensioni - con l’amico di sempre (“Rinri era il ragazzo di assoluta bontà che avevo conosciuto ventitré anni prima e nei confronti del quale i miei sentimenti non erano mai cambiati”).

L’attenzione è concentrata sui ricordi: grazie ai quali, anche particolari prosaici come un canaletto di scolo si tingono di memoria (“Io che ho tanto giocato al pesce o alla barchetta lungo il suo percorso…”). Come all’asilo: “Lì m’imbatto faccia a faccia con lo scivolo gigante che è stato uno dei luoghi sublimi della mia infanzia”.

Le città sono vissute tra sensibilità artistica e “sindrome di Mishima”: Kyoto (“La sera, quando prendiamo il treno per Tokyo, siamo in overdose sensoriale”), la capitale nipponica (“Tokyo è innanzitutto un ritmo: quello di un’esplosione perfettamente controllata”) e, naturalmente, Fukushima (“Apocalisse significa rivelazione: ci viene rivelato il disastro”): “Lasciamo questo paesaggio quasi bello a forza di essere orribile”.

Il viaggio è riscoperta di significati (“Natsukashii definisce la nostalgia felice… l’istante in cui la memoria rievoca un bel ricordo che lo riempie di dolcezza”), consapevolezza matura della cultura giapponese, analisi intima dei contenuti del “ritorno” (“L’aereo sta sorvolando le cime dell’Himalaya, e il loro candore è tale da rischiarare le tenebre”).

Apprezzeranno questo scritto soprattutto i fan di Amélie Nothomb, che avranno modo di gustare la dolcezza di un’autrice che, nel gioco delle parti, spesso si è mostrata dura, aspra e ruvida.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    15 Giugno, 2014
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Aiutare il destino

“La forza del destino” è il titolo verdiano che Marco Vichi ha dato al seguito di “Morte a Firenze”.
Nel primo romanzo della saga, i drammi individuali (e ce ne sono molti: lo strazio della famiglia della giovane vittima, l’impotenza del commissario, la violenza subita da Eleonora, giovane amante del commissario Bordelli, che viene violentata per una vigliacca ritorsione) sono proiettati sullo sfondo di un’immane tragedia collettiva: quella dell’alluvione del novembre del 1966. L’Arno esonda. Acqua e fango travolgono la bellezza della città d’arte per antonomasia e le vicende dell’inondazione sono narrate con stile icastico, attraverso una pregevole ricostruzione storica degli eventi.
Ne “La forza del destino”, l’ex partigiano Bordelli si è ritirato dal suo ruolo istituzionale. Si è sospeso dal servizio e ha acquistato un casolare sulle colline. Lì, immerso nella bellezza della campagna toscana, Bordelli si riconverte a nuova vita: si dedica all’orto, si diletta in salutari passeggiate nei dintorni, adotta un cane grosso come un orso, frequenta gli amici di sempre (il Botta, pregiudicato dal cuore d’oro con il quale realizza un “colpo grosso”; la Rosa, ex prostituta, con la quale testimonia alle nozze del medico legale Diotivede …), affina la passione per le sperimentazioni culinarie … E intanto continua a chiedersi quale sia la forza del destino. E se il destino può essere aiutato dall’azione dell’uomo. E se il senso delle cose può essere ancora chiamato “destino” quando viene propiziato dall’intervento umano.
In questo romanzo assistiamo a un sorprendente cambiamento di registro: Bordelli si trasforma da uomo dell’ordine in “vendicatore” e, tappa dopo tappa, si rende strumento di una fatalità che, qualche volta, deve essere agevolata “ad arte” se si vuole che giustizia sia fatta.
Dunque, se Bordelli non ha prove giuridicamente valide contro i gli omicidi e stupratori del piccolo Giacomo Pellissari, sarà il destino – con la sua conclamata forza, più o meno coadiuvata – a vendicare la piccola, innocente vittima. Uno dopo l’altro, i vigliacchi saranno colpiti da un destino di morte che rimette ordine nelle carte sparigliate dalla violenza umana. Il tutto, magari, avverrà anche prendendo spunto da un’indagine pro tempore condotta da Bordelli, ingaggiato dalla contessa che gli chiede di far luce sul caso di apparente suicidio del figlio Orlando.
Dopo che giustizia sarà fatta, il commissario Bordelli potrà riprendere le sue vesti, quelle che gli chiediamo di non abbandonare…

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    13 Giugno, 2014
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Birds & birds & birds

Dal primo di questi racconti (“Gli uccelli”) trasse ispirazione Alfred Hitchcock per i “Birds” del suo film cult. Lo spunto della tensione è il medesimo, ma la storia che Hitchcock impianta sull’atmosfera di terrore e minaccia mutuata dall’idea di Daphne Du Maurier è completamente diversa.

Il racconto ha infatti un plot piuttosto elementare, perché narra come Nat affronta gli inquietanti stormi dei volatili assassini con la moglie e i figlioletti Jill e Johnny.
Dapprima è soltanto osservazione di abitudini stanziali (“i rituali della loro vita non tolleravano ritardi”) o migratorie (“arrivavano sulla penisola a grossi stormi, irrequieti, agitati, consumando le energie nel continuo movimento”). Poi le pagine s’imbrattano di macchie (“bianchi e neri, gabbiani e cornacchie si mescolavano in starne amicizie, in cerca di una specie di liberazione, mai soddisfatti, mai fermi”) e di forme (“beccacce di mare, pettegole, piovanelli e chiurli erano appostati sulla battigia”) al ritmo incalzante (“gli uccelli erano stati più irrequieti che mai quell’anno e la loro agitazione era più evidente perché le giornate erano tranquille”) di una minaccia che diventa sempre più concreta (“ci sono in giro più uccelli del solito, me ne sono accorto anch’io”), sempre più misteriosa nelle cause (“è colpa del tempo, dev’esser così, è colpa del brutto tempo”) e cupa nelle tonalità (“erano i gabbiani a oscurare il cielo ed erano silenziosi, non emettevano un solo verso”).
Di fronte a un’occulta forza naturale, l’uomo è piccolo piccolo con le sue strategie prima supponenti (“Perché non si ferma qui e si unisce alla battuta di caccia?”), ben presto difensive (“decise di portare gli uccelli alla spiaggia e di seppellirli là”), poi di rassegnata resa (“ovunque volgesse lo sguardo vedeva uccelli morti”), infine di disperata sussistenza (“Nat prestò ascolto al rumore del legno ridotto in schegge e si domandò quanti milioni di anni di memoria fossero rinchiusi in quei cervellini, dietro quei becchi appuntiti, quegli occhi penetranti, e che ora alimentavano l’istinto di distruggere l’umanità con l’abile precisione delle macchine”).

Anche il secondo racconto (“Monte verità”) ha un’atmosfera di sospensione e minaccia in una connotazione mistica (“Questa calma, non saprei come altrimenti chiamarla, proveniva da una profondità interiore e gettava su tutta la casa una specie di incantesimo”) se non addirittura esoterica (“A un tratto mi tornarono in mente leggende di tempi remotissimi, storie di druidi, di massacri, di sacrifici umani”). Con ritmo lento, quasi esasperante, scorre la storia d’amore tra narratore e Anna, moglie dell’amico di sempre Victor: tre appassionati di montagna (“L’impulso ad arrampicarsi non potrà mai essere spiegato”) legati dal filo di una storia inquietante (“Dopo tutto siamo alla ricerca della stessa cosa”) di misteriosa sparizione...

A mio parere, questo libro è unicamente “Uccelli”, cinquanta pagine circa alle quali dedico le mie valutazioni.

Bruno Elpis

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Narrativa per ragazzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    13 Giugno, 2014
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Zitto, piccino mio, la notte è vicina

Oh, zitto, piccino mio, la notte è vicina.
E nere son l'acque che sì verdi scintillavano.
La luna, sui marosi, guarda giù e trova noi
Che riposiamo negli avvallamenti dell'onde mormoranti.
Laddove i cavalloni s'incontrano, lì soffice sia il tuo cuscino;
Oh, mio piccino affaticato, raggomitolati a tuo piacere!
La burrasca non ti sveglierà, né lo squalo ti sorprenderà,
Se tu dormi in braccio ai flutti, che ti cullan lentamente
(Ninna nanna della foca, R. Kipling, Il libro della giungla)

La giungla ha leggi (“Che dice la legge della giungla? Colpisci prima e poi fa’ udire la tua voce”) e regole (“Nessun abitante della Giungla vuol essere disturbato, e tutti sono prontissimi ad avventarsi addosso all’intruso”) e il cucciolo d’uomo - Mowgli il ranocchio (“Com’è piccino! E com’è spelato e anche ardito”) – è oggetto delle cure di “un lupo abituato a trasportare i suoi piccini”, dopo che viene accettato dalle belve (“Mowgli venne accolto nel Branco dei Lupi di Seeonee per l’offerta di un toro e per le buone parole di Baloo”) con naturalezza: è una creatura per certi versi simile agli animali (“Ha la pelle delicata e somiglia molto ai bandar-log”, le scimmie), ma per altri versi ha poteri superiori (“Per fiore rosso Bagheera intendeva il fuoco”) e ciò suscita diffidenza (“Gli altri ti odiano perché i loro occhi non possono sostenere il tuo sguardo, perché tu sei scaltro…”).
Mowgli – grazie a precettori d’eccezione come Baloo e Bagheera – sa integrarsi, impara le parole d’ordine, partecipa alle riunioni che si svolgono sulla rupe del consiglio nell’era di Akela, il grosso lupo grigio, il capobranco. Dopo l’avventura alle Tane Fredde, un’antica città abbandonata, Mowgli oscilla tra natura-libertà e villaggio degli uomini, vivendo il suo conflitto d’identità: “L’altra volta fu perché ero un uomo, questa volta perché sono un lupo”.

La Giungla ha i suoi protagonisti, tutti animali contraddistinti con l’iniziale maiuscola. Innanzitutto quelli che abbiamo conosciuto anche grazie a Disney.
Come il pitone Kaa: “Lo trovarono steso tutto lungo sopra il risalto d’una roccia riscaldata dal sole pomeridiano, che si stava ammirando la bella pelle nuova, poiché era stato nascosto negli ultimi dieci giorni a mutar la pelle, ed ora appariva in tutto il suo splendore e faceva scattare la grossa testa appiattita rasente terra, e attorcigliava i trenta piedi di lunghezza del suo corpo in curve e nodi fantastici, e si leccava le labbra al pensiero del pasto prossimo”. O come il nemico di sempre: la tigre Shere Kan (“Il governo ha messo una taglia di cento rupie sulla sua testa”), da piegare con uno stratagemma (“prendere così Shere Kan tra i tori e le vacche”).
Oltre ai personaggi più noti, la giungla annovera anche lo sciacallo Tabaqui detto il Leccapiatti, i volatili (“E’ l’ora in cui Ran, il Nibbio, riconduce la notte Che Mang, il Pipistrello, ha liberato”), Ikki il Porcospino, Mao il Pavone, Hathi l’Elefante Selvatico…

“Il libro della giungla” contiene altre avventure. Come quella di Rikki-Tikki-Tavi (“Era una mangusta che aveva il pelo e la coda quasi come un gattino, ma la testa e le abitudini di una faina”) che combatte il temibile cobra (“Spuntò dall’erba la testa col cappuccio di Nag, il grosso cobra nero…”) in uno scontro fatale (“guardò Rikki-Tikki con gli occhi cattivi del serpente”) contro l’animale sacro (“quado il primo cobra aprì il cappuccio per riparare dal sole Brahma che dormiva”) perché “il compito d’una mangusta adulta nella vita consiste nel dar la caccia ai serpenti e nel divorarli”.
O come quella di “Toomai degli elefanti”, ove un ragazzino sull’elefante Kala Nag partecipa a un sortilegio (“La danza degli elefanti… io l’ho vista…”) che gli vale rispetto e onore (“Questo piccino non deve esser più chiamato Piccolo Toomai, ma Toomai degli elefanti”).

