Opinione scritta da silvia71

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    24 Giugno, 2013
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Vittima o carnefice?

Ambientato all'estremità di una periferia parigina grigia, fredda e desolata, questo racconto di Simenon è una cartolina bruciante e brulicante di odi e crudeltà.
Un racconto che scorre tra sospetti ed indifferenza, svelando il volto più ambiguo e opportunista dell'essere umano.
Come spesso accade il gran cuoco Simenon, con pochi ingredienti riesce ad imbandire un tavola ghiotta: una portinaia delatrice ed un palazzo abitato da una schiera di inquilini sui generis tra cui il misterioso signor Hire.
Impossibile staccarsi dal fluire della narrazione, da un crescendo di dubbi, di supposizioni con cui il pubblico inevitabilmente si ritrova a fare i conti; una girandola di specchi, di volti, di situazioni destinati ad esplodere in un epilogo incandescente, in cui tutti i tasselli trovano una collocazione perfetta.

Un noir dal sapore dolce e amaro, in grado di generare sensazioni contrastanti nel lettore, passando dalla rabbia alla commozione. Le intenzioni dell'autore sembrano scorrere su un doppio binario, ossia da un lato edificare un'architettura geniale per rappresentare i comportamenti umani, dall'altro essere consapevole di insinuare nel pubblico il tarlo del sospetto, divertendosi quasi nel vederlo brancolare nel buio.
Sono presenti tra queste poche pagine tutte le tematiche care all'autore, dalla duplicità dell'animo umano, all'egoismo, all'aridità di mente e di cuore, alla ricerca sottaciuta del fuoco della passione sia essa amorosa sia essa per un desiderio di realizzazione nella vita.
Lettura godibile da assaporare immagine dopo immagine, anche se un certa carica adrenalinica spinge a volare verso l'ultima riga.

Una chicca letteraria datata 1933 ancora luccicante.

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Simenon non-Maigret
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    22 Giugno, 2013
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La farfalla impazzita

Giulia Spizzichino è una donna da sempre impegnata a fare sì che nessuno dimentichi gli orrori delle persecuzioni razziali perpetrate a danno di uomini e donne di stirpe ebraica.
Giulia è una donna determinata che non vuole e non può cancellare il passato, col suo fardello di morte, violenza, ingiustizia.

Con la collaborazione dello scrittore Riccardi è la nata la stesura di un racconto personalissimo e vivido, un racconto che ripercorre la storia di una famiglia distrutta.
In maniera semplice ma efficace Giulia ripercorre la criticità degli eventi dapprima con gli occhi di bambina, poi con la sensibilità di una persona adulta, il cui cuore rimarrà segnato per sempre da cicatrici profonde.
Quella di Giulia è una testimonianza dal sapore genuino, ogni rigo trasuda rabbia e dolore; un dolore radicato che lo scorrere del tempo non riesce ad attutire, anzi, amplifica ed impone alla donna di fare il possibile per dare voce a coloro che non ce l'hanno fatta.
Significativo l'impegno profuso come testimone durante i processi per ottenere giustizia contro i criminali autori della strage delle Fosse Ardeatine.
Giulia Spizzichino, come dimostra il suo racconto, ha ingaggiato una battaglia contro l'oblio e contro i crimini razziali.

Da questa lettura emergono sentimenti veri, analisi intimistiche, lontane da intenti commerciali, come attesta a livello stilistico la qualità di scrittura, davvero poco contaminata dalla mano dello scrittore; la voce della protagonista segue il flusso dei propri pensieri senza prestare attenzione alla continuità temporale, senza seguire in maniera pedissequa regole di stile dando la precedenza alla memoria e all'esplosione dei ricordi carichi di qualche sorriso e tante lacrime.

Un ringraziamento a Giulia, perchè il suo racconto può solamente arricchire i lettori, mettendo in luce il volto umano degli eventi storici, quel volto che difficilmente è dato cogliere da un testo di storiografia o saggistica.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    10 Giugno, 2013
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La voliera dei pappagalli

Anna Maria Balzano con il suo “La voliera dei pappagalli” fotografa uno spaccato sociale di estrema attualità, un piccolo gruppo di uomini e donne prigionieri tra le mura di una vita stretta e logorata.

Uomini e donne, figli della nostra società, pronti a rincorrere agi, posizioni sociali di rilievo, sicurezze economiche solide, senza disdegnare le passioni amorose, quelle che fanno palpitare il cuore o che ridestano dalla routine quotidiana.
Uomini e donne che sembrano avere raggiunto tutti gli obiettivi più importanti, dal lavoro alla famiglia, eppure quando il destino li chiamerà a tirare le somme del proprio percorso esistenziale, si ritroveranno a fare i conti con se stessi, ponendo sulla bilancia vittorie e sconfitte, ponderando i risultati delle proprie scelte.
Uomini e donne, annoiati, disillusi, feriti, colpevoli, egoisti, insicuri, accomodanti, soli.
Uomini e donne in fuga dagli affetti, dalla famiglia, dal mondo circostante.
Interessanti gli interrogativi che l'autrice si pone, in maniera composta e delicata, tessendo una trama di eventi e di sentimenti che portano alle risposte.
Emblematico e stupendo il titolo del romanzo, che va a coronare il percorso narrativo, prestando la voce all'autrice per rappresentare la vita dei personaggi; se la vita diviene talora una gabbia, è pronto l'uomo a volarne via appena una mano ne apre lo sportello?
Libertà o rassegnazione al proprio nido?

Anna Maria Balzano possiede un tratto stilistico elegante e raffinato, unitamente alla capacità di delineare i suoi personaggi con tratti rapidi e incisivi, cogliendone l'anima e rappresentandone il contesto socio-ambientale con realismo estremo.
Il particolare interesse mostrato per l'indagine psicologica fa sì che il romanzo si popoli di persone dal volto ben definito e oggettivamente riscontrabile, ottenendo un coinvolgimento totalizzante nel pubblico.
E' un'autrice che sa parlare degli uomini e della vita, riuscendo a coglierne le infinite sfaccettature, scavalcando i paletti delle apparenze e cercando l'io profondo.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    06 Giugno, 2013
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Il giornalista, il frate e la spia

Godibile la spy story partorita dalla penna del giornalista Enrico Franceschini, utilizzando spunti autobiografici e amalgamandoli sapientemente con elementi di fantasia per creare un intreccio stuzzicante.

