Opinione scritta da Mian88
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Fiamme su Berlino
«Allora l’amarezza e il dolore gli allagano il cuore, mentre comprende la verità. Questo incendio non è solo l’inizio, ma la fine.»
È nella notte che è andato a fuoco un negozio, l’attività di una vita di un individuo colpevole di essere ebreo. Peter Rach, che è l’uomo più abitudinario di sempre e che nella vita ha imparato che la logica e l’istinto da soli non bastano, sta tornando a casa dopo una notte di lavoro in quel di Vienna quando prende consapevolezza dell’accaduto. È un attimo a cui ne susseguono altri ma che lo segnano e accompagnano rappresentando quasi un preludio di quel che a breve lo avrebbe atteso in quell’appartamento che fino a pochi mesi fa stava occupando con lei, la sua amata Rosa. E talvolta sono gli attimi quel che fanno la differenza. Una melodia, un capello non al suo posto, un pianoforte occupato da una persona che non è lei ma che a lei è vicino da sempre; da una persona, l’ispettore Karl Julian, che lo riporta alla verità. Rosa non ha potuto dimenticare i fatti di Monaco, non ha potuto – e non può permettere – che il regime continui ad avanzare, non ha potuto non unirsi alla Resistenza per cercare di dare il suo contributo. Anche se questo ha significato separarsi da Peter, o meglio, da Sigfried Sauer l’ormai ex commissario nato dalla penna di Fabiano Massimi che abbiamo conosciuto ne “L’angelo di Monaco” e di cui “I demoni di Berlino” è il naturale e consequenziale seguito.
Rosa che ha conquistato il cuore dell’uomo e che con lui è fuggita è però scomparsa. Non si è presentata all’appuntamento concordato e di lei si è persa ogni traccia. Che sia diventata ostaggio del nemico? Che sia morta? Oppure, forse, c’è ancora una blanda possibilità che ella sia in vita? C’è soltanto una persona che può ritrovarla e quella persona è Sauer. La donna ha infatti lasciato un messaggio in codice per lui. La partenza è rapida e immediata, Peter/Sauer insieme a Julian non sono però diretti a Monaco. Questa volta la scena si sposta in quella che è la capitale del regime, Berlino. Ed è qui che le vicende prendono campo in un susseguirsi di azione e adrenalina che nulla risparmia al lettore. Perché pagina dopo pagina quest’ultimo è catapultato per mano in un titolo intriso di suspense, emozione e colpi di scena che ben mixano gli elementi canonici del thriller, del poliziesco e del romanzo storico. Il tutto tra una Berlino di opulenza e sfarzi, il nazismo che incombe e prende sempre più campo con tutte le sue restrizioni, una discriminazione razziale sempre più acuminata, un Fuhrer sempre più crudele e una Resistenza che non cede nemmeno di un passo a quell’ascesa che in qualunque modo deve essere contrastata anche correndo il rischio di compiere le stesse virulente e violente azioni del Nemico. Perché questo è l’unico modo per fermarlo, perché questo è il momento più propizio – e forse anche l’ultimo a disposizione – per fermarlo. Ma riuscirà la Resistenza nel suo intento? E cosa ne è stato di Rosa? Sauer riuscirà a ritrovarla e a fermare quell’incendio che anima i cuori e le anime dei tedeschi prima che sia troppo tardi?
«A volte deve essere il destino a scegliere per noi. Il destino, o il caso, o comunque uno si senta di chiamarlo.»
Avvicinarsi a un libro come “I demoni di Berlino” significa immergersi completamente in una lettura dalla quale è impossibile staccarsi. Pagina dopo pagina Fabiano Massimi trattiene, incanta, coinvolge, conquista. La sua prosa erudita e accattivante è musica che riecheggia nella mente, che canta al suo pubblico intonando una melodia che mai stona. L’opera è talmente appassionante e ricca di spunti di riflessione che nonostante le 443 pagine, e per quanto forti siano gli sforzi di rallentare nello scorrere per gustarsi con calma ogni sfumatura, si esaurisce in poco più di una giornata. La mente è e resta lì durante la lettura ma anche in seguito. Attendevo con ansia l’uscita di questo titolo tanto che non ho atteso un istante e lo stesso giorno del suo arrivo in libreria l’ho reso mio per rendermi conto, il giorno successivo, di averlo già concluso. Quale è stata la sensazione immediatamente provata? È stata una sensazione di appagamento mixata a un senso di vuoto, di nostalgia. Mi mancavano Sauer, Rosa e tutti i protagonisti conosciuti in questo viaggio che nulla risparmia e che assicura non solo un thriller ben riuscito quanto anche un esaustivo e soddisfacente approfondimento storico sia per gli appassionati del periodo che non. Sono passati molti giorni dalla conclusione della prima lettura e quel vuoto è rimasto, quella sensazione di essersi separati da amici unici e rari è ancora qua. Questo è per me sinonimo di componimento ben riuscito, di uno scritto che segna il suo conoscitore in modo indelebile, che lascia e marchia nell’anima.
«Mentre il treno sferragliava implacabile verso est, Sauer rimase a fissare il vuoto che si lasciava alle spalle, trovandolo uguale a quello dentro il suo cuore. La guerra non era mai finita.»
Fabiano Massimi torna in libreria con uno scritto che dimostra anche una sua grande maturazione creativa nonché stilistica. La penna è precisa, ricca, minuziosa, articolata ed è anche più sciolta rispetto che al precedente elaborato. Si evince il grande lavoro di ricostruzione storica celato dietro alle battute che ne caratterizzano lo scorrere ma anche all’arguzia di riuscire a proporre un fatto così rilevante per quello che è stato il nostro passato in modo tale da giungere con facilità a ogni tipologia di lettore. Al contempo i personaggi sono tutti ben delineati, sia i nuovi che i già conosciuti che tornano con tutte le loro più pregnanti caratterizzazioni.
Con “I demoni di Berlino” scopriamo di quell’incendio che consentì la nascita del Terzo Reich, l’impero ariano che doveva conquistare il mondo e durare almeno un millennio, scopriamo di quel Reichstag che dodici anni dopo simboleggiò la fine di quel dominio. Sono passati quasi novant’anni da quel rogo che segnò la svolta decisiva nell’ascesa nazista ma mai dobbiamo dimenticare quello che hanno significato quegli anni e quell’avvenimento. Perché, come ci ricorda e ammonisce, Fabiano, “il Reichstag bruciò in una sera, ma per spegnerlo occorsero dodici anni e sessanta milioni di morti. Oggi può sembrare una storia lontana, lontanissima, quasi ininfluente, eppure le sue fiamme continuano a covare sotto la cenere”. Non dobbiamo mai dimenticare, non dobbiamo mai abbassare la guardia. Ora e sempre. Buona lettura!
«Un fischio lugubre e disperato si levò in quell’istante dalla locomotiva, mentre il treno si gettava nel buio di una galleria, lunga, lunghissima, interminabile. Chissà quando sarebbero tornati a rivedere la luce.»
Misteri e verità
Tutto ha inizio con il desiderio di realizzare un sogno: scrivere. Scrivere quel libro da troppo tempo rimandato e al contempo consentire al marito, Massimo, di raggiungere quello scalino sociale in più, quella scalata di carriera tanto bramata. E poco importa se questo significa rinunciare a un lavoro sicuro, all’impiego che conduce da anni con certezza, abilità e competenza. Francesca è davvero sicura di aver trovato il luogo ove vivere felice con la sua famiglia composta, ancora, da due bambine tra loro diverse per età ma anche per carattere. Partono da Milano, i quattro, e con i migliori propositi raggiungono i Giardini di Roma, dove ad attenderli vi è un condominio anticipato da uno sfavillante cancello rosso. I vicini sono uniti come una famiglia, si aiutano a vicenda, sono solidali tra loro, i bambini giocano nel cortile, il pericolo non sembra esistere in questo luogo e al contempo non sembra contemplabile nemmeno l’ipotesi che i nuovi arrivati non si integrino in questo contesto sinonimo di pace e condivisione. È semplicemente il posto perfetto dove vivere, dove cambiare vita, dove ricominciare. Tuttavia, non è tutto oro quello che luccica. Tanti sono gli eventi che si susseguono in quella che è la quotidianità che si instaura, in particolare quella stessa casa con le sue ombre metterà in difficoltà la protagonista che tra vuoti di memoria, persone che parlano e poi scompaiono, bisbigli a cui è impossibile dare un nome, una confusione sempre più grande, rischierà di perdere la propria sanità mentale. A ciò si aggiunga un evento oscuro che colpirà il condominio e che riguarderà la misteriosa scomparsa di una bambina. E se questa bambina fosse una delle sue figlie?
«La mente è una montagna russa che ti porta dritto al cielo e giù nel buio quando vuole, una montagna russa posseduta da una volontà tutta sua che si muove, agisce e respira da sé, e vive. Ma Francesca non conosceva il buio. O lo conosci da sempre o non lo conosci più.»
Ispirato a fatti realmente accaduti, “Questo giorno che incombe” è un titolo che sin dalle prime pagine ricorda quella che è una sceneggiatura televisiva. Vuoi per l’impostazione e le origini dell’autrice, vuoi perché la narrazione è interamente strutturata in tal senso, l’impressione è lampante e vivida. Se dunque si è amanti del genere e di questo aspetto, è sicuro che il libro non mancherà di conquistare. Al contrario lascerà non poche perplessità. I capitoli, a riprova di ciò, sono brevi e caratterizzati da uno stile che ha quale obiettivo quello di condurre per mano in un viaggio nella psiche e nella mente umana. Il conoscitore è incuriosito dalle vicende e desidera conoscere della verità. Eppure, la sensazione che permane per buona parte della lettura è che la scrittrice abbia voluto far troppo mettendo cioè all’interno di un unico volume troppe tematiche e componenti (dalla depressione a seguito del parto, ai rapporti familiari, alla genitorialità, al mistero determinato dalla scomparsa di una minore, ad ambientazioni che vogliono somigliare troppo alle tipiche di King tanto da ripetere il classico cliché di una casa con voci inspiegabili e molto altro ancora) tanto da confondere, sfiancare e anche arrivare a chiedersi dove davvero voglia arrivare a parare. Sicuramente questa è anche una caratteristica dettata dall’essere altresì sceneggiatrice ma certamente influisce sulla piacevolezza della lettura che finisce con il rallentare, diventare farraginosa e rischiare di perdere di vigore. Tanti buoni presupposti di partenza per un componimento che convince soltanto in parte.
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Valentina & Oksana
Quando quella nube appare nel cielo non è altro che un mistero. Un mistero indecifrabile, che intimorisce ma che non sarà certamente niente di grave e a cui sicuramente gli operatori della centrale, tra cui anche i loro padri, troveranno rapida risoluzione. È questo che pensano Valentina e Oksana, due giovani nate da due famiglie molto diverse e con due storie all’inizio separate, che osservano dalle loro case l’esplosione nucleare di Chernobyl occorsa in quel del 26 aprile del 1986. Il loro sguardo è ignaro, inconsapevole. Sanno che qualcosa di oscuro e pericoloso si sta manifestando innanzi ai loro occhi, tuttavia, si fidano di quel che le istituzioni hanno loro garantito, si fidano di quegli uomini che lavorano costantemente all’interno della centrale e dei vari reattori. È più che altro un istinto, un istinto che pulsa e che chiede di essere ascoltato.
Non sono amiche le due giovani all’inizio dell’opera, al contrario. Provengono da mondi opposti, si sfidano nelle prove più audaci per la loro età, vivono in un contesto ove l’una è guardata con intolleranza e intransigenza dall’altra. Valentina è vista con sospetto dai suoi compagni perché di fede ebraica e questo è un aggravante ancora più pericoloso e lesivo negli anni dell’Unione Sovietica ove il sospetto regna sovrano e il pericolo del tradimento e dell’incriminazione sono circostanze all’ordine del giorno. Gli ebrei sono additati nei modi peggiori, accusati delle colpe più grandi e gravi, tra cui anche di arricchirsi alle spalle altrui ma sono anche operatori efficienti e competenti che trovano facilmente impiego nel nucleare. Oksana è tra coloro che sono diffidenti nei confronti di chi professa suddetta fede ma quando scoprirà di aver definitivamente perso il padre e che il suo cammino non potrà procedere con la madre perché contaminata, ecco che allora il suo destino si congiungerà con quello dell’altra sino a percorrere quel lungo viaggio in treno atto a raggiungere la nonna di questa in una terra lontana alla ricerca di ospitalità. Anche la madre di Valentina non potrà unirsi a loro in questo tragitto a causa di prezzi esorbitanti del treno, a causa di misure restrittive finalizzate a tenere confinato quanto accaduto nella realtà di Chernobyl. A questa storia del tempo nostro più prossimo si congiungerà un alternarsi con un’altra storia appartenente a un tempo più remoto che ci permetterà di conoscere Rifka e di tornare agli anni in cui quella persecuzione degli ebrei era ininterrotta quotidianità. Il tutto, tassello dopo tassello, sino a ricongiungersi e ricomporre un puzzle uniforme.
“Blackbird. I colori del cielo” trae origine da una storia vera. Molti furono i ragazzi esiliati dalle famiglie per scampare al pericolo delle radiazioni, il Governo non fu in grado di elaborare un piano di evacuazione adeguato, il terrore che il mondo venisse a conoscenza del disastro era più grande di ogni altra necessità e impellenza (nelle note finali dell’opera sono presenti ulteriori chiarimenti su ciò). Il testo non è altro che la storia di due voci tra le tante che quel disastro lo hanno vissuto sulla pelle.
Il titolo, oltre che a ruotare attorno alla tematica principale dell’esplosione e a sensibilizzare in merito, ha però anche il grande pregio di far soffermare l’attenzione del lettore altresì sul pregiudizio e sulle falsità che spesso dilagano quando viene scelto un nemico comune. Ciò accadrà per mezzo della voce di Oksana che, se all’inizio verrà offuscata dal volto e dalla presenza di Valentina, successivamente prenderà maggior campo, spessore e consapevolezza finendo con il diventare la portavoce dell’importanza della tolleranza, della ricerca della verità, della lotta alle falsità e alle ignoranze.
Nel complesso il volume si presta a una lettura rapida adatta non soltanto al pubblico dei più giovani, come consigliato da catalogazione, quanto anche ai più adulti che amano la problematica e desiderano avvicinarvisi per la prima volta. Lo scritto, infatti, non va molto oltre a quello che è l’approfondimento per chi già conosce la circostanza e chi già ha una infarinatura dei fatti, tanto da soddisfare in maggior modo il palato di chi avendo meno dimestichezza con il quanto narrato tende ad avvicinarvisi come neofita. Ciò accade anche perché l’autrice ha voluto con le sue parole parlare pure di una storia di amicizia e sensibilizzare su più aspetti. Lo stile è pulito, semplice, non particolarmente erudito. Una lettura piacevole, rapida, da scoprire. Una buona prova, seppur non indimenticabile, tra le letture di questo genere.
«Qualcosa si sciolse nel suo petto, come una fascia che si era allentata. Per la prima volta dall’esplosione, si sentì come se potesse respirare di nuovo. E anche se non capiva perché si sentisse in quel modo, ne era contenta.»
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Riconoscere il padre
«I saggi sostengono che niente ha senso. Gli innamorati possiedono una saggezza più profonda dei saggi. Chi ama non dubita un istante del senso delle cose.»
Siamo a Reno, Nevada, è il 1994. Joe Whip ha quattordici anni, quasi quindici. Non conosce il proprio padre e di fronte all’ennesimo fidanzamento della madre viene messo alla porta perché ormai divenuto di troppo. Ama la magia, ha mani d’oro e perfette per l’arte della prestigiazione. Sarà proprio grazie a questo che conoscerà Norman Terence, il più abile fattucchiere della zona, innamorato e accompagnato alla bella Christina. Norman decide di prenderlo in casa e di erudirlo all’arte del trucco, di perfezionarlo in quel che già conosce. Lo prende in casa e lo tratta come un figlio, un figlio che non può far a meno di amare anche quando l’inevitabile infatuazione per la donna subentra, anche quando il gioco d’azzardo lo affascina e attira senza sosta, anche quando il padre finisce con l’essere ricusato dal figlio.
«Non posso fare altrimenti. I figli che non vengono riconosciuti dal proprio padre ne soffrono. Ma esiste una sofferenza più grande: quella di un padre che non viene riconosciuto dal proprio figlio.»
Ma non è solo questo “Uccidere il padre”. Perché oltre che a trovarci di fronte a un titolo intriso di filosofia e di riflessioni sulla genitorialità e sul rapporto tra un padre e un figlio, un figlio e un padre, la Nothomb si interroga e ci interroga sul vivere, sui rapporti umani, sulle privazioni, le tentazioni, gli errori, i sogni, le illusioni e le disillusioni e anche sulla crudeltà. Non manca il risvolto e lo smacco finale, non manca la domanda che accompagna il lettore per tutta la narrazione alla ricerca di una risposta. Chi è davvero il padre? Chi è davvero il figlio? Deve il padre accettare il figlio come il figlio accettare e riconoscere il padre?
Un titolo diverso dal solito, un libro che nella sua parte iniziale non sembra nemmeno essere dell’autrice Belga, forse meno originale di altri ma estremamente piacevole, riflessivo e duro nella sua morale e nella sua riflessione intrinseca.
«[…] Il nostro primo pubblico siamo noi stessi, dal momento che ci si esercita davanti allo specchio. E le ore che passiamo da soli davanti alla nostra immagine ci regalano l’umiltà.»
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Un vuoto da colmare, una colpa che pulsa
«Oggi ho bisogno di andare a fare rifornimento di oggetti. Gli oggetti conferiscono l’idea più solida di immortalità che ci sia concessa. Dicono sottilmente: hai ancora così tanto da vivere che ti conviene fare più spesa che puoi perché domani non ti debba mancare niente. E ti convincono che quel domani esisterà sempre.»
La perdita subita da Bianca non ha contorni e non ha certezze. È un dolore atavico che si perpetra nel tempo e si porta avanti senza sosta e senza confini negli anni che passano e nei giorni che si susseguono. È ancora bambina quando ella perde la sorella amata Stella, una bambina che ammira quel modello di giovane donna che ha davanti e che non riesce a convivere con un senso di colpa e con tutto quello che si scatena dopo la sua prematura dipartita. Non ha gli strumenti, Bianca. Non ha i mezzi per affrontare il rovinare di una famiglia, il suo disintegrarsi, quell’effetto a catena che comporta il dover andare avanti quando avanti è impossibile andare, quando andare avanti è impossibile da concepire. Adesso Bianca è una donna adulta, legata al suo compagno da molti lustri e con un piano ben preciso da attuare per colmare quel vuoto che si è creato, un piano che va oltre ogni ragione e che deve essere raggiunto a prescindere da tutto e da tutti. Ma è possibile ciò? Può davvero la donna realizzare quello che è il suo obiettivo quando per realizzarlo deve andare contro la natura e mettere in discussione la sua stessa vita? Può così estirpare quella che crede essere la sua colpa? Può così colmare quell’amore che manca e che chiede di essere riempito?
«Quarta tecnica di persuasione, la più importante. La reciprocità. Quando diamo qualcosa a qualcuno quel qualcuno si sente in dovere di ricambiare. Il senso di colpa è il motore più potente di qualunque azione umana, e non c’è bisogno di frequentare i corsi di comunicazione per saperlo.»
È da questi brevi assunti che ha inizio “Il valore affettivo”, opera a firma di Nicoletta Verna, vincitrice della menzione speciale della Giuria al Premio Calvino edizione 2020. È un titolo che nel suo essere porta l’attenzione del lettore a focalizzarsi sul senso del bisogno, su quel tassello mancante dato dalla perdita generata da una scomparsa prematura, al desiderio, ancora, di colmarlo quel vuoto e quel bisogno incessante che pulsa e batte e pullula e chiede di essere saziato. Il lettore è condotto per mano in quelle che sono le scelte della protagonista e anche in quello che è il suo percorso di tentata redenzione da una colpa che sente gravare sulle sue spalle. È condotto e trattenuto anche quando sente che quelle scelte non sono condivisibili. Ed è questo scuotere l’anima, questa necessità di interrogarsi e interrogare, questo bisogno di capire che invita il conoscitore a porsi domande e a cercare risposte.
L’opera, dunque, raggiunge il suo obiettivo dal punto di vista del messaggio e da quello del contenuto ma pecca, in parte, dal carattere stilistico. Per quanto precisa e minuziosa, curata ed erudita, la penna della Verna affascina ma al tempo stesso respinge. Il senso, durante la lettura, è quello di non arrivare mai. Per quanto sia intuibile cioè lo scopo, la necessità di catarsi, chi legge non riesce a fare a meno di chiedersi quando si arriverà al dunque essendo l’impressione quella di girare su se stessi senza mai davvero riuscire a sviluppare in modo completo il testo. Ciò non va a pregiudicare l’essenza del libro quanto, al contrario, la piacevolezza della lettura che subisce dei rallentamenti, che a tratti diventa farraginosa, che a tratti perde di quell’intensità che al contrario un volume con questo tema per sua natura ha. In conclusione, un buon titolo, un buon inizio ma che lascia qualche perplessità.