Un libro per sognare, per ritornare bambini, per rimanere adulti con il cuore di bambini…

Bruno Elpis

“Le macchie sono la gioia del Leopardo; le corna sono l’orgoglio del Bufalo.”

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    12 Giugno, 2014
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Cosa vede? Ombre…

Blanca, l’investigatrice ipovedente (“Cosa vede? Ombre”) nata dalla fantasia di Patrizia Rinaldi, in “Rosso caldo” si occupa di un omicidio che, preceduto da strane voci (“Alina restò sveglia a sentire gli spiriti. Erano tornati…”), viene commesso nei sotterranei di un palazzo d’epoca. Urla e lamenti sono percepiti da due anziane donne che abitano nell’appartamento attiguo, oltre che dal guardiano notturno del palazzo. Costui ha una personalità fragile: non regge il colpo (o forse le minacce?) e si suicida. Poi vi è un altro delitto e uno strano ritrovamento complica la scena criminale, perché invia agli inquirenti un oscuro messaggio subliminale…

Il romanzo è interessante perché unisce all’indagine la storia personale dei protagonisti. Tra di questi, ovviamente una parte centrale è occupata dalla sovrintendente, che affida le sue abilità e l’intuizione agli altri quattro sensi.
Nel romanzo precedente abbiamo ammirato Blanca nel ruolo di madre adottiva di Ninì (“Ormai Blanca era sua madre, non la donna misteriosa che l’aveva accolta quando suo padre era stato arrestato per aver confessato l’omicidio di chi l’aveva portata nella pancia di madre bambina”), l’adolescente rimasta orfana di madre per il delitto attribuito al padre della stessa: Gianni Russo, che evade dal carcere ed è disposto a tutto…
In questa nuova puntata ritroviamo le due donne a fare i conti con un passato complicato (“Ho una madre anomala di una vita anomala”), che naturalmente riaffiora nel desiderio di riconsegnare al padre delinquente un’improbabile innocenza. Ninì si lascia guidare da sentimenti figliali di speranza (“L’anno scorso gli ho scritto pure una lettera in carcere”) ed è disposta a credere al genitore naturale (“Non ho ucciso Margherita, devi credermi. Mi hanno spinto a confessare”), anche contro ogni evidenza, pur di riscattare un passato troppo difficile da accettare.
Le fasi del conflitto interiore (“Si ribellò come una ragazza ferita: ferì”) sono descritte con realismo psicologico (“Metà di lei voleva correre dalla madre, abbracciarla, dirle tutto…. Metà di lei voleva offenderla, farle assaggiare almeno una parte del suo dolore…”) e senza indulgere ai sentimentalismi: Blanca reagisce in modo ruvido e fermo alla ribellione della figlia adottiva, pur abbandonandosi interiormente alle fragranze di un amore che, come Ninì, ha il profumo del glicine (“Hai dimostrato di avere anche il carattere del glicine, oltre l’odore, perché nessun rampicante ha la stessa vitalità”).

Il dramma familiare è avvincente almeno quanto l’indagine. Forse perché anch’esso procede sotto i colpi della tensione: “Ninì vide quello che Blanca non poteva vedere. Gianni Russo…”

Bruno Elpis

P.S. A breve, su www.brunoelpis.it, nella sezione interviste, pubblicherò l'intervista che ho realizzato con l'autrice in occasione dlela pubblicazione (avvenuta ieri, 11 giugno) di "Rosso caldo"

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...Blanca e "Tre numero imperfetto" della stessa autrice.
E i romanzi di Maurizio De Giovanni, per scoprire "the other side" della Napoli noir.
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    09 Giugno, 2014
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Acronimo

Se uno scrittore rifiuta i suoi personaggi
E li lascia orfani di storia, loro,
I protagonisti abbandonati, come

Possono ambire a un’esistenza? Ma
E’ naturale! Si
Rivolgono a una compagnia di attori
Sottoponendo la loro vita all’altrui interpretazione,
Offrendosi
Nudi
Alla
Gogna della rappresentazione,
Gettando in pasto passato, presente e sentimenti al disegno che
Il capocomico concepisce.

Il padre, la madre, il figlio, la figliastra, il giovanetto e la bambina
Narrano le loro storie,

Confliggono tra di loro e con gli attori
E inscenano il dramma della
Realtà
Che si scontra con la falsità della finzione. Dramma
Acuito

D’improvviso

Anche da due coup de théatre sul finale.
Un testo, il capolavoro di Pirandello, che stravolge il
Teatro contemporaneo, un’
Opera che nel 1921
Rivoluziona il rapporto tra autore, attore e spettatore
E ne reinterpreta ruoli, condizioni e profili.

Bruno Elpis

“Attori: Finzione! Finzione!
Padre: Ma quale finzione, realtà! Realtà, signori, realtà!”

“Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!”

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...opere di prosa, opere teatrali, poesie.
Consigliato a chi è appassionato di enigmi contemporanei e a chi tenta di comprendere lo spirito del nostro tempo.
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    08 Giugno, 2014
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Una pantera sul tappeto verde

Il nomignolo di pantera, utilizzato anche nel linguaggio corrente, è stato affibbiato a diversi personaggi del mondo dello spettacolo: per sottolinearne movenze feline ed eleganti, per connotarne ora l’aggressività, ora la sensualità, ora l’alone di mistero che le avvolge.
Stefano Benni cavalca quest’onda semantica e dipinge la storia di una donna dal passato sofferto, calando l’icona della “Pantera”… in una sala da biliardo: “L’Accademia dei Tre Principi era un vasto sotterraneo scavato un secolo prima… C’erano quarantatré laghi di smeraldo, illuminati da una luce fredda, quarantatré biliardi di marca… Tombe intorno alle quali un’umanità malinconica e disillusa consumava i suoi rimpianti”.
La narrazione è affidata a un ragazzo (“Io e Delon eravamo i garçons tuttofare”) che, con occhi ammirati, vede oggetti (“I Principi erano tre biliardi a fondo sala”: Azzurro, Nero e Maggiore), soggetti con pseudonimi evocativi (Faraone, Tamarindo, Mummia, i fratelli Bandiera…), giochi (“Alcuni avevano come specialità la carambola, altri la goriziana, altri il biliardo americano o la piramide russa”) e misteri del locale (cosa mai si celerà dietro la Porta Verde sempre chiusa?).
Naturalmente il ragazzo viene folgorato dall’apparizione di Pantera (“Snella, flessuosa, pallida”), che ben presto diviene la guest star della sceneggiata (“Si allungò sul biliardo con felina leggerezza, e colpì, un colpo infernale, di tre sponde”). Le gesta vittoriose della donna si susseguono. Poi arriva lui, l’inglese, l’uomo della sfida culminante e conclusiva: “Se Pantera era la nera principessa, lui era il cavaliere bianco… gli occhi di colore diverso, uno azzurro e uno grigio…” (ma non è la descrizione di David Bowie? Ah no! Quello è duca, non principe…).
A questo punto, il lettore si sente croupier e ammonisce: messieurs-dames, les jeux sont faits, rien ne va plus!
Il finale è drammatico, i due antagonisti giocano una partita che ha i meccanismi più del poker che del biliardo, una gara senza (o con?) esclusioni di colpi, un duello carico di allegorie (“Cerchiamo di dimenticare giocando che c’è un gioco più grande di noi”) e di tensione (“Ci sono partite che si giocano una volta sola”).
Nel volumetto c’è un altro racconto, Aixi: la triste storia di una bambina pescatrice, alle prese con un padre moribondo…

L’abilità narrativa di Benni consiste nel creare suggestioni sfruttando i “topoi” dell’immaginario collettivo, che qui viene trasfuso rispettivamente negli ambienti del gioco e del mare. Le illustrazioni in bianco e nero di Luca Ralli materializzano queste evocazioni: personalmente avrei preferito affidare il compito alla mia fantasia...

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    06 Giugno, 2014
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Alla vigilia del mondiale – Intervista a Gabriella

Per mano di Gabriella Genisi, Lolita Lobosco, il commissario più sexy d’Italia, torna con la sua quarta avventura a sventare un “Gioco pericoloso” di straordinaria attualità.
Per chi si fosse perso le precedenti avventure (ma anche per chi le avesse lette!), mi permetto di tracciare il profilo di Lolì, questa volta introdotta da una citazione di Bukowski: “… e arriva una donna, in pieno rigoglio, una donna che scoppia dal vestito… una creatura tutta sesso, una maledizione, la fine di tutto”.

Lolita:
- è seducente (“vestibilità perfetta, pizzo nero e nastrini rosa shocking da cocotte parigina”);
- è impulsiva (“l’arancia non lo colpisce in pieno e va a spiaccicarsi sul muro…”);
- è combattuta tra etica del ruolo (“a te la divisa t’ha dato al cervello”) e desiderio di valicare la rigidità delle regole;
- è moralmente integra, ma senza eccessi di moralismo (“la borsa è bella però, niente da dire”);
- è tanto innamorata quanto gelosa dell’amoresuo (“e poi metterlo sotto chiave, giusto per non farlo vedere troppo in giro”);
- è carnalmente mediterranea (“le melanzane destrutturate”, figuriamoci!);
- ha una sua filosofia sessista (“gli uomini si sa, sono come i cavalli. Bastone e carota ci vogliono. E ogni tanto uno zuccherino”) che prevede separazione di ruoli (“a voi il calcio, a noi la cucina”) e autocoscienza femminile (“le donne sono battitrici libere”);
- è soggetto dominante (“perché tra femmine e femmine di un certo tipo, quelle alfa per intenderci, non è che l’amore scatti in automatico”);
- è orgogliosa (“io agli occhi della città porto in testa un cesto di lumache”);
- è fieramente, divinamente barese (“nasco barese e barese morirò, perché la baresità è uno stato mentale”) con ascendente napoletano (“il bacio alla napoletana, per chi non lo sapesse, consta di due elementi imprescindibili”).

In questa nuova indagine “la poliziotta bella, quella che assomiglia alla Ferilli” è impegnata a trovare il collegamento tra il malore mortale che allo stadio colpisce il capitano del Bari calcio (“Scatucci che cade all’indietro sull’erba verdissima”) e l’incidente – altrettanto esiziale – nel quale perisce una vecchia conoscenza: “Vittorio Lamuraglia, noto commercialista barese quarantaquattrenne… viene travolto dal camion della spazzatura insieme a Polpetta, la sua cagnolina…”
Entrambi i decessi vengono frettolosamente archiviati dal PM – donna anche lei! (“Sabrina Sallusti, il pubblico ministero assegnato al caso Lamuraglia, fisico tonico… una sventola incredibile”) - che, guarda caso!, è rivale in amore (“tutto questo livore perché la ragazza si sta spupazzando il fidanzato tuo”) perché contende alla sexy-commissaria “Giovannimio”.
Lolita sa andare oltre le apparenze (“L’intera squadra del Bari in processione”): impulsività, intuito e ragionamento la porteranno a sventare truffa e corruzione che dal nostrano calcio-scommesse rischiano di minare l’imminente mondiale.

Con uno stile personale e sanguigno, nel quale abbonda l’uso enclitico del possessivo (amoremio, Nicolatuo, Giovannimio), nella simpatica e accattivante inflessione meridionale, Gabriella assicura divertimento, sane risate, qualche spunto di riflessione seria sulle piaghe della nostra società e… le immancabili ricette! Ammiccando ai colleghi giallisti (“Petra Delicado, l’investigatrice spagnola più famosa del mondo”) e creando occasioni d’incontro e collaborazione tra Lolì e altri personaggi romanzeschi (“Bernadette Bourdet, commissario marsigliese”).

