Opinione scritta da Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    18 Dicembre, 2014
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Vacci piano Arturo; hai dimenticato le arance

“Chiedi alla polvere” di John Fante fu pubblicato nel 1939: “un anno di spietata competizione… assieme a Via col vento, Il mago di Oz, Ombre rosse, escono libri come Furore, Il giorno della locusta, Il grande sonno” (dalla prefazione di Emanuele Trevi). Competizione, questa, che il Fante oggi vince, come dimostra il successo postumo che all’autore viene oggi tributato sulla spinta di Bukowski.

Terzo episodio della saga di Arturo Bandini, “Chiedi alla polvere” narra le vicende dell’alter ego di John Fante, che – giunto a Los Angeles (“Avevo vent’anni, allora”) – deve fare i conti con i sogni di vagheggiata gloria letteraria e con un’esperienza amorosa dall’esito decisamente infelice: Bandini s’innamora di Camilla Lopez, inserviente del Columbia Buffet in Spring Street (“Lei era una principessa maja e quello era il suo castello”), che non lo ricambia affatto e, piuttosto che abbandonarsi al sentimento per il promettente Arturo, preferisce rifugiarsi nell’erba che regala i viaggi e le evasioni artificiali celebrate da Baudelaire.
Nell’emotività giovanile (“Mi buttai sul letto e piansi lacrime che mi salivano da profondità inesplorate”), il percorso sentimentale di Bandini passa attraverso le insicurezze delle prime incerte prestazioni sessuali, le baruffe verbali con l’amata, il rimorso per l’incontro clandestino con un’ebrea (“Sulla cassetta delle lettere c’era scritto Vera Rivken”), il rifiuto dell’esotica e meticcia Camilla, che “aveva stracciato il sonetto di Dowson, aveva mostrato il mio telegramma a tutti gli avventori del Columbia Buffet. Mi aveva fatto fare la figura dell’idiota, giù alla spiaggia. Dubitava della mia virilità e da questo dubbio nasceva il disprezzo che le leggevo negli occhi”.

Particolarmente efficace è l’ambientazione bohemienne nella stanza d’albergo (“Udii bussare ma non mi mossi, temendo che fosse la padrona venuta a riscuotere il suo sordido affitto”), ove l’ondivago e vulnerabile Bandini coltiva i propri sogni in colloquio quotidiano con la foto dell’editore Hackmuth, intesse un rapporto alterno con lo strambo vicino Hellfrick (“Predatore di latte… Eccolo il genio effimero, lo scrittore di un’unica storia: nient’altro che un ladro”), condivide gli spazi vitali con il topo Pedro…

E veniamo alla polvere del titolo, così ben definita da John Fante nel prologo posposto al romanzo… io ho seguito le particelle pulviscolari per tutto il romanzo…
La polvere è sulla palma che Bandini vede dalla finestra dell’albergo (“il suo tronco crostoso era soffocato dalla polvere e dalla sabbia che il vento portava dal deserto Mojave e da quello di Santa Ana”), è nell’aria di Los Angeles (“il mio naso… annusava il deserto e la polvere assopita, là in cima a Bunker Hill”), è disseminata su oggetti (“le tazze erano polverose”), cose (“le riviste sul tavolo, dove rimasero a prendere la polvere”) e luoghi (“ci avviammo lungo un corridoio buio e polveroso”), la si trova “lungo le scale polverose” e si deposita ovunque (“con la polvere di Chicago, di Cincinnati, di Cleveland sulle scarpe…”).
Ma rappresenta l’origine di Bandini (il Colorado: “ora sono vecchi e stanno morendo sotto il sole e nella polvere calda delle strade, mentre io sono giovane e pieno di speranze…”), il percorso che lo scrittore in erba tenacemente calca (“Strati di polvere del Wyoming, dello Utah e del Nevada mi si erano depositati fin nei capelli e nelle orecchie”), il punto di arrivo al quale perviene Arturo (“La polvere inquieta di Los Angeles gli metteva addosso la febbre”): una realtà dalla quale purificarsi (sull’oceano “respirammo a fondo l’aria pulita, senza polvere”) o allontanarsi (“niente Los Angeles, niente strade polverose, squallidi alberghi…”), è lo stesso.
La polvere divampa nel cataclisma con il senso di colpa (“Era un terremoto. Ero stato io. Era mia la colpa”), si propaga (“Si levò la polvere e si udì un rumore di crolli”), aleggia (“Grandi nuvole di polvere avvolgevano tutto”) e occupa ogni spazio (“Dissi una preghiera, ma era come polvere nella mia bocca”).
La polvere rappresenta la realtà (“La città che giaceva sotto di me, immersa nella caligine polverosa del tardo pomeriggio”), ma anche il nostro destino (“Il mondo era polvere e sarebbe tornato polvere”)… E domina il prologo: “Chiedete alla polvere della strada, alla polvere del Liberty Buffet, a quella dannata segatura polverosa, e vi dirà che sì, arrivano certi pezzettini di carta ed erano i miei sonetti, tanto a quella non gliene importava niente di me, la divertivo e basta, ma era pazza di quell’americano di Sammy.”

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    14 Dicembre, 2014
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La poetica della cucina sporca

Le “Storie di ordinaria follia” di Charles Bukowski sono storie di straordinaria ordinarietà.

Nel guazzabuglio dei deliri alcolici, di coiti e fellatio, di eccessi e liberi sfoghi della dimensione animalesca dell’uomo – che in letteratura e nelle arti da tempo non rappresentano più una novità, ma omologazione – un racconto su tutti (ebbene sì, li ho letti tutti!) mi ha colpito.

Il racconto s’intitola “Troppo sensibile”. Ne riporto l’incipit, con brevi annotazioni personali. Il minuscolo all’inizio del periodo (e dopo il punto) è una folgorante e originale (?) licenza stilistica che caratterizza il Buk, uomo libero da freni ma schiavo delle abitudini che lo portano ad alzare il gomito:
“mostratemi un uomo che abita solo e ha la cucina perpetuamente sporca e, 5 volte su 9, vi mostrerò un uomo eccezionale - Charles Bukowski, 27 giugno 1967, alla 19a birra.
mostratemi un uomo che abita solo e ha una cucina perpetuamente pulita, 8 volte su 9, vi mostrerò un uomo detestabile sul piano spirituale - Charles Bukowski, 27 giugno 1967, alla 20a birra.”
“spesso la cucina riflette lo stato della mente. Gli uomini confusi e insicuri, d’indole remissiva, sono dei pensatori. le loro cucine sono come le loro menti, ingombre di rifiuti, stoviglie sporche, impurità, ma essi sono coscienti del loro stato mentale e ne vedono il lato umoristico…
L’uomo con la cucina sempre in ordine è, invece, un maniaco. Diffidatene… la sua mania per l’ordine, dentro e fuori, è solo avvilente compromesso, un complesso difensivo e consolatorio. Basta che l’ascolti per dieci minuti e capisci che lui, in vita sua, non dirà mai altro che cose insensate e noiose. È un uomo di cemento…”
Io detesto il disordine in casa.
A questo punto della lettura, Bukowski si è già fumato (e mai termine fu più appropriato) le ultime, evanescenti, residue possibilità d’incontrare la mia simpatia. E mi chiedo: “Possibile che lui sia sensibile e io di cemento? Sarà poi vero il teorema della cucina sporca?”

Nel passaggio successivo del medesimo racconto, il nostro autore probabilmente si gioca la metà della popolazione terrestre sprovvista di cromosoma y, in uno dei passaggi più maschilisti della letteratura dai tempi di Omero in poi:
“ora, la donna con la cucina sporca è un’altra questione: dal punto di vista maschile, se non lavora altrove e non ha figli, la pulizia o la sporcizia della sua cucina sono quasi sempre (con qualche eccezione) in proporzione diretta dell’affetto che nutre per te…”

Siamo sicuri che la poetica dell’arte disinibita dall’assunzione di sostanze psicotrope funzioni?
Siamo certi che la triade Bacco-Tabacco-Venere sia poi così fertile e avanguardistica?

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    11 Dicembre, 2014
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Un lago per quattro stagioni

“Il bacio dell’Assunta” è quello che, in realtà, Giovanni Cocco stampa sulla suggestiva zona del lago di Como ricomprendente i comuni che fronteggiano l’isola Comacina: Tremezzo, Lenno, Sala Comacina… E il piccolo borgo di Mezzegra.
Qui nell’autunno del 1980, Angela Bordoli assiste al furto singolare di un oggetto di culto popolare (“Il furto della statua della Madonna, la lettera con la richiesta di riscatto e poi il silenzio calato sulla vicenda”). Dietro al mistero relativo all’identità del ladro e al gesto sacrilego, tuttavia, si nasconde una storia di povertà che incontra il desiderio di una coppia senza figli, “i coniugi Salviati” che ogni domenica giungono in battello da Bellagio..,
Lo intuisce Don Luigi, l’anziano parroco che alterna la lettura de “I promessi sposi” a quella de “I miserabili”: è lui il vero eroe della vicenda (“Era la prima volta, negli ultimi cent’anni, che un sacerdote di Mezzegra decideva di presenziare al consiglio comunale”).

Intanto Angela coltiva la sua storia d’amore per l’anarchico Giuseppe Bernasconi, vincendo le resistenze del fratello-bamboccione Arcangelo, mentre sullo sfondo sfilano i fatti del biennio 1980-1981: il governo Spadolini, il referendum sull’aborto, gli ultimi rigurgiti degli attentati compiuti dalla Brigate Rosse.
Tra una festa e l’altra (“La messa di mezzanotte alla vigilia di Natale era una tradizione, a Mezzegra”), all’inizio di ogni stagione l’autore celebra un illustre personaggio della musica (“Franz Liszt soggiornò sul lago di Como… i mesi sul Lago… culminano nella visita a Villa Sommariva, l’attuale Villa Carlotta di Tremezzo”), della letteratura (Stendhal, l’autore de La certosa di Parma: “Il protagonista, Fabrizio del Dongo, figlio cadetto di un’importante famiglia lombarda, nasce e trascorre buona parte dell’adolescenza nel castello di Griante”), della politica (“Il pomeriggio dell’1 settembre 1945 Winston Churchill… giunse sul lago di Como a bordo di una Chevrolet gialla decapottabile per stabilirsi, in gran segreto, presso Villa Apraxin-Donegani, a Moltrasio”) e dello spettacolo (“Hitchcock tornerà più volte sul Lario, soggiornando a Villa dìEste”) che soggiornò nella zona ove oggi talvolta si aggira George Clooney (!).
Così adesso, dopo la Bellano di Andrea Vitali, anche il ramo più occidentale del Lario ha il suo menestrello...

Bruno Elpis

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... i romanzi di Andrea Vitali e ama il genere.
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Racconti
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    09 Dicembre, 2014
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L’orco in gonnella

“L’orchessa” è una raccolta di nove racconti di Irène Némirovsky, prolifica scrittrice (Kiev, 1903 – Auschwitz 1942) prematuramente scomparsa in quanto vittima delle persecuzioni razziali. I suoi scritti, anche i racconti qui compendiati, sono pervasi da un senso generale di irrequietudine, verosimilmente derivante dal tormentato periodo storico in cui la scrittrice visse, oltre che dalle vicende familiari e biografiche.

“L’inizio e la fine” è la storia di un procuratore generale malato di cancro, impegnato in un conflitto morale (di ruolo) e personale (di valori) di fronte a un delitto ove la donna è protagonista.

“Legami di sangue” è una saga familiare che vive nel rito della cena della domenica sera nella casa della matriarca (“Anna Demestre si alzò sulla punta dei piedi per baciare i figli”) il momento del confronto-scontro tra le personalità dei figli Albert, Augustin, Alain e Mariette. Il tutto nell’imminenza della malattia della madre e con il pericolo incombente della separazione di Alain dalla moglie (Augustin e Alain hanno sposato due sorelle).

Ne “La confidenza”, l’istitutrice Blanche Lajunie, in età avanzata e afflitta da un problema di salute (“Devo sottopormi a un’operazione rischiosa”), in un momento di fragilità emotiva nel quale la rigidità professionale s’incrina, pensa di confidarsi con “la candida insolenza di Colette”, un’allieva superficiale e innamorata, e così rivive l’interrotto sogno d’amore per un nobile russo interrotto . Salvo pentirsi della confidenza concessa…

Anche ne “La partenza per la festa”, la leggerezza giovanile dei figli (“La ragazzina sognava di ballare sulle onde del mare”) cozza contro le resistenze del padre François, che riceve la notizia della morte dell’amante-cugina Florence, durante la vacanza al mare. “Nel momento in cui ci rendiamo conto per la prima volta di non interessare più a nessuno, allora smettiamo di essere bambini.”

“La confidente” del signor Dange, anziano musicista, è la signorina Cousin: a lei il musicista si rivolge per conoscere i dettagli della morte della giovane moglie Florence. Grazie a lei (“In un certo senso vivevo per interposta persona”) l’uomo apprende lo sconcertante tradimento (“Capiva di aver amato un’illusione, un’ombra”) che getta nuova luce sulla defunta moglie.

Conclude la serie dei racconti “L’orchessa”, che dà il titolo all’antologia, ed è una donna che “aveva gesti bruschi e decisi, e nella sua bruttezza c’era un che di aspro e vigoroso che mi affascinava”. Rappresenta il pericolo dell’ambizione che talvolta i genitori riversano sui figli…

Lo stile di Irène è elegante e immaginifico (“Al contrario di certe specie animali, gli esseri umani la loro corazza se la portano dentro”), ma le storie sono imbevute di un pessimismo un po’ troppo afflittivo e contagioso, pericoloso nel caso in cui il lettore sia già depresso di suo… In ogni caso, l’opera consente a chi ha amato l’autrice come romanziera, di saggiarne le doti nella narrativa breve.

Bruno Elpis

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...storie (anche fiabe) di orchi
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    03 Dicembre, 2014
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Che diavolo succede?

De “La sindone del diavolo” di Giulio Leoni si occupa un insolito investigatore: Dante Alighieri.

Arrigo VII, imperatore che per Dante incarna “le speranze per l’intera Italia di ritrovare la pace e la giustizia perdute, sotto l’illuminato giudizio dell’aquila”, è gravemente ammalato. Sembra che ci sia un unico rimedio alla sua malattia: un misterioso filtro, che si trova a Venezia.
Per questo Dante, senza troppi indugi, parte alla volta della Serenissima.

L’atmosfera misteriosa (“forse c’era davvero un demone maligno”) della città lagunare (“Dicono che sia il diavolo a suonare il liuto, nelle notti di luna sui ponti di Venezia”) fa da sfondo alla ricerca poetica. Dante ha pressoché concluso l’Inferno, ma si trova a fronteggiare quella che oggi chiameremmo la sindrome della pagina bianca. Come rappresentare il Male “alla fine dell’Inferno, la prima cantica che è degli spiriti sommersi”?
Un “essere dalla testa incandescente”?
Oppure un’entità di “terribile bellezza”, se “dunque Lucifero aveva mantenuto intatto il suo splendore, pur nella degradazione della lontananza da Dio. Dunque la bellezza era un attributo del Male”?
“Come sarebbe riuscito a comunicare… l’abissale potenza del male, la sua immensa arroganza, la sfrenatezza dei sensi… tutta la tenebrosa infamia della nostra stirpe cui l’uomo aveva dato il nome splendente di lucifero per strapparsene di dosso la colpa?”
Come rappresentare “il senso della perdizione totale, di assoluta assenza della luce”?

Il romanzo è piuttosto intricato, la narrazione risente di uno stile che cerca di rispettare l’epoca medioevale nella quale i fatti sono collocati; i riferimenti letterari, storici e culturali (“Parlando con Giotto dei segreti della prospettiva, ricordava che l’amico gli aveva spiegato come utilizzare il chiaroscuro per ottenere la profondità: il bianco esce e il nero rientra”) potrebbero rivelarsi stimolanti per gli appassionati spinti (io non lo sono) del genere.

Bruno Elpis

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... la Divina Commedia???
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    30 Novembre, 2014
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L’isola di fiordi e geyser

Arnaldur Indridason s’incunea nel filone dei gialli nordici e ne “Le notti di Reykjavik” ci conduce in Islanda: un paese che nel mio immaginario è un punto di accumulazione di iceberg, sorgenti di acqua bollente e fumarole... contrasti geografici che antagonizzano la totale assenza di una dialettica che, da noi, è un dato di fatto: l’alternanza tra la luce del giorno e il buio della notte.

“Le notti di Reykjavick” (“incidenti stradali, automobilisti ubriachi e risse nei locali notturni erano ordinaria amministrazione, così come gli insulti di certa gente”) sono quelle dell’agente Erlendur, un personaggio mite, ma caparbio e insistente, che possiede la determinazione cocciuta di molti detective della letteratura di genere.
In giovane età, durante un’escursione sui monti, Erlendur ha perduto un fratello: di lui non ha avuto più notizie, è scomparso. Sarà anche per questo precedente che l’agente s’interessa a casi di scomparsa e, tra questi, al caso di una donna vittima di un marito violento (“Avevano definito la donna una gioielleria ambulante”)…
Proprio nei giorni della sparizione di Oddny, Erlendur rimane impressionato da un altro episodio che movimenta la cronaca nera islandese: il clochard Hannibal – già vittima di un incendio doloso (“Diceva che qualcun altro aveva cercato di dare fuoco allo scantinato. Anzi a lui”) - viene ritrovato senza vita, apparentemente affogato nell’acqua paludosa della torbiera (“I più erano convinti che si fosse trattato di un incidente, che l’uomo fosse caduto in acqua e annegato”).
Attraverso gli interrogatori dei senzatetto e dei fratelli di Hannibal, Erlendur conosce il passato tragico che ha indotto una scelta di vita così drastica e si convince che la morte di Hannibal sia un omicidio bello e buono.

Tra nomi impronunciabili e scoperte fonetiche (ad esempio, lo sapevate che la lettera eth - maiuscola Ð, minuscola ð - scritta anche edh o eð, è una lettera dell'antico inglese e norreno, oggi ereditata dagli alfabeti islandese e faroese e corrisponde al digramma th dell'inglese?), ho preso atto con angoscia di alcuni orrori dell’etilismo (“Che schifo! Io non ce la farei, a bere il dopobarba”), ma ho anche ritrovato l’umanità che palpita sotto l’atmosfera algida dell’isola dei fiordi e dei geyser…

Bruno Elpis

Il commento viene pubblicato nella sezione recensioni di www.brunoelpis.it con alcune foto dell’Islanda.

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... gialli nordici
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Romanzi storici
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    27 Novembre, 2014
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Maschere!

“Nell’ombra e nella luce” è l’indagine immaginata da Giancarlo De Cataldo negli anni dal 1846 al 1848, nella Torino risorgimentale di Carlo Alberto e di Camillo Benso conte di Cavour.

I fatti narrati hanno per protagonisti “Emiliano Mercalli di Saint-Just, giovane capitano dei carabinieri reali”, e l’intraprendente medico Gualtiero Lancefroid, che ha una spiccata vocazione per l’anatomopatologia e per lo studio delle parafilie criminali.
Nel 1848, durante un’operazione militare, Emiliano s’imbatte nuovamente nel Diaul, un maniaco che si aggira mascherato (“Quell’individuo, chiunque fosse, aveva, al posto del naso, un lungo becco adunco”) e uccide le malcapitate, preferibilmente prostitute, infierendo sulle vittime.
Il nuovo delitto è la prova che l’artista ebreo, il colpevole individuato due anni prima, nel 1846, rappresenta un tragico errore giudiziario.

Il romanzo ha naturalmente stimolato la mia attenzione per la circostanza che l’assassino agisce mascherato.
In particolare, la maschera del Diaul riproduce le “maschere rituali dell’arte medica”, e per certi versi ricorda “una maschera della commedia dell’arte, la indossava il famoso Scaramouche, guitto, mimo e avventuriero”.
La perizia clinica di Lancefroid individua nel travestimento la “maschera della peste. Faceva parte dell’abbigliamento dei medici durante le pestilenze… nella maschera a forma d’uccello venivano disciolte sostanze aromatiche, dal momento che si riteneva che la peste derivasse dal cattivo odore degli appestati.”

A un certo punto della storia, il valore fortemente simbolico della maschera (“… può essere usata per…evitare di esser riconosciuti, ma anche per incutere un terrore supplementare nelle vittime. Ti ho già spiegato che quest’uomo gode nell’infliggere sofferenze… Oppure può avere un significato… legato a un ricordo, forse, anzi, probabilmente, a un trauma”) cede il passo a un sospetto: “Si ha motivo di ritenere che lo stesso individuo utilizzi la maschera per celare il labbro leporino…”

La storia è intrigante, intarsiata con i personaggi del tempo e vivacizzata dalla storia d’amore di Emiliano per Naide, attrice disinvolta e dalla mentalità aperta. Per lei, il nostro eroe non esiterà ad avventurarsi nei cieli di Torino, su una mongolfiera che sarebbe romantica se non prevedesse nel suo equipaggio il Diaul in persona!

Bruno Elpis

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    24 Novembre, 2014
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Un altro don Matteo!