«Credevo che la delusione fosse un’onda che ti si infrange addosso e tutto intorno si infrange con lei, mentre non è che una piccola lametta infilata fra le tue convinzioni, che bene o male trova il suo posto e smette quasi subito di fare male. E non sapevo che fossero così facili a crollare, le convinzioni. Non credevo potesse essere così ininfluente, la delusione.»
Gioco di specchi
«Quello che nessuno ha detto al processo, ma che abbiamo avvertito tutti, è quanto ci odiano. Se chi è bene in carne può anche suscitare simpatia, gli obesi sono odiati. […] La verità è che siamo i peggiori tossici della terra. Il cibo in alte dosi è una droga più pesante dell’eroina. Strafogarsi è un trip garantito, si hanno sensazioni incredibili, pensieri indescrivibili.»
Tutto ha inizio per caso, tutto ha inizio con il sopraggiungere di una epistola da parte di un soldato di stanza a Baghdad. Il suo nome è Melvin Mapple ed è un giovane che ha prima di tutto bisogno di un po’ di comprensione. È in Amélie Nothomb che cerca questo senso di condivisione e apprezzamento, questo ponte di comunione che possa dargli pace. Perché da quasi un decennio l’uomo si trova sul fronte e, come molti altrui suoi commilitoni, ha maturato una predilezione per l’alimentazione che lo ha portato all’obesità. Lui che è sempre stato un giovane magro e abituato a camminare per le strade d’America con nulla o poco più alla Jack Kerouac, lui che ha provato sostanze di ogni genere, è adesso vittima di un trip superiore a quello di qualunque eroina: il cibo. Non può sottrarsi a questo, il suo corpo per tale e siffatta ragione persiste a ingrassare e continua ad assumere forme e dimensioni sempre più spropositate che non consentono alternative o attenuanti. Ecco allora che ha inizio una interessante corrispondenza epistolare tra lettore dalle forme rotonde e scrittrice dall’occhio acuto, per colmare un vuoto, da un lato, per una naturale e costante predilezione alla gentilezza e all’ascolto, dall’altro. Ma qual è il confine tra finzione e verità? Quale atto di coraggio vi è dietro la fiducia che si cela dietro la parola scritta da un uomo sconosciuto e del quale alcunché è noto? E quanto ancora il tema della disfunzione alimentare può portare a riflessioni sottese relativamente alla tematica alimentare ma anche alla diversità e al diverso?
«È molto difficile capire quando fermarsi. È sempre il famoso problema della frontiera: l’altro attraversa la nostra vita, e bisogna accettare che possa uscirne con la stessa facilità con cui ci è entrato.»
Con “Una forma di vita” Amélie Nothomb dona ai suoi lettori un titolo molto particolare che non può annoverarsi tra i più indimenticabili ma che comunque lascia il segno. In particolare, ciò accade non solo per le problematiche trattate ma anche per lo stile narrativo che si rinnova proponendo una forma nuova rispetto alla canonica forma dialogica che le appartiene e più precisamente parliamo dell’epistola. In questo titolo è infatti questo il primo elemento che colpisce e che solletica il conoscitore. A questo primo elemento si aggiunge il tema dei soldati americani e di questa loro propensione all’ingrassare effettivamente riscontrato negli anni del conflitto. La Nothomb trae infatti spunto da un articolo realmente letto in merito e che appunto denunciava questo fatto. Tornando all’epistola questa si esprime e propone con precisione e bellezza a chi legge che viene rapito dallo scambio e al contempo dallo stesso arricchito.
Lo sviluppo è lineare, logico e consequenziale. Non manca il classico smacco nella narrazione e nemmeno un finale che, per quanto ai limiti del surreale, ci riporta alla filosofia altro carattere proprio della belga. L’epilogo ci lascia innanzi a un’apertura e a un quesito che resta in sospeso e lascia in sospeso. Un perfetto gioco di specchi in un ben architettato gioco di specchi.
«Tu lo sai: se scrivi ogni giorno della tua vita come un’indemoniata è perché hai bisogno di un’uscita d’emergenza. Essere uno scrittore per te significa cercare disperatamente la porta d’uscita. Una peripezia che devi alla tua incoscienza ti ha permesso di trovarla. Una peripezia che devi alla tua incoscienza ti ha permesso di trovarla. […] E la tua vita impossibile sarà finita. Ti sarai liberata dal tuo principale problema. Te stessa.»
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Aba/Ice
Secondo capitolo delle avventure di Aba Abate, personaggio ideato dalla penna di Roberto Costantini e nato in “Una donna normale”, “Una donna in guerra” ci mostra il volto di una donna che è madre, moglie e spia. Ella si trova di fronte a una vita alla deriva, dove le difficoltà sono molteplici e che deve fare i fronti con il senso del tradimento. Perché Ice e Aba sono due volti della stessa persona ma questa maschera inizia a presentarsi con le sue crepe e diventa sempre più difficile riuscire a mantenerla integra. La guerra persiste, è ovunque e ovunque resta.
Una spy story che si svolge tra Italia e paesi arabi, che muove le sue fila da un attentato terroristico, che si snoda in tre filoni narrativi che in perfetto stile Costantini si sviluppano in parallelo su più archi temporali che portano alla luce il volto del nostro paese e dei suoi retroscena. Per chi conosce l’autore non mancano nemmeno riferimenti a Tripoli.
Il libro scorre bene, si fa leggere con rapidità, attira e incuriosisce nella sua prima parte ma al contempo tende a perdersi e a risultare ridondante tra descrizioni eccessive e concetti ripetuti quasi fino allo sfinimento. Un titolo piacevole ma non indimenticabile, un titolo con i suoi lati positivi ma che lascia anche molti dubbi e perplessità tanto da non convincere pienamente.
Amicizia
«Inspiegabilmente, alla fotografia si associa l’idea dell’immortalare, ma è un modo di dire sbagliato, non c’è nulla che più della fotografia, in un modo o nell’altro sempre vincolata all’attimo e al presente, ci ricordi la nostra transitorietà e futilità.»
Quella proposta da Emanuele Trevi è prima di tutto una storia d’amicizia che si dipana sull’intreccio di tre vite e più precisamente quella dello scrittore e dei due amici Rocco Carbone e Pia Pera. È uno scritto breve, quello del candidato Premio Strega, che riparte dagli anni del passato, dai primi contatti del terzetto, degli scontri e incontri di questo. Rocco Carbone, personaggio al quale viene dedicata la maggior parte del componimento, è la figura al tempo stesso più controversa e interessante. Quest’ultimo è insegnante e scrittore, è una figura affetta da disturbo bipolare, amante delle relazioni e al contempo vittima di quegli sbalzi umorali propri della malattia. Al contrario, Pia è una donna dalla grande sensibilità e il cui animo poetico prevale su tutto e tutti. Trevi non fa altro che narrarci di queste due realtà, di questi due specchi, di queste due anime a confronto e lo fa mantenendo sempre e comunque un certo distacco dal lettore quasi, talvolta, semplicemente limitandosi a ricostruire e a ricomporre senza lasciarsi cioè andare al sentimento. Soltanto nel momento in cui emerge della confessione di uno screzio con Rocco e da qui del rimorso nei suoi confronti conosciamo della sua sfera più intima e personale, delle sue impressioni sull’amico, per il resto l’esposizione si svolge con “freddezza” e allontanamento. Osserva Emanuele, osserva, ricorda e riporta.
«E dunque la letteratura, se ne parla di una malattia, non potrà che trasformarla in una malattia senza nome, l’unica che si possa commisurare degnamente a quell’irripetibile intreccio di destino e carattere, contingenza e necessità che dà vita a un personaggio.»
Questo è da un lato il carattere forte e debole dell’opera. Perché se da un lato il lettore è incuriosito dalla ricostruzione, affascinato dalla storia di queste due anime che si uniscono all’amico comune, dall’altro rischia di esserne respinto perché non riesce a lasciarsi coinvolgere completamente a livello emotivo. A ciò si aggiunga la discrepanza tra personalità enunciate. Rocco è il personaggio prevalente con le sue sfumature e sfaccettature, è anche colui che più viene descritto in modo incisivo e che riesce a trattenere e incuriosire ma d’effetto porta a una Pia che è meno incisiva, fiacca, in battuta d’arresto e dunque meno coinvolgente. Come nella realtà, cioè, Rocco è la personalità che più spicca e che prevale, che più sa essere ingombrante. Un libro non per tutti.
«Anche nel giardino erano circolati dei serpenti. Perché le età della vita non si succedono, si accavallano.»
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Nives, Giacomina e il Bottai
«Se ne stette lì, dalla sua parte di letto, e lo capì subito: a chiudere gli occhi le prendeva qualcosa, come se la solita stanza potesse cambiare in altro durante il sonno. All’improvviso era inaccettabile che il mondo continuasse a fare da sé. E poi le pareva di avere Anteo proprio a spalla.»
Tutto ha inizio con il ritrovamento del corpo privo di vita del marito Anteo, uomo con il quale Nives ha trascorso tutta la sua esistenza e che mai si sarebbe aspettata poterla lasciare così presto. La donna, che ben pensa di potersela cavare da sola e di poter continuare con la propria vita, si rende conto di essere sempre più prossima all’abbandono e che se il giorno riesce a vivere quell’isolamento alla bell’e meglio, la notte proprio non riesce a sfangarla tanto da essere colta d’insonnia e angoscia. Proprio quando sembra essere ormai giunta alla fine e sembra aver abbandonato la sua pace ecco che la Giacomina, una chioccia, si palesa nella sua quotidianità riuscendo a farle quella compagnia tale da consentirle di riposare. La chioccia è una compagnia silenziosa ma pur sempre una presenza che riesce a colmare quegli spazi che altrimenti rischierebbero di restare vuoti. E poi, proprio quando la situazione sembra essersi placata e la Nives sembra essere tornata finalmente a riposare, ecco che la chioccia si imbambola innanzi alla pubblicità del Dash. Così, dalla detta alla fatta. Che fare allora se non contattare il Bottai, il veterinario del paese dedito alla bottiglia ma pur sempre esperto in animali e galline? Alza il ricevitore, compone il numero e ha inizio quella che sarà essere una telefonata lunga una vita perché partendo dal sinistro fatto occorso alla Giacomina ecco che i due ripercorreranno i fatti di una vita intera tra risa, aneddoti esilaranti, fantasmi di un passato pronto a riaffacciarsi nuovamente.
«Che ognuno scelga la solitudine che vuole. Anche darsi una spiegazione da pazzi fa compagnia.»
Con una penna rapida, magnetica, coinvolgente e diretta, Sacha Naspini fa destinatari i suoi lettori di un componimento che desta curiosità, che si presta a una lettura rapida e che si lascia letteralmente divorare. Dialoghi divertenti e pungenti, personaggi perfettamente caratterizzati, uno stile che si distingue, una storia che avvince. Il risultato è quello di un libro che fa sorridere, strappa grasse risate e dona ore liete seppur avendo anche il coraggio di toccare tematiche importanti e profonde.
«”Con il tempo ci siamo abituati.”
“Il tempo fa così, ingoia le cose.”»
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Maryam
«Mio padre non è riuscito a guardarmi. Lui diceva sempre che quando te ne vai è l’anima a restare. Diceva che l’anima non pesa niente, essendo di origine divina.»
È stato un attimo. Come un tuono che rompe la quiete portando tempesta, che spacca in due il cielo destando e lasciando ansia nel cuore. Le ragazze erano tutte insieme nel campo e non si aspettavano una irruzione di questo genere da parte di un gruppo di jidhaisti. Obiettivo principale di questi è rastrellare ogni villaggio nigeriano, siamo infatti in Nigeria, per reclutare ragazzi con la giusta età da impiegare in combattimento in cambio della promessa di grosse somme di denaro e, laddove questi non fossero stati trovati, sequestrando le ragazze, prelevate dalle loro famiglie e i loro affetti per essere confinate nella foresta Sambisa e qui istruite e convertite alla religione. Violentate nel corpo e nell’animo, private di quel che ancora di umano poteva esistere al mondo.
È qui infatti che le ragazze vengono schiavizzate, che vengono costrette ad appagare i militari vogliosi che le considerano meri oggetti privi di valore alcune e atti semplicemente a soddisfare i loro bisogni fisici, a svuotarsi, che vengono costrette a cucinare, pulire, a pregare quel Dio del quale non conoscono il verbo, a subire ogni forma di ingiuria e di vessazione.
Maryam non è immune da questa sorte. È tra queste giovani che vengono rapite e schiavizzate, è tra queste giovani che vengono violate per la prima volta e poi ancora e ancora fino a che non raggiungono l’età per essere mandate in moglie e procreare eredi da convertire al credo o uccise perché inutili al loro scopo. Ella finisce in moglie proprio a un militare, Mahmoud, dal quale darà alla luce Babby.
«Saprò mai il linguaggio dell’amore? Saprò mai di nuovo cos’è un focolare?»
Maryam riesce a fuggire dalla sua prigionia con la figlia e un’amica proprio quando la situazione sembra mettersi nel peggiore dei modi. Attraversando e vincendo le insidie della foresta raggiunge il villaggio natio dove tante cose sono cambiate nel lungo periodo della sua assenza.
Per Maryam sarà un percorso in salita, un ricominciare, un cercare di ricordarsi di vivere e non solo sopravvivere ma sarà anche un viaggio fatto di quella speranza di una vita libera da barbarie e torture. La sua famiglia la ritroverà spezzata, per molti sarà soltanto una moglie jihadi con quel lerciume della foresta ancora appiccicato sulla pelle, sarà semplicemente una reietta o ancor peggio una traditrice. Riuscirà a trovare il suo nuovo inizio? Riuscirà a far del male subito uno strumento con cui ripartire per il futuro?
«Mi avrebbero usato quella gentilezza? Avrebbero evitato d’inondarmi di domande perché, nonostante il sangue freddo e il bel vestito, ero fragile. In parole povere, disse, dovevano considerarmi una che torna alla vita con i passetti di una bambina.»
Con “Ragazza” Edna O’Brien dona al suo pubblico un libro forte, intenso, ricco di spunti di riflessione, mai banale e sempre intriso di profonde emozioni.
Lo stile narrativo è rapido, fluido, privo di fronzoli. È schietto e diretto, arriva diretto al lettore come coltellate e nulla risparmia di quel dolore provato, vissuto, inciso nella pelle e nell’anima. “Ragazza” è un libro che al contempo sa essere anche una testimonianza di uno spaccato di mondo ancora oggi esistente e brutale che nulla risparmia e che nulla consente a quelle vittime preda della legge del più forte.
Uno scritto che conferma le grandi capacità di una scrittrice prolifica negli anni e sempre attenta ai temi che più ci sono vicini.
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Ghetti dell'anima
Quando Vicente Rosengber arriva in Argentina correva l’anno 1929 ed era accompagnato soltanto da una lettera di raccomandazione di suo zio per la Banca di Polonia a Buenos Aires. Sono anni di povertà, di soldi che scarseggiano, di paura. Di paura perché il clima di odio e persecuzione è realtà e non più un timore. Eppure, anche questa nuova terra, sembra respingerlo e sempre per il solito motivo, perché lui è ebreo. Può cancellare il passato? Può ricominciare dal principio e vivere felice con la moglie e i tre figli che ora compongono la sua famiglia?
Gli anni sono passati ed adesso è il 1939. I tedeschi hanno invaso la Polonia, le lettere dalla madrepatria sono sempre più diradate. Sia quelle della madre che quelle dello zio. Le notizie sono preoccupanti, incalzano e sono portatrici di non liete novelle.
«Vedeva solo, ovunque, un vuoto inutile, oppure neve, altrettanto inutile.»
Ed è per mezzo della voce di quest’uomo che ne “Il ghetto interiore” – edito da Neri Pozza nel mese di settembre 2020 – viene ricostruito il volto di un secolo, il Novecento, per mezzo di alcuni degli avvenimenti più cupi e duri che lo hanno caratterizzato.
«Il muro che i tedeschi avevano appena costruito a Varsavia per segregare gli ebrei aveva delimitato un’area di poco più di tre chilometri quadrati nella quale dovevano vivere oltre quattrocentomila persone.»
Ed è per mezzo della sua voce che riviviamo quel conflitto per quella terra natia abbandonata, per quelle radici spezzate, per quella famiglia ormai distante sino a suscitare la riflessione proprio su questo senso di appartenenza e legame che accompagna ciascuno di noi e che eppure, può essere spezzato per necessità esterne, per timori e preoccupazioni che vengono imposti da un regime che ha quale unico obiettivo l’annullamento dell’identità e l’eliminazione del diverso.
Il risultato è quello di uno scritto di forte intensità e contenuto che ci permette di toccare con mano le sensazioni e il dolore del protagonista. Un romanzo storico di grande impatto, scritto con una penna fluida e accattivante, che ci obbliga a interrogarci e che ci chiede di trovare quelle risposte ai tanti perché che fanno parte della nostra vita.
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Il mio nome è Beth Harmon
«Qualcosa nella sua vita era stato risolto: conosceva i pezzi degli scacchi, sapeva come si muovevano e si catturavano, e sapeva come far rilassare lo stomaco e le articolazioni, delle braccia e delle gambe, con le pillole che le dava l’orfanotrofio.»
Beth Harmon ha otto anni quando perde i genitori in un incidente stradale e ritrovandosi orfana entra in orfanotrofio. Classe 1940 la giovane si trova a vivere in una realtà americana, quella tra gli anni ’50 e ’60, fatta di sconvolgimenti ma soprattutto in una società dove per tenere a freno i giovani urlanti si è soliti loro somministrare delle pillole verdi, dei tranquillanti che creano dipendenza e dai quali è sempre più difficile staccarsi. Beth matura nei confronti di questi una necessità impellente che nemmeno negli anni riesce a controllare, che nemmeno con il crescere riesce a frenare. Anzi, negli anni che passano a questa prima dipendenza si somma anche quella data dalle sostanze alcoliche. È l’incontro con gli scacchi grazie al custode Shaibel in quei giorni di orfanotrofio a portare alla luce il suo talento innato per gli scacchi. Poche mosse, poche lezioni, tanta osservazione e le sue capacità vengono a galla rendendola una bambina prodigio. Anche quando è costretta a smettere di giocare a causa di un fatto relativo ai tranquillanti, anche quando riesce ad essere adottata e a riprenderli in mano. La scacchiera per lei non ha segreti e anche se sono trascorsi tre anni e ora ne ha ben dodici, quasi tredici, è come se non si fosse mai fermata. Hanno inizio i primi tornei, le prime vittorie ma anche le prime cadute. E quelle pillole verdi son sempre lì, sempre pronte a salvarla dalle sue paure, sempre pronte a gestire quelle che sono le sue ansie. Ma cosa significa vivere? Come si può convivere con il dolore, la propria fragilità, la propria incapacità di stare al mondo senza un aiuto esterno?
«E cos’è importante, allora?»
«Vivere e crescere» disse la signora Wheatley con sicurezza. «Vivere la propria vita.»
Si susseguono i lustri e pagina dopo pagina conosciamo della vita della giovane protagonista sino ai quasi ventidue anni. Assistiamo alle sue cadute e alle sue vittorie e siamo trascinati in una storia dove a governare sono tre elementi: la passione per gli scacchi collegata al tema del riscatto femminile e la tematica delle dipendenze. È chiaro che Tevis, a prescindere da quello che oggi è l’adattamento televisivo che premetto non aver visto, in quel 1983 aveva quale obiettivo quello di scrivere un’opera che riuscisse a rendere il clima della guerra fredda, l’amore per un gioco complesso ma affascinante, sino a giungere in un ultimo a trattare il tema dell’emancipazione femminile in lotta a quella discriminazione di genere che spesso riguarda il gentil sesso e che qui viene contestualizzata in una dimensione prettamente maschile quale quella della scacchistica.
L’opera giunge al lettore con tutte queste caratteristiche e invita alla riflessione ma non manca altresì di suscitare domande quali: perché? Perché se alcune problematiche sono chiare e inequivocabili, altrettante proprio non sono spiegabili e vengono percepite come un qualcosa in più di forzato e di non approfondito. In particolare quel che viene lasciato molto alla libera interpretazione e che viene meno approfondito è l’aspetto della dipendenza. Sappiamo che Beth matura questa in orfanotrofio, che per effetto non le viene mai insegnato ad affrontare le difficoltà quanto a fuggire da esse con l’aiuto di tranquillanti, prima, e dell’alcol, poi, ma vengono lasciati buchi che lasciano perplessità e che portano a chiedere delle ragioni del suo comportamento. Intuibili ma nulla più.
Resta il grande pregio di riuscire ad appassionare al tema degli scacchi sia il lettore avvezzo che neofita in quelle che sono le descrizioni delle partite e dei tornei, giunge il modello di eroina del genere femminile seppur con tanti scheletri nell’armadio ma non riesce a convincere pienamente.
