Opinione scritta da Valerio91
447 risultati - visualizzati 351 - 400 | 1 2 3 4 5 6 7 8 9 |
La Christie è come la cioccolata
Il mondo romanzesco e intasato di gialli. Ne puoi trovare di ogni tipo, scritti da autori di ogni nazionalità ed epoca.
Eppure ci sono gialli che si piazzano con merito una spanna sopra gli altri. Sono come qualcosa che amiamo mangiare, la gustiamo, ne percepiamo il sapore unico e diverso da ogni altro tipo di cibo, e in certi momenti ci assale la voglia di mangiarne un po'. Così sono i gialli della Christie che, tornando alla metafora precedente, rappresentano un po' la cioccolata del genere. Ho un altro autore che prediligo, ma la Christie è praticamente lì. I suoi libri sono magnetici, piacevoli, intriganti, intelligenti.
"C'è un cadavere in biblioteca" non fa eccezione, e vi dirò, mi ha confermato che la Christie dà il suo meglio nei romanzi più che nei brevi racconti. Scorrevole e interessante, mi sento di consigliare questo libro a chi cerca una lettura piacevole al cento per cento.
Il cadavere di una giovane donna viene ritrovato nella biblioteca della rispettabile famiglia Bantry. Ma nessuno ha idea di chi sia. Si verrà sapere chi si tratta di una giovane ballerina, assassinata per motivi ancora ignoti. Una sfilza di personaggi, tutti sospettabili e caratterizzati in maniera impeccabile anche in poche righe, vi si presenteranno davanti, facendovi immergere in questa intricata storia. Una storia dove tutto è ignoto e per niente chiaro, e dove nessuno, nemmeno voi, può farsi un'idea certa del colpevole.
Oh, giusto, dimenticavo Miss Marple. Sospetto abbia fatto scuola da un certo signor Holmes.
"La natura umana è sempre la stessa, Sir Henry."
Indicazioni utili
Arthur Conan Doyle.
Ci sono autori e autori
Io penso che ci sono autori adatti a scrivere romanzi, autori adatti a scrivere sceneggiature e autori che riescono a fare entrambe le cose contemporaneamente. In maniera consapevole o anche inconsapevole.
Cormac McCarthy, con il suo "Non è un paese per vecchi", aveva creato un grande romanzo e inconsapevolmente una sceneggiatura da ben 4 premi Oscar. Ma non era certo un film l'idea di partenza.
"The Counselor", che invece è una vera e propria sceneggiatura, non ha avuto la stessa fortuna, è stato bensì aspramente criticato. E in effetti non abbiamo di fronte nulla di eccezionale, e per spiegarmelo ho trovato una teoria tutta mia.
Per McCarthy scrivere una sceneggiatura è come guidare un auto col freno a mano tirato. Non riesce ad essere sé stesso, è ridimensionato, non certo nella crudezza, che permane ai suoi soliti livelli, bensì nella profondità, nelle riflessioni, nella poeticità.
Questo non è dovuto a una carenza dell'autore, bensì all'impossibilità di esprimere pienamente tali cose mentre si scrive una sceneggiatura, perché in quest'ultima l'unico momento in cui è possibile liberarsi a delle riflessioni è nei dialoghi tra i personaggi, ma questi scambi di idee non possono essere eccessivi numericamente nè filosoficamente. Perché un film cerca la massa, mentre i libri, soprattutto quelli di grandi autori come McCarthy, sono destinati a un pubblico più ricercato ed esigente (come me).
Ed è questo il problema di fondo, perché "The Counselor", come consueto per le opere dell'autore, non ha una grande trama, questa è solo un pretesto per mettere in risalto il torbido dell'animo umano, cosa in cui Cormac è un maestro.
Semplice, brutale. Un avvocato, spinto dalla voglia di fare soldi e regalarsi una vita d'agi, si infila in degli affari più grandi di lui, ai quali non è né adatto né preparato, come non è preparato e consapevole della profonda oscurità che può essere presente in alcuni esseri umani.
In alcuni tratti, nei dialoghi come dicevo, si può ammirare il grande stile dell'autore, la profondità delle sue riflessioni, la sua crudezza talvolta eccessiva, ma distintiva. Ma è chiaro che non può essere sé stesso al cento per cento, e il risultato non è dei migliori.
Ti prego, Cormac, regalaci altri capolavori, ma che siano romanzi, perché è nella letteratura che dai il meglio di te. Chissà che, magari inconsapevolmente, tu non possa creare un'altra grande sceneggiatura e prendere due piccioni con una fava.
Ma è nella letteratura che ti vogliamo.
"Ha detto che sono ad un bivio."
"Sì. Al momento di capire che la vita è un biglietto di sola andata. Non intendo dipingere il mondo a tinte più fosche di quanto non sia, ma quando il mondo cede il passo alle tenebre diventa sempre più difficile negare la consapevolezza che il mondo sei tu. È una cosa che hai creato tu, né più né meno. E quando smetti di esistere il mondo fa lo stesso. Ci saranno altri mondi. Certo. Ma sono i mondi di altri uomini e la tua comprensione di quei mondi comunque non è mai stata più di un'illusione. Il tuo mondo - l'unico mondo che conta - sarà scomparso. E non tornerà mai più. L'estinzione di ogni realtà è un concetto che nessuna rassegnazione può abbracciare. Finché sopraggiunge l'annientamento. E tutte le nobili idee si mostrano per quello che sono."
Indicazioni utili
- sì
- no
Personalità profondamente negativa
Questo romanzo di Ian McEwan è stato un po' una delusione. Non parlo di occasione sprecata, perché non ci sono grandi idee inespresse, bensì parlerei più di talento dello scrittore sprecato, perché è indubbio che Ian McEwan con la penna ci sappia fare.
Il romanzo parte in quarta, tanto che dalle prime pagine ti aspetti un grande libro, ma con il proseguire delle pagine lo stile perde di spessore, il contenuto cala a picco, la piacevolezza e la voglia di leggere con lui.
Tutto si incentra sul professor Beard, personaggio tra i più negativi che io abbia mai incontrato. Non perché nasconda una malvagità perversa, ma perché meschino e incapace di vivere. Non ispira odio, bensì profonda pietà, che forse è anche peggio.
Uomo intelligente e che paradossalmente meriterebbe il premio Nobel per la stupidità, piuttosto che per la materia per la quale lo ha realmente ricevuto. Per la fisica, immagino, anche se tutto questo grande genio, se presente, viene completamente eclissato dalla sua biblica mole di difetti.
Beard è un donnaiolo, incapace di amare, infedele, sleale, ladro, subdolo. Un uomo che potrebbe probabilmente avere quasi tutto dalla vita, ma che getta al vento tutto a causa della sua personalità incontentabile, egoista e menefreghista. Un uomo che non affronta i propri problemi, non importa quanto grandi essi siano, il suo modo di risolverli è semplicemente non pensarci, e nemmeno quando questi ti travolgono come un treno. Hai fatto sbattere in galera per omicidio un innocente? Non pensarci! Hai rubato la proprietà intellettuale di un uomo morto, e con questa hai costruito la tua fortuna? Goditela! Hai il cancro? Poi si vedrà, ho di meglio da fare che curarmi, in questo momento! Peccato che i problemi siano un nemico ingannevole, che se ignorato magari ti lascia in pace per un bel po', ma che poi torna inevitabilmente a cercarti, parecchio più arrabbiato di prima.
"Si sentì invadere dalla gradevole illusione di amare la gente. Tutti perdonabili, nessuno escluso. Tutti in qualche misura disposti a collaborare. Ma anche egoisti, talvolta crudeli, ma soprattutto divertenti. Comunque sì, provava un insolito affetto per il genere umano. Pensó addirittura che potesse essere ricambiato. Ciascuno di noi, tutti quanti, destinati senza scampo ad affrontare individualmente l'oblio, eppure nessuno che si lamenti troppo."
Indicazioni utili
L'uomo esiste solo dentro di sé
Se apri un libro di William Faulkner e non sai a che cosa vai incontro, sei un uomo finito. Nel caso in cui tu sia abbastanza temerario da arrivare all'ultima pagina, potresti trovarti a dire: "Ma che diavolo ho appena letto?".
Perciò, tu che stai aprendo "Mentre morivo", sappi che stai per imbatterti in una lettura oltremodo complessa, volutamente articolata. La complessità di Faulkner è dovuta al suo stile particolare, che attinge a piene mani dalla tecnica del flusso di coscienza, anche se in maniera meno marcata rispetto alla sua opera più conosciuta : "L'urlo e il furore".
È una tecnica che rende la lettura più ardua, ma adoperata da maestri come Faulkner diventa uno strumento infallibile per scrutare e caratterizzare in maniera unica e profondissima i personaggi.
Il libro è diviso in brevi capitoli, ognuno dei quali presenta un diverso Io narrante, alternandosi tra i vari protagonisti, approfondendo i loro diversi stati d'animo, le loro variegate reazioni agli stessi eventi, la loro distinta percezione della stessa realtà.
Perché ogni uomo è un essere a sé.
Il romanzo è incentrato su una famiglia di semplici contadini americani, i Bundren, che si trovano improvvisamente privati di un punto di riferimento, di un vero e proprio centro di equilibrio, la signora e madre Addie Bundren.
La sua morte manderà questa povera famiglia allo sbaraglio, palesando i limiti e i difetti di ogni componente della stessa.
Nell'adempimento dell'ultimo desiderio della defunta, ovvero quello di essere seppellita nella sua città natale, i Bundren intraprendono un breve viaggio che rende evidente la loro mancanza d'amore reciproco.
La peculiarità di Faulkner sta nello scrutare gli angoli più infimi dell'uomo, la sua meschinità, il suo egoismo incontrollato. L'autore non risparmia nemmeno la defunta, alla quale dedica un capitolo di ampio spessore letterario, in cui lo scrittore rende nota quella che è una sacrosanta verità: anche nella fine, rimaniamo gli stessi uomini che siamo stati da vivi, senza alcuna attenuante dovuta alla tragedia della morte.
La figura rassicurante della famiglia viene abbattuta, almeno come concetto universale. Perché vi sono realmente al mondo famiglie come i Bundren, i cui componenti sono carichi di rancore gli uni verso gli altri, risentiti per quei sacrifici fatti in nome della famiglia ma non realmente voluti in fondo al cuore.
Perché all'esterno non siamo gli uomini che siamo dentro; perché l'uomo può dare sfogo ai suoi reali e illegali pensieri solo dentro di sé, perché è solo e soltanto in questo luogo astratto che può essere ciò che è realmente, libero dal giudizio di un mondo falso e infettato da una fasulla normalità plasmata dall'ipocrisia delle leggi sociali.
Allora... Adesso sei consapevole di quello a cui vai incontro?
"Ma non sono poi tanto sicuro che uno abbia il diritto di dire che cosa è pazzo e che cosa non lo è. È come se dentro a ognuno ci fosse qualcuno che è al di lá dell'esser normale o dell'essere pazzo, e le cose normali e le cose pazze che fa le guarda con lo stesso orrore e lo stesso stupore."
Indicazioni utili
Il nome, non fa il capolavoro
Avete degli artisti che per voi rappresentano una "garanzia"? Quelli che magari tra un lavoro e l'altro fanno passare anni (che a noi sembrano secoli), ma una volta che l'attesa è finita questa viene ampiamente ripagata? Geni che vanno sempre oltre le aspettative, sempre in grado di superarsi anche se può sembrare impossibile. Cristopher Nolan? Un film ogni due anni, sempre più geniale. I Coldplay? Un album ogni tre anni, un capolavoro dopo l'altro.
Questo discorso vale anche per i grandi della letteratura, ovviamente. Ma cosa accade quando questi cedono allo strapotere dei soldi e del marketing? Probabilmente quello che è accaduto a Stephen King. Sfornare due libri all'anno non può che incidere negativamente sulla qualità dei suoi lavori, che riescono a mantenersi su un livello medio solo perchè l'autore rimane di comunque alto livello.
Però, l'impressione che per far soldi ci si stia privando di capolavori che potrebbero essere partoriti con più calma, è palese.
I tempi di 22/11/'63 sono lontani, eppure non si tratta di secoli fa.
Con questa premessa, eccomi qua, a recensire il secondo capitolo della trilogia (thriller?) di Stephen King, che ha come protagonista il detective in pensione William K. Hodges, sequel del tanto discusso e criticato "Mr. Mercedes".
Sono stati fatti passi avanti? Vi chiederete. Più o meno, vi dirò io.
Rispetto al suo predecessore, "Chi perde paga" presenta nella trama un pizzico di originalità in più, nonostante ripresenti un idea che l'autore ha già trattato in passato in "Misery non deve morire". Chissà se lo scrittore non nasconda una reale paura di essere rapito o addirittura ammazzato da uno dei suoi fan più accaniti. Di questo passo, il rischio aumenta.
"Chi perde paga" è più originale del suo prequel, ma ugualmente privo di grossi colpi di scena e con troppe forzature volte a compiacere i lettori più "sentimentali". Quest'ultimo aspetto cozza irrimediabilmente con la definizione di Hard-boiled, che è il genere (a quanto pare) associato a questa trilogia.
Quasi inutile aggiungerlo, ma lo stile di King è come al solito ottimo, senza sbavature, piacevole, ma forse un tentativo di essere più ricercato e meno semplicistico sta iniziando a diventare necessario, perchè il rischio di stufare definitivamente i lettori si sta accentuando.
Il libro è diviso in due: la storia vera e propria ha inizio nel 1978, quando un'acclamato e solitario scrittore, John Rothstein, viene assassinato da un rapinatore, che è anche un suo accanito fan e lo accusa di aver rovinato la sua più famosa trilogia, quella de "Il fuggiasco", con il terzo capitolo della serie. Un ottimo motivo per sparargli un colpo in testa, più o meno la stessa reazione che ho avuto io nei confronti del regista di Alien 3.
I taccuini rubati allo scrittore defunto contengono due romanzi che fanno da seguito al terzo libro de "Il fuggiasco", ma prima che possa leggerli, l'assassino viene sbattuto in galera per un altro crimine commesso da ubriaco. Passeranno trent'anni prima di scoprire che i taccuini che ha nascosto e atteso di leggere per tutti quegli anni, sono stati trovati da un ragazzino. Questo scatena la sua furia assassina. In tutto questo, il presunto protagonista William Hodges ha un ruolo quasi secondario. Il suo personaggio non subisce alcun tipo di evoluzione, nè viene approfondito alcunchè sulla sua personalità o il suo passato. Ma dopotutto, compare per meno di metà libro. Questa non è certo una scelta felice per qualsiasi romanzo, figurarsi per una serie a più capitoli.
Abbiamo di fronte pura letteratura di intrattenimento e niente più, ma da scrittori del calibro di Stephen King è assolutamente lecito aspettarsi di più, ed è proprio da questo che nasce la delusione e non dalla qualità del romanzo in sè, perchè non è comunque da buttare.
Da qui la mia valutazione finale, che forse vi aspettavate più spietata, date le mie parole. Ma bisogna essere oggettivi e scorporare in minima parte l'opera dall'autore.
Per concludere, un mio breve pensiero rivolto a lui.
Caro King, torna nuovamente a osare, perchè questa trilogia, a meno di un finale capolavoro che a questo punto risulta molto improbabile, non resterà nella storia come quella del tuo John Rothstein. Ma noi siamo certi che puoi fare molto, molto di più.
"Nella vita non ti viene regalato nulla e anche il vascello più resistente ai marosi è destinato ad affondare, glu glu glu. Secondo Hodges, l'unico modo di pareggiare i conti consiste nello sfruttare al meglio ogni giorno, sforzandosi di restare a galla."
Indicazioni utili
- sì
- no
Polvere Onnisciente
"Chiedi alla polvere" è un'opera particolare, come il suo autore. Lo stile di John Fante è davvero di alto livello, e riesce a dar vita a un libro denso di significato e allo stesso tempo di facile e piacevole lettura.
Arturo Bandini, il protagonista, è uno di quei personaggi che rimangono impressi, perché ne vengono tratteggiate egregiamente le sfumature caratteriali; la follia e quell'instabilità emotiva comuni a ogni essere umano, chi più e chi meno.
La nostra mente è un fiume in piena.
Arturo Bandini è uno di quegli uomini che rinuncia a tutto per inseguire il proprio sogno. Vuole diventare uno scrittore, e il talento di certo non gli manca. Accetta la miseria, la solitudine; eppure la cosa che risulta più difficile è convivere con sé stesso. Accettare i propri sbalzi d'umore, i repentini cambiamenti di opinione, ma soprattutti i propri limiti. Bandini è un uomo che si scontra ferocemente con la realtà, un uomo consapevole del proprio talento, orgoglioso, eppure fragile, alla continua e disperata ricerca di conferme di quel talento che è fermamente convinto di avere. Egli si sente grande, eppure cerca incessantemente l'approvazione altrui; vuoi per orgoglio, vuoi per una mancanza di autostima di fondo.
Egli vuole lasciare il proprio segno in questo mondo, fare in modo che quando tornerà essere polvere essa possa comunque testimoniare che in quella Terra c'è stato anche lui: Arturo Bandini, il grande scrittore. E alla fine lui è lì, sta per realizzare il suo sogno più grande, quello per cui ha sacrificato tutto, che nemmeno trovarsi faccia a faccia con la morte è stato abbastanza da farlo rinunciare.
Eppure qualcosa non va.
Sì, perché possiamo anche diventare grandi al punto da segnare come un'immensa cicatrice la crosta di questo mondo, ma sarà tutto inutile se non abbiamo amato.