Correva l'anno 2000 quando papa Wojtyla visitò la Terra Santa; da questo evento prende corpo un racconto che tocca temi di politica internazionale, di religione, di scontri tra culture differenti, di scoop giornalistici e di spionaggio.
Affascinanti le immagini di Gerusalemme, città in cui si trovano a convivere le tre religioni monoteiste, città ricca di simbologia e che trasuda passato da ogni pietra; i vicoli della città vecchia, immersi in un clima sospeso tra passato e presente, diventano teatro di una fitta rete di complotti.
Pronti a dare la caccia a terroristi ed integralisti, sventando attentati e minacce alla pace, uno strano trio composto da un giornalista, un frate ed una avvenente agente dei servizi segreti.

Un buon lavoro quello di Franceschini, in quanto pur non avendo la pretesa di essere esaustivo sotto ogni profilo, tuttavia riesce a tracciare dei connotati interessanti delle vicende politiche e storiche riguardanti Israele e Palestina, mettendo in luce certe zone oscure in cui manovrano in sordina le diplomazie internazionali, Vaticano compreso.
Ponderati e documentati i riferimenti di storia delle religioni che si aprono durante la narrazione, piccoli sipari capaci di arricchire il romanzo.

Nel complesso una lettura agevole, dinamica e rapida, in cui si percepisce la mano del giornalista, avvezzo alla caccia alla notizia e a saper cogliere l'anima di un luogo e di una situazione con poche parole, incisive e ben dosate.
Un romanzo breve in cui si avverte la giocosità dell'autore nel mettere in campo la propria fantasia, nel volersi vedere proiettato in una missione impossibile durante un reportage in una delle zone più “calde” del mondo, dove convivono culture e confessioni religiose diverse.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    03 Giugno, 2013
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Neve di primavera

Abbandonarsi alle pagine di Yukio Mishima significa partire per un viaggio lontano dagli schemi letterari occidentali.
Con il primo romanzo della tetralogia “ Il mare della fertilità” si apre il sipario sulla cultura, sul pensiero, sulla società, sulla storia del Giappone del primo novecento.

Mishima ci introduce all'interno di sontuosi palazzi dell'aristocrazia vicina all'imperatore, vivendone complotti e ipocrisie, facendoci respirare un'aria opprimente, dove è d'obbligo l'osservanza di rigidi schemi comportamentali e di consuetudini ataviche.
Una rigidità legata ad antichi retaggi socio-culturali che si infrange contro i primi sussulti di modernità che cominciano a percorrere il paese.
Una rigidità che tarpa le ali a chi non vuole sottostare alle regole imposte dalla cultura familiare e di casta.

Uno spaccato sociale implacabile, di cui l'autore mette a nudo con estrema eleganza vizi e virtù, dipingendo una magnifica tela narrativa tutta luci e ombre; un mondo fosco talora avvolto nelle nebbie oppure sfavillante come le rosse colline di aceri.
Colori, profumi ed immagini creano un tessuto fitto e inestricabile, ricostruendo luoghi immersi in un'aura di magia e misticismo, all'interno dei quali si muovono i protagonisti con naturalezza.

I protagonisti di questo primo romanzo sono due giovani di stirpe aristocratica che incarnano due poli opposti: la razionalità l'uno e la passionalità l'altro.
Una dicotomia splendida che si snoda lungo tutto il percorso narrativo, toccando momenti di intensità filosofica dal grado di lettura agevole e gradevole.
E' un maestro Mishima nel trasmettere al pubblico il fuoco amoroso della passione che brucia in Kiyoaki ed il fuoco del rigore della logica e del dovere che arde nella mente di Honda.
Calcolo e istinto, raziocinio e amore, mente e cuore, realtà e sogno danzano insieme, scendono a confronto, si attraggono e si respingono, orchestrati da una bacchetta inusuale, ossia l'amicizia, valore inespugnabile e inviolabile, foriero di comprensione e unione.

Se a livello contenutistico l'opera ribolle come un tino pieno di mosto in fermentazione, così sul piano stilistico la penna di Mishima è dotata di una carica lirica abbagliante; riesce a trasmettere le sensazioni più intime e profonde di un animo attraverso immagini, riesce ad essere etereo ma pervasivo, con pochi tocchi scatena una tempesta oppure mette in scena un arcobaleno.
Sa cantare la gioia ed il dolore, la vita e la morte in maniera sublime e soave.
Una lettura consigliabile a coloro che amano assaporare il gusto di nuove culture e che sanno apprezzare uno stile di scrittura impegnativo, ma che brilla per raffinatezza ed eleganza.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    02 Giugno, 2013
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Alla ricerca della luce

Antonio Moresco con pochissimi ingredienti riesce a confezionare un romanzo breve che si propone di riflettere sulla condizione umana.
Un uomo che sceglie la solitudine, che sceglie di ascoltare la natura fino a cercarne una sorta di simbiosi. Un dialogare lento e intenso con il regno animale e vegetale, un ascoltare voci misteriose, osservare i colori che si adattano all'evolversi delle stagioni, vivere con partecipazione lo scorrere del tempo lontano dalla civiltà.
L'uomo di Moresco è un sognatore, un visionario oppure un essere che anela alla ricerca dell'essenza più intima della vita?
Cosa si cela dietro alla lucina che brilla ogni notte in mezzo al folto bosco?
Splendida l'aura di mistero con cui l'autore riesce a catalizzare l'attenzione del lettore, trasportandolo nel giro di poche pagine in un luogo primitivo e fantastico.
Giunti al capolinea della breve storia, l'autore fornisce le proprie risposte, senza pretesa di assumere toni di universalità, semplicemente dà forma ai propri pensieri sulla vita e sulla morte.