Bruno Elpis

__________________

CINQUE DOMANDE A GABRIELLA GENISI

D - Ciao Gabriella. Sei contenta che Cassano sia stato incluso tra i magnifici azzurri che in Brasile disputeranno il calcio mondiale? Ma tu, che ne pensi del calcio? E da dove nasce l’idea di base di questo romanzo?
R - Ciao Bruno, sono felicissima della convocazione di Cassano in Nazionale. La volta scorsa era stato escluso ingiustamente, e dopo i problemi di salute dello scorso anno, lo meritava davvero. E poi lui è nato la Notte di Italia Campioni del Mondo 82. I mondiali sono scritti nel suo codice genetico, e chissà che non sia di buon auspicio per… Mi fermo qui, dai.

D - Peccato che, nel titolo, tu abbia abbandonato la frutta! Dopo “Giallo ciliegia”, “La circonferenza delle arance” e “Uva noir”, qualcuno di noi si sarebbe aspettato… il fico d’India!
R - La frutta era stata scelta inizialmente per connotare i libri con il Sud dove io abito, e per questo la mia scelta era caduta su Arance, Ciliegie e Uva, tre frutti che meglio caratterizzano. Ma una trilogia mi pare sufficiente, anche se alcuni lettori hanno protestato :)

D - Quanto ti rappresenta Lolita? Che rapporto hai con un personaggio così carnale ma pur sempre “di carta”?
R - Ormai Lolita mi rappresenta totalmente, e io un po' ci gioco. E' a detta di tutti il mio alter ego, ormai mi chiamano tutti così… Le sono affezionata come a una persona vera, e a volte non so più dove comincia lei e dove finisco io. Ma questo avviene durante le fasi di scrittura, quando per rendere credibile il personaggio mi immedesimo completamente nei panni di una fascinosa poliziotta.

D - Una curiosità editoriale: gli incontri tra Lolita e i detective nati dalla fantasia di altri autori sono concordati con gli scrittori tuoi colleghi? In cosa affonda questo tuo desiderio di “collaborazione”?
R - I miei crossover con altri investigatori di carta nascono dalla mia passione per la letteratura, e in un paio di casi, come per Hector Belascoaran di Paco Ignatio Taibo II e Bernardette Bourdet di Massimo Carlotto, ho anticipato l'idea ai miei colleghi di penna.

D - E adesso – anche se forse è prematuro – uno sguardo alla prossima avventura di Lolì… sii sincera, hai già un’idea che scalpita…
R - In questo momento sono in giro per la promozione ma in effetti l'idea c'è già anche se in fase embrionale. Il caso N. 5 del Commissario Lolita si chiamerà Spaghetti all'assassina, dal nome di una celebre ricetta barese. A morire sarà un noto ristoratore della zona.

Gabriella Genisi e Bruno Elpis

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... le altre avventure di Lolì.
Consigliato a chi voglia trascorrere alcune ore divertendosi con la lettura.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    04 Giugno, 2014
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Intervista a G. Morozzi: una famiglia in cerca d'a

Per collazione personale e assonanza soggettiva “Radiomorte” di Gianluca Morozzi (padre-madre-figlio-figlia-intervistatrice. E qui mi fermo!) mi ha evocato i “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello (padre-madre-figlio-figliastra-giovinetto-bambina).

Nel capolavoro teatrale pirandelliano (1921) assistiamo all’irruzione di personaggi rifiutati dallo scrittore che li ha concepiti: i sei chiedono al Capocomico una vita artistica. E chiedono che lui, il Capocomico, metta in scena il loro dramma. Dopo molte resistenze la compagnia accoglie la richiesta e i personaggi raccontano agli attori la loro storia per consentirne un’adeguata rappresentazione. Ben presto, tra attori e Personaggi si scatena un conflitto. Perché gli interpreti, pur profondendo impegno, non riescono a rappresentare il dramma reale e i sentimenti dei Personaggi: in sintesi, il dolore della Madre, il rimorso del Padre, la vendetta della Figliastra, la reazione sdegnata del Figlio. Sulla scena trionfa la falsità vacua della finzione. Come dire che esistenza e scena non comunicano, perché la vera vita non può essere riprodotta. Nella scena finale, esplode la tragedia e lo spettatore non comprende se l’exit sia reale o fittizio.

Anche nell’opera di Gianluca abbiamo un padre (Fabio), una madre-Medea (Patrizia), un figlio (Davide) e una figlia (Giulia), che vengono mostrati in tridimensione psicologica. Come collettivo, essi compongono la famiglia ideale (la famiglia Colla!) con il patriarca al centro: “la bolla armoniosa che sono sua moglie e i suoi figli”.
Nel ruolo del Capocomico troviamo Kristel (“giovane punk dai capelli color fiamma”), l’aggressiva conduttrice radiofonica che ha il compito d’intervistare la famiglia felice (devo resistere sino in fondo alla tentazione di qualificarla mutuando la definizione dal marketing alimentare!) nell’occasione della presentazione del romanzo di successo scritto dal capofamiglia: “La famiglia felice al tempo della crisi”.
Ben presto, quella che doveva essere una banale intervista si trasforma in incubo: la sala di registrazione è una tagliola tagliente e nell’insidiosa trappola (“Siamo in una sala insonorizzata. Che non si può aprire dall’interno…”) Kristel scatena la dinamica crudele della verità, scimmiottando lo schema di un game: “Quando era più giovane, Davide si era appassionato a un gioco di ruolo. Si chiamava Il richiamo di Cthulhu”. Viene ingaggiato “un Trofeo Colla al contrario”: “Sarete voi a decidere chi lasciare indietro. Pensare a chi ha fatto la cosa peggiore. Chi merita la morte.”
Il tempo trascorre secondo ritmi e tempi dell’agonia (“Vi concedo un’ora, a patto che uno di voi racconti a tutti il suo segreto peggiore”) e ciascun familiare narra gli orrori dei quali si è macchiato in passato. Anche Davide, che con la sua ignavia sembra essere il meno colpevole, nel momento cruciale commetterà l’infamia che lo appaia agli altri consanguinei...

Lo so, il mio accostamento iniziale con i “Sei personaggi” vi lascia scettici. Perché, se come recita il trito luogo comune “la matematica non è un’opinione”, tutti state obiettando: “Ma 4 familiari + 1 capocomico = cinque personaggi… E il sesto, chi sarà mai?”
Tranquilli, Gianluca crea anche il “suo” sesto personaggio: scegliete voi tra giovinetto e bambina…

“Radiomorte” mi ha riportato “ai tempi” di “Blackout”: per la spietatezza di visioni riprodotte e confessioni urlate, per la crudeltà linguistica, per la velocità con la quale le rarefatte, ciniche pagine si avvicendano a perforare protezioni, scrostare patine e travolgere mistificazioni. Tuttavia rimango con l’atroce dubbio iniziale: la rappresentazione può davvero interpretare la realtà? O è soltanto l’ennesimo reality show?

Bruno Elpis

_________

CINQUE DOMANDE A GIANLUCA MOROZZI

D - Cosa pensi del mio accostamento tra “Radiomorte” e i “Sei personaggi in cerca d’autore”?
R - Geniale! Non ci avevo pensato. Amo veder trovare lati nuovi e inaspettati nei miei libri.

D - Considerato il precedente di “Blackout”, non ti sorge il dubbio di soffrire di claustrofobia? In caso affermativo, quanto – per te - la scrittura dei romanzi è “coming out”, quanto è terapia?
R - Io non soffro affatto di claustrofobia, in realtà, ma di vertigini. Sono piuttosto certo di essere stato gettato giù dalle mura di un castello della Loira, in una vita precedente. Se volessi scrivere un romanzo terapeutico, metterei il mio protagonista al decimo piano in un terrazzo dal parapetto basso…

D - Nella gratulatoria finale leggiamo che l’ispirazione è venuta dal “portico delle Belle Arti”… Ci spieghi meglio la tua folgorazione?
R - Lo so che sembra una roba da pazzi, ma è vera. Stavo camminando lungo il portico di via Belle Arti… ora, non so quanti archi abbia quel portico (quello di San Luca ne ha 666: demoniaco, vero?). Diciamo che ero all’altezza dell’arco numero 19, che era il numero dei miei romanzi prima di Radiomorte. Ok: ho fatto un passo, pensando ai fatti miei, e all’altezza del ventesimo arco avevo tutto, inizio, sviluppo centrale, finale (esattamente quello che potete leggere ora), e addirittura titolo. Cosa si fa in questi casi? Si ringraziano le muse, poi si va a casa e si scrive il romanzo.

D - Perché sempre lì, nell’ultima pagina, ringrazi “Chuck Palahniuk, in generale” e non Lovecraft al quale tutti noi pensiamo quando parli del gioco di ruolo “Il richiamo di Cthulhu”?
Perché Il richiamo di Cthulhu è un gioco di ruolo al quale non ho mai giocato in vita mia (mentre ho letto molto Lovecraft), mentre quella strana seconda persona apparente che invita a guardare per tutto il romanzo mi faceva tanto Chuck Palahniuk…

D - Ma non temi che questo romanzo possa offrire l’idea per l’ennesimo, sciagurato reality show?
R - Santo cielo, sarà finita, ormai. l’era dei reality show… non è più il 2004 di Blackout, per fortuna!

Bruno Elpis e Gianluca Morozzi

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Racconti
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    01 Giugno, 2014
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Mater semper certa, pater numquam

Il titolo di questa raccolta di racconti richiama un’espressione che proviene dal mondo del teatro: lì, la “scena madre” è una delle scene portanti, a volte quella principale. La scelta del titolo sembra dunque preludere a un esperimento che valuti se al padre possano essere attribuiti ruoli e funzioni che madre natura, tradizione e - ahinoi - cultura hanno spesso e principalmente assegnato alle mamme.
Il quadro che esce dalle storie è quello di un uomo-padre dubbioso, problematico, sensibile, alla ricerca di un significato e di un’interpretazione di ruolo. In questo senso deve essere inteso il titolo che ho dato a questo mio commento: perché “Mater semper certa, pater numquam” è locuzione che viene generalmente utilizzata per ben altro scopo…
Cercherò di spiegarmi meglio commentando i singoli racconti.

Diego De Silva in “Diventare è capire di essere” affronta il tema del cambiamento – psicologico e materiale - indotto dall’arrivo di una figlia e proiettato, a distanza di anni, quando il protagonista si ritrova a pedinare la figlia incontrata casualmente per strada (“Un giorno glielo dico che quella volta l’ho seguita”).

Andrea Canobbio in “Madrepatria” esplora il rapporto di coppia nei panni di un corniciaio che riflette sul suo sentimento anche grazie a riproduzioni di quadri famosi e vive la sua partecipazione al parto subendo “la violenza sanguinaria dell’evento”, per esprimere scetticismo: “Assistere al dolore del parto… l’importanza della presenza del padre. Ma quando mai.”

Valerio Magrelli rappresenta l’ “Essere padre in ventuno strofe” (di Children’s corner). Secondo il poeta, diventare padre “è un disastro. Il più splendido disastro che ti possa accadere”. E significa “ritrovare se stesso in un altro: tale esperienza è simile a quella provata dal personaggio mitico di Sosia”. Attraverso metafore (“Ma non dimentichiamo quella clessidra umana che è il pipistrello, ossia il vampiro, l’animale che svuota l’ampolla vivente della preda, portandogli via il sangue, prosciugandola, secondo l’etimo della parola clessidra, dal greco sottraggo acqua”) Magrelli esprime un dubbio esistenziale: “Fare un figlio significa essenzialmente lasciare una persona di notte, per strada, con una gomma a terra”. E una responsabilità: “Impossibile negare l’esistenza di aver convocato dal nulla… degli esseri che altrimenti non avrebbero mai avuto la minima intenzione di venire al mondo”. Per concordare con Chateaubriand: “Mia madre mi inflisse la vita”.

Sandro Bonvissuto cambia repentinamente il registro della narrazione. In “Rifiuti ingombranti” rivive umoristicamente, attraverso il conferimento in discarica del vecchio frigorifero, ciò che l’elettrodomestico ha rappresentato nella vita familiare. “Guardare un figlio è una visione talmente grande che non c’entra nemmeno negli occhi… Ecco perché a volte i genitori non si accorgono di certe cose dei figli, cose che vedrebbe chiunque.”

