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Nella porzione istantanea di vita
La signora Dalloway è uscita presto stamattina e ha portato con sé tutta la sua vita: una cinquantina d’anni. C’è con lei al risveglio il paesaggio della giovinezza e con esso si accompagna il ricordo di Peter: non erano fatti l’uno per l’altra.
La signora Dalloway fra le strade di Londra incrocia altre esistenze, esse in realtà già la circondano benché lei non le percepisca. Lei è partecipe solo della sua interiorità: un suono, un gesto, un innocuo elemento visivo riescono a innescare il ricordo. Il presente, il suo affaccendarsi per la buona riuscita del ricevimento in programma per la sera, non sono un diversivo sufficiente.
Peter torna ed è sua la scena, in un gioco di scatole cinesi scopriamo ora i suoi pensieri, sempre con la tecnica del flusso di coscienza. Seguono poi altri personaggi e con essi emerge la rappresentazione sociologica della vita londinese, delle sue classi sociali, della differenza tra i primi e gli ultimi. Ai margini spicca la figura di Septimus, è un reduce della prima guerra mondiale ma soffre di importanti turbe ed è sposato con Lucrezia che tenta di avviarlo alla terapia psicologica. Si apre un’altra scatolina e si entra nella porzione istantanea di vita di un altro personaggio e nei suoi pensieri. Entriamo via via nel mondo interiore di vari personaggi che assurgono, momentaneamente al ruolo di protagonista. Tutti poi convergono, dopo pagine magistrali che restituiscono il pensiero distorto, malato, allucinato di Septimus e con lui stiamo fino al gesto estremo la cui eco si insinua nella festa di casa Dalloway. Clarissa ne è raggiunta, colpita, disturbata, eppure quel suicidio non è tanto alieno dal suo sentire, dal suo essere. È un elemento disturbante, è presente, giace sepolto tra gli starti di esteriorità, di vivacità, di apparenza, è elemento da convertire per non essere travolta. È il sentire della vita: la giovinezza trascorsa e oggi ritrovata, fra i tanti estranei, nei suoi intimi amici Sally e Peter, è la sua maturità, è la sua accettazione dell’avvio alla vecchiaia. È una profonda inquietudine. La signora Dalloway congeda gli ospiti, suggella la sua vita, sprigiona ancora un fascino irresistibile.
Propedeutico al capolavoro “Gita al faro”, vive di un impressionismo lirico capace di sopperire ad un’assenza reale di eventi, ma in fondo cos'è la trama senza l’ordito?
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La strada di Swann
Ibrido
L’ autore definisce la propria opera” bizzarro amalgama di narrativa, biografia psicologica e pedagogia della psicoterapia” alla cui base c’è un debito notevole rispetto ad una bibliografia specialistica e rispetto all’idea di biblioterapia – speciale cura avente come farmaco la lettura dell’intero corpus filosofico- tratta da un’opera di Bryan Magee, citato come gli altri nei ringraziamenti finali.
Julius Hertzfeld , brillante professore di psichiatria presso l’università di California, scopre improvvisamente di avere un anno di vita e decide di viverlo dedicandosi completamente alla conduzione del suo gruppo in terapia. Introduce in esso Philip Slate ,un ex paziente che ebbe in cura per un disturbo della sfera sessuale, dopo averlo rintracciato e dopo aver scoperto che da chimico è diventato anch’egli un terapeuta che ambisce al counseling filosofico, essendo appunto prima di tutto un filosofo clinico con tanto di dottorato alla Columbia. I due pattuiscono uno scambio reciproco di favori: Julius vuole inserirlo nel suo gruppo per cercare sostanzialmente di capire dove fallì con l’ex paziente e Philip decide di parteciparvi per avere in cambio duecento ore di supervisione professionale.
Imbastite le premesse narrative, l’intero scritto prosegue alternando la cronaca della terapia di gruppo alla biografia di Schopenhauer; è chiaro fin da subito che la sua filosofia è stata la terapia di successo per Philip il quale continua a nutrire la sua esistenza con le massime e gli assiomi del grande filosofo facendo suo soprattutto l’aspetto pessimista e misantropo.
Affascinata dall’originale modulo narrativo e inizialmente colpita anche dallo stile di scrittura, particolarmente efficace negli inserti biografici, ho goduto appieno della lettura per poi notare una certa ridondanza nei contenuti e giungere ad un finale abbastanza ovvio. Complessivamente l’opera mi lascia una conoscenza gradevolmente romanzata della biografia di Schopenhauer, in virtù di essa consiglio la lettura del libro, ma una delusione rispetto al prodotto letterario che perde la sua originalità nella mancata caratterizzazione dei singoli personaggi affidata ai dialoghi all’interno del gruppo. Il caso clinico Philip Slate, interessantissimo soggetto, avrebbe potuto essere un personaggio indimenticabile se solo Irvin Yalom avesse smesso i panni di psichiatra per vestire maggiormente quelli dello scrittore. Interessanti comunque gli innumerevoli spunti di riflessione introdotti: la vita, la morte, l’importanza di un corretto approccio relazionale, la terapia di gruppo, le ansie, le ossessioni, le fobie.
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CHI LA DURA LA VINCE
"Emma", ultimo romanzo pubblicato dell’autrice, appare nel 1815, nel momento cruciale in cui il novel settecentesco accoglie problematiche e contraddizioni tipiche del Romanticismo, agli inizi di quel diciannovesimo secolo che fu poi destinato a diventare il secolo del romanzo europeo.
Jane Austen sintetizza le problematiche e le contraddizioni di un’epoca e le assembla rendendole l’essenza stessa della protagonista Emma e del suo percorso di iniziazione alla vita. Ha infatti appena ventuno anni, è ricca, intelligente, anticonformista ma tremendamente schiacciata dal contesto sociale e storico che vive. Orfana di madre, abita con un padre estremamente preoccupato della sua salute e rappresentante assoluto dell’immobilità sociale e storica che l’appartenenza alla fortunata classe borghese gli concede. La sua figlia maggiore è ben maritata, la sua governante ha appena commesso il delitto di maritarsi felicemente e la giovane Emma, la sua figlia più piccola, è la destinata a sopportare gli umori paterni. Benché non sia mai rappresentata direttamente una insofferenza vera e propria verso questo ingrato destino, la rappresentazione della formazione sentimentale della giovane Emma offre a me questa chiave di lettura. Durante il corposo romanzo ci si annoia a morte andando in giro per campagne e case private in visite di cortesia e in ritrovi improbabili all’interno di una comunità chiusa che viene lacerata e ravvivata, per fortuna , dalla comparsa di nuove persone che alimentano le fantasie di una giovane provinciale. Convinta sostenitrice del nubilato di fortuna, quello reso sostenibile dall’agiatezza economica, la protagonista, grazie al maturo fratello del cognato, avrà modo di comprendere che i matrimoni non si combinano più e che le donne sono perfettamente in grado di seguire le ragioni del cuore, lei compresa che convolerà a giuste e sobrie nozze. Una punta di rammarico però pervade il lieto fine che sigla appunto anche il tramonto delle fantasie, oggi si direbbero adolescenziali, per lasciare spazio ad un giusto equilibrio di ragione e sentimento.
Consiglio la lettura a chi ama la scrittura della Austen, a chi è interessato all’epoca storica e letteraria, a chi è curioso; io l’ho letto per curiosità, ne sono felice ma mi è costato una fatica tremenda: mi ha profondamente tediato.
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Non è per tutti
“ Questo non è un libro.
Oppure lo è a morsi. A strappi.
A sequenze di lacerazioni"
La nota conclusiva di questa pubblicazione intitolata “Anteprima mondiale” con doveroso sottotitolo “Il seguito di Woobinda, il romanzo di culto che ha segnato una generazione” esprime l’essenza dello scritto. Aldo Nove ritorna dopo un esordio fortunato, dopo vent’anni per dire sostanzialmente che nulla è cambiato o meglio tutto è mutato in un progressivo peggioramento. I nostri tempi vengono amplificati nelle loro brutture in uno scritto che si fregia dell’imprimatur della neonata La nave di Teseo.
L’italiano dell’era postberlusconiana pare essere la vittima designata di questa scrittura fuor di misura: può essere il dipendente da videogiochi, l’internauta convinto che la realtà sia quella fittizia dei social, l’ossessionato (telefoni, sesso, pornografia), il fobico ( evito l’elenco: tutto fa paura). Ci sono Battiato, Crozza, il punto di non ritorno della nostra Europa, l’indolenza di chi subisce e non agisce neanche per capire. Ci sono i laureati sfruttati, c’è la casta universitaria,ci sono lo sporco del sesso mercificato, degli appuntamenti al buio. C’è l’euro, ci sono i Mondiali. E ci sono gli Etruschi:” i capi dei Mondiali”. C’è il voyeurismo globale, ci sono i Teletubbies e la polemica omofoba: PO, DIPSY, LAA-LAA e il presunto gay TINKY WINKY.
Vi state chiedendo di che sto parlando? Allora ho reso l’idea, in parte, del contenuto del libro. Aggiungo solamente nell’ordine una nota sullo stile e una considerazione d’ordine personale. Il libro si nutre di racconti e scritti di Niccolò Ammaniti, Nanni Balestrini, Giuseppe Culicchia, Gilda Policastro, Raul Montanari, Carmen Pellegrino. Lo si scopre sempre attraverso la nota finale ma si intuisce prima il diverso registro stilistico. I toni di Nove sono eccessivi, paradossali, volgari, studiati a d arte per scandalizzare, scuotere e irretire, giungendo a sfiorare il comico. A me personalmente non sono piaciuti anche se lo scritto ha avuto il pregio di farmi dubitare della realtà rappresentata: eccessiva, irriverente, scandalosa. Ho più volte avuto la tentazione di non credere a ciò che c’era scritto quando poi puntualmente l’informazione si è rivelata reale e incredibile e brutta. Alcune parti mi sono rimaste fumose e inaccessibili e mi sono sorpresa della mia straordinaria ignoranza del mondo e dispiaciuta di averne avuto indirettamente l’accesso attraverso questo scritto. Preferisco non conoscere certe realtà. A chi è più smaliziato, più curioso, più defraudato di un residuo senso del bello, potrei consigliare la lettura. Gli altri si astengano. Non è per tutti.
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AUTORITRATTO
Libro coraggioso, libro necessario. Coraggio e necessità, entrambe, da associare all’autrice. Maternità rivelata, disvelata, dissacrata, semplicemente vissuta con tutte le difficoltà ad essa connesse. Da questo sentire, soffrire ma anche gioire, l’impulso a ricercarne i motivi, le ragioni. La ragione, forse. Lalla Romano filtra infatti la maternità con la ragione, la vive intellettualmente. La ricostruisce infine con questo scritto.
Sarebbe stato bello leggere di un rapporto madre-figlio amoroso, equilibrato o semplicemente sereno e invece non accade mai di percepire tale positività nei ricordi di mamma Lalla, qualche spiraglio forse nella fase dell’età adulta. Ciò che mi ha spinto alla lettura di questo libro è stata proprio la curiosità verso la gestione della maternità da parte di una donna attiva in campo culturale. Mi sono ritrovata invece di fronte ad una ricostruzione a tavolino di un figlio vissuto e sofferto e tanto amato. Una composizione a mosaico, un puzzle i cui tasselli, le cui tessere sono numerosi documenti privati: lettere, temi scolastici, elaborati di vario genere, vista la creatività del ragazzo. Emerge un binomio fatto di uguali che si respingono: madre e figlio sono reciprocamente percepiti come intrusi, al dire il vero la madre è più invadente. Il padre inizialmente è assente o per contingenze legate al periodo storico (II guerra mondiale in atto) o per lavoro, in seguito svolge funzioni di equilibratore o equilibrista, dipende dal punto di vista. Un padre comunque molto amato. Il figlio? Difficile dire chi fosse quel Piero, veramente. A me sembra di averne letta solo una ricostruzione troppo soggettiva, in ottica materna: la madre troppo presente, il figlio una sua ricostruzione intellettuale.
La lettura mi è stata utile per approfondire la conoscenza della scrittrice, e forse questo era lo scopo di questa sua opera: conoscere se stessa anche attraverso il conflitto con il figlio. Direi che ha fatto centro e con grande coraggio: raccontarsi nella sua debolezza di mamma è un atto di coraggio, implica riconoscere gli errori, inevitabili e sperare di superarli o almeno accettarli.
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Niente di nuovo sotto il sole
Lande deserte attraversate da “migranti climatici” fanno da sfondo ad un viaggio della speranza che dall’Italia parte per il Nord Europa tramite il corridoio umanitario ancora tenuto aperto dalla Svizzera. Italia, Europa e il mondo intero affrontano l’ecatombe climatica. I mari si sono sollevati, i ghiacciai disciolti, le temperature si sono impennate; orografia e idrografia sono in via di nuova definizione. Spariti l’alveo del Po e dei grandi fiumi europei, Reno e Danubio, scomparse le precipitazioni, riscritti gli equilibri del potere. Le uniche terre abitabili sono quelle a ridosso del circolo polare artico. La tundra è ora l’unico ambiente propizio all’agricoltura, all’insediamento umano e alla sopravvivenza della specie.
Anno 2082.
Livio è anziano, investe anche lui i suoi ultimi soldi per tentare la grande traversata, con lui alcune migliaia di persone: nessuna garanzia di arrivare alla meta, ancor meno di sopravvivere. La realtà che sta vivendo la ha paventata fin da giovane, la sua consapevolezza ecologista non lo ha però sottratto al destino dell’umanità. La sua mente si è nutrita di scienza, di quella disciplina che dopo la grande rivoluzione del '600 sostiene che alcune proprietà che attribuiamo agli oggetti non appartengano loro ma siano creazioni del nostro cervello e che oggi si spinge a negare in quanto enti lo spazio, il tempo, la tridimensionalità.
C’è qualcosa là fuori ma è la realtà? O una creazione del nostro cervello?
Livio, professore di neuroscienze, potrebbe essere insomma l’alter ego dell’illustre storico e filosofo delle scienze Enrico Bellone il cui suo ultimo contributo scientifico prima della morte è stato proprio un saggio intitolato “Qualcosa , là fuori”, omaggio e tributo dell’ autore campano da sempre appassionato alla fisica e interessato alle neuroscienze.
Gradevole romanzo appartenente al genere della climate fiction, nutrito di consapevoli saccheggiamenti da opere di James G. Ballard, di Cormac McCarthhy, di Carlo Lucarelli, permette di riflettere sui cambiamenti climatici in atto partendo da una buona base scientifica. Insomma ciò che è descritto non è frutto di fantasia o di mera speculazione visionaria da essa nutrita, è la trasposizione realistica in chiave romanzata di scenari ipotizzati e ipotizzabili su base scientifica. Leggerlo potrebbe aiutare a tenere desto il grido d’allarme in tempi in cui anche l’importante conferenza sul clima di Parigi( dicembre 2015)non ha potuto far altro che siglare obiettivi molto importanti ma la cui verifica è stata posticipata tra il 2018 e il 2023.
Nel frattempo continueremo a inquinare per altri tre anni?
Buona lettura.
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L'inutilità del perchè
Il romanzo vive di un respiro narrativo condensato in recupero memorialistico e staticità narrativa. Nulla di nuovo accade se non l’evento che porta a innescare la scena e ciò basta per fa sì che tutto accada e che tutto si risolva dopo un’attesa di quarantun anni. Capire ciò che è stato non è affar da trattare, il focus è rappresentato non dagli eventi in sé ma dagli effetti che hanno prodotto. È come assistere ad un duello che non vede né vinto né vincitore. Una patta tremenda ma necessaria.
Un complotto fallito di una coppia di amanti? Una fuga solitaria? Il peso dell’inganno? La volontà di preservare, per quanto ancora possibile, un’amicizia?
Henrik e Konrad sono ormai due candele consunte: quanto la loro luce è riuscita a dare? Quanto il loro lento ardere ha prodotto? La metafora è richiamata da un titolo molto esplicito ( "bruciare le candele fino in fondo") che in traduzione si è lasciato cadere per focalizzare l’attenzione sulle braci che rappresentano il residuo delle passioni ormai sopite, il fuoco che divora una verità tanto attesa ma che non serve ormai svelare.
Konrad aveva lasciato l’amico e sua moglie in modo improvviso, senza preavviso. La sua partenza confermava un tradimento coniugale siglando la sospensione di un’amicizia antica e consolidata, nonché la cristallizzazione del tempo. I due amici continuano la loro esistenza, Krisztina muore dopo otto anni, persi marito e amante per sempre, il mondo, implacabile, muta d’aspetto: la prima guerra mondiale cancella l’impero, modifica i confini, fa tramontare un mondo che non ha più ragione di esistere. È infine in atto la seconda guerra mondiale. La vita è trascorsa, il mondo non le è necessario, l’esistenza è in fondo il nostro universo, è la piega che le facciamo assumere. Il nostro piccolo mondo è contenuto nel cuore, nell’anima, nelle passioni, nelle inclinazioni; a noi il compito di viverle con equilibrio: il cuore segnerà il passo, ciò che rimarrà sarà il sunto della nostra esperienza di vita.
Romanzo di facile lettura dallo stile limpido e terso, intenso nel contenuto originale e nella struttura, ha richiamato in me, in una estrema sintesi “Quel che resta del giorno” , “Il mondo di ieri” e le belle pagine di Roth .
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Lascito
È un libro d’amore, fondamentalmente d’amore.
L’amore è quello di Giuseppe Dessì per Villacidro, il paese dietro il quale si cela il toponimo Norbio. È l’amore dell’autore per la sua terra e per la sua storia misto ad un disappunto che inframmezza lo scritto con severi rimproveri ad una certa sardità, quella fatta di rassegnazione passiva rispetto ad un destino di popolo colonizzato.
Sardegna, colonia d’Italia; Sardegna, terra da sfruttare; Sardegna, eterno fanalino di coda.
Eppure traspare in tutto lo scritto la necessità impellente di credere in un futuro migliore per la sua terra. Ripercorrendone la storia a cavallo dei secoli XIX e il XX ,si assiste ad una “focalizzazione sarda” della storia nazionale e di alcuni scenari internazionali che irrompono in una terra magicamente statica in balia di un destino severo, cupo, disgraziato ed ineluttabile.
Chi può dunque garantire quel messaggio di speranza?
È il piccolo Angelo Uras che sia affaccia alla vita e al cancelletto di legno di Don Francesco Fulghieri. È orfano di padre, povero, legatissimo alla madre Sofia. Diventerà il destinatario di un’immensa fortuna: possedimenti, terre, frutteti e oliveti che gli garantiranno un’insperata mobilità sociale . Il romanzo narra di lui, l’homo novus, il contadino povero, il povero che ha uno spirito grande, un’intelligenza viva, una sensibilità d’animo che nessun rango può eguagliare. Viene spontaneo crescere con lui, amare, soffrire, evolversi in un’empatia continua che ogni evento nodale riesce a suscitare destando viva commozione grazie all’uso sapiente di una prosa che va dritta al cuore.