Innegabile la vicinanza con il pensiero leopardiano, reinterpretato da Moresco in chiave moderna; egli infatti calato nelle vesti di un novello poeta ci accompagna lungo un percorso di ricerca e di comprensione, percorrendo sentieri bui fino allo scorgere della luce.
Una lettura da assaporare a piccoli bocconi, capace di immergere in una dimensione in cui lo spazio si dilata fuoriuscendo dai confini rigidi imposti dalla vita di ogni giorno; si schiude tra queste pagine dense di liricità un nuovo senso della vita.

Una buona prova quella di Moresco, dotata di spessore introspettivo senza tuttavia appesantirsi di considerazioni filosofiche complesse; un piccolo taccuino dove ciascun lettore può trovare spunti di riflessione e appagamento in alcune descrizioni sublimi della natura, delle sue voci e dei suoi silenzi.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    30 Mag, 2013
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Papaveri rossi

Lo scrittore tibetano Alai, assai poco conosciuto nel nostro paese, nel 1998 decise di immortalare un pezzo di storia della sua terra nelle pagine del romanzo “La polvere si è posata” tradotto in inglese col titolo più appetibile di “Red poppies”.
Quello narrato dallo scrittore è il Tibet di inizio novecento, dominato da un regime di stampo feudale, martoriato da feroci scontri per la conquista di territori e di egemonie.
Un paese diviso tra retaggi arcaici che lo legano ancora alle tradizioni culturali e sociali di una terra lontana dalla civiltà occidentale ed influssi esterni che poco alla volta cercano di insinuarsi e mettere radici nel tessuto socio-politico e commerciale.

Con il racconto di Alai attraversiamo il Tibet agreste coltivato ad orzo e granturco, segnato da gelidi inverni, accarezzato dalle nevi candide e da lunghe primavere fino a giungere alla diffusione della semina del papavero rosso dell'oppio; una scelta economica foriera di ricchezza seppur al caro prezzo di sangue, scontri e morte.

La lettura delle pagine di Alai ha sapore d'oriente, ha il pregio di condurci in una terra avvolta da magia, dove famiglie ricche e potenti vivono nell'agio, osservando usi e costumi tramandati da millenni ed il resto della popolazione si piega ad una vita di fatica e sottomissione.
Seguendo la storia della dinastia Maichi, l'autore propone al pubblico uno spaccato sociale interessante, animato da personaggi splendidi, perfettamente delineati nei loro ruoli, padroni e servi, uomini e donne, figli e padri, vittime e boia.
La tenerezza e la fragilità umana si scontrano con la crudeltà e la violenza, le regole del codice amoroso si scontrano con l'intransigenza delle leggi sociali e di casta.
Quello rappresentato da Alai è un mondo antico, rigido e congelato, tuttavia mostra in nuce i primi segni di disgelo, grazie al calore dello spirito di cambiamento e di evoluzione di qualche mente giovane e aperta.

Un'opera apprezzabile per il suo contenuto, che sa cogliere gli aspetti salienti di una cultura antica e lontana dalla modernità, dando risalto ad uno stile di vita a cavallo tra la fiaba e la dura realtà.
Un lavoro che pur non avendo la presunzione di ripercorrere interamente e in maniera dettagliata la storia etnica e politica del Tibet, tuttavia riesce a convogliare tanta attenzione da parte del pubblico.
Difficile esprimere un giudizio sul valore stilistico del romanzo, in quanto la traduzione dal cinese lingua ufficiale di scrittura dell'autore, all'inglese e da questa ultima lingua all'italiano, giocoforza implica un'alterazione della penna originale e , forse, una certa manomissione dei termini e dei modi espressivi.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    27 Mag, 2013
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L'animo leggero

Kareen De Martin Pinter affida il suo esordio letterario ad una storia che parla di infanzia e di Alto Adige.

Il perno della narrazione ruota attorno alla piccola Marta, una bambina che con i suoi dieci anni sulle spalle sembra più adulta di tutte le persone che le gravitano intorno, ossia famiglia, conoscenti, vicini di casa e amichette.
Marta appare come una bambina che vorrebbe vivere con gioia e leggerezza, ma suo malgrado è circondata da una serie di situazioni difficili, complesse e dannose per uno sviluppo sereno.
Gli occhi della piccola colgono talora con realtà e coscienza il mondo che la circonda, talaltra con fantasia e sogno per assecondare il forte bisogno di evasione e di ricerca di un isola felice in cui vivere liberamente la spensieratezza di cui ha diritto di godere.

Se è vero che la storia raccontata dalla Pinter è carica di argomenti e di spunti di riflessione, è vero anche che l'esperienza ancora in erba della sua penna ha optato per un approccio ai temi poco incisivo, finendo con lo sfumare numerose situazioni che necessitavano di ulteriore approfondimento.
E' complesso il mondo dell'infanzia e dell'adolescenza e tra queste pagine manca quell'affondo psicologico che colora il cuore e l'anima, che canta la gioia e la tenerezza, che delinea la ricerca di amore e abbracci.
I fili narrativi risultano essere tanti, dando vita ad gomitolo variopinto, che vuole spaziare dalla crudeltà che riesce ad instaurarsi nei rapporti tra bambini, alla inadeguatezza del ruolo genitoriale, alle problematiche politiche e di integrazione legate ai luoghi che sono teatro delle vicende, ossia la terra altoatesina.