Il tono ironico viene utilizzato anche da Antonio Pascale: “Le caramelle” sono ricordi di un’infanzia che gioca brutti scherzi a un padre – impegnato a mostrarsi, agli occhi dei figli, migliore di quanto sia nella realtà – che tenta di misurarsi con una generazione più scaltra e perspicace.

Ascanio Celestini, in “Un bell’applauso”, si avvale dell’ambiente della piscina per rappresentare pensieri, riflessioni e ansie di genitori presenzialisti e apprensivi.

Marcello Fois (“Tu, me”), al ritmo di una preghiera (il “Padre nostro”), a parer mio scrive il miglior racconto della collezione: il protagonista sognava di fare il pittore, diviene poliziotto e – in corazza antisommossa - racconta il suo rapporto con il figlio in occasione delle volte in cui avrebbe voluto… ucciderlo!
Per le crisi d’insonnia (“Sei mesi senza mai dormire”), per uno scherzo di cattivo gusto (“E disse che era solo uno scherzo”), per una tragedia anagrafica (“Nemmeno lo presi in braccio quella prima volta… dopo la morte di mia moglie”), per la delusione ai regionali di scherma (“Piuttosto che far vincere me”). Naturalmente la narrazione è iperbolica, ma non è priva di considerazioni profonde (“quel rimprovero sottile che le generazioni si scambiano l’un l’altra per genetica”) e di finale a tema: “Quando torno ti ammazzo, gli urlo contro”.

Ernesto Franco, in “Diario del padre”, si rappresenta tra due fuochi: il padre medico in fin di vita da un lato, il figlio nascituro dall’altro. Nel momento di passaggio (“A breve non sarei stato più suo figlio”), l’uomo sperimenta il senso di inadeguatezza (“Dal figlio al padre non c’è consiglio. Perché non si è mai uomini entrambi nello stesso tempo”) e ha una cisi d’identità di fronte all’immagine della giacca del padre accostata alla giacchetta del figlio: “Né figlio né padre. Solo un uomo solo. Perduto nelle generazioni infinite.”

Nel complesso, una bella selezione di racconti, che consiglio anche al gentil sesso. Sperando che il mio giudizio non sia frutto di eccessiva immedesimazione, concluderei affermando che sì, forse anche la “scena padre” ha un suo diritto di essere… se non altro per rappresentare le nostre insicurezze e l’enorme desiderio di amore (di amare, di essere amati), nonostante la presenza del cromosoma y…

Bruno Elpis

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Classici
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    29 Mag, 2014
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ACRONIMO

Il desiderio di fuggire, sparire, cambiar vita. Chi non
Lo ha mai provato almeno una volta? Si

Fa attrarre da questa prospettiva Mattia, un
Uomo che, sposando Romilda, è costretto a convivere con

Marianna Pescatore, l’odiata suocera. Dopo una vincita
A Montecarlo, Mattia apprende d'essere morto: su un giornale.
Troppo facile approfittare dell'equivoco e realizzare il desiderio di sparire! Si
Trasferisce a Roma sotto
Il nome fasullo di
Adriano Meis. Un nuovo amore e gli eventi

Però propalano che l’identità fittizia è
Anche prigionia. E impossibilità di vivere. Un simulato
Suicidio consentirà a Mattia-Adriano di tornare a Miragno
Come bibliotecario, senza essere riconosciuto... L’opera
Anticipa nel 1904 i temi cari a Pirandello:
“La vita o si vive o si scrive, io non l'ho mai vissuta, se non scrivendola.”

Bruno Elpis

Mezzo secolo dopo, nel 1954, Thomas Narcejac e Pierre Boileau scriveranno “D’entre les morts” (1954), opera che ispirò il film “Vertigo – La donna che visse due volte” (1958) di Hitchcock: “C’è ancora un’ultima cosa che devo fare, e poi sarò libero dal passato” (John Ferguson/James Stewart nel film di Hitchcock).

Quella di Pirandello è la storia de “l’uomo che morì tre volte” e affronta il tema dei ruoli sociali e dei vincoli rigidi entro i quali scorre la vita: “La vita è un continuo movimento e cambiamento, e la forma è una specie di sistema sociale, di legge esterna, in cui l'uomo cerca di fermare e di fissare la vita; per questo l'uomo è prigioniero di queste forme, di questi schemi sociali in cui si rinchiude o da se stesso o per opera della società.”

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..."Dentre les morts". A chi ha visto Vertigo (La donna che visse due volte) di Alfred Hitchcock.
A chi voglia iniziare la lettura dell'opera di Pirandello cominciando con un'opera rappresentativa, a chi ne voglia proseguire la lettura, a chi desideri rileggerlo...
Consigliato a tutti.
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Fantasy
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    28 Mag, 2014
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Casini metafisici e non (!)

Dopo qualche lettura impegnativa, cosa c’è di meglio di un romanzo d’evasione? Con spirito leggero e assecondando il mio sentimentalismo, punto “Flirt” della Hamilton che la cover proclama “autrice di Harlequin e Skin Trade”!
Una rapida occhiata alla sinossi mi avverte che la storia non si lascia mancare niente: ci sono mannari, vampiri e zombie. La mia sensibilità sociologica è stimolata dall’idea di un affondo in una delle saghe che da Twilight in poi hanno conquistato parte dell’universo adolescenziale.

Poche pagine mi bastano per accertare che in realtà sto per finire in un guazzabuglio o, con altra immagine, in una matassa della quale per me è difficile trovare il bandolo. Perché la protagonista, Anita Blake, ha un profilo davvero interessante e composito…
Innanzitutto svolge un lavoro che farebbe la gioia di chi – burocrate, bancario o ragioniere – deve quotidianamente fare i conti con mansioni strutturate, ripetitive e poco prodighe di sorprese. Anita infatti lavora alla “Animators Inc.” in un business del tutto peculiare (a patto che non sia farlocco!). A lei si rivolge Mr Bennington e l’incarico promette faville: “Ho bisogno di lei perché le spoglie di mia moglie non sono integre.” Bypassando qualche dettaglio procedurale di nessun conto (“Cosa si aspetta di ottenere risvegliandola? Sua moglie sarebbe uno zombie…”) e affascinato dalla velleitaria prospettiva di – un giorno, chissamai - cambiar lavoro, m’imbatto in un distinguo tanto sottile quanto alambiccato: “Io risveglio zombie, non resuscito i morti!”
Intanto la trattativa tra committente e Anita procede non priva di difficoltà (“Non è forse abbastanza potente per superare ogni ostacolo e risvegliarla come vampira?”), però la “risvegliante” (!) applica rigorosamente la deontologia (“Nonostante questo la putrefazione inizierebbe dopo pochi giorni”) e non disdegna l’estetica (“Era decisamente troppo raccapricciante”). Il tira e molla per l’incarico comincia a farsi estenuante, quando con stupore vengo a conoscenza di un dettaglio sentimentale che riguarda il compagno di Anita (“Jean-Claude apparteneva alla stirpe di Belle Morte, che si nutriva di amore e di lussuria oltre che di sangue”). Cerco allora di partecipare al travaglio esistenziale della nostra eroina (“Non ero ancora riuscita ad accettare il casino metafisico in cui la mia vita si era trasformata”), ma rimango frastornato nel vederla praticare amicizie promiscue a dir poco sorprendenti: Nathaniel, leopardo mannaro dagli occhi lilla (come Liz Taylor dunque?), Jason, vero e proprio lupo mannaro per la gioia di chi tra noi è maggiormente attaccato alle tradizioni (per inciso, entrambi sono ballerini al Guilty Pleasure ove si fregiano di pseudonimi: Brandon e Ripley) e Micah, anche lui leopardo mannaro.
Mentre sono prostrato dai dubbi (tipo: ma la “Coalizione per una Migliore Convivenza tra Licantropi e Umani” sarà una onlus?) e non riesco ad attribuire significato a parole fascinose come “vampiro master, nimir raj e marshal”, ecco che il mio schematismo e la mia rigidità culturale subiscono un contraccolpo violento quando sento Anita proclamare: voglio “precisare con pignoleria che amavo Micah e Nathaniel, mentre Jason era un amico. Molta gente si confondeva quando scopriva che facevo sesso con tutti e tre…” Con il rimorso di essere – io stesso – incappato in questo esecrabile pregiudizio, tra narrazioni plastiche (“Quando Nathaniel mi abbracciò da dietro e mi baciò sulla testa, mi trovai stretta tra i due amanti”) e diagnosi statisticamente probabili (“Gli esami del sangue avevano dimostrato che ero portatrice sana di alcune forme di licantropia”), con qualche perplessità seguo lo spostamento della scena in un bar ove la nostra pensa bene di “flirtare in maniera oltraggiosa” con Ashan il cameriere.
Quando poi compaiono Jacob, Nicky e Silas - tre leoni mannari! – e con uno la frizzante Anita si accoppia tra ruggiti e unghiate, il mio orizzonte limitatissimo si dischiude in una nuova forma di conoscenza: così apprendo che Anita ha molte bestie dentro di lei (perfino una leonessa!) e questo rende ragione del suo desiderio di combinarsi con ogni declinazione di animale mannaro. Nonostante frasi generiche su una tendenza a questo punto legittimata (“La mia stessa vita si fondava interamente sulla condivisione”), in me ormai si è insinuato il germe del dubbio: possibile che il casino sia soltanto metafisico?
Il dramma però si complica ulteriormente (“Ognuno dei tuoi tre amanti è sotto il tiro di un cecchino”): entrano in ballo la strega Ellen e il cliente rifiutato (“Dunque Bennington sapeva che lei era una scopapelosi”) e l’azione si trasferisce… in un cimitero! Dopo una parentesi più involontariamente comica che macabra, tutto è bene quel che finisce bene e il classico “vissero felici e contenti” si trasforma in un commovente siparietto: “Con tutti i miei uomini intorno a me, ammucchiati come una calda cucciolata, non potevo essere infelice”.

Non pago di aver concluso la meritata lettura di evasione, mi lascio deliziare dalla postfazione ove la Hamilton (ma chi è questa Carneade?) confessa una primizia biografica: da piccola voleva diventare biologa! Naturalmente mi chiedo se – in veste di biologa - avrebbe potuto compiere gli stessi danni che oggi arreca in qualità di scrittrice. Non trovo la risposta, ma vedrò di farmene una ragione…

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    26 Mag, 2014
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Quando torna la neve

“Neve di pimavera” di Yukio Mishima è un’opera colossale, un monumento di psicologismo, di abilità descrittiva, uno spaccato di storia e cultura giapponese.
Ovviamente questo commento non potrà che cogliere soltanto alcune delle dimensioni di un poliedro così composito, mutevole nella forma in relazione alla prospettiva dell’osservatore-lettore.

PSICOLOGISMO

L’analisi psicologica è minuziosa: tutti i personaggi sono caratterizzati con profondità. Su tutti, naturalmente, il protagonista, Kiyoaki: un adolescente tanto bello (“Sognatore, di una bellezza inquietante, arrogante e nondimeno in balia delle sue inquietudini, era certo di essere in qualche modo il depositario di un tesoro, di un dono di giovinezza senza eguali quanto capace di sentimenti radicali“) quanto tormentato (“Il suo convincimento di non avere altro scopo nella vita se non quello di distillare veleno, faceva parte dell’ego di questo diciottenne”): nei rapporti con gli amici (“Honda e Kiyoaki… il loro rapporto arrecava a ciascuno né più né meno di quanto desiderasse”), nel relazionarsi ai due principi siamesi suoi ospiti (“il timore di una soverchia occidentalizzazione aveva indotto il re a scegliere il Giappone per i loro studi universitari”), nel contrastato e sublime rapporto d’amore con Satoko.
Per dirla con le parole di Mishima: “Quel giovane così bello, sazio di quell’apatica, annoiata indifferenza”. E con una delle sue metafore: “Kiyoaki era simile a un lago, le cui acque limpidissime lasciassero scorgere nitidamente i ciottoli del fondale, per offuscarsi un istante dopo, agitate da un sommovimento inaspettato”.