E Arturo ama Camilla, una semplice barista; ma lei lo odia e con il suo disprezzo rende vacuo tutto il resto, anche i suoi sogni più grandi. Lui la ama e la tratta come una regina, ma Camilla ama un altro uomo che la maltratta e non vuole saperne nulla di lei, chiudendo un circolo vizioso che definire tragico sarebbe un eufemismo. Camilla non ha altra cosa al mondo se non il suo amore non corrisposto, Arturo ha i suoi sogni ormai scoloriti.
Eppure chi è più infelice? Camilla, alla quale non resta che la morte; o Arturo, che vede sui sogni infettati e resi inutili da un amore impossibile? E' più infelice chi non ha nulla, oppure chi una volta raggiunto il traguardo si rende conto che non ha nessuno con cui dividere la gioia della vittoria?
Chiedetelo alla polvere.
"Fui sopraffatto dalla consapevolezza del patetico destino dell'uomo, del terribile significato della sua presenza. Il deserto era lì come un bianco animale paziente, in attesa che gli uomini morissero e le civiltà vacillassero come fiammelle, prima di spegnersi del tutto. Intuii allora il coraggio dell'umanità e fui contento di farne parte."
Indicazioni utili
Mr. Skoda
Quella copertina. Mi aveva lasciato immaginare un thriller con tinte horror da urlo.
Quelle recensioni. Mi hanno lasciato immaginare un flop di proporzioni bibliche.
Alla fine mi sono azzardato a leggere "Mr. Mercedes", e posso dire che il mio personale responso è: nessuna di queste due impressioni è veritiera.
Partiamo dal principio. Potrà anche toppare, ma lo stile di King è unico e non si discute. Le quasi 500 pagine di questo libro vengono via in maniera decisamente scorrevole, si leggono con una facilità inaudita, scadendo raramente nella banalità stilistica. Ultimo ma non meno importante, questo contribuisce a una buona piacevolezza di fondo.
Il vero punto debole (e lo si capisce già solo leggendo la trama) è il plot. Quasi completamente privo di originalità, prevedibile, e in cui i colpi di scena non si contano, perché semplicemente non ci sono. Tutto è ordinario e abbastanza scontato, con qualche esagerazione di troppo in punti in cui non era necessario (anzi, forse controproducente) esagerare.
Detto sinceramente però, ho letto thriller molto peggiori, perciò prima di mandare il caro Re al patibolo, ci penserei su più di due volte.
Un certo Marty Hart, ex detective co-protagonista di una acclamatissima e meravigliosa serie TV, parlando dei detective in pensione, li considera come soggetti ad alto rischio suicidio. "Volete un consiglio? Se volete stare vivi, tenetevi occupati", dice, concludendo la sua riflessione.
Queste considerazioni descrivono perfettamente quello che è il protagonista di questa storia, William Kermitt Hodges, detective in pensione che si è lasciato andare e medita il suicidio. L'adrenalina del lavoro sul campo gli manca troppo, anche se ne è quasi inconsapevole. A "salvarlo", la lettera di uno psicopatico criminale che Hodges non è mai riuscito a beccare, l'autore di un pluriomicidio avvenuto pochi anni prima. L'arma del delitto? Una Mercedes grigia rubata.
Lo psicopatico lo contatterà per indurlo a compiere quel gesto che fino ad allora l'ex detective ha solo meditato, senza forse mai esserne veramente convinto. Otterrà l'effetto diametralmente opposto, regalandogli un nuovo motivo per cui vivere.
Perché Mr. Mercedes vuole spingerlo al suicidio? Per quel motivo che dá una spiegazione incontestabile a tutto: è completamente pazzo. Inverosimilmente pazzo, al punto da risultare, in certi momenti, poco credibile.
Nella caratterizzazione di questo personaggio Stephen King si è preso un grosso rischio; certo, i serial killer fuori di testa sono certamente i più intriganti, ma Mr. Mercedes è pazzo al punto da risultare banale. E arriva il momento in cui ti chiedi, se ti sei preso il rischio di dar vita a un personaggio folle fino a questo punto, non sarebbe stato meglio provare almeno a renderlo un po' più "ambizioso"?
Folli potenzialità sprecate.
In conclusione, non un thriller memorabile, ma poteva anche andare molto peggio.
"L'unica verità è il buio. E conta solo entrarci dopo aver fatto qualcosa di importante. Dopo aver ferito il mondo, lasciando il segno. In fondo, la Storia è nient'altro che una grande, profonda cicatrice."
Indicazioni utili
Michael Connelly
Le macabre fantasie non fanno poi così paura
Come non rimanere affascinati dalla penna di Edgar Allan Poe? Un lettore obiettivo, amante del genere, non può fare a meno di riconoscere il genio di quest'autore, che è stato un vero e proprio precursore del racconto poliziesco e dell'orrore. Un'ispirazione per un'infinità di autori e di un'influenza talmente profonda da propagarsi anche ai giorni nostri. I suoi racconti sono qualcosa di unico, e tra loro ce ne sono alcuni che risultano davvero memorabili.
Orrore, genio, follia, amore. C'è un po' di tutto nel frutto della mente di Poe. Il mondo e le tetre vicende che dipinge magistralmente inglobano in sé tanti aspetti della realtà, dell'animo umano. Ed è proprio l'animo umano che egli scruta più a fondo e, come solo pochi autori possono, scende intrepidamente ad analizzarne gli angoli più bui e oscuri. Il naturale e il soprannaturale si fondono in un'armoniosa unione, realtà e fantasia diventano l'una parte dell'altra senza escludersi, pur restando indipendenti e autonome. Il mondo di Poe è spaventosamente reale pur presentando aspetti che nella nostra mente appaiono irreali. Quel che è più terrificante però, non è la natura oscura delle vicende narrate, non è la presenza del soprannaturale, non sono gli scenari macabri; a far più paura è la realtà.
Perché? Essa rimane terrificante anche se affiancata da macabre fantasie, e fa ancor più effetto perché sappiamo che essa non è una mera invenzione di una mente geniale. Essa è per l'appunto realtà, e in quanto tale viene associata dalla nostra mente a una cosa che siamo costretti ad affrontare; la nostra mente sa che non c'è nulla di più pericoloso per l'uomo di sè stesso, di quello che è capace di fare, degli angoli oscuri del suo cuore.
Uccidere le oscurità interiori e immateriali è immensamente più difficile che distruggere quelle palpabili. Questo, Edgar Allan Poe lo sapeva, e ce lo ha trasmesso in un modo che solo un grande genio poteva coniare.
"Ci sono segreti che non si lasciano svelare. Gli uomini muoiono di notte nei loro letti, stringendo le mani di confessori simili a spettri, guardandoli negli occhi e implorando pietà; muoiono con la disperazione nel cuore, con la gola attanagliati a dalle convulsioni per l'orrore dei misteri che non si lasciano rivelare. A volte, ahimè, la coscienza degli uomini si carica di un fardello tanto orribile che riusciamo a liberarcene soltanto nella tomba. Così l'essenza del crimine rimane avvolta nel mistero."
Indicazioni utili
Un breve racconto
"La targa" di Andrea Camilleri altro non è che un brevissimo racconto, per il quale pubblicare un intero libro può sembrare eccessivo. Questo non vuol dire che non sia stata una lettura piacevole, sostengo soltanto che se questa non occupa più di un'ora del mio tempo non può essere altro che un breve racconto. Ne "La targa" Camilleri scrive in dialetto siciliano, sappiatelo, ma ci tengo ad aggiungere che è molto semplice e facilmente comprensibile. Mi sento di dirvi che lo leggerete senza difficoltà.
La storia è basata sulle vicissitudini successive alla morte di Emanuele Persico, un vecchietto e fervente fascista. La sua morte inconsueta lo metterà in buona luce, tanto da fargli meritare una targa: al suo nome sarà intitolata una strada della città di Vigata. Allo stesso tempo però, sorgerà più di un dubbio sul suo misterioso passato, che gli varrà innumerevoli variazioni dell'appellativo da accompagnare al suo nome sulla famigerata targa, e anche repentini cambiamenti di opinione nei suoi confronti.
Da morto, Persico passa dalla gloria all'infamia, dall'infamia alla gloria con una facilità disarmante, il tutto a dimostrare la suscettibilità e la volubilità mentale del popolo italiano sotto il governo fascista. C'è da dirlo, in quel periodo storico, ce la siamo vista davvero "nera".
Un po' una riflessione critica, un po' racconto ironico, questa piccola opera di Camilleri è da consigliare agli estimatori del maestro e a chi cerca una lettura velocissima e leggera, anche se € 10 per racconto così breve effettivamente sono un po' troppi, a mio modesto parere.
"Supra alla targa, scrivemoci semplicemente 'Emanuele Persico - Un Italiano' e finemola ccá, proponí il consiglieri Bonavia. Fu accussí che la strada tornó a chiamarisi Via dei Vespri Siciliani."
Indicazioni utili
- sì
- no
Un regno sommerso e ingovernabile
Con "Ventimila leghe sotto i mari" mi sono imbarcato nel terzo dei meravigliosi viaggi che Jules Verne ha creato con la sua fantastica penna. Dico fantastica e ci aggiungo unica, perché nessuno è né sarà mai come lui, in uno stile semplice e scorrevole al punto da far credere di essere uno scrittore per ragazzi, un'etichetta che molti gli hanno affibbiato per lungo tempo e ingiustamente. Quale errore.
Certo, forse in certi casi in questo classico lo scrittore si dilunga precisazioni geografiche e descrizioni magari troppo dettagliate dei pazzeschi fondali marini, della loro flora e fauna, ma che viaggio di ventimila leghe sotto i mari sarebbe stato in assenza di questi elementi?
Verne ha solo dimostrato la sua preparazione e il suo valore, e sono certo che lettore che ha conoscenza degli argomenti trattati nel libro avrà apprezzato oltremodo le sue digressioni.
Cosa sarà quell'enorme creatura che solca i mari a velocità incredibili? Una balena? Un mollusco gigante? Sono queste le domande che il mondo si pone alla fugace vista di quella meravigliosa creazione ingegneristica che è il sottomarino Nautilus, progettato, costruito e capitanato da quel tormentato genio che il capitano Nemo. Egli non trova più spazio per sé in un mondo dispotico che l'ho tradito, che non gli ha lasciato nulla e del quale non ha nostalgia, ma per il quale prova un profondo rancore. Egli ha trovato un meraviglioso rifugio sotto gli immensi abissi, dei quali non ha paura, nei quali vuole stendere il proprio personale e incontrastato dominio. Il Nautilus è il suo trono, e il suo regno quell'infinito abisso che noi non possiamo far altro che guardare in superficie. Ma per quanto grande questo uomo e il suo Nautilus possano essere, per quanto abbiano potuto riscoprire continenti perduti; giungere ai Poli e in altri luoghi nei quali nessuno era mai giunto prima; per quanto abbiano potuto arricchirsi dei tesori ghermiti dagli abissi marini, sono essi abbastanza potenti da poter rivendicare la supremazia incontrastata su quell'immenso mare? Sono furbi abbastanza da poter per sempre sfuggire anche alla sua furia? Al lettore l'ardua sentenza.
"Il mare e il vasto serbatoio della natura. È col mare che il globo ha per così dire cominciato a vivere, e chissà se non finirà con lui! Qui è la tranquillità suprema. Il mare non appartiene despoti. Alla sua superficie questi possono ancora esercitare dei diritti iniqui, battersi, divorarsi, trasportarvi tutti gli orrori terrestri. Ma a trenta piedi sotto il suo livello il loro potere cessa, la loro influenza si spegne, la loro potenza sparisce. Ah, signore, vivete, vivete in seno al mare! Soltanto qui è l'indipendenza. Qui non riconosco padroni! Qui sono libero."
Indicazioni utili
Bioshock: Rapture.
È la realtà a dar colore ai sogni
Esistono uomini che posseggono un'anima talmente profonda da spaventare, talmente assennata da non smettere mai di stupire, geniale al punto da far credere essi vengano da un posto estremamente lontano da questa Terra.
Dostoevskij era senza dubbio uno di questi uomini, e grazie al cielo ha condiviso con il mondo il suo immenso pensiero, essendo inevitabilmente uno dei più grandi autori e intellettuali di tutti i tempi.
"Le notti bianche" data la sua brevità potrebbe essere tranquillamente considerato un racconto, ma la sua immensa profondità grida giustizia, reclamando per sè stessa, e a ragione, un posto tra le grandi opere letterarie della Storia. Perché esistono romanzi dalla mole estremamente più ampia, ma che nella loro enorme estensione di parole scritte non riescono a raggiungere la grandezza di pensiero così magistralmente compressa da Dostoevskij ne "Le notti bianche".
Avremo di fronte un brevissimo tratto della vita di un anonimo pietroburghese, in concomitanza del suo incontro cruciale con una giovane donna, l'ingenua Nasten'ka.
Egli si autodefinisce un sognatore, uno di quelli assoluti, uno di quelli che non vive una vita per vivere in un sogno ininterrotto, perché risulta estremamente più facile, perché un sogno è come noi vogliamo che esso sia, perché esso è perfettamente plasmabile secondo la nostra volontà, a differenza della tanto bistrattata vita reale.
Il sognatore di Dostoevskij è uno che da sempre si crogiola nelle sue fantasie, e crede di essere felice in esse, finché un fugace incontro, una semplice emozione, non fa crollare miseramente il suo castello fantastico come fosse fatto di carta.
La sua vita risulta improvvisamente essere tutta un'illusione, una costruzione della sua mente, una cosa tragicamente fine a sè stessa. D'altronde, cosa rimane dei sogni una volta che ci si è svegliati? A volte nemmeno il ricordo. Un emozione vera, invece, può rimanere nel cuore e nella mente per sempre.
Crogiolarsi nei sogni può essere bello all'inizio, ma a lungo andare, vivere un sogno a discapito di una vita vera colora anche le nostre fantasie di un grigio cupo, contaminandole col rimorso di non aver vissuto, di aver perso i migliori anni della nostra vita dietro a un semplice prodotto della mente, a una realtà fasulla.
La verità travolge il sognatore in maniera fatale. Egli è solo, noi siamo soli, perché i sogni sono soltanto nostri e chiunque possiamo avere accanto in essi, anche se una proiezione di qualcuno che esiste per davvero, esiste solo e soltanto nella nostra mente. E, dopotutto, non sono i sogni stessi fomentati dalla realtà? Dai ricordi? Dalle emozioni? Dall'amore? Se queste cose non vengono realmente vissute, da cosa i nostri sogni dovrebbero attingere?
Alla fine di tutto, la domanda che resta è una sola: vale la pena vivere un sogno come noi lo vogliamo ma irreale, a discapito di una vita che andrà di certo per conto suo, ma che riesce in un attimo a regalarci più di quello che un meraviglioso sogno può donarci in una intera eternità? Dostoevskij direbbe: "Dio mio! Un intero attimo di beatitudine! È forse poco, sia pure per tutta la vita di un uomo?"
"E intanto sento il rumore di una folla di gente che mi gira intorno presa dal turbine della vita, sento, vedo che la gente vive, vive veramente, vedo che a loro non è preclusa la vita, che la loro vita non si dissolve come un sogno, come una visione, ma si rinnova sempre, è sempre giovane..."
Indicazioni utili
Io lo consiglierei a chiunque.
Principi del Maine, Re della Nuova Inghilterra
Quello che mi appresto a recensire è un libro veramente "tosto", soprattutto nel finale. John Irving allestisce un palcoscenico in cui vanno in scena tante personalità molto diverse tra loro per carattere, ambiente e anche per semplice fisionomia. Lo stile di Irving è ottimo, anche se un po' lento, ma "Le regole della casa del sidro" non poteva non essere un libro lento, essendo il suo scopo rendere così evidenti i mutamenti interiori dei suoi protagonisti; e come ben sapete, i cambiamenti che avvengono dentro di noi sono lenti in maniera disarmante. Inoltre, i personaggi degni di nota in questo libro sono tanti, complessi e bisogna dirlo, perfettamente caratterizzati.
Homer Wells è un orfano che ha sempre faticato a trovare una famiglia, e mai la troverà in maniera definitiva. Meglio quindi rendersi utile nella sua vera casa, L'orfanotrofio di St. Clouds nel Maine, accudito dal suo dottore e direttore, che lui ama come un padre, il dottor Larch. Imparerà da lui a far nascere quei bimbi destinati a essere orfani e inquilini del St. Clouds, o a far abortire le donne che lo vorranno. Pur non ritenendo giusta questa ultima pratica, diverrà bravo anche più del suo stesso maestro, che vede orgogliosamente in lui il suo erede. Brama che Homer lo diventi, un perfetto esecutore del lavoro del Signore e del lavoro del Diavolo o, per come la vede il vecchio dottore, soltanto del lavoro del Signore.
Anche agli orfani però, capitano quegli eventi che ti sconvolgono la vita, e quello che colpirà Homer sarà Candy. Andrà via con lei, lasciando St. Clouds per lavorare in un frutteto dove si produce sidro di mele. Il giovane Homer si farà amare da tutti, e il suo amore per Candy sarà corrisposto ma impossibile, essendo ella innamorata da sempre anche di un altro uomo.
Una storia di amore in tutti i suoi aspetti, amore paterno, fraterno, passionale.
Una storia che ti sbatte in faccia il fatto che spesso non hai potere su come debba muoversi la tua vita, non puoi decidere in che direzione essa debba andare, puoi solo adattarti e farla procedere nel migliore dei modi.
Una storia di guerre interiori, fomentata da guerre vere proprie.
Una storia di rinunce personali, fatte per il bene comune.
Una storia di ritorni, che ti insegna che si può tornare sui propri passi, tornare a casa, riabbracciare chi ti cerca e ti aspetta da sempre, ma con i dovuti limiti di tempo.