Forse la fluidità narrativa paga lo scotto di una scelta stilistica che spezza la storia in tanti episodi, creando capitoli autonomi che frammentano la vicenda in un microcosmo di eventi.
La buona riuscita di un romanzo nasce da un mix imprescindibile di elementi, tra cui tessere una buona trama e dotare del giusto spessore i protagonisti; la mano dell'autrice può partire da questa esperienza per maturare e crescere, affidandosi ad uno stile di scrittura assolutamente promettente.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    20 Mag, 2013
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C'era una volta il cacao

Il romanzo “I padroni della terra” vide la luce nel 1944 ed in Italia venne pubblicato col titolo “Frutti d'oro”.
Amado ci accompagna a sud di Bahia, dove la foresta amazzonica fu sacrificata per trovare terreni fecondi e utili per avviare la coltivazione della pianta del cacao, mettendo in moto negli anni '30 e '40 un'economia fiorente e redditizia per esportatori e fazendeiros.

La penna di Amado seppur ricca di connotati epici, narra con colore e vigore il dramma umano legato al boom economico; le tinte usate da Amado non ammettono sfumature, ma ritraggono un mondo di ricchezza e miseria, di potere e di lotta per la sopravvivenza, di uomini “padroni” e di uomini “schiavi”.
Ecco che tra queste pagine prende forma la città di Ilhèus, sorta dalle ceneri della verdissima foresta, simbolo dell'incontro-scontro tra il sopraggiunto benessere dei pochi e la fatica di salariati e piccoli proprietari terrieri.
L'aria che si respira è greve e carica di disperazione. E' l'aria che respirano i braccianti straziati da un lavoro usurante per pochi soldi. E' l'aria che respirano donne e bambini sfiancati dal lavoro.
E' l'aria carica di speranza per un buon raccolto ed una buona quotazione del cacao.
E' l'aria che si respira nelle bettole dove l'alcool diviene anestetico contro i mali della vita.
E' l'aria che ristagna nei locali dove si gioca d'azzardo, pronti ad uccidere.
E' l'aria dei bordelli, dove aleggia il profumo di donne che si vendono.

Il mondo di Amado è animato da una galleria di personaggi che rappresentano la società del tempo, minata da corruzione, soprusi, inganni e violenze. A tratti diviene un mondo surreale e naif, ma il cuore profuso dall'autore nel parlare della sua terra è palpabile e verace, senza risparmiare qualche stoccata dal sapore politico.

Questo romanzo appartiene alla primissima produzione letteraria dell'autore, in cui Amado si fece carico delle scottanti questioni sociali che dilaniavano il suolo brasiliano. Si tratta di una lettura dall'alto valore storico, in quanto denunzia il lato oscuro e abietto del potere economico e svela conseguenze non positive per la maggior parte della popolazione locale.
Se indubbio è il valore del contenuto di una simile opera, in merito allo stile narrativo occorre dire che la lettura a tratti richiede un notevole impegno, divenendo ruvida come i volti che sta disegnando o coloratissima come le distese degli alberi dai frutti d'oro del cacao giunti a maturazione.

Una voce che merita di essere conosciuta e ricordata per aver immortalato i volti del suo Brasile, con passione, sagacia e originalità.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    14 Mag, 2013
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Eva e Gerda

Francesca Melandri attraverso le pagine di “Eva dorme” racconta uno spaccato di storia del nostro paese forse poco conosciuta, forse in parte già dimenticata: è la storia dell'Alto Adige.

Una fetta di suolo austriaco annesso al Regno d'Italia dopo la prima grande guerra, una terra fatta non solo di massicci montuosi, ghiacciai, verdissimi boschi e alpeggi, ma anche di uomini legati alle proprie radici culturali ed sociali.
La ricostruzione storica operata dall'autrice è veramente efficace, ben esposta ed anche minuziosa senza scadere mai nel tedio; riesce a mettere in risalto tutte le problematiche legate alla popolazione locale, all'integrazione con la cultura italica, alle battaglie politiche alla ricerca di soluzioni per ottenere il riconoscimento dell'autonomia.

Il flusso narrativo è davvero ben congegnato e seguendo i ricordi di una madre e di una figlia, il lettore si trova legato a doppio filo con la storia di una famiglia e di una popolazione intera.
Una carica narrativa avvolgente, che non soffre di cali di ritmo; uno snocciolarsi di avvenimenti sociali e politici che si amalgamano con la vita delle protagoniste, rendendoci perfettamente la misura dei dolori, dei sacrifici, delle ingiustizie che hanno ferito il Sud Tirol.

E' un romanzo maturo anche sotto il profilo dell'indagine psicologica dei protagonisti; l'autrice è attenta nell'indagarne il cuore, nel cogliere lacrime e sorrisi, nell'evidenziarne i sentimenti di disperazione oppure le scelte coraggiose.
L'aspetto umano delle vicende permea l'intera narrazione, affidandosi ad una penna fluida e morbida che traccia le linee di tanti volti.

E' una lettura interessante per approfondire la conoscenza di uno dei regionalismi del nostro paese, per avvicinarci a cultura, tradizioni, costumi e origini dell'Alto Adige.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    06 Mag, 2013
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Una cartolina da Concarneau

La penna di Simenon nel 1935 ci ha scritto una cartolina dal piccolo paesino bretone di Concarneau.
Una splendida cartolina che immortala case, piccole locande, pescherecci ormeggiati al porticciolo, una piccola baia avvolta nelle nebbie della stagione invernale, i vapori delle acque che aleggiano in controluce; un piccolissimo centro abitato scandito da ritmi di vita lenti, retto da un'economia prevalentemente marinara.
Percorre e pervade le pagine un'intensa miscela di odori e aromi, come quelli del pescato fresco, dei cordami, dei legni umidi delle barche e delle case, del fumo delle stufe da cucina, del tabacco e della birra sorseggiata nelle taverne.

All'interno di questa cornice pittoresca e verace, Simenon colloca i suoi personaggi, sottoponendoli alla sua minuziosa lente per sondare ogni possibile risvolto dell'animo umano.
Come se utilizzasse una semplice matita nera capace all'occorrenza di creare delle sfumature strabilianti, il grande Simenon tratteggia una piccolo nucleo familiare con la sua innata maestria, ritraendo vizi, mancanze, debolezze ed egoismi di questo micro-esempio di umanità.
L'eleganza con cui l'autore fa emergere le negatività dell'uomo o meglio, i recessi più bui della mente, è il fulcro della sua vena narrativa.
Gli uomini di Simenon sono destinati ad implodere o ad esplodere, eruttando fiumi di rancori e di risentimenti covati a lungo, gettando le vesti imposte dal contesto sociale circostante che li ha plasmati imponendo loro di adeguarsi alle convenzioni e alle etichette imprigionandoli in una gabbia angusta.