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Shuggie e Agnes
«Come aveva potuto già constatare altre volte, quelli che meno avevano da dare erano sempre quelli che davano di più»
Hugh Bain, detto Shuggie, è appena un adolescente in quel 1992 fatto di una casa improvvisata, un affitto da pagare con quel poco di guadagnato alla giornata e quella scuola da frequentare il più possibile per non dar nell’occhio con quelle assenze ingiustificate. Ma chi è Shuggie? Com’è finito in quel del South Side in quell’inizio degli anni Novanta? Torniamo indietro nel tempo. È il 1981 e siamo a Glasgow, una città un tempo fiorente e prosperosa con le sue miniere, una città che adesso sta morendo sotto i colpi del thatcherismo e dell’evoluzione del consumismo. Shuggie è un bambino diverso dagli altri. Non ama i giochi dei maschietti, preferisce le bambole e le sue movenze sono un po’ troppo diverse da quelle dei suoi coetanei. Figlio di Agnes Bain, giovane donna che dalla vita si aspettava denaro e fortuna e che invece è incappata in due matrimoni sbagliati, l’ultimo dei quali con un tassista che l’ha distrutta tra tradimenti e vessazioni, tra colpi al cuore e al fisico tanto da condannarla a una dipendenza da alcol e anche sostanze stupefacenti, è cresciuto come meglio può insieme agli altri due fratelli sino a che iniziano ad essere loro a prendersi cura di lei.
«Lei lo amava e lui aveva dovuto distruggerla completamente prima di abbandonarla. Agnes Bain era una cosa troppo rara perché potesse amarla qualcun altro. Non doveva lasciare di lei nemmeno i cocci, che un domani un altro uomo avrebbe potuto raccogliere e aggiustare.»
Passano i giorni, passano gli anni e piano piano tutti sono costretti a staccarsi da quella madre avvolta in una pelliccia di visone sporca e spelacchiata, con le mani tremolanti per il non bere e con l’attesa del giorno del sussidio per correre a comprare altro liquore. Solo Shuggie mantiene la speranza e, nel suo crescere fatto di alti e bassi, violenze e traumi, cerca di starle accanto e al tempo stesso di farsi accettare. Perché il bambino con i suoi modi eleganti, la sua parlantina forbita, il suo essere un po’ un principe in una gabbia di povertà, il suo non essere amante delle donne, è la vittima perfetta per gli scherni. Tuttavia, se diventerà una persona “normale”, se riuscirà a fingere di esserlo, forse, riuscirà a farsi accettare.
«Stava per piovere ed era lunga arrivare a piedi fino a Sighthill. Era stanco, era stanco ormai da molto tempo. Non desiderava altro che un po’ di riposo.»
Due storie di margini e confini sono quella di Shuggie, Agnes e anche di tutta la loro famiglia in una Glasgow – e in una realtà – sempre più chiusa e meno incline ad accogliere i reietti e i disperati. Se la madre è infatti ostracizzata dalle altre donne e usata dagli uomini, lui è vittima di quel machismo che non gli appartiene e di quel bullismo a cui non può e non riesce a sottrarsi. Ed è ancora, “Storia di Shuggie Bain”, una grande e infinita storia d’amore tra una madre e un figlio, un figlio che ama sua madre nonostante i suoi difetti e le sue mancanze. Due volti del dolore caratterizzati da una poetica infinita e che riportano alla luce del lettore anche la vita stessa di Stuart che perde la mamma a sedici anni proprio a causa dell’alcolismo e delle dipendenze vissute proprio in quel di Glasgow. Agnes, in questa vicenda, sa essere estrosa e curata quanto tranquilla seppur fiacca nel suo tentare di nascondere i suoi problemi mentre Shuggie spicca per la sua empatia e il suo esser capace di non cedere mai alla rabbia e alla paura. Ed è proprio l’empatia ciò che più emerge in queste pagine perché tanto nessuno dei figli giudica la madre, tanto l’autore e il lettore non lo fanno. Mai alcuno pone il suo indice verso di lei e le sue colpe e lacune quale genitore. Perché, come dice Shuggie, Agnes è sua madre ed è il suo riferimento e deve provare ad “aggiustarla” anche se è rotta.
A far da contrasto e cornice vi è Big Shug, il cattivo del romanzo intriso di violenza, rozzo e per natura vendicativo e nondimeno a sua volta vittima della comunità, della costa scozzese, della politica e del meccanismo sociale che governa quegli anni. È il sistema a giudicare la famiglia, a condannarla a uno status di povertà e denigrazione.
Un titolo, quello proposto da Stuart, che nella versione originale è intriso anche del gergo tipico di Glasgow e che rende la narrazione ancora più autentica. Un titolo vincitore meritatamente del Booker Prize 2020 che giunge al lettore con forza devastante, scuotendolo, obbligandolo a riflettere, suscitando in lui domande che cercano risposte, analisi che non mancano di suscitare altrettante analisi. Un libro ricco, profondo, duro, difficile che lascia il segno.
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Amore e illusione
«”Un giorno che le ho recitato un intero rosario di elogi su un suo paragrafo, ha chiuso gli occhi. "Come mai questa reazione?" ho chiesto. "Mi rannicchio nelle tue parole" ha risposto.»
Perché continuare a vivere quando non hai più nulla che ti sproni a farlo e quello che era il tuo grande amore non è più tale? Perché allora non sedersi in quella sala d’attesa di quell’aeroporto scrivendo le proprie memorie e attendendo di prendere quel volo così da poter finalmente farsi esplodere? Perché Zoile dopo l’incontro con Alienor e Astrolabe è profondamente cambiato, è rimasto segnato. Astrolabe è una giovane donna di cui egli si innamora e che conosce per caso durante una sorta di sopraluogo. Alienor, famosa scrittrice affetta da una particolare e grave forma di autismo e non di bell’aspetto anche a causa di un labbro leporino che ne deturpa il volto, è colei a cui l’altra ha deciso di dedicare la sua vita e che arriverà a condizionare anche il rapporto tra gli altri due.
In questa opera della Nothomb ritroviamo tutti quelli che sono i temi a lei più cari e che vanno dall’estetismo alle apparenze, passando per la metafora, alla poesia, alla filosofia. Lo stesso titolo ne è una riprova che si ricollega alla stagione invernale in cui lo scritto è ambientato e, ancora, a quel freddo radicato nelle ossa delle due donne che vivono in una casa priva di riscaldamento con tanti abiti a strati sul proprio corpo e allo stesso Zoile che deve, dal suo canto, dissipare quella freddezza interiore che lo accompagna da tanti anni, da quando ha deciso di accontentarsi e farsi andar bene una esistenza ordinaria. Lo stesso tentativo di circuire l’amata è un viaggio d’inverno.
Non mancano ancora quei contenuti anche un po’ grotteschi ma che permettono al lettore di soffermarsi sul componimento e farlo proprio.
“È come se non avessi mai visto la stanza…” disse Astrolabe.
“È come se non avessi mai visto niente. Il blu del cuscino: è come se non avessi mai visto un colore.”
“Hai recuperato la visione delle cose di quando avevi un anno o due. In metropolitana hai mai notato come si guardano attorno i neonati.”
“Viviamo in mezzo a un simile splendore e non lo vediamo!”
“Ora lo vediamo, è questo che conta.”
“Perché smettiamo di vedere, crescendo?”
“Esattamente perché cresciamo. Impariamo le dure leggi della sopravvivenza che ci costringono a concentrarci su quello che è utile. I nostri occhi disimparano la bellezza.”
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Il volto di una società
In questa opera di Amélie Nothomb ci troviamo di fronte a un romanzo all’interno del quale spontaneo è il rimando a Pirandello con il suo “Il fu Mattia Pascal” ma anche all’altrettanto celebre “Uno, nessuno e centomila”. Cosa accadrebbe se potessimo scegliere di cambiare la nostra vita così, di punto in bianco, semplicemente diventando qualcun altro? Questo è quel che succede al protagonista della storia ideata dalla scrittrice che, per mezzo di un perfetto artifizio narrativo, porta il suo eroe ad assumere una nuova identità, a ricoprire una nuova veste, ad essere milionario e sposato con una giovane e meravigliosa donna. Il tutto grazie a una semplice somiglianza fisica e a una morte improvvisa occorsa innanzi alla propria abitazione. Baptiste coglie al volo questa possibilità, non si pone alcun dubbio in merito e con impulso se ne appropria. Ed ecco che egli si trasforma in Olaf e che acquista da questo nuovo status ogni beneficio possibile. Ed ecco allora che si diletta tra bottiglie di champagne, bollicine, ozio e leggerezza.
Il libro scorre rapido tra le mani del lettore che, pagina dopo pagina, è colto da molteplici riflessioni e al tempo stesso sconvolto da quel che viene proposto in quanto a tratti paradossale e inverosimile, scomodo e disarmante. Eppure è proprio il paradosso e l’inverosimiglianza quel che più dimostra la presenza di tutti quegli elementi propri della Nothomb nonché il suo desiderio di solleticare la mente a meditare su tematiche quali corruzione e valori sempre più assenti nella società.
Tra tutti i titoli ad oggi letti questo è quello che forse a livello di piacevolezza mi ha coinvolta meno ma ad ogni modo una riconferma delle capacità dell’autrice. Buona lettura!
"Il tempo non deve essere impiegato. Non bisogna tenersi occupati, bisogna lasciarsi liberi."
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Ottavia, Verdiana e quegli anni che passano
«Da quando ho ripreso in mano l’album e cominciato a scrivere questa storia, non riesco più a smettere. Non che abbia molto da fare, ma non credo che questa spiegazione basti. È qualcosa di molto più profondo, che non sono in grado di governare. Dopo avermi lasciato in pace per tanto tempo, ora il passato mi chiama. Pretende di tornare.»
L’estate è nel fiore del suo sbocciare quando, in quel 10 di giugno del 1940, l’Italia di Mussolini compie la scelta di entrare in quella che sarà la guerra più aberrante che la Storia ricorda. Nel mentre, due sorelle, Ottavia Valiani, la maggiore, e Verdiana, la minore, vivono il loro status di Contessine in una cittadina toscana ancora oggi esistente come tutti i luoghi narrati nella vicenda e, caso o ironia della sorte vuole, siano il terreno sul quale la qui scrivente cammina e ha camminato negli anni essendo questi ultimi i luoghi ove ella è cresciuta ed abita.
In questa Toscana di tumulti la famiglia Valiani vive nella sua bolla d’incanto. I figli giocano a tennis, le domestiche governano la casa, il marito e la moglie cercano di far sopravvivere un matrimonio fatto di tradimenti e lacrime, remissione e obblighi. Tra le due sorelle esiste da sempre un rapporto controverso. Se Ottavia è infatti la figlia maggiore adorata e prediletta, bella e primeggiante, splendente e viva, Verdania è un po’ il brutto anatroccolo che vive nell’ombra dell’altra e che la invidia tanto da arrivare a spiarla anche quando quei baci bocca a bocca fatti di sospiri e desiderio la colgono con il fascista Ademaro.
Passano i giorni, passano gli anni, la guerra è in corso, le leggi razziali in atto. Miriam, l’amica di Ottavia, è una delle voci che rappresentano le conseguenze del terrore provocato dal loro subentrare, è colei che per prima porta alla luce la verità di quei campi di concentramento pronti ad accoglierli perché loro sono peggio dei “prigionieri di guerra”. Il fascismo, a sua volta, da radice diventa germoglio, da germoglio tronco e albero. Governa la patria, si insinua nei cuori, pullula con la sua violenza e non tollera chi si rifiuta di combattere e di lottare per i valori del Duce. Passano i giorni, passano i mesi e passano ancora i ricevimenti, le parate, i balli e le imboscate che alternano verità a menzogne, mescolandole tra loro, scindendo i destini, delineando le sorti.
«Eppure basta girarlo, perché quei frammenti diventino un mondo vibrante di colori e di forme che per pochi momenti ti incanta e subito cambia, trova nuove similitudini, nuove disposizioni, un disegno differente, divide quello che aveva unito e collega quello che separava. Sfolgora, e sparisce. Fino dentro il buio. È un giocattolo povero, per anime semplici di bambini lontani. Un pensiero mi piglia alle spalle. E se ognuno di noi fosse una scheggia trasparente in balia del caleidoscopio che chiamiamo vita?»
Ed è da queste brevi premesse che prende il via “Tutto il sole che c’è”, una storia che tratta di legami famigliari, di incomprensioni, tradimenti, legami fragili e spesso caratterizzati da gelosie, una storia che nella storia parla della nostra Storia ricostruendola per mezzo della voce di quei protagonisti – dalla famiglia alla servitù passando per gli amici e i tanti destini che si incontrano.
L’opera proposta da Antonella Boralevi è una storia a tre voci: è la storia della famiglia, è una storia d’amore fatta di tenerezze e ostilità, è la storia della Grande Storia che fa il suo corso sullo sfondo e tuttavia quale prima protagonista. A riprova di ciò molto interessante è la nota storica a conclusione dell’opera nonché “il ricettario” inserito sempre al termine della stessa che consente al lettore curioso di potersi cimentare nelle ricette proposte all’interno dello scritto dalle cuoce dei Valiani.
Se cercate un romanzo che sia interamente storico questo titolo non fa per voi perché la Storia si respira ma resta sullo sfondo e si sviluppa per mezzo delle coralità che si alternano nel proseguire in quella che è una narrazione suddivisa per periodi e rielaborata anche come un diario. Se invece amate le storie che trattano di famiglie, d’amore e di legami e che si sviluppano in un periodo storico quale quello del Secondo conflitto mondiale, questo libro non mancherà di solleticare i vostri appetiti e di appagarli grazie non solo a un componimento ricco ma anche a uno stile rapido che accompagna pagina con fluidità e magnetismo per oltre un decennio.
«La vita è come una scatola di cioccolatini. Non sai mai quello che ti capita. O no?»
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La madonna delle lacrime, l'oppio per il popolo
Ottavo capitolo delle avventure di Carlo Montessori, “Flora” si apre con il misterioso rapimento di Flora De Pisis, emblema televisivo del trash nazional-populista, della fucilazione del pudore, delle nefandezze costanti per aumentare l’audience con il suo programma “Crazy Love” a cui lo stesso Carlo aveva contribuito nella realizzazione, per poi, si noti bene, staccarsene quando i contenuti erano diventati tali da essere paragonabili alla vergogna pura. Ma cosa ne è stato di Flora!? Chi potrebbe aver avuto interesse a rapirla e perché? Siamo davvero certi, pensa ancora Montessori, che il suo rapimento non sia frutto di una messinscena ad opera della stessa conduttrice per ampliare le attenzioni a lei rivolte nonché il risvolto del pubblico sempre e immancabilmente avvezzo allo scandalo e di questo famelico e bramoso?
Siamo di nuovo a Milano, una Milano oscura e intrisa delle sue luci e ombre caotiche e dove la Grande Fabbrica della Merda, epitome della televisione berlusconiana, muove i suoi ingranaggi partendo da un mistero che pone sin da subito dubbi sulla propria autenticità. L’indagine viene affidata al protagonista principale, ormai fedelissimo, in collaborazione con Oscar Falcone ed Agatina Cirrielli, ex sovraintendente di polizia, a cui, per volontà incontrovertibile viene aggiunta anche Bianca Ballesi più gli altri fidatissimi del cast di sempre e alcuni assenti magistralmente sostituiti per questo nuovo episodio delle avventure.
«Carlo pensa per un istante al potere di quell’iperrealismo che rende finto ciò che è vero, dunque perfettamente plausibile il falso.»
E Robecchi ci fa destinatari ancora una volta di un bel noir, un titolo scritto bene, ironico, pungente, che ben mixa il giallo con l’attualità. Per alcuni potrà risultare essere più debole proprio la parte giallistica che, come già si evince dalle prime battute, è messa in dubbio con artifizio narrativo, dallo stesso autore. Perché Alessandro Robecchi, in “Flora”, non si propone soltanto di donare ai suoi lettori uno scritto che sia intriso di quegli elementi essenziali che ne caratterizzano sempre i lavori in particolar modo seriali ma si prefigge anche l’obiettivo di narrare una storia nella storia e per effetto di narrare la nostra Storia. Tanti sono i riferimenti agli anni passati nel nostro paese ma anche a quelli che ne sono gli effetti nel nostro quotidiano. I meccanismi televisivi, scenici, sono illustrati con tale veridicità che viene spontaneo immaginarsi taluni degli attuali protagonisti dei salotti tv annuire alla uno o alla due in perfetta fluidità e senza alcuna minima interruzione di movimento, in perfetta naturalezza.
Il risultato è quello di un testo che trattiene e coinvolge, incuriosisce, che sa essere poetico nella sua agrezza, che non teme di mostrare il volto della società che oggi ci circonda. Montessori & Company non deludono le aspettative, guardano a quel che accade e al caso da risolvere con sguardo inflessibile, inducono alla riflessione evidenziando il ruolo di una donna che nel nostro vivere è ravvisabile in tanti altri omonimi volti maschili e femminili e non solo televisivi e che non teme di camminare sopra al pudore, di piegarlo alle proprie necessità, di utilizzare la notizia per le esigenze indotte dal momento, che non cede un attimo all’idea di poter costruire, con il suo effetto, un mondo a sua immagine e somiglianza.
Tuttavia, non teme nemmeno quel passato fatto di amor fu e di resistenza, non teme nemmeno di rievocare quel che soltanto la letteratura può ed è capace di rievocare, non teme di riportarci a una storia ancora più lontana ed eppure così vicina.
“Flora” è un libro che scuote, che ben evolve la serie, che non manca di riconfermare le qualità e capacità di Alessandro Robecchi grazie a uno stile originale, iconico, acuminato e arguto che coniuga suspense, letteratura, presente, passato, libertà, amore e una storia lontana di sentimento e resistenza.
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Amore e Giappone
Classe 2007, “Né di Eva, né di Adamo” si presenta al lettore quale opera interamente intrisa di quegli elementi propri della prosa di Amélie Nothomb. Caratterizzato da uno stile fluido ed evocativo, il lettore entra subito in sintonia con quelle che sono le vicende narrate ma soprattutto i protagonisti e viene immediatamente colto da tutte quelle riflessioni, anche filosofiche, ivi contenute.
Anche questa volta tra queste pagine troviamo una parte di contenuto di origine autobiografica. Protagonisti dello scritto sono una ventenne di origine Belga in Giappone, luogo natio della Nothomb stessa, per imparare la lingua e trovare lavoro e lui, ventunenne di famiglia benestante, che letto l’annuncio messo dalla ragazza per l’insegnamento del francese decide di prendere lezione. Il rapporto piano piano va oltre il semplice insegnamento diventando quel qualcosa in più.
«Quello che provavo per lui non aveva un nome in francese moderno, ma in giapponese sì, perché il termine koi gli si addiceva. Koi in francese classico si può tradurre con “diletto”. Mi procurava diletto. Lui era il mio koibito, colui con il quale condividevo il koi: provavo diletto in sua compagnia.»
Molto interessante, oltre all’aspetto prettamente della struttura del romanzo, è anche l’analisi del luogo e della cultura nipponica. Per un lettore già avvezzo alla scrittura e alle opere della Nothomb questo può risultare essere un po’ ripetitivo ma nel complesso non stona con quella che è il lavoro di ricerca della scrittrice e facente parte di quel suo disegno più grande e che chiaramente l’accompagna.
Non l’opera migliore della sua prolifica produzione ma un titolo interessante che aggiunge quel quid in più al puzzle ideato.
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E se potessi tornare indietro nel tempo?
È sempre un piacere tornare a farsi cullare dalla penna di Guido Sgardoli, autore per grandi e per più piccoli che non manca mai di solleticare le corde dei lettori con titoli e tematiche variegate ed eterogenee. “Anomalya”, opera classe 2020, non fa eccezione e ci presenta un lavoro che si avvicina a un tema estremamente caro al filone fantascientifico: il viaggio nel tempo.
Siamo in Francia sull’isola di Bréath, luogo conosciuto anche come “Isola dei fiori”, luogo dai paesaggi memorabili e il tempo che rapido scorre. Siamo nell’anno 2020 quando un ragazzo e una ragazza a bordo delle loro biciclette solcano le strade di quei giorni estivi dal calore asfissiante. Può sembrare una cosa normalissima e comunissima per due adolescenti quali, Jacques, detto Jeky, e Claire, che questi giorni stanno vivendo. Eppure sono proprio loro i primi a rendersi conto che quello che stanno attraversando tutto è tranne che un qualcosa di comune. E come determinate scelte influenzano la vita del giovane, in particolare un incidente e un senso di colpevolezza che da quel momento sempre lo accompagna tanto da indurlo a lasciare prematuramente la sua casa natia su quell’isola in cui è cresciuto, prima di altrettante scelte di cui nel corso degli anni poi si pentirà, per la ragazza la vacanza in questo luogo, nel quale sempre si reca con la famiglia, avrà un sapore completamente diverso a cui seguirà una sorte imprevedibile che la porterà, a sua volta, ad abbracciare decisioni e a fare scelte che mai riusciranno ad appagarla pienamente.
2070. Jeky e Claire si incontrano di nuovo e nonostante tutto si riconoscono giungendo a intessere un rapporto che mai in passato avevano avuto. Complice anche una anomalia del tessuto spazio-temporale i due avranno modo di tornare proprio a quel 2020, proprio ai giorni di quell’isola, proprio a quei luoghi che erano stati i protagonisti di giorni creduti facenti parte di un passato ormai immutabile. Che possano, i due, correggere i rispettivi errori in questa nuova avventura che li vede protagonisti? Saranno capaci di compiere quelle scelte che mai avevano osato prendere e plasmare il passato a immagine e somiglianza di un futuro venturo?
Due sono quindi gli “oggi” che, in un perfetto alternarsi di salti temporali, mai eccessivi ma sempre ben bilanciati, scandiscono il ritmo dell’opera; il 2020 e il 2070. La domanda che sorge spontanea nella lettura è: se esistesse un modo per viaggiare nel tempo cosa vorremmo fare e quante cose potremmo fare? E quale sarebbe il prezzo da pagare per queste possibilità riscoperte?