La fine di tutto è sempre lì dietro l'angolo, e il più delle volte non ha annunciato il suo arrivo.
"Non vi sono scuse per la crudeltà, ma - in un orfanotrofio - forse si è obbligati a negare amore; se non riesce a negare amore, a trattenerti dall'amare, creerai un orfanotrofio che nessun orfano lascerà volentieri. Creerai un Homer Wells: cioè un vero orfano, dato che la sua casa sarà sempre a St. Clouds."
Indicazioni utili
Un killer, altrimenti detto Panico
Jeffery Deaver non si smentisce mai. Delle volte mi sono chiesto: "il caro Jeffery non starà diventando un po' troppo prolifico? Sforna un libro ogni tre mesi!".
Temevo che per incrementare le vendite, facendo uscire tantissimi libri, la qualità delle sue opere sarebbe scesa vertiginosamente. Sono stato stroncato brutalmente, questo autore (che io già stimavo tantissimo), si è mantenuto all'altezza dei suoi standard anche con "Solitude Creek".
Stile perfetto per un thriller, senza la minima sbavatura, con un intreccio che ingloba in un'unica storia almeno tre o quattro vicende parallele, tutte interessanti e ben portate avanti da un autore che per me è ormai il maestro del thriller.
Protagonista il detective Kathryn Dance, uno dei personaggi di punta di Deaver, che stavolta deve vedersela con un "sosco" davvero fuori dai canoni. Un vero e proprio psicopatico.
Tutto inizia in un pub dove va in scena musica dal vivo: il "Solitude Creek", che sorge su un'omonima baia.
Che cosa serve a mandare una folla nel panico? Fatevelo raccontare dalla storia; la strage durante l'incontro Liverpool - Nottingham ne è un esempio lampante. Basta un nonnulla, una futile paura infondata, e una folla festante può trasformarsi tutto a un tratto in un essere autodistruttivo e feroce. Un'entità inarrestabile alla disperata ricerca della sopravvivenza. E cosa accadrebbe se vi ritrovaste di fronte a un uomo che è un maestro nel creare il panico, e lo fa per puro sadismo e soddisfazione?
E' questo che si trova ad affrontare la nostra detective, è questo che accade al Solitude Creek, basta un incendio fasullo e un panico innescato ad arte a portare gli uomini a calpestarsi l'un l'altro, a uccidere sull'onda della disperazione, per salvarsi. Su questo e tanto altro si baserà questo eccellente thriller, che si è rivelato un mix di azione, ingegno e suspense, carico di colpi di scena inaspettati. Una perfetta unione di thriller e poliziesco, con una punta sentimentale che non guasta mai, il tutto intrecciato da quel maestro che è Deaver.
"Non passa. Mai. E non dovrebbe. Dovremmo sempre sentire la mancanza di certe persone che hanno fatto parte della nostra vita. Ma ci saranno delle isole, sempre più numerose. [...] Isole di tempo in cui sei felice, in cui non pensi alla perdita. Adesso è come se il tuo mondo fosse sott'acqua. Tutto quanto. Ma l'acqua scende e l'isola emerge. L'acqua ci sarà sempre, ma troverai ancora della terraferma."
Indicazioni utili
Connelly.
Declini spaventosamente sincroni
Provo una certa amarezza se penso che l'autore è morto soltanto un anno prima della pubblicazione di questa sua opera, annoverata tra i grandi capolavori italiani, narrante un importante periodo storico della nostra terra.
"Il Gattopardo" è un pó l'affresco della nascita del Regno d'Italia, della caduta borbonica, dell'ascesa di Garibaldi, della fine dei casati e dei feudi italiani. Questo affresco prende vita osservando le vicende di casa Salina, casato nobilissimo, e nella persona del principe Fabrizio "il Gattopardo" Salina, ispirato al bisnonno dell'autore. Il suo stile accurato anche se non facilmente fruibile, ci racconta in maniera romanzata la nascita dell'Italia e la fine della sua nobiltà, come casta.
Il principe Salina è un nobile purosangue, uno che ci tiene alle tradizioni, alle buone maniere, all'educazione, alla cultura. Uomo autoritario, statuario. Egli è la rappresentazione della nobiltà italiana di quel tempo, il suo declino rappresenta alla perfezione quello della parte di società a cui appartiene. Garibaldi combatte le sue battaglie, e questo dà inizio al silenzioso declino del Principe ma un nuovo inizio per un popolo; un inizio che buono o malvagio che sia, dipende dai punti di vista.
Il principe di Salina però, non è un uomo da farsi da parte così facilmente, da abbandonare senza combattere quello che nei secoli uomini come lui, anche della sua stessa famiglia, hanno conquistato col sudore con il sangue. Ed è un uomo che sa quando accettare i compromessi, e per un certo tempo ci riuscirà. Inutile a dirsi però, quel che è andato su dovrà inevitabilmente scendere, come sempre, e la caduta di un uomo, anche di uno come Salina, è la vecchiaia. Sarà pauroso osservare come il declino carnale di quell'uomo proceda parallelamente a quello di un'epoca. Spegnendosi insieme con lo stesso lento e doloroso passo.
Un finale angoscioso, per quella che in fin dei conti è parte della nostra storia.
"[...] noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra.”
Indicazioni utili
Niente intriga più della Storia
Se c'è una cosa che adoro sono le belle sorprese, le scoperte, anche quando leggo. La frenesia che ti pervade le membra, un senso di pienezza che è difficile trovare, la consapevolezza che quella scoperta può aprire nuovi orizzonti. Fred Vargas è stata una bella sorpresa, un interessante scoperta che davvero non mi aspettavo. Si è rivelata un autrice che con questi standard può ergersi tra i migliori del genere, con uno stile scorrevole ed efficace, per niente scialbo. A una scrittura per niente semplicistica e piacevolissima da leggere, accompagna un'originalità che oggi giorno è diventata una cosa quasi fuori dal comune. Oltretutto, a completare una trama interessante e per nulla scontata, una evidente buona conoscenza delle citazioni storiche citate e adoperate nel corso della storia.
Francia. Di quante meravigliose storie è stata scenario? Innumerevoli, così memorabili diverse tra di loro. Storie di miserabili, di conti vendicativi, di moschettieri del re, di gobbi campanari e zingare ballerine, ma anche di commissari di polizia dal carattere deciso e geniale e killer fuori da ogni schema logico. Perché le terre francesi sono così prodighe nel fare da palcoscenico a così tante storie degne di nota? Mi verrebbe da dire che questo accade perché la Francia è stata realmente luogo di grandi avvenimenti storici, e non c'è nulla di più appassionante, misterioso e talvolta macabro della Storia. La Storia è violenta, sanguinosa, e uno di quei momenti in cui la storia ha cambiato sé stessa è di certo la grande Rivoluzione Francese, uno dei più grandi sconvolgimenti che ha segnato il destino dell'umanità e che porta i suoi strascichi fino al presente. Ha influenzato uomini, pensieri, arte, cultura, e permea tante opere letterarie tra cui anche il nostro caro "Tempi glaciali". Un misterioso suicidio darà il via a una serie di tragici avvenimenti, dei quali si occuperà l'arguto commissario Adamsberg, insieme alla sua squadra forse un po’ troppo eterogenea ma rispettosa. I morti si susseguiranno e tutti avranno un unico punto comune, uno strano simbolo che ricorda il più macabro strumento di morte: la ghigliottina. Il tutto si intreccerà con uno strano gruppo di uomini, riuniti in una confraternita che rivive i momenti più alti della Rivoluzione nel periodo del grande Robespierre, inscenando i grandi avvenimenti storici di quel periodo in modo teatrale ma spaventosamente realistico. Il tutto si intreccerà, oltre che con il passato "rivoluzionario", con oscuri avvenimenti che hanno avuto luogo nelle terre d’Islanda, creando un intreccio veramente articolato il cui bandolo della matassa soltanto il genio di Adamsberg poteva trovare. Un giallo thriller di alto livello.
"Peccato, se ci rifletti, che pensieri non abbiano un nome. Potremmo chiamarli, e verrebbero ad accucciarsi nostri piedi ventre a terra."
Indicazioni utili
Il bar al mare
E allora eccomi qui, di nuovo alle prese con Stefano Benni, e anche stavolta stringo tra le mani una raccolta di racconti. L'autore si conferma dotato di una buona ironia ed è riuscito a strapparmi più di un sorriso. In questo periodo in cui il caldo imperversa e le vacanze si avvicinano, oserei dire che "Il bar sotto il mare" può essere una perfetta lettura da spiaggia. Racconti brevi, alcuni dei quali memorabili (ho letteralmente adorato Matu - Maloa), piacevoli, ironici e scorrevoli. Oh voi che volete rilassarvi sulla spiaggia con un libro in una mano e una bibita ghiacciata nell'altra, Cosa volete di più? Fidatevi, "Il bar sotto il mare" è quello che fa per voi.
Un uomo si ritrova a passeggiare nelle vicinanze di un molo, e improvvisamente vede un uomo camminare e immergersi gradualmente in acqua, come se nulla fosse. Lo segue, e sott'acqua troverà un bar popolato dal gruppo di persone (e animali), più variegato che abbia mai visto. Ma nessuno può uscire dal bar se non racconta una storia, perciò ognuno degli ospiti dovrà raccontarne una. Ci troveremo di fronte a macabri signori, capodogli innamorati, vermi mangiatori di lettere e tanto altro ancora. Ed è chiaro che l'autore con i racconti ci sa fare. Lo stile di Benni è inconfondibile nella sua semplicità, ed è ovvia la sua volontà di rendere omaggio, anche in questo caso, ad autori e personaggi che hanno probabilmente formato la sua personalità e il suo modo d'essere artista. Troveremo, come in "Cari Mostri", un omaggio ad Edgar Allan Poe, un vero e proprio pallino di Benni, che sarà uno degli ospiti del suo bar immaginario e il cui racconto è davvero un omaggio al defunto artista, scritto nel suo stile e nel suo genere, con un tocco di Benni qua e là. Oltre a Poe, anche la grande Agatha Christie. Insomma, in questi racconti Benni conferma la sua poliedricità, che riesce ad accontentare e intrattenere ogni tipo di lettore che ricerchi qualcosa di leggero, piacevole e interessante. Davvero niente male.
“Anche il destino a questo punto si domanda se vale la pena di travestirsi da venditore di torroni, far morire i dentisti, far cantare i tonni e tutto solo per divertire questi bambini volubili che si chiamano uomini. Nessuno gli risponde, perché nessuno può dare consigli al destino, né a San Lorenzo né altrove.”
Indicazioni utili
Un thriller… nella norma
Michael Connelly è uno di quelli che in libreria ce lo hai sempre sotto agli occhi: vuoi perché commercialmente appetibile, vuoi perché ha sfornato una marea di libri, vuoi perché effettivamente bravo. Questo autore ha un po’ di tutte queste cose; è bravo, ha sfornato una marea di libri, e il suo genere è molto apprezzato dai lettori contemporanei, un genere nel quale Connelly è notevolmente preparato. A dire la sincera verità però, con “La scatola nera” non ha sfondato. Forse a causa di una scrittura non proprio fluida (soprattutto all’inizio), o forse per una trama un po’ scarna e priva di colpi di genio o di passeggiate fuori dagli schemi. Diciamo che questo è un thriller di buon livello, ma rispetto al quale non si possono avere enormi pretese o aspettative. E' vero, l'autore in certi tratti ha dei buoni spunti, dovuti anche alla grande esperienza da scrittore di genere, ma ho la sensazione che avrebbe potuto proporci qualcosa di più anche per come ha lasciato cadere alcune situazioni senza dar loro una conclusione. Non so se vorrà farne un seguito, ma forse sarebbe stato più efficace chiudere ogni cerchio in questo libro specifico, anche se comunque ciò che viene lasciato in sospeso non riguarda il caso al centro di questa storia. Magari qualcuno non se ne accorgerà nemmeno, ma a un lettore pignolo queste cose non sfuggiranno.
Nel 1992 a Los Angeles scoppiano dei tumulti, la città viene messa a ferro e fuoco e diventa scenario di saccheggi, distruzione e addirittura di omicidi e regolazioni di conti. Tra i morti, una giornalista danese, Anneke Jespersen, del cui caso si occupa inizialmente il nostro protagonista, il famigerato Harry Bosch. Nel caos generato dai tumulti però, molti di quei casi vengono archiviati, compreso quello della povera giornalista, che verrà ripreso solo vent’anni dopo dallo stesso Harry Bosch, che la considererà una sorta di sfida personale contro le ingiustizie del mondo. In queste pagine lo accompagneremo nelle sue accurate ricerche da detective esperto e appassionato, e nel corso della sua indagine si troverà di fronte ad avversità di ogni sorta: dal rischio di essere espulso dal corpo di polizia a quello di perdere la vita faccia a faccia con i suoi avversari.
Tra ex militari dal dubbio passato, poliziotti burocrati e interessati soltanto alle statistiche e un protagonista che probabilmente contribuisce da solo a mantenere vivo l'interesse, ci troveremo davanti a un thriller che in fin dei conti è nella norma e, come recita la copertina, è diventato best-seller N°1 negli USA. Ora la vera domanda è: basta davvero così poco?
"Bosch annuì. Abbassò lo sguardo sulla scrivania, sulle foto infilate sotto il piano di vetro. Casi e volti. Guardò la foto di Anneke Jespersen e di alcune altre vittime. Quelle delle quali ancora non aveva parlato."
Indicazioni utili
Il giovane… e basta.
“Il giovane Holden” è un libro anomalo a partire dalla sua copertina. Bianca. Nessuna immagine in fronte, nessuna trama sul retro. Eppure l’ho comprato lo stesso e, come direbbe Holden, non saprei dirvi perché e sinceramente nemmeno mi va. Salinger mi ha stupito; il suo stile è molto semplice, ma è scorrevole, coinvolgente ed estremamente efficace. Qualcuno potrà dire che non è certo uno stile eccelso, ma io lo definirei perfetto per il libro in questione, tenendo in conto che il narratore è lo stesso Holden e a lui di certo non si addiceva uno stile molto diverso.
Holden è un ragazzo ancora minorenne. Viene cacciato dall’ennesima scuola e il perché, come al solito, non saprebbe nemmeno dirvelo. Forse perché professori e compagni sono tutti ipocriti e lui l’ipocrisia davvero non la sopporta. Non è che sopporti molte cose della vita, in verità queste si contano sulle dita di una mano e non ve le saprebbe nemmeno descrivere in maniera specifica. Forse perché a dirla tutta sono cose un po’ folli, come fare “l’acchiappatore di bambini in un campo di segale” (da un canzone citata nel testo, che da’ il titolo originale al libro: “The Catcher in the Rye”, come è spiegato in una breve nota a fine libro che vi consiglio di leggere).
Holden vive reagendo impulsivamente a tutto quello che lo travolge dall’interno e dall’esterno. Se devo esservi sincero, mi sembra alquanto suonato, se non addirittura pazzo. E questo è inquietante, perché in quel giovane Holden fuori di testa mi ci sono rivisto più di una volta.
Alla fine però, l’ho capito perché è così. Holden non è altro che il ritratto della gioventù e dei suoi problemi, soltanto che in lui questi ultimi sono presenti in maniera cronica. Holden è giovane al limite e forse anche oltre. Intorno a sé vede soltanto ipocrisia e la sua anima è pervasa da una incredibile voglia di solitudine e di fuggire via da tutto. Eppure c’è sempre qualcosa che lo trattiene; qualcosa di spaventosamente semplice che lo rende felice per qualche minuto e gli lascia dimenticare temporaneamente tutto quello che detesta; qualcosa che gli fa pensare che, probabilmente, ci si può anche provare a crescere in questo mondo, anche se gran parte della gente e delle cose che lo popolano non ti piace nemmeno un po’.
"Certe cose dovrebbero rimanere come sono. Dovresti poterle mettere in una di quelle grandi teche, e poi lasciarle in pace. Lo so che è impossibile, ma comunque è un peccato."
Indicazioni utili
Onore, Amicizia, Amore.
Ecco un’altra meravigliosa opera di cui tutti conoscono il nome, ma di cui molti ignorano i contenuti originali.
Alexandre Dumas era un narratore straordinario, oserei dire il più grande di tutti, perché con le sue storie sempre avvincenti ha il potere di trasportare il lettore nel mondo che descrive e farglielo praticamente vedere con gli occhi e toccare con mano. Nonostante la mole non sia sempre incoraggiante per i lettori pavidi, i suoi capolavori sono sempre scorrevoli e si leggono facilmente; se leggete un Ken Follett di oltre mille pagine, perché non dare un’occasione a un grande come Dumas? Non ve ne pentirete. L’autore non si perde quasi mai in digressioni, che spesso possono risultare lente anche se danno maggiore spessore a un’opera, ma nonostante questo mantiene la sua immensa grandezza.
Chi non conosce Athos, Porthos, Aramis e d’Artagnàn, i celeberrimi tre moschettieri più uno? Personaggi meravigliosi: prodi, coraggiosi, dal forte senso dell’onore, ma non privi di qualche difettuccio che li rende umani in tutto e per tutto. Non esiste eroe privo di peccati e che non possa inciampare, e in un periodo storico come quello attuale, in cui sono più amati gli antieroi, è piacevole riscoprire gli eroi di una volta. E tra questi come possono mancare i grandi moschettieri del Re?
“I tre moschettieri” è una favolosa storia di amicizia, quella tra questi quattro personaggi, sempre presenti gli uni per gli altri e pronti a dare la propria vita per la salvezza del proprio compagno. Amicizia vera, pura, non contaminata dalla ricerca di una convenienza egoistica.