Durante la lettura il pubblico assiste ai ragionamenti ed al logorio dello scapolo Jules, simbolo di inettitudine, privo di iniziative, sottomesso al potere decisionale delle tremende sorelle; un uomo che, grazie all'abilità di Simenon, rischia di trasformarsi da essere innocuo e vacuo a essere amorale e opportunista.
Insomma ancora una volta un breve romanzo in grado di stupire in modo provocatorio il lettore e far riflettere sui confini labili della moralità.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    03 Mag, 2013
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Cocaina senza veli

L'ultimo lavoro di Saviano accende i riflettori sulle tenebre che avvolgono il mondo della cocaina, dalla produzione alla distribuzione, dalla creazione di una fitta rete criminale che si nutre degli introiti per divenire potenza economica alle susseguenti piaghe sociali procurate.

La caratteristica peculiare di questa lettura è la minuziosità delle notizie, la ricostruzione iper-documentata della vita dei grandi cartelli sud-americani, la voglia di svuotare il sacco mettendo nero su bianco informazioni audaci, senza esimersi dal dettagliare nomi e cognomi.
Un libro-indagine poderoso, scritto con la consapevolezza di toccare tanti nervi scoperti, descrivendo al pubblico il panorama che circonda lo smercio di cocaina; omicidi, sevizie, ricatti, rapimenti, corruzione stratificata su diversi livelli dalla politica all'economia ai garanti della legge.

Se da un lato la lettura a tratti risulta davvero impegnativa e faticosa, dall'altro ricambia il pubblico con un apporto informativo di buon livello, degno di un lavoro specialistico di ricerca.
Per chi conosce il mondo della cocaina e del traffico di stupefacenti in genere tramite le dosate notizie dei media, questo lavoro di Saviano contribuirà ad aprire gli occhi sui tanti meccanismi che lo reggono, sulla drammaticità delle conseguenze sull'uomo sia esso produttore, intermediario, consumatore o malavitoso.
Ciò che è evidente è che cocaina significa potere economico, una torta prelibata di cui organizzazioni criminali e non solo vogliono accaparrarsi una fetta; e non importa se per farlo occorre uccidere o esercitare altre forme di violenza.

Saviano ha colpito ancora con libro illuminante che non tralascia alcun aspetto, ma sottopone a lente di ingrandimento fatti, situazioni, legami, uomini.
Sì, perchè il mondo della cocaina è stato creato da uomini, per sfruttare una fonte di guadagno che non conosce crisi, quindi è giusto parlare di loro, delle menti e degli esecutori, disposti a tutto, chi per il potere economico chi perchè appartenente ad uno status socio-culturale o territoriale che non conosce altra possibilità.
Scorrono tra queste pagine immagini di uomini, feroci, crudeli, corrotti, usati, martoriati, sfruttati, arricchiti o impoveriti: una galleria ritratta a tinte forti, senza veli, ma con dolorosa e rabbiosa verità.

L'alto valore documentale e di inchiesta del contenuto fa sì che lo stile di scrittura assuma un carattere giornalistico, tuttavia dove gli eventi lasciano spazio ad interventi e riflessioni dell'autore, sorge la luce tra le pagine, spunta il cuore e la passione di chi ha preso la penna in mano per scavare e raccontare.
Se da un alto è una lettura da affrontare con attenzione, dall'altro è un sipario che si apre riga dopo riga su un mondo ancora sommerso sebbene radicato in ogni ambito del sociale.
E' una lettura che sa coinvolgere e far riflettere, raggiungendo l'obiettivo dell'autore.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    28 Aprile, 2013
Top 50 Opinionisti  -  

Le ferite invisibili

Ci sono ferite fisiche che parlano da sole.
Ci sono ferite invisibili, laceranti ma silenti; le ferite dell'anima.

Lorenza Ghinelli con grande coraggio scandaglia le sofferenze dell'infanzia, un'età che non tutti i bambini hanno la fortuna di vivere in maniera spensierata e contornata di affetto.
Le storie che si intrecciano in questo romanzo sono irte di spine, bruciano l'anima come tizzoni ardenti, indignano e commuovono senza riserve.
L'autrice utilizza in modo incisivo e senza veli la sua penna per disegnare il mondo dei bambini e quello degli adulti, senza concedere spazi ad alibi per perdonare comportamenti aberranti.

Il mondo di Estefan, Martino e Greta era luminoso e colorato, così come richiede l'infanzia, ma l'avida, la malata, la violenta, la corrotta, l'egoista mano adulta l'ha contaminato, rendendolo un mondo pieno di paura, di odio, di rancore.
Il mondo svuotato e devastato di un bambino diviene il mondo claustrofobico e invivibile di un adolescente e di un adulto; le ferite procurate nel cuore e nella mente di un bambino, grideranno per sempre di dolore. Difficile mettere a tacere un animo calpestato, privato di amore, comprensione e dignità.

Mirabile l'impegno profuso dalla giovane Ghinelli nel parlare di argomenti scottanti, dalla pedofilia alla disgregazione familiare, all'inadeguatezza del mestiere di genitore.
La narrazione non banalizza mai situazioni e stati d'animo, ma delinea con cura lo sfiorarsi e lo scontrarsi del pianeta” infanzia” con quello “età adulta”, mettendo in risalto i numerosi punti di divergenza; intense e profonde le analisi sull'io più segreto del mondo dei piccoli, un mondo che anela ad essere riempito di amore, di gioco, di sole.
Appositamente in questo racconto l'autrice fa albergare tanto buio, tanti fantasmi, tanta notte.
Si coglie forte un monito per il pubblico adulto, affinché possa assumere consapevolezza delle conseguenze del suo agire sui più giovani, su coloro che si apprestano a sbocciare e divenire poi gli adulti del futuro.