I numerosi pregi del romanzo non sono però solo riconducibili all’impianto narrativo, alla trama, allo stile intriso di forte soggettivismo. Il testo oltre ad avere il pregio di rappresentare un messaggio di speranza, pienamente avallato dalla bellissima frase finale, ha il potere di restituire un vissuto che ancora perdura. Scrive chi vede una mamma ancora oggi segnarsi, dopo uno spavento umettandosi la gola con un dito bagnato di saliva, chi sente il proprio genitore rispondere al telefono con un “Commandi” se all’altro capo c’è una persona che viene percepita importante o tante altre piccole sfumature culturali che ancora resistono nel tempo.
Oggi la modernità ha cambiato l’aspetto del paese, un mantello orripilante per alcuni versi lo ha tradito camuffandolo di intonaco, la storia ha inflitto nuove violenze ma non ha modificato il ciclo della vita né lo ha incrinato. Prosegue inesorabile in altri destini percorrendo nuove traiettorie storiche, sociali, culturali, consapevole di un tempo che fu.
Dessì è riuscito a restituirci il nostro passato dosando storia e fantasia, rappresentando l’anima di un territorio che amava profondamente, consegnandocelo in dono come solo un padre può fare. Un’opera per soli sardi? Affatto!Un’opera per tutti perché “ogni punto dell’universo è anche il centro dell’universo”(introduzione a I passeri, 1955): uguale è la vita, l’amore, la morte.
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Il trionfo del male
Durante gli intensivi giorni della trebbiatura quando il caldo, la polvere e il faticoso lavoro stravolgono la vita della “Pré-aux- Boeufs”, fattoria isolata in riva al mare, nei pressi de La Rochelle, muore Jean Nalliers. Apparentemente vittima della sua epilessia che gli avrebbe causato la caduta dalla finestra del granaio durante una crisi, è in realtà stato spinto giù dalla signora Pontreau, la suocera. È vedova e ha altre due figlie che vivono con lei a Nieul. Nessuno sospetta della donna. Arriva l’inverno, la figlia vedova diventa quasi catatonica e ,nonostante i rancori del consuocero, vero proprietario, riesce a vendere la fattoria restituendosi uno status sociale borghese mai dimenticato nonostante le disgrazie economiche dell’ultimo periodo di vita del suo benestante marito. Intanto la povera cameriera che era al servizio in fattoria nei giorni della trebbiatura inizia a gironzolare intorno alla casa della Pontreau, mentre sbandiera presunte, imminenti e inverosimili possibilità economiche...
Il romanzo gioca sulla curiosità del lettore che in realtà sa già tutto ma viene attanagliato dagli infallibili meccanismi del giallo, curioso di sapere quali risvolti assumerà la vicenda. La lettura è gradevole, la caratterizzazione della protagonista eccezionale, la descrizione dei paesaggi funzionale alle atmosfere di sospetto che si creano. Il mare, la campagna, il piccolo paese, la corriera che fa la spola tra la cittadina e Nouel, la piazza, la strada del mare, la grande casa signorile memoria dei vecchi fasti borghesi, il Cafè Louis.
Su tutti emerge indistinta una folla: gli abitanti del luogo; dapprima rappresentati come singoli e sparsi spettatori assurgono poi al ruolo di compatta e impietosa giuria per accettare infine il trionfo del male.
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La forza del pensiero
Due grandi pensatori riuniti in un solo volume: Antonio Gramsci e Peppino Fiori.
Giuseppe Fiori è un dono della mia splendida terra:è stato giornalista, romanziere (Sonetaula) ma ancor prima biografo (Gramsci, Michele Schirru, Berlinguer, Lussu, i Fratelli Rosselli) e parlamentare. La sua vena biografica si è certamente e prevalentemente imbevuta di Sardegna e ciò gli fa onore perché la sua opera ha restituito ritratti a tutto tondo come solo un conterraneo può fare e non per vicinanza emotiva, ideologica, geografica ma per humus, quello che solo la terra di ciascuno di noi può instillarci.
Questa biografia fu la sua prima, venne pubblicata nel ’66 ed ebbe grande risonanza perché restituiva una lettura del grande pensatore sardo nutrita di fonti di prima mano, di lettere inedite, di testimonianze di amici e di parenti ma soprattutto perché rompeva vetusti schemi e ideologie “della vecchia ortodossia a quel tempo dominante nel Pci” (Fiori nell’avvertenza contenuta nella ripubblicazione per i tipi di Ilisso nel 1995). Osò insomma far emergere contraddizioni, dissidi, lacerazioni di cui mai si era apertamente parlato e che in realtà furono l’essenza dell’originalità del pensiero gramsciano.
Instillata la dovuta curiosità, non avrò l’ardire di addentrarmi ad analizzare il pensiero politico, mi propongo invece di attirare il maggior numero di lettori avvicinandoli ad un eccellente biografia.
Il primo obiettivo di Fiori è sicuramente quello di regalarci un ritratto a tutto tondo e fedele, inizia quindi con lo sfatare la credenza che vedeva Gramsci nascere da umile famiglia, in realtà il padre nato a Gaeta dirigeva l’ufficio del registro, possedeva licenza liceale, finì in carcere ingiustamente e solo questa sventura gettò la famiglia nella più assoluta povertà . Peppina Marcias, la sua cara mamma, sola, riuscì ad allevare la numerosa famiglia e nel contempo a garantire ai figli l’istruzione. Fin dall’infanzia il fisico minato da un’inspiegabile deformità permise al nostro di affinare la sua forza di volontà .Leggere di una noce sulla schiena, dei consulti medici e della terapia consistente nello stare appeso ad una trave del soffitto lascia uno sconcerto profondo. Tuttavia non si percepisce una figura mitizzata, basta la realtà dei fatti a investirlo di un' aura speciale. La sua prima infanzia viene contestualizzata con un’efficace quadro della situazione socio- politica dell’isola : le catastrofi bancarie, il collasso agricolo, l’assenza delle industrie, il riversarsi della forza lavoro nei bacini minerari del Sulcis e la nascita di una larvale lotta collettiva al sistema, superato l’atavico, mitico, oltreché individualista approccio che nutrì tanto banditismo. Fu il piemontese Cavallera ad alimentare la neonata congrega sindacale che sfociò nel famoso eccidio di Buggerru (tre morti del sottoproletariato minerario) il quale avviò il primo sciopero nazionale italiano. Nel 1908 Gramsci frequentò il liceo Dettori a Cagliari, sottoponendosi a numerose privazioni ( mangiò per otto mesi una sola volta al giorno) ma entrando anche in contatto con il professor Raffa Garzìa, trentatreenne direttore de “L’Unione Sarda”; sono gli anni in cui si sentirà maggiormente attratto dall’imperante “social sardismo eterodosso” che imponeva la lotta di classe contro i continentali ricchi. Seguirono gli anni dell’università a Torino resi possibili, ma a prezzo di enormi sacrifici non solo economici , grazie alla borsa di studio istituita dal Collegio Carlo Alberto a favore degli studenti poveri delle province dell’ex regno. Dalla Sardegna due candidati ottennero il beneficio: Palmiro Togliatti dal Liceo Azuni di Sassari ( secondo posto in graduatoria) e Antonio Gramsci (nono posto).
Rigidi inverni torinesi, fame, freddo, problemi di salute, sessioni di esami inevase, i primi scioperi (novantasei giorni di lotta), il diritto di voto esteso agli analfabeti che fece di Gramsci un socialista. Le lettere di questo periodo,inedite al tempo, testimoniano e raccontano la disperazione di un ragazzo studioso e volenteroso lacerato da seri problemi di salute e da estrema abnegazione oltre che da un intimo senso del dovere. Al quarto anno di Lettere l’orientamento filosofico era crociano, Fiori mette indubbio le testimonianze che tendono a retrodatare la formazione marxista secondo lo studioso da addebitarsi ad un’età più matura.
13 .04. 1914 : ultimo esame, tra la fine del ’15 e i primi del '16 “nasceva il rivoluzionario professionale”.La redazione de”L’Avanti”, la rubrica “Sotto la Mole”, il credere al metodo maieutico di educazione delle masse, il rifiuto dell’anticlericalismo, la Rivoluzione russa, l’ ”Ordine Nuovo”, il primo numero terminati gli anni bui del primo conflitto mondiale. I consigli di fabbrica, le divisione del PSI, i Congressi dell’Internazionale.
Profumo di storia.
Lenin che riconosce le tesi gramsciane, la frazione comunista, la nascita dell’omonimo partito avendo cercato prima di rinnovare al massimo il partito socialista. Gramsci escluso per accuse di interventismo, inaccettabili. Gramsci anticipatore della pericolosità del fascismo. Gramsci e l’amore. Il primo mandato d’arresto, l’illusione di poter sconfiggere il fascismo e dentro quell’illusione la speranza di un’Italia migliore, l’esperienza parlamentare e l’immunità, l’esperienza dell’Aventino e il tentativo, fallito, di lanciare il Primo sciopero generale politico. Gramsci antistanilista. Un cervello lucido anche nei periodi più difficili, un uomo solo, votato al sacrificio estremo, una sentenza a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni, un P.M. capace di sentenziare un tristissimo: “Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare”.
Un cervello che nell’immobilismo carcerario non si fermò mai e vergò a mano 2484 pagine in trentadue quaderni: l’eredità per le nuove generazioni.
Una mamma morta alla quale scrive perché nessuno gli può comunicare una notizia così dolorosa, un padre a Ghilarza che ancora lo attende invano mentre giunge, impietosa, la nuova della sua morte e una casa si riempie di cordoglio. Un padre che va via due settimane dopo, trascorso il suo ultimo doloroso tempo a rileggere le righe di un figlio alla mamma che non sapeva morta:” La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini”.
Opera tradotta in dieci lingue, un successo letterario meritato e durevole nel tempo, uno scritto capace di istruire, sorprendere, commuovere. Fondamentale.
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FRAGMENTA
“Vorrei dire questo: il suo stile, cioè il suo linguaggio, era simile al mio nella scrittura:concreto per le sensazioni, reticente sui fatti, segreto ma non ipocrita nei sentimenti.”
Lui è Innocenzo Monti, il marito, e lei ne parla con infinito rispetto e con grande senso estetico, gli occhi di una pittrice, nell’intimo una donna libera e selvaggia. La lettura di questi scritti sparpagliati, di questi appunti, di queste sensazioni fermate su carta restituisce un ritratto femminile che rimane impresso. Colpisce l’estrema indipendenza intellettuale dentro un matrimonio durato cinquantadue anni, fa riflettere la sua sincerità tagliente nel raffigurarsi anche nei tratti meno edificanti del carattere. Una sincerità che apprezzo moltissimo e trovo rara nelle persone, nella vita. Lo scritto vive di questa intima organicità che la struttura in brevi bozzetti divisi e insieme racchiusi in due parti intitolate “Quattro anni”(quelli del periodo precedente il matrimonio) e “Quattro mesi”( quelli della malattia che prepara al distacco finale) sembra voler negare.
Si tratta di riflessioni, pensieri rincorrenti, immagini che costellano l’universo pensato e siglano l’universo vissuto di Lalla Romano. Un paesaggio, un quadro, una lettura, una musica, un gesto, un modo di essere precisamente associati a un evento, a un’occasione, a una prova d’amore e di vita. Colpisce ancora l’ambivalenza del sentimento amoroso così efficacemente vissuto e rappresentato :la profonda conoscenza e accettazione dei pregi e dei limiti dell’essere amato (restituita qui secondo il punto di vista del marito; l’oggetto è dunque Lalla), la condivisione dell’esistenza, la consapevolezza dell’individualità fatta di egoismo e di incapacità riversati nel rapporto di coppia.
Tratti decadenti maggiormente presenti o da me avvertiti nella prima sezione e rara e fine poesia nella seconda dove il racconto di morte e amore, di malattia e vecchiaia, e con essa lo spettro della solitudine, possono portare alla commozione, rendendo partecipe il lettore del sentimento dell’esistenza pur nelle vicissitudini individuali .
Quando le pagine di uno scritto restituiscono in maniera così efficace l’universalità del sentire, del patire, del gioire umano, non posso che ritrovarmi d’accordo con chi annovera l’autrice nell’Olimpo delle grandi scrittrici oltreché delle grandi donne secondo una mia personale convinzione di cosa significhi esserlo.
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"Su, camminiamo..."
Opera del periodo americano, romanzo sull’amore passionale e sull’amore sentimentale. Datato 26 gennaio 1946, scorre parallelo a vicende sentimentali appartenenti alla biografia dell’autore. Restituisce una visione a tutto tondo del complicato legame d’amore, ne sviscera l’aspetto sensuale e di pari passo quello cerebrale in ottica prettamente maschile anche se non mancano incursioni nell’universo emotivo femminile.
L’ambientazione newyorkese , geometria urbana e visione di interni concentrata nelle tre camere del titolo, è funzionale a descrivere esistenze sregolate, imbevute di solitudine, culminanti nell’incontro casuale e del tutto fortuito di Francois /Frank e Catherine/Kay. Lui, attore quarantottenne francese, marito e padre, estromesso dal consorzio umano per un capriccio della moglie che lo abbandona per un ragazzo giovane; lei quasi trentatré anni, ex moglie di un uomo facoltoso, in giro per la città ad abbordare uomini, ad acchiappare in modo insulso il senso della sua esistenza. Si ritrova improvvisamente estromessa non solo dalla vita ma anche da un’abitazione.
Sei mesi non sono bastati a Frank per ricostruirsi un’esistenza, il sentimento dell’abbandono lo ha reso bilioso e incapace di ritrovarsi. Quando il destino gli fa incontrare Kay, attraverso lei matura consapevolezza della sua solitudine e superando in pochissimo tempo le tappe caratterizzati ogni frequentazione amorosa che lentamente scivola in legame di coppia, si concede ad un nuovo legame d’amore. Abbandona resistenze, diventa leggero, ridicolo perfino, esce dalla realtà ed entra in uno spazio che è circoscritto alle tre camere ( quella d’albergo a rappresentare la componente erotica pura, quella dove vive a rappresentare l’intimità e la quotidianità di una coppia, quella dove viveva Kay a significare l’importanza dell’eros maturo, consapevole, indissolubilmente legato all’amore) e alle strade della città.
Il camminare la notte rappresenta però il loro primo spazio vitale utile a dare realtà e consistenza al legame che si sta concretizzando e che permetterà ai due il reintegro sociale.
Romanzo ricco di spunti di riflessione, lineare nello stile, riconosciuto tra i migliori del belga, mi lascia perplessa , insoddisfatta, insterilita a livello emotivo. Semplicemente non tocca le mie corde emotive che mai hanno vibrato in questa lettura.
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Buio e luce
Questo libro prova che le epoche storiche buie fanno emergere le menti eccelse sfidandole a dare risposta adeguata a ciò che menti degeneri resero triste realtà.
Negli anni bui del nazismo e della seconda guerra mondiale lo scritto è la geniale, profonda, ferma, monumentale nonché sublime voce di una mente illuminata che offre in dono il distillato della saggezza: “Chi sa che un giorno il buio non dilegui, /chi sa che un giorno il tempo non s’adegui,/e il Sole, nuovo Dio, non ci diriga,/ e doni dalle nostre mani esiga.”
È la dovuta presenza dell’intellettuale che non può tacere, non può subire ma soprattutto non deve dimenticare l’importanza del suo ruolo e allora “vecchio d’anni carico e canuto/da studi e riflessioni ora distilla/la tarda opera sua, nel cui tessuto/ come per giuoco la sapienza istilla”.
Ci rapisce subito, ci ammalia con un titolo che contiene in sé lemmi che attraggono, richiamando alla memoria la componente ludica che è alla base di ogni nostro sapere da che veniamo al mondo; ci strega aggiungendovi le perle vitree:cangianti e sonanti.
Utilizza la componente fantastica e crea un mondo parallelo: Castalia. Una provincia pedagogica organizzata in un Ordine e in scuole d’elite fondate sull’oggettività e sull’amore del vero, basate sullo studio e sul “Giuoco” :armonia, sintesi dei saperi, arte sui generis. Linguaggio musicale e insieme filosofico ed estetico resosi necessario per contrastare la decadenza culturale il cui apice fu raggiunto nel XX secolo quando l’arte fu al servizio del falso.
Il testo è complesso, corposo, intessuto di molteplici linguaggi; richiama conoscenze musicali, filosofiche, storiche, eppure è basato su un impianto narrativo originale - la parte più consistente è un saggio biografico sul Magister Ludi Josef Knecht – che permette di godere anche di una storia, una sorta di romanzo di formazione.
Ho molto apprezzato i temi trattati : vita contemplativa vs vita attiva, rapporto maestro-discepolo, l’ anelito alla pace, il canto della cultura umanistica, fra i tanti.
La lettura ha richiesto un tempo necessariamente diluito, anche solo poche pagine al giorno; è stata una sfida culturale, necessaria. Lo consiglio perché viviamo, purtroppo, tempi bui.
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Viraggi
Una coppia vive in un appartamento al primo piano, la camera da letto, situata al mezzanino, è collegata al piano inferiore tramite una scala a chiocciola, in ferro. Nata in altri tempi con la precisa funzionalità di permettere una comunicazione più immediata tra i due livelli, anche tramite l’ausilio di un tubo acustico che sbocca in cucina, è diventata attraverso Louise, la figlia dei vecchi proprietari, ora padrona di casa e del negozio di famiglia, il mezzo per esercitare un controllo assoluto della sua proprietà. Tra i suoi beni un marito: Étienne, ancor prima quello defunto...
L’appartamento, composto inoltre da una sala e da un bagno, è proteso verso l’esterno con l’affaccio della finestra della camera da letto alle luci e ai rumori di un luna park e di un locale notturno. I suoi abitanti vivono invece un’esiliante solitudine creatasi col tempo e con le circostanze; essere subentrato troppo presto alla vedovanza ha creato condizioni ottimali per isolare i due . Una volta alla settimana un’altra coppia di amici va a trovarli per cenare e giocare a carte. Quando Étienne e Louise escono, lo fanno con la precisa intenzione di evitare imbarazzanti tempi morti nella loro relazione che peraltro si nutre di una sessualità spinta, forte quasi disturbata e con una leggera componente voyeuristica. Il loro rapporto è simbiotico e al tempo stesso di estremo individualismo: lui nutre sospetti di avvelenamento da arsenico ad opera della moglie, lei lo controlla dopo averlo depauperato di ogni libertà, compresa quella finanziaria. Lui ascolta dall’alto, spia, anticipa le mosse, prevede, suppone. Lei agisce, compare, scompare, controlla; entrambi a letto sono consapevoli l’uno dell’altro. Lentamente Étienne prende coscienza di tutto: analizza la situazione, valuta, pondera, agisce.