“I tre moschettieri” è una favolosa storia d’amore: amore sincero, tradito, passionale, amore che viene privato dalla fatalità; perché l’amore non è soltanto quel sentimento ideale e bellissimo che la nostra mente immagina e brama, è tanto altro, e non sempre è qualcosa di bello.
“I tre moschettieri” è una favolosa storia d’onore, di grandi personaggi, di intrighi, di battaglie, di bontà e malvagità.
Entrerete a far parte di questo scenario che Dumas ha pensato e nel quale ha inserito tutte queste cose, che nei romanzi attuali sono così difficili da trovare tutte insieme, e di certo non sono sviscerate così meravigliosamente bene. Non potrete fare a meno di amarne alcuni personaggi, così come io ho adorato Athos e d’Artagnàn.
Insomma, non perdetevelo assolutamente.
Indicazioni utili
Il Conte di Montecristo.
La giovinezza non è nella carne
Dopo l’immenso successo de “La grande bellezza”, Paolo Sorrentino prova a mantenersi sulla cresta dell’onda con “Youth – La giovinezza”. Quella che mi appresto a recensire è la sceneggiatura del film, dunque non ci troviamo alle prese con un romanzo vero e proprio, anche se quasi come tale questa si legge e la lettura risulta abbastanza piacevole. Certo non ci si possono aspettare approfondimenti o digressioni che non siano strettamente “visive”. Sta di fatto che, sono sincero, questa lettura ha stimolato in me la voglia di vedere il film, accendendo la curiosità di scoprire come il grande Michael Caine ha interpretato l’interessante protagonista di questo romanzo, l’ormai vecchio ma ancora acclamato musicista Fred Ballinger.
In un lussuoso albergo sono riunite tante personalità tanto diverse eppure così simili tra loro, seppure non si sa ben dire perché. Musicisti, registi, sceneggiatori, attori, calciatori (credo che Sorrentino ci abbia regalato una versione esageratamente obesa del grande Diego Armando Maradona). Il contenuto si può in parte intuire dal titolo; ci troveremo di fronte a una profonda riflessione sugli stati d’animo che pervadono l’uomo nelle diverse fasi della vita, ognuna incarnata da alcuni dei personaggi presentatici, padroni di un destino individuale differente eppure accomunato da qualcosa che è caratteristico di un punto preciso dell’esistenza umana. Ed è chiara una cosa e una soltanto: la giovinezza non è nella carne, ma nella mente. I giovani vedono tutto vicino, e stanno guardando il futuro, mentre i vecchi vedono tutto lontano, ma stanno guardando il passato. La vecchiaia porta con sé la tendenza a guardare soltanto il passato, a ricercarlo come un rifugio; oramai è troppo tardi per occuparsi del futuro, ne è rimasto talmente poco che non varrebbe nemmeno la pena preoccuparsene. Meglio cullarsi nei piaceri del passato. Ma è proprio nel momento in cui si crede che sia troppo tardi per fare qualsiasi cosa che si cessa di esistere, che si smette di vivere, che si diventa realmente “vecchi”. Bisogna sognare, inseguire, agire indipendentemente da tutto, anche dalla carne inclemente che non può evitare di deteriorarsi, ed è quella la vera giovinezza.
Giovinezza è la voglia e la determinazione a continuare ad essere.
"In mezzo ai fiumi delle saune e dei bagni turchi, corpi nudi di tutte le età sembrano morti e abbandonati, in controluce, al caldo, al sudore. Corpi tonici e lucidi, corpi abbondanti e rotondi, corpi vecchissimi e sfasciati. Così è fatta la fatica del benessere. Così, alcuni provano ad allungare il futuro e a inseguire goffamente il passato della giovinezza."
Indicazioni utili
La Terra non ci appartiene
Questo è senza ombra di dubbio il capostipite del sottogenere fantascientifico delle invasioni aliene. Pubblicato nel 1897, quella dell’arrivo di esseri extraterrestri con intenzioni ostili era un’idea nuova, mentre oggi è sfruttata fino all’inverosimile. Leggendo la data di pubblicazione vi verrà automatico pensare che non ci si possa aspettare nulla di simile a quello a cui siamo abituati oggi, alle spettacolari pellicole cinematografiche tutte sparatorie e combattimenti, così come accade anche nel film omonimo al romanzo in questione e che da questo non prende altro che le idee di base. Nulla di più corretto, ed è proprio questo il bello. Assistere a un’invasione aliena ambientata in un passato abbastanza remoto è un qualcosa di affascinante da scoprire, ma la cosa che vi stupirà di più, è che il titolo di quest’opera è più che mai appropriato. Ebbene sì, perché tra le pagine di questo libro non vi è la guerra tra terrestri e marziani, ma tra la Terra e Marte in quanto mondi, in un certo senso. Molti di voi sapranno che da questo romanzo è stata tratta, nel 1938, una trasmissione radiofonica che ha mandato nel panico il popolo statunitense, convinto che le cronache narrate dalla voce radiofonica stessero realmente avendo luogo e che i marziani fossero realmente sbarcati sulla Terra. Ci furono disordini e panico, e questo non fa che confermare quello che questo libro ci vuole trasmettere: non siamo pronti.
Qui non parliamo di fantascienza spicciola, introducendo questo nuovo genere “alieno”, Wells trova un pretesto per lanciare una critica al genere umano, per riflettere sulla vita nel suo senso più ampio. I marziani che si fiondano sulla crosta terrestre a bordo di cilindri metallici sono molto più intelligenti, forti ed evoluti di noi, ma non è il tormento fisico che loro sono capaci di infliggere quello più intollerabile. Sì, loro ci sbatteranno in faccia la realtà, ed è questo che fa più male, ci diranno tacitamente che la Terra non è nostra. Appartenere alla razza dominante di un ecosistema non ci rende automaticamente suoi padroni, non ci conferisce alcun diritto o potere su di esso. Quando tutto si ribalta, ovvero quando un essere superiore all’uomo si presenta e reclama per sé il diritto a prevalere, che cosa accade? La verità ci travolge devastante. L’uomo si interroga sul perché il marziano si faccia artefice di tanta crudeltà nei confronti dell’essere umano, ma non è chiaro? L’essere umano si fa forse scrupolo nel distruggere un formicaio o nell’uccidere un animale che considera inferiore per procurarsi del cibo? L’uomo giudica crudele se fatto nei suoi confronti quello che compie ogni giorno quasi senza pensare, come se il suo “essere superiore” gliene concedesse tacitamente il diritto.
In un finale geniale nella sua semplicità e logicità, “La guerra dei mondi” ci fa riflettere, e tanto. Di guerra vera è propria c’è ben poco, ma solo la lezione morale che quel pianeta di cui calchiamo il suolo ci vuole dare: essa è padrona di sé stessa, e sceglie autonomamente quale vita deve popolare la sua superficie. Inoltre, come dicevo prima, ci sbatte in faccia il fatto che di fronte a una simile realtà, per quanto impossibile, non saremmo pronti. Non perché mancano gli armamenti (quelli purtroppo abbondano), ma perché manca una giusta predisposizione mentale, e in tale situazione ci dibatteremmo come un branco di animali in preda al panico.
"Gli uomini, infinitamente soddisfatti di sé stessi, percorrevano il globo in lungo e in largo dietro alle loro piccole faccende, tranquilli nella loro sicurezza d’esser padroni della materia. Non è escluso che i microbi sotto il microscopio facciano lo stesso."
Indicazioni utili
Orrore d’altri tempi
“Cari mostri” è un libro poliedrico come il suo autore; nei suoi 25 racconti racchiude una moltitudine di sottogeneri e di storie diverse tra loro, spaziando tra il tragico e il comico e che hanno come unico filo conduttore l’horror. E vi assicuro che tra comicità, paura e mistero, vivrete un viaggio oltremodo piacevole, reso scorrevole dalla facilità di lettura e il buono stile che questo autore ci regala. Badate bene però, qui non si tratta dell’horror che oggi siamo abituati a consumare in tutte le salse; non un horror fatto di splatter, possessioni, fantasmi e roba(ccia) del genere. Assolutamente no, Benni torna alle origini, quando ci si spaventava per storie come Dracula, Frankeinstein, storie in un certo senso più macabre e di maggiore spessore letterario, ma meno disturbanti per lo stomaco. Questi racconti sono un mix romanzato di ciò che più ha spaventato gli uomini nei secoli passati, e di ciò che lo spaventa oggi, nel mondo reale.
Ebbene sì, perché i “mostri” non sono necessariamente mostri viscidi e tentacolosi, vampiri, mummie o crudeli assassini. Mostri possono essere le tasse che oggi come oggi ci perseguitano in tutte le forme possibili, peggio di un essere polimorfo; possono essere gli innumerevoli account, password, numeri, iban che ci tengono prigionieri e senza i quali a questo mondo non saremmo nessuno; possono essere gli apparecchi tecnologici dei quali ormai siamo schiavi.
Mostri possiamo essere noi stessi.
Perciò, nel tragitto che seguiremo tra i racconti di questo libro incontreremo mostri di ogni specie, da quelli tradizionali e spaventosamente orribili, a quelli che noi stessi ci siamo creati e che se continuiamo di questo passo ci troveremo ad affrontare, astratti e non.
Ci troveremo di fronte bestie mangiatrici di uomini; alberi maledetti; mummie egizie; teenager capaci di uccidere per un biglietto del concerto dell’ultima boy band in voga e vampiri che preferiscono ridursi a un mucchio di cenere piuttosto che avere a che fare con Equitalia.
Infine, nota lieta, ci troveremo di fronte al tributo dell’autore a dei grandi uomini realmente vissuti, dei quali racconta la tragica fine, ovviamente romanzandola e immaginandone i risvolti, adattandoli all’opera che ci presenta. Uomini come Michael Jackson ed Edgar Allan Poe. A quest’ultimo soprattutto probabilmente Benni ha sentito di dovere un tributo, perché è al maestro indiscusso dell’orrore d’altri tempi e alle sue opere che, in parte, questa sua ultima fatica è ispirata.
"Si, forse la vita è questo. Si procede tra normalità e paura, e si aspetta ogni volta di tornare alla nostra dimora, di trovare un po’ di quiete, un rifugio. Magari salendo le scale di casa verremo presi dall’angoscia, avvertendo che il dolore ci ha seguito fino lì. Comunque sia, è un inferno che conosci. Ed è meglio di quella nebbia spietata, meglio di non vedere nulla, meglio della solitudine dei nostri passi."
Indicazioni utili
Dracula.
Frankeinstein.
Libera scelta di essere uomini
Devo dire che “Arancia meccanica” è un libro arduo da recensire, anche se non saprei dirvi precisamente perché. Una cosa è però certa: è un libro da leggere. Assolutamente.
A chi mi parla di violenza gratuita, rispondo che per me la violenza gratuita è lo splatter, per esempio, e questo libro non lo è; questo libro usa la violenza come canale di trasmissione per un messaggio importante, un messaggio che probabilmente in altri modi non sarebbe passato, o almeno non in maniera così efficace.
Burgess ci porta nel mondo sanguinolento di Alex, un giovanissimo criminale a capo di una banda di teppistelli, amante di quella che nel contesto narrativo è violenza gratuita, ma che ribadisco non lo è per il lettore accorto. Alex è un personaggio unico e riusciamo ad immedesimarci nel suo essere grazie alla intelligente scelta stilistica dell’autore, che adopera lo stesso Alex come narratore, ma non solo, lo lascia esprimere del suo colorito gergo da strada, che inizialmente potrà sembrarvi arduo ma alla lunga si rivelerà di grande efficacia e facile comprensione.
“Arancia meccanica” è un manifesto a sostegno della nostra libertà di scelta. Ognuno di noi ha in mente un’utopica condizione per l’umanità, ma se questa utopia venisse imposta, resa realtà con la forza, sarebbe comunque tale?
Alex è malvagio, a dei livelli davvero inconcepibili, eppure sentiamo dentro di noi una sorta di ingiustizia quando quest’ultimo è costretto a privarsi di sé stesso, derubato della possibilità di scegliere tra bene e male. Alex non è più in grado di fare il male, ma nella sua anima nulla è cambiato, la sua mente malata rimane tale, soltanto condizionata in modo da non poter più nuocere e mostrarsi per ciò che realmente è. Eppure, per quanto quella mente possa essere orrida, privare un uomo della sua umanità è ancor più orrido, e cosa è stato fatto ad Alex, se non questo?
L’uomo è tale in quanto libero di scegliere. Se sbaglia va punito severamente, questo è certo, ma impedirgli di essere in un certo modo lo priva anche della possibilità di cambiare, di crescere, di migliorarsi. Ed è più puro un uomo buono per propria scelta, o un uomo cattivo costretto a fare il bene per non vomitare? Alex è un emblema, più efficace perché la violenza è una qualità che vorremmo tutti estirpare in un essere umano, ma la sua storia vuole gridarci che vivere in un mondo dove gli uomini sono condizionati ad essere in un certo modo, potrebbe anche dar vita una società utopica, ma quella società non sarebbe popolata da esseri umani, ma da “arance meccaniche”.
Ora corro a vedere il film.
"Un uomo che non può scegliere cessa di essere un uomo."
Indicazioni utili
Fahrenheit 451.
1984.
“Il tempo degli aquiloni è finito…”?
Prima di addentrarmi nei dettagli del mio commento vorrei sfatare un mito, o almeno credo che lo sia, dato che lo ho constatato di persona. Molti vedono “Il cacciatore di aquiloni” come un libro “pesante”, forse per il titolo o chissà cos’altro, perché un motivo ben preciso non c’è. Lo ammetto, anche io avevo questa immotivata impressione e ora, dopo averlo letto, posso affermare con certezza l’esatto contrario. E’ un libro che scorre veloce, per niente pesante.
Khaled Hosseini riesce a tenere un buon ritmo e si lascia leggere bene, in certi tratti quasi come un autore da thriller o poliziesco, seppure la trama di questo libro sia quanto di più lontano esista da questi generi e debba molta della sua efficacia al gusto personale del lettore.
“Il cacciatore di aquiloni” è la storia di Amir, di Hassan, di Baba, di tutto un popolo: quello afghano. Un popolo alla ribalta negativa della storia recente di questo mondo; in un modo o nell’altro il fanatismo e i difetti umani hanno trovato terreno fertile per prosperare nei confini di Kabul, degenerando fino alla ferocia più nera. Eppure non si può dire che il popolo afghano sia colpevole di qualcosa.
La storia di Amir è la storia di un essere umano come tutti gli altri, diverso soltanto per certi tratti esteriori e insignificanti, e altri che fanno parte di una cultura diversa; ma diverso non vuol dire peggiore, anzi, nella maggior parte dei casi è sinonimo di bellezza. Quest’uomo è in fin dei conti uno come gli altri, che ha nel suo passato la storia tormentata di sé stesso e di un intero paese sfortunato, ma in fin dei conti è un uomo come tanti, con i suoi demoni, timori, prezzi da pagare, amori. E noi assisteremo alla sua curiosa storia d’amicizia, coraggio, rimorso, amore.
Hosseini ci fa conoscere l’Afghanistan e la sua cultura. Quando sentiamo il nome di questo paese, non riusciamo a fare a meno di pensare alla guerra, all’11 settembre, ai talebani, al terrorismo; ma non bisogna dimenticare che oltre a questo c’è molto altro, e Hosseini ce lo mostra chiaramente. Dietro l’apparenza c’è un paese brutalmente raso al suolo e privato di qualsiasi prospettiva; c’è una cultura ricca di tradizioni, fatta d’onore, rispetto e coraggio e che dalle cose semplici costruisce la sua infinita bellezza. Cose semplici come far volare un aquilone. Un popolo che si è visto strappato alla propria terra, costretto a fuggire o a morirci, e che deve sopportare che essa venga denigrata all’unanimità, senza avere una colpa globale. Un popolo che pensa al passato con gli occhi lucidi, e continua a sperare che gli aquiloni possano tornare a volare.
"Mi sedetti contro un muro della casa. Mi stupii di scoprire dentro di me un attaccamento così profondo alla mia terra. Era passato molto tempo, quanto bastava per dimenticare ed essere dimenticati. Nel paese in cui vivevo adesso, la mia terra sembrava appartenere a un’altra galassia. Pensavo di averla dimenticata. Ma non era così. E nel chiarore biancastro della luna sentivo sotto i miei piedi la voce dell’Afghanistan. Forse neppure l’Afghanistan mi aveva dimenticato."
Indicazioni utili
Esistono errori imperdonabili
Questo libro e questo autore mi hanno sorpreso molto. Non me lo aspettavo, nonostante le recensioni entusiastiche che ho letto in ogni dove.
“Espiazione” è un libro stilisticamente favoloso e carico di contenuti. Dalle parole dello scrittore nascono spontaneamente immagini, ed è raro che un autore riesca ad essere così efficace. Immagini che riescono ad essere spaventose ma che, purtroppo, vanno a popolare un quadro reale e terribile, sul cui sfondo si svolge la Seconda Guerra. Uno dei più grandi e madornali errori della storia umana.
Nella narrazione sapientemente divisa in quattro parti, veniamo catapultati in quattro scenari temporali e prospettici diversi. Il nostro percorso avrà inizio prima dello scoppio della guerra, che appare un incubo tanto vicino quanto lontano.
Briony, piccola tredicenne smorfiosa e dalle enormi ambizioni, troppo alte e presuntuose per una bimba della sua età, accuserà l’amico di famiglia Robbie Turner di essere un maniaco sessuale, quando in realtà è soltanto l’amante silenzioso di sua sorella Cecilia.
Questo errore segnerà la sua vita per sempre.