Lo stile narrativo della Ghinelli denota già un carattere personale, una predilezione per toni secchi e taglienti, senza togliere il dovuto spazio a momenti di riflessione accompagnati da una penna più morbida e levigata; una voce a tratti ancora acerba nel calibrare il flusso narrativo, tuttavia un'ottima promessa per il nostro panorama letterario.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    24 Aprile, 2013
Top 50 Opinionisti  -  

Un coro di voci

La definizione di romanzo o racconto calza davvero stretta a questo lavoro di Julie Otsuka, giornalista e scrittrice statunitense.
Il libro in questione assume la forza e l'immediatezza di un album fotografico, immortalando con nettezza e semplicità una realtà oramai lontana e sicuramente poco conosciuta; migliaia di immagini che ritraggono le sorti delle giovani giapponesi che agli inizi del Novecento giungevano spose a connazionali immigrati sulle sponde della California.

La scelta stilistica dell'autrice fa di questo scritto un racconto corale; non ci sono protagonisti ad aspettarvi tra queste pagine, non c'è un nome, non un volto, bensì un coro di voci.
L'effetto polifonico è stupefacente e avvolgente, portando la narrazione ad un ritmo serrato e tagliente; alla rapidità delle immagini fa da contraltare un'infinità di sentimenti che assale il lettore, dal dolore allo sconcerto, dall'indignazione all'incredulità.

Le immagini scattate dalla penna della Otsuka, sono state raccolte consultando documentazione dell'epoca e diari contenenti testimonianze.
Nessuna finzione, solo tanta amara e cruda verità storica; una pagina di storia dell'umanità che merita di essere ricordata e conosciuta.
Un esercito di giovani donne schiavizzate, abbruttite da una vita infernale, massacrate dal lavoro agricolo; donne che sognavano semplicemente amore e serenità, il calore di una famiglia ed una casa da accudire.
Donne che attraversavano l'oceano con un sogno da realizzare e trovavano ad attenderle un mondo fatto di inganno e di dolore, da cui non si faceva più ritorno.

E' un genere di lettura di grande interesse sul piano storico-sociale ed in grado di trasmettere commozione vera al pubblico.
Porta alla luce uno spaccato della storia americana poco indagato, anzi spesso celato tra le pieghe del silenzio.
Julie Otsuka ha deciso di parlare e raccontare, facendosi portavoce di tutte le immigrate nipponiche che non possono più farlo.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    22 Aprile, 2013
Top 50 Opinionisti  -  

Quattro etti di amore

Chiara Gamberale propone al pubblico un romanzo intriso di problematiche estremamente attuali, un romanzo che indaga zone d'ombra della nostra società.
Lo stile narrativo non troppo impegnativo, rapido e fresco in realtà riveste con brio e colore un contenuto sostanzioso e impegnativo; ossia la vita, con i suoi fardelli, i suoi sogni, le sue disillusioni, le sue gioie e le sue mancanze.

Vita significa uomini e donne, unitamente alla loro capacità di viverla, di goderla, per realizzarsi al meglio, per assaggiare la felicità, per condividere esperienze, per crearsi un nucleo di affetti.
I personaggi creati dalla Gamberale sono creature alla ricerca di un posto nel mondo, alla ricerca di certezze, di rifugi, di appagamento; sono donne giunte ai rispettivi capolinea, cui la vita impone una svolta, una scelta perché il vortice della quotidianità le ha risucchiate e svuotate.
Le certezze ed i piaceri di ieri lentamente sono andati alla deriva, corrodendo stima, amori, sogni, mettendo in risalto una sensazione nuova: l' insoddisfazione.
Ed è proprio l'insoddisfazione a tramutarsi in un mostro ingordo che ingoia qualsiasi rimedio, facendo cadere nell'impotenza qualsiasi tentativo di placarla.

Una visione amara del mondo attuale ci aspetta tra queste pagine; un mondo dominato dall'esteriorità, dall'effimero, rapporti interpersonali al collasso, incomunicabilità tra le mura di casa.
L'autrice intraprende un'analisi del vivere moderno con toni leggeri che tuttavia con l'andare della narrazione si fanno più duri e più fermi, scavando con finezza nel cuore dei personaggi, mettendone in luce ansie e delusioni.
In questo romanzo la Gamberale è abile nell'imbastire storie che si sfiorano e si intrecciano, alternando le voci narranti come in una danza, creando raffronti, sottolineando somiglianze e divergenze; le voci delle due protagoniste femminili suonano sincere, dirette, modellate su schemi sociali di estrema attualità.
Sono donne parte di un mondo che propone modelli e impone ruoli, sono donne in fuga dalle catene del quotidiano, sono donne cui la propria vita è divenuta un vestito troppo stretto.

Racconto ben dosato che sotto sembianze di semplicità, cela profondità di contenuto e spunti di riflessione, nonostante la sensazione ricorrente che stilisticamente esso faccia l'occhiolino ad una eventuale trasposizione cinematografica.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    18 Aprile, 2013
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Il panico

Difficile definire in maniera compiuta questo nuovo lavoro di Christian Frascella; un diario personale per dialogare con se stesso e al contempo rendere partecipe il pubblico della propria esperienza oppure un piccolo saggio su problematiche psicologiche che trae linfa vitale dal vissuto dell'autore?
Protagonista assoluto è il panico, male subdolo, aggressivo e logorante; un mostro latente che si annida nella mente e nel corpo pronto a scatenarsi senza preavviso.
Quello di Frascella è un racconto di vita, di verità, è il racconto della discesa improvvisa nel baratro delle malattie mentali, è il racconto di un uomo che non si conosce più, un uomo che genera una persona nuova, da capire e con cui convivere.