Già sperimentate, nella lettura di Simenon, altre situazioni di sospetto coniugale - “Il gatto” in particolare- mi ritrovo stavolta stanca e affaticata da un romanzo interamente giocato sull’ambivalenza del rapporto amoroso. Ho trovato, pur nella genialità dell’impianto narrativo e delle atmosfere descritte, un già letto che mi porta tristemente a constatare una visione dei rapporti amorosi declinata al nero che non riesco affatto ad apprezzare. Consigliato quindi agli amanti del genere, io preferisco il viraggio seppia.
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La vita è bella?
Racconto lungo appartenente alla primissima produzione dello scrittore svizzero tedesco il cui nome è più immediatamente associabile all’opera “Homo Faber” o alla frase “Volevamo braccia, sono arrivati uomini” a proposito dell’emigrazione italiana in Svizzera negli anni ‘60. Cominciò a scrivere giovanissimo nel 1934 , sebbene impegnato in altre occupazioni e segnato da una prematura scomparsa del padre la quale lo costrinse ad abbandonare gli studi in germanistica. Si dedicò successivamente all’architettura e durante gli anni del secondo conflitto mondiale, mentre prestava il servizio attivo, riprese a scrivere.
Questo racconto, a detta di chi ne conosce le sue opere, anticipa i motivi ispiratori dell’intera produzione e, a mio parere, ha il pregio di incuriosire chi come me non ne ha fatto lettura diretta.
Il racconto si apre con la descrizione di una giornata ideale per camminare in montagna e subito cattura soprattutto se si apprezzano le atmosfere in quota, il contatto con la natura e quella magica sospensione spazio-temporale che si vive solo nel silenzio della montagna quando è più facile raggiungere il contatto con se stessi. La scrittura ha una forte componente evocativa. Il narratore esterno fin da subito ci presenta in ottica fredda e distaccata il “viandante”. È fine estate e Balz Leuthold, ripercorre sentieri calcati tempo prima con il fratello maggiore. Ora ha trent’anni e vive la sua crisi esistenziale, mentre cammina mette a fuoco i suoi pensieri: è insoddisfatto, è diventato anch’egli un uomo ordinario. Giunge ad una pensione e tutto è come tredici anni prima. Ci sono altri ospiti e lo notano come “strano”, intuiscono poi che ha intenzione di scalare la cresta Nord, tra di essi vi è la giovane straniera Irene. I due si studiano, si cercano, si trovano; entrambi hanno dolorose pendenze amorose nella vita reale.
Protagonisti assoluti sono i pensieri di lui e poi di lei. Il tempo non è favorevole, il contatto con gli altri ospiti obbligato e con esso una conoscenza più diretta. Irene conversa con il viandante, ne intuisce le profonde inquietudini e il sottile gioco da funambolo tra l’ordinario e lo straordinario. Il tempo si apre, Irene precede il viandante nel sentiero che porta al rifugio dal quale parte la via per la cresta Nord, lo attende, lo affianca, impone la sua presenza. Giunti al rifugio, Balz troverà il modo di proseguire in solitaria.
Le ultime pagine racconteranno la trepidazione dell’attesa e la speranza della sopravvivenza.
Riuscirà il nostro a superare l’ardua prova che si è imposto? Gli restituirà l’azione la capacità di affrontare il quotidiano, l’assurdità dell’esistenza, la sua schiacciante imposizione di quel “bisogna comunque alzarsi, intraprendere un cammino senza via, senza fede e senza meta, senza senso, senza niente, senza vocazione e solo per farsi vecchi, sempre più vecchi e sperduti”?
Al lettore curioso scoprirlo in pagine bellissime, pervase e arricchite da una profonda riflessione filosofica di natura esistenzialistica. Dedicato a chi almeno una volta si è chiesto:”Perché non seguiamo i nostri desideri? Perché quando sappiamo che sono più veri e più ricchi e più belli di tutto ciò che ci blocca, ciò che viene chiamato morale, virtù, fedeltà che non è vita, perché non ce ne liberiamo?”
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Per amore solo per amore
Il nuovo romanzo di Paolo Di Paolo, giovane autore pluripremiato e il cui talento fu avallato dal grande Tabucchi in occasione della pubblicazione di “Dove eravate tutti” propone, attraverso un impianto narrativo filtrato dalla voce narrante di Grazia, una storia di crescita personale condita da un mix di saporita tutta italiana: il conflitto generazionale del meraviglioso “Ai miei tempi..”, la presenza ingombrante e problematica di una popolazione vecchia, l’eterno dilemma tra ateismo e cristianesimo, la lontananza sempre più marcata dal faticoso giro di boa rappresentato dall’ingresso nell’età adulta.
Quando si diventa adulti in Italia? Quanto l’appartenenza ad una precisa epoca incide sulla qualità della vita che si sta vivendo? Qual è la genuinità del nostro vivere?
Il vissuto di Nino, ventitreenne scapestrato, dall’ottobre del 2012 al maggio del 2013 offre la possibilità di conoscere le difficoltà legate alla crescita di una giovane persona quando nel suo cammino si incrociano due direttrici importanti: un serio impegno di lavoro e un sentimento d’amore vero.
Nino torna in Italia da Londra perché Grazia, sua ex insegnante di teatro, gli propone, complice una madre disperata, una docenza a Roma in un corso di teatro per anziani. Incontra ogni lunedì Teresa, nipote trentenne di Grazia e sua accompagnatrice. Benché i due siano molto diversi, in loro nasce un reciproca curiosità che gradualmente li farà aprire l’uno all’altro...
Scritto con una prosa frizzante, veloce, si lascia leggere facilmente offrendo alcuni spunti di riflessione intervallati da eventi storici recenti il cui impatto ha probabilmente segnato anche il vostro vissuto. Ho apprezzato l’idea di raccontare una storia “quasi solo d’amore” che avvicina ad un messaggio sempre attuale: amarsi e amare, affidandosi ad altri non sempre e necessariamente all’interno di un rapporto sentimentale. Lo consiglio a chi gradisce letture veloci ma non superficiali, ambientazioni italiane dal verace sapore nostrano, sperimentazioni stilistiche mai audaci ma efficaci.
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Originale biografia
Perché nel 1928 Zweig si dedicò alla scrittura della biografia di Casanova?
La domanda sorge spontanea dopo la lettura delle prime pagine di questo scritto che è ben lontano dalla classica biografia.
Perché dedicarsi a un “ciarlatano famoso” dalla “nobiltà poetica discutibile”? Perché contribuire a fissare il ricordo di uno fra i tanti che, senza volerlo, è assurto a gloria imperitura?
Forse l’ intima consapevolezza che la vita vera gli è sfuggita o il rammarico per una mancata aderenza del suo intimo sentire al tempo da lui vissuto? O ancora l’amara riflessione sul corso della storia? Non so, quanto è profondo Zweig tanto è etereo Casanova. Assistiamo al loro incontro, dunque.
Se è vero che “ un artista di solito dà forma a ciò che ha trascurato nella vita”, risulta chiaro che qui si è agli antipodi: secondo l’austriaco, nel caso del veneziano , l’opera d’arte è la sua vita. Non che egli abbia un alto concetto delle Memorie di Casanova, anzi ricorda che ai suoi tempi se ne leggeva un’edizione rimaneggiata e opportunamente ripulita e ci racconta anche la strana storia editoriale dello scritto. Tuttavia lo sguardo lungo dello storico ne legittima l’esistenza perché l’opera ha il pregio di consegnare il ritratto di un’epoca,veritiero come mai nessun storico o biografo poté fare; lo sguardo onesto del narratore di più ne riconosce la statura del contenuto: dalla morte di Casanova “il mondo non ha inventato (...) un racconto più romantico della sua vita e nessun personaggio più fantastico di Casanova”.
Insomma severità di giudizio e ammirazione convivono amabilmente nei primi due capitoli: “Giacomo Casanova” e “Ritratto del giovane Casanova”. Imperdibile il ritratto del quadro politico e sociale del Settecento, consegnato nel terzo capitolo e tutto dedicato agli avventurieri; l’ironia raggiunge vette godibilissime e passando per Cagliostro e Casanova e altri “impostori sublimi e ladri” si giunge all’apice rappresentato da Napoleone “il genio fra tutti questi talenti”. Attraverso i capitoli “Istruzione e talento” e “Filosofia della superficialità” ( le ultime parole di Casanova furono appunto: “Ho vissuto da filosofo”), si arriva al cuore della trattazione, alla natura del soggetto, alla sua intima essenza “Homo eroticus”. La genialità di Zweig riduce il grande seduttore a un uomo schiavo del suo impulso maniacale ma gli riconosce, proprio in questo versante, e solo in questo, l’unica scintilla di onestà. A riprova di questa tesi offre un interessante paragone con l’hidalgo Don Juan Tenorio, Don Giovanni appunto, e Casanova ne esce trionfale. Se una pecca si vuole riconoscere a tale stile di vita, questa è riconducibile al non aver annoverato la vecchiaia e allora “se lo si è invidiato fino al quarantesimo anno di età, lo si compiange dai quaranta in poi”. Fedele al criterio cronologico, Zweig dedica gli ultimi capitoli agli “Anni nel buio” e al “Ritratto del vecchio Casanova”. Sigla il lavoro il giusto riconoscimento al “Genio autobiografico”.
Da leggere sicuramente , consapevoli di avere tra le mani l’originale biografia di una geniale autobiografia.
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Nistagmo a occhi aperti
Epicentro del movimento di avanguardia letteraria chiamato Jung Wien (Giovane Vienna), icona del successo dei letterati viennesi in patria e all’estero, poliedrico autore di commedie, romanzi e racconti, Schnitzler è senza dubbio un autore da conoscere.
L’intera produzione ruota intorno ai nuclei tematici di amore e morte, è votata alla rappresentazione dei reconditi labirinti mentali della psiche umana ed è attraversata dall’analisi della società viennese a cavallo dei due secoli. Quest’ultimo aspetto ritrova una tale aderenza alla realtà che gli stessi personaggi portati in scena nei suoi lavori teatrali erano perfettamente riconducibili alla buona borghesia fatta di benestanti viennesi: professionisti e intellettuali. Regina indiscussa è poi la fine ambientazione viennese, la città è lo scenario ideale per l’incontro e lo scontro di molteplici direttrici culturali e umane. È lo sfondo degli studi freudiani, è il palcoscenico del tramonto della bella epoque, è il tavolato su cui battono i primi passi le avanguardie letterarie ma soprattutto pittoriche con la Secessione viennese, è inoltre la triste e decadente città che vede una nuova generazione nutrirsi di falsi ideali, soccombere alla fine dell’impero, scoprire la frivolezza dei propri vissuti.
Tutto questo si ritrova anche in questa novella benché essa si situi cronologicamente oltre e, superata la prima guerra mondiale, l’epidemia di spagnola che decretò la morte dei più noti pittori, e il tremendo dopoguerra, vada a situarsi nel 1925.
Protagonista della storia narrata è una coppia borghese, lui medico, lei moglie, madre, amante. Impossibile per me sganciarli visivamente dalla coppia cinematografica, peraltro perfetta, di Cruise-Kidman, vero e unico cruccio della mia lettura. Non amo essere depauperata del mio immaginario. Rispetto agli altri elementi, nonostante la potenza visiva lasciata dal film, all’epoca da me poco apprezzato e gradito, posso affermare che l’ incisività della parola scritta, l’impianto scenico, la tecnica narrativa sono tali che rimane veramente ampio spazio di trasposizione visiva del tutto personale. Altro protagonista non secondario è il bel mondo viennese, notturno, ambiguo, pericoloso; il rifugio da esso può essere ricercato, paradossalmente, proprio in quel quadretto borghese la cui apparente modestia e tranquillità viene messa in discussione. Se la notte pullula di orge, di misfatti, di prostituzione, quanto è fermo l’universo dei valori pacifici di una giovane coppia? Pullula anch’essa di sogni bramati, inseguiti e irrealizzati? Se ne nutre? Vi convive assopendone gli impulsi più vitali? Rimane restia ad ogni ammorbamento? La condotta di Fridolin parrebbe convincerci in questo senso, quella di Albertine è sicuramente più ambigua e interessante.
La parola ipnotica, le atmosfere suggestive, le contaminazioni letterarie mi hanno incollata alle pagine, lo sconfinamento della realtà nel sogno e viceversa sono il nucleo della lettura e hanno avuto il potere di confondere e ammaliare. Lettura veramente interessante e consigliata.
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Di cosa è fatto il dolore?
-Anticipazioni sulla trama-
Due racconti inediti appartenenti ad una produzione chiusa in un baule e gestita dagli eredi dopo la morte dell’autore, medico votato alla letteratura tanto da fare della sua passione l’occupazione della vita abbandonando quella ereditaria per volere paterno, illustre medico.
Il suo nome è immediatamente accostabile a “Doppio sogno” anche in seguito alla nota trasposizione cinematografica di Kubrick, alla tecnica del monologo interiore nonché alla tematica onirica intarsiata di risvolti inconsci.
I due brevi testi, “La donna dopo” e “L’ultimo addio”, ci presentano due uomini e il loro tormento d’amore associato alla morte della donna amata .
Nel primo episodio un novello vedovo è rappresentato nella sua elaborazione del lutto finché una sorta di intima folgorazione lo porta a trovare la sua apatia e il suo dolore insensati. Si abbandona così, pur nell’ambivalenza dei moti del suo animo, alla ricerca di una nuova felicità; un intento voyeuristico si confonde con un’intensa attività onirica e sfocia in un incontro casuale altamente suggestivo. Mentre pensa di abbandonarsi alla beltà femminile, una donna tremendamente simile nella postura, nell’incedere e nei più superficiali strati esteriori alla moglie defunta, lo porta all’approccio vero e proprio. Gustav si perde allora in una doppia relazione: amando la “sosia“, ammorbando il ricordo dell’amata, risvegliandosi dall’abbaglio, si ritrova serenamente omicida.
Nel secondo racconto l’uomo è un amante che attende il rendez - vous con la sua amata rigorosamente ammogliata la quale si recherà da lui solo dopo aver scaricato il marito. Ogni loro appuntamento è caratterizzato dall’attesa snervante, imprevedibile, indecifrabile. Questa volta però supera l’immaginabile e si protrae per un tempo impensato, scavalca la notte, getta nell’angoscia e si traduce in un’assenza definitiva: dopo breve agonia di alcuni giorni la donna, nel fior degli anni, muore. Il racconto è attesa, premonizione, lento avvicinamento, toccata e fuga. Scoperta la realtà dopo appostamenti alla casa dell’amata, risolve l’ultimo dilemma: porgerle l’ultimo addio. Intrufolatosi nella residenza, all’insaputa di tutti e dello stesso marito che conosce al capezzale, saluta per l’ultima volta colei che amò in vita. Ella, beffardamente, sogghigna; lui vergognandosi come un ladro abbandona la casa stritolato dalla sua ipocrisia.
Sogno, morte, amore rispecchiano rispettivamente vita, amore, morte all’insegna della perdita e dell’attesa. La doppiezza condisce il tutto.
Stupiscono in questi brevi racconti l’intensità narrativa, la visione del mondo, cupa e decadente, la capacità di scavo del mondo interiore, la declinazione del dolore, l’interconnessione tra realtà, sogno e menzogna.
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Bestemmie e miracoli
Già nel 1932 questo stupendo romanzo poteva essere letto in lingua italiana grazie alla pubblicazione voluta dai fratelli Treves e sull’onda di un successo internazionale e sulla spinta esercitata negli ambienti culturali nostrani dall’amico Zweig.
Apparso per la prima volta nel 1930, segue opere come La tela di ragno, Hotel Savoy, Fuga senza fine e precede La marcia di Radetzky. È il romanzo che canta il mondo ebraico-orientale e che rappresenta la decadenza dell’ebraismo orientale e la sua disgregazione, è anche il romanzo che consegna al lettore nella metafora dell’esilio ebraico una delle più alte rappresentazioni della condizione dell’essere umano in vita “esiliato dalla pienezza e dalla totalità della vita vera”(Magris, “Lontano da dove”, 1971). È soprattutto la storia di un “uomo semplice”: bella, struggente, universale nel suo significato.
La narrazione muove il suo corso con tono fiabesco e ci cala subito in un tempo passato e in una terra lontana: Zucknow, villaggio sperduto nell’immensa pianura russa, assoggettata al volere dello zar. La presentazione dei personaggi è magistrale. Mendel Singer è un modesto maestro, è sposato con Deborah, ha due figli maschi e una femmina e lo conosciamo mentre sta per nascere il suo ultimogenito, Menuchim. È un uomo pio, dalla coscienza pura e dall’animo casto. Il bambino però, è chiaro fin da subito, è un minorato. Mentre la moglie assume un atteggiamento attivo e cerca una soluzione al problema affidandosi al rabbi, Mendel soccombe al volere divino, intanto duri destini attendono tutti i componenti della famiglia e la fede, già messa a dura prova, comincia a vacillare. Con l’approssimarsi del primo conflitto mondiale la famiglia si disgrega, un figlio si vota ai cosacchi, l’altro diserta, emigra in America e vi trascina il resto della famiglia, tranne Menuchim...
Gli eventi cruciali sono narrati con una maestria che ferma il tempo, consegna palpabili emozioni e ne rende pienamente partecipe il lettore.
I conflitti interni alla famiglia, la sua disgregazione, il crollo delle certezze contribuiscono a creare un quadro cupo e desolante e man mano che viene meno la fede di Mendel Singer si è portati a sperare in luoghi e tempi migliori. L’America però non rappresenterà la salvezza ma la distruzione e quando intorno tutto è buio, il lettore non potrà certo credere al mito americano. Subentra un nichilismo impressionante che culmina con il coinvolgimento dell’America nel conflitto europeo con il suo carico di nuovi dolori e il tramonto definitivo di ogni illusione. Il finale del libro è però conciliante e terapeutico e riecheggia la giusta ricompensa del biblico Giobbe.
Non perdete questa lettura, rinfrancherà il vostro cuore.
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Tabù
La genesi di questo scritto è significativa e permette di capirne la natura e di apprezzarne l’intensità.
Il libro nasce da un sogno, quello di svelare un tabù privato e collettivo: la deportazione subita dalla minoranza rumeno- tedesca nei campi di lavoro forzato dell’Ucraina a partire dal gennaio del 1945 in seguito alla capitolazione della Romania e alla sua dichiarazione di guerra alla Germania, ex alleata. I sovietici, chiesero al governo rumeno che la minoranza tedesca fosse ceduta per essere impiegata nella “ricostruzione”. Il dopoguerra, gli anni di pace seguiti al secondo conflitto diventarono così per molti, anni infernali, di stenti, di morte, di duro lavoro e di deprivazione assoluta di quel poco che ancora c’era da togliere.
Il tabù privato è, nell’ordine, quello della madre della Muller che mai riuscì a parlare degli orrori vissuti e dell’amico poeta Oscar Pastior che casualmente si aprì al ricordo e lo consegnò all’amica che da anni si documentava soprattutto utilizzando le fonti orali rappresentate dal racconto dei sopravvissuti. Il tabù collettivo fu quello di un popolo costretto al regime dittatoriale che non ammetteva ricordo.