“L’erede del tempo” di Franco Scaglia s’incentra sulla figura dell’archeologo francescano Matteo, che a Gerusalemme porta le vesti di “custode di Terra Santa” e che, sul piano investigativo, crede nella teoria degli specchi (“Il gioco può continuare con lo specchio successivo nel quale si riflette il primo specchio e così via… Gli specchi ti stanno ingannando, si prendono gioco di te e sono riusciti ad allontanarti dalla verità…”).

Matteo è deluso dalle vicende umane che in Terra Santa trovano vistose, tormentate manifestazioni. Così “Matteo… dopo aver riunito in refettorio i confratelli, comunicò loro che si dimetteva dall’incarico di Custode di Terra Santa.”
Nella prima parte del romanzo (“Gerusalemme: la cerimonia degli addii”) il francescano saluta gli amici, eterogenei per cultura e religione: tra di loro vi è Tobia, spia del Mossad, grazie al quale conosce l’ambiguo generale Haki. Tra gli amici da congedare, c’è anche il rabbino Shlomo, impegnato nella ricerca di musiche composte dai deportati ebrei. Costui, dapprima subisce un furto (“Il ladro aveva rubato un solo spartito che conteneva una sinfonia incompiuta di Camondo”), poi viene assassinato (“Conosco solo una persona che usa la lama a quel modo, dal basso verso l’alto e con chirurgica precisione”).
Ma Matteo non ritratta la sua decisione di lasciare la Palestina e ripara a Roma, dall’amico Padovani, gestore di teatro, che ha organizzato il concerto delle musiche dell’ebrea deportata Fanny Camondo.
Infine, che ruolo hanno le allusioni al traffico illecito dell’avorio (“Nel Borneo… vidi una scena straziante, un elefantino era rimasto accanto alla madre… incapace di accettarne la morte”)?

Il romanzo appartiene al filone del thriller storico-religioso, ma rispetto alle clonazioni di Dan Brown propone interessanti meditazioni, oltre a ventilare l’ipotesi che Gesù abbia lasciato documenti manoscritti (“Le lettere originali di Gesù al re Abgar di Edessa”), che sarebbero rilevantissimi per una ricostruzione storica della figura del Messia. L’ambientazione palestinese è affascinante e ripropone concetti e termini - come intifadah, sharia e inshallah – divenuti tristemente familiari.
In alcuni punti, il romanzo soffre di macchinosità eccessiva, che talvolta disorienta il lettore, specialmente quello più interessato all’intrigo romanzesco.

Bruno Elpis

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... thriller storici
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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    21 Novembre, 2014
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Kawabata per ogni stagione

“Koto” di Yasunari Kawabata ritrae l’anima del Giappone nell’avvicendarsi delle stagioni.

PRIMAVERA

“Chieko scoprì le violette fiorite sul tronco antico dell’acero”. Sono due, i cespi di violette che occupano gli interstizi di un tronco. Ed è preludio di un legame gemellare che attraversa il tempo scandito dalla natura. Nell’attenzione verso creature anche piccole (“A un tratto si ricordò dei grilli-campanari che allevava nel vaso Kotamba”), nell’esplosione floreale (“Si avvicinava l’ora dell’appuntamento per andare a ammirare i ciliegi in fiore”), passeggiando con grazia tra ritagli di paesaggio (“Shinichi attraversò il lago passando da una all’altra delle pietre che costituivano il cosiddetto sawatari. Erano pietre rotonde simili a sezioni di colonne dei giganteschi portali dei parchi sacri. In qualche punto, Chieko sollevò leggermente l’orlo del kimono”) e luoghi di culto (“Vorrei andare al tempio Kiyomizu… Da lassù mi piace guardare la città di Kyoto al crepuscolo e il tramonto sopra i monti a occidente”), lasciando affiorare il dilemma identitario (“Trovatella?”) della protagonista, figlia adottata da un imprenditore tessile che si diletta a confezionarle abiti e si lascia attrarre dal richiamo della geisha…
Il rigoglio vegetale trionfa nell’orto botanico di Kyoto, e son cinnamomi, alberi della canfora, salici e tulipani a non finire, poi si celebra nella geometria verticale dei cedri del Kitayama (“Per far crescere i cedri alti e dritti, tagliano con l’accetta tutti i rami. Si arrampicano come scimmie su scalette e poi passano da un albero all’altro”).

ESTATE

La leggiadria del creato addolcisce ogni trama umana, perché “gli uomini, nella loro vita, combinano sempre una o due cose tremende. Prendere un bambino altrui è più grave che rubare denaro… più grave anche di uccidere, forse”.
L’estate è un temporale che esplode, luglio è il mese della celebrazione di una festa che – come il coribantismo dell’antica Grecia – rappresenta nelle civiltà evolute il senso di un’identificazione spirituale e culturale che riesce con successo, nella liturgia di un rito ritmato dai tamburi, a contrapporre la collettività all’individualismo e alla solitudine.
“La festa di Gion… dura l’intero mese… il carro con l’alabarda dell’iki-chigo – il fanciullo celeste – apre il corteo…”
Il bimbo prescelto sposa gli dei e, nella ricorrenza, la ventenne Chieko ritorna al suo amore bambino per Scinichi:
“A quel tempo dovevano avere entrambi sette o otto anni”
“Non si è mai vista neppure una femminuccia, così bella!”
Possibile che sia già ora di rimpiangere il passato (“Non torneremo più così piccoli, eh?”)?

AUTUNNO

Viene il tempo delle “sorelle in pieno autunno”. Si sono ritrovate e recuperano il legame del grembo materno.
La stagione è quella del richiamo del sangue, lo stesso che tinge le foglie caduche: “Chieko avvertì un dolore in petto. Quel suo desiderio di visitare il paese dei cedri, di veder quegli alberi, non era stato il richiamo dello spirito del padre?”
Ma l’autunno è anche la stagione dei colori di kimono e obi che l’artigiano Hideo (“la bottega di Hideo-san fabbrica obi”) confeziona per gemelle dall’ambivalente identità personale (“Io non sono certo una visione! Sono la vostra gemella!”) nel complicato gioco dei rapporti umani: “Hideo-san voleva sposare lei, Chieko, ma rassegnandosi all’impossibilità intendeva ripiegare su Naeko che le somigliava perfettamente”.

INVERNO

Anche la stagione fredda ha i suoi “fiori d’inverno” (“Tutte le foglie degli aceri cadute e l’inverno già sui piccoli rami”). La natura si spoglia, ma non sfiorisce nella nudità (“Le poche foglie lasciate a corona in cima ai cedri perfettamente dritti parvero a Chieko fiori dell’inverno!”), “c’è aria di nevischio” e “nell’aria… una specie di gelida foschia”.
Le sorelle piangono e dormono insieme e per Chieko è tempo di una nuova consapevolezza (“Shinichi era stato suo compagno dall’infanzia fino al liceo, era molto cortese e certo le voleva bene, ma non aveva mai detto parole che le mozzassero il respiro come quelle di Ryusuke”).

Lo stile di Kawabata mi ha catturato. Nei dialoghi lo scrittore, premio Nobel nel 1968, spesso inserisce quest’espressione: «…», quasi a esprimere l’ineffabile, o forse per invitare il lettore a interpolare la discussione dei personaggi.
“Koto” è un romanzo poetico e magico, come magico è il regalo di un amico, come magica è la scoperta di una cultura così diversa, ma profondamente vicina alla sensibilità di chi si lascia conquistare dalle manifestazioni artistiche dello spirito universale che attraversa il globo. E che mi fa chiedere, con Kawabata: “E se tutti gli uomini fossero gemelli?”

Bruno Elpis

P.S. Questo commento viene pubblicato nella sezione “recensioni” di www.brunoelpis.it con alcune foto in albumina dell’ottocento giapponese, esposte alla mostra di Lugano.

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    18 Novembre, 2014
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Un romanzo ad alta gradazione

Il Charles Bukowski fotografato in “Post office” reca il nome di Henry Chinaski e sfugge alla vita del clochard facendosi assumere come supplente in un apparato del sistema produttivo capitalisticamente ispirato a regole rigide ed efficienza.
Naturalmente, lo spirito ribelle dello scrittore insorge e confligge con i responsabili che di volta in volta cercano inutilmente di piegare il Buk al rispetto delle regole.
Il mestiere viene svolto in un’epoca molto diversa dall’attuale: le mail non esistevano, ma alcuni passaggi del romanzo riflettono situazioni che ancora oggi viviamo, quando svuotiamo la casella delle lettere invasa da scampoli di Amazzonia sacrificata (“Non era colpa mia se usavano il telefono e il gas e la luce e comperavano tutto a credito”).
Dopo un primo licenziamento maturato nell’insofferenza al sistema, Chinaski decide di tornare all’impiego postale nonostante la sua fedina opaca (“Mr. Chinaski. La sua situazione giudiziaria è terribile. Vorrei che mi spiegasse il perché di tutti questi fermi, e se possibile giustificasse la sua attuale posizione presso di noi”) per evitare le critiche di parassitismo provenienti dalla famiglia della moglie Joyce, miliardaria e ninfomane che costringe il Buk e veri e propri tour de force del sesso.
Poi il matrimonio naufraga, Chinaski passa da un rapporto all’altro con una concezione della donna (“Le donne erano destinate a soffrire, non c’era da meravigliarsi che volessero sempre grandi dichiarazioni d’amore”) decisamente criticabile e di fatto criticata dalle femministe europee (“Non è una novità che le donne ti si appiccicano addosso e non ti mollano più”), sino a cadere nelle braccia di Fay, che gli regala una figlia. Ma anche la paternità viene affrontata con svagata disinvoltura (“Dopo un po’ ricevetti una lettera di Fay. Lei e la bambina vivevano in una comunità hippie del New Mexico”).
Tra un’ammonizione e l’altra, tra corse di cavalli e un funerale (“Ero andato alle corse anche dopo gli altri due funerali e avevo sempre vinto… un funerale al giorno e sarei diventato ricco"), Chinaski matura la decisione: dopo un periodo d’aspettativa (“Le poste mi hanno trattato bene. Ma ho assolutamente bisogno di tempo per curare certi miei interessi”) nel quale dà libero sfogo alla sua natura senza il fastidio del lavoro (“Era una bella vita e cominciai a vincere davvero”), e dopo undici anni di (dis)onorato servizio, il postino si licenzia in via definitiva. Il Buk ha cinquant’anni suonati e lascia il certo per l’incerto…

“Post office“ rimane un’opera fondamentale per ritrarre l’icona dello “sconvolto” (“Ricominciai coi giramenti di testa. Li sentivo arrivare. Vedevo il casellario girare vorticosamente”) che tanta presa avrà su molte generazioni coeve e successive.

Bruno Elpis

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Narrativa per ragazzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    16 Novembre, 2014
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Esatto, la neve, la mia preferita

“Io sono la neve” è un titolo che ha richiamato la mia attenzione semplicemente perché contiene la parola neve (“Esatto, la neve, la mia preferita”).
Fin dalle prime pagine si comprende che l’identificazione con la neve viene affidata da Elizabeth Laban all’anomalia genetica (“Perfino le persone più gentili di rado osano toccarmi”) che affligge Tim, il protagonista: un ragazzo albino che frequenta la Irving School (“Qui troverai un amico, e lo diventerai”).

La narrazione comincia in una notte d’ottobre: la bufera blocca in aeroporto Tim e Vanessa, entrambi diretti al college. Dopo aver giocato sulla neve, i due trascorrono la notte in albergo, nella stessa camera, per poi ripartire al mattino.
La neve imbianca il college nella notte finale del semestre di studi, quando si celebra il Grande Gioco, ossia l’evento con il quale si congedano coloro che frequentano l’ultima classe, quell’anno rappresentato da “una slittata a mezzanotte… nel bosco.”

Il racconto si sviluppa mediante la tecnica della narrazione-ricordo: secondo la tradizione del college, ai ragazzi che frequentano l’ultimo anno viene assegnata una camera (“L’ultimo giorno di scuola scrivevano il nome del futuro occupante su un foglio che appendevano alla porta, lasciando nella stanza un tesoro”) ove trovano un “regalo” del precedente occupante (“E il tesoro che lo aspettava poteva essere qualunque cosa”); e Duncan trova “una pila di CD” che Tim ha registrato (“È importante che tu sappia esattamente come sono andate le cose e perché. Qualcuno deve saperlo, qualcuno deve essere in gradi di trarne profitto e non ripetere i miei stessi errori”) e che contengono la verità sul suo semestre fatale (“Ti sto dando su un vassoio d’argento la base del tuo compito sulla tragedia”)…

Il tema della diversità (“Sapevo che mi sarei distinto come un orso polare in mezzo a un branco di grizzly”), esasperata dal bullismo, viene proposto in modo coinvolgente: nell’ambiente chiuso della scuola confluiscono i complessi e le difficoltà di Tim (“La luce poteva danneggiarmi gli occhi in modo irreversibile”), i suoi sentimenti per Vanessa e gli insegnamenti del professor Simon, impegnato a coinvolgere gli studenti in una tesi sulla tragedia:
“Conoscere le seguenti parole chiave ed espressioni…: ribaltamento della sorte, pietà e terrore, errore di giudizio, fato, peripezia, anagnorisis, hamartia, catarsi, mimesi, eleos, phobos, difetto fatale, ordine, caos, agnizione, conflitto, status, inevitabilità, percezione. Hubris, monomania, dedizione, imprevedibilità, ottimismo, ironia.”
“E infine: rilevanza, rilevanza, rilevanza.”

Particolarmente toccante la scena del doposcuola, ove Tim incontra un bambino albino:
“Rimasi seduto in silenzio, accanto al bambino albino, che mi aveva detto di chiamarsi Nathan”
“Io sono un po’ come la neve… E anche tu!”
“Sì, è vero. E la neve è una cosa speciale. Credo.”

La vita comunitaria procede verso l’epilogo con un ritmo che – per rimanere in tema – ricorda la palla che si trasforma in valanga. Mentre la storia di Tim, delle sue paure e della sua ribellione, precipita sul lettore prigioniero in quella boule de neige che è il romanzo…

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    13 Novembre, 2014
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Vita spericolata

“Quello che importa è grattarmi sotto le ascelle” è l’intervista a Charles Bukowski, che Fernanda Pivano ha realizzato nella più celebre tra le località ove risiedono i protagonisti dello star system: Malibù. Lì la giornalista italiana incontra il sessantenne scrittore, che della precarietà e della sregolatezza ha fatto professione esistenziale per molti anni. E lo ritrova ben accasato, quasi intento a scusarsi della villa con giardino sull’oceano, che dichiara di aver comprato per motivi fiscali.

L’intervista è introdotta da una completa biografia, grazie alla quale è possibile ripercorrere le intemperanze dello scrittore – variamente apostrofato con i nomi di Charles, Hank, Henry e Henry Chinaski - che della formula “sesso, alcol e corse di cavalli” ha fatto il proprio stemma.

Dalle parole del Buk si ricava anche qualche spunto sulla sua concezione poetica. Io riporto, in quanto emblematica, la distinzione accademica (!) che Charles propone tra prosa e poesia: “La poesia è sempre la cosa più facile da scrivere, perché la si può scrivere quando si è completamente ubriachi o completamente felici o completamente infelici… Così una poesia è molto comoda… La narrativa o il racconto, devo sentire molto per scriverli.”
Niente male come alternativa alla sofferta concezione dell’ermetismo o di Montale, interessante rispetto alla poetica della solitudine o dell’infelicità umana di un certo Giacomo Leopardi – filosofo, filologo, oltre che poeta – che in questi giorni viene celebrato dal successo al botteghino de “Il giovane favoloso” di Martone. Che ne dite?

Bruno Elpis

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... le opere di Bukowski e le abbia apprezzate.
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Romanzi autobiografici
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    10 Novembre, 2014
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La trasparenza del cuore

Sergio Bambaren con “L’eco del deserto” affronta un ambiente insolito per lui, che è amante dell’acqua e del mare e ha ambientato le sue storie tra delfini, lamantini e oceano.

Le citazioni iniziali sono di Steve Jobs (“Il vostro tempo è limitato, quindi non sprecatelo vivendo la vita di qualcun altro…”), mentre l’incipit cita località che hanno attirato la mia attenzione per motivi autobiografici.
A Origgio (“un comune nella provincia di Varese… ultima tappa di un meraviglioso… viaggio attraverso l’Italia”) nasce l’ispirazione a scrivere la storia. Lì l’autore si sente chiamare per nome e allora rievoca i fatti narrati nel libro.
In Marocco, ad “Agadir, una vera e propria mecca del surf” (per la verità, io ad Agadir ci sono stato in un agosto passato e ricordo che ogni mattina si alzava dalla spiaggia una tremenda nebbia che oscurava il giorno: una circostanza che non è esattamente la mecca per chi, come me, lavora a Milano), ove Sergio si reca per condividere “con altre persone ciò che più amavano: immergersi nell’acqua salata e cavalcare onde perfette”. Lì, lo scrittore fa uno strano sogno (“un cuore umano, pulsante, posato sulla sabbia del deserto. Emanava luce e cambiava colore”), che lo induce a intraprendere un viaggio da Marrakech verso il Sahara alla ricerca di Khalil, l’uomo saggio dal cuore trasparente che ha scelto di vivere nel bel mezzo del deserto.
Il viaggio verso l’oasi ove vive Khalil conosce momenti di immedesimazione nella natura selvaggia (“Notte: solo il bagliore del fuoco del bivacco… ma bastava… superare le dune più prossime perché il cielo si trasformasse in una grandiosa distesa di stelle”), l’angoscia del gelo notturno, la violenza della tempesta di sabbia (“Era come se l’intero deserto si fosse trasformato in una gigantesca nuvola di sabbia che viaggiava a velocità spaventosa”), ma l’ostinazione e il coraggio vengono premiati con la conoscenza del cuore pulsante del deserto (“La sola regola era seguire i propri ritmi e raggiungere l’equilibrio interiore”).

Lo stile di Bambaren, come sempre, è molto ingenuo e diretto (“Quando un uccello canta, non significa che sia felice”), il suo naturalismo è affascinante, al punto che mi son chiesto se la storia sia reale o piuttosto una fiaba per adulti. La risposta, del tutto pleonastica per chi apprezza/ricerca/condivide la semplicità , me l’ha data lo stesso autore: “Qualcuno potrebbe definire questa storia una favola, qualcun altro un’allucinazione. Per me, è la magia della vita.” E io gli credo. Sono un povero illuso?

Bruno Elpis

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... le ricerche dell'autore: l'onda perfetta, la sintonia con la natura, la profondità dell'oceano, la libertà dei delfini, l'immensità del deserto, le voci della tempesta di sabbia, i messaggi luminosi delle stelle...
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    08 Novembre, 2014
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Lettera di una bimba mai nata

“Voglio vivere una volta sola” è la proclamazione d’intento che Francesco Carofiglio immagina venga espressa da una strana entità (“Il mio corpo mi sembra sempre lo stesso, quello di una bambina, che invecchia”). Perché la protagonista del romanzo, Violette, esordisce con una dichiarazione sorprendente: “Quindi io non sono nata. Però esisto.”
Violette è infatti la femmina che mamma Emma e papà Leonard (“Il prossimo sarà una femmina, vero?”) vagheggiano, la sorella della quale Jean e Augustin talvolta sentono la mancanza, la padroncina che il cane Javert (“Era un giovane pastore tedesco con le orecchie mosce”) avrebbe volentieri seguito…
La famiglia italo-francese attraversa le tappe della vita prima a Roma, poi a Parigi. Quando i figli crescono e Leonard prende altre strade, Emma si rifugia a Plouzané in Bretagna, nella casa della nonna (“Una sera visitammo il faro di Petit Minou; ci si arrivava dopo aver percorso il ponte lungo e curvo, che partiva dalla terraferma, dove c’era la fortezza inghiottita nella roccia”).
Violette affianca i diversi componenti della famiglia e consente al lettore d’intravedere la trama di connessioni, ipocrisie e sentimenti.

Cosa rappresenta Viola (“Smetterò di esistere quando l’ultimo di loro smetterà di pensarmi”)?
La consapevolezza che si forma attraverso i processi umani?
La potenza ontologica di un desiderio?
La vitalità di un’idea che vive in sé e non soltanto come proiezione mentale?
L’ambizione di raggiungere un’unità che la vita di tutti i giorni sembra negare?

L’interpretazione è affidata al lettore, le pagine si susseguono in rapida successione, spruzzate di nostalgia e tinteggiate di tristezza.

Bruno Elpis

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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    05 Novembre, 2014
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Pacifismo incompiuto

“Alabarde Alabarde” è l’ultima opera incompiuta di José Saramago e si ispira agli spunti forniti da L’Espoir di André Malraux.

Dai tre capitoli disponibili e dagli appunti del premio Nobel portoghese si ricava l’abbozzo della storia: Artur Paz Semedo è impiegato in mansioni amministrative presso le “Produzioni Bellona S.A.”, azienda produttrice di armi. Artur si è separato dalla moglie: la pacifista Felicia non condivide l’acquiescenza del marito verso un’impresa che alimenta i commerci bellici.
Quando Artur decide di approfondire il passato della Bellona consultandone l’archivio storico (“Sono in archivio, e lei di là, Parla più forte, sembra che sei in fondo a una tomba”), viene a conoscenza di informazioni che stimolano curiosità e spirito critico (“Prima di arrivare alla guerra civile di spagna, dovremo passare ancora per quella dell’italia contro l’abissinia, contro l’etiopia…”).
Lo stile di Saramago è ribelle: si compiace degli anacoluti e non rispetta le regole ortografiche di maiuscole, minuscole e compagnia cantante.