Sono pagine che fanno riflettere e che creano una forte vicinanza del lettore all'autore, grazie alla capacità di Frascella di mettersi a nudo, di scavare nei meandri della malattia raccontandola con sensazioni, con immagini, con pensieri che solamente chi l'ha vissuta può rappresentare in maniera così completa e trasmetterne l'essenza a chi, fortunatamente, non la conosce.

E' una lettura amara e dolorosa, tuttavia l'aria che si respira tra queste pagine è frizzante e briosa, sono bandite autocommiserazione e pessimismo; c'è tanta positività che fa da contraltare alla fatica di lottare contro il male, si percepisce il sorriso di chi tra mille tribolazioni ha cercato con tutte le forze di uscire da un tunnel, riuscendo a trovare uno spiraglio di luce.
Il lettore avverte una voce sincera, la voce di un amico che sente la necessità di raccontare la sua vita liberandosi da un fardello pesante. Una voce che ripercorre gli anni trascorsi a chiedersi “perché, anni pesanti come piombo capaci di distruggere il nido sociale e familiare, anni di trasformazione, di paura, di solitudine, di ricerca di serenità e di normalità.

Veramente gradevole la penna di Frascella, capace di smorzare i toni seriosi e le situazioni critiche con pennellate di sana e composta ironia; un narrare fluido e accattivante, dominato da un ritmo veloce che fa volare pagina dopo pagina, senza tralasciare la cura dell'espressività e la ricerca di intensità.

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Romanzi storici
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    10 Aprile, 2013
Top 50 Opinionisti  -  

Evelina e le fate

Tanto si è detto e si è scritto a proposito degli orrori della guerra che ha percorso e lacerato il nostro paese.
Simona Baldelli esordisce con un romanzo dal taglio singolare, dedicando una particolare attenzione al rapporto tra la guerra ed i bambini.
Tra le pieghe di queste pagine si materializza la piccola Evelina, una bimba di cinque anni figlia di una famiglia contadina, il cui casale diviene rifugio di numerosi sfollati in cerca di un luogo più sicuro rispetto alla città, bersaglio certo di incursione aeree e rastrellamenti.

La narrazione fluisce tutta attraverso gli occhi e la sensibiltà della piccola, incapace di capire fino in fondo la situazione attorno a lei, pur cogliendo segnali di disagio e di pericolo.
Evelina è piccola eppure è già grande, è spensierata eppure a tratti è preoccupata, avrebbe bisogno di tanto affetto e attenzioni, quelle stesse che in un momento di tale tragicità la famiglia non può donarle.
Un'infanzia rubata, segnata; un'infanzia che tanti bambini dell'epoca videro strappata.
In guerra non c'è spazio per le coccole, gli abbracci, il giogo; ecco che la nostra piccola protagonista si costruisce un suo mondo in cui può evadere quando le situazioni attorno a lei si fanno critiche o troppo complesse, un mondo di fiaba, un mondo dove esistono le fate con cui parlare, un mondo in cui le immagini brutte cambiano pelle assumendo significati diversi.

Veramente intensa la figura di Evelina, cui la penna dell'autrice è riuscita a infondere una vitalità abbagliante e commovente; impossibile staccarsi dal racconto, per la forza trascinante, per l'esplosione di emozioni, per la nitidezza delle immagini che propone.
Immagini di un paese che deve fare i conti con il passaggio inesorabile della guerra; una guerra che spezza le famiglie, che svuota le dispense, che ferma il naturale corso della quotidianità, che capovolge i ritmi di vita, che fa pagare un dazio crudele a degli innocenti.

Un esordio che denota la capacità di raccontare una storia e di coinvolgere il pubblico, la capacità di costruire il personaggio ponendo la dovuta cura ai particolari e la giusta dose di sensibilità per scavare nel cuore e nella mente dello stesso; oltre alla coraggiosa scelta stilistica di infondere veracità al narrazione mediante l'utilizzo del dialetto dei luoghi che fanno da sfondo alla storia.

Simona Baldelli con questo romanzo ci regala un lavoro importante, in cui l'elemento tragico si scontra e si fonde con il sogno, con la fantasia, con la necessità dei più piccoli di fuggire da una realtà dolorosa e cruenta come la guerra.
Anche questo significa raccontare la storia.

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Romanzi
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    07 Aprile, 2013
Top 50 Opinionisti  -  

Benvenuti a Borgo Propizio

Un piccolo borgo arroccato su una collinetta piuttosto isolata.
Un manipolo di abitanti che ben si conoscono.
Diverse storie di vita che si intersecano.

Loredana Limone è riuscita ad elaborare un racconto pieno di brio, frizzante come l'aria che respirano i protagonisti, uomini e donne “comuni”indaffarati nelle faccende del vivere quotidiano; un vivere scandito da impegni di lavoro e familiari, senza tralasciare una fetta di tempo per se stessi, per le proprie aspirazioni e per i propri sogni.
Personaggi semplici, carichi di vitalità, fotografati dall'autrice con naturalezza e realismo, seppur a tratti calcando la mano su taluni difetti e caratteristiche fino a sfiorarne una piacevole caricatura.

Una rappresentazione allegra e positiva di un micromondo che non è esente dai problemi imposti dal vivere attuale, come la scarsità di opportunità lavoro, la disgregazione familiare, l'integrazione sociale, la cura dei propri cari non più autosufficienti, la solitudine; tuttavia il romanzo è pervaso da un atteggiamento costruttivo, passando da momenti di estrema serietà a momenti colmi di ilarità, intelligente e ben dosata.

E' una lettura senza dubbio godibile, le cui pagine scorrono veloci rendendoci spettatori della vita, degli affanni, delle gioie di variopinti personaggi.
Uno spaccato italiano che guarda con fiducia e un pizzico di ottimismo i rapporti sociali e interpersonali, mettendo in risalto l'esistenza di valori legati alla famiglia e all'amicizia; insomma l'autrice sembra evidenziare all'interno di questa piccola comunità, non priva di vizi e difetti, la presenza di altruismo, generosità, interscambio.