Il sogno sarebbe stato quello di pubblicare un libro insieme; l’improvvisa morte di Pastior arrestò momentaneamente l’intento e dopo il dolore la tenace Herta, riformulò le sue carte donando nuova vita al ricordo.
Depauperando lo scritto di un vero e proprio impianto narrativo, decise di offrire l’universo sensoriale di Leo, un diciassettenne rumeno, tutto riferibile alla sua vita in un lager ucraino, esiliato, deportato, umiliato e offeso per ben cinque anni.
Non si legge dunque un resoconto romanzato, non si legge un memoriale; sulla tenue linea del criterio cronologico si entra in sessantaquattro episodi per immagini nei quali, di volta in volta è dominante un unico elemento. Può essere il cemento o i pioppi neri o i cani della steppa, il pane, i dieci rubli, le patate...
Se inizialmente la lettura risulta spiazzante e frammentata, gradualmente si familiarizza con lo stile duro e poetico che anima un impianto a tratti onirico e surreale per giungere a piena comprensione di un quadro tremendamente reale. Si entra in piena sintonia del sentire, all’unisono quasi il fiato, nell’altalena del respiro che è il delirio della fame, della paura, della sopravvivenza. Tremendo uscire dal lager con Leo, si è rapiti da quell’indicibile malinconia e nostalgia che ha reso casa un luogo di sofferenza e di morte. Si lascia lo scritto empaticamente vicini a Leo, capaci di capirne la difficile reintegrazione, incapaci di dimenticare quelle scene che più ci hanno colpito.
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UN GRIDO SCOMODO E RIPUGNANTE
Nei pressi di Camerino, nelle Marche, Renacavata ospita un convento la cui storia è strettamente legata agli inizi dell’ordine cappuccino. Qui i vuoti della terra,dovuti all’estrazione della pietra arenaria, vengono riempiti da “pietre vive”, giovani che sentono la vocazione e si dedicano al noviziato cui seguiranno, dopo un periodo minimo di un anno, i voti temporanei e le professioni solenni.
Emanuele è uno di essi: smetterà l’abito sei anni dopo la sua prima scelta compiuta a diciannove anni.
Il libro è proprio il resoconto del noviziato, il ricordo lo cristallizza in accezione negativa. A distanza di vent’anni l’esperienza viene consegnata al lettore epurata appunto da quel “fervore” che la animò e tutto è ridotto a pura contingenza:
“Ci avevano trascinati lì, nel convento di Renacavata, un sogno fatto di necessità (...)Tu arrivavi dai tuoi diciotto anni, da una terra che avevi abbandonato per precipitare in un convento(...) Eri scappato via. Avevi lasciato tua madre e tuo padre, avevi lasciato la tua terra per andare ad abitarne una ignota, spinto da un fervore che improvviso ti aveva invaso. Non potevi sostenere il nulla, l’ingiustizia.”
Se gli intenti sono dei migliori, il risultato a fine esperienza consegna un uomo che fa del suo fallimento un grido scomodo e ripugnante consegnando il suo credo in ottica rovesciata. Tutto è ridotto a “sacra rappresentazione”, a inversione, a profezia devastante:
“Eravamo capodogli destinati all’olio lucente, non pesci da frittura. Ci avrebbero dovuto fiocinare e spremere per fare luce. Invece avremmo spruzzato un nero di seppia, avremmo fatto buio nel mondo con quelle inutili macchie di paure.”
Solo pochi barlumi di serenità, di speranza e un congedo ad un mondo fuori dal mondo. “Essi non son del mondo, siccome io non son del mondo” Giovanni 17, 13-15
Leggerlo? Apprezzarlo? Disprezzarlo? Tutte e tre le azioni mi hanno animata. Cosa resta?
Un profondo malessere per un’esperienza che immaginavo più edificante e che mi aspettavo di leggere, non conoscendo l’autore, declinata in toni più teneramente memorialistici, non certo dissacranti.
Indicazioni utili
- sì
- no
FILANTROPIA
Tra Broadway e Wall Street passano luci ed ombre, felicità e inganno, apparenza e realtà.
“Ah la felicità corteggia la luce, perciò noi crediamo allegro il mondo, ma la miseria si nasconde da lungi, perciò crediamo non esista miseria.”
E se essa bussasse alla nostra porta e si installasse nel nostro ufficio e prendesse le sembianze di un eccentrico e riservato copista che alle richieste di chi lo accoglie, prima come semplice impiegato poi come possibilità di esercizio filantropico, oppone una lapidaria resistenza espressa con un laconico “Avrei preferenza di no”? Ebbene in quel caso cosa fareste?
Il vero protagonista del racconto di Melville, datato 1853, anziano avvocato, narra la sua reazione e con essa snocciola le infinite possibilità della filantropia.
Come è noto, con il termine ci si riferisce all’atteggiamento di amore, di passione e di inclinazione verso l’uomo. La parola nata nell’antica Grecia originariamente indicava “cortesia”, “affabilità”, in età ellenistica indicò invece l’atteggiamento benevolo da parte dei sovrani nei confronti dei sudditi. Divenne, in epoca romana, con il Circolo degli Scipioni, il corrispondente della cultura filosofica e letteraria e solo con Cicerone assunse il significato di “grande sensibilità, generosità, raffinatezza”.
Proprio un busto di Cicerone campeggia nell’ufficio del nostro avvocato, fa capolino tra un dialogo e l’altro come a rammentare l’accezione semantica del termine in questione e l’atteggiamento messo in atto dall’avvocato di Wall Street. Egli infatti ci racconta le diverse sfumature del suo animo mentre cerca di affrontare una situazione inusuale che diventa -in un crescendo inatteso- stravagante, eccentrica, scomoda, imbarazzante e financo inquietante.
Il copista esordisce con il suo modico rifiuto per attività poco complesse ma che esulano dalla sua mansione, prosegue con la cessazione dell’ attività per la quale è stato assunto, culmina nell’ostinata resistenza che trasforma l’ufficio nella sua residenza. Il “capo” ha nei suoi riguardi, man mano che si manifestano le diverse resistenze, un interesse discontinuo reso tale dall’incalzare dei suoi impegni. La situazione giunge pertanto ad un grado di saturazione che necessita un’azione ferma e risolutiva.
E qui entra in gioco la filantropia.
Leggeremo da quel momento come si esercita nell’animo umano la difficile arte della compassione: secondo Melville lo schema è rigido e ormai consolidato nel tempo: tutti noi di fronte ad una situazione di miseria reagiamo istintivamente con moti e impressioni positivi dell’animo i quali destano in noi compassione appunto, ma quando ci accorgiamo che essa è inutile e non risolutiva optiamo per il suo abbandono, per il suo superamento portando avanti soluzioni di vero e proprio sbarazzamento. Prevale sempre il “buon senso” e con esso la finta filantropia: ciò può insuperbire l’essere umano mentre cerca di placare l’inquietudine nata dal sapere che in fondo non stiamo facendo del bene.
Questa è la mia personale lettura di un breve racconto che è stato variamente interpretato. Letto nell’ottima edizione Feltrinelli, offre il piacere di poter godere dell’esito del lavoro accademico del professor Celati con i suoi studenti nell’anno accademico 1984-’85 ( traduzione del testo) proseguito nell’a.a. 1986-’87 (studio introduttivo). Permette inoltre di leggere l’epistolario di Melville datato 1850-1852 “Da Moby Dick o Bartleby” e di appurare in ultimo la quantità di interpretazioni date al racconto in una sintesi bibliografica degli studi critici intrapresi tra il 1928 e il 1990. Tra l’altro la vena ironica che commenta le singole voci bibliografiche è imperdibile e getta luce sull’inutilità di certa critica, compresa la mia, se posso chiamarla così.
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Fedele a se stesso, sempre
I sentieri della vena narrativa di Potok sono caratterizzati da costanti che rendono ogni suo scritto al contempo familiare e originale. Le ambientazioni, le tematiche, gli stessi personaggi sono riconducibili alla rappresentazione della comunità ebrea di New York pur assumendo valore assoluto e universale così da rendere il contenuto e il messaggio validi in ogni quando e in ogni dove. Sempre e ovunque.
I personaggi sono in primo luogo membri di una comunità allargata e religiosa e insieme di una famiglia: accade ovunque dalla notte dei tempi; vivono intime fratture rapportandosi con se stessi e con gli altri: quando è accaduto il contrario? Entrano in conflitto con la cultura che li ha generati: evolvono, involvono, patiscono, soffrono, in una parola vivono.
Asher Lev , pittore ebreo ormai affermato, osannato, criticato e ripudiato non sfugge al dolore del mondo e ce lo racconta prendendo parola e affermando il suo punto di vista nel tentativo di smitizzare la sua persona, semplicemente offrendosi nella sua integrità morale ed etica consapevole della prepotente doppiezza che suggella ogni animo umano: insieme bene e male, virtù e vizio, eccellenza e mediocrità.
È in lui il dono della pittura che lo domina e ne guida il suo sentire e il suo comunicare. Esso scavalca tradizioni, sentimenti, mina i rapporti comunitari, i legami famigliari, conduce all’isolamento cui costringe, spesso, un’affermata individualità. A niente valgono le raccomandazioni :”Molte persone quando sono giovani sentono di possedere un grande dono. Ma non sempre ci si abbandona a un dono. Una vita la si dedica a ciò che è prezioso per se stessi ma anche per la propria gente”.
Tutta la comunità assiste alla crescita di Asher contribuendo anche a mantenere intatta almeno l’integrità religiosa così sentita dai Chassidim Ladover, accettando quindi l’apertura verso il mondo della rappresentazione figurativa, aprendosi alla possibilità di aver generato un ebreo osservante e artista. Quando però il sentire artistico porterà al limite il codice iconico e simbolico e con esso il suo doloroso messaggio, la frattura sarà inevitabile. Potenti tutti i personaggi , eccezionale la loro carica umana a partire dal trittico di famiglia : un padre, una madre, il loro unico figlio, loro e della comunità tutta. Funzionali , misteriose e formative il Rebbe e il pittore anziano. Immancabile la contestualizzazione storico- politica e con essa l’impegno culturale e sociale, imperdibili i riferimenti al mondo dell’arte e della cultura in generale.
Il romanzo è corposo, tenero e pungente al tempo stesso, doloroso, intimo e prezioso come sa esserlo un rapporto di parentela, ma soprattutto è prezioso perché aprendo il mondo chiuso degli ebrei ortodossi di Brooklyn , facendoci familiarizzare con il loro universo permette di superare le barriere culturali per ribadire l’universalità del sentire umano. È inoltre un’interessante e presumo autobiografica riflessione sulla tensione creativa, sull’essere artista, sul rapporto realtà e rappresentazione, sulla funzione dell’arte, sul rapporto, infine, tra l’artista e le sue opere.
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Nevica Storia
La lettura di questo romanzo origina una constatazione immediata :l’antisemitismo ha radici profonde capaci di alimentare conflitti e opposizioni di varia natura. I libri di storia raccontano l’espulsione degli ebrei dalla Spagna o il caso dell’ebreo Dreyfus, celebre anche per il "J’accuse" di Zola, ma gli episodi ai danni del singolo o del gruppo furono i più vari e come è risaputo toccarono trasversalmente l’Europa e le sue diverse epoche storiche acuendosi notevolmente con le conquiste liberali scaturite dalla Rivoluzione francese e giungendo al loro culmine con la Shoah.
Malamud, ispirandosi al caso di Mendel Beilis ,ebreo ucraino ingiustamente accusato dell’omicidio di un bambino cristiano nella Russia zarista, partorisce il personaggio di Yacov Bok che acquista subito una chiara identità . Entra in scena in un momento storico poco opportuno, le Centurie Nere in Russia hanno appena arretrato di alcuni passi rispetto alla svolta liberale che le concessioni zariste hanno ventilato. La Duma discute inoltre l’abolizione della “Zona di residenza “ degli ebrei quando un bambino cristiano viene ritrovato cadavere. Non c’è dubbio: è un omicidio rituale compiuto con lo scopo di avere cinque litri di sangue cristiano per impastare il pane . Tutti gli indizi vengono fatti ricadere sull’ebreo Yacov Bok che, abbandonato il suo shtelt , è giunto da poco a Kiev dove è riuscito a entrare nelle grazie di un ricco cristiano che si ritrova per caso in debito con lui. La sorte fa allora girare il povero ebreo come una trottola e la spirale lo risucchia nel vortice nero dell’antigiudaismo: capro espiatorio perfetto sul quale si dirottano tensioni politiche e civili all’alba della Rivoluzione di febbraio.
La Storia permette a Malamud di creare un romanzo dalla portata eccezionale. La rappresentazione della vicenda vive dell’impeccabile stile dell’autore riconoscibile per il suo sguardo emotivamente distaccato, neutrale, per il susseguirsi di pagine mai pesanti in un volume corposo che fa nascere nel lettore un sentimento di ammirazione profonda. Tante parole, pochi accadimenti, una buona sezione dedicata a tre anni di prigionia. Quali elementi allora riescono a vivacizzare quella che avrebbe potuto correre il rischio di essere solo una cronistoria agghiacciante di una prigionia? Un’ambientazione russa impeccabile, un personaggio unico proprio per la capacità dell’autore di evitare qualsiasi empatia immediata, troppo scontata in narrazioni siffatte, un personaggio infine funzionale all’interesse dell’artista per questioni etiche e religiose. Il rozzo tuttofare di cui si parla subisce le conseguenze indirette di un suo atto di volontà, egli lasciato il villaggio dopo il fallimento del suo matrimonio, finisce in prigione, soffre e medita: “ Una volta che te ne vai, sei all’aperto: piove e nevica. Nevica storia, vale a dire che quello che succede a un individuo inizia dentro una rete di eventi che esulano dal personale. Naturalmente, inizia prima che arrivi l’interessato. Tutti siamo nella storia, questo è sicuro, ma alcuni più di altri. Gli ebrei, più di alcuni. Se nevica, non sono tutti fuori a bagnarsi”.
È inoltre ateo, paga in nome di una religione in cui non crede, lui che conosce l’opera di Spinoza e ne abbraccia il pensiero, lui “libero pensatore” i cui pensieri migliori si originano proprio durante l’esperienza carceraria. La sua catarsi sarà positiva ma, come quella di molti personaggi malamudiani , aperta per cui il lettore è lasciato ancora una volta a proiettare la vicenda nelle sue possibili ramificazioni dopo aver assistito agli ultimi vaneggiamenti di un uomo che alla fine vagheggia solo la libertà.
Ho letto l’edizione Minimumfax che riporta questo romanzo in Italia dopo una lunga assenza, lo consiglio anche solo per l’introduzione di Piperno, ottima.
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Dostoevskij
"Non dire mai a te stesso che non sapevi"
Il nuovo scritto di John Boyne , l’autore de “Il bambino con il pigiama a righe”, è un romanzo per ragazzi a contenuto storico. Vi si narra la vicenda di Pierrot, madre francese e padre tedesco, negli anni tra il 1936 e il ’42 e si conclude in lenta dissolvenza in quelli successivi .
Il bambino ha una vita difficile: il padre è un reduce della Grande guerra , alcolizzato e tormentato psichicamente sparisce ben presto di scena; la madre si prende cura di lui fin quando non viene uccisa dalla tisi. Orfano di entrambi i genitori non può essere accolto dalla famiglia ebrea del suo amico sordomuto e finisce in un orfanotrofio fino a quando non si riesce a contattare la zia paterna che è disposta ad accoglierlo. La donna è la governante del Berghof, la residenza di vacanza di Adolf Hitler, nelle Alpi bavaresi.
Inizia per Pierrot una nuova vita, entrando in contatto col Führer verrà “educato” e accolto sotto la sua ala protettrice rendendosi progressivamente plasmabile e asservito ai nuovi “valori”. La sua lenta decadenza e la sua trasformazione da ingenuo e sensibile bambino al prototipo del perfetto nazista rendono a tratti indigesto lo scritto che ha però un chiaro intento pedagogico il quale si rivela nel giusto epilogo.
Lo stile di scrittura è semplice e lineare, l’approfondimento storico minimo, la lettura agevole e sul finire coinvolgente. Le tematiche affrontate sono veicolari di riflessioni importanti adatte a ragazzi preadolescenti: amicizia, tradimento, rispetto, lealtà, amore. Lo sfondo storico può essere utile per anticipare lo studio del periodo in modo coinvolgente, ma non mira ad alcun approfondimento, relegherei la lettura alla scuola secondaria di primo grado.
L’adulto che vorrà leggere l’opera vi potrà trovare una buona storia con la quale trascorrere alcune ore senza alcuna pretesa.
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RACCONTA, GENTE DELLA TERRA
Lo scrittore cileno con quest’ultima opera “colma un debito che durava tanti anni”.
Lo anima il sentimento di riconoscenza verso gli adulti che gli hanno raccontato molte storie: i nonni e il prozio Ignacio, mapuche. Benché egli , in particolare, raccontasse in lingua mapudungun delle storie ai bambini mapuche , Luis, anche lui bambino, riusciva comunque a capirle.
Questa breve narrazione è fortemente intercalata da dungu- parole che costringono a rallentamenti nella lettura: lontane, astruse, incomprensibili e subito affiancate da puntuale traduzione. Fungono da elementi di rottura nella fluidità narrativa, costringono a infinite pause, sono quasi elementi di disturbo, nell’adulto.
Ho letto il libro ai miei figli prima della nanna , tre notti, nessuna lamentela: da loro il bilinguismo è stato ben accetto.
Hanno sorriso per i nomi di quella strana lingua e sono stati impressionati dal nawel- giaguaro, dall’isolamento della ruka- casa e dai suoi odori: “fumo di legna secca, lana, miele e farina”.
Hanno capito subito che la storia narrata dal cane lupo sarebbe stata all’insegna dell’ amicizia e dell’ estrema lealtà.
Hanno vissuto, trepidanti, la caccia all’uomo, capaci di orientarsi tra i diversi piani temporali: il presente della malvagità umana rappresentata dai wingka, i forestieri irrispettosi della natura e degli indios, e il passato burrascoso del fedele cane che cucciolo cadde sulla neve...
Ho terminato la lettura che da adulta avrei abbandonato alla prime pagine , in lacrime , davanti ai miei figli.
Ho trasmesso loro una storia, l’ho veicolata del mio sentire. Loro, divertiti dalla mia reazione, hanno, sei e nove anni, consolato la madre. Non ho chiesto loro se la storia gli fosse piaciuta, ma che cosa avessero capito. La loro risposta è stata: la fedeltà! Il rapporto di amicizia fra un cane e un bambino, la durata del loro legame, il loro essere parte della natura sono gli altri elementi percepiti che da soli meritano la lettura a favore di tutti i nostri bambini perché anche essi un giorno possano raccontare storie ad altri bimbi in una magia che si rinnova dall’alba dei tempi.