Da questo scenario, verremo brutalmente trascinati nel macabro e sanguinoso orrore della guerra, e verrà da chiedersi come siamo stati capaci di compiere simili atrocità, trascinando noi stessi e i nostri fratelli nel fango, nella miseria, nel sangue, nella morte, nella disperazione, spezzando brutalmente amore, affetti, vite intere, in nome di una follia.
McEwan mi ha fatto riflettere, davvero, in maniera brutale. Ma non potevo negare quello che con le sue parole stampate mi diceva: siamo capaci di trasformarci in veri e propri mostri. Capaci di errori madornali; errori come quelli di Briony, gravi eppure così piccoli se paragonati al supremo errore della guerra, ma che lasciano i loro strascichi lungo tutta una vita.
Un errore si trascina lungo l’intera esistenza di colui che lo ha compiuto. La Guerra è un errore compiuto dall’umanità tutta, e finchè essa popolerà questo mondo, si porterà dietro il suo pesante fardello.
Sperando che abbia imparato qualcosa dai propri errori, così da non ripeterli, come di certo non li ripeterebbe Briony.
"Non esiste nessuno, nessuna entità superiore a cui possa fare appello, per riconciliarsi, per ottenere il perdono. Non c’è nulla al di fuori di lei. E’ la sua fantasia a sancire i limiti e i termini della storia. Non c’è espiazione per Dio, né per il romanziere, nemmeno se fossero atei. E’ sempre stato un compito impossibile, ed è proprio questo il punto. Si risolve tutto nel tentativo."
Indicazioni utili
Nemesi di Philip Roth.
Il bello di un viaggio non è la meta…
Esistono tanti libri, storie, che crediamo di conoscere. Attenzione, dico crediamo perché queste storie sono talmente famose, talmente sfruttate al cinema o in altri ambiti, che abbiamo l’illusione di conoscerle appieno, quando in realtà non abbiamo nemmeno mai aperto il libro che le ha partorite. Mi è capitato tantissime volte, ma ultimamente la mia mente si rifiuta letteralmente di crogiolarsi in questa illusione, e vuole scoprire a tutti i costi i dettagli di quelle storie. Tra queste, anche il famosissimo giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne.
Jules Verne incarna l’essenza dell’originalità, passato alla storia come autore di storie intriganti e avvincenti. Forse non sarà uno scrittore profondissimo o evocativo, ma c’è da dire che in quanto a idee era un vero e proprio genio, e non credo ci fosse bisogno di specificarlo ulteriormente. Il suo stile semplice si presta perfettamente a questa storia, quella di Phileas Fogg, gentiluomo inglese che, insieme al suo domestico Passepartout (mai nome cadde più a fagiolo), si immola nella allora impossibile impresa di traversare il globo in soli ottanta giorni.
Può un uomo tranquillo prendere da un giorno all’altro la decisione di attraversare il mondo in un tempo impossibile? Può un uomo schematico, preciso, decidere di mollare tutti i suoi programmi in nome di una folle scommessa che lo metterà brutalmente di fronte a innumerevoli incertezze? Signore e signori, vi presento Phileas Fogg. Egli non viaggia per denaro, né per gloria o fama. Per cosa allora? Difficile dirlo, sta di fatto che non vi sarà avversità abbastanza grande, né tribù abbastanza sanguinaria, né tempesta abbastanza devastante da fermare quell’uomo imperturbabile, che non mostrerà uno straccio di turbamento nemmeno nelle situazioni più disperate. Non importa se a bordo di un treno, di una nave, di una slitta, o sul dorso di un elefante; lui vuole portare a termine il suo viaggio ad ogni costo, senza nemmeno darlo a vedere. Ci porterà con sé e ad un certo punto anche noi, come Passepartout e gli altri compagni di viaggio, vorremo spingerlo ad ogni costo verso la sua meta, inconsapevoli che il meglio di quel viaggio non lo aspetta all’agognata meta, ma lungo il suo percorso. Chissà se Phileas Fogg, prima di intraprendere quel viaggio, fosse già consapevole della felicità che gli avrebbe regalato quel tragitto. Felicità che, come ben sapete, è ben più che un mucchio di misere banconote.
"Un vero inglese non scherza mai su una cosa seria come una scommessa."
Indicazioni utili
Arthur Conan Doyle.
Una citta’ maledetta chiamata Amore
Pochi sono stati i libri che hanno suscitato in me emozioni così contrastanti. O meglio, pochi sono stati quelli che hanno suscitato in me così tante emozioni, e con una così elevata mole di sentimenti che si presentano tutti insieme, inevitabile che ve ne siano alcuni che non vanno d’accordo. Certo non ci vuole un genio a capire quanto grande fosse Victor Hugo, ma voglio comunque dare il mio plauso a un grande maestro, rendendo omaggio a “Notre-dame de Paris”, un suo regalo meraviglioso, impeccabile e incancellabile nella memoria e nella storia.
La chiesa di Notre-dame dà scenario e titolo a questa storia, arricchita dai suoi meravigliosi tratti gotici, ma dei quali potrebbe fare anche a meno data la sua maestosa potenza, resa tale perché attinge a piene mani da quel sentimento assurdo che è l’amore. Si pensa all’amore e la mente associa involontariamente ad esso un pensiero meraviglioso, eppure ha più lati oscuri questo sentimento che la città perduta e maledetta di Carcosa.
Ecco cosa può essere l’amore, una città maledetta, e “Notre-dame de Paris” ci porta a esplorarla in tutti i suoi angoli, compresi quelli più infimi, mostruosi, bui, dannati.
Una donna nel fiore degli anni si aggira per le strade umide e bagnate dalla pioggia di quella città chiamata Amore, così somigliante a una Parigi cupa e tenebrosa. Mentre cammina, ella serba nella mente il pensiero d’un giovane soldato, bello e coraggioso, che ama profondamente seppure in fin dei conti non lo conosca affatto. Dentro di sé, quella giovane Esmeralda, custodisce la prima forma dell’amore, quello immaturo, superficiale, cieco, ma non perché privo della vista. Rintanato in un cantuccio e immerso nei suoi pensieri, ella vede Pierre Gringoire, quel poeta dall’amore troppo codardo per osare di amare una donna, amore timoroso che dedica tutto sé stesso a cose che non lo possono rifiutare o deludere, ma che non possono amarlo di rimando.
Alzando il capo, solo leggermente rischiarato dalla luce lieve della luna e appollaiato su una sporgenza, ella vede una massa nera e deforme, che sembra scrutarla. Quasimodo. In quello sguardo niente minacce, ma amore sincero eppure rassegnato, consapevole che a tanta bellezza una bruttezza come la sua non può nemmeno ambire. Eppure, quell’amore non può smettere di essere e sembra l’unico in grado di portare un po’ di luce in quel buio dilagante.
Ella continua a camminare pensando sempre a lui, Phoebus, che in quel momento stringe la mano a un'altra donna; amore sciocco e carnale, ma se quella Esmeralda lo vedesse riuscirebbe a trovare un assurdo motivo per dire che egli comunque ama soltanto lei.
All’angolo di un crocevia tenebroso, una figura magra e coperta quasi del tutto da un mantello nero come la notte, guarda quella donna con occhi fiammeggianti e bramosi. Nella sua figura si percepiscono una miriade di sentimenti, ma uno domina su tutti: l’amore malato, egoista, represso, eppure infinitamente forte e profondo. Amore non corrisposto, amore che preferirebbe vedere l’oggetto del suo desiderio pendere da una forca piuttosto che dalle braccia di un altro. Il prete, Claude Frollo. La sua anima nera sembra essere in ogni dove, come se quella città maledetta fosse una sua estensione o lui ne fosse il suo concentrato, la sua anima.
Tali sono gli angoli oscuri di questo sentimento così tormentato, ma esiste un luogo preciso in quella città di tenebra in cui la luce gioiosa dell’amore vero risplende accecante. Difficile trovarlo, ma c’è, e mi piace pensare che le mura che contengono il suo infinito siano quelle gotiche della chiesa di Notre-dame.
Meraviglioso, anche se amaro.
"Oh – disse il prete, - abbi pietà di me! Ti credi sventurata, ma tu non sai che cosa sia la sventura! Amare una donna! Essere prete! Essere odiato! amarla con tutto il furore dell'anima, sentire che per un suo solo sorriso daremmo il sangue, le viscere, il nome, la salvezza dell'anima, l'immortalità e l'eternità, questa vita e quell'altra; rammaricarsi di non essere re, genio, imperatore, arcangelo, dio, per poter mettere sotto i suoi piedi uno schiavo più grande."
Indicazioni utili
Dumas.
Un noir “sentimentale”
Essendo un amante del noir, la prospettiva di leggere per la prima volta un autore che negli ultimi tempi sta riscuotendo un enorme successo nel genere, mi intrigava molto.
Campione di vendite, a Hollywood stanno facendo carte false pur di accaparrarsi i diritti sulle sue opere, per farne trasposizioni cinematografiche. Una cosa è certa, almeno in “Sangue e neve”, Jo Nesbo dimostra di essere una vera e propria miniera d’oro per il cinema, e lo classifico tra quegli autori che quando scrivono un libro, in realtà stanno scrivendo tacitamente anche il copione di un film. Una trama coinvolgente e scorrevole, carica di tensione e popolata da personaggi interessanti. Lo stile dell’autore è di quelli che si lascia leggere con estrema facilità.
In “Sangue e neve” avremo a che fare con un killer “sentimentale”, che risulta essere un personaggio interessante nonostante le difficoltà logistiche che la sua personalità presenta; quella del killer, almeno nella mia testa, non è una professione per un “sentimentale”, è un po’ come pensare a un ingegnere aerospaziale ignorante. Nonostante ciò il personaggio suscita empatia, e la storia che ci si presenterà davanti agli occhi è quella di un thriller-noir di buon livello. Jo Nesbo ci porta a esplorare le strade innevate di Oslo, che nel suo scenario glaciale darà vita a una sporca faccenda di malavita, tra boss dell’eroina e della prostituzione; killer senza scrupoli eppure con un tratto tenero e umano; uomini e donne disposti a tutto pur di raggiungere l’agognato potere. Alla scoperta dei lati sadici dell’essere umano, disposto a tutto quando si tratta della propria sopravvivenza, provando un oscuro piacere nell’essere colui che detiene il potere sul destino di un altro; ma anche alla scoperta degli angoli più lucenti che hanno sede in quel controverso organo chiamato cuore, spolverando quel troppo spesso denigrato sentimento chiamato amore. L’amore, quello vero, non strettamente legato al desiderio carnale; qualcosa di più alto, puro e difficilmente riconoscibile. Questo libro vi coinvolgerà con il suo ritmo incalzante e i suoi colpi di scena, facendo nascere probabilmente la voglia di vederne una trasposizione cinematografica; gli ingredienti per un buon thriller ci sono tutti e Jo Nesbo si è rivelato un ottimo “chef”. Certo, Oslo non sarà Los Angeles e Olav, il protagonista, non sarà Rust Cohle (True Detective), Bud White o Dudley Smith (L.A. Confidential), ma risulta comunque come un personaggio da ricordare, almeno per la sua particolarità.
“Mi piaceva aspettare. Mi piaceva il lasso di tempo tra il momento in cui prendevo la decisione e quando agivo. Erano gli unici minuti, le uniche ore, gli unici giorni della mia vita verosimilmente breve in cui ero qualcosa. Ero il destino di qualcuno.”
Indicazioni utili
Noir
L’Antica fusione tra uomo e natura
Ero molto curioso di leggere la prima opera di McCarthy, avendo imparato ad amare il suo splendido stile e il suo modo di raccontare i lati più scuri e crudi della natura umana.
Ne “Il guardiano del frutteto” il suo stile rimane inconfondibile, anche se risulta chiaro che nel momento in cui l’opera è stata scritta, l’autore fosse ancora all’inizio della sua strada per diventare uno degli autori più ispirati del nostro secolo. Tante idee ancora acerbe si affacciano nella prima opera di questo autore, idee che matureranno col tempo e gli daranno modo di partorire i suoi successivi capolavori, ma “Il guardiano del frutteto” è risultato un po’ confusionario. La trama, che come di consueto non si può associare a un preciso genere letterario, risulta spesso priva di un filo logico e diventa un susseguirsi di eventi un po’ sconnessi e difficilmente comprensibili.
Credo che McCarthy volesse raccontare una terra in tutte le sue sfaccettature, la terra del Tennessee tra le due guerre mondiali, e ce la fa vedere in tutte le prospettive possibili. Il clima, la natura e soprattutto l’essere umano che la popola e che con le sue azioni, senza saperlo, contribuisce a definirne i tratti e i colori. Uomo che è parte integrante del mondo in cui vive, uno dei responsabili del suo progresso ma anche del suo decadimento, interagendo con una natura che nonostante la presenza di quell’essere spesso invadente, continua a seguire i propri istinti e il proprio corso indipendente. Uomo che comprende le realtà nascoste della terra che lo circonda soltanto quando le sue carni si fanno vecchie e stanche, e il suo animo è insopportabilmente carico di tutti gli errori accumulati nel corso di una vita. Sarà proprio il vecchio Ather ad essere il personaggio più interessante, incarnando un uomo che con gli anni si è fuso tacitamente con la natura che lo circonda, imparando a comprenderla e ad amarla in solitudine, bramando la sua pace.
"Ho lavorato quasi tutta la vita e non ho mai avuto niente. Pensi che da vecchio avrai diritto al riposo, ma poi scopri che ci sono cose che devi fare perché nessuno vuole occuparsene. Come se questo le facesse sparire. E magari non sembravano niente di speciale, ma poi ti trascinano come quando addestri un cane da conigli a stanare un paletto e quello ti porta su e giù per la contea fino all’imbrunire. Cose che un vecchio non è più in grado di fare. Quasi tutti vogliamo stare in pace, e nessuno più di un vecchio."
Indicazioni utili
Un’apocalisse invisibile
Che dolore. “Cecità” di Saramago è un maledetto pugno nello stomaco, uno schiaffo in pieno volto, un grido acuto dritto nei timpani. Ahinoi, Saramago conosce gli uomini e non risparmia nessuno dalla sua profonda accusa alla natura umana, nemmeno sé stesso. Col suo inconfondibile e ottimo stile, lo scrittore ci racconta un mondo improvvisamente travolto da una bianca cecità, contagiosa come una malattia estremamente virale. Le vicende ci vengono raccontate per mezzo degli unici occhi scampati a quel male e, credetemi, per risparmiarvi quell’orrido spettacolo preferireste che fossero anch’essi privi della vista, come lo vorrebbe colei che quegli occhi li possiede. Preferireste non assistere all’apocalisse in cui un cieco genere umano trascinerà sé stesso, degradazione della quale potrebbe essere perfettamente capace.
La malattia si spande a macchia d’olio; “Sono cieco!”, è il grido che risuona a ogni angolo di strada e che di lì a poco accomunerà l’umanità intera. I primi colpiti dal mal bianco vengono segregati come animali, e tali diventeranno, anticipando soltanto quello che sarà di lì a poco il destino di tutti. La cecità mette a nudo il terrificante lato animalesco dell’uomo che, non abituato a essere tale (nella maggior parte dei casi), sprofonderà, rendendosi artefice di nefandezze ben peggiori di quelle perpetrate dal mondo animale; come se insieme alla vista fosse andato perduto anche ogni freno inibitorio. L’umanità sprofonda nel sudiciume che essa stessa ha creato, e leggendo tra le pagine di questo libro li guarderai andare a fondo, e farà male.
Fa male perché in fondo al cuore lo sai che è vero, lo sai che in circostanze simili anche tu diventeresti egoista e senza scrupoli, disposto a sacrificare la morale per un tozzo di pane, a perdere la tua umanità in cambio della sopravvivenza. Lo sai perché scrutando con la mente i personaggi e le loro azioni, ammetti tacitamente a te stesso che faresti esattamente le stesse cose, oppure, quando vien fuori da loro quel briciolo di umanità residua che è sempre dura a morire, rifletti egoisticamente sulle conseguenze che tale buona azione ti porterebbe. Dolore, dolore.
“Cecità” è il palcoscenico per uomini che hanno perso la vista, ma insieme ad essa hanno perso anche tutto il resto; disposti a rubare il cibo a un morto di fame, a uccidere chiunque lo minacci di portargli via una dignità che in fin dei conti ha già perduto, disposto a sacrificarla in nome di una cieca sopravvivenza. Il barlume di speranza che alla fine lo scrittore ci regala, è soltanto una magra consolazione, dopo il mare di melma nel quale siamo stati costretti a nuotare.
Spaventosamente veritiero, ma assolutamente da leggere per chi ha un animo forte.
"Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo. Ciechi che vedono. Ciechi che, pur vedendo, non vedono."
Indicazioni utili
Le intermittenze della morte.
Le tenebre nel cuore e nella terra
“Cuore di tenebra” ci porta nel cuore dell’Africa ai tempi della colonizzazione. Conrad ci racconta la storia (in fin dei conti quasi autobiografica), del vecchio marinaio Marlow, che su una barca ferma alla foce del Tamigi, racconta ai suoi compagni il terribile viaggio verso quell’oscurità che lo avrebbe cambiato per sempre. Molto bello e profondo lo stile di Conrad, che con il grigiore di questa avventura trova il pretesto per scrutare il profondo dell’anima umana.
Sarò sincero, probabilmente non è una lettura che mi rimarrà indelebile nel cuore e nella mente, ma è comunque un’opera che può dar spunto a parecchie riflessioni più o meno profonde, in base al lettore che si troverà dinanzi.