I tre capitoli, che costituiscono l’incipit di una storia che possiamo soltanto intuire, vengono pubblicati con il racconto “Anch’io ho conosciuto Artur Paz Semedo” di Roberto Saviano. Che comincia con un panegirico (“Di tutte le cose che poteva fare José Saramago morire è quella più inaspettata") e poi prosegue con il refrain del titolo (“Anch’io ho conosciuto Artur Paz Semedo”) per narrare le storie di giornalisti corrispondenti, oppositori, cronisti, combattenti:
“Martin Woods. La sua arma era la precisione”
“Tim Lopes. La sua arma era la passione”
“Alfredo Corchado, corrispondente in Messico…”
A decretare la funzione dell’informazione: “Trovare parole semplici è il mestiere più complicato che sceglie di fare uno scrittore. Parole semplici incapaci di inganno. Parole forse in grado d’esser felici.”

Bruno Elpis

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    02 Novembre, 2014
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Horror sta per “orrendo”?

Mr. Mercedes di Stephen King ha suscitato la mia perplessità (in alcuni punti tinta di sdegno) nei confronti di un autore tanto acclamato.

Un pazzo scaraventa una Mercedes sulla folla che – in piena crisi economica – si assembra in cerca di lavoro al City Center. Il sangue di ignari malcapitati scorre abbondante e gli inquirenti non possono che constatare le modalità assurde con le quali lo stragista ha realizzato il proprio scellerato intento: “L’assassino… si era tolto la maschera, l’aveva imbevuta di candeggina ed era sceso dall’auto, infilandosi guanti e retina dei capelli probabilmente sotto il giubbotto.”
La Mercedes è stata rubata a Olivia Trelawney (ribattezzata dai detective “signora Nervosetti”), che in qualche modo si sente responsabile dell’accaduto (“Un mese dopo.. la Trelawney si era suicidata con un’overdose di antidolorifici”).
Kermit William Hodges, “detective di primo grado” in pensione che non disdegna metodi persuasivi (“Estrae il Castigamatti dalla tasca destra”), viene provocato dall’assassino e quindi indaga in proprio, intrecciando nel frattempo una relazione con Janey, l’affascinante sorella di Olivia.
Secondo il cliché più scontato dei romanzi violenti, il folle responsabile dei delitti è nell’ordine: fratricida, incestuoso, (“Lui e la madre condividono un segreto macabro e complesso, qualcosa a cui è meglio non pensare se non assolutamente necessario”), matricida, attentatore e kamikaze. Ma nasconde i suoi rigurgiti efferati sotto una scorza di normalità e rivestendo il ruolo dolce del gelataio.

La storia è un déjà vu, è terrificante per la disinvoltura con la quale espone le peggiori atrocità con prosa qualunquista (il mio sdegno si è impennato di fronte alla narrazione di un infanticidio che ha come vittima il fratellino handicappato), ai limiti dell’umana sopportazione nonostante qualche tentativo ammiccante, neanche troppo scaltro, neanche troppo sorprendente (“Se qualcosa può andare male, lo farà… Si tratta della legge di Murphy… un ingegnere aeronautico…”).

Di fronte a questa saga, mi sono chiesto, possiamo fare qualcosa? Forse sì. Boicottiamo (da quanto tempo non ricorrevo a questo termine anni settanta?) questo romanzo!

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    30 Ottobre, 2014
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Il mio cuore primitivo

“Cuore Primitivo” di Andrea De Carlo si svolge a Canciale, paesino sull’Appennino ligure, nella casa di vacanza di Mara Abbiati, artista specializzata nella scultura di gatti (“Indica il blocco di tufo avviato a diventare un ennesimo felino”).
Suo marito, l’antropologo Craig Nolan, nel tentativo di valutare l’origine di un’abbondante infiltrazione, cade rovinosamente e rimedia distorsioni e ferite (“Si è occupato più di una volta dei riti di scarificazione presso i Karo dell’Etiopia...”).
La coppia sta vivendo un momento di stanca e i caotici lavori di ripristino del tetto – che vengono affidati a Ivo Zanovelli (“Occhiali a specchio, capelli lunghi raccolti a coda, … jeans scoloriti, scarponi da biker…”), costruttore che svolge la sua attività in modo poco ortodosso e avvalendosi di lavoro “in nero” - è l’occasione per far esplodere le tensioni della coppia. Anche perché tra Mara e Ivo scocca la scintilla…

Andrea De Carlo scandaglia le dinamiche della coppia (“Lui tutto diffidenza e sospetto, lei tutta istinto e sentimento”) nelle diverse fasi: l’innamoramento iniziale (“Era la fase di adattabilità quasi illimitata che si attraversa agli inizi di un intenso coinvolgimento sentimentale”), la normalizzazione, la crisi, la diffidenza (“questa espressione da ladra spinta sotto le luci per la foto identificativa”), il tradimento, il rimorso (“La voce oscilla tra irritazione e tentativo di giustificazione, lo sguardo è evasivo, la postura chiusa e obliqua rispetto al tavolo: tutti gli indicatori classici di un senso di colpa”), la possibile rottura.
La tecnica utilizzata implica che lo scrittore si cali nei panni dei tre attori principali, assumendone forma mentis, ragionamenti e modalità espressive.
Così, in modo camaleontico, De Carlo è ora Mara - emotiva e intuitiva – ora Ivo: rudimentale, sincero e istintivo. Ma il ruolo che lo scrittore meglio impersona è quello di Craig: intellettuale (“l’impulso è comune a tutti i primati, nel caso di un incontro con un individuo sconosciuto dello stesso sesso”), continuamente impegnato a catalogare la realtà (memorabile la tipizzazione umana in esploratori, divulgatori e guardoni: “Quanto alle proporzioni numeriche, per ogni esploratore ci sono un centinaio di classificatori, e almeno un migliaio di guardoni”), sempre teso a razionalizzare ogni aspetto della vita e delle persone (secondo lui, il rivale Ivo possiede il “fascino della triade oscura (DT), la combinazione di narcisismo, machiavellismo e psicopatia che le donne trovano tanto irresistibile negli uomini”).

Inutile negarlo: trovo la narrazione di De Carlo affascinante, doviziosa, ironica, stralunata.
Il suo stile è immediatamente riconoscibile. Si articola in domande incalzanti, ricorre a definizioni (ad esempio riporta la definizione di “passato”) e etimologie (“A proposito di zelo e gelosia, non è interessante che abbiano la stessa etimologia in zelus?”), è attento a leggere le manifestazioni esteriori dei personaggi (“La distanza tra lui e Craig Nolan in questo momento è certamente inferiore al metro: secondo il diagramma di Edward T. Hall, sono più o meno sulla linea di divisione tra la distanza minima personale accettabile e quella intima”) e a rappresentare i moti interiori con minuzia di particolari. In questa lettura mi sono molto divertito, e ho gustato il romanzo assaporando il piacere sopraffino dell’intelletto abile e ondivago di uno scrittore purosangue.

Bruno Elpis

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... la produzione di Andrea De Carlo.
La ricerca narrativa che ho conosciuto in “Treno di Panna”, la profondità drammatica di “Due di due”, l’umorismo sottilmente intellettuale di “Giro di vento” e la caratterizzazione dei personaggi di “Uto” confluiscono in quest’opera nella quale ho assaporato il gusto compiaciuto dell’espressione e dell’analisi.
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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    27 Ottobre, 2014
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Schiaffi e preti

Le “Quattro sberle benedette” (“suggellando la sua volontà con quattro sonori sganassoni”) di Andrea Vitali sono destinate – nel romanzo – a suscitare scalpore nella comunità bellanese. Corre l’anno ’29, quello della famosa crisi che ahimé apparenta quei tempi ai nostri, siamo in piena epoca fascista (“Voleva pagare a tutti i costi la tassa del celibato?”) e nel paesino sul lago di Como si celebrano le festività dei santi, dei morti e della Vittoria.
La storia ha per fulcro la locale stazione dei carabinieri: il maresciallo Maccadò è appena diventato papà di un bel bambino, ma è afflitto dallo spettro di un trasferimento-tormentone. Nella funzione di comandante lo sostituisce il brigadiere sardo Mannu, che deve far fronte alla rivalità dell’appuntato Misfatti e alla misteriosa serie di lettere anonime che sembrano riferite a Don Secchia (“il colorito da bicarbonato che aveva in faccia”), il coadiutore parrocchiale:
“Dalla casa di Cristo
senza essere visto
egli sfugge di sera
come fosse in galera”

Tra caserma, sacristia e canonica, il romanzo propone il consueto assortimento di personaggi del popolo, che interpretano scenette da teatrino e situazioni paradossali che si dipartono dalla vicenda principale: sembra che l’insignificante pretino (“Che era già brutto, e paceamen, un sacerdote mica per forza doveva essere bello. Ma era anche triste come un bel niente a cena”) frequenti la casa chiusa (chiusa si fa per dire, se anche un prete la può frequentare!) di Lecco, dalla quale dilaga un’epidemia di morbillo (“La faccenda delle signorine morbillose trasferite in fretta e furia dalla maison lecchese al rifugio dell’Arizona…”)…

Come sempre, il linguaggio di Vitali è infarcito di espressioni popolari (“un gesto dell’ombrello ampio e deciso”), neologismi (savasandir) e lemmi dialettali: così il becchino è il “soteramort”, il garzone è “il bocia”, graffiarsi diviene “sgarbellarsi” e “menare il torrone”… be’ sappiamo tutti cosa significa…
Divertente!

Bruno Elpis

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... altre opere di Vitali, e si sia divertito...
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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    24 Ottobre, 2014
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La tragedia in controluce

“La riva del silenzio” è un luogo non ben identificato del Brasile: lì l’autore Paul Yoon traghetta Yohan, giovane nord-coreano che una nave allontana dal paese natio dopo l’esperienza di prigionia in un campo americano.
Con sé Yohan reca un passato disseminato di orrori bellici (“Aveva visto un fiume incendiarsi, senza capire come potesse succedere una cosa del genere”): ciononostante affronta il nuovo capitolo della sua vita grazie a Kiyoshi, il silenzioso sarto giapponese che con il giovane profugo instaura un rapporto essenziale e verace (“Si appoggiò al muro e pensò a quell’uomo che non conosceva ma senza il quale non poteva immaginare i tre anni che erano trascorsi”).

Nella nuova realtà Yohan ha naturalmente problemi di lingua, ma – paradossalmente – questa difficoltà gli giova: intesse rapporti elementari con Bia e Santi (“Fu allora che vide i ragazzini. Erano due, un maschio e una femmina. Erano apparsi sulla scogliera alle porte della città e procedevano verso di lui nel prato dall’erba alta”), scruta collina, mare e città nelle luci del mattino, affronta passeggiate notturne sui tetti, attende l’arrivo periodico della nave…
In questa nuova dimensione silenziosa Yohan osserva i gesti del sarto, che verosimilmente nasconde un proprio dramma, e così affiorano i ricordi: del campo di prigionia con il compagno cieco Peng (“Guardò le estremità della sciarpa ondeggiare dietro il giocoliere bendato. Immaginò foreste. Cime svettanti. Un fiume. Una mano sul suo gomito. Peng”) e con gli americani (“Una volta Yohan aveva giocato a carte con i medici… Era un gioco chiamato poker…”), del rapporto con il padre nella fattoria prima del conflitto (“Quell’anno era giunta la notizia della resa del Giappone. Poi era giunta la notizia che la Corea era stata divisa, tagliata in due da una linea di confine”).

La particolarità di questo romanzo risiede nella scelta narrativa, originale rispetto allo stuolo di romanzi che assumono i canoni della rappresentazione esplicita e spesso oscena (non in senso etico, bensì estetico) e del desiderio di sorprendere a ogni costo. Qui parlano le immagini semplici ed efficaci, qui – coerentemente con la storia e i personaggi - la parola viene sostituita da percezioni basilari e da sentimenti ingenui e fondamentali.
Sulla “riva del silenzio” il lettore deve intuire una storia tragica raccontata senza sensazionalismi e senza l’ansia di scandalizzare: ed è per questo che la storia di Yohan e di Kiyoshi ti entra nel cuore. Silenziosamente.
Nella quarta di copertina vengono riportate alcune affermazioni (Kirkus Reviews: “Momenti di vita ordinaria che diventano incantati. Una gemma di perfezione rara”) che – so benissimo - hanno la funzione di esercitare quello che nel marketing si chiama “effetto civetta”. Eppure in alcune di esse, come in quella di Lauren Groff, mi ritrovo: “Le frasi di Paul Yoon sono belle e sorprendenti. Una scrittura lucida, tersa ed evocativa per un romanzo lieve e insieme straordinariamente profondo”.

Bruno Elpis

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Poesia straniera
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    22 Ottobre, 2014
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Poesie zoomorfe

Pubblicato nel 1911, il “Bestiario” di Guillaume Apollinaire rappresenta una riedizione dei bestiari medioevali che viene colta dall’inquieto autore come occasione per esprimere in pochi versi alcune intuizioni intellettuali e poetiche, o spunti di vita vissuta.
I singoli componimenti sono anche momento di sperimentazione di una musicalità che si coglie appieno nel testo originale in francese (riportato nell’edizione di Guanda).
L’aspetto più interessante? Dal mio punto di vista, valutare quale sia stato l’abbinamento animale-situazione: il cavallo e la poesia, il gatto e l’ambiente domestico, il delfino e il gioco, il pavone e l’apparenza. Ecco la mia breve selezione.

Il cavallo

Col duro sogno della forma ti cavalcherò,
sul carro d’oro del destino ti sarò cocchiere
e redini allo spasimo ti siano
i miei versi, modello d’ogni poesia.


Il gatto

Nella mia casa voglio che ci sia
Una donna senza follia,
un gatto a spasso per la libreria
e amici ogni tempo che fa,
senza i quali la vita non mi va.


Il delfino

Giocando, delfini, nel mare
non fate le onde meno amare.
Se scoppia di gioia il mio cuore
la vita non perde rigore.

Il pavone

Tocca terra con le piume
e sembra, se fa la ruota, più bello
ma in verità mostra implume
il sedere questo uccello.

Bruno Elpis

P.S.: naturalmente, riportando questo testo nella sezione recensioni di www.brunoeplis.it , ho abbinato foto Nat-Geo ai componimenti di Apollinaire.

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    19 Ottobre, 2014
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Viaggio in nessun posto, sotto la luna

L’incarico iniziale: “Voglio Céline, disse, devo averlo”.
Una committente d’eccezione: la Signora Morte.
La tariffa richiesta: “6 dollari l’ora”
L’incaricato (“Assolutamente, grassone”): “Ero Nicky Belane, investigatore privato”, “L’investigatore più dritto di L.A.”
Stato civile: “Sposato tre volte, tre volte divorziato”.
Età: “Eccomi lì, a 55 anni, ancora a brancolare nel buio”.
Profilo psicologico del protagonista: “Quindi eccomi lì. Seduto ad ascoltare la pioggia. Se fossi morto in quel momento nel mondo intero non si sarebbe versata neppure una lacrima”.

“Pulp”, l’ultima opera di Charles Bukowski, è una storia che interpreta il genere del quale porta il nome: “un pasticcio” sia sul piano narrativo, sia dal punto di vista del risultato estetico.
La narrazione celebra il trionfo di situazioni assurde (“Céline è morto. Era nato nel 1891”), perché gli incarichi improbabili si moltiplicano (“Sto cercando di rintracciare un certo Passero Rosso. Lei ha qualche idea di dove posso trovarlo?”) e si intersecano (“Qualcuno ha visto Cindy, Céline o il Passero Rosso?”), producendo situazioni paradossali (“Il Passero Rosso. Era come la ricerca del Santo Graal”) e surreali (“La persona stesa nella bara ero io”) tra identità impossibili (“Louis Ferdinand Destouches, 1894”), metafisiche (“La signora morte era in estasi… Aveva un aspetto magnifico, raggiante”) ed extragalattiche (“Ti arruolo per la nostra causa, la causa di Zaros.. Stiamo ancora rivedendo il piano per occupare la Terra”).

Nella narrazione troviamo disseminati aforismi sulla vita (“E’ quando capisci che sei vecchio, che stai lì seduto a chiederti dove va a finire”) e sul suo senso (“C’era la luna e la mia vita stava andando lentamente in nessun posto”). Ma è a un’aliena che Bukowski affida il messaggio più inquietante:
“Che cosa è troppo orribile, Jeannie? La Terra. Lo smog, gli assassini, l’aria avvelenata, l’acqua avvelenata, il cibo avvelenato, l’odio, la mancanza di speranza, tutto. Sulla Terra l’unica cosa bella sono gli animali, e stanno eliminando anche loro, presto scompariranno tutti, tranne i topi e i cavalli da corsa. E’ molto triste, non c’è da meravigliarsi, se bevi tanto”.

Bruno Elpis

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... Lovecraft? Palahaniuk? E altre "Storie di ordinaria follia"!
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    15 Ottobre, 2014
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Donne reali, donne immaginate

Situando quest’opera nel percorso “eros”, tra le tante figure di “Donne” proposte da Andrea Camilleri con il nobile intento di ritrarre la versatilità delle dimensioni femminili (“Questo libro è un parziale catalogo delle donne, realmente esistite nella storia o create dalla letteratura, e di altre che ho conosciute e di altre ancora di cui m’hanno raccontato…”), assumerò come campione rappresentativo del libro non già le figure letterarie o mitologiche (come Elena di Troia: “Le tre dee si presentano al primo concorso di bellezza conosciuto nella Storia”) o storiche, bensì quelle donne che animano per sensualità la memoria di un arzillo Camilleri.

Tipo Beatrice, promessa sposa di un amico di gioventù, al quale l’inventore di Montalbano fa un regalo di nozze piuttosto proditorio (“Ho una gran voglia di ricci. M’accompagni?”), appartandosi con la promessa sposa nella bellezza paradisiaca della Scala dei Turchi.
O la svizzera Helga, avvenente sì, ma affetta da rupofobia con la mania ossessiva per la pulizia, l’ordine e la precisione da orologio elvetico.
O Inès, conosciuta sull’aereo (“Vivo di ricatti”), alla quale lo scrittore impone di scegliere l’amante e di lasciare il marito.
Su tutte, forse, svetta Ingrid, svedese di Malmo, conosciuta a Copenaghen (“Mi sentivo tentato come sant’Antonio”) e, ahimé – nonostante il detto consigli di fare il contrario – lasciata e persa: “Ed è in omaggio alla libertà, alla spontaneità e alla pulizia morale di Ingrid che ho voluto che l’amica straniera del mio commissario Montalbano fosse svedese e si chiamasse come lei”.
E che dire di Maria, che con Andrea batte un record (“Gli storici del cinema dicono che il bacio più lungo sia stato quello del film Notorius”): “Eravamo innamoratissimi. Ma cominciai a sperimentare la gelosia… i suoi occhi. Erano specchi ustori.”

La gamma delle donne rappresentate è molto vasta e con loro lo scrittore si diletta a sfidare il detto “nomen omen” (“Chiamarla Venere significa caricarle sulle spalle una responsabilità alla quale dovrà attenersi per tutta la sua futura esistenza. Quella di essere sempre all’altezza del nome che porta”) e ad azzardare interpolazioni storiche degne della fantasia romanzesca (a proposito di Nefertiri: “Penso… da romanziere… che Akhenaton, per risolvere il problema - ndr: delle origini di Nefertiri - sia ricorso a un intelligente stratagemma: far circolare cioè la voce che una bellezza come quella di Nefertiri non potesse essere che di origine ultraterrena”).

Una rassegna in alcuni punti divertente, in altri sorniona e astuta. Nella postfazione, Camilleri si prende una riserva: “Gli incontri personali… può darsi che me li sia inventati…”
Al lettore, crederci o meno. Io sono scettico…

Bruno Elpis

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...una delle tappe precedenti del percorso eros (l'ultima è Henry e June di A. Nin)...
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    11 Ottobre, 2014
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Commento digressivo

Spesso m’interrogo sulla stranezza delle dinamiche sociali.
Mi meraviglio quando leggo che in Italia ogni anno circa due milioni di cittadini trascinano i vicini dal giudice di pace o in tribunale per questioni condominiali. Con incredulità constato che i rapporti di vicinato sono la principale causa di litigiosità e d’intolleranza cronica.
Se poi mi soffermo sulle cause dei litigi, trovo una lunga serie di “futili motivi”: i rumori, l'uso degli spazi comuni, gli stillicidi, gli animali domestici… ogni screzio sembra rappresentare una ghiotta opportunità per sfogare tensioni e istinti bellicosi.
M’interrogo sulle possibili cause di tanta ferocia. E ne trovo un bel ventaglio.
L’invidia, ad esempio.
La possibilità di esportare tensioni familiari o personali nell’ambiente confinante.
L’incapacità di stabilire la giusta distanza nei rapporti interpersonali e di coabitazione.
Le cause economiche e, peggio ancora, quelle relazionali e psicologiche, che mettono in gioco i rispettivi vissuti.
Da lì l’apertura delle ostilità per proiettare antipatie, rancori, frustrazioni, amarezze. Con il risultato di produrre insofferenza, delusione, fastidio, incomprensione. Ed equivoci a non finire.