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“Il romanzo di Ferrara” : secondo libro
Ci si addentra con questo racconto lungo, quasi romanzo , nel corpus di quello che lo stesso Bassani definì “una specie di poema romanzesco di quasi mille pagine”; sono evidenti infatti i riferimenti intertestuali in particolare ai personaggi già menzionati nelle “Cinque storie ferraresi” e colpisce il lento incedere, quasi una sorta di passerella letteraria verso il famigerato giardino degli schivi Finzi – Contini.
Si ha il tempo con questo intermezzo di familiarizzare ancor di più con le atmosfere ferraresi, non solo gli scorci paesaggistici o la prepotenza della Storia; ci è consentito infatti entrare dentro le famiglie borghesi di estrazione ebraica, in particolare dentro quella del narratore che è spontaneo identificare col giovane Bassani. Si tratta di uno studente universitario, unico del suo gruppo di amici a studiare Lettere, i primi anni della vita trascorsi in quel “clima di agitazione, di distrazione generale entro cui si svolse la prima infanzia di tutti coloro che sarebbero diventati uomini nel ventennio successivo...” Racconta il giovane la sua Ferrara, l’ovattato clima provinciale, il perbenismo, la devozione al regime fascista e il suo lento incrinarsi. È un società classista quella nella quale vive, il pubblico e il privato tendono a collimare rovinosamente nelle bocche mai sazie di pettegolezzo e negli animi che facilmente vengono attratti quanto preme in loro la necessità di essere rassicurati. È pertanto ben accetto anche il nuovo otorinolaringoiatra: i suoi modi sono cortesi e discreti, evidente è il disinteresse che accompagna l’esercizio della sua professione nel pubblico e ancor più nel privato. Non c’è però una signora Fadigati e presto strane, stranissime voci circolano sul medico. La rappresentazione della sfera privata di questa esistenza è delicata, il lettore percepisce l’inclinazione sessuale dell’otorino che il narratore rende esplicita progressivamente calandoci nella narrazione. Il dottore frequenta la compagnia universitaria e condivide gli spostamenti in treno per Bologna, alcuni giorni della settimana. Gran parte dell’azione successiva si svolge tra Bologna e la riviera romagnola. Ferrara fa da sfondo al ricordo con eleganti e suggestive pagine che trasfondono l’immenso amore di Bassani per la città soprattutto quando termina l’idillio vacanziero e le tremende legge razziali si concretizzano agli occhi dell’operosa borghesia cittadina di estrazione ebraica, mentre si chiude anche la vicenda umana di un’altra diversità. Ferrara sarà allora il porto sicuro: “Mi era bastato recuperare l’antico volto materno della mia città, riaverlo ancora una volta per me, perché quell’atroce senso di esclusione che mi aveva tormentato nei giorni scorsi cadesse all’istante. Il futuro di persecuzioni e di massacri che forse ci attendeva (fin da bambino ne avevo sentito parlare come di un’eventualità per noi sempre possibile), non mi faceva più paura.”
Storia della metamorfosi subitanea ma presagita in una “razza inferiore”.
Tra l’ottobre del 1943 e il febbraio del 1945, più di 7.000 ebrei italiani furono deportati nei campi di sterminio nazisti , 5.969 furono uccisi, 837 sopravvissero, un migliaio i dispersi.
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Il giardino dei Finzi- Contini
Non una parola di più
Alla sua prima pubblicazione nel ’56 questa bellissima raccolta di racconti vinse il Premio Strega, fu oggetto successivamente di varie revisioni per apparire poi nel 1974 e in seconda edizione nel 1980 come Libro primo de “Il romanzo di Ferrara”, il titolo ormai ridotto a “Dentro le mura”.
Cinque storie prendono vita dallo sguardo umano e attento di chi a Ferrara fu legato per tutta la vita. Attingendo a piene mani da un materiale umano fortemente connotato per appartenenza geografica, storica, culturale, Bassani fa rivivere storie private saldamente intrecciate alla storia nazionale e all’umanissimo humus provinciale del quale si nutrono.
Torri campanarie, mura, terrapieni, vecchi edifici rasi al suolo e contemplabili solo attraverso vecchie cartoline, il cimitero e Piazza della Certosa, una lapide, un marciapiede, una gloriosa e rinomata farmacia, Via Giovecca, Corso Mazzini, i palazzi, le misere case a ridosso delle mura, costituiscono gli scorci che vedono agire i protagonisti.
Dentro le mura si è riversata la massa contadina del delta del Po, una fiorente comunità ebraica è ospitata da secoli tra alterne vicende , un’intera provincia legata ai fasti estensi vive inurbata ma relegata al ruolo subalterno decretato dallo snodo ferroviario di Bologna che la fece assurgere a “maggiore città dell’Emilia”.
Il tempo scorre tra le vie strette del ghetto e tra le più ampie, le mura accolgono purtroppo anche gli esiti della nostra triste storia d’Italia, laddove una strana cabala decise che vi erano tutte le condizioni per amplificare il brutto: armistizio, guerra civile, rossi e neri, Salò.
Un concentrato di possibilità di azioni si offre al comune cittadino che decide quali azioni intraprendere.
Si nasconda l’ebreo, perisca internato in un campo lontano o torni pingue e redivivo a scuotere le coscienze e la loro indifferenza (Una lapide in via Mazzini), si assista al funerale del socialismo e delle sue icone (Gli ultimi anni di Clelia Trotti), si rinnovino le coscienze e si viva dimentichi degli eccidi (Una notte del ’43). Questi sono gli ultimi dei cinque racconti.
I primi due preparatori fanno invece rivivere il clima cupo dell’avvento del fascismo (Lida Mantovani) e la nostalgia del tempo che fu ( La passeggiata prima di cena).
Lo sguardo di Bassani si posa pietoso sull’uomo sia esso artefice, complice o vittima. Tutti in un modo o nell’altro deprivati dei propri sogni, delle proprie ambizioni, delle proprie scelte. Mai un giudizio da chi antifascista fu costretto al carcere o estromesso dal diritto per appartenenza “razziale”. Bastano i suoi racconti, i personaggi di questa raccolta, le atmosfere, i luoghi , le storie individuali a pareggiare i conti.
Non una parola di più.
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AL SECOLO: AMICI
“Infatti fui anch’io un figlio diletto per mio padre...E mio padre mi ammaestrava e mi diceva:"Accogli nel tuo cuore le mie parole."
(Proverbi, 4, 3-4)”
I rapporti umani , molto spesso quelli che si vorrebbe fossero i più istintivi, i più naturali, racchiudono nelle loro dinamiche, nelle storie di chi li vive, li nutre, li subisce o li patisce, la chiave di lettura della nostra esistenza.
La bellissima storia narrata in questo romanzo è intrisa tutta di rapporti umani. Esordisce con la nascita di una bella amicizia fra adolescenti, prosegue raccontandone l’evoluzione, culmina definendone i contorni alla luce delle rivelazioni sapientemente ed enigmaticamente donate in un finale dal forte impatto emotivo.
Danny il chassid intransigente e Reuven l’eretico escono dai bozzoli tessuti dalle loro famiglie, dalle loro comunità, dalle loro tradizioni e si incontrano: li separano solo cinque isolati, li cresce la stessa America, il suo sport, i suoi college, il suo afflato. Vivono in case pressoché identiche, conducono vite apparentemente simili, conosceranno la diversità che nutre le loro reciproche identità. Impareranno il rispetto, la lealtà, sentiranno il dolore altrui. Cresceranno, evolveranno.
Non solo l’amicizia nutre la trama, molteplici elementi contribuiscono a dare spessore alla narrazione. La contestualizzazione storica - gli anni del secondo conflitto mondiale, della prima seduta dell’ONU, della nascita dello stato di Israele-; l’indispensabile storia dell’ebraismo compendiata nelle pagine centrali; la rappresentazione delle comunità ebree in America, la loro evoluzione, il loro impatto con la secolarizzazione violenta cui le ha costrette il secolo breve. È fondamentalmente un romanzo che narra il rapporto tra gli ebrei e la cultura occidentale. Colpiscono le esistenze dei due adolescenti, il rigore nell’affrontare lo studio nella sua componente laica e in quella religiosa. Colpisce la genuinità delle loro vite, la maturità del loro sentire.
Li accompagnano due figure paterne indimenticabili, due diversi modi di educare i propri figli, un sottile antagonismo tra loro su cui Potok gioca magistralmente per regalarci poi un messaggio diametralmente opposto ed edificante.
“Siamo così complicati interiormente..”
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Miscelare con cautela
Il romanzo americano è stato spesso alimentato e nutrito nel corso del Novecento dalla potente voce narrativa di scrittori di origine ebraica. Immediato il riferimento a Isaac Bashevis Singer il cui tratto peculiare fu il recupero della lingua yiddish e con essa di un mondo e di una cultura scomparsi, o al fratello Israel Joshua Singer, meno osannato. L’elenco potrebbe proseguire con nomi quali Saul Bellow o Chaim Potok passando per Malamud e Roth in una evoluzione che la critica letteraria evidenzia essere, anche tramite la voce degli stessi scrittori, tesa ad una narrativa sempre più e solo americana in cui la componente ebraica, pur esistente, non rappresenta ora una connotazione di identità ma veicola l’universalità della condizione umana.
Malamud con Il commesso rappresenta appunto la realtà americana nella quale l’ebreo è cittadino al pari di un immigrato qualsiasi, al di là della sua origine. Anzi, entrambi i protagonisti del romanzo, Morris Bober, l’ebreo e il suo assistente di negozio Frank Alpine, italiano, l’uno complementare all’altro, sono le vittime di quel sogno americano che tanta umanità ha nutrito, americani compresi. Le loro esistenze si incrociano e si fondono nella periferia di New York, ai margini di un grande sogno, entrambi stranieri alla vita. Il concetto di estraneità è alla base dell’intera narrazione, alimenta i loro vissuti e le loro scelte: entrambi, quasi simbolo della irrisolta coabitazione del bene e del male che miscela ogni animo umano, forzano un territorio, un ambiente, un gruppo, imponendo la loro presenza. Lo fa Morris quando decide di aprire un negozio in un quartiere abitato da gentili, lo fa Frank quando si insinua in quello stesso negozio con fare subdolo e circospetto.
Tutto il romanzo punta a questa evoluzione, a questa complementarità, al possibile riscatto ( tipico dei personaggi malamudiani) e procede lento e ipnotico fino all’ennesimo finale aperto. Come in Una nuova vita anche qui l’arco temporale della narrazione, rigorosamente scandito dalle manifestazioni meteorologiche e da un intimo sentimento del tempo, meno di un anno ma dilatato e agognato, involve in se stesso e va a richiudere quella breccia aperta dal narratore come per capriccio, lasciando il lettore a immaginare sviluppi futuri.
Rimane un grande messaggio di fondo, lo stesso forse suggerito già a suo tempo da Shakespeare ne Il mercante di Venezia: l’uomo non è bene e non è male, né è la sua religione a certificarne l’essenza, tantomeno l’ortodossia o la meticolosità nell’osservarne riti e precetti. La bontà e la cattiveria sono trasversali all’animo umano, la differenza è il dosaggio tra le parti: non a tutti può riuscire.
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L’ultimo dei pionieri
A New life apparve negli USA nel 1961, arrivò in Italia grazie ad Einaudi già nel 1963. Minimum fax lo ripropose giustamente nel 2007: doverosi i ringraziamenti!
È un’opera interessantissima per una serie di motivi se non vi bastassero un incipit meraviglioso, una prosa carezzevole e lenta, un protagonista magnetico e di conseguenza l’essere travolti dall’insieme perché Malamud riesce con pochissimi elementi e fin da subito a catturare tutta l’attenzione del lettore offrendo uno spaccato esistenziale degno di quelli dei più celebri protagonisti della letteratura. Eppure, paradossalmente , questa è solo la storia di Seymour Levin, un fallito momentaneamente galvanizzato e redento dall’accettazione della sua candidatura quale assistente presso un piccolo college nel remoto West. Cosa lo spinge ad abbandonare le luci di New York? Cosa lo attende nella terra dei pionieri? Riuscirà ad ambientarsi? Migliorerà? Crescerà? Si realizzerà? E se sì a quale prezzo? E se no, perché? Assistiamo ad una redenzione? Ad un’iniziazione? Ad un rinnovamento? Tutte queste domande vengono sapientemente stimolate dalle grandi doti del narratore che si diverte a sorprenderci riservando alla sua creatura uno scatto memorabile, in tutti i sensi.
La narrazione è abbellita dalla descrizioni degli stupendi scenari paesaggistici dell’Oregon che contribuiscono a sopperire alle prime discrepanze che il nostro caro Sy registra , suo malgrado, rispetto alla prima e superficiale impressione suscitatagli dal cordiale e favoloso ambiente del Cascadia college. Eachester, la cittadina nella quale vive, non è altro che il condensato del maccartismo più ostinato; l’ambiente universitario è mediocre e conservatore, contribuisce dignitosamente a mantenere basso il livello intellettuale: al bando barbe ( pericolosamente marxiste), scapoli e cervelli. Espressioni incisive aiutano a inquadrare la situazione:”Hanno passato tanti di quegli anni al camposanto da farmi dubitare che torneranno in vita”. Chi ha segnato i tempi con atteggiamenti indipendenti e comportamenti “rivoluzionari” nel brutto momento in cui “l’America era nel senso migliore di una brutta parola, antiamericana”, è ancora ricordato come il peggiore dei dissidenti. L’anno accademico accompagna il succedersi lento delle stagioni e dopo tre mesi dall’arrivo ,Sy paga il pegno “indipendenza” con la solitudine. Quando l’ambiente smette di sussurrare e alludere lo fagocita, offrendogli un’ennesima agognata svolta alla propria esistenza, gli promette un futuro pianificabile salvo poi vomitarlo come un cibo mal digerito. Le paure che spesso lo bloccano, lentamente svaniscono, egli si fa più ardito e per non tradire questo nuovo io si avvia verso la svolta”vera” della sua vita senza volerlo davvero.La sua esistenza si sarà dunque nuovamente involuta ed evoluta lasciandolo incapace di affermarsi.
Malinconicamente lo consegno ai prossimi lettori ancora irritata dalla gradevolissima vena comica con la quale questo eccellente narratore lo congeda dalla nostra attenzione. Imperdibile!
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Revolutionary Road
Riflessione sull'arte
“Anche quando spingeva la sua prosa parabolica ai suoi estremi limiti, le metafore di Malamud suonavano come antiche massime.”
Philip Roth
Nel 1969 Malamud pubblicò dei racconti organizzati in una sorta di mostra di vari ritratti aventi come protagonista un unico personaggio: Fidelman. Nello specifico sono sei testi autonomi ma costituenti in lettura progressiva un romanzo vero e proprio, il più originale dei Bildungsroman da me finora letti.
Fidelman pittore fallito, ebreo, giunge dallo stato di New York a Roma. Alla stazione Termini viene subito tallonato da un altro povero ebreo che insistentemente gli chiede un abito; il suo rifiuto innesca l’azione basata su una situazione paradossale e surreale che richiama alla memoria nomi quali Kafka e Buzzati. Battendo la contaminazione fra generi letterari e giungendo ad un epilogo simbolico dalla morale implicita, Malamud mi stordisce con quella che definirei una parabola rovesciata.
Il secondo racconto vede il protagonista assoluto ancora dimorare a Roma, lì cercare un appartamento e stabilirvisi. Abbandonata la vena creativa che momentaneamente lo aveva reso scrittore novello, torna alla pittura ma gli manca l’estro creativo: la conoscenza della storia dell’arte mina la sua originalità. Si innamora di Annamaria e il ritratto di lei lo introdurrà nel suo talamo assai frequentato;l’approccio sessuale sarà dei più disastrosi salvo poi...Malamud quanto mi ricordi le atmosfere di certi film di Fellini!
Fidelman giunge poi a Milano. Ora è alla mercé di Angelo e Scorpio che gli propongono il colpo del secolo. A lui spetta il compito di falsare un’opera d’arte, ha delle reticenze che vengono accomodate da un lapidario “L’ARTE È FURTO” e in gioco c’è il riscatto della sua libertà. Il racconto diventa furto nel furto e mi sembra stavolta di vedere un episodio del cartone animato su Lupin.
Nel quarto episodio Fidelman è un “fiorentino devastato e afflitto”, lo vediamo infliggere la morte ad una sua opera d’arte che non seppe prender vita. La crisi è ancora manifesta: “ È questo il mio guaio, tutto è già stato fatto o altrimenti è fuori moda: cubismo, surrealismo, action painting. Se solo potessi immaginare che cosa verrà dopo.” Vive con una prostituta e lo tormenta l’idea che “I geni fanno i capolavori. Se non hai un grande talento la strada è difficile, il capolavoro è un miracolo. Eppure chissà come l’arte abbonda di miracoli”.Tutta la novella è intrisa di riflessioni sul processo creativo e sull’arte. Ancora una volta il finale lascia perplessi ma divertiti...naturalmente Fidelman ha la peggio.
Il nostro antieroe è poi votato alla scultura: crea buchi nella terra e queste sono le sue opere d’arte. Ciò diventa il pretesto per toccare un’altra questione spinosa: forma e contenuto hanno la stessa valenza? Il tono della quinta tappa è sincopato, la narrazione surreale, l’ironia sempre gradevole. Io mi ci sono persa dentro.
Terminiamo l’avventura italiana con un Fidelman vecchio e ancora ex pittore che viene in un certo qual modo liberato dalla sua ossessione perché è più saggio “non sprecare la vita facendo quello che non sai fare”.
Questa produzione fu accompagnata da eccellenti stroncature, fu vista come un elemento di rottura rispetto agli scritti precedenti; non avendo termini di confronto posso semplicemente affermare che è brillante, originale, divertente e tanto italiana. Ne consiglio la lettura inoltre perché ricca di citazioni artistiche, pullulano i nomi di artisti e opere più o meno note, argute le riflessioni sull’essere artista, sulla contaminazione arte- vita, sul processo creativo. Non so se ho reso l’idea di ciò che è il romanzo, nè presumo di averlo capito.
Ho la fortuna di dover scoprire tutto di questo autore e ne sono felicissima.
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De senectute
Il romanzo, datato 1966, appartiene alla tarda produzione di un autore tra i più prolifici del ‘900 che smise di scrivere agli inizi degli anni ’70, un decennio prima di morire (1989).