Questo libro è una critica al colonialismo, una denuncia alla bramosia umana, la cronaca di un’esplorazione delle tenebre con l’intento di rischiararle, ma senza successo. Marlow racconta il suo viaggio che in fin dei conti sarà incentrato sulla ricerca di un semplice ma controverso uomo, Kurtz, un uomo che ha fatto sua l’oscurità celata da quelle terre popolate da indigeni. Quella terra è un’entità vivente, un essere ghignante e trionfante nella sua cupezza, che illude l’ignaro viaggiatore di poter essere vincitore, per poi sopraffarlo e inghiottirlo nel suo oblio. Kurtz diventa una leggenda, un uomo perduto e irrecuperabile, rapito irrimediabilmente dall’oscurità di quella terra che in fin dei conti ha soltanto portato alla luce il suo cuore di tenebra. Strappare il suo corpo da quel luogo non si può, la sua anima ormai si è fusa con esso e Marlow lo capirà semplicemente guardando quella figura che appare profondamente mutata, seppur non ebbe avuto modo di conoscerla prima della suo radicale mutamento. Un uomo tormentato e un luogo maledetto che senza bisogno di parole mostrano una miriade di analogie, che insieme mettono a nudo la frivolezza di quegli uomini semplici che si illudono di conoscere il male, ma che in realtà non ne hanno nemmeno l’idea più sfocata.
"... No, è impossibile, impossibile comunicare ad altri quel che proviamo dentro di noi in un momento qualsiasi della nostra vita, ciò che ne costituisce la verità, il significato, la sua sottile e penetrante essenza. Si vive come si sogna: soli..."
Indicazioni utili
Vogliamo esser tutti Signori delle Mosche
Prima di addentrarmi nelle considerazioni voglio fare un’osservazione: questo libro va letto, assolutamente, perché mette a nudo la natura dell’essere umano in una maniera molto interessante. D’altro canto non risulta una lettura piacevolissima (a discapito della trama intrigante), e se devo dire la mia questa mancanza è dovuta principalmente allo stile dell’autore. Ora, io non so se questo è dovuto a una cattiva traduzione (lo spero per Golding), ma la narrazione è confusionaria e perde spesso il filo della logica, inoltre gli ambienti sono descritti in maniera forse troppo abbondante, e cosa ancor peggiore, non rendono per niente l’idea; non sono riuscito a farmi la benchè minima immagine mentale degli scenari in cui si svolgono gli eventi, sono soltanto luoghi incoerenti e confusi che la mia mente ha partorito nel disperato bisogno di entrare in quel mondo, ma per niente aiutata dalle descrizioni.
Detto questo però, una grossa nota di merito va ai contenuti, e sono questi a rendere l’opera un pezzo importante del bagaglio culturale di un lettore che si rispetti.
Un gruppo di bambini, a seguito di un incidente aereo, si ritrova disperso su un’isola deserta, mentre nel resto del mondo infuria la guerra. Questi giovani si ritrovano privi dei bisogni primari dell’essere umano, che nel mondo civilizzato davano per scontati, e dell’esperienza necessaria a far fronte a una simile situazione.
Tenteranno di organizzarsi e di far fronte alle difficoltà, si daranno alla caccia, alle leggi, costruiranno dei rifugi e si organizzeranno per tenere vivo un fuoco che faccia da segnale di SOS. L’innocenza bambinesca però sarà ben presto contaminata da una componente “adulta”, facendo spazio nelle loro anime a quei problemi e difetti che avrebbero dovuto affacciarsi nelle loro vite molto tempo più tardi. La disgrazia accelera il loro processo di “crescita”, ma sarebbe meglio dire involuzione. Verranno fuori contrasti di ideologie e personalità; contrapposizioni tra ragione e istinto di sopravvivenza, tra la difficoltà di attenersi alle leggi e la semplice ma immorale barbarie. L’innocenza fanciullesca fa la sua dipartita, rimpiazzata da violenza e furti; dal desiderio di uccidere e prevalere guerreggiando.
Quell’isola dall’aspetto paradisiaco diventa scenario per gli angoli infernali del cuore umano, un cuore bramoso di potere, un cuore che pur di ottenere il dominio su tutto il resto accetta il marchio dell’infamia sui propri tessuti organici. Gli “adulti” osserveranno lo sconvolgimento avvenuto tra quelli che in fin dei conti sono soltanto bambini e ne rimarranno sconcertati, senza pensare che quello è soltanto il prodotto delle guerre che da secoli intraprendiamo per essere Signori delle Mosche.
“Continuarono a camminare, vicini ma separati da tutto un mondo di esperienze e di sentimenti diversi, incomunicabili.”
Indicazioni utili
Il cuore nero di un’America in guerra
“Perfidia” fa da apripista alla seconda “tetralogia di Los Angeles”, rispolverando personaggi già visti nella prima tetralogia, che vanta tra le sue file un capolavoro del calibro di “L.A. Confidential”.
“Perfidia” non ha una trama intrigante come il capostipite della serie che lo precede, ma a mio modesto parere compensa questa mancanza con la perfetta caratterizzazione di una Los Angeles sconvolta dall’ingresso in guerra degli Stati Uniti, in seguito al famoso attacco di Pearl Harbor. Tutto si oscura, tutto diventa caos; odio razziale, corruzione e omicidi imperversano per le strade. Come sempre, Ellroy tinge le sue storie con colori cupi e smorti; seppure Ellroy non eccella nella descrizione degli ambienti, colma questa mancanza con il suo fantastico modo di raccontare i fatti, rendendo il tutto più visivo e permettendo al lettore di scrutare l’oscurità dilagante nei luoghi in cui si svolgono le vicende. Bisogna ammettere che lo scrittore tende a mettere fin troppa carne a cuocere, ma nonostante questo bisogna anche concedergli il merito di riuscire a mantenere una coerenza indistruttibile, nonostante l’immensa mole di eventi che si susseguono nelle pagine che scrive (che non sono poche). Eventi a cui non tutti riuscirebbero a reggere a causa della loro profonda crudezza; ma in fin dei conti qui si parla di noir, e il noir non è adatto ai deboli di stomaco.
L’inizio di “Perfidia” è scatenato dalla morte di una famiglia giapponese. Tutti gli indizi sembrano condurre al suicidio “rituale”. Un caso semplice? Niente di più sbagliato; impossibile immaginare in anticipo gli intrighi che si nascondono dietro le quinte, celati ulteriormente dal vile attacco di Pearl Harbor, che oltre a provocare numerose vittime, ha sconvolto le menti di un intero continente. E’ nel momento dell’attacco che l’America si tinge di nero. Essa mostra al mondo la profonda indignazione nei confronti di Hitler e della sua guerra; si disgusta quando scopre l’ignobile fine che il nazismo ha riservato alla innocente razza ebraica. Eppure nasconde tra i suoi confini atrocità molto simili, riversando il suo odio verso la razza giapponese, senza distinzioni, anche nei confronti di quelle persone che in fin dei conti sono americane in tutto e per tutto, anche se con tratti somatici differenti. Licenziati, insultati, malmenati, uccisi; come se fossero stati loro ad ordinare l’attacco; come se fossero stati loro a manovrare quegli aerei; come se fossero coinvolti in quella sporca faccenda in ogni modo possibile. In realtà, nel loro cuore, molti di quegli uomini la disapprovano.
Ellroy ci disegna l’America in guerra, ma ci mostra l’altra faccia della medaglia.
Un’America che, incupendosi, rende luminosi i limiti dell’essere umano, che si lascia facilmente andare al razzismo indistinto e ad istinti animaleschi.
All’immagine degli eroici Alleati che intervengono coraggiosamente per porre fine alla follia nazi-giapponese, si contrappone l’immagine di un’America vista dall’interno, dal retroscena, fuori dai tanto decantati campi di battaglia. Forse lo scenario sarà un po’ meno sanguinoso, ma vi assicuro, è decisamente più cupo e oscuro.
“L’apocalisse imminente non è colpa nostra. Noi siamo stati buoni cittadini e non sapevamo che sarebbe giunta.”
Indicazioni utili
Noir.
Romanzi incentrati sulle guerre mondiali.
Fallen Angels
Il noir è un genere forte, spietato, che non la manda a dire e non ha paura di esplorare gli angoli bui, proprio come piace a me. James Ellroy è di certo un grosso esponente di questo genere e con “L.A. Confidential” non fa altro che confermarlo in maniera decisa. La storia, essendo molto complessa, tende spesso a lasciare che il lettore si perda tra i numerosi personaggi e le intricate vicende, senza però perdere in bellezza. Questo è davvero un GRANDE noir.
Nella città degli angeli caduti non c’è posto per la luce. Gli anni dal 1950 al ’58 segnano un periodo oscuro per Los Angeles, segnata da eventi sanguinosi e popolata da personaggi cupi e corrotti. Il Natale di Sangue, il massacro del Nite Owl. Soldi, droga, prostituzione e violenza sono solo alcuni degli efferati crimini che imperversano per le strade. Nulla si salva alla corruzione dilagante, nemmeno la polizia, tra le cui fila trovano asilo quasi senza nascondersi criminali in uniforme, spesso peggiori di quelli che popolano le strade. Bud White, Ed Exley e Jack Vincennes sono i tre protagonisti di questa storia, e saranno proprio loro a renderla degna di essere raccontata. Tre poliziotti ognuno con ambizioni, metodi, vizi e demoni diversi, grandi uomini tormentati che nella “piccola” Los Angeles non potranno far altro che scontrarsi, per poi combattere fianco a fianco, costretti a unire le forze di fronte ai lati oscuri che la città degli angeli caduti gli rigurgiterà addosso. Non esiste eroismo, non esiste giusto o sbagliato, esistono uomini grandi anche nelle proprie imperfezioni; e nella maggior parte dei casi, le loro storie sono quelle più degne d’essere raccontate, e i loro cambiamenti quelli che toccano di più il cuore.
Davvero coinvolgente.
“Sii maledetto per quello che mi hai costretto ad essere.”
Indicazioni utili
Una maglia color del cielo
Comincio col dire che probabilmente questo è il libro la cui recensione è risultata per me come la più difficile da scrivere. Non perché sia complesso o altro, ma perché in queste pagine c’è una parte di me, la mia Malattia, la mia Passione, e mantenere un’obiettività è difficile. Tra queste pagine c’è Napoli, tra queste pagine c’è Il Napoli; quella squadra dalla maglia azzurra che tanto fa gioire e disperare i suoi sostenitori. De Giovanni è uno di quei “Malati”, e lo si capisce da ogni pagina, da ogni lettera di questo libro piacevolissimo, che trasuda napolitanità da ogni singola fibra di carta. Mi sono innamorato del suo stile ironico, che non scade mai nel banale né diventa mai demenziale. Davvero notevole.
Le accoglienti pareti di un bar piazzato in uno dei tanti vicoli di Napoli, diventano ogni giorno scenario di uno spettacolo oltremodo variegato. Il Professore, alle soglie della pensione, decide di scrivere un libro che racconti quelle che sono le emozioni e gli argomenti predominanti nella vita quotidiana delle persone. Per trovare ispirazione, si rifugerà nel bar di Peppe, dove prenderà spunto dagli argomenti di quei clienti che si susseguono numerosi. Con sua enorme sorpresa, gli argomenti convergono su una cosa e una soltanto, la Partita della domenica, e “Il resto della settimana” non è altro che l’interludio tra l’una e l’altra; un interludio fatto di commenti sulla partita appena giocata, di paure e speranze su quella successiva. De Giovanni ripercorre in maniera geniale i momenti memorabili della storia azzurra, romanzandoli e raccontandoli in un modo che tocca il cuore, o almeno ogni cuore che sia tinto d’azzurro. Ma è un libro consigliato anche a chi non segue il calcio, perché può rendere più chiaro perché questa passione possa essere così morbosa e contagiosa, e lo fa tramite uno dei popoli che fa del calcio il proprio amore incondizionato: il popolo napoletano. Quale esempio migliore? Quello per il Napoli è un amore morboso che all’occhio di un osservatore esterno può apparire eccessivo, ma è un amore genuino che non comprende soltanto il calcio in sé per sé. Sarà pur vero che in fin dei conti si tratta soltanto di ventidue giocatori che corrono dietro a un pallone, ma qualcosa di più profondo e significativo si nasconde dietro quello che all’occhio disattento e disinteressato è solo un semplice sport giocato da semplici squadre. Il Napoli è un modo per tirare fuori, anche se per novanta minuti soltanto, il selvaggio che reprimiamo per un’intera settimana; il Napoli è un filo azzurro che unisce una moltitudine di esistenze e le accomuna rendendole una cosa sola; il Napoli è il mezzo con cui una città troppo spesso denigrata ingiustamente può avere la sua piccola rivalsa; il Napoli è uno dei pochi modi che i napoletani hanno per dire al resto del mondo: “Ci siamo anche noi, e guardate bene cosa siamo capaci di fare per amore”.
Complimenti davvero a Maurizio De Giovanni, ha tutta la mia stima e ammirazione.
“Sarà l’attenzione, la spasmodica tensione di sessantamila persone concentrate su un unico punto; sarà la passione immensa di un popolo che ha un milione di problemi, ma che cerca nell’effimero del pallone un attimo di gioia pura; sarà il desiderio spasmodico di non tornare alla tristezza, alla malinconia. Sarà.”
Indicazioni utili
Ciechi ohimè tutti e tre…
“Tre topolini ciechi” è una raccolta di racconti tra cui figura, ovviamente, anche quello che dà il nome a questo libro, e che probabilmente è anche la storia più interessante e intelligente. Il suddetto racconto non ha come protagonista uno dei due geniali investigatori partoriti dalla mente della Christie, Miss Marple ed Hercule Poirot, ma questi saranno presenti nei racconti successivi, escluso l’ultimo.
Che dire, la Christie era un vero e proprio fenomeno del giallo, con racconti diversificati e quasi mai banali, anche se talvolta ricorre a qualche espediente a cui ha già ricorso in altre opere, peccando un po’ di ripetitività. Lo dimostra anche questa raccolta, i suoi racconti sono piacevoli a leggersi e scritti egregiamente; i colpevoli sono sempre difficili da scovare e i moventi quasi impensabili per il lettore, ma non per Poirot e Marple. La Christie ha la straordinaria capacità di far credere, nel momento in cui la risoluzione di ogni caso è vicina, che la stessa sia oltremodo ovvia e dando un po’ l’illusione al lettore di eccellere in arguzia. “Lo sapevo!”, ho pensato spesso anch’io. Provate a prendere un racconto a caso che non avete ancora letto e a trarre delle conclusioni sostituendovi a Poirot o a Miss Marple, il risultato vi stupirebbe e il colpevole sarebbe quasi sempre il maggiordomo, anche se magari nel racconto questi non compare nemmeno.
Per quanto riguarda il primo racconto, “Tre topolini ciechi”, è di certo il più ispirato, con i personaggi più interessanti e meglio caratterizzati, con la storia più intricata e difficile da decifrare, condita anche da qualche buon colpo di scena.
Il mio plauso va alla regina del giallo ma, non me ne voglia, la mia lode andrà sempre al re, Arthur Conan Doyle e il suo geniale Sherlock Holmes.
“La gente ha troppe scuse per giustificare le proprie nevrosi."
Indicazioni utili
Gialli in generale
Il buio fuori e dentro
Inutile che mi soffermi sulla bellezza dello stile di questo autore, dico solo questo: dategli il Nobel prima che sia troppo tardi, di autori che scrivono come lui davvero non ce ne sono.
Il mondo descritto da Cormac McCarthy è quasi sempre apocalittico anche in assenza di una reale fine del mondo, un degrado che è quasi sempre dettato dagli uomini e non da forze da esso indipendenti, siano esse forze della natura o forze estranee al terrestre. Siamo il maggior pericolo per noi stessi e la principale causa della nostra caduta, e bisogna avere la forza e lo stomaco per affrontare la realtà che lo scrittore in questione ci pone dinanzi.
Un bimbo venuto al mondo da un rapporto incestuoso, sbucato nel bel mezzo dell’oscurità e abbandonato a sé stesso fin dai primi istanti di vita, dall’uomo che lo rigetta seppur lo ha messo al mondo, ma che in fondo non sta facendo altro che rigettare la sua stessa vita e il mondo del quale calca inutilmente il suolo. Un mondo che sembra fare altrettanto con sé stesso e popolato da uomini che lo prendono ad esempio, ma che comunque si aggrappano alla propria tenebrosa vita. L’oscurità dilaga anche quando quella stella guardiana si innalza sulla volta celeste, così maestosa eppure incapace di scacciare quelle tenebre indistruttibili. Eppure non c’è al mondo soltanto il buio. La madre di quel bambino perduto illumina, come la fievole luce di una lanterna sporca, quel buio dilagante nel quale si addentra senza paura, spinta dall’amore per quel figlio che, in fondo, è la fonte di quella luce che porta e che la sosterrà nella sua ricerca probabilmente per sempre. L’amore è l’unica luce in questo oscuro mondo e chi lo rigetta da sé, non può far altro che adattarsi diventando esso stesso tenebra e male, o rassegnarsi a brancolare nel buio imperscrutabile.
“Che bisogno ha un uomo di vedere dove sta andando, se verrà comunque mandato là?”. Se siamo senza amore non importa se siamo ciechi o meno, il nostro viaggio sarà una strada tenebrosa verso la medesima destinazione, la mortifera palude della fine dei giorni.
“Ho dato quarant'anni legato come un mulo alle stanghe di un carro, fino a non poter più stare dritto abbastanza da essere impiccato. Non ho un'anima al mondo tranne una vecchia sorella semidemente che nessuno ha mai voluto, proprio come nessuno ha mai voluto me. Da un capo all'altro di questo stato mi hanno preso a sassate, sparato, frustato, mi hanno preso a calci e i cani mi hanno morso, e questo non me lo puoi ripagare. Tu non hai niente con cui ripagarmelo. Sono debiti di sangue, e non c'è niente in questo mondo che li possa cancellare."