A questo tema in fondo si ricollega “L’uomo che metteva in ordine il mondo” di Frederik Backman.
Il nome del protagonista è Ove, ha 59 anni ed è vedovo (“Sono sei mesi che è morta. E Ove gira ancora per casa due volte al giorno per tastare i radiatori e controllare che lei non abbia alzato il riscaldamento di nascosto”).
Inasprito dalla vita, ha un carattere burbero, litigioso e scontroso (“La moglie di Ove spesso si lamenta che Ove litiga sempre per tutto”). Riserva la massima attenzione al rispetto delle regole e non è disposto a perdonare chi sgarra: chi parcheggia l'auto fuori dagli spazi, chi non conferisce i rifiuti rispettando le norme per la raccolta differenziata, chi non sa governare i propri animali…
Sotto tale scorza, Ove possiede un’umanità che emerge pagina dopo pagina, e così scopriamo che Ove è stato un orfano, costretto troppo presto ad affrontare la crudeltà del prossimo, i pregiudizi, le ingiustizie. Poi ha conosciuto una donna straordinaria e di lei si è innamorato perdutamente, con un sentimento che durerà tutta la vita.
Intanto nella vita dell’uomo solo, che tenta il suicidio, compare una famiglia che semina scompiglio…

Un po’ satira malinconica, un po’ fiaba, un po’ cronaca dei nostri giorni, “L’uomo che metteva in ordine il mondo” è una storia nata sul blog di Fredrik Backman, giornalista svedese.
La prima parte della storia l’ho trovata triste, mi ha messo a disagio perché in essa ho riconosciuto alcune inquietanti dinamiche della nostra società (tra esse, quella della mia digressione iniziale). Poi però, a questo romanzo ci si affeziona…

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    09 Ottobre, 2014
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Per me: Elton John, D.Bowie, A.Winehouse e Chopin

La musica è spesso sottofondo che scandisce i nostri momenti, talvolta diventa evocativa di ricordi, talaltra assume il ruolo di motivo conduttore di epoche e situazioni.
Ed è proprio una bella riflessione sulla musica quella di Erri De Luca ne “La musica provata”, che scaturisce da un’occasione ben precisa: “Stefano Di Battista, sassofonista giramondo, mi ha chiesto… una scrittura da mettere in musica”.

Da questo impulso prende il via un excursus lirico, improntato all’autobiografismo, che attraversa le origini (“Ho avuto un’infanzia involontariamente musicale. Napoli suonava su strumenti a corda e risuonava cupa, effetto di grotte e cavità del sottosuolo scavato, crivellato”), le inflessioni latine (“Luna rossa cantata da Caetano Veloso”), i ritmi caldi (“il calypso di Harry Belafonte… Ero nell’età di transito dai calzoni corti a quelli lunghi”), i decenni della protesta (“Intorno suonavano gli anni sessanta e i ragazzi si avvitavano su se stessi ballando il twist dei Beatles. Con Dylano non si ballava, si stava in mezzo alla strada”), per approdare a esperienze africane (in Tanzania “Esistono manifestazioni di fede che costringono la divinità a esserci”), a tappe di guerra (“Belgrado… sentivo battere la più potente grancassa della mia vita”) e a pensieri originali sui cori dei disperati (“Mediterraneo… il ventre liquido tra Asia, Africa e Europa”) e sui canti di lavoro (“Non era allegria. Era lo sfiato musicale del corpo sotto pressione costante…”)

Trovo sempre interessante accedere ai pensieri di Erri De Luca, registrare i suoi aforismi (“Il corpo è il più antico strumento musicale”), constatare con quanta personalità artistica egli affronti qualsiasi argomento. La lettura di questo testo, in particolare, può essere di stimolo a chi lo legge per stilare una propria autobiografia musicale (sarebbe bello che chi commenta lo facesse!)…

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    06 Ottobre, 2014
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La legge del taglione, anzi no

Alla reazione istintiva di Luigi Vissani (“La vendetta è la prima soluzione che ci viene in mente. E’ ovvio e naturale: la legge del taglione, no?”), figlio di una vittima del terrorismo, Giorgio Fontana – in apertura di “Morte di un uomo felice”, romanzo vincitore del premio Campiello 2014 – oppone la razionalità di Giacomo Colnaghi, “un magistrato brillante, che si occupava di lotta armata da tre anni: ancora giovane, aperto al dialogo e democratico, e per di più molto cattolico”.
Costui, prima di essere paziente e meticoloso professionista (“il sostituto procuratore Giacomo Colnaghi, del Tribunale di Milano”) che combatte lo stragismo (“infinite bande che cercavano d’imporre la propria linea, che ognuna considerava la sola e sacrosanta”) e cerca di comprenderne le cause, è stato studente modello (“Lui era la dimostrazione che anche in Italia ce la si poteva fare: che anche il figlio di un operaio ammazzato dai fascisti, quelli veri, poteva studiare e diventare qualcuno”) e figlio orfano di Ernesto, giovane operaio dissidente ucciso dalla violenza fascista.

All’interno del pool del quale fanno parte anche Micillo (“il sostituto procuratore, rampollo di un’antica famiglia di giuristi casertani”) e Caterina Franz, (“il giudice istruttore friulano…”), Colnaghi riesce – grazie alla collaborazione dei pentiti (“Anna Berti era una brigatista di ventisette anni che aveva accettato di collaborare con la giustizia”) – a individuare e catturare il responsabile dell’attentato a Vissani, tra eventi reali e immaginari che sezionano gli anni di piombo sfiorandone i principali misfatti (“Ti ricordi di quando le Br hanno rapito Sossi?”).

La vita familiare e professionale di Giacomo, il passato e l’assenza del padre ribelle (“il suocero beveva molto ed era amico del podestà, gli zii erano dei paolotti schifosi”), i conflitti generazionali (“Tempi in cui i padri e i figli si mettevano in guerra. Tempi brutti, si disse. Tempi orrendi”), le amicizie, gli impulsi culturali opposti (“Forse era quello il comunismo? Lasciare che le cose tornassero al loro stato naturale?”) si fondono nel sincretismo del cattolicesimo convinto del protagonista in una dimensione personale (“Non capisco come fai a essere così contento”) che alla fine prende il sopravvento narrativo sulla ricostruzione delle dinamiche storiche.

Nel finale (“29 luglio 1981… c’era il matrimonio di Lady Diana d’Inghilterra”) – collocato simbolicamente nell’anno di nascita dell’autore – confluiscono i destini tragici di papà Ernesto e del figlio Giacomo, quasi a significare l’imperscrutabilità di destini diversi, sempre uguali nella molteplicità delle passioni, drammaticamente impigliati agli enigmi socio-esistenziali.

Bruno Elpis

Nella sezione “interviste” di www.brunoelpis.it trovate la mia intervista all’autore.

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Arte e Spettacolo
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    03 Ottobre, 2014
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Personaggi e struttura del romanzo

Questo commento fa parte di una rassegna che organizza gli interventi dei relatori del convegno per argomenti. Nella prima parte, disponibile nella sezione “recensioni” di www.brunoelpis.it, sono stati esaminati gli “elementi autobiografici del romanzo sulla guerra".

I PERSONAGGI DE “LA CIOCIARA”

Possiamo delineare i tre personaggi principali del romanzo grazie ad altrettanti interventi del convegno.

La protagonista Cesira viene fotografata da Andrea Gareffi ne “Il sogno finale della Ciociara”.
Per riconoscimento attribuito anche dall’opinione di altri intervenuti, “Cesira… rispecchia il suo autore”, pur nella peculiarità di personaggio popolare che affida alla propria semplicità e all’istinto alcune riflessioni icastiche ed elementari (“la guerra degrada gli uomini in maniera definitiva”) lungo la triste parabola di vita che le farà elaborare una consapevolezza (“una ladra e una prostituta”) che nel sogno trova un compimento tronco (“un sogno… senza lambiccamenti intellettualistici né presunzione psicoanalitica”) per via della “inespugnabilità dell’inconscio”.
Un sogno del quale risulta impossibile l’interpretazione: “Non avrei saputo mai perché la vita è preferibile alla morte”.

Mark Epstein delinea la figura di “Michele, tra critica, speranza e martirio”: “Michele è caratterizzato da isolamento, diversità, negazione, inesperienza e verginità/purezza (in questo si pone come figura parallela a Rosetta)”.
Il personaggio di Michele incarna l’“intellettuale come chierico”, nella “inazione”, nel “martirio”, nella difficile interpretazione della “componente resistenziale” implicita.

Giulio Ferroni si occupa di “Rosetta e l’impurità del sesso”. La figlia di Cesira mantiene per gran parte dell’opera il ruolo di propaggine della madre (“… sentendo la sua Rosetta come una parte di sé”), è una “figura angelica… asessuata” sino al “celebre episodio dello stupro”, che fa “entrare bruscamente il sesso nel romanzo” e ne fa “esplodere l’ossessione”. In una “dimensione sacrificale” ove domina il “singolare paragone tra il pube e la testina di un capretto” e in un processo di maturazione violenta e dolorosa che riecheggia il “pathos-mathos” dell’Agamennone di Eschilo.

LA STRUTTURA DEL ROMANZO

Alexander von Keyserlingk indaga su “L’ideologia nel romanzo”, intendendo per tale “l’ossatura intorno alla quale prende forma la carne della narrazione”, necessaria al romanzo laddove “Il racconto… non ha bisogno di un’ideologia”. L’ideologia, tipica di molte opere di Moravia (“il fascismo ne Il conformista, del 1951, e il comunismo ne I due amici, del 1952”), ne “La ciociara” è ravvisabile nei riferimenti a “fascismo, antifascismo e resistenza”. Con una complicazione strutturale, in quanto la declinazione dell’ideologia deve affrontare la dura prova di “mettere Cesira in contatto reale… con il mondo rappresentato da Michele”.

Carlo Mazzoni affronta il rapporto tra “L’invenzione dei personaggi, l’esistenza delle persone. La contraddizione Moravia”, a partire dalla constatazione del lasso temporale intercorso tra genesi e pubblicazione (“Iniziato a scriverlo già nel ’46… darlo alle stampe nel ’57… il bisogno di un debito distacco emotivo dagli avvenimenti…”). In tale periodo, ovviamente, il tempo non scorre neutro (“Il miracolo italiano deve averlo infastidito…”) ed è adulterato dal mito della “falsa liberazione data del capitale”. Anche Mazzoni esplora l’identità contradditoria (“Mettersi sullo stesso piano del suo personaggio, della sua invenzione: ecco cosa a Moravia non riesce troppo bene, perché la sua persona è preponderante”) tra Cesira e Moravia (“Si corre questo rischio quando si prende la decisione di narrare in prima persona”) e quella dialettica tra Michele e lo scrittore (“Michele. L’idealista. L’antifascista… Come si fa a non considerarlo l’alter ego di Moravia?”).

Simone Casini riflette su “Le conclusioni della Ciociara. A proposito di un epilogo inedito”, asserendo che “la conclusione di un romanzo per Moravia non è mai indolore, perché non è mai prestabilita. Essa è anzi il momento di verità dei personaggi, la verifica della loro coerenza e quindi della loro autonoma vitalità”. E, come dimostra “Il conformista”, “al significato ultimo di un romanzo Moravia è disposto a sacrificare la sua verosimiglianza”.
Ecco che allora “il capitolo ritrovato della Conclusione… documentando l’alternativa di un esito profondamente diverso apre un nuovo spiraglio sulla riflessione di Moravia”, per affermare che “la vita… sembra riprendere come prima, ma niente è più come prima”.

2 – continua

Bruno Elpis

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Trattandosi di un'opera scientifica e critica, il volume è consigliato a chi volesse approfondire la figura di Moravia e La ciociara come suo capolavoro.
Il profilo dei relatori è accademico e internazionale, ma la maggior parte dei saggi sono accessibili e fruibili a chiunque desideri assaporare l'arte letteraria.
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    30 Settembre, 2014
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Henry, June o Anaïs? Io scelgo…

In quel di Parigi, Anaïs Nin incontra Henry (Miller, sì proprio lui, quello degli scandalosi Tropici del Cancro e del Capricorno, quello dell’innominabile Opus Pistorum) e June, bellissima consorte di Henry. Ed è subito amore. Non per lui. Non per lei. Per entrambi! Per “Henry e June”…
In questo commento cercherò (invano) di mettere ordine nello scompiglio sentimentale della povera Nin. In questa ardua (o impossibile?) impresa cercherò anche di dimostrare per chi parteggio…

Per mettere ordine nel caos, occorre partire da lui: il marito che, poveretto, in questa vicenda si aggira sotto il peso di un cesto pieno… di lumache!

HUGO (il marito)

Ignaro di tutto (ci credete?), innamoratissimo, soggiace agli equilibrismi di Anaïs (“Ci rendevamo pienamente conto che non avremmo sopportato di andare incontro alle nostre nuove esperienze proprio sotto gli occhi una dell’altro”) senza colpo ferire (“Come riuscissimo Hugo e io a conservare il nostro amore nel pieno scatenamento degli istinti, lui non riusciva proprio a capirlo”). Intanto la nostra eroina è dilacerata da dubbi amletici (“Chiesi a Eduardo: credi che il desiderio di orge sia una di quelle esperienze che bisogna portare fino in fondo?”), che risolve in modo salomonico (“No, disse lui. La vita dei liberi istinti è fatta di strati.”).
Hugo, nel marasma della vita di Anaïs, rimarrà sempre una certezza (“Racconto a Hugo del mio diario immaginario di una donna posseduta, che lo rafforza nella sua convinzione che tutto sia invenzione salvo il nostro amore”), lo scoglio al quale aggrapparsi (“Al contrario, lo amo di più perché lo amo senza ipocrisia”).

Poi arrivano loro. Innazitutto lei:

JUNE

Praticamente una dea: “… Vidi per la prima volta la donna più bella della terra”. Perché delle dee possiede fascino mitologico: “Capelli biondi, faccia pallida, sopracciglia appuntite e demoniache, un sorriso crudele con fossette disarmanti. Perfida, infinitamente desiderabile, mi attirava a sé come verso la morte.”
Nonostante qualche vizio: “Ora so che June è una tossicomane.”
Con lei, Anaïs conosce nuovi orizzonti (“Nell’amore tra uomo e donna c’è resistenza e conflitto. Due donne non si giudicano a vicenda, non si brutalizzano, e non trovano niente da ridicolizzare”), sperimentando al tempo stesso i limiti oggettivi dell’amore saffico (“Posso darle il piacere del mio amore, ma non il coito supremo”).

Dopo essere stata ricoperta di regali, tra mille gelosie, June riparte per l’America e viene il tempo di…

HENRY

Decisamente un’affinità intellettuale (“La sua scrittura è ardita, virile, animale, magnifica”), creativa (“Ieri sono stata sveglia fino all’una a leggere il romanzo di Henry – Moloch – mentre lui leggeva il mio”) e culturale (“Cammina dentro alle sinfonie di Proust, alle insinuazioni di Gide, agli enigmi oppiati di Cocteau, ai silenzi di Valéry; cammina nelle suggestioni, negli spazi; nelle illuminazioni di Rimbaud. E io cammino con lui”).
Con lui Anaïs rivive il complesso di Edipo (“In quel momento so di essere mezza donna e mezza bambina. Che una parte di me nasconde una bambina che ama essere sorpresa, essere istruita, essere guidata”) e l’amore per il padre (“L’immagine ossessiva di un padre erudito, letterato, si riafferma, e la donna ridiventa bambina”).
Ma l’amore è anche e principalmente carnale (“Io muoio dalla voglia di Henry, che potrebbe spazzare via tutti gli strati che mi soffocano, spalancare l’ostrica ipnotizzata dalla sua paura del mondo”).

A questo punto potremmo tentare una sintesi: “Henry mi dà la vita, June mi dà la morte”. Ma rimane ancora da perlustrare la figura di…

ANAIS

Eclettica (“Ci sono due modi di arrivare fino a me: con i baci o con l’immaginazione”), complicata (“L’amore di un solo uomo o di una sola donna è come una prigione”), ispiratrice di Cacharel (“Drogato dalle mie parole, dal mio profumo Narcisse Noir”), si pasce di una beata illusione: “Sono davvero convinta che se non fossi una scrittrice, se non fossi una creatrice, e una sperimentatrice, avrei potuto essere una moglie molto fedele. Do un enorme valore alla fedeltà. Ma il mio temperamento appartiene alla scrittrice, non alla donna”.

Si è capito per chi parteggio in questo bailamme (considerate che nel testo Anais parla anche del suo amore per Lawrence Drake, per il cugino Eduardo e per lo psicoterapeuta Allendy)?
“Gli scrittori fanno l’amore con qualsiasi cosa di cui abbiano bisogno.”
Naturale fare il tifo per una donna doppia (“Io ho bisogno di due vite. Io sono due esseri”), poetica (“Hai baciato la mia bocca ed essa è scomparsa, il suo disegno si è smarrito come in un acquerello, i colori sbiadiscono”), affascinante (“Sollevandomi i capelli, alla greca”), che si agghinda in chimono rosso di seta e conosce l’arte della seduzione (“Non dovrei usare inchiostro eliotropico, ma profumo”), del colore (“Luccichii. Ametiste. Turchesi. Rosaconchiglia. Verde irlandese. Mi piacerebbe essere nuda e coprirmi con gioielli di freddo cristallo. Gioielli e profumo”), e non disdegna la vanità (“Lunedì rischierò un’operazione che cancellerà per sempre la gobba spiritosa del mio naso”; “Il mio naso è pesante, ma bellissimo”). Una donna – sicuramente uno spirito inquieto e tormentato - che fa di tutto “per rendere la vita più interessante. Per imitare la letteratura, che è una burla.”

Bruno Elpis

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... una delle precedenti tappe del percorso "eros" (l'ultima è "Aimez-vous Brahms" di F. Sagan)
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    23 Settembre, 2014
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Il complesso di Giocasta

(Oggi, 24 settembre 2014, è il decimo anniversario della morte di Françoise Sagan. Questo commento – che colloco nel percorso dedicato all’erotismo - è il mio personale omaggio alla memoria di un’autrice che è tra le mie preferite.)
__________________________________________

Il rapporto tra una donna matura e un uomo più giovane è un classico dell’erotismo. Vi si cimenta Françoise Sagan in “Aimez-vous Brahms?”, ove si narra la storia sentimentale della trentanovenne Paule. Costei ha una relazione con il coetaneo Roger, esplicitamente infedele (“Non ne poteva più di quella libertà messa tra loro come una legge, quella libertà di cui solo lui si serviva…”), che – forte della sua sicurezza (“Lui restava l’amante, quello vero, il maschio”) – ingenera un senso d’insoddisfazione e solitudine nell’amante (“Era sola, anche quella notte, e la vita futura le apparve come una lunga fuga di notti solitarie…”)
Svolgendo il suo lavoro di arredatrice, Paule conosce Simon Van Den Besh, venticinquenne figlio di una dama della bella società parigina (“Aveva una ciocca di capelli sulla fronte, la luce delle candele gli scavava il viso, era stupendo”). Simon, avvocato praticante a sua volta insoddisfatto (“… sono la copia sbiadita di una dozzina di ragazzi troppo viziati, cacciati a forza nelle professioni liberali grazie ai genitori…”) s’innamora ben presto della donna con la voracità di un piccolo carnivoro (“quel moscardino che seguiva Paule dovunque”).

L’erotismo che si sprigiona dalla nuova relazione è descritto nell’atmosfera magica (“Attraverso i vetri rigati d’acqua, il sole li passava da parte a parte, con quelle improvvise vampe di calore piene di rimorsi provocati dall’autunno”) e nei profumi (“Il Bois odorava di erba bagnata, di legno che ammuffisce pian piano, di strade d’autunno”) autunnali (“L’autunno saliva al cuore di Paule con una grande dolcezza”) dall’affascinante scrittura della Sagan, che indugia con dolcezza struggente (“Paule sentì una specie di tenerezza per quella figura silenziosa che le teneva il braccio”) sulle fasi della passione (“Paule sentì il cuore battere a precipizio, e fu invasa da un turbamento improvviso”) fatta di:
- appuntamenti (“C’è un bellissimo concerto alle sei… Le piace Brahms?” “Ci credi?... Non ricordavo più se mi piaceva Brahms…”);
- sensazioni (“… le tratteneva la mano nella sua un attimo di troppo, come gli eroi romantici di cui s’era fatto beffe tante volte”);
- sguardi (“Simon, i cui occhi come un faro, ogni due minuti, le sfioravano il viso, indugiando un secondo di troppo a cercare il suo sguardo”);
- manifestazioni affettuose (“Simon copriva di baci il suo volto”).