Vero è anche di viaggi nel tempo se ne è parlato e se ne parla e parla con grande frequenza, vero è anche però che in questa fatica dello scrittore l’argomento viene trattato non solo con grande originalità ma anche con delicatezza e meditazione tanto che questo si presta sia a una lettura da parte di un pubblico di tutte le età.
Altro grande pregio del testo è lo stile, fluido e rapido, privo di fronzoli e magnetico, che permette al conoscitore di entrare subito in simbiosi con la vicenda e i personaggi tanto da faticare dallo staccarsi dal libro. Caratterizzato da una voce narrante che segue alla perfezione quando l’uno quando l’altro dei due eroi principali, “Anomalya” invita a riflettere su quella critica fase di crescita che è l’adolescenza e invita ancora a ponderare su quelle scelte affrettate guidate dall’impulsività, dalla frenesia del momento anche se di fatto moralmente ingiuste e, con il senno di poi, chiaramente errate. Tante le questioni trattate quali il sentirsi non al posto giusto, lo scendere a compromessi per far parte del gruppo, l’importanza di sbagliare per crescere e maturare, il diventare forti, l’aver coraggio di seguire e credere nei propri sogni anche quando la realtà che ci circonda non sempre è atta a voler lasciare loro spazio e terreno fertile per attecchire.
Una lettura per tutte le età che conferma nuovamente le capacità narrative dell’autore.
Coralità
«La vita è solo questione di starsi vicini, come i conigli nell’aia quando fuori si gela.»
Daniela, detta Moma, non ha alternative. Con due figli, Angelica, la maggiore, e Manuel, il minore, un marito bevitore e assolutamente incapace di tenersi un lavoro, non ha altra scelta se non quella di lasciare il suo impiego in ufficio di un paesino della Romania per approdare in Italia come badante in quel di Milano. La scelta non è semplice, sa che nel momento in cui se ne andrà il legame con i figli subirà una incrinatura inevitabile ma sa anche se vuole loro garantire un futuro migliore e qualche possibilità deve compiere questo passo verso un luogo sconosciuto. Ed è così che mentre la madre approda in Italia e vive il suo personalissimo abbandono fatto di senso di colpa e di tentativi falliti di assoluzione che Angelica termina gli studi superiori e inizia l’università e Manuel termina le scuole medie per iniziare l’istituto internazionale, il migliore in assoluto nel territorio ma anche per lui sinonimo di insuccesso. Sono cresciuti dai nonni, entrambi, eppure è diverso il modo in cui affrontano la separazione prima dalla madre e poi anche dal padre che a sua volta trova lavoro come camionista e parte per la Siberia. E non basta la presenza dei nonni a far da paciere e a colmare quel vuoto, i silenzi iniziano a susseguirsi, le richieste aumentano, le ripicche anche. Madre e figli viaggiano su due viaggi paralleli sino a che l’irreparabile accade: Manuel ha un gravissimo incidente che riporta Moma a casa.
Ha inizio da qui il viaggio di Manuel, Daniela e Angelica, un viaggio fatto di confessioni e di segreti rivelati. Manuel che ha abbracciato la vita dissoluta è assistito dalla madre che tra lacrime e coraggio gli sussurra la verità su quel soggiorno in terra italiana come badante, baby-sitter e ancora nuovamente badante. Racconta al figlio di quanto sia stato difficile ambientarsi, accudire gli anziani, di quanto sia stato vitale tornare a sentirsi utile con i bambini di altri – una madre non proprio da buttare – e dover poi nuovamente tornare a gestire una terza età non accettata. Racconta del vuoto provato dentro, del senso di assenza e di perdita dato anche da una lingua che seppur familiare e padroneggiata resta sempre estranea.
«I primi tempi mi pareva di aver perso l’allegria, in italiano non mi veniva mai una battuta. […] Uno fa solo pensieri da anima senza la sua lingua.»
Tre sono le voci portanti di questo nuovo romanzo a firma Marco Balzano, titolo che sin dalle prime battute riporta alla mente dei lettori “Orfani bianchi” di Antonio Manzini ma che va anche oltre. Perché Balzano non si accontenta di narrare di una storia fatta di una madre che lascia il proprio paese in cerca di un lavoro stabile, non si accontenta di parlare di migrazione per donne e madri che rappresentano un altro anello della catena, vuol parlare anche dei figli che invece, di questa, sono proprio l’ultimo anello.
Ecco perché questo romanzo corale ci propone tre volti che prendono scelte, che subiscono quelle altrui, che rivendicano proprie necessità, propri traumi, proprie aspirazioni, propri e nuovi inizi, fini che chiedono di essere nuovi principi. Perché, ancora, se la migrazione di queste donne che sono trattate e viste quasi come pacchi da portare e trasportare, comporta il miglioramento delle condizioni economiche della famiglia di origine, al contempo va a ledere inesorabilmente su quelli che sono gli affetti e le identità, gli equilibri e i sentimenti. Ciò provoca anche un allontanamento dai figli. Perché una volta che sei partita, per quanto tu possa ripeterti che tornerai a casa, che li riabbraccerai, che tutto tornerà come prima, sai benissimo che quel giorno diventa ogni giorno sempre più lontano sino ad assomigliare a un miraggio, a una utopia, a un sogno irrealizzabile. Perché se torni a casa tutto ricomincerà dal punto in cui lo hai lasciato, perché il bisogno economico non finisce mai ma gli affetti ne escono completamente lesi.
E come dice Balzano a conclusione del suo scritto, “una storia prima di raccontarla bisogna saperla ascoltare: le parole di quelle donne, di quei bambini e di quei ragazzi sono il seme da cui è nato questo libro. Scriverlo è stato per me un tentativo di risarcimento”. Ed è per il lettore altrettanto.
«[…] Ho sentito che forse non eravamo solo dei sopravvissuti. Forse qualcos’altro ancora c’era. Forse un modo per stare ancora bene assieme esisteva, bisognava solo capire quale.»
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Livia, Federcia, io scrittrice
«Funziona in modo differente per ciascuno di noi in base al percepito, e anche alle caratteristiche fisiche. La stessa esperienza ha tante versioni quante le persone che l’hanno vissuta.»
Tre le figure femminili che si intrecciano in quest’ultima fatica a firma Teresa Ciabatti. Il loro è un legame che nasce e si sviluppa in modo indissolubile in quelli che sono gli anni formativi dell’adolescenza e che le portano a vivere anche gli anni successivi in modo diverso, sempre legate dal legame, sempre legate da quel che accade.
Conosciamo Livia, colei che è la bella, colei che è – passatemi il gioco di parole – la più amata e – anche – la più desiderata. Ella nasconde un’ombra negli occhi e nell’anima, un buio che nessuno riesce a percepire ma che è parte di lei. Anche quando il peggio e il più impensato accade, anche quando il peggio e il più impensabile delinea e segna per sempre quello che sarà il suo divenire.
Abbiamo ancora Federica, che sogna il suo riscatto, che cerca la sua via di fuga, che cerca il suo posto nel mondo, che cerca. Semplicemente cerca.
E infine abbiamo la voce narrante, la scrittrice. Colei che cerca a sua volta di essere accettata per quel che è e che nel crescere diventa una figura con tanti scheletri nell’armadio, tanti fantasmi che non le consentono di far pace con quel che è stato.
Tre donne, tre realtà, tre voci, un avvenimento principale che colpisce direttamente Livia, per effetto, anche loro, per effetto le famiglie al loro interno. Perché Livia, la più amata, la più desiderata, la più invidiata, la più sparlata, è anche colei che a quell’adolescenza resterà sempre rilegata sia che vesta i panni della zia che non.
Una narrazione che si ricostruisce nel tempo alternando fasi temporali che oscillano tra presente e passato è “Sembrava bellezza” di Teresa Ciabatti. Uno scritto che non teme di rivelarsi per quello che è un viaggio introspettivo e prima ancora una ricerca di catarsi, di assoluzione. Per il dolore, per la rabbia, per la frustrazione, per tutti quei sentimenti contrastanti che chiedono di uscire, che faticano a coabitare tra loro, che chiedono di essere espiati.
Fulcro dell’opera è ancora quella costante ricerca di bellezza, concentrata nella figura di Livia, ricercata anche dalla protagonista nel corpo, nel vivere. Nel disequilibrio di una fisicità, nell’adorazione di quel che l’altro si pensa abbia, nel non riuscire a far pace con quel che si ha ma che eppure sembra non bastarci mai.
Un passo successivo a “La più amata”, una maturazione di questa, un gradino che si somma al percorso narrativo ideato e portato avanti dalla scrittrice che ne conferma le capacità e ne risalta la voglia di trattare tematiche altrettanto forti e dirompenti.
Uno stile che trattiene e respinge, per quanto più incisivo che mai, per quanto tagliente e graffiante. Un narrare che alterna ritmi che accelerano e che rallentano, che scalano la marcia a seconda di quel tassello che viene introdotto o approfondito. Una narrazione che può quasi sembrare un esercizio di stile e che per questo può far amare o meno l’intera opera. Anche questa è una capacità ricorrente della Ciabatti che, in ogni caso, arriva, disarma, spiazza e anche quando lascia dubbi e semina riflessioni, smuove e obbliga a interrogarsi.
«Anche adesso parla a me, ma sta parlando a se stessa. Pensiamo di avere tanto tempo a disposizione, dice. Ci crediamo eterni, vivi come se fosse l’ultimo giorno, mi lascio trascinare.»
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Luci e ombre, nuvole e nebbia
«Ho sempre inviato la capacità di dimenticare che possiedono alcune persone per le quali il passato è come un cambio stagione, o come un paio di scarpe vecchie che basta condannare in fondo a un armadio perché siano incapaci di ripercorrere i passi perduti. Io ho avuto la disgrazia di ricordare tutto e che tutto, a sua volta, ricordasse me.»
Terminata la pubblicazione di quella che sarebbe stata – e che considerava – l’opera della sua vita, “Il cimitero dei libri dimenticati, con la pubblicazione nel novembre del 2016 de “Il labirinto degli spiriti, Carlos Ruiz Zafon ebbe l’idea di riunire in un unico volume quelli che erano stati i suoi racconti negli anni pubblicati per varie testate ma anche di nuovi e inediti mai letti dal grande pubblico. Oggi, stante il carattere postumo con cui “La città di vapore” viene pubblicato, assume questo, come indicato in nota dal curatore del medesimo, anche una funzione di omaggio alla scomparsa del romanziere nonché un modo per ampliarne quella che ne è stata da sempre la capacità narrativa e il mondo costruito.
Siamo in una Barcellona nera e cupa. Una Barcellona fatta di fabbriche e nebbie. Siamo in compagnia di giovani anime che amano narrare storie e che per la prima volta si cimentano in tali espedienti anche avvalendosi dei luoghi più impensabili quali una Chiesa, siamo in presenza di un amore spezzato dal tempo e dalle circostanze eppure fatto di desiderio di rinascita e maturazione.
«Scossi la testa. L’atmosfera di nebbia e sussurri mi armò di coraggio e decisi di rivolgerle una di quelle dichiarazioni che avevo confezionato per uno dei miei racconti di magia ed eroismo. “Non potrei mai dimenticarmi di te”, dissi.»
Siamo ancora in una Barcellona leggendaria in cui la storia non aveva altro artificio se non quello di essere memoria del non ancora accaduto e la vita altro non era che l’aspirazione verso quei sogni fugaci e passeggeri che accompagnano nella notte. Siamo in una Barcellona città fortezza, siamo in una Barcellona anfiteatro di montagne, siamo in una Barcellona natalizia che attende il suo Natale e quello scampanellio di campane.
«[…] E passò alcuni anni tentando di dimenticare chi era, tentando di dimenticare che l’unico modo di sentirsi viva era dando la vita ad altri.»
E siamo semplicemente ancora con lui. Undici racconti intrisi di quella penna che sa fondere reale e irreale, fantasia e sogno, verità e speranza. Una raccolta che è semplicemente una carezza.
«In un istante infinito la pioggia rimase sospesa in aria, un milione di lacrime di cristallo che galleggiavano nel vuoto, e vidi l’angelo baciarla sulla fronte, mentre le sue labbra le marchiavano la pelle come un ferro rovente. Quando la pioggia sfiorò il suolo, erano entrambi scomparsi per sempre.»
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“Music is part of being human.”
"Ogni atto di percezione, è in una certa misura un atto di creazione, e ogni atto di memoria è in una certa misura un atto di immaginazione."
Qual è il rapporto che si cela tra musica e cervello? Quali aspetti assumono maggiore rilevanza e quali altri sono invece aspetti caratterizzanti dell’una o dell’altra patologia che colpisce il paziente? Dalle allucinazioni musicali alla musica quale calmante e salvezza nelle afasie, Oliver Sacks ripercorre quello che è stato il decorso di molteplici dei suoi malati invitando il lettore a riflettere sulle variegate implicazioni che la musica può avere su quell’organo che così ci caratterizza, guida e permette di vivere.
Una vera e propria esplorazione che passa dai legami dei centri uditivi alle funzioni cerebrali che viene ripercorsa senza che mai venga a mancare quel carattere proprio e fondamentale allo scrittore/medico che ripercorre i vari disturbi riproponendoli con la chiave di lettura propria di ogni protagonista che ne è stato affetto durante gli anni del suo lavoro.
Ogni storia, ogni esperienza che viene narrata, è unica e irripetibile. Non è un mero trattato, non è un mero elencarsi di patologie che diversamente hanno colpitolo persone e degenti quanto un vero e proprio percorso che viene intrapreso e condotto pagina dopo pagina e che ha la grande capacità di coinvolgere e incuriosire il lettore in un cammino costante di riflessione e approfondimento.
A tratti forse un po’ ripetitivo ma nel complesso si lascia divorare e si presenta quale un titolo godibilissimo e in grado di arricchire il conoscitore su quelli che sono i temi trattati. L’impostazione narrativa è inoltre tale da non rendere difficoltosa la lettura nemmeno ai non addetti ai lavori. Un titolo per tutti e di tutti. Da leggere.
“La musica, unica tra le arti, è sia completamente astratta che profondamente emotiva. Non ha il potere di rappresentare qualcosa di particolare o esterno, ma ha un potere unico di esprimere stati o sentimenti interiori. La musica può perforare direttamente il cuore; non ha bisogno di mediazione. "
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Trieste. Tra fiaba e vita vera
Trieste, luogo di storia, luogo di magia. Luogo di borghi, luogo di Molo Audace dove il mare, con tutta la sua forza e tutta la sua prorompenza, parla la sua personalissima lingua. Ed è qui, tra il borgo Fedrigovez e il quartiere de “La piccola Parigi”, di cui al titolo, che ha inizio la storia che con grande maestria ci viene proposta da Massimiliano Alberti già autore per Infinito Edizioni de “L’invitato”.
Per mezzo della sua penna conosciamo le storie di Lorenzo che tra queste vie è nato e cresciuto con Tullio e Christian, gli amici di sempre, ed è sempre qui che conosciamo della storia della madre e di Marie Jeanne. È una storia divisa in tre parti parallele, narrata da tre protagonisti, da tre voci che tra loro perfettamente si intersecano sino a raggiungere una unica coralità.
Ecco perché piano piano scopriamo delle avversità della vita, delle delusioni che caratterizzano ciascuno, del vivere che nulla risparmia nel suo scorrere tra salite e discese. A ciò si aggiunge una precisa e minuziosa caratterizzazione di ogni protagonista; da Lorenzo con il suo cuore sincero e puro, con il suo affrontare il quotidiano in punta di piedi, alla dirompenza di quei cuori che battono e che sembrano invece voler uscire da quella dimensione che sembra volerli imbrigliare.
Legami di vita, legami umani, legami che ancora si instaurano e cristallizzano in quel quartiere che è custode di storia, bellezza, ricordi, affetti, famiglia.
L’ultima fatica di Alberti ci porta a conoscere un romanzo intriso di tante emozioni che non si risparmiano e che oscillano tra una narrazione che gioca sul fattore temporale e su quello ambientale essendo Trieste il teatro magico per eccellenza per narrare una vicenda che ha le tinte della fiaba e la durezza e crudezza della vita reale.
È un titolo intriso di sentimenti genuini, di una semplicità che è tridimensionale. È un’opera, ancora, che si evolve e che muta pagina dopo pagina raggiungendo il suo massimo apice a partire dalla metà sino a quello che ne sarà l’epilogo.
“La piccola Parigi” è un libro da leggere e da assaporare, da gustare un poco alla volta, da degustare come una pietanza tanto attesa dopo giorni e giorni di carestia dietetica. È un elaborato che ci propone un autore più maturo sia dal punto di vista della penna che da quello della storia ma che è intriso di quelle caratteristiche a lui proprie che permettono di tendere un filo comune tra le sue opere e dunque di renderlo perfettamente riconoscibile ai suoi lettori. È uno scritto, ancora, che non manca di solleticare la curiosità e che battuta dopo battuta coinvolge e trattiene.
Non mancano tra queste vicende anche loro, i felini. Gatti che abitano le vie ma che rendono le atmosfere ancora più “parigine”. Parte dei diritti d’autore derivanti dalla vendita del volume saranno devoluti in beneficienza a “Il Gattile” di Trieste.
Un componimento che fa venire voglia di leggere ancora e ancora Alberti e che fa sperare di poterlo rileggere quanto prima con un altro suo lavoro.
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La nostra storia
«Non poteva meritarsi o governare quella felicità, né recarne un’altra in dono. Era come la guerra, in fondo. La stessa cosa. Per fare bene la guerra occorrevano coraggio e devozione, ci voleva un cuore puro; lui invece sapeva soltanto fuggire.»
Siamo nel 1917 quando Maurizio Sartori, consapevole che quella guerra non gli avrebbe portato altro che morte certa, diserta. Una massa di uomini che avanza lungo la strada, un ferito al suo fianco, cannoni abbandonati nella luce grigia come scheletri ormai privati di ogni carne. È questo lo scenario che ha innanzi. Ha sorriso Sartori in quei mesi, ha sorriso per non perdere la ragione, ha fatto quel che gli è stato detto di fare, ha rischiato più volte di essere colpito da granate, pallottole e sganassoni, la fuga quale unica alternativa è quel che gli resta. Il freddo, il gelo. Un soldato che viene dal Piave di origine veneta; è questo e niente altro. Una fattoria, una giovane donna che scoprirà chiamarsi Nadia Tassan, una ragazza, andata al pozzo con il suo scialle e il corpo bellissimo, che qui incontra il suo biondino. Un uomo, un padre che decide, nonostante non si fidi, di accogliere quel girovago che ha capito essere un fuggiasco ma che comunque è un uomo e ha due braccia e può aiutarlo a gestire i campi e la casa di campagna ora che i suoi figli maschi sono tutti al fronte e soltanto le femmine, adatte al lavoro casalingo, abitano le sue mura. L’attrazione tra i giovani è tanta, non si resistono. Maurizio non è un uomo coraggioso, scappa ancora una volta, poi ritorna. Ritorna e inizia la loro vita quale famiglia: Nadia, Maurizio e i loro tre figli Gabriele, Renzo e Domenico che cresceranno in quegli anni della guerra e che a loro volta porteranno a compimento la dinastia della famiglia Sartori sino a quelli che sono i nostri anni più prossimi.
«Le persone non cambiano», gli aveva detto una volta Gabriele, forse citando uno dei suoi libri: «diventano solo ciò che erano destinate a essere.»
Un lavoro ambizioso è quello compiuto da Giorgio Fontana che, in quelle che sono 882 pagine, ricostruisce pagine di nostra storia, del nostro passato più prossimo e più remoto. Fontana ci racconta con grande precisione le vicende della famiglia Sartori a partire da quel 1917 di quella Prima guerra mondiale e da questa prima contestualizzazione ci accompagna a quelli che furono i giorni del Secondo conflitto, a quelli che furono gli anni della sua cessazione, della ripresa economica, del boom, della lotta sindacale, della lotta di classe, della ricerca di un lavoro dignitoso, del terrorismo rosso e nero, delle crisi politiche ed economiche, a quel 2012 che con la visita della bisnipote alla tomba proprio di Maurizio chiude quel cerchio tratteggiato con meticolosità.
«Ora anche Renzo poteva capirlo. I migliori erano morti per dare agli altri – ai padroni, ai vigliacchi, ai vivi, a lui – il diritto di continuare a esistere e lordare la terra.»
Ed è per mezzo delle loro voci e delle loro lotte e avventure che ricostruiamo il volto del nostro Paese per mezzo della voce di protagonisti che scaldano il cuore ed entrano nella mente del lettore senza difficoltà suscitando il lui immancabile empatia. È infatti mixando dato storico con realtà individuale e sconvolgimenti della famiglia che siamo trascinati dentro agli avvenimenti, che li percepiamo con mano. Non è dunque solo una rievocazione e memoria fine a se stessa quanto un vero e proprio percorso compiuto passo passo da ciascun protagonista/lettore.
«Ma io sono la prima ad ammettere che ci hanno sconfitto. E tuttavia le rivoluzioni si fanno, e si perdono, proprio così. […] L’innocenza è un dono che si paga caro. Ma nemmeno voi siete innocenti.»