Si sa che lo consegnò alle stampe siglandolo come uno dei romanzi più feroci che avesse mai scritto e , incuriosita, trovo conferma da brevi indagini in rete che la genesi fu quella che accompagnava tutti i suoi scritti: un metodo infallibile che gli permetteva dalla prima intuizione di chiudere un’opera in brevissimo tempo, circa una settimana più una manciata di altri giorni per la revisione. Trovo conferma inoltre della componente autobiografica presente in questo scritto: l’età anagrafica dell’autore coincide con l’inizio della vecchiaia, età vissuta e percepita con amarezza per il bagaglio di vissuti che trascina, carico forse eccessivamente della percezione dei propri fallimenti. I protagonisti del romanzo vivono il loro avvicinamento alla morte pateticamente investendo in nuove relazioni umane, salvo capire che per loro un nuovo incontro, una nuova unione sminuiscono il vissuto precedente falsandone l’origine, il ricordo, l’identità. Lo stesso Simenon, seppur molto attivo sessantenne, dovette ritrovarsi a fare un bilancio del proprio vissuto e delle relazioni che lo avevano caratterizzato a partire dall’infanzia: la coppia genitoriale, i suoi due matrimoni, la nuova relazione...
E così giunge l’intuizione di base, il pretesto per parlare delle unioni coniugali, della loro finitezza, della labilità delle relazioni uomo- donna, della vita e della morte ma soprattutto dell’ultimo segmento della vita e dell’essere anziani. Ne vien fuori uno sguardo impietoso e a, mio avviso, sottilmente misogino.
Due vedovi, ormai anziani, si conoscono e si sposano. La loro unione non si realizza mai: non consumano il loro matrimonio, non condividono il passato, il ricordo, l’appartenenza a mondi differenti e peggio che mai il presente. Una momentaneo malanno di Emile coincide con la sparizione del suo adorato gatto, unico retaggio del suo passato e della sua identità:viene ritrovato morto avvelenato, in cantina. Mai si avrà la certezza che la morte sia dovuta alla malvagità della moglie Marguerite come ritiene Emile, mentre inconfutabile sarà la sua colpevolezza rispetto alla morte del pappagallo di Marguerite. Lo vediamo Emile in azione spennarlo sadicamente, salvo pentirsi delle estreme conseguenze del suo gesto.
Il lettore viene posto fin da subito in situazione neutrale dal volere narrativo: Simenon lo fa accomodare per farlo assistere ad una guerra vera e propria. A tratti si ha l’impressione di subire le bassezze e le cattiverie dell’uno piuttosto che dell’altro, ma un semplice cambio di punto di vista fa abilmente ribaltare la situazione costringendo il lettore ad un ‘impossibilità di immedesimazione. Se si aggiunge a questa fumosità l’aggravante di appartenere al sesso femminile o maschile, di essere più o meno felicemente coniugati, di non esserlo affatto, di averci provato, di aver sperimentato talvolta qualche meschino atteggiamento rappresentato e non contemplato da alcun trattato sull’amore , beh allora la spirale vorticosamente attanaglia il lettore. Più volte il quadretto familiare psicopatologico rappresentato è stato così respingente da indurmi a non terminare la lettura. L’assenza di qualsiasi abbellimento stilistico, l’asciuttezza della prosa, la crudezza del quadro rappresentato mi hanno invece tenuta ancorata ad essa.
Sebbene entrambi i coniugi vengano rappresentati nella loro accezione più negativa, a parer mio, prevale una vena sottilmente misogina per cui la mela marcia in ogni coppia è comunque la donna mentre l’uomo è succube del potere femminino in attesa del momento opportuno per poter godere della propria libertà, così abilmente immolata, e per poter gioire infine dell’unica sua vera vittoria, salvo poi scoprire che ci si è ridotti ormai al niente .
Opera sicuramente da leggere.
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Tale padre...tale figlio?
Rocklin, Colorado. Inverno.
Lei è Maria, lui è Svevo. Loro sono Arturo, August e Federico Bandini, i figli di una coppia di italiani naturalizzati americani. Lei snocciola infiniti grani di un rosario che dovrebbe compensare tutta la sua miseria, lui bestemmia, muratore maledetto in un maledetto inverno.
I toni di Fante sono questi. La narrazione quasi anaforica all’inizio, ha il potere di dipingere un quadro realistico di una realtà marginale ed emarginata, ai limiti della sopravvivenza, nella quale la fanno da padrone miseria e rassegnazione. Arturo, il figlio quattordicenne e la traduzione in parola dei suoi pensieri (anche nei momenti meno opportuni) , sono un’efficace messa a nudo di quel marasma di pensieri e di emozioni tipici dell’adolescenza. Gli eccessi nel comportamento, sanati sempre da un’indulgente e immediata confessione, sono invece l’esito tutto personale del substrato familiare e sociale di appartenenza e spesso sono tinteggiati da una gradevolissima vena ironica.
Durante la lettura, a più riprese, mi è venuta in mente l’esperienza autobiografica raccontata da Frank McCourt nei romanzi “Le ceneri di Angela” e “Ehi prof” e quanto poco io l’abbia apprezzata. Non sono riuscita a capire subito perché invece questa narrazione, così simile nei temi, mi giungesse al contrario gradita, per arrivare poi a comprendere che è la forma la chiave di volta del mio gradimento. Aspetta primavera, Bandini è narrato in terza persona e il narratore alterna i punti di vista focalizzando l’attenzione sul padre e sul figlio, ciò fa intuire al lettore l’humus autobiografico che sorregge l’impianto narrativo per cui immediata è la corrispondenza John- Arturo e Nicola- Svevo, diversamente da quell’io auto commiserante che mi aveva irritato negli scritti di McCourt.
Nello scritto di Fante ci si può concedere il lusso di abbandonarsi alla finzione narrativa anche se si rimane perfettamente consapevole che tutto il suo vissuto è lì tra quelle pagine e il pensiero corre a immaginarlo. Spesso la stessa narrazione, alleggerita dai toni sornioni e quasi umoristici, contribuisce ad allontanare dalla miseria, dalla bassezza del quadro familiare, da una coppia di genitori così insana nella loro unione maledettamente tenuta unita dal medesimo destino di immigrazione e di povertà non solo materiale.
Insomma una lettura gradevole, originale ma deludente nell’epilogo ( a livello narrativo), a tratti anche una lettura amara che implica una riflessione profonda sui legami familiari e sulla strutturazione delle singole personalità in base ai modelli di madre e di padre che capita di avere. In questo caso più volte mi ha preoccupata la psicologia del giovane Arturo, la mitizzazione della figura paterna e l’inconscia ammirazione scaturita dai suoi comportamenti più riprovevoli o ancora le proiezioni fatte sulla povera Rosa di cui si dice innamorato... , per non parlare dei sentimenti contrastanti provati nei confronti della madre.
Non so se affronterò gli altri testi del ciclo Bandini o se lascerò Arturo nell’irresolutezza della sua adolescenza.
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Gioventù bruciata
Hector Loursat de Saint- Marc rappresenta per gli abitanti di Moulins, soprattutto per quelli appartenenti all’alta borghesia, lo spettro del fallimento individuale, l’elemento debole di una catena i cui anelli servono anche a fare cerchio contro gli altri strati sociali al fine di garantire lustro, continuità, benefici e, fondamentalmente, lo status quo.
Ha quarantotto anni e da ex rampollo, da brillante avvocato, si è trasformato in un misantropo, chiuso nel suo studio, circondato dalle innumerevoli bottiglie di bourgogne che ama tracannare tutto il santo giorno, immerso nelle sue ricercate letture. Se la passa così da quando la moglie è sparita con il suo amante lasciandogli - ormai sono trascorsi diciotto anni- il fardello di una figlia la cui paternità è dubbia. La dimora nella quale abitano ha perso tutto il suo decoro, allineata nel quartiere dabbene della cittadina, è lì come un pugno sull’occhio a rammentare il degrado del suo proprietario che mina, con la sua sola esistenza, il decoro su cui si fonda il buon nome della borghesia cui purtroppo appartiene. Inutile e indecoroso ubriacone.
Il romanzo introduce progressivamente la caratterizzazione del personaggio, alternando a eccellenti descrizioni d’ambiente, l’introduzione del fatto che muove l’azione. Una sera, dai piani alti e disabitati della palazzina in cui vive, giunge distinto il suono prodotto da un colpo di arma da fuoco. L’orso, come sempre rintanato nel suo studio, incapace di rivolgere la parola alla figlia e alle domestiche nell’unico momento di contatto rappresentato dai pasti giornalieri, esce dalla stanza, affronta la scala, percepisce un’ombra, vede un uomo morire...
Il fatto lo spinge ad attivare la macchina della giustizia che lo risucchierà nel vortice dell’antica professione e che lo restituirà lentamente alla vita. Questo aspetto relativo alla sua rinascita è, a mio parere, il più riuscito dell’opera insieme all’intento palese di colpire l’ipocrisia borghese con l’ennesimo personaggio vinto e fuori dagli schemi sociali molto presente nella produzione dell’autore; tuttavia il romanzo non mi ha convinta del tutto perché la seconda parte è tutta dedicata alla risoluzione del giallo in pura ambientazione processuale.
Non amando particolarmente il genere, rimango delusa da quell’abbozzo di capolavoro che avevo respirato per tutta la prima parte: mi pare dunque di essere di fronte ad un ibrido che avrei goduto maggiormente se depurato dalla seconda parte la quale mi ha defraudato di quella caratterizzazione psicologica cui mi stavo già affezionando come novella lettrice del Simenon non Maigret, e che avrebbe potuto trascinare in un epilogo più efficace di quello letto.
Molto interessante invece la critica alla borghesia che vedendo coinvolta nello scandalo i suoi figli migliori, si attiva in una rete solidale di protezione e ipocrisia.
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Tutta una vita
Chiara, una figura femminile, è al centro della narrazione. Il romanzo, ripercorrendo la sua vita, potrebbe definirsi la biografia di un secolo , racchiusa in uno spazio e in un tempo ben definiti (Roma 1943-2013...), ma ben trafitta da altre geografie, da altre appartenenze culturali, dall’esito di altre esistenze e dal loro miscelarsi. La Storia condisce e amalgama gli ingredienti. Non è l’unica donna di cui si parla, le fa da contraltare Barbara, la mamma, ma soprattutto la figura o meglio il ruolo della donna in sé. Nel suo percorso di vita, al di là delle circostanze che contraddistinguono le singole individualità, la narrazione ha il potere di richiamare nelle donne il proprio percorso di vita nelle diverse età.
Chiara, nel suo, ha fatto delle scelte, si è affermata, ma prima di tutto autoaffermata, ha anche lei pagato quel pegno ( di incompiutezza, di rassegnazione, di accettazione infine degli esiti prodotti dalle sue scelte personali) che da giovani risulta essere il fardello più scomodo e meno accettabile sopportato dai nostri genitori. Chiara suscita tutta la comprensione che da un certo universo femminile può e deve giungere : la sua esistenza ( non fornisco dannose anticipazione , si andrebbe a snaturare l’esito voluto da scelte certe narrative e il piacere stesso della lettura)dedicata in fondo agli altri permette di riflettere su argomenti quali le dinamiche familiari, l’amore come donazione e come ricezione, il senso di autoaffermazione, le parabole esistenziali, le casualità che a volte le determinano.
Le reazioni umane rispetto agli eventi sono abilmente descritte in alcune possibilità anche nelle figure maschili: il padre Fausto, il fratello Aldo, il giovane Michele e lo stesso Renzo. Ho amato i più deboli, inutile negarlo, sia nella loro remissività sia nella loro insicurezza. Loro in un modo o nell’altro hanno gravitato intorno a Chiara e lei rimane il pilastro di queste esistenze o il polo d’attrazione o l’elemento principe.
Una scrittura sensibile e delicata gestisce un impianto narrativo originale e circolare che porta, a lettura ultimata, a riprendere in mano i primi capitoli la cui carica emotiva, a inizio lettura , non si poteva capire. Senza mai abbandonarsi a toni melliflui, la narrazione è capace di toccare le corde emotive ma in modo delicato e profondamente partecipato. Complimenti all’autrice.
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e a tutte le donne
e a chi l'otto marzo vuole rendersi originale regalando un libro, questo sarebbe consigliatissimo.
Una bolla di felicità o il treno giusto
Marcel ha conosciuto la felicità, gli è capitata, all’improvviso e in un momento che ai più sarebbe parso quantomeno fuori luogo, eppure è riuscito a cavalcarla quell’onda e ne va fiero. Scrive perciò un memoriale e fissa il ricordo con l’unica preoccupazione di trasmettere, un domani, ai figli un’idea di sé diversa perché lui Marcel non è solo marito, padre, uomo cauto e accomodante, ma è anche colui che è stato capace, almeno una volta nella vita, di vivere appieno e di essere felice.
Fu quando le Ardenne vennero invase dalle truppe naziste, fu quando a dispetto della sua indole e della famiglia di sua moglie, ebbe il coraggio di lasciare la sua tranquillità borghese, la casa di proprietà, il piccolo villaggio per tentare la via della salvezza e trovare come profugo rifugio nel sud della Francia. Inizia così un viaggio in treno ed è questa l’immagine, la metafora, il simbolo su cui ruota l’intera narrazione.
È un treno mai uguale a se stesso, i suoi vagoni sono agganciati e sganciati a creare sempre nuove formazioni. Alcuni, quelli da carro bestiame su cui egli viaggia, rimangono fissi, altri vengono staccati: francesi, belgi, infermi, malati mentali, degenti di un ospizio evacuato, una moltitudine indistinta , alcune facce note del villaggio i compagni di viaggio.
L’itinerario non è lineare, non è prevedibile, non è noto, la destinazione per La Rochelle è chiara solo all’arrivo. Lunghe soste, scambi infiniti, percorsi alternativi, bombardamenti, inquadramenti rigidi, militari, libertà e anarchia, sono situazioni tutte verificatisi e/o verificabili per questi passeggeri. Costretti a una convivenza forzata in spazi angusti in una situazione al limite della realtà, reagiscono agli eventi, il più delle volte, abbandonandosi a bassi istinti sessuali.
Marcel, arroccato sul suo baule da viaggio, consapevole che il vagone sul quale viaggiavano la moglie prossima al parto e la figlioletta di quattro anni è stato sganciato e prosegue la sua corsa verso altre direzioni, assiste imperturbabile agli eventi. La sua decisione non viene mai messa in discussione, i suoi sentimenti sono congelati, paradossalmente non è preoccupato per sé e non è disperato per la perdita della famiglia.
La guerra, l’invasione, la fuga gli stanno regalando una bolla spazio-temporale e lui ci si infila dentro, la vive come mai era stato capace prima.
Una donna, sapremo gradualmente, ceca, ebrea, rilasciata da un carcere femminile per l’eccezionalità degli eventi in corso, emblematicamente vestita di nero, sale sul suo vagone. Non parla con nessuno, mostra vicinanza emotiva ed empatia a Marcel in occasione della perdita della famiglia e di seguito, in un arco temporale brevissimo, attrazione fisica e amore. I due si vivono come coppia in perfetta armonia e felicità- la bolla scoppia quando gli eventi permettono a Marcel, pur senza grossi affanni, di sapere che ne è stato della sua famiglia. Spinto dall’immediato desiderio di ritrovarla, consapevole che la sua bolla di felicità sta venendo meno, rientra nei ranghi della sua esistenza, quella ordinaria in cui gli eventi accadono e si vive e si ha parvenza di vita ma è solo scorrere del tempo.
Ancora un’esistenza metaforica ci regala il belga, ancora un’ansia di felicità scomoda e respingente quanto l’adulterio, il profondo tradimento della moglie, della figlia, di sé di cui si può essere capaci per assaporare un gusto della vita altrimenti inaccessibile e reso possibile solo da una situazione non ordinaria, non quotidiana ma surreale, paradossale e per questo colma di felicità.
Non nego che l’immagine del treno cui si accompagnano la corsa, gli incontri, le vicinanze, le scelte ha esercitato su me un fascino tale da rendere possibile la sospensione di quell’etica di cui normalmente sono convinta devota ( amore coniugale, fedeltà) e che la lettura non ha fatto scatenare alcun giudizio morale sulla condotta di Marcel. Simenon è riuscito, incredibile, a far entrare anche me in quella famosa bolla e a farmi gioire per quello che comunque rimane il suo ennesimo vinto.
Perdura altresì in me la convinzione che l’ordinario e il quotidiano siano la fonte primaria della nostra felicità a patto di avere avuto la fortuna di aver preso il treno giusto...
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E non c'è niente da capire
Kees Popinga è uomo di spicco presso una ditta di forniture navali, conduce una vita borghese, agiata e serena, è sposato e ha dei figli. Come tanti è ingabbiato nelle relazioni parentali, il matrimonio e il contesto coniugale gli vanno un tantino stretti, ma non se ne lamenta; è ineccepibile la sua condotta di vita che scorre nella noia più totale. Forse non lo sa ancora, ma lui vive una vita che non gli appartiene. Sarà il caso a volere che il quotidiano venga infranto, che la normalità venga rovesciata e che l’impossibile diventi possibile.
Una sera incontra il suo principale che gli anticipa il crac finanziario che travolgerà la sua azienda e con essa la misera esistenza dei suoi dipendenti agiati economicamente e adagiati nei loro ruoli sociali. Che fa Popinga? Assume parte attiva nella sua esistenza e , quasi novello Mattia Pascal misto a Vitangelo Moscarda, prende il treno ed evade, scappa, va via, si reinventa, molla tutto, si gode finalmente la sua libertà. Lascia Groninga, si dirige ad Amsterdam, termina la sua folle corsa a Parigi. Dissemina il suo percorso di errori che lo trasformano in un fuorilegge senza che egli ne abbia consapevolezza morale. Si sente galvanizzato, onnipotente e tenta in tutti i modi di risalire la china della sua mediocrità che così all’improvviso gli si era parata davanti. Termina il suo rocambolesco peregrinare in modo tragicomico ritagliandosi l’ennesimo ruolo che lo porterà ad assumere l’ennesima maschera: quella della follia.
Il messaggio di fondo pare qui essere la difficoltà dell’uomo di conoscere se stesso, di convivere con la propria identità che affannosamente si costruisce per poi sentirsene da essa stritolato. L’impossibilità di essere liberi dai vincoli sociali o di mantenersi liberi nei loro confini.
Ancora una volta mi colpisce l’epilogo e mi si colma l’immaginario di un personaggio indimenticabile: un altro vinto che mi ha però portato, paradossalmente, tra i quartieri di Parigi a vedere” l’effetto che fa”, a sperimentare la libertà, a cercare di capire che non c’è niente da capire o come dice Simenon in chiusura che ”Non c’è una verità, ne conviene?”.
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Uno ,nessuno, centomila
Il mio primo Simenon
“Fu un errore mentire. Se ne rese conto nel momento stesso in cui apriva bocca...”
La vicenda prende l’avvio da una menzogna, che in realtà è la diretta conseguenza di un elemento di rottura che scardina la certezza effimera del quotidiano. Tutto qui il nucleo narrativo di questo romanzo: un’idea alla base, le sue dirette conseguenze nello sviluppo successivo.
L’antieroe di turno è Jonas Milk, appassionato filatelico, ebreo di origini russe, sbattuto dagli infelici esiti della Storia del Novecento in terra francese e lì così ben integrato da essere riuscito a scampare ai rastrellamenti nazisti.