Ma Françoise Sagan non è soltanto questo. Il suo stile disegna con pennellate improvvise (“Gli uomini erano decisamente delle bestie feroci”) e contorni più definiti (“per un attimo pensò, crudele verso se stessa, d’essere finalmente arrivata allo stadio materno”) il senso dell’endemica insoddisfazione umana, tessendo una trama che sfocia in un finale “alla Sagan”: “E intanto respirava l’odore ben noto del suo corpo, del suo tabacco, e si sentiva salva. E perduta.” Ove prevale “un bel dolore, di cui lei non avrebbe mai conosciuto l’eguale.”
Se non si fosse capito, questo è l’erotismo che piace a…

…Bruno Elpis

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... precedenti tappe del percorso eros (l'ultima - mi pare sia - "La volpe meccanica")
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    16 Settembre, 2014
Top 10 opinionisti  -  

L'impazienza di Giobbe

Quando Wulf Dorn torna con un nuovo romanzo, mi carico di aspettative. E forse, questo è un errore, perché in genere l’aspettativa – tanto più se è alta – spesso produce delusione.
“Phobia”: il titolo preannunciato su di me ha agito come lo specchietto per l’allodola, per il conclamato interesse che nutro nei confronti del thriller psicologico.
Da brava allodola, mi sono dunque precipitato in libreria per procurarmi lo specchietto. Che ha funzionato, se misura della riuscita di un libro sono i tempi di lettura e l’incapacità di staccarsi dalle pagine (quelle di “Phobia”, quasi, si girano da sole).

Il romanzo è stato annunciato come sequel de “La psichiatra”, il primo fortunato romanzo che ha consacrato Dorn come stella della letteratura di tensione. In realtà, la connessione con il primo romanzo è piuttosto estrinseca, in quanto “Phobia” si limita a condividere con “La psichiatra” il personaggio di Mark Behrendt, il medico che qui affianca l’amica d’infanzia Sarah, alle prese con un imprevisto che sconvolge lei e la quiete del quartiere di Forest Hill.
Infatti, una notte, il marito Stephen fa ritorno a casa… solo che… solo che non è lui a tornare! Perché l’intruso, che è vestito come Stephen (“E’ un pazzo. Indossava il vestito di Stephen e si comportava come se fosse mio marito”) e conosce perfettamente tutte le abitudini di famiglia, in realtà è “la versione da incubo di suo marito”.
Chi è l’orrendo personaggio (“La maschera del suo viso pieno di cicatrici apparve ancora più orribile e finta”) che fa irruzione nella vita della giovane donna e che nel finale le chiederà di essere chiamato Giobbe?
Cosa vuole da Sarah?
Che fine ha fatto Stephen?
Come si può evincere da queste premesse, la trama è avvincente e procede con ritmo serrato (con un calo, forse, nella parte centrale, con la comparsa di Mark che in questa storia agisce sotto tono, un po’ come fa l’incantatore con i serpenti).

Il mio dubbio riguarda principalmente la tenuità della dimensione psicologica del romanzo. Sarah soffre di una fobia generica (“Il medico aveva definito questa sua paura irrazionale un disturbo fobico e le aveva consigliato un terapeuta con cui approfondire le cause”), che la allontana dal lavoro e che ha la propria origine nel rapporto coniugale (“Tutto quello che desideravano all’inizio – una casa, dei figli, il matrimonio – sono diventati insignificanti per entrambi”). Il romanzo è un percorso verso la consapevolezza, ottenuta attraverso sofferenze ed eventi scenografici piuttosto che attraverso snodi clinici e terapeutici, e perviene a una conclusione: “Perché l’unica cosa di cui aver paura è la paura stessa”.
L’aspetto più apprezzabile – oltre all’intreccio, che è comunque occasione per una buona lettura d’evasione nella tensione - è il tentativo che Dorn compie per ricondurre eventi sorprendenti e cruenti a una razionalità di fondo che si nasconde dietro a fatti in sé terrificanti. Con l’ammonimento implicito a non dare nulla per scontato, a non sottovalutare le opportunità che la vita offre, a non sprecare le occasioni della felicità, che non viene concessa a tutti da un destino cieco, iniquo e spesso crudelissimo.

Bruno Elpis

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... thriller psicologici
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    12 Settembre, 2014
Top 10 opinionisti  -  

Eros e thanatos in chiave noir

Erotismo noir, quello di Mariolina Venezia, già Premio Campiello nel 2007 con la saga familiare “Mille anni che sto qui”.
La storia di questo breve romanzo vede una donna, aspirante attrice (“Poter entrare in una storia, in una vita, in una pelle che non fosse mia, mi dava un momentaneo senso di sollievo, come una vacanza da me stessa”), spingersi nelle forme estreme dell’erotismo sino a un tragico finale.
Piena di belle speranze (“Avevo appena compiuto tredici anni ed ero una promessa dell’atletica”), la protagonista le disattende tutte attraversando esperienze fallimentari che enuclea in alcuni eventi: dell’infanzia ricorda un fatto emblematico (“Le dita si dischiudono, il giocattolo cade giù e si schianta a terra rompendosi in mille pezzi”), nell’adolescenza distrugge il motorino di un amico (“Perché lo feci? Cercavo la sconfitta…” “Solo gettandomi a capofitto nel fallimento… riuscivo a provare un momentaneo senso di libertà”), in età adulta affronta scientemente un matrimonio senza amore (“Un’azione realmente irreparabile fu quella di sposare mio marito”).
Quando sotto il loro tetto i due coniugi ospitano il fratello illegittimo del marito regista (“Quando conobbi Andrea avevo trentotto anni, ma non ne dimostravo più di ventiquattro…”), l’inquieto spirito femminile viene conquistato dall’istintività del cognato (“sentirlo frugare rapidamente, come un piccolo predatore, una faina o una donnola…”), che lei asseconda “per dargli l’opportunità di compiere le sue piccole razzie”. Durante le assenze del marito, i due instaurano una relazione che attraversa fasi sempre più spericolate: quella orale (“Quando ci fummo impregnati di tutti quei sapori , non ci restò altro… che assaggiare quello che avevamo noi”) e preliminare (“Mi piaceva ritrovare il sapore del mio corpo nella sua bocca..”) durante la quale “i nostri due sapori si mescolavano…”; lo stadio dell’insana passione che nella clandestinità si alimenta (“L’elettricità dei nostri corpi restava allora nella stanza”) in crescendo (“I nostri corpi continuavano a svelarci i loro piccoli segreti, risuonando come strumenti dai quali sia io che lui sapevamo ormai trarre qualsiasi nota”) e in una dimensione atemporale (“Per me era stata un’unica bolla senza tempo”); la fase dell’annientamento (“Era un improvviso accecamento in cui deliberatamente ognuno perdeva se stesso e chiedeva all’altro di aiutarlo a non ritrovarsi più”) sino allo stadio del sadismo (“ognuno cercava… il varco a quel corpo… Una piccola incisione, un morso, un graffio…”).
La donna decide di rivelare l’infedeltà al marito, che si rende complice (in questa parte centrale, molto ardita, nulla è lasciato all’immaginazione del lettore circa le pratiche dei due amanti) e trasfonde la storia nel copione al quale sta lavorando. Si crea così una confusione tra realtà e finzione, che - forse nella realtà, forse nell’immaginazione (“Gli dissi che volevo fare qualcosa di diverso, e alludevo alle improvvisazioni di qualche giorno prima”) – è esasperata dal pericolo dell’abbandono (“Lo legai alla spalliera del letto, lo imbavagliai, lo bendai, gli legai le caviglie con le mie calze nere…”) e culmina in un epilogo mortale (“i suoi movimenti e le sue spinte provocarono in me un orgasmo di una tale potenza che lui stesso ne fu travolto… La vita e la morte uscirono a fiotti dal suo corpo, e io le accolsi dentro di me…”).
Il finale è aperto a diverse letture (“Ognuno di noi… venne condannato a essere ciò che era sempre stato, e questa mi sembra una condanna sufficiente”), ivi compresa quella di un umorismo surreale e noir.
Lo spunto più metaforico nel paio d’ore che la lettura richiede? Quello che vede la protagonista immedesimarsi nella lepre meccanica (“La volpe meccanica” del titolo) del cinodromo: un “ridicolo meccanismo di ferro e di pelo che vedevo correre sulla pista incalzato dalla muta, inutilmente concupito dai cani.”
“La volpe meccanica” è opera che potrebbe piacere agli amanti del noir spietato: peccato che una penna così affilata non abbia dato vita a un erotismo più ombreggiato e artistico…

Bruno Elpis

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... la puntata precedente del percorso eros ("Bonjour tristesse" della Sagan)
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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    09 Settembre, 2014
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Quando la superficialità diventa arte

Cécile–Françoise Sagan (“Quell’estate avevo diciassette anni ed ero proprio felice”) è legata al padre Raymond, vedovo gaudente, da un elementare complesso di Elettra (“…buono, generoso, allegro e molto affettuoso con me. Non riesco a immaginare un amico migliore né più divertente di lui”).
Con lui condivide una divina, diafana superficialità (“Non mi piacevano i giovani. Preferivo di gran lunga gli amici di mio padre, dei quarantenni che mi parlavano con cortesia e affetto, dimostrando verso di me la dolcezza di un padre o di un amante”) che la porta a osteggiare la relazione del genitore con Anne (“Lei frequentava persone fini, intelligenti, discrete, noi gente rumorosa, insaziabile, a cui mio padre chiedeva di essere bella o spiritosa”).

Tutto avviene nell’estate, in Costa Azzurra (“…una grande villa bianca… si ergeva su un promontorio a picco sul mare, celata alla strada da una pineta; da lì un sentiero impervio conduceva in una caletta dorata, cinta da rocce rosse, contro cui si frangevano le onde”) con la complicità di Elsa, ex amante di Raymond, e di Cyril, giovane avvocato innamorato di Cécile.

L’erotismo di Françoise Sagan è lì: più da vedere e immaginare (“Di mattina li vedevo scendere aggrappati l’uno all’altra, ridere insieme, tutti e due con gli occhi cerchiati, e avrei voluto veramente che ciò durasse per tutta la vita”) che da vivere (“Cyril riprendeva fiato, i suoi baci si facevano decisi, tenaci, non sentivo più il rumore del mare, ma avevo nelle orecchie il pulsare rapido e incalzante del mio sangue”), quasi secondario (“Poi fu la ridda dell’amore: la paura che dà la mano al desiderio, la tenerezza e il fervore e quella sofferenza atroce, seguita dal piacere trionfante”) e di rincalzo (“Accanto a lui tutto diventava facile, carico di violenza e di piacere”) rispetto a un malessere drappeggiato e stilizzato: “Non so se dare il bel nome solenne di tristezza al sentimento sconosciuto che mi tormenta con i suoi affanni e con la sua dolcezza. E’ un sentimento così assoluto ed egoistico che quasi me ne vergogno, mentre la tristezza mi è sempre parsa onorevole”.

“Bonjour tristesse”. In uno stile sublime che canonizza la superficialità come male di vivere, vi è la dimostrazione cartacea che per scrivere un capolavoro non occorrono centinaia e centinaia di pagine…

Bruno Elpis

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Fa parte del percorso "eros", seconda tappa dopo "Uccellini" di A. Nin
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    07 Settembre, 2014
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Chi mi ha piantato lì in mezzo?

Cesare Almansi è un brillante avvocato genovese (“Come avvocato si è occupato di diritti del lavoro, specialmente degli immigrati, e di tutela del paesaggio e dell’ambiente”), che imprime un’accelerazione alla propria carriera candidandosi per il senato della Repubblica. A seguito di tale iniziativa riceve misteriose telefonate minatorie (“Sì, quando ho risposto che non mi faceva paura, ha detto che stava a me scegliere tra un avvocato vivo e un senatore morto”).
Cesare decide di rivolgersi all’investigatore Bacci Pagano, suo ex compagno del liceo, che così viene a contatto con il team elettorale dell’amico. Del gruppo fa parte la bella Lou (“Lou Andreas come… l’amante di Rilke che fu allieva di Freud”), con la quale l’investigatore intesse un’intensa relazione amorosa.

Nell’atmosfera magica e contradditoria di Genova (“…mi rintano nel caldo rifugio del Caffè degli Specchi. Siedo al tavolo che dà sulla vetrina di salita Pollaiuoli, dove Agostina Belli e Vittorio Gassman hanno recitato nel film Profumo di donna”), prende corpo la storia familiare (“Mio padre si chiamava Guido… faceva parte del gruppo armato… con il nome di battaglia di Biscia”), personale (“Non è forse vero che voi compagni di Almansi siete ammalati di nostalgia?”) e sentimentale di Bacci Pagano, che – rovistando negli intrighi politici e malavitosi – porta a galla i retroscena di un delitto (“Ho letto sui giornali che lei è stato ingaggiato dall’avvocato… e ora viene a informarsi su un omicidio avvenuto oltre trent’anni fa…”) ove gli indizi sono sepolti nell’inconscio: “Il sogno voleva ricordarmi che la ragazza dai capelli rossi usciva dalla discoteca in cui avevo trascorso l’ultima notte di baldoria con il mio compagno di liceo” dopo una prigionia di cinque anni per presunto terrorismo…

La narrazione di Bruno Morchio è efficace e coinvolgente, spesso contaminata da termini prettamente genovesi dei quali viene fornito un piccolo vocabolario in appendice. La fantasia viene facilmente impressionata dall’icona de “Lo spaventapasseri”: dal titolo, il fantoccio-spauracchio occhieggia a suggestionare il lettore che ha modo di gustare una detective story impregnata di risvolti drammatici: “Perché gli spaventapasseri fanno paura senza saperlo. E io voglio scoprire perché mi hanno piantato lì in mezzo…”
Consigliato agli amanti del genere e a chi apprezza il fatto che l’intreccio abbia uno spessore…

Bruno Elpis

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Romanzi storici
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    05 Settembre, 2014
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Un umanista camaleontico

A Caltabellotta, Samuel ben Nissim Abul Farag è un ragazzino precoce della giudecca (“Un giorno sarà l’orgoglio, la bandiera di un popolo vilipeso, randagio, calunniato e disprezzato”).
Poliglotta di lingue antiche (“Veru è che accanosci macari ‘u latinu, ‘u grecu e ‘u caldeo?”), assiste i commerci del padre ritraendo guadagni che nasconde in un pozzo (“il sacchetto di cuoio in fondo al pozzo di Cirrinnà”). Dopo un clandestino incontro sessuale con un ragazzino arabo (“dopo il consueto incontro nella grotta, Hakmet…”), reagisce al furto del malloppo accumulato uccidendo il ladro.

Prima trasformazione: “Il suo nome sarà Guglielmo Raimondo Moncada”.
“Egli vuole andare a Napoli… per incontrarsi in totale libertà… con il sapere e l’ignoranza, la ricchezza e la povertà… la preghiera e la blasfemia, la felicità e la disperazione”
Segue la fase romana, durante la quale frequenta alti prelati del papato di Sisto IV. La vita condotta tra predicazioni proditorie (“Un centinaio di cristiani si precipitano alla judicca. Altri cinque morti”), gare letterarie e lusso lo induce a commettere un secondo omicidio: quello di un usuraio…

Seconda trasformazione: assume il nome di Flavio Mitridate. Dopo un espatrio finalizzato a far perdere le tracce della precedente identità, lo ritroviamo a Urbino, Firenze e Perugia, ove rende i suoi servizi di linguista e filologo a “Giovanni Pico della Mirandola, giovane, ricco, bello, ma soprattutto uno studioso acuto, un ingegni filosofico originale e sempre avido di nuove conoscenze”.

Ispirato da una presentazione di Sciacia, Andrea Camilleri si cimenta a “raccontare le motivazioni essenziali delle… sconvolgenti metamorfosi” di un umanista anomalo in un’opera dal finale aperto, “Inseguendo un’ombra”: la fine del camaleontico, spregiudicato poliglotta è omicidio camuffato da suicidio in carcere con mandante Innocenzo VIII? O piuttosto Samuel-Moncada-Mitridate viene liberato e sparisce nel nulla? O che altro destino attende Samuel, diseredato dalla madre?
A parer mio, questo romanzo soffre di sbilanciamento: avvincente nel ritratto dell’adolescente ambizioso, si perde centralmente nei rigagnoli di un biografismo asettico, per recuperare nel finale polivalente...

Bruno Elpis

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...Pico della Mirandola?
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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    03 Settembre, 2014
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Medea del XX secolo

Anno 1947: una polacca, un ebreo e un “sudista” s’incontrano in un edificio di Brooklyn e intrecciano le rispettive esperienze di odio razziale. “La scelta di Sophie” è un’opera mastodontica (oltre 600 pagine fitte) nella quale William Styron cerca di amalgamare tragedie esistenziali e storiche, sortendo nel lettore un effetto alterno di ripulsione, interesse e orrore.
Nel mio commento fornirò un riassunto per capitoli, concentrando negli ultimi due uno SPOILER giustificato da:
- La notorietà del finale, alla quale ha sicuramente contribuito il film di Pakula che si fregia dell’Oscar a Maryl Streep;
- La mia inclusione di quest’opera nel “percorso Medea”.
Consiglio pertanto a chi non fosse interessato al riassunto della storia e/o allo spoiler di saltare direttamente alla conclusione.

LA STORIA

Stingo è un ventiduenne aspirante scrittore, originario della Virginia, terra di schiavismo che egli rifugge. Lavora alla Mc Grow-Hill come editor e selezionatore, specializzato in stroncature (“Io volevo al di là di ogni speranza e di ogni sogno diventare uno scrittore…”) – cap. 1
Quando viene licenziato, si trasferisce nella casa di Yetta a Brooklyn e lì conosce – durante una violenta lite - Nathan e Sophie (“Vidi così per la prima volta il numero tatuato sulla pelle abbronzata e lentigginosa del suo avambraccio”). Intanto, da buon sudista, eredita dal nonno una somma ricavata dalla vendita di uno schiavo – cap. 2
Nell’occasione di una gita domenicale a Coney Island, si forma lo strano triangolo tra i due amanti e Stingo (“la terribile scenata tra Sophie e Nathan della sera prima avrebbe dovuto farmi capire… Sentivo che c’era qualcosa di stonato, sotto tutta l’allegria…). L’odio razziale affiora spesso nelle discussioni: “Come membro di una razza… ingiustamente perseguitata… dovresti sapere quanto sia imperdonabile condannare tutto un popolo per qualsiasi cosa!” – cap. 3
Sophie comincia a narrare il suo passato e, forse perché si sente in colpa (“Questo forte senso di colpa l’ho ancora”), lo imbastisce di menzogne: “Lei mi raccontava tante cose del suo passato e … io mi preparavo a lasciarmi intrappolare, come una larva, in quell’incredibile ragnatela di emozioni che era il rapporto tra Sophie e Nathan” – cap. 4
Il padre comunica a Stingo che ha ereditato una piantagione di arachidi e lo invita a tornare in Virginia. Costui preferisce restare, con l’ossessione di vincere resistenze e ipocrisie della sessualità degli anni Quaranta – cap. 5
Sophie rievoca il suo passato ad Auschwitz, come privilegiata - stenografa e interprete - nella casa del gerarca Rudolf Hoss (“Auschwitz era un campo di lavoro forzato, mentre Birkenau serviva solo a una cosa, lo sterminio”) – cap. 6
Stingo sferra il suo attacco sessuale all’ebrea Leslie, ma va praticamente in bianco… per colpa di Freud! – cap. 7
Il rapporto a tre (“habitué del Maple Court”) procede tra tenerezze (poche) e (tanti) scoppi d’ira (“Dice all’improvviso che ha mal di testa, proprio qui, alla nuca”). - cap. 8
Stingo ha modo di approfondire la tragedia delle persecuzioni naziste (“Uno dei punti che non riesco a capire – scrive Steiner - … è il rapporto temporale”: mentre si consuma una tragedia immane, altri trascorrono il tempo in occupazioni lievi e spensierate) attraverso i racconti di Sophie (“l’idea stessa della soluzione finale era sbocciata dai fecondi cervelli dei taumaturghi nazisti”), ove trapelano alcune bugie. Come quella sul padre… - cap. 9
Sophie rievoca il suo fallito tentativo di seduzione di Hoss (“il flusso di quella bizzarra grammatica nazista”) – cap. 10
I ricordi si fanno incalzanti: Cracovia, il papà ideologo polacco dell’antisemitismo, il tatuaggio (“il macabro tatuaggio blu scuro, la fila di numeri singolarmente precisi, un piccolo recinto di filo spinato di ordinatissime cifre dove il sette era tagliato dal meticoloso trattino europeo”) s’intrecciano al “patto suicida” tra Sophie e Nathan, stipulato in un week end sotto i fumi del nembutal e “la minaccia inequivocabile di quella capsula di cianuro”. La tossicodipendenza di Nathan è ormai conclamata (“prendeva una sostanza che si chiamava benzedrina… e anche la cocaina”) – cap. 11
A Varsavia Sophie ha un’amante e una cognata che lavorano nella resistenza. Nei racconti di Sophie, che già aveva rivelato di avere un figlio, Jan, compare per la prima volta Eva, la figlioletta che studia flauto… - (cap. 12)
Durante la prigionia, Sophie ordisce un inutile piano per rivedere il figlio Jan, recluso nel campo dei bambini. Le cicatrici ai polsi rivelano un fallito tentativo di suicidio nel campo profughi svedese – cap. 13
Nathan ritorna (“Nathan aveva riacquistato quel ruolo di incoraggiante figura fraterna, di mentore, di critico costruttivo…”) dopo l’ennesimo litigio e, ancora una volta, annuncia una sua importante scoperta nella ricerca biologica (“questi momenti di estasi… erano stati quasi sempre un chiarore che rendeva gli occhi ciechi all’imminente catastrofe”): ma Stingo riceve le confidenze del fratello medico, Larry, che rivela la malattia di Stingo. Sophie è ormai dedita all’alcolismo… - cap. 14