Il ritmo narrativo non è costante. Accelera, rallenta, conduce tra gli avvenimenti ma anche tra i luoghi spostandosi anche dal Friuli verso il milanese alla ricerca di quella tanto ambita possibilità di riscatto, semplicemente trattiene. Alcune parti dell’opera possono essere più interessanti rispetto ad altre a seconda del grado di piacevolezza personale e individuale di ciascun periodo trattato ma l’attenzione resta sempre alta così come immancabile è la curiosità di conoscere delle sorti della famiglia e anche del mistero che ruota attorno a quelle figure che sono diventati nostri amici.
Un lavoro ambizioso quello di Fontana che non delude le aspettative e che non mancherà di solleticare i palati più esigenti.
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Presente, passato e futuro
«Hai fame? Gli chiese.
Anche sete, padre. Anche tanta sete.»
Tre sono le voci portanti di “I prati dopo di noi”, ultima fatica di Matto Righetto, opera incentrata sull’importanza della natura e degli animali in un mondo ove la preservazione dei luoghi che ci circondano sembra essere sempre più fallace. Conosciamo così Bruno, il gigante dal cuore buono e la mente fantasiosa, Johannes, l’anziano che ama il silenzio e si dedica anima e corpo al lavoro, e Marlene, detta Leni, la bambina muta e sola al mondo che sopravvive come meglio può.
E se Bruno guarda al mondo con incanto e per molti è un tipo strano per questa sua capacità di estraniarsi amando le api e la natura, Johannes appartiene a una diversa generazione, è più anziano, e ha perso tutto quello che aveva. Il suo è un passato difficile e doloroso, un trascorso che se mixato a quel mondo che lo circonda che sempre più sta morendo sotto agli occhi inerti – e per causa – degli umani, lo porta a mettersi in marcia con il suo carretto e quella strana bara.
«Per la prima volta si rese conto di essere rimasto lì da solo, in un luogo che non conosceva e da cui non sapeva cosa aspettarsi. Si sentì piccolo, addolorato e vulnerabile. Una manciata di colombacci solcò il cielo e lui li osservò volare via fino a oltrepassare le alte mura di cinta dell’abbazia e scomparire. Li invidiò ma non riuscì ad aprire bocca, né a ribellarsi, tanto meno a esprimere il proprio stato d’animo, poiché non lo aveva mai fatto.»
Con grande acume e intelligenza, le vite dei tre personaggi si intrecciano tra loro ricostruendo il volto di una società a noi contemporanea e vicina che suscita in noi tante domande. L’opera, scritta con un linguaggio fluido e magnetico, ha questo grande pregio e cioè quello di riuscire a solleticare le coscienze con semplicità e genuinità. Da leggere.
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Egidius Arimond
È il 1944. Siamo sulle sponde del fiume Urft, luogo ove si erge una cittadina di minatori come tante in cui vive Egidius Arimond. Fino a poco tempo prima insegnante, ora a causa della guerra non più, l’uomo si guadagna da vivere occupandosi della tradizione di famiglia: la cura delle api. È accudendo queste ultime e vendendone i prodotti ricavati quali il miele, le candele di cera, il vino, i liquori e molti altri ancora, che egli cerca di sopravvivere. Tuttavia, Egidius, svolge anche un’attività collaterale che consiste nel condurre al confine con il Belgio i fuggiaschi ebrei in cambio di un compenso di circa duecento marchi. Uno sproposito per il tempo, si potrebbe pensare, ma l’ex docente ne ha bisogno per poter acquistare quelle che sono le medicine necessarie a fermare quelle sempre più costanti crisi epilettiche che lo colgono. Se venisse fuori che è “difettoso”, che il suo organismo lo conduce a rovinare a terra quando meno se lo aspetta, che è affetto da una patologia tale da non renderlo l’emblema della razza pura, finirebbe con lo sparire nel nulla, forse a bordo di qualche treno, forse chissà dove, ma certamente di lui si perderebbe ogni traccia.
«La legge nazista per la prevenzione delle malattie ereditarie definisce “malattie ereditarie congenite” il cretinismo congenito, la follia maniaco-depressiva, l’epilessia ereditaria, il ballo di San Vito, la cecità e la sordità ereditarie, gravi deformità fisiche e grave alcolismo. Le decisioni sulla sterilizzazione forzata e sull’eutanasia spettano al tribunale. Io sono stato sterilizzato nel vicino ospedale e, se non sono stato trasferito in un istituto come gli altri e lì ucciso, probabilmente lo devo alla posizione di mio fratello: Alfons è un eroe del nazionalsocialismo per la sua abilità di cecchino; una volta lui e la sua squadriglia sono apparsi persino al cinegiornale.»
Ecco perché con cadenza regolare si reca presso quella biblioteca di paese dove in specifici libri sono racchiusi codici e indicazioni per il prossimo trasporto, ecco perché non interrompe mai quella routine che lo porta ad alzarsi alle cinque del mattino, che lo porta ad occuparsi con costanza delle arnie, che lo fa apparire quale il più abitudinario degli abitudinari.
«L’amore è vagabondo e non indugia in nessun luogo: forse è proprio vero.»
Egidius non è un uomo perfetto. Non fa quel che fa per mera virtù o desiderio di salvare altre vite. Può apparire egoista, può apparire rude in molti dei modi che lo accompagnano e che lo portano ad allietarsi della presenza e compagnia di tante donne con cui condivide nulla più che momenti di gioia e serenità tra le lenzuola di casa. Eppure, Egidius arriva al lettore proprio per questo, perché è un protagonista cristallino, senza pretese e forte delle – e nelle – sue imperfezioni. Con il suo volto egli riesce a mettere in luce la semplice realtà del tempo dove l’obiettivo principale era sopravvivere nell’incertezza e in una dimensione dove tutto quel che era certezza e costanza è venuto meno tanto che alcuno era libero di poter vivere la propria vita senza essere controllato e punito dal regime. Egidius, ancora, non pretende di essere un eroe. Fa quello che è necessario per poter continuare a vivere, osserva, è costretto a fare scelte che nessuno dovrebbe mai trovarsi a fare, è costretto a decidere se mettere davanti la propria vita o quella altrui. Può suscitare disappunto, può non suscitare empatia, può anche far provare al lettore una sensazione di antipatia ma ciò accade semplicemente perché non si nasconde dietro a filtri o ad apparenze. È quel che è in una realtà dove non può essere altro che questo. E allora si rifugia nei testi del passato, legge, impara l’arte dell’accudire le api, prende piacere e ne dona altrettanto alle donne che volta volta lo circondano.
«Forse la verità è che non pensiamo nulla di nuovo, ma i nostri pensieri sono solo l’eco di qualcosa che è già stato pensato.»
“Le api d’inverno” di Norbert Scheuer è un titolo scandito da un ritmo narrativo costante che mai accelera ma che conduce per mano tra i ricordi e i pensieri di un tempo passato ma non ancora remoto per mezzo della voce di un protagonista che ci parla tramite il suo diario. È un libro che ha la grande capacità di riportarci agli anni della guerra così da farci respirare il clima e le sensazioni che ne caratterizzavano i giorni. È ancora, un romanzo, riflessivo e introspettivo in quanto è per mezzo della voce del personaggio principale che siamo chiamati a chiederci cosa avremmo fatto noi al suo posto e a porci ancora e altrettante ulteriori domande. È un elaborato che divide e questo probabilmente anche a causa della forma narrativa scelta, ovvero quella del diario. Eppure, “Le api d’inverno” è uno scritto che ha tanto da offrire e che una volta letto resta nella mente anche a distanza di molto tempo dalla sua conclusione.
«La guerra è finita da tempo per lui; non ne parla più, sembra che non abbia mai avuto luogo. Fortuna favet fatuis, la fortuna arride agli stolti.»
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Quel calore...
«La vita è una nobile vecchia e bizzosa che si compiace dei propri capricci, che regala genitori con una salute di ferro, con la prudenza alla guida scritta nel DNA, e poi…»
E poi un incidente. Uno sciocco incidente che provoca la loro morte, la morte di quei due genitori che lasciano sola Vera, che con i suoi quasi trentasette anni e tanti piccoli passi compiuti ancora non ha imparato a camminare da sola. Anche se ha concluso gli studi, anche se lavora da anni, anche se è andata a vivere da sola. Perché quel padre e quella madre sono sempre stati il suo punto di riferimento, perché quel padre e quella madre ci sono sempre stati anche solo per prepararle una cena o lavarle i panni. E adesso non ci sono più. E come può Vera andare avanti adesso che i suoi super scrupolosi e previdenti genitori sono passati a miglior vita? Come può riuscire a cavarsela da sola? Non può. Ecco perché tra fiumi di lacrime chiede che tornino, li invoca a gran voce e cuore. Ed è al mattino, al risveglio di quella lunga notte insonne tra incubi, speranza e sofferenza che si rende conto che i suoi genitori sono tornati dall’altro mondo per lei. Ma cosa significa? Quanto potranno restare? Quanto ancora potrà godere della loro presenza?
«So vedere. So capire. Ho ideali granitici che si rafforzano ogni volta che ho la lucidità di metterli in discussione. Ho una fiducia ancestrale, illimitata, nelle proprietà curative della scorza di limone bollita. Devo lavora sulla pazienza, su certe sbavature di egoismo, sulla tentazione di stringere tra le dita i petali dei fiori, ma la strada da seguire mi è tutt’altro che ignota.»
Cosa significa davvero averli ritrovati? È così che la figlia vuol godere della loro compagnia? Le può davvero bastare averli ancora accanto quasi come se fossero meramente due automi? Con grande arguzia e con una penna precisa, curata, ironica e ilare, Fabio Bartolomei dona ai suoi lettori un titolo di grande pregio e contenuto che altro non è che il primo di una quadrilogia interamente dedicata ai rapporti tra genitori e figli.
E vi riesce con la precisione minuziosa del chirurgo che va nel profondo, scava e cura. Bartolomei suscita riflessione, scalda il cuore e l’animo, rende concreto il desiderio di chi quei genitori li ha persi ma desidererebbe poterli avere ancora accanto, anche solo per un giorno, rende la narrazione profonda ma anche leggera. Tra risate, lacrime, vita vera. Un piccolo gioiellino.
«Da loro ho imparato che “la frutta non ha più il sapore di una volta” è un’affermazione incompatibile con l’acquisto delle fragole a gennaio, e che il vero obiettivo non è non avere paura di niente ma andare avanti con caparbietà anche quando si ha paura di ogni singola cosa. […] Ora che la testa è solo su questa lasagna scopro quanto sentimento si possa mettere in una farcitura e quante ferite si possano curare allineando con premura le sfoglie di pasta. Mamma e papà annuiscono a ogni manovra, sorpresi da questa figlia che non ne aveva mai voluto sapere di imparare le ricette di famiglia e che invece, suo malgrado, aveva visto, capito e scolpito nella mente. […] Davanti a me ho due sedie vuote. Abbandonate. Lo sguardo, chissà, forse nella speranza di cogliere uno scampolo di ascensione tra il lampadario a forma di scolapasta e il soffitto un po’ ingiallito negli angoli. Ammutolita lo riporto sulle sedie, su questo vuoto, mentre l’odore che sale dal forno ammansisce a folate la tensione delle mie narici, e poi delle palpebre e delle labbra, mentre mi sento abbracciata da quel bel calore. Di lasagna cotta a puntino e di famiglia.»
L'estate dei ricordi
«Quando si manifestava, quella di Marcello era la famigerata collera dei calmi: era come se, arrabbiandosi, si arrabbiasse anche della rabbia che l’aveva preso in contropiede.»
L’esordio in libreria di Claudio Lagomarsini ci porta tra località tipiche dei paesini toscani e ci conduce per mano in quella che è una storia che oscilla tra presente e passato. “Il Salice” vive da anni, ormai, oltreoceano quando è costretto a tornare in Italia, in quella che è stata la casa natia tra le colline tosche in cui è cresciuto. Deve occuparsi della vendita della vecchia casa di famiglia, un rudere ormai dismesso di cui alcuno vuole occuparsi. L’idea è quella di sbrigare la faccenda in pochi giorni e, di quella via, coniugare al viaggio anche interessi lavorativi radicati nella penisola originaria.
Non riesce a farsi coinvolgere, “Il Salice”. È infastidito, insofferente, scocciato. La nostalgia non fa minimamente capolino in lui. Ed è durante quell’operazione atta a riesumare e selezionare oggetti dimenticati da Dio che ritrova quei quaderni monocromo. Quaderni le cui pagine sfogliate non lasciano dubbi: sono appartenute a Marcello, il fratello, che tra queste ha racchiuso il suo romanzo intitolato, appunto, “Ai sopravvissuti spareremo ancora”. Scritto in un’estate lontana nel tempo ma anche nella memoria, il testo intriso di quella grafia piccola e nervosa, riporta alla luce un’adolescenza spensierata, quel soprannome di Salice attribuito e anche una verità fatta di responsabilità che per anni l’uomo ha cercato di seppellire dentro se stesso.
Ma riporta alla luce anche la verità della dimensione di un mondo provinciale, dagli orizzonti acuminati, dalla mentalità gretta e talvolta anche meschina. Gli stessi legami familiari non sono così semplici da sciogliere come si potrebbe pensare. È qui che emergono, ancora, le controverse figure di Wayne e del Tordo, antagonista per eccellenza. Due volti che rappresentano il necessario cliché e che riportano la narrazione ad assumere un connotato di altrettanta concretezza. È così che Marcello cerca di arginare quel silenzio, quel dolore, quella deriva, quella sofferenza pulsante. “Il Salice” è quasi una presenza ingombrante in questo volto che viene ricostruito.
«Ma nel mio tribunale – più esitante, molto più farraginoso, quasi sempre ospitato dalle mie insonnie – il procedimento è tutt’ora in corso. Finora non avevo ascoltato il più importante dei testimoni. Finora posso dire che non sapevo quasi niente di lui.»
“Ai sopravvissuti spareremo ancora” è un titolo che ricostruisce la fisionomia di una società ma anche di una realtà di famiglia fatta di momenti di gioia ma anche di criticità. È un titolo che oscilla tra incanto e disincanto, illusione e disillusione, segreti e paure, verità, fatalismo e apatia, felicità e infelicità, vivere e sopravvivere. È un volume di appena duecento pagine ma che ci obbliga a fare i conti con i nostri fantasmi, che ci ricorda quanto sia importante ascoltare chi abbiamo accanto, osservare davvero, non fuggire dal nostro passato, combattere le nostre paure.
Un esordio che non passa inosservato. Buona lettura!
Isabel Dalhousie
«I torti lontani nel tempo ci sembrano meno sbagliati solo perché l’impressione che ne abbiamo è meno vivida?»
Isabel Dalhousie, direttrice della “Rivista di etica applicata” nonché fondatrice de “Il Club dei Filosofi Dilettanti”, benestante e da sempre estremamente curiosa, si trova a un concerto alla Usher Hall di Edimburgo quando, impensabilmente, assiste alla caduta rovinosa da una balconata di un giovane ragazzo che le cade letteralmente davanti agli occhi. Le autorità sopraggiungono sul luogo e iniziano a indagare su quella che sin da subito appare come una morte certa – il giovane, infatti, esala il suo ultimo respiro e non vi è possibilità alcuna se non quella di dichiararne il decesso – concludendo in modo altrettanto celere che si è trattato certamente di un suicidio. Cos’altro potrebbe essere stato se non questo? Chi potrebbe aver avuto interesse a causare la morte di un uomo nel fiore dell’età, regolarmente impiegato in un lavoro e con una vita serena e tranquilla? Ma, pensa Isabel, se tutto è così roseo e fiorito, di contro, perché questo avrebbe dovuto desiderare di porre fine alla propria esistenza e con una morte così trucida e plateale?
«Ma abbiamo un dovere morale nei confronti di quelli in cui ci imbattiamo, che entrano nel nostro “spazio morale”, diciamo così. E cioè il prossimo: vicini, conoscenti e così via. […] Il nostro prossimo sul piano morale è chi ci è vicino, sia in senso spaziale che metaforico. Un dovere lontano non ha la stessa forza di quello che ci si para davanti agli occhi; quest’ultimo è più vivido e quindi più reale.»
Qualcosa non torna nella ricostruzione dei fatti, qualcosa non convince la donna nemmeno sulla rapidità con la quale le indagini giungono al termine tanto che la nostra eclettica protagonista non resiste e inizia a curiosare in quello che è stato il vissuto del deceduto, la sua sfera più intima, quella lavorativa, sentimentale e chi più ne ha più ne metta. Il tutto mentre è accompagnata da Cat, l’adorata nipote, Jamie, l’appassionato e ancora innamorato ex fidanzato della ragazza, e Grace la governante dallo sguardo acuto e la lingua tagliente.
Quello che ci viene proposto da Alexander McCall Smith è un giallo originalissimo che viene caratterizzato da una a sua volta originalissima detective che non manca di solleticare l’interesse del lettore e di invitarlo ad andare avanti nella lettura con rapidità e magnetismo. L’indagine segue il suo corso e raggiunge il suo epilogo ma nel mentre scopriamo e ci troviamo di fronte un titolo caratterizzato da una voce portatrice di filosofia, ironia, rettitudine, morale e capacità di affrontare i problemi con acume e arguzia.
Un libro che si divora, che resta e che si presta a una lettura spedita ma non superficiale.
«La moralità dipende dalla comprensione dei sentimenti altrui. Se si è privi di immaginazione – e ce n’è di gente del genere – forse non si riesce proprio ad avere compassione e simpatia per l’altro. Dolore, sofferenza e infelicità altrui non sembrano reali, insomma, perché non si riesce a comprenderli.»
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"Non si mette la vita nei libri. La si trova."
«Non si mette la vita nei libri. La si trova.»
Quando ci viene chiesto quale sia stato il libro o i libri che hanno acceso in noi la scintilla che ci ha portato a conoscere la lettura e a esserne completamente rapiti spesso non sappiamo identificare il titolo preciso, sappiamo soltanto che quella magia è avvenuta e che da quel momento niente è stato più come prima e che niente sarà più come prima. Perché il vortice delle parole avrà preso il sopravvento e quei libri saranno diventati per noi scrigni detentori di tesori e di cure per il cuore e per l’anima.
E cosa succede se a raccontarci di questo primo grande appuntamento è Alan Bennett con una protagonista d’eccezione ovvero la regina Elisabetta II d’Inghilterra? Il risultato non potrà essere che sorprendente e anche intriso di quella gaiezza e ironia che immancabilmente ne caratterizza gli scritti. Ma badate bene, quella che avrà inizio non sarà soltanto la storia di una sovrana austera e rigida che per la prima volta si avvicina a quel mondo fatto di carta riscoprendo addirittura di avere una biblioteca dalla quale poter attingere, sarà un po’ la storia di ogni lettore che subito e immediatamente si sentirà in sintonia con lei tanto da arrivare a provare una vera e propria similitudine che lo porterà ad affermare “questo sono io!”.
«Un libro è un ordigno per infiammare l’immaginazione.»
Pagina dopo pagina assisteremo ad una evoluzione della donna, a una sua crescita personale, a un suo ritrovato e rinnovato ritrovarsi. I libri diventeranno il suo fulcro e la porteranno ad allontanarsi da vecchie abitudini e impegni sociali e istituzionali prima considerati fondamentali adesso frivoli o superficiali o comunque rimandabili e lei si renderà conto di come il tempo che ci viene concesso in questa vita non sia sufficiente per leggere tutto quello che vorremmo ma anche di come le parole sappiano cambiarci, migliorarci, suscitare in noi riflessioni diverse e interrogativi nuovi tali da portarci a vivere la nostra esistenza in modo diverso, a percepirla in modo completamente differente e più peculiare.
«La letteratura mi appare come un vasto paese dai confini remoti, verso i quali mi sono diretta ma che non mi sarà mai dato raggiungere. E ho cominciato troppo tardi. Non potrò mai recuperare.»
Tuttavia, “La sovrana lettrice” non è solo questo. Non è solo un fenomeno di immedesimazione e di specchio contro specchio. È un titolo che dietro alla facciata del mostrare semplicemente cosa significhi essere lettori e cosa la lettura sia e offra cela molto altro. Solletica considerazioni sulla realtà dei salotti regali e in particolare, nelle pagine antecedenti al colpo di scena finale, porta il lettore a interrogarsi anche su quel che venga a causa della lettura e dopo la lettura e cioè quando questa non basta più. Non svelo altro sul libro ma ne invito alla conoscenza che sarà rapida e piacevole ma anche capace di lasciare il segno con genuina semplicità e senza pretese.
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La rondine
Una storia d’amore dai tratti romantici e noir è “Diario di rondine” opera che ha quale oggetto la sofferenza del cuore infranto, del dolore per una delusione amorosa che porta il protagonista trentenne della storia a decidere di privarsi di ogni emozione e di ogni sensazione semplicemente “spostando il proprio interruttore” su una dimensione del “non caldo e non freddo”. Perché così nulla possa toccarlo, nulla possa farlo soffrire, nulla possa anche solo lontanamente tornare a rendere vivido e pulsante quel male.
Da qui ha inizio un annullamento di ogni emozione per l’uomo. Giunge all’apatia completa, una apatia che poi si trasforma in altro giungendo alla sua dimensione diametralmente opposta, quella della perversione massima. Non stupisce dunque la sua trasformazione da semplice pony express a killer su commissione.