Indicazioni utili
Quel che la morte invidia della vita
Ci sono parole che sentiamo nostre nel preciso istante in cui le ascoltiamo o le leggiamo. Tra le pagine de “Le intermittenze della morte” Saramago ci mostra buona parte delle parole che ormai aveva fatto sue, inglobandole nelle sue convinzioni, idee, speranze e paure. E non è difficile da credere che in un uomo che purtroppo sarebbe morto cinque anni dopo la pubblicazione di quest’opera, i pensieri siano attanagliati dall’idea della morte in tutte le sue sfaccettature. In uno stile semplice, efficace e pregno di sarcasmo e ironia, ci rende note le sue paure con una storia piacevole e surreale, paure che in fin dei conti sono quelle di tutti gli esseri umani.
La morte aveva smesso di arrivare, così, all’improvviso. Inutile dire che nemmeno la prospettiva dell’eternità cancella i difetti dell’uomo; questi sono qualcosa che ci tiriamo addosso da tempo indefinibile. Alla scomparsa della morte c’è chi se ne lamenta, come se lamentarsi sia un dovere inderogabile dell’uomo di fronte a qualsivoglia cambiamento, anche positivo. C’è chi se ne dispera perché della morte, come quasi ogni cosa, se ne era fatto un business, ignorando come la sua scomparsa sia in realtà la cosa che più desideriamo da quando siamo al mondo. C’è chi impara a lucrare anche sulla scomparsa della morte e c’è chi pensa alle conseguenze. Paradossalmente pare che nessuno gioisca della sua dipartita, nessuno si accorge della bellezza di vivere per sempre se non quando questa gli viene portata via nuovamente. Certe cose si apprezzano soltanto quando le si perde. La morte torna al suo lavoro di sempre ma stavolta, non busserà alla porta di ogni uomo che è giunto al capolinea senza aver spedito una lettera di preavviso sette giorni prima della morte effettiva. C’è un uomo però che rappresenta un po’ la voglia globale e stranamente celata di non voler morire. Inconsciamente rispedisce la sua lettera di morte al mittente, non si sa come, e lo fa una, due, tre, quattro volte, tanto da spingere la morte a bussare alla sua porta. Probabilmente è proprio il desiderio di continuare a vivere a respingere la lettera, senza che il suo proprietario se ne accorga. Siamo attaccati tantissimo alla vita ed è oltremodo evidente che lo era anche Saramago. Lo si capisce da ogni parola scritta in queste pagine, pregne di una disperata voglia di vivere, di sopravvivere alla morte. La speranza che ci accomuna tutti e che conserviamo gelosamente seppur siamo consapevoli sia impossibile, quella speranza che la morte si dimentichi di noi o ci ritenga meritevoli di non abbandonare questa vita che spesso disprezziamo, ma che in realtà amiamo profondamente, come la amava Saramago.
“[…] signor direttore della televisione nazionale, non mi resta che chiederle di fare giungere oggi stesso a tutte le case del paese questo mio messaggio autografo, che firmo con il nome con cui generalmente mi si conosce, morte.”
Indicazioni utili
Realtà corrotte
Occorre fare una premessa importante che può salvare questa lettura a chi ne ignora la natura, come è capitato a me inizialmente. Lo stile adottato da Faulkner per quest’opera è quella del flusso di coscienza: la narrazione va avanti tra i pensieri spesso sconnessi e interrotti dei personaggi. Come ben sapete la mente umana è un fiume in piena e non esiste un filo logico nella formulazione dei pensieri, ed è così che scorre il romanzo, quindi accingetevi alla lettura con questa consapevolezza e potrete apprezzarne le sfumature e i contenuti. Anche se non apprezzo particolarmente questo stile, Faulkner lo adotta in maniera superba e rende la lettura complessa ma in questo modo indelebile come forse non avrebbe potuto fare diversamente.
Ci troviamo al cospetto dei Compson, famiglia dall’importante passato e dalla forte influenza nella città di Jefferson. Una famiglia oltremodo controversa e travolta dalle avversità, un padre che si lascia andare all’alcool, una madre pazza e apprensiva, quattro figli di cui uno pazzo dalla nascita e dei servi di colore tra i quali spicca la carismatica domestica Dilsey. Saremo partecipi del decadimento di questa grande famiglia, trascinata nelle tenebre dai suoi stessi componenti, che Faulkner ci farà scrutare nel profondo. Esistono realtà che si corrompono, non importa quanto grandi e gloriose possano esser state, non v’è passato tanto forte da resistere alla corruzione del presente. Realtà che si lacerano e diventano qualcosa di contaminato e insalvabile, all’interno delle quali non ci si può che infettare. L’unica salvezza dalla caduta l’ha chi, per quanto dolorosamente, da quella realtà si tira fuori per non essere partecipe della sua miserabile fine. Anche nel fango può nascondersi un diamante, ma perso all’interno del sudiciume questo non avrà alcun valore e dovrà tirarsene fuori per non essere perso per sempre. Però bisogna guardare in faccia alla realtà e accettare che non tutti i cumuli di fango nascondono un diamante, anzi.
Difficile dire se ci sia qualcuno dei Compson che abbia tirato fuori sé stesso dalla rovina, fatto sta che Benjamin, il figlio nato “idiota”, conserva una purezza che persone che si giudicano migliori di lui hanno irrimediabilmente perso.
“[…] Non te lo do perché tu possa ricordarti del tempo, ma perché ogni tanto tu possa dimenticarlo per un attimo e non sprecare tutto il tuo fiato nel tentativo di vincerlo. Perché, disse, le battaglie non si vincono mai. Non si combattono nemmeno. L’uomo scopre, sul campo, solo la sua follia e disperazione, e la vittoria è un’illusione dei filosofi e degli stolti.”
Indicazioni utili
L’eterna luce di una lampada
Mentirei se dicessi che ho preso tra le mani questo libro indipendentemente dal Nobel che ha vinto il suo autore. Oserei dire invece che difficilmente lo avrei preso se non fosse stato per questo; il premio tanto ambito ha destato in me l’enorme curiosità di capire cosa si debba creare per meritarlo. Quel che mi sono trovato davanti è un romanzo certamente piacevole, dai buoni contenuti e con uno stile distinto e a tratti evocativo. Mentirei anche se dicessi che non ho letto di meglio, ma chi sono io per smentire l’Accademia?
Uno scrittore di nome Jean e cognome ignoto, trae spunto da un semplice taccuino per ricostruire determinati frangenti della sua vita. Vedrà materializzarsi sotto i propri occhi loschi figuri, una donna enigmatica che ama senza pretendere alcuna spiegazione e un sé stesso immerso in una Parigi pregna di angoli bui, popolati da cose e persone che a quel tempo ignorava. Nel tempo presente quelle tenebre appaiono rischiarate da una luce solare, ma ormai non ha più importanza. Il tempo diventa un’entità che sembra quasi non esistere, la vita si svolge in tutte le sue parti nello stesso momento e sotto i nostri occhi, e ci ritroviamo a incontrare persone sparite dalla nostra vita da tempo e versioni di noi stessi che hanno fatto altrettanto. Persone che non possono sentirci e delle quali conosciamo già la sorte senza avere il potere di cambiarla. Percorriamo il nostro sentiero lasciandoci alle spalle luoghi che nella nostra mente sembrano immersi in stagioni diverse in base alla bellezza del ricordo che le ha popolate, luoghi nei quali lasceremo la nostra traccia come una lampada accesa eternamente, la cui luce sembra gridare che noi siamo stati lì e che una parte di noi stessi ci rimarrà per sempre. Luoghi che possono prendere le sembianze di cuori, quelli delle persone che abbiamo amato e che forse non rincontreremo mai se non per la strada, rese vive dai nostri ricordi ma rese sorde dallo scorrere inesorabile del tempo.
“Anch’io provo una strana sensazione se penso alle lampade che abbiamo dimenticato accese nei luoghi in cui non siamo mai tornati… Non era colpa nostra. Ogni volta dovevamo andarcene in fretta e in punta di piedi. Sono certo che nella casa di campagna abbiamo lasciato una luce accesa da qualche parte. E se fossi io l’unico responsabile di quella negligenza o dimenticanza? Oggi sono convinto che non si trattava né di dimenticanza né di negligenza, ma che al momento di andarcene ero io ad accendere di proposito una lampada. Forse per scaramanzia, per scongiurare la malasorte e soprattutto perché rimanesse una traccia di noi, un segnale che indicasse che non eravamo davvero assenti e che un giorno o l’altro saremmo tornati.”
Indicazioni utili
Un quadro fatto di parole e semplice umanità
E’ finita. Mi ci è voluto un mese, ma alla fine ho completato la lettura di questo titano. Inutile dilungarsi su questioni di stile, se certi scrittori sono definiti grandi ci sarà pure un motivo. Questa è letteratura e le digressioni, che in questo caso non mancano affatto, sono parte fondamentale della grandezza delle opere e dei loro autori, anche se non vi nascondo che nel caso de “I Miserabili” alcune le ho trovate sublimi, come la narrazione della battaglia di Waterloo, altre meno.
“I Miserabili” è un affresco che Hugo ha dipinto con le parole come Jacques-Louis David avrebbe fatto con il pennello. Sullo sfondo, la Francia e in particolare la sua amata Parigi, colorata in tutte le sue sfumature e popolata di eroi e miserabili che brillano e si oscurano ognuno di una luce o di una tenebra diversa. All’alba di una nuova era della civiltà, nel bel mezzo della rivoluzione del mondo che ebbe inizio in Francia, queste figure colorano quello scenario e ci mostrano alcuni degli innumerevoli e profondi aspetti che può assumere l’animo umano, e tutte insieme all’interno di quel magico e allo stesso tempo tetro sfondo, daranno vita a un magnifico quadro d’umanità.
E in questo quadro, ecco quello che ho visto.
L’amore materno e disposto a tutto è Fantine. Con i suoi colori caldi e rassicuranti culla tra le braccia la piccola e fragile creatura che ha messo al mondo, per la quale darebbe la vita.
L’ispettore Javert se ne sta in un angolo, inamovibile, ma nonostante questo sembra essere presente in ogni dove con il suo occhio indagatore e irreprensibile nella giustizia. Eppure fragile come il granito della legge al cospetto della misericordia divina.
Marius e Cosette illuminano una valle isolata avvolta dalle tonalità rosee dell’amore, che non conosce turbamenti, nemmeno quelli passati, non importa quanto essi siano stati intensi o prolungati.
Osservando con avidità e invidia il resto del mondo avvolto dalla luce e dai colori, relegati nel loro cantuccio di oscurità se ne stanno i Thenardièr, ma non tutti, perché non è detto che chi nasce nelle tenebre voglia necessariamente morirci.
E poi c’è lui. Jean Valjean. L’umana dimostrazione di come ogni anima, per quanto sporca e miserabile, sia degna del perdono di Dio e possa trasfigurarsi in uno scrigno di bontà. Egli incombe su questo quadro di vita come una chimera che si tramuti in figura angelica, facendo splendere quel dipinto di una luce sfolgorante. Questo accecante splendore scaturisce semplicemente da quel cuore che Dio ha toccato e mutato, in una profondità nella quale ogni semplice uomo avrebbe paura di guardare.
“L'occhio dello spirito non può trovare in nessun luogo più splendore o più tenebre che nell'uomo; non può fissarsi su nessuna cosa che sia più temibile, più complessa, più misteriosa e più infinita. Esiste uno spettacolo più grande del mare, è il cielo; esiste uno spettacolo più grande del cielo, è l'interno dell'anima."
Indicazioni utili
Crepe
Esiste un essere umano che sia privo di punti deboli? Se c’è una cosa certa al mondo è che la risposta a questa domanda è no. “La Relazione” di Andrea Camilleri racconta la disperata ricerca del punto debole di un semplice uomo, Mauro Assante, da parte di un misterioso gruppo di persone apparentemente senza scrupoli e con la chiara intenzione di distruggerlo. Mauro è un ispettore bancario e sta scrivendo una relazione su un istituto che egli stesso ha ispezionato e che ha mostrato d’avere più che dei semplici problemi legali. Sarà proprio durante la stesura di questa relazione che la vita di Mauro si sconvolgerà al punto da diventare impossibile, diventando palcoscenico di inspiegabili eventi. Alla ricerca di quella crepa nel suo animo.
Il libro si lascia ben leggere e scorre via veloce, grazie anche alla mole ridotta e ai caratteri abbastanza grandi. Lo stile di Camilleri è molto scorrevole e coinvolgente, accompagnato da una buona dose di tensione e qualche colpo di scena. Di certo un personaggio come Montalbano non sarebbe potuto uscire dalla penna di uno scrittore qualunque.
Quel che è noto è che siamo creature fragili. Basta ben poco a distruggerci, giusto una buona dose di cattiveria unita a un animo volenteroso. Una volta preso di mira non v’è scampo per chi, come il protagonista, non accetta compromessi, o almeno non tutti. L’oblio si spalanca di fronte ai nostri occhi eppure ci ostiniamo a non volerlo vedere, illudendoci che la vita sia ricca di equivoci e che tutto vada sempre per il verso giusto. Ci ostiniamo a credere che persone capaci di ogni cosa pur di salvaguardare il proprio interesse non possano esistere, soltanto perché noi stessi non ne siamo capaci. Chiamiamola ingenuità, ma sarebbe più appropriato chiamarla stupidità. Persone di tal sorta esistono, e sono in grado di penetrare nelle più profonde crepe della nostra anima, sulle quali infieriranno in modo da farci crollare miseramente. Quando la realtà dei fatti ci viene sbattuta in faccia è quasi sempre troppo tardi e ci troviamo a fare i conti con le spesso tragiche conseguenze. Quando tutto è perduto, diverse sono le reazioni, variano da uomo a uomo, e la reazione del metodico e pacato Mauro Assante vi stupirà. Dalla breccia che hanno trovato nel suo animo, verrà fuori una bestia che fino ad allora era stata celata nell'oscurità.
“C’è un signore che gira per Roma, dalla mattina fino a notte inoltrata. E’ un cinquantenne distinto, sempre con la cravatta, cortese e gentile. Si vede da lontano un miglio che è una persona perbene.”
Indicazioni utili
Cambiamenti
Mentre mi apprestavo a leggere questo racconto già sapevo a cosa andavo incontro, avendo visto milioni di volte l’adattamento cinematografico disneyano e avendolo amato profondamente. Non potevo fare a meno di associare Scrooge a Paperone, Cratchit a Topolino, Fred a Paperino, Jacob Marley a Pippo e così via. Ora che ne ho completato la lettura, non posso fare a meno di porgere il mio plauso all’autore di questo piccolo capolavoro in cui il Natale è solo un pretesto per porre l’accento su qualcosa di più profondo.
Ebenezer Scrooge è l’emblema del cambiamento. Il cambiamento che travolge la nostra anima in seguito alle batoste che la vita ci dà, rendendoci più egoisti e meno aperti al prossimo, che identifichiamo erroneamente e nella sua interezza la fonte d’ogni male. Scrooge è al culmine del suo cambiamento negativo, è ormai un avaro, egoista e impietoso vecchio, che nella festa in cui tutti si aprono al prossimo, seppur per un solo breve giorno, è capace di diventare ancor più intrattabile di quanto non sia già. Egli non è consapevole del danno che sta recando a sé stesso, provando a salvaguardarsi dagli altri sta soltanto provocando la sua stessa distruzione, firmando la propria condanna a una morte solitaria e triste. Per quanto possiamo fidarci soltanto di noi stessi, abbiamo bisogno degli altri e del loro caldo abbraccio, una vita solitaria di quale giovamento può mai essere per la nostra anima? Per quanto molte delle persone che ci circondano possano essere superficiali o cattive, bisogna rendersi conto che ognuno compie degli errori e imparare a sorvolare. Anche noi sbagliamo, anche se spesso è difficile ammetterlo. A Scrooge serviranno ben Tre Spiriti per capirlo, ma noi non abbiamo queste entità misericordiose ad aprirci gli occhi e mostrarci le conseguenze dei nostri comportamenti e modi d’essere, abbiamo soltanto la nostra coscienza. Il cambiamento che avrà infine Scrooge perciò, non potrà che partire dalla nostra stessa anima. Chi vuole fare l’inclemente fine di Scrooge l’avaro? Credo proprio nessuno. Scusate, ora vado a guardare il Canto di Natale di Topolino.
“Come, zio, Natale una sciocchezza! Voi non lo pensate di certo!”
“Altro se lo penso! Un Natale allegro! Ma che motivo hai tu di stare allegro? Che diritto? Sei povero abbastanza, mi pare.”
“Via via, che diritto avete voi d’essere triste? Che ragione avete di essere uggioso? Siete ricco abbastanza, mi pare.”
Indicazioni utili
Charles Dickens.