SPOILER: SOPHIE, MEDEA DEL XX SECOLO

Cap. 15
“Sono stata una terribile vigliacca, una sporca collaborazionista , … ho fatto tutto il male possibile per salvarmi”. Durante la terribile selezione (“mandato a sinistra e a Birkenau”) che decide la sorte dei deportati, Sophie viene posta di fronte a un terribile dilemma: “Puoi tenerti uno dei tuoi bambini… L’altro dovrà morire. Quale terrai?”
Paradossalmente, questo è considerato un privilegio concesso dal medico selezionatore: “Sei una polack, non una yid. E questo ti dà un privilegio, una possibilità di scelta”. Sophie veste i panni di tragica Medea contemporanea e, dopo aver opposto resistenza (“Non mi faccia scegliere… non posso”), consuma un crimine morale e fisico, esternando la sua preferenza genitoriale: “Si prenda la piccola!... Si prenda la mia bambina”. E compie “un peccato che non conosceva perdono”…

Cap. 16
Nathan è diventato violento e minaccia Sophie con la pistola. Stingo e Sophie fuggono verso la Virginia. Dopo una notte d’amore, lei scappa per tornare a Brooklyn, verso il suo destino…
Stingo, da sempre innamorato dell’infelice polacca, non se ne fa una ragione (“Non avrebbe mai potuto liberarsi dall’orrore che si era sentita costretta a rivelare”), neppure alla luce delle rivelazioni sull’altro figlio, Jan (“Chiesi a Sophie del suo bambino”), dalla sorte incerta (“i bambini di Lebensborn, subito cambiavano loro il nome, li trasformavano rapidamente in tedeschi…”)

CONCLUSIONE

Questo romanzo è una tragedia a tratti efficace e potente, in molti punti complicata dalla continua sovrapposizione di differenti piani temporali e piuttosto alterna nella costruzione: spesso si dilunga inutilmente (“la mia abilità enciclopedica di dilungarmi all’infinito su un argomento”, confessa a un certo punto l’autore), lo stile è ricco, talvolta ridondante; la narrazione indulge alla spettacolarizzazione, insiste negli eccessi tragici, sventra i misfatti vergognosi compiuti dalla follia umana – individuale e collettiva - e si abbandona a descrizioni esplicite di sesso sfrenato. Gli interrogativi esistenziali e storici che l’opera pone sono talmente complessi e arditi da far rabbrividire, come la scelta di affrontare il tema dell’odio razziale nelle sue svariate forme e direzioni, che si diramano dalla terribile equazione tra nazismo tedesco e campi di sterminio…

Bruno Elpis

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Consigliato a chi ha letto...
...altre opere che ho indicato nel percorso Medea:
1) Medea di Euripide
2) Medea di Seneca
3) Medea di Crista Wolf
4) La lunga notte di Medea di Corrado Alvaro
5) Nessuno sa di noi di Simona Sparaco
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Romanzi erotici
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    01 Settembre, 2014
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Uccellini?

“Uccellini” è una raccolta di tredici racconti piuttosto espliciti nei quali Anaïs Nin articola le diverse modalità ed espressioni dell’erotismo letterario in corrispondenti, proteiformi situazioni sessuali.

La parte decisamente più interessante – come peraltro si evince anche dalla quarta di copertina – è la prefazione: qui, la reginetta dell’eros rivendica il suo ruolo di maîtresse con un certo orgoglio (“Divenni quella che chiamerò la Madama di una insolita casa di prostituzione letteraria”) e, con commovente schiettezza, condensa la fenomenologia della sua scelta creativa (“La maggior parte dei racconti erotici furono scritti a stomaco vuoto. Ora, la fame è ottima per stimolare l’immaginazione; non produce potenza sessuale, e la potenza sessuale non produce avventure insolite”) nel più elementare dei bisogni primari: la sopravvivenza. A questo riguardo mi è venuto naturale praticare il sillogismo aristotelico:
- (Premessa maggiore) Anaïs Nin, nata a Parigi nel 1903, ritiene che la fame sia motore d’immaginazione.
- (Premessa minore) Sigmund Freud, negli stessi anni e a qualche centinaio di chilometri di distanza, teorizza la sublimazione della libido come fonte della creazione artistica: in pratica, la pulsione sessuale può essere, tipicamente nell’astinenza, incanalata verso forme espressive superiori.
- (Conclusione) Ergo l’inedia, che sia di natura artistica o sessuale, è alla base della produzione creativa…
Sarà, ma io – e in questo, forse, sono troppo edonista - quando ho fame penso a qualcosa di commestibile… E voi?
Dopo aver ricevuto l’ennesima prova di malfunzionamento della macchina logica di Aristotele (o, il che è lo stesso, dopo aver constatato che anche la proprietà transitiva può far cilecca), fame o non fame, nella conclusione della prefazione ho ammirato la miglior intuizione dell’intera operetta dell’ineguagliabile Anaïs (però, che bel nome!): “La vita sessuale di solito è avvolta in molti strati, per tutti noi – poeti, scrittori, artisti. È una donna velata, mezzo sognata.”

Il primo racconto, Uccellini, è un vero shock per la complicità dell’effetto novità che spesso gli incipit esercitano. Ne è protagonista un folle esibizionista (un pittore squattrinato e dunque, anche lui!, affamato), che francamente – se dobbiamo dire pane al pane – è un autentico pedofilo, perché “fantasticava su quello che sarebbe stata la sua vita in questo appartamento di fronte alla scuola femminile”… e non solo…
Superato il complicato impatto iniziale, mi sono via via ambientato. Così – completamente prevenuto e pronto ad aspettarmi di tutto - ho seguito le peripezie de “La donna sulle dune”, abile a soddisfare i piaceri di un uomo insonne (“Cominciò a pensare che in ogni villetta avvenisse qualcosa cui gli sarebbe piaciuto prendere parte”) che tra le dune si aggira più infoiato che stregato dal paesaggio, nonché di “Lina” (“E tutto questo desiderio, questa libidine, girano dentro di lei rimestando un veleno di gelosia e invidia”), lambiccata protagonista del terzo racconto, e via via di tutti gli altri personaggi dai più svariati gusti e preferenze…

Se posso dire, dopo lo smarrimento iniziale mi sono acclimatato così bene che questo libercolo mi è venuto a noia nel corso della lettura. Come sempre accade con il perdurare delle situazioni. Che siano di qualsiasi stampo, sessuali e non.

Bruno Elpis

P.S.: La prima tappa del percorso “eros” viene illustrata a www.brunoelpis.it con uccelli di ogni tipo…

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Lettura consigliata
  • no
Consigliato a chi ha letto...
Consigliato a chi ha letto: le cinquanta sfumature del grigio, del rosso e del nero. Per aggiungerne altre tredici e per farne un confronto diacronico, essendo trascorso oltre un secolo dalla nascita dell’autrice… Nihil sub sole novi?
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    26 Agosto, 2014
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Nebbia in Val Padana

Siamo a Boscobasso (“Un buco di duemila anime in riva al Po”), nel cremonese, un immaginario borgo del quale il romanzo fornisce puntigliosamente una piantina topografica che servirà al lettore per meglio seguire le evoluzioni paesane degli irrequieti protagonisti.

Il liutaio Antonio Arcari, facoltoso cardiopatico, viene ritrovato senza vita alla stazione del borgo. Niente di strano, direte voi… Sì, non fosse che la morte coglie il seguace di Stradivari con le braghe calate, in evidente stato “post coitum” consumato con una delle “belle di notte” che praticano la professione più antica del mondo proprio lì, vicino alla strada ferrata…
La bella e procace moglie (pardon! La vedova!) - quella Edwige Dalmasso sempre pronta a far cadere una spallina della veste o ad aprire dolosamente la vestaglia per lasciar rifulgere il promettente décolleté per attizzare i maschi che la presidiano – non è particolarmente interessata ad approfondire circostanze e cause della morte dell’ex consorte, mentre è molto attenta a organizzare una cerimonia funebre che sia all’altezza della rappresentatività sociale che la ex coppia ha rivestito. Per questo Edwige attiva il Bigio (“quel becchino segaligno dallo sguardo obliquo”), per questo la femme fatale tiene sulla corda il carabiniere Nitto Bellomo, del quale possiede in ostaggio… “Il cappello del maresciallo” del titolo (“Se ne andò dimenticando il suo cappello sulla poltrona di pelle nera”)!

In una girandola di personaggi caricaturali degni di un Andrea Vitali in stato di grazia, Marco Ghizzoni regala tanti sorrisi in una storia che è a metà strada tra la farsa, la sagra paesana (“Se ne andò… con una sporta di mortadella e salame cremonese all’aglio… prosciutto cotto e coppa”) e la pantomima: una vicenda nella quale la dimensione “gialla” è tenue e rischierebbe di essere dimenticata, se non fosse per un solerte appuntato che placherà la curiosità dei lettori più esigenti, tra personaggi che non disdegnano di trafugare salme dal cimitero e ricercare teste sugli argini del Po, nella nebbia della Valpadana…

Lo stile narrativo è lieve, strettamente imparentato con la lingua parlata; i capitoli si susseguono veloci, sempre troncati da rapidi “cliffhanger” (“Il cliffhanger è un espediente narrativo usato in letteratura, nel cinema, nelle serie televisive e in altre forme di fiction, in cui la narrazione si conclude con un’interruzione brusca in corrispondenza di un colpo di scena o di un altro momento culminante caratterizzato da una forte suspense”).
Consigliato… per un divertimento assicurato (ops, la rima!)

Bruno Elpis

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... i romanzi di Andrea Vitali...
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    25 Agosto, 2014
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Scala a chiocciola con sorpresa

Grazie a “Cambio gomme” di S.M. May il mio percorso di lettura intitolato “scala a chiocciola” sfida anche la spirale della scala a chiocciola di un’officina meccanica (“… La zona uffici… si trovava su un soppalco. Lara s’incamminò verso una scala a chiocciola che portava in alto…”): siamo in Canada, a Edmonton nell’Alberta, e colei che sale i pioli è Lara Haralds feat. Lara Hearts (“La sua non solidissima carriera di editor – ghost writer – aspirante scrittrice di romance”), che è rimasta in panne con l’auto e, grazie a questo inconveniente, conosce Nathan Cleni (“Decisamente un meccanico che non passava inosservato. Se ti piaceva il tipo alto, solidamente massiccio e sfiziosamente sfregiato”) e Kean Morgan (“No, è qui solo per un cambio gomme”), aristocratico rampollo dell’industria farmaceutica locale.

La scala a chiocciola e l’affascinante Nathan riservano all’aspirante scrittrice una sorpresa (“Lui l’aveva salutata dall’alto della scala a chiocciola come un principe dalla torre”) grossa come una casa e doppiamente gradita a Lara. Primo perché lei si deve cimentare in un romanzo “man to man, il nuovo trend letterario del momento” ed è in cerca d’ispirazione. Secondo perché l’inaspettata visione di un amplesso “particolare” le scombina i sensi: “Spiare due estranei, e per di più due uomini… Sapeva che non era paura o imbarazzo, bensì pura. Spontanea. Incontrollabile. Eccitazione.”

La storia procede sussultando (“Nathan Cleni… l’aveva biecamente usata per far ingelosire e colpire il suo amante…”) e divertendo (“Aveva appena gettato disgustosi sospetti sulla reputazione di un gay dichiarato e felice”), anche perché Lara nasconde ai due nuovi amici l’obiettivo iniziale: pubblicare un romanzo che, quando vedrà la luce, sarà un successo scoppiettante al botteghino, ma rischierà di minare l’amicizia e gli equilibri dinastici dei facoltosi Morgan…

Senza svelare altri particolari di un romanzo breve che procede per paragrafi con nomenclatura in negativo (come “Bozze che non piacciono” – “Corpi che non si incastrano” – “Numeri che non si abbinano”), dirò che il testo si divide idealmente in due parti: la prima, nella quale S.M. May con grazia, allusività (“Cambio gomme, aggiustamento cuore, o semplicemente tentativo di revisione di un corpo perfetto, quello di Kean…”) e ironia acuta squaderna una storia d’amore che - dal gay romance - strizza l’occhio ai cowboy di Brokeback Mountain e ai giovani atleti de “La statua di sale” di Gore Vidal, scegliendo – proprio come in quelle opere dal contenuto potentemente drammatico - protagonisti molto avvenenti e socialmente integrati.
Nella seconda parte il discorso si fa più serio e affronta in chiave concettuale, ma sempre romanzata, i risvolti socio-familiari di una storia d’amore con tanto di decalogo (“Cos’è per me un compagno? … 8. Una persona… che puoi abbracciare, baciare, accarezzare, sfiorare senza un vero motivo, solo perché ti senti felice nel farlo, e senza che ti venga comunque chiesto, in cambio, un perché.”). Qui la narrazione viene idealizzata nell’ambientazione canadese (forse là, nell’estremo nord americano, la mentalità è davvero quella immaginata dalla May) ove i pregiudizi sembrano esistere in minima parte…

Bruno Elpis

Cinque domande a S.M. May

B - S.M. sta per… Ci dici qual è il tuo nome? Dunque, dopo le “Nuvole”, un’altra storia “man to man”… Questa riconferma è adesione a un genere?
S.M. - No, non mi ritengo rinchiusa in un genere. Direi che questo romanzo è soprattutto una storia d’amore e quindi rientra nel ben più ampio mondo del romance. E’ un mondo che amo e che mi piace raccontare, a prescindere che poi le coppie siano etero o m/m o f/f, ecc.

B. - Con il tuo “romance” preferisci catturare l’interesse di un pubblico femminile sempre in cerca di nuove emozioni, dare una sferzata all’omofobia o provocare la reazione di eterosessuali che impallidiscono di fronte alla tartaruga della cover?
S.M. - L’unica reazione che vorrei provocare è affezionarsi e simpatizzare con i miei personaggi, con un pizzico d’ironia. Se poi riesco anche a scuotere qualche pregiudizio e a minare una visione del mondo ingiustamente sorda/cieca di fronte a realtà innegabili, ben venga.

B. - Quanto ha trasfuso di sé S.M. May in Lara Haralds? Nei ringraziamenti finali smentisci che tra scrittrice e personaggio-fiction vi sia identità, ma non mi hai convinto…
S.M. - Se lo sono chiesto in tanti, però io non ho ancora scritto un best-seller come Lara Haralds/Hearts!
A parte gli scherzi, ci accomuna sicuramente una certa visione rosa del mondo, una certa ingenuità e la capacità di provocare involontariamente scenette imbarazzanti.

B. - Nelle due righe di presentazione dell’autrice è condensato un universo femminile (di madre, moglie, amica, scrittrice, lettrice, blogger…) che lascia intuire la ricchezza di una vita intensa… Come fai a conciliare questo attivismo con gli impegni familiari e con la tua vita interiore?
S.M. - L’attivismo mi è necessario come l’ossigeno! Sono una persona che, se lasciata sola e in balia di se stessa, tende al pessimismo e alla malinconia. Per cui ho bisogno di correre continuamente, di sfidarmi, di osare. Così evito di pensare alle cose brutte (e ce ne sono).

B. - Bene, è giunto il momento di gettare la maschera e urlare al mondo che S.M. May è lo pseudonimo di… O preferisci fare come Lara e continuare a trincerarti dietro a una griffe di fantasia?
S.M. - In realtà non c’è tutto questo mistero. S.M. è davvero il mio nome e May è il mio mese di nascita. Quindi S.M. May sono proprio io!

Ringrazio S.M. May per la simpatia con la quale ha soddisfatto le mie curiosità di lettore. Ciao carissima!

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... le altre opere del percorso "la scala a chiocciola". E, naturalmente, consigliato agli amanti del romance!
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Poesia straniera
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    21 Agosto, 2014
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Torri e scale nella terra dei bardi

L’irlandese William Butler Yeats (Premio Nobel per la letteratura nel 1923) è considerato uno dei più grandi poeti del ‘900. “La scala a chiocciola”, pubblicata nel 1932, è opera della maturità che idealmente si ricollega alla precedente raccolta (“La torre” del 1928) attraverso la simbologia prescelta e il dittico virtuale formato da “Navigando verso Bisanzio” e “Bisanzio”.
Yeats, che fu studioso e praticante di scienze occulte, nella sua poesia utilizza il simbolo come strumento concreto per i costrutti ritmici; come lo stesso Yeats dichiarò, la scala a chiocciola rappresenta la spirale filosofica che bisogna percorrere per raggiungere - alla sommità della torre - i livelli finali di solitudine, sofferenza e magia: “In questo libro e altrove ho usato le torri, e una torre in particolare, come simbolo e ho paragonato la loro scala a chiocciola alle spirali filosofiche, ma è quasi superfluo interpretare quello che deriva dal percorso principale del pensiero e dell’espressione. Shelley usa costantemente il simbolo della torre e vi sono spirali in Swedenborg, in San Tommaso d’Aquino e in alcuni scrittori classici”.
Alla stregua di Joyce e della cultura coeva, Yeats ha una concezione del tempo circolare e spiraliforme, rifiuta cioè i modelli positivisti e ottocenteschi del progresso e del tempo lineare e unidirezionale.
Anche in questa raccolta, come ne “La torre”, Yeats si fonda sulla “scrittura automatica” (“La scrittura automatica è il processo di scrittura di frasi che non arrivano dal pensiero cosciente dello scrittore. Può avvenire in stato di trance, oppure in maniera cosciente ma senza la consapevolezza di quello che si sta scrivendo.” “La scrittura automatica è stata usata come metodologia artistico-letteraria da alcune correnti letterarie, in particolare dal surrealismo che, facendo riferimento proprio alla psicoanalisi, voleva ridurre ogni frapposizione censoria di tipo razionalistico tra l'artista e la creatività scaturente dall'inconscio”).
La particolarità più suggestiva di Yeats è il ricorso a forme dialogiche, che consentono all’io poetico di rivolgersi a personaggi presenti o assenti, agli spiriti dei morti o a se stessi (“Dialogo tra il sé e l’anima”), magari utilizzando la voce bardica – spirito corale e collettivo – per incidere sulla cultura irlandese.

Bruno Elpis

_______________________________________________

Propongo qui una mia personale selezione di versi e poesie.

“Dialogo tra il sé e l’anima”

Io convoco all’antica scala a chiocciola;
concentra la tua mente sulla ripida ascesa,
sui merli rotti e sgretolati,
sull’aria stellata e senza un alito…”

_____________________________

“Il sangue e la luna”

I
Sia benedetto questo luogo,
più benedetta ancora questa torre;
un potere arrogante e sanguinario
sorse dalla stirpe
esprimendola, dominandola…
(…)
II
Quella d’Alessandria era un faro, quella di Babilonia
un’immagine dei cieli in movimento, un giornale di bordo
del viaggio del sole e della luna;
e Shelley aveva le sue torri, che una volta chiamò potenze
incoronate del pensiero.

Io dichiaro che questa torre è mio simbolo; dichiaro
che questo vortice di scala, mulinante, ossessiva, che
s’inerpica a spire, è la mia scala ancestrale
(…)
III
La purezza della luna senza nubi
Ha dardeggiato i raggi sul pavimento.
Sette secoli sono passati ed è pura,

Odore di sangue sulla scala ancestrale!
….
IV
Si aggrappano ai vetri polverosi e luccicanti,
e sembrano aggrappate al cielo luminoso di luna,
vanesse tartaruga, vanesse pavone;
una coppia di falene svolazza…
_______________________________

“Olio e sangue”

In tombe d’oro e lapislazzuli
Corpi di santi e di sante trasudano
Oli miracolosi, profumo di viola.

Ma sotto gravi carichi d’argilla calpestata
Giacciono corpi di vampiri gonfi di sangue;
i loro sudari insanguinati, le loro labbra bagnate.

________________________________

“Il velo della Veronica”

Il Circuito Celeste; la Chioma di Berenice;
il palo della tenda dell’eden; i drappi della tenda;
splendore simbolico dell’aria e della terra!
Il Padre e la gerarchia dei Suoi angeli
Che lì formavano lo splendore e la grandezza
Stavano nel circuito della cruna d’un ago.
Qualcuno trovò un altro palo, e lì dov’era,
una figura su un velo inzuppato nel sangue.

____________________________________

“Simboli”

Un’antica torre di guardia percossa dai venti,
un eremita cieco che suona le ore.