Un uomo che ha bisogno del suo omicidio quotidiano come di quella musica che sempre lo accompagna firmata Radiohead.
E se quella ragazza diciottenne che lui ha ucciso avesse tenuto un diario? E se lui decidesse di leggerlo? Quanto conta davvero un segreto e oggi come oggi più che mai? Quale può essere la vera forza di una rondine?
Dissacrante, provocatrice, incisiva e tagliente. Altro romanzo della Nothomb che non delude le aspettative del lettore e che lo invita a guardarsi dentro, nel profondo. Da leggere.
«In realtà, passiamo il nostro tempo a lottare contro il terrore della vita. Per tentare di sfuggirgli, inventiamo definizioni: mi chiamo tizio, sgobbo per conto di caio, il mio lavoro consiste nel fare questo o quello.
Sotterranea, l'angoscia avanza con il suo lavoro di trincea. La sua voce non si può completamente imbavagliare. Credi di chiamarti tizio, che il tuo lavoro consista in questo o quello ma al risveglio niente di tutto ciò esisteva. E può darsi che davvero non esista.»
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KCZ 114 E ZDENA
«Venne il momento in cui la sofferenza altrui non li sfamò più: ne pretesero lo spettacolo.»
Con “Acido Solforico”, classe 2005, Amélie Nothomb ci fa destinatari di un romanzo come nel suo solito intriso di uno stile dialogico anche se in minore parte rispetto ai precedenti e caratterizzato ancora una volta da due protagoniste che sono l’una lo specchio dell’altra seppur siano lontanissime: Pannonique, ventenne studentessa, che si ritrova carcerata con il nome CKZ 114, e Zdena, che si riscopre immediatamente Kapò.
Teatro ove le vicende prendono campo e si sviluppano è Concentramento, un luogo strutturato e ricostruito esattamente come i campi di concentramento nazisti ma con un’unica differenza: ciò che accade all’interno di questi è seguito in diretta da tutti coloro che dispongono di un semplice apparecchio televisivo. Ciò che cioè viene realizzato è un Reality Show in piena regola ma con un palcoscenico diverso e dove ogni atrocità che viene vissuta dai detenuti è accettata da chi guarda.
«E allora, ecco la mia domanda: che cos’è la normalità? Cos’è il bene e cos’è il male? È tutta una questione culturale.»
Eh sì, perché dal momento in cui la diretta di Concentramento diviene effettiva a tutti gli effetti ecco che diventa semplicemente virale. I giornali non fanno che parlarne, i telespettatori si accalcano davanti alla televisione e non perdono una puntata o un aggiornamento. Mai si sono registrati indici di share così alti e così seguiti dal pubblico. E a nulla serve che i giornalisti ne evidenzino le atrocità, i telespettatori sono semplicemente in visibilio. Lo stesso non parlarne, adottare la tattica del silenzio da parte della stampa, ne comporta una crescita. Crescita, questa, che diventerà ancora più totalizzante nel momento in cui al telespettatore sarà concesso anche di scegliere delle sorti del detenuto privando così del loro ruolo i carcerieri.
Ma chi è il vero colpevole? Il Kapò? Il carceriere che fustiga e punisce i suoi detenuti? O forse il vero colpevole altro non è che lo spettatore che osserva il programma, se ne indigna eppure non se ne stacca, o ancora che ne è coinvolto e affascinato, talmente colpito da non riuscire a sottrarsi al magnetismo del meccanismo ormai in atto? Come può un uomo che si indigna tollerare un tale programma e più ancora la sofferenza che si cela dietro alla sua messa in onda? Come può un uomo ammettere quella violenza e continuare a seguire quel determinato programma senza il minimo di sdegno e anzi una tolleranza tale da giustificare il proprio coinvolgimento attivo?
A far da voci portanti due donne estremamente diverse, l’una, vittima ed eroina perfetta con il suo volto idilliaco e quel portamento che mai si piega e spezza, l’altra che accetta subito di essere “il cattivo di turno” ma che eppure, tra tutti, si erge da antagonista a protagonista essendo colei che più cresce e più matura nello scritto arrivando a sorprendere e stupire.
Quanto vale davvero un nome? Qual è il suo peso? Quanto pesa davvero il nome?
Terzo volto della storia Pietro Livi chiaro omaggio a Primo Levi a cui l’autrice è affezionata.
“-E non è tutto. Ho deciso di far fellice la gente.
-Ah – disse Pietro Livi, costernato all'idea di vedere la sublime Pannonique lanciarsi nella beneficenza. -E come? Diventerà una dama di carità?
-No. Sto imparando a suonare il violoncello.
Lui rise sollevato.
- Il violoncello! È magnifico. E perché il violoncello?
- Perché è lo strumento che somiglia di più alla voce umana.”
Come sempre la Nothomb ci fa destinatari di un romanzo ricco di spunti di riflessione, che scuote l’anima, che non lascia indifferenti e che induce il lettore a guardarsi allo specchio. Una Amélie ai suoi massimi livelli.
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Il deserto di cenere dell'Askja
Da sempre la musica folkloristica è una passione irrinunciabile per l’ispettore Kornelíus Jakobsson, della polizia criminale di Reykjavík. Una passione che ha portato avanti cantando in un coro di donne, lui che dal suo aspetto possente e robusto tutto sembra tranne che l’uomo adatto a dedicarsi a siffatta attività. Abbiamo conosciuto la sua figura in “Heimaey”, opera che lo vedeva alle prese con il ritrovamento in una solfata di un cadavere spellato dal ventre in giù e al contempo con la mafia lituana.
Questa volta, però, Kornelìus si trova alle prese con un nuovo delitto di sangue che sporca il cuore più profondo dell’Islanda. È infatti nel deserto di cenere dell’Askja che viene avvistato il corpo imbrattato di sangue di una donna da un ragazzo, fotografo, intento a riprendere i sacri muschi.
«Si potrebbe credere che stia dormendo su un letto con lenzuola spiegazzate di cotone nero. Un ginocchio è rialzato e il viso è nascosto nell’angolo del braccio destro. L’altro braccio è steso lungo il corpo, con il palmo della mano verso il cielo. È proprio quel palmo al rovescio a dare l’impressione che sia morta. I capelli rossi e ricci a corolla somigliano a un ciuffo di muschio. Corpo immobile e bianco in mezzo alla lava scura. Non completamente nudo, in realtà. Gli rimane un calzino bianco a un piede.»
Tuttavia, Jakobsson non fa in tempo ad arrivare sul luogo del delitto che il corpo è scomparso. Che sia viva o che sia morta la ragazza? La circostanza è molto strana e nessuno sembra riuscire a dargli risposta, nemmeno quell’unico uomo, Eriksson, che vive nella landa ma che è affetto da Alzheimer.
«Dove è potuta finire quella povera donna? Perché il corpo se era morta, è scomparso? E perché, se non era morta, è ugualmente scomparso? Come fa una donna nuda nelle Alte Terre a scomparire senza lasciare tracce?»
Al contempo, negli stessi giorni ma nella capitale, Botty, una giovane poliziotta si trova a dover fare i conti con uno scenario simile: sul fondo di un cratere vengono rinvenuti i frammenti di una bottiglia di vodka intonsa di sangue ma del corpo vittima destinatario del colpo non vi è traccia. Anche in questo caso, l’unico testimone, non ha memoria.
La circostanza riporta alla mente dell’ispettore un caso occorso durante gli anni Settanta e all’interno del quale due delitti si erano risolti senza cadaveri e con una ammissione di colpevolezza da parte di rei senza memoria dell’azione delittuosa. A complicare ulteriormente il quadro, un cecchino dal sangue freddo e senza scrupoli.
Quello che ci propone questa volta Ian Manook con “Askja” è un thriller ricco di colpi di scena e dove nulla deve essere dato per scontato. Le ambientazioni sono perfettamente descritte tanto che quello che ha inizio non è soltanto un viaggio nel mistero quanto anche un percorso nella natura, per quei tratti di una isola vulcanica selvaggia e da scoprire. Si noti bene, infatti, che nel componimento, esattamente come nella saga di Yeruldelgger in cui protagonista era la Mongolia, l’Islanda è una protagonista in piena regola e non solo scenario dove gli eventi si susseguono.
Le vicende seguono una linea narrativa precisa e composta da una narrazione che alza sempre più il livello di suspense man mano che il componimento va avanti. I personaggi che caratterizzano lo scritto sono inoltre tutti ben delineati: da Jakobsson a Botty ciascuno è chiaro e vivido nella mente del lettore.
Al tutto si somma uno stile evocativo, coinvolgente e pungente, uno stile fatto da dialoghi rapidi ma anche da atmosfere che arrivano con tutte le loro sfumature.
“Askja” è per questo un buon secondo episodio della trilogia iniziata con “Heimaey” e non mancherà di deludere le aspettative dei lettori più esigenti. Non solo, è un titolo che coinvolge e incuriosisce e che trattiene tra le pagine per trama quanto anche per arcano che si nasconde dietro la facciata di un paese solo esteriormente politicamente corretto.
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Quintino e Filippo
Franco Faggiani ci propone con il suo “Non esistono posti lontani” un titolo ambientato durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale. Protagonisti dell’opera sono due personaggi tra loro molto diversi, Quintino, invadente e curioso ragazzo ischiano, e Filippo Cavalcanti, professore che giunto nel paese viene addirittura derubato dal giovane. Entrambi sono però accomunati da un obiettivo comune e cioè quello di salvare le opere d’arte trafugate prima che finiscano in mano al nemico.
«La guerra sarà finita quando la gente ricomincerà a lavorare, a uscire, ad andare a trovare gli amici nella piazza del paese, ad avere voglia di mettere su famiglia. La pace, quella vera, anche da queste parti mi sembra ancora assai lontana.»
Filippo ha infatti dedicato la sua vita agli scavi e il pensiero anche lontano che questi ritrovamenti possano finire in mano ai tedeschi su favore e consenso del regime fascista è per lui inconcepibile. Ed è da queste brevi premesse che avrà inizio il viaggio della strana coppia, un viaggio che ci condurrà per mano per strade secondarie e percorsi impervi ma che avrà quale destinazione finale Roma. Riuscirà il duo a raggiungere l’obiettivo e a salvare le opere d’arte?
La storia proposta da Franco Faggiani si presenta al lettore con quelli che sono i toni di una fiaba. Il ritmo narrativo è inizialmente più lento per poi accelerare successivamente e trascinare chi legge tra descrizioni che rendono vividi gli ambienti e i luoghi ma anche i due personaggi e, in particolar mondo, la Guerra e il Fascismo che sono percepiti con tutta la loro forza e virulenza stridente.
“Non esistono posti lontani” è un titolo che conquista per vicende e per le speranze che riponiamo nei vari personaggi e in tutte le loro avventure, è un titolo che accarezza e suscita curiosità ma che difetta in parte sull’empatia. Il conoscitore è trascinato da quanto accade ma è come se fosse tenuto a distanza e questo non consente di raggiungere un coinvolgimento totale. Ad ogni modo una buona e piacevole lettura soprattutto per chi ama questa tipologia di storie.
«Il tempo piccolo è pieno di rischi. Ma se in quel momento riusciamo a combinare insieme conoscenza, capacità, intuito e fortuna, la decisione sarà quella giusta. O, comunque, la migliore che potevamo prendere.»
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Raùl e il mistero di quell'ultima estate
«Il dolore fisico è come un subdolo rettile. […] Compare dal nulla, ti resta nel corpo finché vuole, a volte per sempre, e alla fine, se sei fortunato, se ne va di nascosto, senza nemmeno salutarti.»
È estate, siamo in Sud Italia e più precisamente tra quei luoghi incantevoli che caratterizzano e rendono unica la Costiera Amalfitana. Un gruppo di turisti di origine americana si trova a soggiornare in un albergo del luogo a causa di un guasto alla loro imbarcazione. È qui che il gruppo composto da Mark, Basil, Emma, Claire, Angelica, Paul, Margot e Oscar incontra Raùl, un uomo originario del Perù che visitava il paesino ogni estate sin da quando era piccolo, molto più grande di loro, indicativamente dell’età di una sessantina d’anni, che trascorre i primi giorni del loro arrivo nella struttura in totale solitudine con il suo taccuino, osservandoli da lontano ma senza mai avvicinarsi. È dopo aver visto Mark ancora dolorante alla spalla che decide di compiere il primo passo e, con quello che sembra essere un gesto magico, toccandola riesce a guarirlo. A questo primo elemento di mistero si aggiunge il fatto che quest’uomo indecifrabile sembra conoscerli da tempo, sembra conoscere di informazioni che caratterizzano il vissuto di ciascuno e che ne riportano alla luce le crepe più oscure, gli amori da tempo immemore celati, i legami spezzati. Tra tutti, però, la sua attenzione si focalizza su Margot che subito diffida delle sue parole che rivelano quello che avrebbe potuto essere il suo nome di battesimo, Maria. Mentre i giorni passano e gli americani sono sempre più inclini a legare con Raùl, ella persiste nell’istinto di mantenerlo a distanza, di rifuggire a quel fascino che la attrae inconsciamente a lui. Inaspettato ha luogo un pranzo con lui, una chance che viene concessa a cui segue un secondo pranzo e una serie di passeggiate e di momenti di condivisione.
«Perché? Perché nessuno vuole accettare chi è veramente, ecco perché. Tutti reclamano per sé l’io che ritengono migliore, sperando di essere amati per ciò che non sono e non potranno mai essere. E il piccolo miracolo della vita, minuscolo e al contempo imponderabile, è imbattersi in persone che ci vedono per come siamo e ci vogliono proprio per quello – e di solito sono anche quelle che disprezziamo di più, che accogliamo nelle nostre vite con risentimento, sdegno e infinita apatia, a volte perfino odio. Se due individui si amano per ciò che sono davvero, per loro il tempo si ferma, e se per caso non muoiono insieme nello stesso istante, chi sopravvive non si riprende mai, non dimentica mai, e anzi continua ad aspettare finché non ritroverà l’altro tra chissà quante vite. Per citare le parole di Shakespeare, e ciascuno fu il tutto dell’altro. La persona amata ritorna sempre. L’attesa, però, è straziante: si aspetta non solo di vivere, ma anche di morire insieme. Vedete, è la vita a essere transitoria, non l’amore.»
Chi è davvero Raùl? Che sia un ciarlatano? Che abbia preso informazioni su di loro online? Oppure, nelle sue parole, nelle sue rivelazioni, vi è un fondo di verità che si cela in un passato radicato in un tempo che è stato scandito da quattro decenni? Arriverà il momento della verità e sarà in questo istante che tutti i tasselli combaceranno e ritorneranno al loro posto rivelando al lettore che dietro le apparenze, che dietro all’impossibile, si cela il possibile, si cela una bellissima e intensa storia d’amore che supera la morte, che supera gli ostacoli, che va oltre l’odio, il disprezzo e le incomprensioni.
Una storia, quella proposta da André Aciman che si fa semplicemente divorare, che si legge con piacere e che porta il conoscitore a essere trasportato nei meandri del tempo, del piacere, del legame affettivo. A tratti, e soprattutto nel finale, la vicenda può ricordare “Storia di due anime” di Alex Landragin ma la maestria dell’autore è anche quella di saper prendere i dovuti intervalli e di sapersi differenziare offrendo a chi legge un titolo originale nel suo genere e adatto ai sognatori e agli animi più sensibili che cercano storie e amori senza tempo.
Un titolo di grande piacevolezza, rapido nella lettura, godibilissimo. Da leggere.
«Perché si ha bisogno di chiedere, perché si ha bisogno di sapere, perché temo il peggio.»
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Il primo cold case per Cormoran Strike e Robin
«Puoi portare un peso e continuare ad avere le mani libere solo se te lo leghi alla schiena. Sposati e riavrai l’uso delle mani. Se non ti sposi, non avrai mai le mani libere per nient’altro.» - in “Sangue Inquieto” ma tratta da “Anna Karenina”.
Quando Cormoran Strike conosce Anna a tutto stava pensando tranne che alla possibilità di ricevere un incarico così particolare e inaspettato. Si trova in Cornovaglia perché Joan, la cara zia Joan, sta male, le è stato diagnosticato un tumore molto aggressivo e le cure sono l’unica e ultima speranza rimasta per la sua sopravvivenza e per la famiglia. Era quasi stato sbattuto fuori di casa da questa perché dopo una settimana di presenza la stessa donna desiderava che il nipote uscisse e staccasse un po’ da quell’ambiente intriso dell’odore della malattia, ma mai si sarebbe aspettato di essere fermato da quella figura femminile, accompagnata da una più che amica, per essere investito del primo cold case per l’agenzia investigativa che sta gestendo con la socia Robin. Attualmente ben quattro sono i casi all’attivo di questa e indagare su un fatto avvenuto ben oltre quarant’anni prima, per quanto si dica di no, solletica immediatamente la sua curiosità. Oggetto dell’indagine è la scomparsa, e per i tempi di allora, presumibile morte, di Margot Bamborough, occorsa nel 1974 al termine di una giornata negli studi medici ove questa lavorava in qualità di professionista sanitario. Uscita dal lavoro dopo una visita imprevista a una persona la cui identità resta celata non riuscendosi bene a decifrare se appartenente al genere maschile o all’altro, questa è misteriosamente scomparsa senza più lasciare traccia di sé. I sospetti ricadono immediatamente su Dennis Creed, classe 1937, che negli anni in cui è ambientata la vicenda era noto per essere definito il Macellaio dell’Essex stante le violenze sessuali, fisiche e le torture arrecate alle sue vittime rinvenute sempre prive di vita. Ed è forse questa certezza senza eguali che induce a ritenere che il colpevole sia lui mixata a una serie di indagini di polizia condotte prima da un uomo divenuto ossessionato dal caso tanto da essere ricoverato per patologia psichiatrica e poi da un altro detective sopraggiunto a mesi di distanza dalla scomparsa/morte della vittima e ormai offuscato da un altro fatto di cronaca tale da mettere in secondo piano le sorti di questa, che il caso resta irrisolto e che viene archiviato negli scantinati dei locali di polizia e negli scantinati della memoria. Eppure, seppur quasi tutti abbiano dimenticato, seppur molti altri non desiderino che la verità venga a galla, c’è una voce tra queste che invece quella verità desidera scoprirla ed è la figlia Anna che, con un grande atto di coraggio, chiede all’investigatore con una gamba sola di scoperchiare quel vaso di Pandora.
«Non pensi che tendiamo ad attribuire a certe categorie di persone una bontà a priori? Immagino che tutti abbiamo bisogno di riporre la nostra fiducia in coloro che sembrano avere un potere di vita e di morte.»
E Strike, insieme alla sempre più cara Robin, lo fa. Un anno il tempo che viene loro concesso per far luce sul mistero, un anno che vedrà il duo ricostruire dinamiche, vite, opinioni, pensieri e svelare segreti e che condurrà il lettore in un viaggio che, nonostante la mole, si ultima fin troppo rapidamente e con grande piacevolezza.
«Sapere quello che ha passato, quello che ha vissuto con i suoi occhi… fa sì che gli si possano perdonare tante cose… Ma vale lo stesso per tutti, no? Nel momento in cui si viene a sapere come stanno le cose, si spiega tutto. È un peccato che spesso non si sappia niente finché non è troppo tardi…»
Il ritmo narrativo è rapido, fluido, accattivante, il giallo costruito è privo di sbavature, regge bene, è solido nella sua articolazione ma anche nel suo sviluppo, i colpi di scena non mancano e sono tutti perfettamente introdotti al punto giusto e a seguito di una ricostruzione logica e lineare di quelli che sono stati i misteri di un quarantennio dai volti molteplici. Al tutto si somma una ulteriore caratterizzazione dei personaggi che crescono insieme alle vicende, che vengono ulteriormente approfonditi e rivelati rispetto ai precedenti volumi e che acquisiscono di uno spessore ancora più stratificato e una prosa ricca, gaudente che riesce a narrare senza spiegare. Unica pecca che ho ravvisato, se proprio si vuol essere puntigliosi, sono alcune eccessive descrizioni che popolano soprattutto la prima parte dell’opera e che talvolta possono risultare superflue rispetto all’oggetto del narrato.
In conclusione, se avete amato le avventure di Strike e Robin non resterete delusi nemmeno da questo nuovo episodio di queste e anzi, giunti alla sua conclusione vi sorprenderete della rapidità con il quale lo avete ultimato, dell’appagamento che vi avrà lasciato e non mancherà di essere presente anche quel senso di vuoto che accompagna il termine di una lettura piena, corposa e soddisfacente. A quando il nuovo capitolo?
«Al buio, però, ascoltando con quanta più attenzione possibile, iniziò a intuire delle melodie tra gli accordi sospesi, smise di paragonare quella musica alle cose che era abituata a sentire, e comprese che le immagini che aveva trovato alienanti perché troppo strane erano in realtà confessioni di inadeguatezza e sradicamento, della difficoltà di fondere assieme due vite diverse, dell’attesa di un’anima gemella che non era mai arrivata, del bruciante desiderio d’amore e libertà.»
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Leo
I loro nomi sono Anna e Leo. Sono due fratelli, in quegli anni Sessanta, così legati eppure così diversi. Leo, in particolare, è affetto da sordità e per quanto ciò sia difficile da accettare è importante imparare a conviverci utilizzando quel linguaggio dei segni, quella lingua così dissimile e capace di creare un nuovo e comprensibile mondo. Una parola, questa che dovrà essere appresa non soltanto dalla sorella quanto anche dai genitori, Elsa e Vittorio, che non erano preparati all’eventualità che il loro bambino potesse essere diverso. Ma cosa significa parlare un lessico diverso?