Vive in una piccola cittadina di provincia ma tutto il suo mondo gravita intorno alla piazza del mercato cui si affaccia anche la sua libreria. La sua quotidianità non gli appartiene, non vive una dimensione privata, il suo vivere è – apparentemente- all’ unisono con quello degli altri abitanti della piazza che lì vivono e lì gravitano per l’allestimento del mercato. È uno spazio aperto che si apre a infinite relazioni e la quotidianità è marcata fortemente dalle relazioni di vicinato. Tutti si conoscono: i rumori, i gesti, i movimenti sono avvertiti, avvertibili, conosciuti da tutti.
Jonas , libraio quarantenne, è elemento pacifico, perfettamente inserito, integrato in tale contesto dal quale non proviene. Paradossalmente, chi invece ne rappresenta un forte elemento di rottura è la sua giovane moglie: le è stata proposta, Gina, benché l’abbia vista bambina giocare tra le bancarelle, ragazza perdersi in condotte poco costumate, ferita dall’ amore sbagliato per un poco di buono finito in galera, sopravvivere all’ ambiente chiuso della provincia. Gina spesso evade da quel contesto e torna. Quando sparisce per l’ennesima volta, Jonas mente per giustificarla e mentre lo fa commette l’errore più grande della sua vita, già lo sa...
Il romanzo veicola un messaggio fortemente pessimista: l’uomo è capace di fare del gran male, al mondo non c’è spazio per la modestia, l’amore, la tolleranza. Tutto è retto dall'ipocrisia delle relazioni e dalla loro labilità, a niente vale la rassegnazione al proprio status, l’accettazione , la condivisione. Vince il più forte, non necessariamente un antagonista al piccolo antieroe, basta solo la perfidia insita nel gruppo che esclude un suo elemento per un qualsiasi motivo, anche il più banale, anche per niente.
Il romanzo lascia di stucco per il suo epilogo tragico, si scolpisce prepotentemente nella memoria per il suo vinto, si impossessa del lettore con la sua efficace ambientazione e invita, nel mio caso, alla scoperta dell’immensa galleria di tipi umani sfornata dall'autore, alla ricerca di smentite, conferme e in fondo di una prospettiva di lettura della vita che mi pare veramente interessante.
Lo stile asciutto, sobrio, diretto ben si sposa all'architettura della trama il cui disegno è abilmente anticipato, predisponendo il lettore all'atteggiamento attivo di ricerca, tipico del giallo, salvo poi capire che il geniale Simenon chiude le sue storie a modo suo, lasciando al lettore il tempo di sentirsi irretito, disgustato, sorpreso ma, incredibile, piacevolmente
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Per curiosità
H. G. Wells pubblica nel 1897 “The Invisible Man” dopo essersi già fatto notare con “The Time Machine” e “The Island of Dr. Moreau”. La sua prima produzione si basa sul connubio tra elemento scientifico e fantastico per cui questi scritti rientrano nel filone che si suole nominare “scientific romance”. Solo successivamente al 1900 si concentrò su romanzi di impronta naturalista e di ambientazione borghese.
“L’uomo invisibile” narra la comparsa di Griffin, ambizioso scienziato-pazzo, in uno scenario ridotto a campagna e villaggi inglesi del Sussex di fine ottocento. Griffin si è reso invisibile o meglio trasparente attraverso la sua ambiziosa ricerca scientifica, ma è alle prese con la difficile gestione di questa condizione. Gira coperto alla meglio, tale da sembrare un fantoccio perché è soggetto al freddo e al caldo, se mangia il cibo non ancora assimilato ed è visibile in trasparenza. Fugge da luoghi prima abitati da lui, con alle spalle una lista de efferatezze compiute nell’incapacità di gestire la sua condizione che in un delirio di onnipotenza, verremo a sapere, gli avrebbe potuto garantire il potere assoluto.
La prima parte del romanzo lentamente presenta l’ingresso in scena, è la parte meno gradevole dello scritto, la successiva che farei coincidere con la metà , presenta in atmosfere sempre più rocambolesche e veloci un epilogo fin troppo scontato. A Griffin si contrappone l’antagonista Dott. Kemp, ex compagno di studi, in una lotta tra bene e male.
Dietro una trama così banale l’intento di Wells, con stile poco curato e ironico, pare sia stato quello di un riscatto tutto personale. Uomo fattosi da sé, dalla giovinezza difficile e disagiata, riuscì a imporsi
all'attenzione del grande pubblico con i suoi romanzi, conobbe il successo ma temette sempre la sua diversità di provenienza ( nel romanzo rappresentata dall'albinismo dello scienziato pazzo) e l’uscita di scena repentina. Sentendosi isolato e diverso propose la storia di una diversità che a dispetto di tutto gli ha regalato celebrità.
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I turbamenti del giovane Bassani
Avere la forza e il coraggio di contemplare il proprio cuore senza orrore è una tappa importante di crescita. Quanto tempo occorrerà per raggiungerla, quale prospettiva si aprirà avvicinandosi ad essa, quali delusioni e disinganni si vivranno, sono spesso i primi turbamenti che investono l’animo adolescenziale. Non sempre si giungerà a soluzioni facili, a letture univoche e potrà, con grande probabilità, accadere che la conoscenza di noi stessi venga a lungo rimandata, distanziata, dilatata forse perché l’imperfezione del nostro umano sentire non ci aggrada e il cammino percorso, seppur giunto a notevole punto, ci pare irrisolto e irrimediabilmente compiuto...
“Sono stato molte volte infelice, nella mia vita, da bambino, da ragazzo, da giovane, da uomo fatto; molte volte, se ci ripenso, ho toccato quello che si dice il fondo della disperazione. Ricordo tuttavia pochi periodi più neri, per me, dei mesi di scuola fra l’ottobre del 1929 e il giugno del ’30, quando facevo la prima liceo.”
“Dietro la porta”, opera del ’64, quarto “episodio” de “La storia di Ferrara”, giunto due anni dopo “Il giardino dei Finzi-Contini”, è una lettura godibilissima che immerge il lettore nelle atmosfere ferraresi giocate entro lo spazio chiuso del Liceo Guarini ( in realtà il Regio Liceo-Ginnasio
“Ludovico Ariosto”) e delle case private della buona borghesia inglobate dallo spazio aperto rappresentato dalla città richiamata nei suoi scorci più belli e importanti.
Il protagonista è il giovane Bassani celato dietro l’ennesimo eteronimo come in tutto il ciclo ferrarese. Riparata matematica, perso l’amico a causa della di lui bocciatura, in un clima di grande selezione culturale e sociale, il liceo- complice la Riforma Gentile del ’23 -accoglie quasi esclusivamente ragazzi provenienti dalla agiata borghesia,il ragazzo si presta, riunite le due quinte ginnasiali, a entrare in prima liceo.
Le atmosfere scolastiche descritte hanno il potere di rievocare in chi scrive, ma immagino universalmente, seppur nella differente ambientazione spazio- temporale, il ricordo dei tempi della scuola. L’anno scolastico si apre e si chiude in quei mesi a cavallo tra l’ottobre del 1929 e il giugno del 1930; la scuola ha il ruolo di formare la nuova classe dirigente e buona parte dei professori riescono ancora a mantenere, in una città fortemente fascista, il loro credo fermo e votato indissolubilmente alla ragione, allo spirito critico, al libero pensiero.
L’aula, i corridoi, gli spazi della scuola annidano relazioni nascenti: invidie, competizioni, posizioni sociali, appartenenze a differenti credo religiosi, pregiudizi, false credenze su se stessi e sugli altri rappresentano la sottile corda che l’adolescente funambolo deve percorrere mantenendosi in equilibrio precario, a forte rischio di caduta.
Le scelte operate per mantenere tale equilibrio aprono profonde lacerazioni dell’animo e mettono a nudo qualità e/o difetti del carattere sentiti come tremendamente insuperabili. Stare dietro la porta come il protagonista, non uscire allo scoperto, valutare il proprio e l’altrui comportamento senza chiarire e senza scoprire le carte a viso aperto, è qui sinonimo di mancanza di coraggio, di viltà, di ignavia. È la prima prova cui si imbatte un giovane che, mentre si rende conto dei propri limiti, intesse faticose relazioni interpersonali con i coetanei. In nuce presenti: arrivismo, falsità, ipocrisia, competizione, identità emotiva e sessuale in divenire e tutto sommato le basi formative dell’adulto che si sarà ( il difetto privato pare coincidere con buona parte dei cliché rappresentativi degli ebrei). L’essere ebreo in questo percorso formativo, sebbene nell’opera si accenni soltanto alla questione, deve aver avuto la sua importanza e i ruoli stessi dei tre ragazzi maggiormente coinvolti nella vicenda : Carlo Cattolica ( bravissimo studente e cattolico appunto), Luciano Pulga ( figlio di un medico in ristrettezze economiche) e lo stesso giovane Bassani ( figlio di un agiato medico ebreo che non esercita perché vive di rendita) lo confermano.
È però anche la riflessione matura di un uomo che continuando a stare dietro la porta, asseconda il suo temperamento schivo preferendo alla superficialità di innumerevoli e ingrati rapporti interpersonali ,il senso di una profonda ma rara vicinanza.
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I turbamenti del giovane Torless
Chirù, leggilo tu...
Mi accosto alla lettura con estrema diffidenza, mi armo di difese se devo affrontare un nome già noto, fatico il doppio a lasciarmi andare, colpevole e consapevole di non aver voluto leggere ancora niente del nome in questione.
È la volta di Michela Murgia, osannata con il suo “Accabadora”che appunto non ho letto e per il quale non posso esprimermi. Posso solo riferire ciò che ne ha segnato le distanze: lessi a suo tempo del fenomeno tutto antropologico della eutanasia alla sarda da non sentire l’esigenza di vederlo riproposto in termini narrativi.
Ora, a lettura terminata del nuovo romanzo “Chirù”, qualcosa di indefinito mi allontana da quello che, ho sperato, potesse essere una scoperta. Mi fa piacere che dal panorama sardo si levino delle voci ma mi piacerebbe ancor di più che quello che raccontano fosse sostanziale ed emozionante.
La storia narrata in “Chirù” è stata in qualche modo “spinta” da un fenomeno molto tipico del nostro tempo. In una commistione di linguaggi, nell’era delle sperimentazioni comunicative per eccellenza, Chirù è uscito da un libro non ancora pubblicato e si è fatto personaggio inventato con tanto di profilo su Facebook, gestito dalla sua autrice. Il successo mediatico c’è stato e Chirù, il vero assente del libro, è stato protagonista indiscusso di se stesso. Non avendo un profilo Facebook né tempo per questi giochini da social network, pur riconoscendo l’originalità di questo linguaggio contaminato, non posso esprimermi neanche su questo.
Ho però letto il libro e allora a quello veniamo, perché di quello in fondo si deve parlare quando ci si presta a scrivere una recensione.
La storia è quella di Eleonora, attrice di teatro, sarda, che dopo precedenti, non sempre edificanti, sulla soglia dei quarant’anni, con una vita da definire nei suoi contorni più stabili, cede ad una sorta di impulso che pare animarla: diventa nuovamente la “maestra”, la guida formativa, la tutor di un giovane studente di violino. Li separano vent’anni d’età e la presunzione dell’adulto sul giovane. Tra cambi di scena per cui si alternano tiepide descrizioni del capoluogo isolano ad ambientazioni romane, svedesi e due brevi parentesi una praghese, l’altra fiorentina , l’impressione è quella di assistere ad un tirocinio formativo al contrario. Ripercorrendo varie tangenziali della memoria, in un recupero mai autentico ( fa eccezione la pagina sulla malattia della madre e sul loro rapporto), ci si avvicenda tra Eleonora bambina, Eleonora figlia ingabbiata in una famiglia che ferisce, Eleonora tra i suoi uomini - ex e nuove conoscenze- , Eleonora e Chirù. Questo è nel romanzo un fantasma che agisce da controcanto agli stati d’animo di una donna autentica e complessa, fondamentalmente alla ricerca di se stessa.
Sul piano narrativo il libro è disorganico, sfuggente, impalpabile. Non c’è storia!
Sul piano stilistico apprezzo una buona penna ma da esercizio stilistico: le corde emotive non vibrano mai. La prova è , a mio parere e secondo il mio gusto, del tutto fallita. Consiglio come sempre la lettura perché si può parlare di ciò che si conosce ma questo libro non rientrerà mai nel novero di quelli : “ Come? Non lo hai mai letto?”
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Letteratura e libertà
Il libro-intervista del Nobel per la Letteratura con Angelika Klammer pubblicato nel dicembre del 2014 da Hanser in Germania ,Mein Vaterland war ein Apfelkern (La mia patria era un torsolo di mela), vede ora la pubblicazione in Italia a meno di un anno di distanza ma col titolo leggermente modificato.
È una pubblicazione molto interessante sotto molti punti di vista. In primo luogo funge da lettura propedeutica agli scritti della Müller, permette poi di leggere una biografia che dà voce al microcosmo della minoranza tedesca in Romania e soprattutto smaschera gli orrori della dittatura di Ceausescu , incredibilmente celati, distorti o negati ancora oggi dalla trasformista e rampante borghesia.
La conversazione segue il criterio cronologico per cui si conosce l’autrice bambina, immersa in un villaggio sperduto del Banato rumeno, chiuso e statico da secoli, lacerato dalla storia che lo invade con il peggio di sé: le due guerre, orribile la seconda per l’infausta posizione della minoranza tedesca, la fascistizzazione voluta da tutti, respirata ma sempre negata, la dittatura fascista di Antonescu, l’antisemitismo e i campi di concentramento in Transnistria, il capro espiatorio cercato nella minoranza tedesca, il socialismo, le deportazioni, l’infinita dittatura di Ceausescu.
Alla crescita della bambina abbandonata a se stessa, nata a tre anni di distanza dal rientro della madre dalla deportazione, contraddistinta da una fervente immaginazione e da un disperato animismo, segue il trasferimento in città, lo studio, la giovinezza per giungere quasi repentinamente all’esordio letterario con Bassure, al lavoro di traduttrice e al periodo più buio della sua vita. Gran parte delle domande permettono il racconto delle angherie della Securitate, la descrizione degli stati d’animo di un perseguitato politico e la difficoltà di gestire la notorietà dovuta ai suoi scritti per l’esposizione internazionale che gliene deriva. Su tutto trionfa l’alchimia fra la vita e la parola, il torto e la scrittura, la verità e la letteratura permettendo a questa donna profondamente libera di vivere, sopportare, metabolizzare l’assurdo di una dittatura e della conseguente perdita di libertà. Trionfa il potere della parola investita di un plus metaforico derivato dalle immagini suggerite dai detti e dai modi di dire rumeni, scritti però in tedesco.
Molte domande fanno aperto riferimento alle diverse opere :Il paese delle prugne verdi, L’altalena del respiro,Oggi avrei preferito non incontrarmi e danno la possibilità di approcciarsi alle tematiche trattate e allo stile dell’autrice. Non avendo mai letto una sua opera, personalmente sono rimasta affascinata dalla persona, dalla donna, dal potere immaginifico della sua parola, certamente curiosa e ben disposta verso la sua opera. Leggere questo libro penso possa essere d’aiuto per la contestualizzazione di una scrittura da molti ritenuta né semplice, né piacevole. Ne consiglio indubbiamente la lettura a tutti gli appassionati di biografie, di storia, di letteratura e naturalmente agli estimatori della Müller.
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In tempo di guerra e in tempo di pace
Tra le opere che trattano della Grande Guerra è molto utile segnalare al lettore attento questo scritto di Giuseppe Dessì, autore sardo nato a Cagliari nel 1909, un’adolescenza trascorsa però alle pendici del monte Linas, precisamente a Villacidro, paese che con la Fondazione omonima ne mantiene vivo il ricordo, lo studio delle opere e l’organizzazione di un premio letterario giunto alla sua XXX edizione.
Questo romanzo breve venne pubblicato da Feltrinelli nel 1961 e successivamente anche da Mondadori, oggi è fuori catalogo , chi è interessato alla lettura del cartaceo può ricercare il volume fra i tipi di Ilisso, casa editrice nuorese.
Al centro dello scritto è la piccola comunità di Cuadu (Villacidro) agli inizi degli anni venti quando il ricordo della guerra è ancora così vivo da generare non solo l’iniziativa di erigere un monumento ai caduti del paese, ma anche una serie di moti dell’animo e dell’intelletto che sfociano nel mare magnum dell’istituzione di nuovi partiti politici (Psd’az.) , del dissenso nutrito da rivendicazioni di carattere sociale ( il bienno rosso con protagonisti i minatori del Sulcis già trucidati in una sanguinaria repressione nel 1904 nei moti di Buggerru) e del prevalere della violenza e dei privilegi attraverso l’istituzione dei Fasci di combattimento e l’avvento del fascismo stesso.
La storia nazionale è alimentata da quella regionale, non viceversa. Qui a noi interessa evidenziare il piccolo fenomeno sociale , mirabilmente rappresentato da Dessì, che concorre a innescare le stesse dinamiche che in ambito nazionale portarono al periodo oscuro successivo.
Mariangela Eca è una madre chiusa nel suo dolore privato: ha perso i suoi due figli in guerra e la retorica del ricordo e della celebrazione mal si sposano col suo sentimento più vicino alle parole “inutile strage”, impronunciabili. Vive vicino alla casa del viceparroco Don Pietro Coi e ne è la sua domestica da una ventina d’anni, lo vorrebbe fare a titolo gratuito per sdebitarsi col prete ai suoi occhi capace a suo tempo di curargli il figlioletto col potere della preghiera, e non accetta retribuzione che però regolarmente il sacerdote le versa in un libretto di risparmio. Saranno questi soldi, ormai ingente somma , a muovere l’azione di questa mater dolorosa la quale deciderà di devolverli per la costruzione del monumento funebre, innescando però all’interno della comunità delle dinamiche latenti che porteranno al conflitto aperto tra le varie parti sociali. Progressivamente, attraverso l’uso sapiente della tecnica della focalizzazione, verranno alternati i punti di vista della donna e del sacerdote che lentamente contribuiranno, anche tramite ampie analessi, a scoprire quale vero rapporto leghi i due.
La scrittura asciutta, tersa e limpida arriva più volte al cuore ed è capace di emozionare delicatamente. Poche righe, niente fronzoli e un realismo pungente animano le pagine migliori sulla scia di un debito artistico evidente e riconducibile al Lussu di “Un anno sull’altipiano” e di “Marcia su Roma”, debito non solo letterario ma umano e di pensiero considerato che il messaggio che lascia questo scritto è profondamente pacifista. Il disertore e il fenomeno della diserzione sono l’altro importante punto di frattura, contribuisce ad alimentare il secondo piano della narrazione attraverso l’accostamento all’humus culturale della latitanza da bandito,suscita la riflessione sul potere e sul delicato equilibrio su cui si fonda la legge in tempo di guerra e in tempo di pace.