Un essere fatto di carne, sangue e guerra
E’ sempre complicato dare un giudizio su un libro dal quale ci si aspettava tanto, ma che non ha soddisfatto le aspettative. Soprattutto se è stato scritto dal tuo autore favorito. Un retrogusto amarognolo ti pervade le papille gustative della mente quando ti rendi conto che hai un libro di quell’autore in meno da leggere, e che quest’ultimo non ti ha lasciato quel che speravi. E’ purtroppo il caso di “Meridiano di Sangue”, primo piccolo flop nella mia carriera di lettura McCarthyana. Lo stile è quello tipico dell’autore, ma nella sua forma più cruda e pesante. Si va avanti un po’ a fatica nonostante le metafore siano evocative come sempre anche se forse eccessive nella quantità. Descrive i luoghi in maniera eccellente, ma forse scendendo troppo nei dettagli e rendendo il tutto più faticoso di quanto non sia già, a causa della ripetitività palese degli eventi e dei luoghi che si susseguono tra le pagine. Pregno di una violenza stavolta troppo gratuita e non motivata dalla spiegazione di temi più profondi o dal tratteggiamento psicologico dei personaggi, come è consuetudine negli altri libri del caro Cormac. Dei personaggi l’unico degno di nota è il giudice, antagonista silenzioso fino alla fine dell’opera. Non è un libro da gettare via a priori, dipende sempre dai gusti, ma lo sconsiglio assolutamente per chi volesse approcciarsi per la prima volta all’autore. Si rischierebbe di scartarlo compiendo un madornale errore.
Nonostante le mie parole forse un po’ inclementi, non è del tutto privo di temi e contenuti questo libro. Il Far West non è probabilmente come ci viene mostrato nei film, decisamente imbonito e pregno di personaggi eroici, bensì colmo di malfattori e di spargitori di sangue. Il meridiano di sangue è la scia cremisi che si lasciano dietro il fin troppo giovane protagonista e i suoi compari cacciatori di scalpi. Uomini violenti spinti all’azione dall’amore per il denaro e dell’alcool e dall’erronea convinzione di essere superiori agli indiani e ai messicani ai quali faranno lo scalpo senza pietà, senza alcuna distinzione di età, sesso o predisposizione alla pace piuttosto che alla belligeranza. Convinzione la cui falsità contribuiranno essi stessi a rendere nota, portando scompiglio, ubriachezza, violenza e morte nei luoghi che avevano giurato di “purificare”. Essi rappresentano una peste errante seminatrice di morte tra le città già perse nell’oblio della miseria e sui muri delle quali, al loro passaggio, verranno scritte frasi che sfateranno la loro presunta superiorità rispetto a coloro che uccidono a sangue freddo.
Il giudice dice che l’uomo è nato per far la guerra e il mondo stesso è sorretto da quella che è da sempre definita come la sua peggiore piaga. Balliamo tutti una danza priva di senso fino a quando non ci accorgiamo di quello a cui la nostra esistenza è votata, dice. E quel fondo di verità che le sue folli parole nascondono, sono abbastanza da frantumare l’anima del più statuario degli uomini.
“Ciò che gli uomini pensano della guerra non ha importanza, disse il giudice. La guerra perdura nel tempo. Tanto varrebbe chiedere agli uomini cosa pensano della pietra. La guerra c’è sempre stata. Prima che nascesse l’uomo, la guerra lo aspettava. Il mestiere per eccellenza attendeva il suo professionista per eccellenza. Così era e così sarà. Così e non diversamente.”
Indicazioni utili
- sì
- no
Professione Angelo Distruttore
Se tutti gli angeli custodi fossero come quello che è protagonista di questa storia, sono certo che la razza umana si estinguerebbe nel giro di alcuni mesi.
Sulo Auvinen, defunto insegnante di religione appena arrivato nell’aldilà, viene repentinamente catapultato nel bel mezzo di un corso di formazione per angeli custodi, in una sorta di azienda celeste i cui capi sono Dio e Gesù Cristo, mentre i più importanti dirigenti sono i santi, come Pietro.
Una sorta di Angeli Custodi S.p.a.
Al termine del corso gli verrà affidata in cura la protezione di Aaro Kohronen, quarantenne scapolo finlandese appena diventato titolare di una libreria antiquaria con bar annesso, la cui vita era decisamente più tranquilla prima dell’arrivo dell’angelo custode, portatore di guai e scompiglio, più che di protezione.
Una storia molto semplice, presentata con uno stile altrettanto semplice e abbastanza scorrevole. Si può assaporare nettamente, con lo scorrere delle pagine, l’assenza di pretenziosità che pervade questa storia, che certo non vuole imprimersi indimenticabile nella memoria del lettore, anche grazie a grossolani errori logici di base. Come può un angelo immateriale invisibile e inudibile dare indicazioni a dei pompieri riguardo un incendio, sbagliando maldestramente peraltro? Se gli angeli e i diavoli sono invisibili agli uomini, perché in alcuni frangenti diventano inspiegabilmente visibili? Forse l’autore per proseguire nella storia ha voluto osare qualche forzatura di troppo e, alla ricerca del lieto fine, sminuire gli assurdi guai causati dal protagonista, che appare un imbranato di proporzioni divine. Il lettore che è alla ricerca di una coerenza di base in qualsiasi lettura gli si ponga dinanzi, rimarrà certamente deluso e storcerà il naso più di una volta. Ma se si prova a prendere questo libro per quello che è, ovvero una semplice storia senza enormi pretese, volta soltanto a regalare un buon racconto, ci si accorge che la lettura procede piacevolmente strappando anche qualche sorriso. Inoltre, osservando le disavventure dello sfortunato e imbranato angelo, rivedremo un po’ noi stessi quando, animati dalle migliori intenzioni, riusciamo soltanto a creare degli incommensurabili casini.
“Fece di tutto per riportare alla ragione le due belligeranti, ispirando nella loro mente i più nobili ideali di pace e fratellanza, ma niente da fare. Ammansire due megere inferocite è un’impresa impossibile anche per un angelo custode.”
Indicazioni utili
- sì
- no
La densità d'un seme
Come racchiudere in poche pagine, in limitate parole, un’enorme profondità di significato? Credo che, se fosse ancora vivo, me lo farei volentieri spiegare da Fred Uhlman. Piccolo capolavoro di contenuti, “L’amico ritrovato” prende come pretesto il nazismo e l’antisemitismo per trattare svariati temi di grande profondità. Amicizia, pregiudizi e diseguaglianze razziali sullo sfondo di una Germania prenazista in tutti i suoi nascenti orrori. Sarà proprio questa Germania a ospitare l’amicizia tra Hans Schwarz, ebreo figlio di un medico, e Konradin Von Hohenfels, figlio di un conte tedesco, appartenente a una famiglia importantissima e dalle nobili origini.
Un piccolo seme può dar vita a un’enorme pianta. Un seme fu piantato da Hitler in innumerevoli cuori nella terribile prima metà del ventesimo secolo, trovando tanti terreni fertili per la crescita di una pianta malefica che ha oscurato il mondo per anni, con la sua ombra mortifera.
Un piccolo seme è quello che ha dato inizio all’amicizia tra Hans e Konradin, ragazzi così diversi sotto tanti aspetti all’occhio del cieco razzista, eppure così compatibili e legati da un affetto incommensurabile, che oltrepassa le barriere delle origini e che non conosce pregiudizi. Un amicizia indistruttibile fino a quando le infezioni morali dell’età adulta non si affacciano alla mente fanciullesca. Perché avrebbero dovuto considerarsi diversi? Cosa rendeva Hans inferiore a Konradin? I due giovani amici non ne erano a conoscenza, finché gli adulti, con la loro stupida e immotivata “saggezza” ed esperienza, non gli hanno reso nota una menzogna spacciata per solenne verità, creando divisione e dolore anche dove non ve n’è. Come se nel mondo non avessimo già abbastanza sofferenza, per cui v’era l’impellente bisogno di distruggere anche ciò che rende il mondo un posto migliore, come quell’amicizia spensierata tra quei giovani innocenti, in nome di ideali e pregiudizi senza capo né coda.
Semi maligni e semi benigni. Nonostante a prevalere siano i primi, nei cuori alberga ancora un fondo di speranza e di bontà, un terreno divino. Se il seme benigno riesce a trovare posto nella giusta parte del cuore, seppur piantato in compagnia della sua antitesi, riuscirà a prevalere. Sempre. Quel seme è lo stesso piantato da Hans nel cuore di Konradin, il seme piantato da un “piccolo” ebreo che riuscì a scalzare il seme piantato dal """"grande"""" Hitler. Sarà quel seme a farci piangere sui nostri orrori.
“Valgo quanto tutti i Von Hohenfels nel mondo. Nessuno ha il diritto di umiliarmi, te l’assicuro, re, principe o conte che sia.”
Indicazioni utili
La (purtroppo) perduta Carcosa
Un’opera strana, “il Re Giallo”. Ho comprato questo libro intrigato e fremente all’idea di leggere l’opera che ha ispirato parti della grande prima stagione di “True Detective”. Già mi ci vedevo, lì, tra le oscure vie della città maledetta di Carcosa, ad osservare le sue alte torri che sbucano tetre dietro l’immensa luna. Al cospetto del potente Re, Il Re Giallo, che con il suo segno estende il proprio potere sul mondo. “Strana è la notte dove si levano stelle nere, e lune mai viste solcano i cieli, ma ancor più misteriosa è la perduta Carcosa.” Mi sentivo già fremere per l’eccitazione alla lettura del canto stampato in prima pagina, pensando che magari, quest’opera avrebbe ispirato anche me. Ahimè, la mia eccitazione è andata via via scemando.
Di Carcosa e del Re Giallo non vi sono che accenni, che si fanno sempre più rari con lo scorrere delle pagine fino a svanire, ma andiamo con ordine. Il libro è diviso in 10 racconti, con luoghi e personaggi che accomunano alcuni tra essi. Oltre ad essere diviso in dieci diverse storie, il libro è diviso in un’ulteriore metà, nei primi cinque racconti infatti, più macabri e tragici, si ha l’impressione di avere tra le mani un libro spietato, dove la speranza muore al cospetto del Re Giallo. I protagonisti delle prime storie hanno letto un libro maledetto: “Il Re Giallo”, quello vero, che li ha portati alla follia, alla morte, con le sue parole pregne di oscura bellezza e verità. Ma, improvvisamente, il Re sparisce e nei racconti successivi è sostituito dalla sua antitesi, l’Amore, che permea il resto del libro e scaccia via l’oscurità dilagante nella prima parte. Alcuni dei racconti sono piacevoli, ma credo che soltanto i primi cinque potessero essere inseriti in questa raccolta, essendo i restanti privi di alcun accenno alla figura che incombe sulla copertina. True Detective avrebbe potuto essere inserito senza alcun dubbio in questa serie di racconti, e mi tocca dire che sarebbe stato di gran lunga il più avvincente. Che altro dire… mi ha lasciato in bocca un sapore amarognolo, ed ha fatto nascere in me il desiderio di leggere il “vero” Re Giallo, quel libro che purtroppo non esiste, libro dall’oscuro potere che ha travolto le vite di alcuni dei protagonisti. Non so cosa darei per leggere del Re e delle stelle nere che popolano il cielo sopra Carcosa. Ma essa, insieme al suo oscuro regnante, è destinata a rimanere avvolta nel mistero.
“Non prendiamoci gioco dei folli; la loro pazzia dura più della nostra… la differenza è tutta qui.”
Indicazioni utili
- sì
- no
Il male che ci portiamo dentro
Nell’estate del 1944 è in corso una guerra nella guerra. Un conflitto silenzioso tra gli esseri umani che, mentre combattono tra loro, affrontano un nemico subdolo e letale, impossibile da sconfiggere se non dal tempo. La poliomielite, tremenda malattia che paralizza il corpo e porta in alcuni casi alla morte, miete vittime a Newark, New Jersey. Essa mostra al protagonista Bucky Cantor e ai bambini ai quali insegna educazione fisica al parco giochi, la terribile prospettiva della morte. Uno ad uno molti bambini si ammalano, altri muoiono, e nessuno di loro merita tale destino inclemente. Un nemico invisibile striscia tra le pagine di quest’opera tragica di Philip Roth. Nemico che ti sbatte sulla faccia l’ingiustizia della vita, di fronte alla quale nasce l’impotenza e il desiderio di non rimandare le scelte importanti e la felicità che si può avere oggi, a domani. La morte è inclemente e non conosce età né bontà d’animo, colpendo chi vuole e quando preferisce, senza fare distinzioni tra il vecchio e il giovane, tra il buono e il malvagio. La polio stermina i bambini mentre la guerra fuori imperversa e miete altre vittime, anch’esse prive di colpa. Figure che sul campo di battaglia, agli occhi del nemico, appaiono come figure senz’anima, da abbattere in nome dei presunti ideali di una nazione. Ognuno di quei capri guerrieri offerti in sacrificio ha alle spalle una storia, persone che lo amano e che egli ama, persone che abbandona in una guerra che crede sua eppure non lo è. Vite spezzate che, se analizzate e valorizzate debitamente una ad una, accumulando la tragedia personale di ogni esistenza, centuplicano il valore delle morti, delle perdite, rendendo il ricordo del conflitto mondiale più sanguinoso e triste di quanto non sia già. Il rimorso permea le pagine di questo triste romanzo, rimorso che porta a un sacrificio superfluo e perfino inutile e masochista. Storia che ritrae un male del quale non possiamo liberarci, non importa quanto lontano si possa fuggire dalla presunta fonte. Esso ci raggiungerà sempre, perché ce lo portiamo dentro.
“[…] ho perso l’abitudine di imprecare contro il mio destino. Ho capito che a Weequahic nel 1944 avevo vissuto una tragedia sociale della durata di un’estate che non dovesse necessariamente diventare una tragedia personale della durata di una vita.”
Indicazioni utili
Dall’Oriente con odio
L’Orient Express è un treno annerito dalla morte, dalle menzogne e i complotti. Urlante di dolore per quella vita spezzata sul vagone Istanbul-Calais, seppur quell’esistenza meritasse l’ignobile fine. L’anima all’interno di quel corpo martoriato da dodici pugnalate era più nera dell’Orient Express dopo la tragedia. Hercule Poirot, il piccolo grande investigatore belga partorito dalla penna di Agatha Christie, capitato a fagiolo e quasi per caso sul treno della morte, proverà a far luce sul delitto che vi è stato consumato. Poirot vi stupirà con la sua sagacia studiando un assassinio all’apparenza non molto intricato, ma che si rivelerà sempre più complesso mentre i minuti e le pagine scorrono. Solo il piccolo investigatore belga sembra in grado di tenere ben legato il filo logico della complessa vicenda, dando prova delle sue grandi abilità di deduzione, investigazione e oratoria. Sarà un’abile scrutatore degli animi di quei passeggeri così insospettabili e così diversi tra loro. Agatha Christie non lascia nulla al caso, descrivendo un caso originale e intricato in maniera coinvolgente, stupendovi con la sua abilità nel tessere un giallo che non darà vita nella mente alla tipica frase: “Come ho fatto a non pensarci?”. Pensarci non era poi così semplice. Non rimproveratevi, non tutti siamo come Hercule Poirot.
“A questo punto, avendovi fornito la mia soluzione, ho l’onore di abbandonare il caso.”
Indicazioni utili
Arthur Conan Doyle.
Black and White, Light and Darkness
Sunset Limited è una breve opera teatrale, trasposta anche in televisione, che tiene fede al proprio nome, travolgendoti come un treno in piena corsa. Come quel Sunset Limited, al di sotto del quale uno dei protagonisti aveva trovato la soluzione e la fine al tormento dell’esistenza, ma “salvato” appena in tempo dall’altro.
Non vi sono a questo punto che due individui in un sudicio appartamento, un bianco, stufo della vita e di questo marcescente mondo, e un nero, servo di Dio dal passato travagliato e violento. Si sederanno ad un tavolo con nient’altro che una Bibbia, dando vita a un dialogo tra la fede e il rifiuto di Dio, cercando di scrutare i motivi di un uomo che decide di darsi il capolinea al Sunset Limited.
Alla soffusa luce di questo mondo avvolto dalle tenebre, l’uomo non riesce a farsi strada, perché a rallentarlo, oltre al buio incessante, vi è la mancanza di un percorso preciso da seguire, di una mappa, mancanza che è dovuta a un’altra, ovvero quella di un obiettivo, di una meta da raggiungere. Come si può intraprendere un viaggio senza sapere dove questo ci dovrà portare? A quale scopo attraversare questo sentiero alla cieca, accompagnati soltanto da dolori e sofferenze? Un percorso al cui orizzonte non c’è altro che tenebra ancor più fitta, e quanto più lo si attraversa, tanto più si rimane delusi dal paesaggio e dalla perdita dei valori degli smarriti compagni di viaggio. Se il premio finale è la morte, perché non trovarla subito evitando un percorso, che è soltanto l’agonia dell’osservare un mondo che scivola sempre più a fondo?
Questo è il pensiero di chi rifiuta Dio o di ha paura di conoscerlo, Dio che può rappresentare l’unica fonte di luce. Egli ci offre un altra strada, ancor più difficile e tormentata, ma che non porta infine alle tenebre assolute, alla morte, ma alla vita eterna. Seppur nel cuore di ogni uomo è marchiata a fuoco la verità di Dio, l’imperfezione ha portato lì anche la tendenza a rifiutare quella verità, con la quale condivide lo stesso cuore, mutandolo in una sorta di yin yang pulsante.
Prima o poi però , ogni cuore dovrà cedere alla luce, o alle tenebre, non si può scappare.
McCarthy mette di fronte il bianco e il nero, in tutti i sensi possibili, ma non si sa se l’uno salva l’altro, o l’altro trascina l’uno nell’oblio.
Profondo come sempre.
“NERO: Se a qualcuno serve qualcos’altro a parte Dio, allora è in un mare di guai. E se stai dicendo che il mio modo di vedere il mondo è ristretto, bé, non posso darti torto. Certo, potrei farti notare che non sono io quello che stava al binario a riscaldare i muscoli per il grande salto.”
Indicazioni utili
447 risultati - visualizzati 351 - 400 | 1 2 3 4 5 6 7 8 9 |