“Quello che avrebbero dovuto fare tutti insieme era inventare un linguaggio intimo, segreto, un lessico visivo capace di dare forma alla loro vita quotidiana. Ogni oggetto andava ridisegnato attraverso i segni e con il tempo avrebbero aggiunto pagine al loro vocabolario immaginario. Il medico guardò Anna e indicò il pelouche che aveva tra le mani. «Facciamo un gioco le aveva detto» con un’espressione amichevole, il tono fermo della voce che suggeriva di prendere sul serio la proposta. «Di’ a Leo cos’è quello. Trova dei segni per descriverlo. Solo due, non di più». Anna si sentì intimorita da quell’uomo in camice bianco che adesso parlava solo con lei.
(…) «Tuo fratello imparerà a parlare con il corpo e la sua anima avrà una voce speciale. Avrà bisogno di tempo, ma noi saremo lì con lui e impareremo ad ascoltarla. Vedrai arriverà un giorno in cui la sentiremo, quella voce, e quel giorno sarà bellissimo».”
Leo ad ogni modo dovrà frequentare una scuola speciale che lo accoglierà per diversi giorni alla settimana. Ed è in questo frangente che nel 1964 del bambino si perde ogni traccia. Non è al collegio, nessuno lo ha visto e ha saputo niente di lui.
Trascorrono diciannove anni, Anna è ormai una donna adulta, è insegnante della lingua dei segni ma è anche una donna la cui vita è stata irrimediabilmente marcata dalla scomparsa del fratello. Sarà quando Michele, un ragazzo che al tempo frequentava lo stesso istituto di Leo, le rivelerà del litigio occorso nel giorno della scomparsa con un insegnante, Giordano, con cui poi il piccolo si è allontanato, che ogni cicatrice tornerà a pulsare dolore e a chiedere verità. Per Anna non c’è desiderio alcuno se non quello di incontrare quell’uomo che ha interloquito per l’ultima volta con Leo e che forse, chissà, ne è anche il responsabile della scomparsa.
Con delicatezza e magnetismo, Stefano Corbetta ci propone un titolo che solletica le corde più intime del lettore. Non solo a conquistare sono i protagonisti, ciascuno per un suo diverso motivo, ma è anche il giallo sotteso ad avvalorare la trama e a incuriosire il lettore. Tra i vari personaggi, inoltre, quello che più coinvolge è proprio Anna che sorprende per la sua crescita e maturazione, per il suo cambiare.
Non solo. Il conoscitore è affascinato anche da quel che si cela dietro alla lingua dei segni, alla tematica della sordità e alla convivenza con questo senso assente in un periodo storico che non contemplava l’esistenza di un linguaggio alternativo a quello comune.
Una storia che parla da sola, che tocca temi quali l’amore, l’amicizia, i legami famigliari, i rapporti tra fratello e sorella, la depressione, l’accettazione, l’andare avanti, alle diverse forme di comunicazione (dai disegni ai segni). Da leggere e con cui riflettere.
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Fame di parole, fame di sapere
“Ha una percezione ben misera, chi non vede l'esplosione della sovrabbondanza nel cuore stesso del senso della misura.”
Cosa significa avere fame? Come si può resistere a quel bisogno impellente che emerge dentro, che esplode, che prende il sopravvento? La fame è sì volere ma è anche volontà e forza perché chi ha fame cerca, cerca, cerca. Amélie Nothomb è da sempre alla ricerca di quella sazietà per quel bisogno che ha dentro, per quella fame da crampi allo stomaco, all’anima. Ha fame di cibo, ha fame di abbondanze ma ha fame anche di parole, di arricchimento, di crescita. Ed ancora di amore, letture, seduzione, verbi.
Ed è così vicino questo tema alla scrittrice che quasi sembra paradossale pensare a quel periodo della sua vita così nefasto all’interno del quale ella è stata affetta da anoressia. Anche per questo è più che mai interessante questo viaggio in cui ci conduce, un percorso che tocca più paesi, che ci guida tra le tappe di un atlante immaginario ma corposo. Scopriamo di Amélie bambina, scopriamo delle sue radici spezzate, l’accompagniamo nel suo diventare una giovane e poi adulta donna, assaporiamo del suo umorismo, della sua capacità evocativa ma anche di quel sapore dal retrogusto amaro che ce la fa percepire nella sopravvivenza alla malattia.
"Non che la bellezza letteraria non esista: ma è un'esperienza incomunicabile quanto le grazie dell'amata per chi non è ad esse sensibile. Bisogna appassionarsi o rassegnarsi a non capire mai.
Quella scoperta equivaleva per me a una rivoluzione copernicana. La lettura era, insieme all'alcol, l'essenza dei miei giorni: ormai, sarebbe stata la ricerca di quella bellezza insolubile."
Un ritmo rapido, contenuto nel numero prestabilito di pagine che da sempre la caratterizza, ma che è capace di far emergere tutta l’amozione per uno scritto che alterna momenti di piacere ad altrettanti di riflessione, momenti di dolore e vuoto a semplici e pure verità del vivere. Una autobiografia fuori dagli schemi, originale nella sua struttura e nel suo messaggio. Da leggere e custodire.
“Ma esiste una fame che è solo di cibo? Esiste una fame del ventre che non sia indizio di una fame più generalizzata? Per fame, intendo quel buco spaventoso di tutto l'essere, quel vuoto che attanaglia, quell'aspirazione non tanto all'utopica pienezza quanto alla semplice realtà: là dove non c'è niente, imploro che vi sia qualcosa.”
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Storie e favole attuali
«E ho scoperto che la scrittura può essere una forma di liberazione. Per vent’anni ho tenuto una rubrica intitolata “Tanto tempo fa, lontano da qui” sul Call di Castel Rock, e so che a volte è così: quello che si scrive a volte scompare per sempre dalla memoria, come le vecchie fotografie che, esposte alla luce del sole, sbiadiscono fino a diventare bianche.»
Comincio subito con un grazie. Un grazie che viene dal cuore e che va a quella persona che ha avuto il così bel pensiero di regalarmi questo titolo – insieme ad altre opere che scoprirete quanto prima – così inaspettatamente quanto calorosamente. Un ringraziamento che rappresenta una piccola ma doverosa premessa e che non si esaurisce con un mero “grazie” quanto con un lascito rimasto dentro a seguito della conclusione della lettura.
Veniamo dunque al titolo. Con “L'uomo vestito di nero” ci troviamo di fronte a uno scritto riproposto nella formula illustrata da Ana Juan ma che trae le sue origini dall’omonimo racconto già contenuto nella raccolta “Tutto è fatidico”. A questo si aggiunge un secondo componimento intitolato “Il giovane signor Brown” di Nathaniel Hawthorne e che rappresenta per il narratore uno dei migliori racconti della storia americana.
Nel dettaglio scopriamo con “L’uomo vestito di nero” una favola nera che si tinge di colori ancora più cupi grazie a quelle immagini che si cristallizzano nella mente del lettore. E il duo King-Juan non riesce soltanto nell’impresa di rendere vivide le immagini ma tocca anche temi e tematiche ancora oggi attuali e che si espandono dall’infanzia all’età adulta, al misticismo, alla superstizione, ai legami affettivi, al Male, ai legami genitoriali. A conclusione della lettura resta quel senso di scuotimento che provoca la riflessione ma anche l’interrogazione.
«Una parte di me gli credeva ciecamente, come crediamo sempre, con una parte di noi, alle cose peggiori che il nostro cuore possa immaginare.»
Ne “Il giovane signor Brown”, invece, seppur siano mantenuti i toni narrativi che accompagnano la prima parte della proposta letteraria, e seppur il destino comune ai due eroi sia in un certo senso il medesimo, con il signor Brown si va oltre perché, per mezzo di poche pagine, viene affrontato anche il tema della società che ci circonda con tutti i suoi pro e contro, con tutti i suoi chiaroscuri, con tutte le sue luci ed ombre. Cosa si cela dietro la maschera? Esiste davvero la bontà umana? Oppure dietro alla facciata si cela soltanto un velo ben costruito di ipocrisia?
Due racconti che non perdono la cristallinità degli originali, che si prestano ad una lettura rapida nel tempo ma di gran contenuto nello scorrimento. Un romanzo illustrato che resta e fa venire voglia di approfondire le opere magari andando anche a rileggere le raccolte precedenti, oppure, semplicemente andando a conoscere autori sconosciuti.
«A volte le storie reclamano con tanta insistenza di essere raccontate che si finisce per scriverle solo per farle stare zitte.»
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Blanche
«Avevo sedici anni. Non possedevo nulla, né beni materiali, né conforto spirituale. Non avevo amici, non avevo amori, non avevo vissuto ancora niente. Non avevo idee, non ero neanche sicura di avere un’anima. Tutto quello che avevo era il mio corpo.»
Un corpo che è niente, un corpo che è solitudine e isolamento. Un corpo e una mente che vivono nella non conoscenza dei legami affettivi, dell’amicizia. Studentessa prodigio, figlia di docenti, iscritta all’università con lauto anticipo, Blanche, la nostra protagonista si riscopre preda del carnefice, si riscopre nelle grinfie di una inaspettata amicizia tuttavia tale soltanto di facciata. L’incontro con Christa è quanto di più causale e mistico per lei. Ne resta affascinata, dai modi, dalla personalità. Ne è conquistata. Il legame si sviluppa per lei in modo totalmente inaspettato e vede l’altra sempre più prendere campo nella sua vita tanto da schiacciarla, tanto da usurparne anche il posto in casa, l’affetto dei genitori, il letto. Christa si rivela essere furba, scaltra, una perfetta prestigiatrice in quei suoi giochi di affabulazione. Una donna che dietro le apparenze cela un diverso vivere, un diverso essere ma che soprattutto distrugge tutto quel che incontra e tocca a suo favore.
«Non è forse un fiore, il narciso, che dato origine al termine che definisce l’amore di sé?»
E quante volte nella vita ci siamo trovati a dover affrontare amicizie così? A dover fare i conti con un universo completamente estraneo a noi ma che eppure ci ha indottrinato, ci ha illuso, ci ha trascinato nella sua spirale senza darci possibilità alcuna di riscatto, libertà e redenzione? Tante, troppe volte. Ed è da qui che il vero volto dell’AntiChrista viene rivelato, perde della sua maschera e si mostra per il suo essere davvero, per quelle crepe che sono generalmente offuscate alla vista dei più.
Tuttavia, Antichrista, opera classe 2003 e pubblicata in Italia nel 2004, non è soltanto questo. È molto, molto di più. Al suo interno vi è la riflessione filosofica, vi è la religione – non solo nel nome della coprotagonista e nel titolo quanto proprio nei contenuti – e la teologia, vi è l’analisi dell’io in prospettiva di sé quanto dell’altro, vi è la lotta eterna tra bene e male. Un male che tra queste pagine assume un volto fatto di carne, ossa e intenti. Un male che è il canale con il quale vengono affrontate analisi psicologiche che vengono estremizzate ai massimi livelli. Perché quel che si cela dietro le apparenze può essere molto più terribile di quel che pensiamo ma può non esaurirsi nel suo passare, può restare nell’animo, può lasciare gli strascichi di quella malvagità e di quella ferita che viene a essere aperta. Razionalità, dolore, dannazione e perversione, mixati a odio, catarsi, riscatto, vendetta, rabbia e invidia. Il tutto e molto ancora di più in appena 117 pagine. Quelle 117 pagine che fanno parte di quella metrica narrativa da sempre impostata dall’autrice che si è prefissata di non superare mai le 120, quelle 117 pagine che danno inizio a un cerchio che si somma a quelli già iniziati nei precedenti lavori e che conduce sino a un epilogo che spiazza e sorprende e che si chiude, in questa nuova avventura, con una data di nascita che è quanto di più significativo vi possa essere essendo questa la data di nascita stessa della prosatrice.
Un titolo che ha tanto da offrire e che fa altrettanto riflettere. Da leggere e custodire.
«Chi crede che leggere sia una fuga è all’opposto della verità: leggere è trovarsi di fronte il reale nella sua massima concentrazione, il che, stranamente, è meno spaventoso che avere a che fare con le sue eterne diluizioni.»
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Meritocrazia di parvenza
«Non mi piace usare la parola “odio”, perché di questi tempi anche una briciola di odio può trasformarsi in una valanga di odio. Ma io odio questo Q.»
Torna in libreria Christina Dalcher, autrice di “Vox”, classe 2018, opera incentrata sul tema dell’emancipazione femminile portata ai massimi estremi, con un romanzo nuovamente distopico ma questa volta ispirato alla gioventù hitleriana. Lo scenario che si apre innanzi ai nostri occhi è quello di una verità all’interno della quale la società è suddivisa per specifici gradi e ordini che vengono identificati già dal percorso di studi che ne scandisce le dinamiche. Elena Fairchild, insegnante di origine tedesca, vive e insegna scienze negli Stati Uniti. È sposata con uno dei fondatori del “sistema” e ha avuto da questo due figlie; una maggiore emblema e perfezione del meccanismo instauratosi, una minore, al contrario, vittima delle angosce e delle imperfezioni che questo stesso meccanismo ha provocato in lei. Tutto ruota attorno a un presunto sistema meritocratico che permette di suddividere la popolazione e gli studenti a seconda delle loro qualità capacità. Abbiamo per questo una scuola Argento ove confluiscono i migliori, una scuola Verde per le persone normali, senza troppi pregi e senza troppi demeriti, una scuola Gialla per chi al contrario non raggiunge il target statuito. A identificare le categorie vi sono gli stessi mezzi, distinti per colore e con mete predestinate in funzione a essi. Tutti, indistintamente tra grandi e piccini, vengono sottoposti al test Q, un esame le cui prove sono di volta in volta sempre più difficili e che viene a essere ripetuto con cadenza mensile. Basta totalizzare un punteggio anche leggermente inferiore a quello prestabilito per essere cambiati di destinazione. E questo, il caso vuole che sia, proprio quello che succede alla figlia minore della protagonista che a causa dello stress, a causa della sottoposizione a una competizione senza fine, a causa di tanti fattori, viene destituita a una scuola gialla. Il problema è che per ragioni di stampo organizzativo e numerico, o ad ogni modo “superiori”, è stato deciso di spostare queste strutture fuori dal centro della città, o meglio, fuori proprio dai confini dello Stato. Si badi bene che l’impronta scolastica si ripropone anche su quella lavorativa tanto che essere appartenuti all’uno o all’altro colore, per effetto, determina anche quello che sarà il futuro dell’essere umano. Da ciò si desume che non vi è prospettiva alcuna per chi è il reietto, categoria sostituita altresì dalle macchine e dunque inutile. L’obiettivo finale sembra essere quello di precostituire un individuo perfetto, la razza pura per eccellenza eviscerata da ogni non puro. Può una madre tollerare di essere separata così dalla figlia soprattutto quando il marito sembra quasi essere felice di essersi levato il peso di quell’insuccesso per tenere al proprio fianco soltanto la figlia migliore e prediletta? E perché nell’ultimo periodo sono sempre più gli studenti ex migliori a essere ricollocati in scuole di grado inferiore? Cosa sta succedendo?
«Mi chiedo cosa faremo delle persone che non sono più necessarie.»
Il sistema che viene a delinearsi è caratterizzato da assenza di libertà personale e di pensiero che vengono sostituite da un meccanismo di propaganda e indottrinamento dal quale è impossibile uscire. Per certi versi, questo carattere rimanda al celebre “1984” di George Orwell. Ciò si evince da quegli stessi comunicati che si susseguono con cadenza regolare per aggiornare la popolazione degli sviluppi e delle decisioni prese.
Il tema trattato dalla scrittrice è molto interessante, forte e attuale. Suscita la riflessione e porta il pubblico di lettori a interrogarsi su quelle che sono le problematiche sottese.
L’opera per certi versi ricorda l’impostazione di “Vox”, soprattutto nella prima parte, ed è caratterizzata da personaggi eterogenei che ben snodano le vicende seppur talvolta possano risultare essere troppo macchinosi. La curiosità è destata nel lettore all’inizio per un naturale interesse che viene a nascere, successivamente perché questo si chiede ove la romanziera voglia arrivare. Quel che onestamente rende un poco faticosa la lettura è impronta stilistica che tende a spiegare troppo, a essere troppo descrittiva tanto da risultare talvolta superflua e in più. Ciò influisce sul ritmo che rallenta e subisce a più riprese una battuta d’arresto. L’interesse verso il narrato perde per questo di forza e se non fosse per la curiosità di giungere sino alla conclusione probabilmente verrebbe completamente meno. Cosa questa che con qualche taglio in più non sarebbe accaduta.
Ad ogni modo “La classe” resta un romanzo superiore a “Vox”, piacevole nello scorrimento e capace di suscitare alla riflessione. Non da gridare al capolavoro ma da leggere per meditare e porsi domande.
«Mi chiedo se non continueremo a giocare finché le pedine non cominceranno ad avvicinarsi e si sposteranno dalle Loro scacchiere alle Nostre.»
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L'uomo che puliva
«Tutta la storia, si ripete il bambino, fluttuando sempre in quella specie di sogno doloroso. Qual è la mia storia?»
“L’uomo che puliva” non sa perché lo ha fatto. Poteva andarsene, poteva fregarsene, eppure, non ha potuto. Forse perché quel corpo all’interno del lago gli ricordava quel bambino di cinque anni che stava affogando in una putrida piscina tanti anni orsono con una madre disattenta e incapace di amare, forse semplicemente perché ha seguito l’istinto. Sta di fatto che adesso “Fuck”, la ragazza con il ciuffo viola, ha riaperto in lui un qualcosa di sopito: la paura. Ma ha acceso in lui anche altro, ha riattivato nel suo cuore e nella sua mente una diversa volontà di vivere e approcciarsi al mondo. Lui che è sempre stato invisibile, lui che ha sempre seguito la mano e la volontà di colui che è celato dietro la porta verde, non si nasconde ma osserva.
Al contempo, mentre la ragazza di tredici anni è sopravvissuta e si trova in convalescenza, un’altra donna sta indagando su misteriose morti di vittime femminili spesso vittima della violenza maschile. Da ben cinque anni è attiva in questo campo e non manca mai di intervenire quando una donna chiede il suo aiuto con quel barattolo di cetriolini nascosto nel banco freezer di un supermercato o quando, anche più semplicemente, urla nel silenzio. Il ritrovamento del braccio di una sessantenne all’interno del lago la porterà a ricomporre i tasselli di un puzzle più grande di lei e caratterizzato da volti del presente e del passato che la obbligheranno a fare i conti con quella ferita mai placata che la accompagna da cinque lustri e che continua a pulsare.
«Le storie non sono mai lineari, si ripeteva, pensando anche alla propria. Invece sono labirinti. E, a volte, ci si imbatte in porte chiuse che immettono in realtà parallele o in altre storie segrete.»
Donato Carrisi torna in libreria con un titolo che ha il desiderio di trattare tematiche importanti e attuali che vanno dal bullismo, al cyberbullismo, alla violenza sessuale su minore, all’induzione alla prostituzione, ai legami familiari, alla violenza di questi su congiunti e minori, alla violenza sulle donne, all’omicidio e ai soprusi in generale. Soffermare l’attenzione, riportarla al centro di queste problematiche, è chiaramente l’obiettivo centrale che si cela tra queste pagine ispirate, oltretutto, come da nota conclusiva, a fatti realmente accaduti.
Tanti buoni propositi e tanti obiettivi che rischiano però di essere troppo e di far perdere di intensità al componimento che se parte con una sincera curiosità e quella giusta dose di interesse tale da trattenere il lettore, piano piano, già da prima della seconda metà, ne provoca una inevitabile perdita. Pur non mettendo in discussione la capacità narrativa dell’autore e il suo intento di sensibilizzare a una tematica, la lettura poco alla volta ma diventa sempre più fiacca e prevedibile. Il lettore nota sempre più contraddizioni, il ritmo si affievolisce, i personaggi perdono di forza e profondità, l’epilogo è debole, spossato, supponibile e anche poco soddisfacente se proporzionato a quello che era l’oggetto del narrare.
“Io sono l’abisso” è un titolo che attrae e che respinge, che si propone al lettore come un pasto lauto e gustoso per poi rivelarsi molto nouvelle cuisine ovvero tanta apparenza ma poco contenuto. Può piacere anche per questo ma la fame resta.
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- sì
- no
Rintaro e Tora
Con i suoi anfratti e corridoi la libreria Natsuki è un luogo ove le anime solitarie sono solite ricoverarsi per trovare ristoro e coccolarsi tra le pagine dei libri. Gli amanti della letteratura qui trovano i capolavori di tutto il mondo nonché il posto perfetto in cui ristorarsi e staccare dal frastuono della quotidianità. Tuttavia, la notizia giunge inaspettata: il proprietario è venuto a mancare improvvisamente. A succedergli nella gestione è il nipote Rintaro, un giovane timido e introverso, un ragazzo con nessuna specifica e particolare qualità. Anzi. È un giovane nella norma, senza particolari talenti e molte molte lacune. Deve prendere anche una decisione importante, Rintaro. Perché la libreria è sull’orlo del fallimento, perché l’eredità che gli è stata lasciata è tutto tranne che piacevole. È in uno di questi momenti di riordino e meditazione sul da farsi che un misterioso gatto, di corporatura robusta e imponente, con la pelliccia a strisce ocra e marroni e il nome Tora, compare nella libreria parlandogli e convincendolo a compiere un viaggio inaspettato, un viaggio che li porterà a percorrere quattro diversi labirinti, ciascuno volto a risolvere e ad affrontare questioni esistenziali di diverso genere.