La lama d’una spada distruttrice
Tuttora in mano all’errabondo folle

Seta trapunta d’oro sulla lama,
la bellezza ed il folle stesi insieme.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
... una qualsiasi delle altre tappe del percorso sulla scala a chiocciola (ma anche non):
1) “La scala a chiocciola” di Mary Roberts Rinehart.
2) "Ali" di Yukio Mishima, “Ali”, una vera chicca per gli appassionati, che potranno fruirne la lettura gratuitamente disponibile a questo link.
3) “La scala a chiocciola” di Ethel Lina White

Il prossimo percorso sarà dedicato all'Eros, con incursioni in Anais Nin e Francoise Sagan. E altri autori..
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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    20 Agosto, 2014
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L’immensità di Virginia nel preludio al suicidio

“Tra un atto e l’altro”, l’ultima opera di Virginia Woolf, è una lettura tanto difficile quanto suggestiva.
Si svolge in zona metafisica (“Erano lontani dal mare. Cento miglia… no, forse centocinquanta”) ricca di eco e presenze anche intangibili (“Sentivano i morti che rotolavano le bocche. Vedevano una dama bianca che passeggiava sotto gli alberi”).
Ha per teatro il più domestico e paesano degli ambienti, una casa. “Questa casa biancastra dal tetto grigio e l’ala sporgente ad angolo retto, infelicemente situata nell’avvallamento del prato con una frangia d’alberi sul pendio sovrastante così che il fumo volteggiava fino ai nidi delle cornacchie, era una casa gradevole da abitarci”.
I personaggi - “i cui nomi, come il loro, erano nel Domesday Book” - appartengono a “vecchie famiglie tutte imparentate fra di loro, i cui morti giacevano intrecciati come le radici dell’edera, sotto il muro del cimitero”.
Lo spettacolo ha il proprio rito (“Ho inchiodato l’insegna sul fienile”) in una ricorrenza ciclica (“Ogni estate, da sette estati ormai, Isa aveva udito le stesse parole”) che aleggia nella sospensione narrativa (“Se pioveva, sarebbe stata nel fienile; se era bel tempo sulla terrazza”).
“Ma la trama era importante?”
Più che la rappresentazione, pressoché inaccessibile, dominano gli spettatori: “Erano tutti catturati e ingabbiati; prigionieri, spettatori di una recita. Non accadeva nulla.”

Disseminati qua e là, i presagi dell’imminente suicidio per annegamento dell’autrice.
“C’erano sempre state delle ninfee, lì, nate spontaneamente, dai semi gettati dal vento, che galleggiavano rosse e bianche sui verdi vassoi delle foglie”
Tra sinistri auspici: “Che mi ricoprano le acque… le acque del pozzo dei desideri…”
In una tensione anticipatrice nell’imminenza del secondo conflitto mondiale: “il resto dell’Europa… laggiù… si era fatto ispido come…”

Lo stile di Virginia Woolf è potentissimo, multidirezionale, simbolico e angoscioso: “Là, appiattito sull’erba, acciambellato in un anello verde oliva c’era un serpente. Morto? No, soffocato, con un rospo in bocca. Il serpente era incapace d’inghiottire, il rospo era incapace di morire. Uno spasmo gli contraeva le squame; colava sangue. Era un parto alla rovescia – una mostruosa inversione. Così, alzando il piede, li schiacciò…. La tela bianca delle scarpe da tennis divenne rossa di sangue e vischiosa.”
Trasuda un disperato amore per la cultura: “Libri: la tesaurizzata linfa vitale degli spiriti immortali. Poeti; i legislatori del genere umano”.
Non si risolve in una formula, quand’anche interrogativa: “A che gioco gioca? Rompitutto? Tira e molla? Botte e baci? Sbircia e controlla? Guarda e taci?”

A chi desideri accostarsi a quest’opera con maggior cognizione di causa, e non tema di rovinarsi la sorpresa di una lettura tanto sorprendente quanto ostica, consiglio di anticipare la lettura della postfazione di Franco Cordelli (segnatamente dalla pagina 189): consente di meglio orientarsi in una poetica sofisticata e poliedrica, nella quale “il riflesso si determina… per frammenti, scorie, residui… una parzialità che diventa metafisica… quanto più aumenta l’esigenza di una ricomposizione, di un’intangibile, epifanica unicità.”
Io non l’ho fatto, e nel più bieco e autoreferenziale solipsismo mi sono gustato “una vicenda che pare scritta senza intervento dell’autore, magmatica come la vita usuale: non comica, non tragica, senza intreccio amoroso, senza catastrofe…”, arrendendomi al suono silenzioso delle parole di Virginia Wolf nel ritmo tumultuoso della risacca in un giorno d’agosto.

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Quest'opera è rigorosamente indicata a chi apprezza Joyce e, naturalmente... Virginia Woolf
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    11 Agosto, 2014
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Corno… d’Africa!

Questa volta, a bordo di quella formidabile e infallibile macchina del tempo che è… un libro! (l'unica macchina del tempo della quale personalmente dispongo), con “Albergo Italia” Carlo Lucarelli ci proietta nel corno d’Africa, ai tempi dell’italico colonialismo.
Non si è ancora spenta l’eco della sanguinosa battaglia di Adua e ad Asmara si celebra una novità: è infatti “il giorno giusto per inaugurare il nuovo albergo, il più grande, il più moderno, il più elegante – e ancora l’unico – della nuova Asmara”.
Dovrebbe essere un innocuo evento mondano. E invece l’inaugurazione si trasforma in un caso poliziesco perché in una delle camere viene ritrovato “un uomo nudo appeso per il collo alla ventola del soffitto”: “Farandola Antonio… professione tipografo”.
Un banale caso di suicidio per debiti di gioco?
Nossignori, perché “quel suicidio era sembrato strano fin dall’inizio”…
Insieme al capitano Colaprico indaga il carabiniere etiope Ogbà (“Sa come lo chiamo? Lo Sherlock Holmes abissino”), una macchietta di colore che ben conosce la mentalità italiana e ne previene pregiudizi e meccanismi.
L’architettura del misfatto è piuttosto complicata ed è preceduta da uno strano furto (“I ladri mandano una donna a distrarre la guardia e forzano la porta della casermetta... si portano via la cassaforte su una barella fatta con le assi…”) che getta coni d’ombra sul furiere Mariano Russo (come da “relazione su quello che era successo da spedire in Italia assieme al furiere”), un sinistro incrocio tra un raccomandato e un corrotto.
Come nei gialli di Agatha Christie, l’assassino del tipografo torinese andrà ricercato tra gli ospiti dell’albergo, ai quali viene prontamente revocato il permesso di abbandonare il luogo del delitto.
Nel nuovo romanzo di Lucarelli l’ambientazione eritrea è realistica (“le tettoie di paglia intrecciata del mercato del kanan, dove le donne vendono le spezie…”), il plot evocativo dell’aggressione italiana in Abissina (“Ha mai sentito parlare dello scandalo della Banca Romana?”) e i termini in lingua tigrigna creano immedesimazione nella geografia del romanzo…

Bruno Elpis

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... Lucarelli, Camilleri, Lucarelli & Camilleri
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    07 Agosto, 2014
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La punta dell’iceberg

Boston. Sandra (“La signora Jones è giovane, bella e bianca, vero?”) e Jason Jones formano con la figlia Clarissa, detta Ree, una famiglia apparentemente “normale” (“Che fosse tutto… adeguato. Né troppo sporco né troppo pulito. Né troppo in disordine, né troppo organizzato. Un equilibrio perfetto, assoluto”). Ma la normalità è soltanto la punta dell’iceberg, perché i due coniugi hanno un passato burrascoso, che reclama di essere bonificato e sistemato. In realtà i due sposi sono dediti a occupazioni discutibili: lei consuma tradimenti molto fisici, lui – cronista - trascorre ore e ore al computer avendo cura di cancellare la cronologia dei siti frequentati…
La “normalità” familiare esplode (o implode?) quando Sandra – “La vicina” di Lisa Gardner - scompare in circostanze misteriose. Jason non collabora con la polizia: la sua reticenza e l’apparente indifferenza (“Troppo calmo e distaccato, quello. Fa il cronista a tempo perso, è seduto su quattro milioni di dollari e secondo la sua stessa figlia è privo di amici. Come diavolo fa?”) ostacolano le indagini condotte dal sergente D.D. Warren, insospettita dalla totale assenza di collaborazione.
A sparigliare le carte (“Gli inquirenti cominciano dalle persone più vicine, e tu diventi il primo probabile indiziato”) intervengono il vicino Aidan Brewster, già reo di violenza sessuale ai danni di una minorenne (“Be’, c’è un condannato per violenza sessuale proprio in fondo alla strada”), Ethan Hastings, allievo nerd innamorato della maestra Sandra, e Wayne Reynolds, zio di Ethan ed esperto informatico della polizia di stato.
La narrazione mette in evidenza la stranezza (“Niente accordi prematrimoniali? Con tutti i soldi che avete in banca?” “I soldi vengono da un’eredità… Quattro milioni…”) di un rapporto coniugale non consumato – un matrimonio praticamente “bianco” - ove l’amore della figlioletta non sembra bastare: “D.D. pensò che Clarissa Jones amava entrambi i genitori. E si domandò… perché a tanti genitori l’amore incondizionato dei figli proprio non bastasse”.
Ho trovato molto interessanti gli aspetti psicologici del thriller e il capitolo che descrive l’interrogatorio protetto e assistito della figlioletta: “Ree era stata l’ultima a vedere Sandy da viva… Ree era la chiave dell’enigma”. Mi hanno un po’ annoiato i tecnicismi informatici, filone ormai troppo saccheggiato nei thriller odierni (“Un computer è come una coscienza sporca, dico sempre io”). Anche perché la soluzione – alla resa dei conti – è sempre “il rasoio di Occam. La spiegazione più semplice di solito è quella giusta”…

Bruno Elpis

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... i thriller di Wulf Dorn
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Racconti
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    03 Agosto, 2014
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Dedicato

La raccolta viene proposta come “antologia del mistero, del grottesco e della follia”.
Andrea G. Pinketts nella prefazione ricorre all’immagine di “perle predisposte a diventare girocollo e ruota panoramica da Luna Park”, asserendo che “se scrivi di cuore hai un fine, non una fine”.
Le ragioni del mio entusiasmo per quest’opera – entusiasmo che motiva i voti attribuiti – sono vari: la finalità benefica (il ricavato sarà devoluto al progetto “Mettici il cuore” dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma) e la mia partecipazione con un racconto che, considerato il tema, voglio dedicare ai q-amici che con me condividono la passione per la lettura...
Questo è il link dell’opera http://www.galaadedizioni.com/dritto-al-cuore/, che contiene anche un racconto di Carlo Lucarelli.

LA STRAGE

Varcai la soglia con il desiderio insano di fare razzia.
Il profumo del luogo mi assalì ed ebbe lo stesso effetto che l’odore aspro del sangue esercita sullo squalo affamato.
Posai una mano sulla tasca interna della giacca. Mi rassicurò l’oggetto solido che si offrì al tatto. Era garanzia di riuscita, premessa necessaria per il buon esito dell’incursione.
Mi aggirai in corridoi e cunicoli, tra pareti verticali che parevano totem variopinti.
Accarezzai i bersagli potenziali. Li toccai tutti con voluttà sfrenata. Avrei potuto sentirmi soddisfatto soltanto possedendo le suadenti forme che stimolavano ogni senso.
Ammirai la bellezza cromatica di un mosaico di immagini.
Presenze e corpi, effigi e rappresentazioni sfilavano dinnanzi, inebriandomi.
La prepotente voglia di compiere la strage esigeva sfogo immediato. A nulla valse la musica che la filodiffusione irradiò nell’aria satura di aromi emanati dalle vittime. Le parole d’amore della canzone più in voga non placarono l’istinto, né ammansirono il mio spirito ruggente, disposto a tutto.

Il loro numero aumentava di minuto in minuto.
Li avevo individuati e selezionati accuratamente.
Perentorio, li avevo costretti a seguirmi.
Li avevo fatti miei con un unico, minaccioso gesto.

Quando conclusi la spedizione, mentre fuggivo dal luogo di perdizione, la sirena dell’allarme dispiegò un lancinante suono che prevalse su ogni vocio e ruppe l’incanto.
Ma fu l’occasione per ammirare nuovamente il fascino delle mie prede.
All’ingresso della libreria, con la fierezza del serial killer, mostrai all’addetto della sicurezza ciascuno dei venti libri che avevo acquistato.
Senza la minima ombra di rimorso, ancora una volta, avevo dato sfogo alla mia passione compulsiva: acquistare libri che in pochi giorni avrei divorato con l’appetito del cannibale…

Bruno Elpis

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Arte e Spettacolo
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    01 Agosto, 2014
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“Maestra di delitti”

Nella tragedia in cinque atti Lucio Anneo Seneca dipinge la sua versione di Medea che risente del personale punto di vista dell’umanista e filosofo latino: quello dello stoico (“Le grandi ferite, chi può restituirle? Chi le sopporta in silenzio, con animo fermo”) che condanna senza appello chi agisce lasciandosi dominare dalle passioni (“Frena la tua furia. Come una Menade…. Con gesti selvaggi, mostrando in volto i segni di un furore delirante. Il suo viso è in fiamme, il respiro affannoso… Il suo furore trabocca…”).
La tragedia si svolge tra Medea e il coro, nei dialoghi in successione con la nutrice, Creonte e Giasone. Nell’atto finale Seneca utilizza la rappresentazione scenica dell’infanticidio, mentre nella tragedia greca classica questo evento viene narrato in modo indiretto.

Già nel prologo Medea viene raffigurata non come vittima tradita e abbandonata, bensì come maga evocatrice di forze maligne (“Ora dovete venire, dee vendicatrici dei delitti, Furie…”), sospinta dal desiderio di compiere una tremenda vendetta (“La morte, date la morte”) nella scia di morte della quale è dispensatrice (“La casa che hai avuto col delitto, col delitto devi abbandonarla”) fin dalla sua fuga dalla Colchide (“Lui che mi ha strappato al padre, alla patria, al trono, ora mi abbandona in terra straniera? Ciò che ho fatto per lui, quel crimine che gli consentì di vincere il mare e le fiamme, l’ha dunque dimenticato quel crudele?”).

Il profilo della strega (“La sua perfidia, le sue arti, chi non le conosce”) si delinea anche nel colloquio con il re Creonte, che oppone a lei una nuova declinazione di Giasone (“Il sangue non ha contaminato la sua innocenza… è rimasto puro lui… Tu macchinatrice dei peggiori crimini… vattene, purifica il mio regno…”).

La realizzazione del progetto di vendetta (“Rovescerò tutto, io, distruggerò”) è ormai inevitabile (“Avrò pace, io, soltanto se vedrò ogni cosa travolta insieme a me. Crolli tutto con me!”) e Seneca dimentica la tragedia di Euripide, nella quale Giasone è convinto delle sue azioni e disprezza Medea supplice, per contrapporre alla perversione della donna un eroe angosciato, preoccupato per la sorte dei figli (“Tanto li ama i suoi figli? Bene, lo tengo in pugno, ho trovato il punto vulnerabile”) e interprete della filosofia del tragediografo (“Frena il tuo cuore ardente, cerca di dominarlo. La calma addolcisce le sventure”).

La scena più potente è forse quella nella quale Medea trasforma i figli in strumento di morte (“Portino i miei figli questi doni alla sposa, ma bagnati, prima e impregnati di crudeli veleni”), ricorrendo alle arti malefiche (“Ogni mostro è invocato da Medea…. Evocati tutti i serpenti si dà a raccogliere in un mucchio i veleni delle piante letali…”), memore di mitologie di veleni (Nesso, il sangue dell’Idra e il fiele di Medusa) e di fuoco (Prometeo e Vulcano).

Il finale è crudelissimo: ormai Medea si aggira “come tigre del Gange”. Indemoniata (“Anche se li uccido tutti e due, è poco per il mio odio”), sceglie un supplizio lento e progressivo per esasperare la pena di Giasone, che anche di fronte alla magia (“Io sarò trasportata per l’aria da questo carro alato”) cerca di conservare la sua razionalità (“Sarai la prova vivente, dovunque arriverai, che gli dei non esistono”).

Bruno Elpis

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Medea di Euripide
Medea - Voci di Christa Wolf
La lunga notte di Medea di Corrado Alvaro
Nessuno sa di noi di Simona Sparaco
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    29 Luglio, 2014
Top 10 opinionisti  -  

Ricetta per cucinare un giallo classico

A quanto pare, Ethel Lina White non ha eredi, se Mondadori dichiara in apertura de “La scala a chiocciola” (reperito usato su Amazon) un’avvertenza : “L’editore ha ricercato con ogni mezzo i titolari dei diritti di edizione e traduzione senza riuscire a reperirli”.

L’opera ha ispirato l’omonimo film di tensione del 1946 diretto da Robert Siodmak e si candida a incarnare tutti i canoni del thriller classico. Al punto che, dopo averlo letto e prendendolo a paradigma, mi sento di formulare la seguente ricetta.

1) Scegliete un luogo isolato (“Summit si ergeva in un angolo remoto, nel punto d’incontro tra tre contee, al confine tra l’Inghilterra e il Galles”), preferibilmente minaccioso nell’aspetto (“Summit era un alto edificio di pietra grigia in stile tardo-vittoriano, inspiegabilmente stonato tra quella natura selvaggia”).

2) Dotate il luogo medesimo di una pessima nomea (“Sì, trovare delle cameriere che rimanessero ha creato sempre dei problemi. Il posto è troppo isolato, tanto per cominciare, e poi si è subito fatto una cattiva reputazione”) mitizzandone la fama con antefatti sanguinosi (“… hanno trovato una cameriera annegata bel pozzo”; “Poi c’è stato l’omicidio… Una sguattera, poveraccia, trovata cadavere in casa con la gola tagliata da un orecchio all’altro”).

3) Imbastite la ripresa dei delitti (“…gli omicidi. Erano stati quattro, sicuramente opera di un maniaco che sceglieva come vittime delle ragazze”) ventilando un filo conduttore tra gli stessi (“Non avete notato che l’assassino sceglie come sue vittime solo ragazze che si guadagnano da vivere?”).

4) A questo punto i tempi sono maturi per modellare la vittima ideale: Helen, ragazza alla pari: “Le piaceva l’idea di essere quotidianamente a contatto con due scapoli e un vedovo… Quei poveri vittoriani, che in ogni uomo vedevano un potenziale marito, di sicuro avrebbero trovato molteplici spunti di interesse per i loro romanzi”

5) Rinchiudete la vittima designata nel luogo chiuso e isolato con un numero – anch’esso chiuso - di persone, alcune delle quali visibilmente candidate a recitare il ruolo dell’assassino. Come la vecchia Lady Warren (“Il suo sorriso era quello di un coccodrillo che attende la preda e non la manca mai”), che si finge inferma ma è dotata di rivoltella e di ottima mira. O l’infermiera “odiosa come pochi” e mascolina (“Se quella è una signora, io sono Greta Garbo”) al punto che potrebbe avere la forza di strangolare le malcapitate di turno.

6) Adesso potete dare il via al count down: “In questa casa c’erano nove persone. Ne sono rimaste due… Significa che ormai lui è a un passo da voi”.

7) Per rendere il tutto più efficace, create un’adeguata atmosfera: un temporale fragoroso, rumori sinistri, ombre di rami stampate sulle finestre, il divieto di aprire a chicchesia…

8) Mi stavo dimenticando gli ingredienti essenziali: elementi architettonici gotici, come la scala a chiocciola del titolo (“Una spirale di ripidi gradini interrotta, a ogni piano, da un minuscolo pianerottolo sul quale si apriva la porta che dava sulla scala principale”) e un interrato-labirinto (“Nel corridoio delle cantine… lo chiamiamo il sentiero della morte”) ove si trovano dispensa, deposito degli attrezzi, magazzino, ripostiglio per stivali e altre stanze di servizio. “… In un passaggio più stretto e buio c’erano i locali adibiti a deposito di legna e di carbone”. Chi più ne ha, più ne metta!

9) Naturalmente poi ci dovrà essere il coup de théatre finale: l’assassino dovrà essere lui/lei… incredibile!

10) E infine lo stile: sarà classicheggiante (“La mente di una persona giovane è mobile come il re nel gioco degli scacchi: può sempre spostarsi in avanti dopo aver fatto un balzo indietro”), allusivo (“Ma continuò a tenere la testa alta, come se stesse andando al patibolo sorretta dal favore del popolo”) e velenoso al tempo stesso (“Aveva sentito parlare di una teoria secondo la quale la paura dei serpenti produce nell’organismo umano dell’acido formico che attira i rettili verso le vittime e, al tempo stesso, li eccita”).

Io, questo romanzo, l’ho trovato adorabile.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    28 Luglio, 2014
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La torbida anarchia

“Una stanza chiusa a chiave” è un’opera nella quale Yukio Mishima riporta un’inquietudine multipla: per l’evoluzione storica del Giappone post bellico (“Era il 10 febbraio 1948”), per il disagio esistenziale, per il senso di solitudine e di morte spirituale dell’individuo (“Kazuo era solo, tentava di contrastare l’anarchia del mondo esterno, di purificare la confusione del proprio animo per identificarsi soltanto con essa”).