ABILITA’ DESCRITTIVE

Le descrizioni naturalistiche esprimono eccitazione sensitiva in un paese magico che è regno di pavoni, glicini, ninfee, aceri e giunchi.
La sensualità è racchiusa in un’unica pagina erotica, che in un attimo azzera le cinquanta e più sfumature del trash contemporaneo. Così è l’orgasmo: “Nell’istante in cui l’alba e Kiyoaki erano ormai una sola entità, ch’egli di fatto la toccasse o no, tutto all’improvviso ebbe fine”. Così è il languore che segue il piacere (quello che i latini riassumevano nell’aforisma “post coitum omne animal triste est”): “Se ne stavano adagiati l’uno accanto all’altra sul tatami, gli occhi rivolti al soffitto. La pioggia, di nuovo torrenziale, crepitava sul tetto…” Così è il rifiorire della passione: “Era giovane. Il suo desiderio non tardò a riaccendersi…”
E la neve? Che dire della neve?
Impazza nel primo appuntamento ed è fantastica coreografia di una gita in risciò con l’amata (“Satoko era così contenta di quella nevicata che pregava Kiyoaki di non andare a scuola e di accompagnarla a fare una passeggiata in risciò”).
Ritorna a infierire nel finale (i fiocchi “erano inconsistenti persino per quella neve di primavera, ed evocavano semmai uno sciame di insetti estivi”), una tragica ricorrenza (“Un anno esatto era trascorso, ed ebbe una fitta al petto, di emozione e cocente dolore”) che si posa sull’estremo tentativo di rivedere l’amata (“La neve, fluendo, si fondeva vieppiù con quel nuovo chiarore, fino ad assumere l’aspetto di una cenere bianca e sottile, che fluttuava nell’aria”).

STORIA E CULTURA GIAPPONESE

Il romanzo è ambientato nei primi del novecento.
Storia e cultura vengono distillate nei riti (“L’Otachimachi… un rito divinatorio… il 17 agosto, in conformità al calendario lunare”), nell’apprensione per le contaminazioni (“le istruzioni del padre sulle buone maniere occidentali di comportarsi a tavola”), negli intrighi del precettore Iinuma (“Ce ne sono molte altre sulle quali non mi ha edotto per nulla”) e della fedele Tadeshina (“Se lo farai, prometto di fare altrettanto per favorire il tuo idillio. Noi tre possiamo diventare ottimi amici”), nelle tradizioni (“Se la proprietà dei Matsugae andava famosa per lo spettacolo offerto dalle foglie degli aceri, la fioritura dei ciliegi era del pari motivo di grande ammirazione”) e nelle feste (“la festa delle bambole in marzo, la fioritura dei ciliegi in aprile e la grande festa shinto in maggio”). Nella sotterranea critica all’esteriorità (“Nessuno si curava dell’anima di Satoko: soltanto i suoi capelli costituivano un fattore di portata nazionale”) di un universo (“Una nobiltà esteriore, vuota e senza senso: ecco tutto ciò che di me sopravvive”) prigioniero di liturgie (“il cerimoniale per la lettura imperiale di poesia”). Attraverso i riferimenti alle religioni, alle teorie (come la trasmigrazione delle anime) e alle filosofie orientali (la coscienza cosmica).

LO STILE

Ammesso che lo si possa cogliere appieno nella traduzione italiana dall’originale, lo stile incanta per le immagini (“Un attimo le era bastato per trasformarsi da vecchia decrepita in un leopardo che si avventi sulla preda”), per le similitudini (“Nulla poteva escludere che una rondine in volo nel cielo senza nubi fosse messaggera di un improvviso uragano”), per gli accostamenti (“Chi affida una lanterna votiva alla marea serale, in piedi sulla sponda, ne vede la luce affievolirsi sulla superficie delle acque avvolta nelle tenebre, e prega affinché la sua offerta, spingendosi quanto più lontano, rechi il massimo suffragio ai defunti”).

Però attenzione: “Neve di primavera” è opera che richiede tempo, concentrazione, impegno, dedizione, tenacia, capacità di penetrare la scorza di una cultura così lontana da apparirci aliena. E, per rubare la conclusione a Mishima: “Lo scarabeo gli si avvicinava, procedeva col suo corpo cangiante… il valore della corazza protettiva dei propri sentimenti”.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    23 Mag, 2014
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La carriola e dintorni

Pirandello e la morte.
“Non sono io forse viva sempre per te? - Oh, Mamma, sì! - io le dico. – Viva, viva, sì... ma non è questo! Io potrei ancora, se per pietà mi fosse stato nascosto, potrei ancora ignorare il fatto della tua morte, e immaginarti, come t'immagino, viva ancora laggiù, seduta su codesto seggiolone nel tuo solito cantuccio, piccola, coi nipotini attorno, o intenta ancora a qualche cura familiare. Potrei seguitare a immaginarti così, con una realtà di vita che non potrebbe esser maggiore: quella stessa realtà di vita che per tanti anni, così da lontano, t'ho data sapendoti realmente seduta là in quel tuo cantuccio. Ma io piango per altro, Mamma! Io piango perché tu, Mamma, tu non puoi più dare a me una realtà!”

Pirandello e la follia.
“Appena posso, appena qualche cliente mi lascia libero un momento, mi alzo cauto, pian piano, dal mio seggiolone, perché nessuno s’accorga che la mia sapienza temuta e ambita, la mia sapienza formidabile di professore di diritto e d’avvocato, la mia austera dignità di marito, di padre, si siano per poco staccate dal trono di questo seggiolone; e in punta di piedi mi reco all’uscio a spiare nel corridojo, se qualcuno non sopravvenga; chiudo l’uscio a chiave, per un momento solo; gli occhi mi sfavillano di gioja, le mani mi ballano dalla voluttà che sto per concedermi, d’esser pazzo, d’esser pazzo per un attimo solo, d’uscire per un attimo solo dalla prigione di questa forma morta, di distruggere, d’annientare per un attimo solo, beffardamente, questa sapienza, questa dignità che mi soffoca e mi schiaccia; corro a lei, alla cagnetta che dorme sul tappeto; piano, con garbo, le prendo le due zampine di dietro e le faccio fare la carriola: le faccio muovere cioè otto o dieci passi, non più, con le sole zampette davanti, reggendola per quelle di dietro.
Questo è tutto. Non faccio altro. Corro subito a riaprire l’uscio adagio adagio, senza il minimo cricchio, e mi rimetto in trono, sul seggiolone, pronto a ricevere un nuovo cliente, con l’austera dignità di prima, carico come un cannone di tutta la mia sapienza formidabile.
Ma, ecco, la bestia, da quindici giorni, rimane come basita a mirarmi, con quegli occhi appannati, sbarrati dal terrore. Vorrei farle intendere – ripeto – che non è nulla; che stia tranquilla, che non mi guardi così.
Comprende, la bestia, la terribilità dell’atto che compio.
Non sarebbe nulla, se per scherzo glielo facesse uno dei miei ragazzi. Ma sa ch’io non posso scherzare; non le è possibile ammettere che io scherzi, per un momento solo; e seguita maledettamente a guardarmi, atterrita.”

Pirandello e la maschera.
“Imparerai a tue spese che lungo il tuo cammino incontrerai ogni giorno milioni di maschere e pochissimi volti.”

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    16 Mag, 2014
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Occhi bambini

Ho riletto l’opera prima di Italo Calvino nell’edizione illustrata da Gianni De Conno e ho assaporato l’interpretazione dello scrittore che - immedesimandosi in Pin, dieci anni di bimbo orfano che vive tra carrugi e osteria - guarda alla realtà con la sensibilità deformata, fantastica ed elementare dell’infanzia.
“Pin ha una voce rauca da bambino vecchio”, è “garzone ciabattino” “nella bottega di Pietromagno”, “spia con schifo la sorella sul letto insieme a uomini nudi, e il vederla è come una carezza ruvida, sotto la pelle, un gusto aspro, come tutte le cose degli uomini; fumo vino, donne”.

OCCHI BAMBINI GUARDANO UN POSTO SEGRETO

“Il posto dove fanno il nido i ragni”.
Chi di noi, da piccolo, non ha avuto un luogo – reale o trasfigurato dalla fantasia – ove sognare, sentirsi unico e al centro dell’universo? Che fosse una cavità di tronco, un ramo d’albero, un fienile, un angolo della casa o del giardino…
Il luogo ove i ragni fanno i nidi è esclusivo: “Solo Pin lo sa ed è l’unico in tutta la vallata, forse in tutta la regione: mai nessun ragazzo ha saputo di ragni che facciano il nido, tranne Pin”. Lì Pin è bimbo a tutto tondo, perfino nella crudeltà: “Pin si diverte a disfare le porte delle tane e a infilzare i ragni sugli stecchi…” E contro ogni scetticismo: “Ma va’ là. Quando mai i ragni hanno fatto il nido. Mica son rondini.”

OCCHI BAMBINI VEDONO SOLTANTO GIOCATTOLI

Pin è cresciuto a contatto della strada, della prostituzione e della guerra (“Pin non sa che raccontare storie d’uomini e donne nei letti e di uomini ammazzati o messi in prigione, storie insegnategli dai grandi”). “Si sente solo e sperduto in quella storia di sangue e corpi nudi che è la vita degli uomini”. Ma conserva la capacità fanciullesca di trasformare in gioco anche strumenti (“una pistola, un oggetto così misterioso, quasi irreale”), situazioni (“l’incendio è stato meraviglioso”) e simboli di morte (“Soltanto la brigata nera ha le teste da morto”).
“E anche le pistole, a parlarne così studiandone il meccanismo, non sono più arnesi per uccidere, ma giocattoli strani e incantati”.

OCCHI BAMBINI GUARDANO GLI ADULTI

Come non pensare al Petit Prince? “I grandi sono una razza ambigua e traditrice, non hanno quella serietà terribile nei giochi propria dei ragazzi”.
Pin scimmiotta gli adulti (“Pin vuol fare l’aria di superiorità ma non gli riesce bene”), ne conosce le abitudini (“con gli altri ragazzi di quell’età, Pin può almeno far valere la sua superiorità parlando di come son fatte le donne”), che rimangono incomprensibili.
“E’ triste essere come lui, un bambino nel mondo dei grandi, sempre un bambino, trattato dai grandi come qualcosa di divertente e di noioso; e… non potere far mai parte dei loro giochi”.

OCCHI BAMBINI INTERPRETANO LE ESPRESSIONI

Anche le parole dei grandi acquistano nuovi significati (“Comitato era l’unica persona buona”) o mantengono un alone di mistero (“Un’altra persona misteriosa: sim! gap!” “Sten: ecco un’altra parola misteriosa”) nella testa vivace del bambino…

OCCHI BAMBINI GUARDANO LA GUERRA

“Con quello struggimento di rabbia nel viso lentigginoso, anche quando ride…”, Pin conosce la prigionia (“- A me m’hanno battuto – dice Pin e mostra i segni”), l’evasione con Lupo Rosso, la fuga e diviene “recluta della rivoluzione” nel “distaccamento del Dritto: ladruncoli, carabinieri, militi, borsaneristi, girovaghi…. Eppure tu sai che c’è coraggio, che c’è furore anche in loro”. Nel rifugio partigiano (“Ma qui gli uomini hanno occhi torbidi e facce ispide”) tra esecuzioni e agguati, sente i discorsi dei grandi (“Tua sorella è nella esse-esse, e ha i vestiti di seta, e gira in macchina con gli ufficiali!”), ma continua a ricercare un amico… Lo troverà mai?