«Gli studiosi non fanno altro che sfogliare libri, alla fine perdono la capacità di pensare. Quando non stanno leggendo, non ci riescono più»
È da queste brevi premesse che ha inizio “Il gatto che voleva salvare i libri”; opera con la quale l’autore ci conduce per mano in quello che è un nostro itinerario completamente introspettivo. Tra queste pagine riscopriremo la gioia del leggere ma anche la sua importanza. Il narratore ci ricorda quanto la letteratura possa darci ma anche quanto questa sia in grado di arricchirci. Ci invita, ancora, a riflettere sul quanto sia fondamentale la condivisione nella lettura e quanto sia vitale il messaggio che da questa può giungere. Il contenuto va oltre le apparenze, va oltre le quantità o le collezioni. Quel che conta è il lascito ma prima ancora il viaggio che tra quelle pagine viene compiuto.
Un messaggio per ogni labirinto, una storia che si lascia semplicemente divorare.
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Introspezione in quel di maggio
Un concentrato di letteratura è l’opera di Peter Handke, opera all’interno della quale il protagonista è mosso dal desiderio di vendicarsi di un’antica calunnia subita dalla madre defunta. È per questo che si mette in viaggio alla ricerca della giornalista alla quale adduce l’addebito del torto subito.
La madre e il suo ricordo, l’Austria, che nel tempo e nello spazio si ripresenta, il viaggio che è un peregrinare, da sempre sono temi cari alla scrittura di Handke insieme a quell'itinerario introspettivo che da sempre l’accompagna.
L’autore trasporta tra le pagine pensieri, opinioni, ironia, e flusso interiore. Un flusso interiore ininterrotto e continuo. Il tutto da un punto di vista unico in cui il lettore è direttamente interpellato dal protagonista e dunque dallo stesso Peter. Titolo, ancora, che inizia “in media res” e con il “vendicatore” che passa all’azione mettendosi in viaggio in quella tarda primavera del mese di maggio che tinteggia quel passato che riaffiora tra la memoria e il ricordo.
Ma la vendetta è soltanto l’inizio di quello che accompagna nel percorso letterario perché come nel perfetto romanzo di formazione questa si trasformerà in un viaggio di rinascita e di riappacificazione con il passato. Il protagonista riesce per mezzo della letteratura a liberarsi dei suoi fantasmi e dei propri fardelli e per mezzo di quella seconda spada, di cui al titolo, ritroverà se stesso.
Elaborato dai toni evocativi ma anche vaporosi, “La seconda spada” è un titolo che chiede di essere interpretato e che non si ferma a una lettura superficiale. È uno scritto che chiede di essere letto un poco alla volta e che può non arrivare a causa dell’impostazione narrativa in quanto chi legge, soprattutto nella prima parte, fatica a ricomporre il puzzle e a capire dove il narratore voglia condurre. Apparentemente la sensazione è quella di una non trama a cui è richiesto uno sforzo notevole da parte del conoscitore.
È un libro, dunque, che consiglio soltanto agli appassionati del genere perché il rischio di una delusione è alto così come quello del suo non arrivare.
Gli ammutinati
«Fuori è buio fondo, ma dentro tutte le lampade, i lampadari, le applique sono accesi, anche l’abat-jour sullo scrittoio all’ingresso. Il contrasto con la notte ferisce i suoi occhi, ma l’uomo sa di avere poco tempo e procede senza indugi.»
La donna ha esalato il suo ultimo respiro, il corpo giace privo di vita. È il rumore della televisione a condurlo; sul divano di pelle nera, di spalle, c’è lei, la testa reclinata all’indietro, le membra abbandonate a quel sonno improvviso. Il tempo è poco. L’uomo è senza fiato, il suo cuore accelera. I begli occhi verdi della ragazza sono serrati, le labbra dischiuse mostrano quella fila di denti bianchi e candidi. È pallida. “Perché non mi hai ascoltato? Perché non mi hai voluto?”, si chiede. Tante sono le domande che gli riempiono la mente, la rabbia monta improvvisa, il tempo è sempre meno e lui deve sbrigarsi. Deve agire in fretta. Ha perso la ragione o chissà, forse, per la prima volta in tutta la sua vita sa e capisce cosa deve fare.
Il suo nome è Viviana Ferrante, o almeno, un tempo così era conosciuta questa giovane donna di trent’anni con un passato turbolento e un presente quasi nella norma. Si escludono violenze, nel suo appartamento messo a soqquadro, non vi è traccia alcuna di un possibile movente. L’unica cosa certa è che la morte sembra essere determinata da mano altrui e forse proprio per quelle ragioni del suo vivere che tanto l’hanno segnata negli anni, quasi come se il suo aver errato fosse la più grave delle macchie su una fedina penale. Tuttavia, i sospetti, in vista di quest’unica possibile e ipotetica pista, riportano tutti a un unico e altrettanto possibile e ipotetico sospettato: Danilo Secchi. Ex galeotto tornato in libertà da un tempo sufficiente per la commissione del fatto di reato, è indiziato numero uno in quanto le modalità di commissione del fatto delittuoso corrispondono a quelle medesime che anni prima lo avevano condotto dietro le sbarre, che avevano portato al ritrovamento delle sue impronti digitali. E non conta che siano mere prove indiziarie, non rileva che il nostro ordinamento si basi sul principio costituzionalmente riconosciuto del giusto processo e della colpevolezza accertata, come anche da codice di procedura penale, oltre ogni ragionevole dubbio in virtù dell’onere formale e sostanziale della prova. Non conta. Non conta perché se hai precedenti penali sei l’indiziato numero uno, il quasi certo colpevole, numero uno. I dati non mentono, le statistiche nemmeno; le probabilità che un recidivo torni a delinquere sono proporzionalmente superiori a quelle di un “nuovo delinquente”.
In questo calderone di certezze e indagini sommarie condotte da un funzionario di polizia tutt’altro che avvezzo alla ricerca della verità vi è però anche chi crede nell’innocenza di Danilo e questo qualcuno non ha intenzione di restare con le mani in mano. Ecco perché Marco Maletti, di anni trentacinque, detto Argo, informatico con un posto stabile presso una banca sul quale ha fondato ogni sua certezza sin da dopo la laurea, coniugato con la danese Elsie e padre di due bambini, Ricky, il primogenito, ed Edo, il secondogenito, verrà contattato da Lans Iula, amico di vecchia data, grande pittore, a sua volta finito in carcere per una ragione radicata in un passato prossimo non ancora remoto.
«Ora, nella grande casa finalmente deserta, Marco pensò che era scappato tutta la vita da quello spauracchio solo per gettarsi dritti nelle sue fauci.»
Lans torna a bussare alla sua porta per coinvolgerlo nell’indagine Secchi, circostanza che porterà Argo a conoscere il Club Montecristo, associazione capillare di ex galeotti volta ad aiutare gli ex detenuti a reinserirsi nella società e a vincere quel preconcetto stante il quale chi commette reato una volta è delinquente recidivo e abituale sempre nonché atto a intervenire e a dimostrare la verità quando le autorità sono miopi o poco inclini a indagare sino a fondo. A credere nell’innocenza di Danilo e a ravvisare delle forti incongruenze nella ricostruzione dei fatti vi è l’ispettrice Lana, la quale si scontrerà con un mondo maschile ove la sua presenza è “di troppo” ma che funzionerà anche quale bilanciere tra i quattro protagonisti principali che verranno proposti da Fabiano Massimi. Quattro principali protagonisti, badate bene, ai quali si sommano altrettante e molteplici personalità che pagina dopo pagina conosceremo sempre più con profondità.
«Si può finire per apprezzare la vita in una cella, se è una cella con vista.»
Con “Il Club Montecristo” Fabiano Massimi torna in libreria con un giallo curioso e originale che incuriosisce sin dal suo principio e che conduce senza difficoltà sino alla sua conclusione. Massimi riesce a donare al suo pubblico un elaborato che al contempo è intriso di humor – tanto da strappare grasse risate ai suoi lettori – ma anche di profonde riflessioni su temi di grande attualità. L’opera ruota interamente attorno a una trama che non si esaurisce nella mera risoluzione dell’enigma con il quale ha inizio, anzi. Il testo scorre rapido, non è mai scontato e niente è come appare. Viene ricomposto un puzzle che tassello dopo tassello riporta a quell’epilogo originale e che sorprende.
I personaggi, ancora, sono tutti, principali e non, perfettamente caratterizzati e muniti di una personalità eclettica che li fa entrare subito in simpatia ed empatia con il conoscitore. E se pensate che sia finita qui, vi sbagliate. Perché l’autore ci invita anche a riflettere su tematiche del nostro oggi, problematiche da troppo tempo irrisolte e che comunque ci coinvolgono già nei semplici fatti di cronaca che ascoltiamo al tg o che leggiamo sui giornali e dunque obbligandoci a riflettere su quel che conosciamo e che osserviamo, obbligandoci a porci grandi interrogativi di carattere filosofico e morale. Perché “Il Club Montecristo” ruota attorno al concetto di reinserimento sociale dell’ex detenuto ma anche sul tabù verso questo da parte di una società costruita e cristallizzata sul dogma della certezza della reiteratezza del reato da parte di chi è già stato oggetto di condanna penale e conseguente pena detentiva. Massimi riesce a far meditare il lettore su questo aspetto e riesce a invitarlo a guardare oltre le apparenze perché tutti abbiamo diritto a una seconda possibilità, tutti sbagliamo. Ma tutti dobbiamo anche avere gli strumenti per non commetterli più quegli errori e crescere.
A completare il quadro una penna minuziosa, fluida, rapida che carezza, prende per mano, conduce e conferma le doti narrative di un autore che abbiamo conosciuto con un altrettanto gran romanzo ma di carattere storico: “L’angelo di Monaco” (classe 2020). Questa volta Massimi si spoglia dei panni del romanziere storico e indossa quelli del narratore contemporaneo dimostrando di non essere vincolato ad alcun unico filone letterario quanto, al contrario, di essere uno scrittore eterogeneo e versatile. Non stupisce dunque che nel 2017 abbia vinto il Premio Tedeschi con l’opera de qua – “Il Club Montecristo”.
Humor, divertimento, riflessione, indagine e un mistero da scoprire, questo e molto altro troverete in questo scritto; un giallo dalle tinte apparentemente leggere alla Manzini e Malvaldi, ma con le dovute differenze e con dei contenuti che non lasciano indifferenti.
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Letture tra divertimento e magia
«Lei teneva la guancia premuta contro il mio petto. Anch’io ero spaventato, ma lo ero da così tanto tempo che la paura era diventata parte di me, si era avviluppata intorno e dentro di me come una vite, nutrendosi della stessa linfa che teneva in vita il resto di me.»
Un manoscritto affidato e da rilegare da una prestigiosa collezionista a uno dei migliori rilegatori. Una unica condizione: non leggerlo. Passano i mesi e della donna si perdono le tracce sino a che si scopre che ella è morta, forse addirittura per mano altrui. A quel punto, che fare? Continuare a mantenere la promessa o dedicarsi alla lettura di quel testo così particolare? Resistere è impossibile così come, poi, è impossibile non pubblicare quel che tra quelle pagine è custodito.
L’educazione di un mostro” vede protagonista Charles Baudelaire che dopo essere stato investito da una carrozza viene soccorso e portato in una villa fuori Bruxelles ove una misteriosa padrona di casa dimostra di conoscerlo molto, molto, molto bene.
“La città fantasma” che ci riporta a Parigi sulla tomba di Baudelaire davanti alla quale si incontrano un uomo e una donna. Lui è un rifugiato tedesco mentre lei una donna dal passato oscuro e del quale sappiamo soltanto essere appassionata di poesia. L’esercito nazista porta la città all’evacuazione eppure loro due decidono di restare e Madeleine, la donna, racconta la sua storia incredibile a quell’uomo a cui poi affiderà un compito riguardante proprio il manoscritto dello scrittore perito e intitolato “Città fantasma”.
“I racconti dell’Albatro” ove Aula, colei che ricorda, inizia il suo viaggio da quella sperduta isola del Pacifico alla ricerca di Koahu, colui che dimentica. Un viaggio, questo, che giungerà fino a Parigi, fino al 1940.
Tre manoscritti, tre periodi storici diversi, tre storie che si uniscono e fondono tra loro in quella che è una storia caratterizzata da un unico filo conduttore e dove non mancano gli elementi più cari ai lettori e che vanno dalla storia d’amore, alla magia e al misticismo, al romanzo storico, a quel pizzico di fantasy che lo rende completo. Per quanto si tratti di narrativa d’intrattenimento il titolo richiede di essere letto con attenzione ed è caratterizzato dalla peculiarità di poter essere letto in due modi, o nella maniera canonica ovvero seguendo l’ordine delle pagine, oppure, seguendo la “lettura della Baronessa” e dunque saltando di parte in parte nel testo a seconda delle indicazioni che vengono date alla conclusione di ogni capitolo. In quest’ultima modalità le storie si intrecciano in un modo particolare tanto da fonderle tra loro e rendere la lettura non soltanto divertente ma anche più particolare rispetto a una lettura classica che rischia di trasformarlo in una raccolta di racconti.
Curioso, da scoprire e da godere.
«A volte sono proprio le persone più semplici a essere le più coraggiose.»
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Vardo
“Vardo. Dopo la tempesta” è una storia che si apre in uno dei periodi più bui della Storia dell’occidente ed è ancora un titolo che ruota attorno alla superstizione, al degrado, all’ignoranza, alla crudeltà e alla repressione del più debole e di ogni forma di autodeterminazione. È un titolo che si snoda attorno alla caccia alle streghe, all’Inquisizione radicata nella realtà nordica ma soprattutto attorno a fatto storico realmente accaduto. Vardo, infatti, nota quale capitale delle streghe della Norvegia, fu colpita in quel lontano 1617 da una terribile burrasca che tutti colse impreparati tanto da mietere tutte vittime maschili. A riva furono riportati soltanto i corpi di quegli uomini periti, le cui donne furono lasciate completamente sole. Ciò fu l’espediente per eccellenza per urlare alla stregoneria in quanto furono proprio le figure femminili ad essere accusate di aver causato la tempesta avvalendosi dell’aiuto del Diavolo.
«Vardø è un’isola, il porto sembra un morso staccato da un lato, per il resto la costa è troppo ripida o troppo rocciosa per mettere in mare le barche. Maren ha conosciuto le reti prima ancora di conoscere il dolore, le intemperie prima di conoscere l’amore. D’estate le mani di sua madre scintillano di squame di pesce, i filetti appesi fuori a salarsi ed essiccare come fasce per neonati, oppure avvolti in pelle di renna e sepolti a fermentare. Pappa diceva sempre che era il mare a dare forma alla loro vita. Hanno sempre vissuto per sua grazia e per grazia sua sono morti. Ma la burrasca l’ha reso un nemico e discutono brevemente di andarsene.»
Queste otto donne accusate di atti impuri con il diavolo quel 24 dicembre 1617 avrebbero scatenato la tempesta con l’unico fine di uccidere i quaranta uomini dell’isola per prenderne il possesso. Per quanto le abitanti tentino di ripristinare un ordine e un equilibrio, questo viene messo subito in discussione dal sopraggiungere del sovraintendente Cornet, in arrivo dalla Scozia per ordine del Lensmann del Finnmark, e a seguito di un editto contro la stregoneria emanato appunto dal re di Danimarca e Norvegia Cristiano IV, deve indagare sui sospetti che ruotano attorno alle sopravvissute. Qui egli è accompagnato dalla moglie Urdola, detta Ursa, che non conosce il mondo al di fuori della sua dimora e che, al contempo, non è capace di gestire una casa così come di soddisfare il proprio compagno. A Vardo scoprirà una realtà che la obbligherà a maturare.
«Non l’avrebbe mai immaginata, quell’oscura cognizione che tutte le mogli sono costrette ad acquisire: i mariti squarciano per sé uno spazio dentro i loro corpi.»
Ha inizio da queste brevi premesse l’opera della Hargrave, un elaborato che ha il grande merito di riuscire a rendere perfettamente le atmosfere e il clima del tempo ma anche quelle dei luoghi con tutte le loro difficoltà ambientali. Se i personaggi sono descritti in modo diretto ma abbozzato tanto da emozionare ma non suscitare empatia, le stesse ambientazioni sono caratterizzate nel minimo. La narrazione procede con un ritmo un poco altalenante – prima lento, poi più rapido, poi nuovamente più cadenzato – e con parti che diventano più concrete soltanto nel proseguire dell’opera e altrettante, al contrario, immediatamente incisive. A far da scenario ma non per questo in secondo piano, la ricostruzione storica che non manca di dettagli tali da rendere immediata la percezione sensoriale del periodo.
Non è un libro semplice, non è un libro da leggere per staccare. È uno scritto che regala emozioni ma che soprattutto porta alla riflessione, che sfida, in un certo senso, il lettore e che per questo è consigliabile leggere nei momenti più di calma e non in quelli più caotici. Il rischio è di non riuscire a godersi del viaggio e del lascito del componimento.
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Ieri e oggi
Classe 1996 “Ritorno a Pompei” si apre con l’alter ego letterario di Amélie Nothomb che si ritrova nel XXVI secolo in compagnia di Celsius, dotto scienziato che le descriverà il funzionamento della società del futuro. Come sarà questa? Come apparirà e quale genere di premesse l’umanità sta ponendo nel presente per fondare e poi conoscere il mondo di domani? È da questa interrogazione che il lettore, dopo un serrato botta e risposta proprio della narratrice che sovente si avvale della forma dialogica per esporre le sue tematiche e dar voce ai suoi protagonisti, si ritrova a riflettere e a essere catapultato in una dimensione che potrebbe quasi essere paragonata al fantascientifico o al distopico. In particolare perché questo scambio tra scrittrice del nostro tempo e scienziato-filosofo di ventiseiesimo secolo porterà, in questo 2580, a riaffrontare la distruzione di Pompei. L’energia che ha portato alla sua distruzione sfocerà in una riflessione filosofica sul decadimento e in particolare si aprirà una diatriba su quello che è il progresso culturale. Verranno affrontate questioni quali il valore estetico, la morale, la giustizia, la libertà. Il tutto procedendo per paradossi, iperbole, e circostanze assurde agli occhi del conoscitore.
Un elaborato caratterizzato da molti elementi riconoscibili della penna della Nothomb, fuori dal comune, che non teme di affrontare la surrealità e che porta a una inevitabile riflessione sul nostro quotidiano e sull’attualità.
"Il Bene non lascia alcuna traccia materiale – e dunque nessuna traccia, perché lei sa quanto valga la gratitudine degli uomini. Nulla si dimentica in fretta quanto il Bene. C’è di peggio: nulla passa tanto inosservato quanto il Bene, perché il vero Bene non pronuncia mai il suo nome e, se lo pronuncia, cessa di essere il Bene per diventare propaganda. Il Bello invece può durare per sempre: in sé è la sua stessa traccia. Si parla di lui e di coloro che lo hanno servito. Il che dimostra che il Bello e il Bene sono retti da leggi opposte: più si parla del Bello, più diventa Bello; più si parla del Bene, meno esso lo è."
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Clara Simon
Clara non riesce proprio a passare inosservata per quanto ci provi. Che sia per i suoi lineamenti, che sia perché la madre di origini cinesi è morta di parto, che sia perché il padre è disperso in guerra ed ella è cresciuta dal nonno Ottavio Simon, un personaggio eclettico e da tutti conosciuto in quel dei Cagliari, in ogni caso non le è possibile. E quel nonno non riesce mai a dir di no a quella nipote, mai. Anche quando il suo sogno è quello di scrivere come giornalista e di essere addirittura giornalista investigativa, anche quando il suo sogno è a dir poco irrealizzabile in quel dell’inizio Novecento. Quando viene a sapere dalle sigarie della scomparsa di molti “picious de crobi” il suo desiderio di sapere e far luce prende completamente il sopravvento. I ragazzi, facchini del mercato ed esponenti per eccellenza della miseria del mondo, hanno iniziato a sparire in circostanze tanto misteriose quanto inspiegabili. Sarà insieme a Ugo Fassberg, amico di infanzia e redattore del giornale per il quale scrive, e del tenente Rodolfo Saporito, con un debole nei suoi confronti chiaro e lampante, che avrà inizio la ricerca e soprattutto il tentativo di svelare cosa sta accadendo a questi dimenticati e reietti di cui la memoria ha perso traccia. Riusciranno a far luce sulla vicenda?
Francesco Abate torna in libreria con un delizioso giallo caratterizzato dalla presenza di personaggi eclettici e originali e da una trama che si lascia divorare e scoprire senza difficoltà. Lo scritto scorre rapido tra le mani del lettore, invita ad andare avanti e pone anche molteplici interrogativi su quel mondo che oggi ci sembra essere così lontano. Uno spaccato di un tempo che fu mixato con una lettura godibilissima e che solletica la curiosità.
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