Per rappresentare il dramma soggettivo in quello collettivo Mishima assume i contrasti interiori di Kazuo, funzionario statale, che – dopo aver conosciuto, frequentato e amato una donna (“Al termine della notte Kiriko era morta”) – ne frequenta la figlia Fusako: una bambina di nove anni, involontariamente maliziosa e provocatoria, nei confronti della quale il giovane prova un sentimento contrastato (“Una camera chiusa a chiave… L’idea lo fece sussultare di paura e di voluttà”) con impulsi illeciti (“Chissà perché il corpo di una bambina suscita il desiderio di profanarla con atti terribilmente impuri”) e pericolosi (“Era ossessionato dalla carne della bambina. Da quella carne acerba, color pesca, delicata… una bambina. Che però possiede cuore, sangue e viscere”). Alla sorte di questa frequentazione, Kazuo fa corrispondere l’esito del dramma storico e sociale (“una tenera carne che desiderava essere profanata. Se l’avesse penetrata il mondo si sarebbe mostrato ai suoi occhi in un più ampio orizzonte. Oppure avrebbe potuto isolarsi, solitario, nell’anarchia”), mentre l’insana pulsione trova eco nelle inflessioni sadiche che animano i racconti degli avventori di locali “particolari” (“Sognò di nuovo il bar dei giuramenti”).

Il contesto storico-sociale è dominato dall’insoddisfazione (“Gli scioperi si moltiplicavano”), dall’incertezza politica (“Il governo era debole”) e internazionale (“Sui giornali Kazuo leggeva spesso una nuova espressione: guerra fredda”), dalla crisi economica (“La catastrofe dell’inflazione e della rivoluzione si sarebbe dunque consumata”) che il governo crede di contrastare con misure inadeguate (“disegnare un nuovo manifesto di propaganda per il risparmio”). Perché il Giappone vive una “doppia disgrazia o, come si suol dire, una puntura d’ape su un volto che piange”.

Lo sbocco? Sul piano esistenziale si profila il suicidio (“Capiva che sarebbe stata una pura illusione supporre che il mondo sarebbe crollato”), sul piano generale sembra non esservi soluzione (“Il mondo era semplicemente a pezzi”), sul piano narrativo il temuto epilogo (“Lo specchio lo salvò. Era gli occhi della gente… Ricordò l’amico che guardandosi allo specchio aveva esclamato: è mio fratello!”) viene risolto in modo sorprendente e sfocia nella solitudine: “Desiderava rimanere solo e chiudere a chiave la porta. L’aria di quella stanza era pura come quella di una tomba”.

Un breve romanzo inquieto, preoccupato, difficile, volutamente scandaloso, che ho letto con grande disagio, nella consapevolezza che in esso confluiscano i temi dell’eclisse culturale e spirituale, i conflitti personali e il senso della morte che attanagliano Mishima e sono elementi costitutivi della sua biografia.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    24 Luglio, 2014
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Le gabbie della vita, ne parliamo con l'autrice

Anna Maria Balzano è per me innanzitutto una stimata amica, ottima compagna “virtuale” di letture e raffinata commentatrice di romanzi. Con la curiosità di leggerla in veste di autrice e nel fondato timore di saper esprimere un giudizio obiettivo, ho intrapreso la lettura de “La voliera dei pappagalli”, titolo suggestivo valorizzato dall’immagine variopinta della nuova cover. Il mio timore è durato soltanto un attimo perché, nella tranquillità di una sera estiva irrigata dal temporale (tanto è durata la mia lettura!) mi sono lasciato “irretire” da una narrazione che ha catturato la mia attenzione e mi ha fatto dimenticare l’identità affettiva di Anna Maria.

Della storia mi ha colpito la capacità di ricondurre a unità le vicende personali di protagonisti che vengono inizialmente individuati singolarmente, poi acquistano spessore tridimensionale, quindi incarnano tipologie realistiche che facilmente possiamo incontrare nella vita di tutti i giorni: Maria, la perdente che saprà vincere la guerra per l’esistenza; Gustavo, che con la dolcezza si ritaglierà un suo spazio e un suo ruolo; Benedetta, l’incantevole e seducente creatura perennemente insoddisfatta e vittima dell’indifferenza; Matilde, l’adolescente costretta ad affrontare le avversità della vita e a crescere forzosamente; Umberto, l’uomo di successo che deve misurarsi con la disavventura di un’esperienza di prigionia; Marco, il faccendiere che ha creduto di poter barattare i sentimenti con gli interessi (“Se potessi tornare indietro, ai tempi dei progetti ambiziosi ma onesti, le mie scelte sarebbero diverse…”); Giorgio, l’uomo solo perché perdente e perdente perché solo…
I personaggi, tuttavia, non rappresentano tipologie astratte o maschere letterarie stereotipate, perché – con dolcezza ed equilibrio – Anna Maria mi ha condotto per mano, trascinandomi con il cuore, all’interno di storie quanto mai credibili e psicologicamente ben delineate: di amicizia, di scelte drammatiche, di carcere, di decisioni estreme.

Il messaggio che ho tratto da questo romanzo è positivo ma non scontato, perché conquistato attraverso la negatività della vita, costruttivo ma non “buonista”, perché gli epiloghi non sono mai unidirezionali (“Si rese conto di quante realtà diverse possano esistere lontano dai luoghi familiari e che ci appartengono, come la sorte possa elargire fortuna e sfortuna in modo diverso e del tutto arbitrario, come l’errore umano possa essere talvolta diversamente percepito, perseguito e condannato”). Proprio come nella vita di tutti i giorni, proprio come nella caselle di rapporti umani e di eventi che a volte ci ingabbiano (“Diversamente da te io ho chiuso volontariamente me stesso in una prigione con sbarre invisibili…) … salvo scoprire che la libertà non è volare via… se questo vale anche per gli uccelli!
_________________

Cinque domande ad Anna Maria Balzano

B. - Cara Anna Maria, lo sai che io credo che la voliera dei pappagalli non sia soltanto una metafora? Perché sono convinto che la voliera esista veramente, a casa tua o in qualche casa della tua vita?
A.M. - Si, Bruno, effettivamente la voliera esiste fisicamente e si trova nel prato antistante la mia casa di campagna. Fino a qualche anno fa ha ospitato proprio dei pappagalli multicolori. È da lì che è nata l’ispirazione per questo racconto.

B. - Com’è nata l’idea di questo romanzo?
A.M. - Per tutte le storie che ho scritto e che scrivo traggo spunto dai fatti della vita che più mi colpiscono e mi coinvolgono emotivamente. Le mie vogliono essere storie semplici, che riflettano il quotidiano, storie che possano riguardare qualsiasi individuo e i suoi rapporti con l’ambiente familiare e il mondo esterno.

B. - “La voliera dei pappagalli” ha ricevuto diversi riconoscimenti (citati in coda al testo). Qual è quello che ti ha maggiormente gratificata? Qual è stata l’opinione espressa sulla tua opera che ti ha reso particolarmente felice?
A.M. - Ognuno di quei riconoscimenti mi ha gratificato. Dal più importante al semplice diploma d’onore. Non è tanto, credo, l’importanza del premio che conta, quanto l’evidente gradimento del lettore e, in questo caso, della giuria. Per quanto riguarda le opinioni espresse da chi ha letto il mio libro, le ho apprezzate tutte e tutte mi hanno commosso, perché è stata la testimonianza più esplicita che ciò che avevo raccontato era stato recepito nel modo più giusto.

B. - Ti senti più lettrice o più scrittrice?
A.M. - Mi sento entrambe le cose e vivo entrambe le condizioni con passione. Come lettrice cerco sempre di andare al di là della storia, al di là della trama; cerco di capire quale sia il background culturale dell’autore, di scoprire se in ciò che scrive vi sia un messaggio artistico, sociale o politico. Come scrittrice mi piace attenermi alla realtà e concludere le mie storie, per quanto possibile, con una nota di speranza, perché se viene a mancare anche una minima fiducia nel futuro si giunge alla disperazione assoluta.

B. - E adesso puoi confidarci quali sono i tuoi futuri programmi letterari?
A.M. - Per il futuro mi piacerebbe scrivere ancora storie semplici di vita “vissuta”, storie che trovino riscontro nella realtà di tutti i giorni. Nello stesso tempo mi piacerebbe continuare a leggere e recensire i testi che ritengo più significativi. È un modo per imparare tante cose. E imparare è un’attività che si può svolgere all’infinito, basta solo un po’ di… umiltà!

B. – Be’, io – sono curioso come un gatto! - volevo il titolo del prossimo romanzo, ma Anna Maria… dobbiamo prenderla così com’è (e ce la teniamo stretta stretta)! E io imparo, la prossima volta, a fare domande più esplicite…

Anna Maria Balzano e Bruno Elpis

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..."Inseparabili" di Alessandro Piperno. Anche là si parlava di pappagalli...
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Racconti
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    23 Luglio, 2014
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Aspirazione al volo

Yukio Mishima, con “Ali”, compone un racconto che è un gioiello per stile (“Oltre l’ampio panorama, le nuvole si avvolgevano e si scioglievano come petali di iris”) e contenuti, in una storia che del gioiello ha le dimensioni minime e il prezioso splendore.

La relazione tra i due cugini Sugio e Yoko si alimenta di momenti intimi, a contatto con la natura, nella casa della nonna: tra un tenue senso del proibito (“Era abbastanza piacevole temere di essere visti insieme da qualcuno di casa, avrebbero potuto persino baciarsi, se lo avessero voluto”) e l’affinità di fondo (“Si somigliavano molto e venivano spesso scambiati per fratello e sorella”).
Poi interviene un’intuizione reciproca: “Nel treno affollato, ai due parve di sentire muoversi un’altra forza attorno alle loro schiene”. Sugio è convinto che Yoko abbia le ali e attende il momento propizio per vederle realmente. E viceversa. Ma questo è il dramma: “Purtroppo entrambi, credendo che solo l’altro avesse le ali, provarono un immenso sconforto perché erano sicuri che un giorno l’altro sarebbe volato via da solo”.
La metafora ontologica è vistosa: allude alla forza dell’amore (“Quando sentivano di riuscire a volare insieme, spinti dalla potenza dell’amore… l’idea di possedere le ali rendeva così reali le loro fantasie”), viene enfatizzata dal contesto bellico del 1943 (“la bellezza della natura nell’ultima fase della guerra sembrava scaturire dalla forza invisibile degli spiriti dei morti”) e antagonizza altre creature volanti che sono strumento di morte (“Rombò nel passare una pattuglia di aerei da ricognizione”).

Il pessimismo di Mishima tocca vette altissime nella raffigurazione di Sugio (“portando addosso le enormi ali che non servivano a nulla”) e nella fulminante valutazione autobiografica: “Le ali non sono adatte per camminare sulla terra”.
La bellezza disperata che stilla da ogni singola parola del racconto può soltanto avere un fondamento: Mishima aveva le ali (della poesia, dell'angoscia esistenziale, dell’amore) e ciò rende ragione delle righe introduttive: “Pensai d’aver scritto con molta sincerità di me stesso…”

Bruno Elpis

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...lo consiglierei a quegli autori che in questi ultimi anni hanno prodotto copiosamente opere fantasy su angeli e creature alate.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    23 Luglio, 2014
Top 10 opinionisti  -  

Il fantasma della scala a chiocciola

Mary Roberts Rinehart è considerata “il contraltare americano” di Agatha Christie sia per popolarità, che raggiunse i massimi negli anni tra il ’20 e il ’40, sia per prolificità letteraria.
“La scala a chiocciola” è tuttavia un romanzo macchinoso e ha una trama piuttosto lenta. Gli spunti migliori sono forniti dall’autoironia della protagonista-narratrice, l’attempata Rachel Innes (“Una vecchia signora che tende a vivere un po’ troppo nel passato”), che si è assunta la responsabilità di crescere i nipoti orfani, Gertrude e Halsey. Costoro vivono complicate storie d’amore rispettivamente con Jack Bailey e Louise Armstrong. Il primo è impiegato nella banca del patrigno di Louise; la seconda, la figliastra del banchiere proprietario della villa di campagna che Rachel affitta per trascorrere le vacanze estive, è promessa sposa a un ambiguo medico: il dottor Walker.
La villa affittata – che per quanto è articolata e gotica richiederebbe uno di quei famigerati plastici che oggi si vedono in discutibili trasmissioni televisive - sembra infestata dai fantasmi (“Questa casa è un vero e proprio incubo”) ed è teatro di un omicidio (“In questa casa c’è qualcosa che molte persone desiderano prepotentemente”): quello di Arnold, il fratellastro di Louise. Poi muore – sembra per la paura – il maggiordomo Thomas…
Nonostante le intimidazioni che riceve, Rachel è caparbia (“Non sono affatto superstiziosa, salvo forse nel pieno della notte e circondata dal buio più totale”) e non vuole abbandonare la villa nella quale campeggia una sinistra scala a chiocciola, se non prima di aver fatto luce, con la collaborazione dell’investigatore Jamison, sui pericolosi coni d’ombra che investono i nipoti (“Halsey era vittima di qualcosa di terribile”) e sulla colossale truffa/bancarotta che ha coinvolto la banca di Armstrong (“Considerato che – i nipoti – avevano perso l’eredità lasciata dalla madre nel disastro della banca…”).
L’atmosfera è piuttosto involuta e ci si orienta con difficoltà nello stuolo di domestici, paggetti e servitori. Per raccapezzarmi, ho dovuto trascrivere i loro nomi: l’autista Warner, la cameriera Rosie, la governante signora Watson, il maggiordomo Thomas, il misterioso giardiniere Alex, la lavandaia Mary Anne, la cuoca Elize…
Come dicevo, i migliori momenti sono proprio quelli in cui la pertinace zia si ostina nelle indagini, in ciò contrastata dalla fedele domestica Liddie (“Lei non vuole credermi quando le dico che questa casa è infestata dai fantasmi”), con la quale ingaggia orgogliosi litigi e spassose ripicche, o quando l’autrice si lascia trasportare dal fascino “old” e stantio dell’alta società (“Era considerata la peggiore giocatrice dell’intero club”). E pensare che l’autrice non lascia mancare nessun elemento mistery: come l’incendio doloso nelle stalle o la spedizione al cimitero per dissotterrare il cadavere di Armstrong senior (“Ecco perché riesumare un corpo dalla madre terra ha un che di profanatore; è come rovesciare il ciclo infinito delle cose”)…

Bruno Elpis

P.S. Il mio nuovo percorso di lettura procede… sui pioli della scala a chiocciola! Un simbolo in certi rituali iniziatici e una situazione carica di significati nell’interpretazione dei sogni che hanno questo elemento come oggetto…

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"La scala chiocciola" di Ethel Lina White
"La scala a chiocciola e altre poesie" di W. B. Yeats
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Arte e Spettacolo
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    21 Luglio, 2014
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La lunga notte di Medea di Corrado Alvaro

Ispirato dal momento storico (1949), Corrado Alvaro nella “Lunga notte di Medea” propone una rilettura inedita della figura tragica della principessa della Colchide, rispetto alla quale, sono parole dell’autore, “Giasone non è l’eroe… ma un personaggio affatto moderno, spinto dalla sua stessa ambizione a liquidare il suo passato eroico per assumere un rango politico”.

A Corinto Medea presagisce l’abbandono di Giasone, al quale spera di opporre il proprio ruolo, se non di amante, almeno di madre (“Non difenderà me? Difenderà i suoi figli. E l’ultima difesa della donna sono le creature che hanno bisogno della sua protezione. Ci si rassicura pensando che egli ama i figli, e perciò avrà considerazione di noi”). Nelle battute della tragedia affiora progressivamente la consapevolezza di una condizione di estraneità (Medea chiede a Nosside: “Tu credi che per gli esuli non ci sia più terra?”) che diviene sempre più chiara e grave nel colloquio con Egeo: “E sai chi sono i peggiori persecutori degli esuli? Quelli che si fecero un vanto di proteggerli. E sai perché? Perché temono il nuovo occupante.” Naturalmente la memoria corre ai drammi collettivi della storia e delle persecuzioni di massa.
Quando Creonte toglie a Medea ogni illusione su Giasone (“Sposerà Creusa, mia figlia”), gli eventi precipitano tra tentativi estremi di razionalizzazione (“Era illecita. Era sporca. Così fu concepito il nostro figlio più grande… Era un sacrilegio”), superstizione (“Abbiate paura dei doni della fattucchiera!”) e giustizialismo (la folla grida: “La vipera e i piccoli serpenti!”).

Il testo teatrale del 1949 fu composto su sollecitazione dell’attrice Tatiana Pavlova. A tal proposito Alvaro ebbe a dichiarare: “Io sono di quegli scrittori cui piacerebbe di lavorare su commissione. Sono convinto che uno scrittore, naturalmente su fatti congeniali, sapendo a chi sia destinata la sua opera, possa lavorare con minore incertezza…” Lo scrittore stesso fornisce la chiave interpretativa dell’opera: “Medea mi è apparsa un’antenata di tante donne che hanno subito una persecuzione razziale, e di tante che, respinte da nazione a nazione, popolano i campi di concentramento e i campi profughi”.
In questa accezione, Medea uccide i figli non perché accecata dalla gelosia, umiliata nella passione e desiderosa di vendicarsi di Giasone, ma per non esporre i piccoli alla tragedia dell’esilio e della fame… consumando un sacrificio personale e familiare nell’olocausto dinastico.
Corrado Alvaro conferisce al mito di Medea un contenuto storicamente evolutivo in un’intonazione tragicamente attuale, oggi riferibile – forse e con un salto interpretativo lungo più di mezzo secolo - anche alla drammatica e disperata diaspora in atto nel Mediterraneo...

Bruno Elpis

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Medea di Euripide
Medea di Christa Wolf
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Classici
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    17 Luglio, 2014
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Unicorno o bicorno?

“Il rinoceronte” è un’opera in tre atti nella quale Eugène Ionesco si avvale della commedia dell’assurdo per rappresentare il dramma del conformismo.

Il primo atto si svolge in una piazza, la domenica mattina. Qui s’incontrano i due amici Jean e Berenger: quest’ultimo si caratterizza per un malessere di fondo (“Io non mi ci adatto. Proprio non mi ci adatto alla vita”) che lo induce a bere. I dialoghi tra i personaggi nella piazza vengono animati dal duplice passaggio di un rinoceronte. Un fatto insolito e inspiegabile (“Perché in questa città non abbiamo più lo zoo da quando gli animali sono stati decimati dalla peste… Ma di che circo parla?”), che viene comunque ritenuto complessivamente plausibile al punto che i discorsi proseguono indisturbati (il filosofo, ad esempio, continua i suoi ragionamenti: “Altro sillogismo. I gatti sono mortali. Ma anche Socrate è mortale. Dunque Socrate è un gatto”). Almeno fino al secondo passaggio del pachiderma (“Era già passato poco fa davanti al mio negozio! Ma questo è un altro!”), quando gli attori cominciano a chiedersi se il rinoceronte è uno o se vi siano due bestie (“…rinoceronti con un corno, o due corni, asiatici o africani?”) in circolazione…

L’atto secondo si svolge in due scene: la prima nell’ufficio di Berenger, la seconda nell’appartamento di Jean. In ufficio si discute del fatto strano (“Precisamente: un mito! Come la storia dei dischi volanti!”) e si tentano razionalizzazioni (“Un fenomeno di psicosi collettiva”) fino a una tragica scoperta (“E’ mio marito! Boeuf, povero mio Boeuf, che cosa ti è successo?”). Intanto gli avvistamenti si moltiplicano (“Sono segnalati in molti posti: stamattina ce n’erano sette, ora ce ne sono diciassette”).
Ma è nell’appartamento di Jean che la metamorfosi va in diretta attraverso sintomi (“Ecco, è la fronte qui, che mi fa male”) inequivocabili (“Un bernoccolo?”) e inquietanti (“Che diavolo le importa della mia pelle? Mi occupo della sua, io?”).

L’atto terzo si svolge nella camera di Berenger: questi, avendo assistito alla trasformazione di Jean, è in preda all’angoscia (“Ho… ho paura di diventare un altro”) e dichiara il proprio amore a Daisy, sperando di trovare nel sentimento la forza per contrastare l’epidemia in atto (“E allora perché se la prende tanto per qualche caso di rinocerontite? Magari è una malattia… Resta l’ipotesi dell’epidemia. Sarà come l’influenza. Le epidemie non sono una novità.”)

La metamorfosi (“Be’ almeno questo dimostra che la metamorfosi è sincera… sono sicuro che si tratta di una metamorfosi volontaria…”) è un espediente vistoso e scenografico per rappresentare tematiche sociali (“E chi ti dice che non siamo noi che abbiamo bisogno di essere salvati? Forse gli anormali siamo proprio noi!”) e concettuali (“Non esiste una ragione assoluta. La ragione è sempre della maggioranza, noi non contiamo niente!”) attraverso un incubo paradossale (“E queste metamorfosi saranno reversibili?”) e portato alle estreme conseguenze.

Bruno Elpis

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... le metamorfosi di Apuleio, Ovidio e Kafka
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