Bruno Elpis

“Tutti abbiamo una ferita segreta per riscattare la quale combattiamo”

“L’uomo porta dentro di sé le sue paure bambine per tutta la vita”

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    14 Mag, 2014
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Festa della mamma

In modo del tutto casuale ho letto “L’amore molesto” (“a mia madre” è la dedica di Elena Ferrante) domenica 11 maggio, festa della mamma.
Le considerazioni che svolgerò sono effettuate con il massimo rispetto per un’autrice dallo stile personale e originale. E per un tema – quello delle molestie e della violenza sulle donne – che trova la mia partecipe e assoluta condanna.

Il romanzo, fondamentalmente, mi ha indotto angoscia. La storia viene raccontata in modo onirico e filtrato, mantenendo toni surreali e profilo oscuro.
Delia rovista nel proprio passato per cercare le ragioni del gesto estremo della madre Amalia. In questa ricerca oscilla tra sentimenti alterni (“Se tardava, l’ansia diventava così incontenibile che debordava in tremiti del corpo”), atmosfere sinistre (“Le case non conservano fantasmi ma trattengono gli effetti degli ultimi gesti di vita”) e visioni simboliche (“Amalia era lassù come una farfalla notturna, giovane, forse sui vent’anni, chiusa in una vestaglia verde, con un ventre gonfio da gravidanza avanzata”). Delia ora s’identifica, anche fisicamente, nella genitrice (“Progettavo di bucarmi anch’io l’unghia, per farle capire che era rischioso negarmi quello che non avevo”), ora confligge con lei, in uno stato di contraddizione inquieta: “Ed ero perplessa: non sapevo se quello che andavo scoprendo e raccontandomi, da quando lei non esisteva e non poteva ribattere, mi facesse più orrore o più piacere”.

La vicenda reale emerge in controluce su affondi psicologici e mnestici, attraverso apparizioni e incontri quasi metafisici: ed è la triste partitura ove il genere maschile (rappresentato da un padre pittore e geloso e un fratello, lo zio Filippo, complice di violenze) interpreta la molestia nella forma palese dell’anziano amante di Amalia, Caserta, mentre in modalità sotterranea - in una cantina – agisce un personaggio altrettanto vile. Ricordi e sensazioni riemergono dopo uno squallido incontro sessuale con Polledro, l’uomo del negozio Vossi, antico compagno di giochi d’infanzia e figlio di Caserta.

L’opera è opprimente perché probabilmente l’autrice vuole sortire proprio questo effetto: il ricordo di Delia riaffiora in un processo di autocoscienza tanto incalzante quanto farraginoso, nel concatenarsi di allusioni fosche e cupe che lasciano intuire quale sia la fonte primigenia dell’oppressione (“le oscenità in dialetto… riuscivano a far combaciare nella mia testa suono e senso in modo da materializzare un sesso molesto per il suo realismo aggressivo, gaudente e vischioso”). Il lettore rimane sospeso nella speranza che il rischio incombente venga disinnescato da una rivelazione salvifica. Quando giunge la smentita, è troppo tardi. Anche chi legge si sente macchiato, è stremato dall’ansia, annichilito da un romanzo disseminato di indumenti vecchi, rammendati e sporchi, e si dibatte prostrato tra le ombre di una minaccia concreta: che la povertà più insidiosa non sia quella materiale… per lo meno, non soltanto quella…

Bruno Elpis

___________________________

Domenica ho riletto anche “Supplica a mia madre” di Pasolini…

(Tu sei sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…)

… “La madre” di Giuseppe Ungaretti…

(E il cuore quando d'un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d'ombra
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all'eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m'avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d'avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro)

… il canto XXXIII del “Paradiso”:

(Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d'eterno consiglio,
tu se' colei che l'umana natura
nobilitasti sì, che 'l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l'amore,
per lo cui caldo ne l'eterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se' a noi meridiana face
di caritate, e giuso, intra ' mortali,
se' di speranza fontana vivace.
…)

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Poesie come "Supplica a mia madre" di Pasolini e "La madre" di Ungaretti; il canto XXXIII del Paradiso di Dante.
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    13 Mag, 2014
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Acronimo

La storia di una famiglia irlandese tra le due guerre: poverissima
E funestata dalle morti di tre figli,

Con un padre sempre ebbro, il presbiteriano Malachy,
E la madre Angela, che combatte anche per lui.
Nella patria irlandese, a Limerick, ove la famiglia ritorna
E riceve il misero sussidio dilapidato dal padre, i
Ricordi del giovane Frank conferiscono al romanzo
Ironia e sapore di narrazione spietatamente filtrata

Dalla prospettiva infantile: malattie terribili, lutti, stenti
In un tugurio infestato dalle pulci, la strozzina Finucane che Frank

Aiuta nel redigere lettere ai debitori. Lì troverà il denaro per tornare
Nell’America dalla quale la sua famiglia era partita, per affermarsi.
Grande successo editoriale, premio Pulitzer nel 1997
E trasposto al cinema nel 1999 da Alan Parker,
L’autobiografia romanzata e deformata di McCourt offre
Al lettore una sensazione mista di ilarità e orrore…

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    09 Mag, 2014
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Fiori d’arancio nel Sol levante

A metà strada tra la satira sociale e il romance, “Abito da sera” di Yukio Mishima è la storia d’amore di Ayako, laureanda di una famiglia borghese (il padre è imprenditore farmaceutico) che convola a giuste nozze con un rampollo di alto lignaggio, conosciuto frequentando il club imperiale d’equitazione (“Il motivo per cui suo padre l’aveva spinta all’equitazione… era stato l’abito… fascino dell’abbigliamento che fa apparire una donna sobria e femminile”) ove spesso presenzia “anche la famiglia del Principe imperiale” e si respira il “clima aristocratico connaturato all’equitazione”.

Delicato il profilo di Ayako (“Era una ragazza docile, che accettava la benevolenza altrui come un favore…”), che viene imbrigliata dagli intenti nuziali della suocera, Donna Takigawa (“Era una tipica vedova allegra, cui il malinconico appellativo di vedova non si addiceva affatto”), già consorte di ambasciatore e ora madre di Toshi.

Il promesso sposo vive con la madre un rapporto conflittuale (“Toshi è veramente capriccioso… quel figliolo è egocentrico, egoista, caparbio, caustico, insomma un giovane leone!”), ma è ricco di fascino (“Che strano soggetto, padroneggiava bene persino lo sport che più detestava”) e non è immune da malesseri esistenziali (“Perché ero solo… lui non aveva fornito spiegazioni convincenti a quella frase”).

Interessante, in questo romanzo, scoprire le fasi della love story giapponese anni sessanta: l’omiai informale (una formula di incontro fra candidati a un eventuale matrimonio), il fidanzamento consumato tra riti alto-borghesi (“La vita in abito da sera sferrò un nuovo attacco contro di loro”) e mondanità (“Che famiglia amante delle feste! Sembra che vivano solo per quello, non ti sembra?”) che tocca culmini (“Anche lo snobismo, quando giunge a tali livelli, è sublime”) anche estetici (“la bellezza e lo sfolgorio di una coppia all’apice della vita”).

Il momento più toccante?
A parer mio quando Ayako deve fare una drammatica scelta: laurearsi o sposarsi? “Questa lacrima sembrava un topolino schizzato fuori dalla gabbia”.

Il momento più cool?
Decisamente il viaggio di nozze (“Di questi tempi è di modo recarsi in viaggio di nozze alle Hawaii; ma anche nel seguire le mode v’è qualcosa di positivo”) tra fiori d’ibisco e uccelli del paradiso (“In quel luogo fiori, pesci, uccelli e coralli sembravano appartenere alla stessa specie”), a “mangiare l’insalata di cuore di palma” e anche “zuppa di tartaruga marina”.

Il momento più erotico?
La prima notte di nozze, quando Toshi si manifesta “del tutto diverso dai modi aggressivi di quei mariti che, in luna di miele, spaventavano le mogli con la loro mascolinità”. In quel momento Ayako tocca con mano (ehm) quanto “Toshio mescolasse indecenza e licenziosità con una dolcezza ineffabile”.

Il momento più narrativo?
Quando il rapporto con la suocera (“l’anziana donna che la detestava come uno scorpione”) si trasforma in una “guerra di logoramento” e i due sposini si alleano (“Ancora non hai capito le cattive inclinazioni di mia madre, sta brigando per separarci l’uno dall’altra!”) nel desiderio di smascherare la fatuità sociale (“un mondo in abito da sera, pieno di falsità e menzogna”). Ma la suocera è disposta a tutto (“Resto in attesa una settimana. Trascorsa questa, se non divorzi morirò io. La tua povera, povera mammina”) e allora Mishima, memore della tragedia greca, fa calare dall’alto il suo deus ex machina: “Sua Altezza la Principessa”!

Morale della favola: anche nel Sol Levante i fiori d’arancio rischiano di appassire per le ingerenze di una suocera?

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    03 Mag, 2014
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Un’altra “foresta oscura”

Dopo la foresta nella quale Dante si smarrisce e si lascia guidare dal sommo poeta mantovano della latinità, che poi darà il nome a uno dei più celebri motori di ricerca nostrani, l’immagine del bosco oscuro torna con altri toni, nella narrativa impertinente e frizzante di Joe R. Lansdale, a rappresentare il peccato dal quale redimersi.

La storia è piuttosto semplice ed è ambientata in Texas agli inizi del XX secolo. Siamo in pieno far west e il giovane Jack Parker, nipote di un predicatore, fugge con il nonno e la sorella Lula da una pestilenza (il vaiolo) che si è portata via i genitori. La fuga è subito complicata da una zuffa nel traghetto sul fiume; il nonno viene assassinato e Lula rapita. Jack si getta all’inseguimento dei tre malviventi che hanno sequestrato la sorella e scappano lasciando dietro di loro una scia di delitti, come la rapina cruenta a Sylvester. Nell’impresa Jack chiede manforte (“Gli parlai delle taglie che avevano messo sulla testa di Cut Throat, Nigger Pete e Fatty, e cercai di essere eloquente e persuasivo nel mio racconto”) a Shorty, un nano (“Sembrava un re straniero contrariato per essersi improvvisamente rimpicciolito”) dal passato alterno (“Mi aveva venduto al circo, e per pochi spicci”) e dal presente filosofico (“Vedo tutto dal basso. E’ un modo diverso di guardare il mondo”) e al gigante Eustace (“Non regge l’alcol. Anche la noia non gli fa bene. Perde le staffe quando beve”), un nero dal sangue indiano, specializzato – a modo suo - nel seguire le tracce dei fuggiaschi e affezionato al maiale cannibale Hog. Alla combriccola ben presto si uniscono la prostituta Jimmie Sue (“E’ qui a scopi decorativi, e per farsi montare dal ragazzino, una volta ogni tanto”) e lo sceriffo Winton, che in passato è stato vittima delle violenze Comanche. La corte dei miracoli è al completo (“…come mai un negro grande e grosso, un nano, un ragazzino, una puttana e un maiale incazzato se ne stanno fermi davanti a un bordello”) e, dopo mille peripezie e dialoghi effervescenti, affronta la foresta (“era piena fino a traboccare di gente che ne aveva combinate di tutti i colori…”) per lo scontro finale.

Il romanzo con la leggerezza dell’umorismo irriverente descrive mille atrocità (sanguinosissimi combattimenti di galli che si trasformano in duelli umani, mutilazioni, stupri, provocazioni crudeli rivolte a un orso legato, che poi si libera e si vendica…) e si lascia leggere senza troppi patemi. Il lettore rivive così certe atmosfere western, qui stemperate dallo stile incalzante e fluido di Lansdale e, quasi inconsapevolmente, affronta i temi della diversità e del pregiudizio senza moralismi e ipocrisie.

Bruno Elpis

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... la Divina Commedia? Consigliato a chi ama i western.
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    30 Aprile, 2014
Top 10 opinionisti  -  

Déjà vu?

Il solito Musso scodella il solito romanzo con i soliti personaggi.