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Quanti amori
“L’uomo attraversa il presente con gli occhi bendati. Può al massimo immaginare e tentare di indovinare ciò che sta vivendo. Solo più tardi gli viene tolto il fazzoletto dagli occhi e lui, gettato uno sguardo al passato, si accorge di che cosa ha realmente vissuto e ne capisce il senso.”
La scrittura di questi racconti si nutre del respiro deciso e greve di un autore che mentre scriveva viveva ancora in Cecoslovacchia. L’arco temporale interessato è quello tra il 1959 e il 1969, sono gli anni di una pesante crisi economica e di Alexander Dubcek il quale iniziò un processo di liberalizzazione dal totalitarismo comunista attraverso l’applicazione di un “socialismo dal volto umano” al fine di restituire una garanzia minima dei diritti umani e una riduzione della persecuzione politica. L’adesione di Kundera a queste idee ne decretò il definitivo allontanamento dal partito dal quale era stato già scacciato, questa volta perdendo anche il lavoro e la patria.
La prima pubblicazione parziale di alcune di queste novelle produsse dunque l’effetto di fare di Kundera una voce scomoda. In effetti i racconti, raccolti successivamente in “Amori ridicoli”, restituiscono una rappresentazione ironica di una società pesantemente condizionata dal potere centrale. Si sente l’oppressione, si risente dello stato d’animo dei protagonisti abituati al rispetto dello scenario di facciata la cui etichetta va rispettata per evitare effetti tanto sgradevoli quanto indefiniti. Pare quasi che l’unico margine di libertà, vera, sia circoscrivibile alle scelte che l’individuo compie dentro i confini, anch’essi però stretti, delicati, pericolosi, dei rapporti amorosi o della vita sessuale non necessariamente inserita in un rapporto d’amore. I personaggi che si incontrano possono essere dentro una relazione canonica o incappare in un incontro fortuito, possono perdere o guadagnare tutto, rimangono in un modo o nell’altro invischiati in una situazione che supera il quotidiano, trascende il reale, apre una breccia momentanea in una dimensione di lucida comprensione per poi richiudersi nella dimensione del presente vissuto, carico ora di una nuova e sempre dolorosa consapevolezza.
Il primo racconto, dal titolo “Nessuno riderà” ne è un esempio bellissimo ed emblematico. La situazione rappresentata finisce col restituirci quel famoso “sentimento del contrario” che come teorizzò efficacemente Pirandello è la matrice di ogni umorismo.
Comico in questa accezione e di più ridicolo, è il primo amore ingabbiato da un’atmosfera di sospetto e di persecuzione a causa di un evento tanto fortuito quanto distruttivo. Un docente universitario, braccato da un ammiratore che gli chiede un parere favorevole al fine di spingere la pubblicazione di un suo scritto, non capace di rifiutarglielo esplicitamente- lo trova non tanto uno studio quanto uno scritto compilativo- crea una menzogna che sconfina in diffamazione generando un effetto a catena che culmina nella dissoluzione della sua vita di coppia. È il racconto per me più intenso e riuscito. Molto interessanti comunque anche gli effetti prodotti da “Il falso autostop” con il quale il narratore ci trascina dentro il gioco di una coppia di amanti che non riescono a gestire la farsa da loro messa in scena il primo giorno di vacanza. Il rapporto d’amore è fragile, gioca su delicati equilibri e inevitabili accomodamenti, non sfugge al tema della doppiezza umana e della conseguente maschera. A questa percezione si accompagnano via via che ci si addentra nella lettura, piacevolmente incuriositi, i temi che poi avranno uno sviluppo ben più argomentato nel suo romanzo più famoso: fugacità della vita, irripetibilità di ogni suo attimo, incapacità umana di capire il presente, affermazione dell’io ( maschile e femminile) tramite la sfera sessuale, ricerca costante di affermazione individuale. Gli esiti non sono sempre corrispondenti al mio gusto personale ma la lettura è gradevole e consigliabile.
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Il valzer delle attribuzioni
Una persona che non mi conosce e che il caso ha voluto farmi incontrare, facendo scattare un’immediata simpatia e cordialità reciproca, mi ha regalato due libri. Il primo è stato una sua raccolta di poesie, l’altro “L’insostenibile leggerezza dell’essere”. La dedica del primo recitava: “...hai un’aria da insostenibile leggerezza dell’essere”. Quando gli ho confidato di non averlo mai letto, ha provveduto a regalarmelo benché gli avessi detto di possederne due copie.
Ma allora cosa significava quell’affermazione corredata da tale citazione letteraria?
Non lo so e certo la lettura del libro non aiuta a leggere una percezione che però mi aggrada cucirmi addosso. Sarà l’accostamento dei termini INSOSTENIBILE e LEGGEREZZA? Sarà l’attribuzione di pesantezza insita nell’aggettivo? Sarà la rinnovata verve semantica che quell’accostamento produce nel concetto di leggerezza? Mi piace, mi è sempre piaciuto questo titolo anche grazie a Venditti che lo amplificò in musica negli anni ’90 quando l’eco del libro scritto nell’82 e pubblicato in Italia nell’84 era ancora forte. In realtà non si è mai spenta, il titolo tuttora molto conosciuto, l’opera gode di numerose ristampe e viene letta. Certo la lettura nel 2015 produce effetti, presumo, notevolmente distanti da quelli che ne hanno siglato il successo negli anni ’80 e presumo ancora che questo sia dovuto all’effetto del tempo e al mutato scenario storico-politico. In un presente in cui Boemia è sinonimo di una Praga rivalutata dal punto di vista turistico e da cui si può percepire il fantasma della sua storia attraverso le famose finestre del castello o di fronte alla lapide di Jan Palach, se non si è vissuta l’epoca è allora difficile ritrovarla. Se non si è cresciuti con le ideologie politiche ma in assenza di ideologie e in presenza di tanta pseudo- politica, è complicato trovare aderenze.
L’opera però è lì e la sua contestualizzazione storica è necessaria. La stessa biografia di Kundera è un invito. Nato nel ’29, è stato emarginato nel ’48, riabilitato nel ’56 e di nuovo allontanato dal partito comunista quando prese parte alla “primavera di Praga” . Perse il lavoro per questo fatto e dal ’75 risiede in Francia. Gli eventi della sua vita coincidono con quelli delle esistenze dei protagonisti del romanzo: Franz e Thomas, Sabine e Teresa, due uomini e due donne, aldilà dei loro intrecci amorosi. Così li vedo, non tanto coppie. Tomas ama Teresa ma incontra Sabine, Franz ama Sabine ma lei si allontana da lui.
C’è l’invasione, c’ è l’esilio volontario e c’è il rientro nella patria assediata, c’è la ricerca di identità, di un valore, di una collocazione come cittadino, come uomo, come essere. Il libro è diviso in sette sezioni che progressivamente hanno prodotto in me un valzer di attribuzioni.
Partita da una attribuzione di pesantezza tematica e concettuale, mi sono dovuta ricredere: è falsa. In itinere si è formata l’impressione (trova ampia ed esplicita conferma nella sezione quinta) che l’opera sia basata sull’attribuzione di leggerezza alla Storia, mentre cercavo di capire se dare a mia volta un’attribuzione di piacevolezza. E qui arrivo: l’opera è bella, secondo il mio gusto, la mia predisposizione personale, la mia formazione.
Ondeggiando su assunti filosofici di immediato recupero mnemonico, con uno stile trasognato e una forte influenza onirica, nonché con una lieve e piacevole connotazione erotica, presenta una serie di riflessioni sull’amore, sul dovere, sulla libertà, sull’esclusività dell’esistenza. Cresce lentamente raggiungendo i vertici del suo climax ascendente nelle ultime sezioni - più connotate dal punto di vista storico e umano- laddove le prime apparivano più incentrate su volgari intrecci sessuali.
Il suo valore, a mio avviso, è nella riflessione puntuale e precisa che porta a fare sul rapporto d’amore e sui sentimenti dell’animo umano. Si conferma insomma l’interesse dell’autore per la tematica già abilmente indagata in “Amori ridicoli” di molto precedente.
Ho un’aria da insostenibile leggerezza dell’essere?
Forse sì, come tutti del resto.
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Sospensione di giudizio
Data alle stampe nel 2004, l’opera ha contribuito notevolmente a far conoscere un’autrice che era stata già toccata dal successo dovuto alla pubblicazione delle sue opere, ma che per contingenze strettamente legate alla sua identità, all’orribile periodo storico che le fu concesso vivere, al suo essere donna e di talento, conobbe- ancora in vita- l’oblio, la dimenticanza e l’indifferenza. Ciò che ha creato prima di morire, vittima anch’essa della persecuzione nazista, con l’anima straziata dal timore per il destino delle proprie figlie, le ha restituito la dovuta visibilità ai giorni nostri.
Leggere le sue opere può far correre il rischio di sopravvalutarne l’esito quando ci si fa impressionare dalla vicenda biografica e questo, a maggior ragione quando si legge questo romanzo incompiuto e sospeso dal rapimento e dall’omicidio della sua autrice. Questo è il triste destino di uno scritto che ci viene consegnato per volere delle sue figlie le quali, contemporaneamente, rendono pubblici anche corrispondenza privata e appunti legati al disegno dell’opera e alla sua stesura. Il manoscritto vergato a mano oltre che incompiuto presenta le caratteristiche di una bozza non revisionata, risulta quindi molto difficile darne un giudizio in termini di stile, contenuto e anche di piacevolezza. Se non si ama il finale aperto, se non si accetta l’incompiutezza, può risultare molto ostico goderne. Se si è spinti dal desiderio di conoscerne il contenuto per i motivi più vari, consapevoli di questo limite, si può invece gustare l’opera traendone comunque un arricchimento in termini culturali.
Premesso questo, personalmente mi sono accostata all’opera dopo aver letto altri romanzi dell’autrice, non tutte apprezzati in egual modo; ciò che amo e ricerco in questa autrice è la limpidezza dello stile, la sua crudità e l’assenza totale di ipocrisia nella rappresentazione dell’animo umano. Alcune sue pagine sono talmente pungenti da risultare respingenti, caustiche, cattive oserei dire, eppure mi ritrovo sempre a riconoscerle una grande abilità nell’investigazione dell’animo umano e nella sua rappresentazione così come mi cattura quando coglie quella sfumatura che sta in bilico tra un sentimento negativo e uno positivo e permette di redimere ognuno di noi nella vasta gamma di emozioni che sorprendono, lacerano, arricchiscono il nostro animo facendolo maturare giorno per giorno. Amo inoltre le sue descrizioni, l’intercalare nelle pagine della bellezza del creato, la capacità di restituirci con storie più o meno gradevoli la sua storia, la sua identità.
Venendo a “Suite francese”, posso affermare di aver assistito ad una rappresentazione teatrale interrotta al secondo atto, il sipario è calato per cause di forza maggiore e di quella rappresentazione non potrò goderne mai più se non, di nuovo, per i primi due atti. Seguendo il suggerimento offerto dal titolo potrei allo stesso modo asserire che la sinfonia si è interrotta e che la musica d’insieme mi ha lasciato il canto del popolo francese. Quanto fu caustica la rappresentazione dell’ebreo, tanto è equilibrata quella del francese, un popolo che subisce un ‘invasione dal nemico storico a cui non ha ancora perdonato Sedan, un popolo che è rimasto schiacciato dalla sua stessa storia, monarchica, rivoluzionaria e anelante alla democrazia, passando anche per la Comune, tentando la repubblica e intervallandola con l'impero. Il punto di vista è quello di un popolo, che al di là della sua identità e nella limitatezza della sua dimensione umana, subisce un’invasione e va allo sbando, perdendo la sua umanità, ritrovandola, ricercandola nel popolo invasore.
Ho apprezzato molto il movimento veloce, caotico, dispersivo di “Tempesta di giugno”, ho risentito della lentezza di “Dolce”, ho assaporato i primi ricongiungimenti degli elementi isolati di quello che è stato pensato come un movimento di più ampio respiro, ho avvertito il dolore di una scrittrice che in presa diretta salvava il salvabile in un tempo e in un luogo che non erano più i suoi. Ho respirato la forza catartica della scrittura e non sono riuscita a leggere la realtà nuda e cruda dell’appendice offerta dall’edizione Adelphi. Sommariamente so che cosa c’è scritto in quelle corrispondenze private, nello strazio del marito, nella secchezza delle risposte, ma mi sono fermata. Penso che se il suo destino fosse stato un altro, l’opera avrebbe risentito, rispetto al disegno iniziale,dello sviluppo di quegli eventi che la sua autrice non ha saputo o voluto presagire perché la cattiveria umana è andata ben oltre ogni possibile immaginazione.
Immagino, nonostante tutto un’opera corposa, gradevole ma stavolta a lieto fine.
Ha vinto invece, la realtà.
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Il diavolo, l'amore, la morte e l'inverso
Storia ambientata in un sanatorio, prevalentemente. Incuriosisce subito la coincidenza e tematica e cronologica con altre due opere, la prima- che coinvolge anche l’altro rimando- ci riporta a “La montagna incantata”, la seconda a “La veranda” di Satta. In questo caso la coincidenza cronologica ha la sua ammaliante fascinazione: Gesualdo Bufalino , già sessantenne è convinto alla sua prima pubblicazione e questa riscuote subito immediato consenso, siglato anche dal Premio Super Campiello (1981), mentre in Sardegna fra le carte di un noto giurista morto di recente si scopre, confuso e celato, un manoscritto, prima opera rifiutata all’esordio come proposta per concorrere al Premio Viareggio. L’ambientazione è la stessa, la tematica giocoforza coincidente.
All’inizio del Novecento la tisi popolò dunque anche nei romanzi e i luoghi destinati alla cura elioterapica entrarono di prepotenza nelle pagine più belle della letteratura, possiamo essere nel sanatorio di Berghof nelle Alpi svizzere di Davos con Thomas Mann, oppure nella nostra Merano con Satta o ancora sulle alture di Palermo con Bufalino. Nei tre scritti il luogo è emblematico anche se solo con Mann viene amplificato allo scenario naturale circostante in modo più suggestivo.
Il tratto distintivo del romanzo in questione è altro, è evidente e va ricercato già nel titolo e nell’amplificazione semantica contenuta nel lemma “diceria” il quale può essere inteso come “discorso per lo più breve detto di viva voce, poi anche scritto e stampato...Di qualsiasi lungo dire, sia con troppo artifizio, sia con troppo poca arte...il troppo discorrere intorno a persona o cosa...”(TOMMASEO- BELLINI).
A quale rivolo interpretativo concedersi è già la prima sfida, sì perché leggere questo scritto è una sfida bella e buona, soprattutto quando si impatta per la prima volta la scrittura del siciliano permeata di un tono alto, lirico, studiato, complesso e perverso. È noto il lavoro di lima condotto incessantemente dall’autore ( l’edizione Bompiani da me letta offre in appendice epigrafi, versi, epitaffi, chiose integrative ad uso del lettore espunte tutte dal testo ultimo) e il carattere ermetico di un linguaggio che nutrendosi di un vasto corredo poetico, invita ad una lettura amplificata nel senso, da sciogliere come i termini di paragone dentro una metafora. L’impatto iniziale è ammantante, il lessico si amplifica verso lemmi mai uditi ( il vocabolario è d’obbligo a più riprese), il cervello sussulta, la trama abilmente si apre.
Di che parla dunque questo libro? Chiediamolo all’untore, a colui che giovane fatta esperienza di guerra e di successivo internamento in sanatorio, si ritrova a essere depauperato di parte della vita quella coincidente con i più begli anni, quella parallela al fiorire degli istinti e delle bramosie e al maturare di sentimenti profondi.
Il consorzio umano si riversa in un luogo finito contrapposto all’infinito del mondo fuori e le relazioni di base a tre figure : un antagonista in amore ( il mefistofelico dottore, “Il magro”) , una donna da amare ( Marta), un prete (Padre Vittorio). Tra i due giovani si intreccia una relazione amorosa corrosa e ammorbata in cui amore e morte si intrecciano nel mirabolante gioco dell’omissione, paradigmatico di temi quali l’olocausto, inteso come sacrificio, la malattia con il suo compagno di sorte che è lo stigma, la libertà e la privazione della stessa, il sogno. Ho enumerato solo quelli che mi hanno maggiormente colpita, in ogni caso l’opera offre anche la guida-indice dei temi e sono molto più interessanti proprio quelli che ho omesso.
La vicenda vive infine di un bellissimo finale che scioglie le relazioni umane e che riporta mestamente l’individuo alla sua individualità.
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Satta
il sogno di un romanzo
“Questa è una storia di gente viva,
viva davvero, intendo.
È la storia di una Nazione che è morta,
morta sul serio, voglio dire”.
Iniziare un libro con questa premessa è stato per me molto accattivante: si ha l’ aspettativa che un romanzo con un titolo così importante aiuti, attraverso una storia, o si spera attraverso la Storia, in questo caso d’Italia, a orientarsi tra le contraddizioni del nostro presente.
Mi ritrovo a leggere una storia personale che, prendendo l’avvio da un lutto recente, ripercorre la storia di una famiglia proletaria e con essa di una terra, la Liguria, che non fatica a travasarsi in Italia intera.
Leggo insomma la storia di Maurizio Maggiani e con la sua la mia: terre diverse, nomi diversi, un padre e una madre però incredibilmente uguali ai miei, non tanto nella loro storia individuale che in quanto tale, altro da sé non può essere, quanto nel loro ruolo, nella loro vita, nelle loro ambizioni, nella loro crescita, nelle loro evoluzioni e involuzioni. La storia della famiglia è davvero gradevole e presenta personaggi interessanti sotto il profilo umano, il figlio che scrive mi pare invece controverso: di squisita ironia, mi ha fatto sorridere in più frangenti, alcune volte sopra le righe e perennemente adirato (?) per cui i concetti vengono sostituiti da più facili - e di impatto - parole sconce, altre volte un po’ troppo autocelebrativo, involuto in se stesso e perfino ambizioso.
Vuole scrivere il romanzo della nazione e “Il romanzo della Nazione” diventa la cronistoria di questo suo tentativo che io, personalmente, mi aspetto erompa da qualcuna delle trecento pagine, prima o poi. Quando penso di esserci finalmente arrivata, la delusione è grande nel capire che mi si offrono i tentativi fatti nel tentativo di scriverlo! Da allora in poi mi trascino nella lettura e neanche il Risorgimento italiano o la Belle Epoque o la storia dell’Arsenale Militare di La Spezia mi incuriosiscono più.
Opera pertanto difficile da catalogare, manca la prospettiva del romanzo, manca la prospettiva della storia, tutto è accennato e riversato in queste pagine di cui ho apprezzato solo i ritratti di famiglia, belli e veri.
La funzione di bussola, di cui accennavo all’inizio, ovviamente non sussiste e forse era questo l’intento.
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- sì
- no
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