IL SOLITO MUSSO

Combina romance e fantasy in tinta gialla con il suo stile ormai inconfondibile. Il romanzo ha una struttura originale (lo posso dire anche per l’ennesimo romanzo? Forse no!) dal punto di vista grafico: ogni capitolo è introdotto da una citazione (“Da quando l’uomo si è drizzato sugli arti posteriori tutto è posa” Stanislaw Jerzy Lec), non manca qualche frase suggestiva (“Amare qualcuno per la sua apparenza è come amare un libro per la sua rilegatura”) che sembra – essa stessa – una citazione, molte pagine sono serrati scambi di mail.

IL SOLITO ROMANZO

I temi sono quelli cari all’autore, rinvenibili anche nelle opere precedenti. Basta scorrere i titoli dei capitoli: “casualità degli incontri”; “apparenze”; “linee parallele”; “oltre il confine”…
La storia si esaurisce in meno di una settimana, quella prima del Natale (“Si rese conto che mancava meno di una settimana a Natale e a quel pensiero si sentì assalire da un misto di dolore e di panico”) e potremmo così condensarla.
I giorno: l’entusiasmo del conoscersi.
II giorno: preparativi per incontrarsi e indecisione della vigilia. Per poi mancare l’appuntamento!
III giorno: essere assaliti dai dubbi (Sarà uno “squilibrato e farabutto”?), sbollire la delusione
IV giorno: idea dell’anastasis (resurrezione). Realizzare il paradosso che ha impedito l’incontro (“Lei viveva nel 2010. Lui viveva nel 2011. E, per un motivo che le sfuggiva, il computer portatile pareva essere il loro unico mezzo di comunicazione”) e maturare un’idea creativa: “Doveva fare di tutto per convincere Emma a impedire l’incidente di Kate”
V giorno: penetrare il futuro dal passato. Per re-inventarlo.
VI giorno: Finalmente incontrarsi?

I SOLITI PERSONAGGI

Sono bellissimi, intelligentissimi, infelicissimi ma mai disposti a rinunciare alla felicità. E combattono strenuamente per agguantarla.
LUI è Matthew Shapiro, “un docente di filosofia sexy”.
LEI è Emma Lovenstein, una “bella sommelier”
LUI è vedovo inconsolabile di Kate, bellissima (rifatta) cardiologa, che è anche una spia russa. E, parlandone da viva, spudoratamente tradisce Matt.
LEI (Emma) sta cercando l’amore e, nelle sue imprese, si fa aiutare da un geek: il sedicenne Romuald Leblanc, nerd in odore di hacker.

IL MIO SOLITO GIUDIZIO

Anche di fronte a un romanzo che sa di déjà vu, ancora una volta io mi sono divertito. Forse con me funziona il detto “repetita iuvant”?
E’ un po’ come quando uscivano i dischi del “secondo Battisti”: molti puristi storcevano il naso e nostalgicamente invocavano i bei tempi del binomio Mogol-Battisti. Per me Lucio Battisti era sempre Lucio Battisti. E, seppur su un altro piano, Musso è sempre Musso e ha sempre il suo bel perché…

Bruno Elpis

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...altri romanzi di Musso e non è alla ricerca di novità. A chi lo legge per la prima volta: potrebbe costituire una novità.
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    27 Aprile, 2014
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Una maschera a nudo

“Confessioni di una maschera” è opera pervasa da disperata solitudine e ripercorre l’affiorare e l’affermarsi di una tendenza sessuale vissuta in modo colpevole rispetto alle convenzioni. Yukio Mishima scatta una spietata radiografia, analizza le manifestazioni di un modo di essere e ne scompone la reazione istintiva: la negazione, il camuffamento. Il narratore è Kochan: testo autobiografico? Probabilmente sì…

Infanzia

L’attrazione per l’ambiguità (“Si chiamava Giovanna d’Arco. La storia racconta che andò in guerra indossando abiti maschili…”) pervade ricordi d’infanzia impregnati di aromi (“L’odore di sudaticcio dei soldati – quell’odore simile a una brezza di mare, simile all’aria, avvampante d’oro, che sovrasta la spiaggia…”) e premonizioni intellettuali (“Fino alla fanciullezza le mie idee in merito all’esistenza umana non si sono allontanate una sola volta dalla teoria agostiniana della predestinazione”), si manifesta nei giochi (“La mia passione dei travestimenti si acuì…”) e già si tinge di tonalità sinistre (“D’altro canto, me la godevo a immaginarmi delle situazioni in cui io stesso morivo in battaglia oppure ero trucidato”). Siamo nella prima fase della mascherata: “Quanto il prossimo considerava una posa da parte mia era invece una manifestazione della necessità di affermare la mia natura genuina, mentre era per l’appunto una mascherata quello che il prossimo considerava il mio io genuino”.

Adolescenza

La scoperta di pulsioni sessuali ritenute anomale è motivo di disagio (“Il giocattolo rizzava inoltre la testa verso la morte e le pozze di sangue e le carni nerborute”) ed è stimolata (“Era una riproduzione del San Sebastiano di Guido Reni”) da impulsi soprattutto estetici (“Il corpo del giovane – lo si potrebbe perfino paragonare a quello di Antinoo, il favorito di Adriano…”). Ben presto i sensi sono attratti da Omi, il più virile e rudimentale dei compagni (“la selvaggia malinconia insita nella carne affatto incontaminata dall’intelletto”), preferibilmente durante il gioco e gli esercizi ginnici (“Doveva trattarsi di una vertigine mentale, di un’irrequietezza in cui il mio intimo equilibrio rischiava di essere distrutto dalla vista di ciascun movimento pericoloso di Omi”). L’esperienza (auto)erotica vive episodi inconsueti... come quello con il mare…
Scocca il momento dell’accettazione della mascherata: “Quand’anche dovesse essere una mascherata pura e semplice e niente affatto la mia vita, era venuto ugualmente il momento in cui bisognava ch’io mi mettessi in cammino, che trascinassi avanti i miei torpidi piedi.”

Gioventù

La gioventù è scandita dalla frequentazione di una ragazza, Sonoko. Ma è sempre un’esperienza molto cerebrale (“Non facevo altro che spingermi a deambulare in circoli perpetui d’introspezione”), tormentata (“Quali sentimenti proverei se fossi un altro ragazzo… una persona normale?”) e vissuta nel ripiegamento sulla “brutta abitudine” (“sfavilli di solitudine depravata”). Anche il primo bacio è vissuto in modo innaturale: “L’importante per me stava nel fatto ch’ero diventato un uomo che conosce i baci”.
Kochan rifiuta il matrimonio con Sonoko e comunica la sua decisione per posta, in modo burocratico (“Provai un certo conforto nel vedere la mia infelicità maneggiata in modo così efficiente e sbrigativo”). L’esperienza fallimentare in un bordello è una prova definitiva. Intanto le domande si susseguono come le onde nel mare.
“E’ forse ammissibile un amore che non abbia alcun fondamento nel desiderio dei sensi?”
“Ammesso che la passione umana abbia la virtù d’innalzarsi al di sopra di ogni assurdo, come si può sostenere che non abbia anche quella di innalzarsi al di sopra dei propri assurdi?”
La mascherata diviene coessenziale (“A lungo andare la recita è diventata una parte integrante della mia natura”), cosciente (“Sto diventando una di quelle persone incapaci di credere a nulla che non sia contraffatto”) e tragicamente intrisa del senso della morte (“Era nella morte che avevo scoperto l’autentico scopo della mia vita”) storicamente incombente (“Poteva essere un presentimento della bomba atomica che non doveva tardare a scoppiare?”).

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    25 Aprile, 2014
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Le confessioni di un malandrino

Dopo Angelo Branduardi, menestrello della canzone italiana, ci pensa Salvatore Niffoi – autore pluripremiato, già Premio Campiello nel 2006 con “La vedova scalza” – a narrare le malefatte di un bandito: Bantine Bagolaris, oriundo della bella e selvaggia Barbagia. Ma il romanzo di Niffoi – a differenza dell’opera del cantautore da me ricordata per mera assonanza di titolo – è tutt’altro che lirico.

Dopo una vita di malefatte e latitanza, Bantine il bandito torna ferito a casa propria e, sotto l’incalzare della morte, racconta la propria vita al figlio ventenne, con il quale non ha mai vissuto (“Il giorno in cui sei venuto al mondo ho fatto appena in tempo a guardarti negli occhi, per capire se erano dello stesso colore dei miei”) perché ricercato fin dal giorno della nascita (“Abbiamo un mandato di cattura per Bantine Bagolaris”).
Dopo qualche cenno all’infanzia difficile (“Il poco che ho avuto dalla vita l’ho dovuto sempre scorticare come il sughero dall’albero”), il bandito narra delizie e dolori del “vivere alla macchia”: avendo ucciso un uomo, trova ospitalità presso un amico sardo (“Visto da lontano l’ovile sembrava un nido di falchi”), in una località incantevole (“In quella cala c’era un laghetto d’acqua dolce e un bosco d’oleandri, dove i fiori cadevano giù come stelle”) ove vive una breve storia d’amore con un’ambiziosa giornalista inglese (“Gli articoli con l’intervista alla Primula Rossa barbaricina erano sulle prime pagine dei quotidiani isolani e nazionali”).
Per non essere arrestato, ripara sul continente ove compie misfatti con i “quattro dell’Apocalisse”, inizialmente su commissione di “Fausto Caccioli, noto er Fiamma per le sue idee politiche poco democratiche e la sua abilità nel maneggiare il cannello della fiamma ossidrica”.

Sfilano così, tra ricordi inquinati da un’improbabile poesia e i deliri della febbre che assedia il morituro, l’esecuzione di un faccendiere, il rapimento con fine tragica di un industriale, l’assassinio di un cliente durante una rapina in banca e l’agguato mortale a un ministro… tutti raccontati senza vergogna al figlio!

Il breve romanzo non mi ha coinvolto, orientato com’è a descrivere azioni delittuose e personaggi della malavita. La figura del bandito-poeta risulta troppo improbabile. La dimensione che più mi avrebbe potuto interessare – ossia il rapporto con il figlio - rimane sullo sfondo di un soliloquio (“Tu dirai, bel padre mi è capitato, è scappato il giorno della mia nascita, scappa pure in punto di morte…”) i cui intendimenti mi sono risultati piuttosto oscuri.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    23 Aprile, 2014
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Acronimo

L’idea del podestà
Agostino Meccia è velleitaria:

Fare di Bellano un
Importante scalo lariano di idrovolanti. Idea ambiziosa e
Geniale? O rocambolesca per le esangui casse comunali…
La linea dovrebbe collegare Como e Lugano e
Il progetto si colloca nel ventennio fascista, nell’
Anno di grazia 1931.

Del piano è involontario protagonista un falso pilota
E la vicenda si tinge della comicità che
L’ironia di Vitali interpreta affrescando la vita di provincia.

Premio Bancarella nel 2006, la storia
Offre il consueto ventaglio di situazioni e scalcinati eroi
Dei quali Andrea Vitali
E’ incontrastato artefice in ogni
Suo romanzo. Infilando
Tra le righe
Anche la storia d’amore di Renata, la figlia del podestà…

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    18 Aprile, 2014
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Quel ramo del lago di Como...

Le radici di “Un bel sogno d’amore” affondano nel febbraio 1973, quando l’attesa per la proiezione di “Ultimo tango a Parigi” al cinematografo bellanese di Idolo Geppi è ormai spasmodica. Le voci sulle scene piccanti si diffondono e così Adelaide impone al fidanzato Alfredo di accompagnarla a vedere le acrobazie erotiche di Marlon Brando con un ricatto: se non mi accompagnerai tu, amore mio, lo chiederò a Ernesto Tagliaferri, detto “il Taglia”, giovanotto dal comportamento guascone (“Il Taglia, per carattere ganassa, infuocato dal vino…”) e moralmente poco cristallino (nel corso del romanzo intasca in modo truffaldino i soldi di una lotteria, contrabbanda bionde, s’impelaga in un giro di banconote false, s’invischia in un furto di orologi e trasborda refurtiva sulle acque del lago). Di Ernesto, Adelaide diviene complice (“Visto che ormai sapeva cosa c’era nella borsa, avrebbe voluto trovare il coraggio per dirgli di smettere di usarla per quelle consegne”) e così compromette il suo futuro lavorativo...

Ma la storia d’amore della quale si parla non è soltanto quella di Adelaide, che prima cerca di farsi impalmare dal giovane carrozziere, poi s’impegna a svezzare il marito nell’arte amatoria e nel ruolo di mammone soggiogato dalla figura di una madre-suocera toppo ingombrante. Tuttavia, i dettagli non possono essere rivelati…

Lo stile del romanzo è quello al quale Andrea Vitali ci ha da tempo abituati: pagine brevi e velocissime, frasi sincopate, chiusure che vengono riprese dall’incipit del capitolo successivo con cambiamento di scena, parole mutuate direttamente dal dialetto comasco: ove “slandra” sta per “donna dai facili costumi”, la “ciocca” è l’ubriacatura, una persona imbambolata è “imbesuita”, lo spaccone è un “ganassa” e “provocare” si può sostituire con “inzigare”…
Un romanzo divertente, godibile fino in fondo, che nasconde dietro alla leggerezza inconsistente della commedia una morale semplice, nostalgica e molto pop.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    14 Aprile, 2014
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Acronimo

Inquisito e imprigionato, un uomo perlustra a tentoni
Le segrete nelle quali è stato segregato. La

Prigione, infestata dai topi, è
Oscura e presenta un’insidia: un pozzo è stato scavato in
Zona centrale. Pur scampato il precipizio, all’immaginario
Zenith sopra il prigioniero legato a un tavolaccio,
Opera uno strano, minaccioso pendolo:

E’ una mannaia che oscilla e si abbassa sempre più.

Il prigioniero sembra spacciato e
La tensione procede al ritmo delle oscillazioni.

Poe scrive un racconto che, tra quelli della raccolta,
E’ uno dei più celebri (forse il più famoso).
“Nella mia mente penetrò come una dolce musica l’idea
Del riposo delizioso che ci aspetta nella tomba.”
Orrore, spavento e senso di soffocamento opprimono il
Lettore. Il medesimo senso che prova il prigioniero dicendo:
“Oscillava a tre pollici dal mio petto!”

Bruno Elpis

“Esso scendeva sempre più giù, sempre più giù. Provavo un folle piacere nel paragonare la sua velocità dall'alto in basso con quella laterale.”
Anche in questo racconto Poe si riconferma indiscusso interprete del brivido che s’impadronisce dell’uomo sull’orlo del baratro…

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... l'horror contemporaneo e ne è rimasto disgustato.
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    04 Aprile, 2014
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Acronimo

Invecchiare è un incubo, uno sfregio a bellezza e gioventù.
La pensa così Lord Henry Wotton, esteta che

Riproduce il suo credo mondano, dissacratore ed edonista
In Dorian Gray: giovane bello, vanesio, interprete di queste idee.
Tra arte e realtà si stabilisce una correlazione inversa. Il
Ritratto che Basil Hallward ha fatto di Dorian
Assorbirà i peccati commessi dal giovane e avrà il potere di
Trattenere l’invecchiamento. Una spugna intrisa di male…
Tuttavia non basta nascondere in una soffitta i peccati e gli
Orrori di una vita trascorsa all’insegna

Del piacere e della fatuità.
“Il peccato è l'unico motivo di colore rimasto alla vita moderna.”

“Dietro esistenze sublimi, c'è sempre qualcosa di tragico.”
Oscar Wilde fa brillare aforismi come coriandoli: “Per te io
Rappresento i peccati che non hai avuto il coraggio di commettere.”
“Inferno e paradiso sono entrambi dentro di noi.” Per
Autore e personaggio, creatore e creatura, “Essere
Naturali è una posa difficilissima da mantenere.” “Oggi-

Giorno si conosce il prezzo di tutto, il valore di niente.”
Rimane – nella vita, nella finzione - una scia di delitti, che
Annullano il mito d’eterna gioventù e minano la certezza:
Yes, we can…

Bruno Elpis

“Aveva espresso un pazzo desiderio: che potesse lui rimanere giovane, e il ritratto invecchiare; la sua bellezza restare intatta, e il viso dipinto sulla tela portare il peso delle sue passioni e dei suoi peccati. [...] Pareva mostruoso persino pensarci.”

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... Un soffio d'eternità di Patricia Darré!
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    02 Aprile, 2014
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Che spirito!

Sono stato catturato dal sottotitolo di quest’opera: “Il libro best seller in Francia che propone una nuova visione dell’Aldilà”.
Dei francesi ho una concezione stereotipata. E mi sono detto: “Se ha catturato una popolazione così snob…”
Il sottotitolo ha esercitato un “effetto civetta” e mi ha introdotto a uno dei libri più divertenti e istruttivi che io abbia letto nel mio recente passato.
Però vi devo avvisare: sicuramente l’autrice non vuole suscitare ilarità… Ma tant’è, un libro colpisce nel segno se non lascia indifferenti. O se è umoristico, anche involontariamente.

Per amor di brevità (che non sono riuscito a ottenere) vi grazierò le circostanze in cui “la nostra” si rende conto di essere dotata di facoltà medianiche (basti un cenno: “Dopo quel sogno ricorrente…. fui svegliata… dalla voce che mi aveva parlato…”), per concentrarmi sugli aspetti istruttivi del libro, che vanno Aldilà (la maiuscola e l’unione delle preposizioni è d’obbligo, visto il tema trattato) di certe similitudini (“Il medium funziona in un certo senso come l’antenna di una radio”) se non proprio efficaci e originali, sicuramente al passo con i tempi (“…in termini di frequenze vibrazionali, le comunicazioni con i defunti funzionano… come le reti radiomobili dei nostri telefoni cellulari”).
Il libro, dicevo, ha arricchito il mio vocabolario con nuove accezioni e farò qualche esempio.

GERARCHIA

Prima di questa lettura, il termine banalmente designava “graduatoria” o qualcosa di simile. Ebbene, adesso so che la parola ha anche un altro significato: “I primi spiriti… si tratta di guide, che ho ribattezzato la Gerarchia. Esse vibrano ad altissima frequenza”.

ERRANTE

Dopo l’accezione poetica che l’aggettivo aveva per me assunto grazie a un carme e a un pastore asiatico di leopardiana memoria, ho imparato che “errante” qualifica il sostantivo “spirito”. Perché la vulcanica Patricia così definisce gli spiriti erranti: “Sono entità che non hanno ancora varcato i confini della dimensione ultraterrena poiché faticano… a separarsi da noi.”
La casistica che l’autrice propone è davvero ricca e proteiforme: “Si presentò da me una giovane donna italiana, accompagnata da un defunto che però lei non vedeva”.
La stessa scrittrice ha il dono di saper consegnare alla pace eterna questi spiriti ancora così attaccati alla vita terrena, secondo un protocollo degno dell’epoca mass-mediatica: “La Gerarchia stabilisce… domani alle 22.00 lo farai passare nell’Aldilà”. Patricia come Caron dimonio dagli occhi di bragia! “Inizia così una conversazione a tre, che potrei paragonare a un’intervista in diretta Tv. Il medium, calatosi nei panni del giornalista…”

INFILTRAZIONE

Tralasciando il significato figurato che il termine ha assunto nelle cronache malavitose del nostro paese, avevo sinora sperimentato sulla mia pelle due casi più prosaici di “infiltrazioni”:
1) Chi di noi non ha patito le conseguenze della rottura di una tubazione?
2) In occasione della costruzione della mia casa, ho dovuto affrontare una fastidiosa infiltrazione derivante da un difetto di coibentazione…
Da oggi in poi, però, “infiltrazione” è qualcosa di più: “… uno spirito errante rimane attaccato per anni alla nostra energia fisica… si tratta della cosiddetta infiltrazione”. E sono giunto a una conclusione: che sia un problema idraulico, costruttivo o esoterico, l’effetto dell’infiltrazione è pur sempre il medesimo: “La persona attaccata si sentirà perennemente afflitta da una grande spossatezza senza mai riuscire a recuperare le energie…”
La casistica proposta è sempre doviziosa: “Ho avuto l’opportunità di trattare parecchi casi di infiltrazione”.

Le lezioni non sono soltanto semantiche e non finiscono qui. Perché la nostra medium affronta ciò che psicanalisi, medicina e scienze umane non sanno come approcciare.

I LIMITI DELLA PSICOTERAPIA

“La piccola era del tutto restia a baciare e ad abbracciare i suoi genitori.”
Complesso di Edipo o di Elettra? Niente affatto!
“Una ragazzina… aveva preso l’abitudine di alzarsi nel cuore della notte per abbuffarsi di salumi.”
Un caso di bulimia? Nossignori, è tutta colpa degli spiriti. Con buona pace dei padri della psicanalisi (“il soffio è alla base delle nostre intuizioni…. Ciò che Carl Gustav Jung … definisce sincronicità”) e delle scienze neurologiche (“La possessione e l’infiltrazione provocano uno squilibrio psichico, a volte gravissimo… rappresentano… una percentuale tutt’altro che irrilevante dei malati di schizofrenia che affollano gli ospedali psichiatrici”).

LE SEDUTE SPIRITICHE

Chi di noi, almeno una volta, facilmente in gita scolastica, non ha partecipato a una seduta spiritica? “Intorno a un tavolo, e ognuno di loro posò un dito sul bordo di un bicchiere capovolto.” Io l’ho fatto (spingendo come un dannato il bicchierino), ma leggendo il libro ho appreso un’altra modalità: “la tavola Ouija prese a sillabare le prime parole…” Francamente, se avessimo usato questa misteriosa tavola Ouija (???) nella nostra esperienza di neofiti, anche i più attivi tra di noi avrebbero avuto qualche difficoltà a sortire il buon esito della seduta spiritica. Salvo concordare su una conclusione ovvia: “Non praticate le sedute spiritiche!”

ESORCISMI

Se – anche per colpa del celebre film – avete in mente sacerdote, crocifisso e coreografie demoniache varie… dimenticatele. “Con questo sistema, la vittima ha, per quasi tutto il tempo reazioni molto violente e insulta l’esorcista.” Per Patricia l’esorcismo è una trattativa lunga ai limiti della noia: “Non avevo fatto altro che discutere e negoziare ogni santo giorno”.

GLI SPIRITI

Non sono soltanto i defunti, ma anche i nascituri (“Sono il figlio che avrai nel 1994”) e hanno natura indefinita (“Essendo androgino, lo spirito sceglierà inoltre se incarnarsi in un corpo maschile o femminile”).

UNA CHICCA: PARLARE CON OSCAR WILDE!

Anche se mi sto dilungando, non posso sottacere la chicca del libro. Perché si tratta di un incontro troppo illustre...
“Un esempio interessante riguarda lo scrittore irlandese Oscar Wilde. Dopo la sua morte, avvenuta a Parigi nel 1903, entrò in contatto con numerosi medium.” Oscar naturalmente non rinnega se stesso nel contatto con Patricia: “Decise di esprimersi in inglese, rivolgendomi delle frasi intrise di un cinismo misogino con cui irrideva la mia mancanza di cultura”.
Il libro raggiunge tonalità esilaranti in questo dialogo :
“Signor Oscar Wilde, quale autore mi consiglia di leggere? Shakespeare?”
“Lei non brilla certo per originalità! Legga piuttosto Gide.”
Ebbene, Patricia si fregia dell’onore di aver riaccompagnato l’impareggiabile (anche dopo il trapasso) Oscar nell’Aldilà…
A questo punto non ho saputo trattenere un urlo: “Patricia Darré, restituiscici Oscar Wilde!”

Bruno Elpis

P.S. Il presente commento vuole soltanto essere un mio personale divertimento. Naturalmente penso che ciascuno sia libero di credere in qualsiasi cosa aiuti a stare bene…

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... un rotocalco dal parrucchiere
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