Questo romanzo costituisce senza dubbio un buon esordio, anche se a livello stilistico il lavoro dell'autrice ha prodotto un frutto ancora acerbo, che con l'esperienza potrebbe maturare sotto il profilo linguistico arricchendosi di un'impronta più personale.

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Storia e biografie
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    03 Aprile, 2013
Top 50 Opinionisti  -  

Pio XII

Interessante e approfondito questo saggio di Barbara Frale su Pio XII, uno dei papi più discussi dagli storici e dall'opinione pubblica.
Un papa che si trovò a salire al soglio pontificio nel 1939, spettatore della nascita e del consolidamento del regime nazi-fascista e dello scoppio del secondo conflitto mondiale.

La ricostruzione della Frale parte da una novità molto importante, ossia la desecretazione della documentazione contenuta negli archivi vaticani; di recente documenti finora sconosciuti sono divenuti pubblici, arricchendo le conoscenze storico-politiche del secolo scorso e permettendo una sorta di revisione storica su taluni giudizi maturati in passato su coloro che furono protagonisti della scena politica e sui rapporti intercorsi tra la Chiesa e le diverse nazioni europee.

Grazie ad una narrazione chiara, fluida e coinvolgente l'autrice ci conduce presso le stanze vaticane, mostrandoci da vicino un uomo di cui tanto si è scritto ma delle cui “gesta” ancora c'è tanto da scoprire e da capire, Pio XII.
Molto accurata l'analisi propostaci dalla Frale, basata esclusivamente su riscontri documentali, scevra da opinioni e giudizi di stampo personale; un'analisi sul papa sia come uomo sia come capo della Chiesa, focalizzando l'attenzione su un gran numero di eventi di cui fu protagonista nel corso del suo pontificato.
Il testo contiene alcune rivelazioni degne di nota, mettendo in luce tutta una serie di attività intraprese dal papa durante gli anni bui della guerra; manovre sommerse mai accertate di cui oggi cominciano a riaffiorare dei riscontri scritti.

Di particolare interesse il resoconto sugli scavi archeologici voluti da Pio XII all'interno delle Grotte Vaticane per scoprire la reale esistenza della tomba di San Pietro sotto l'attuale Basilica; argomento anche questo fonte di contrasti nel corso dei secoli all'interno del mondo ecclesiastico, come ci ricorda l'autrice.

In definitiva una lettura gradevole e utile per chi ama approfondire una pagina importante della storia, per chi ancora vorrebbe capire se esiste una “verità” sull'atteggiamento del Vaticano nei confronti del popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale, per chi vorrebbe comprendere il reale ruolo di papa Pio XII sullo scacchiere politico dell'epoca.

Non è un saggio che pretende di dispensare verità, ma semplicemente di metterci a parte delle recenti scoperte documentali, nuovi tasselli che arricchiscono e danno forma alle notizie di cui già siamo in possesso o che ne chiariscono talune ambiguità.
Un testo che si legge con facilità, grazie all'ottima capacità di scrittura dell'autrice, una penna elegante a tratti rigorosa a tratti corposa ed avvolgente.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    27 Marzo, 2013
Top 50 Opinionisti  -  

La via del male

“La via del male” è uno dei primi romanzi di Grazia Deledda, meno conosciuto rispetto a “Canne al vento”, eppure dotato di notevole intensità.

Abbandonarsi a queste pagine significa percorrere i sentieri polverosi del nuorese, salire sulle colline e addentrarsi tra i boschi, accompagnare i buoi sui terreni da arare, cogliere grappoli profumati dalle viti, guidare i greggi al pascolo, assistere incantati alla bellezza di un tramonto dalle sfumature violacee, respirare l'aroma di ginepro di cui l'aria è satura, lasciarsi avvolgere dall'odore di terra bagnata, di fieno, di legna che arde.
Siamo sul finire dell'Ottocento e la penna della Deledda ritrae con calore e cuore una terra ruvida e selvaggia, in cui uomo e natura devono convivere; una terra in cui consuetudini antiche sono ancora radicate e si riflettono sul modo di vivere e di pensare.
Stupenda la rappresentazione dei due mondi, maschile e femminile; leggi non scritte ma ferree dettano le regole dei rapporti tra uomo e donna così come tra classi sociali.
All'interno di questo spaccato verace e denso di realismo, si colloca la storia narrata dall'autrice, essa è una storia di passione, di dolore, di vendetta e di estrema solitudine, destinata a generare fratture e sconvolgimenti nell'anima dei protagonisti.
Una storia che mescola la luce della gioia e della speranza alle tenebre del rancore e della voglia di riscatto; uomini e donne divisi tra desiderio di amare spassionatamente e la necessità di seguire i dettami delle convenzioni sociali, talora schiacciati dalla ruota di un destino avverso che tutto sembra spazzare via.
C'è tanta vita racchiusa in questo romanzo, c'è un mondo lontano dalla modernità cui siamo avvezzi, un mondo arcaico dominato dal lavoro, dalla fatica, dal sacrificio in nome di una sopravvivenza dignitosa per se stessi e per la famiglia.

Una narrazione che si fa testimonianza del passato del nostro paese, un flusso concreto, forte e delicato di immagini suggestive e pittoresche che immortalano uno tra i tanti regionalismi italici, una cura particolare ai personaggi, colti nella veridicità più assoluta del loro ambiente e nella pienezza emotiva delle loro azioni e dei loro stati d'animo.
Una piccola perla della nostra letteratura lasciataci in eredità dalla Deledda, cui l'autrice è riuscita ad infondere tanta passione e fierezza per la terra natia.

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Romanzi
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    20 Marzo, 2013
Top 50 Opinionisti  -  

La notte del cuore

Con questo romanzo la Comencini affronta un viaggio negli abissi più oscuri dell'animo umano.
Queste pagine raccolgono il dolore, quello più nascosto, quello che dilania il cuore e la mente; da queste pagine si alza un grido, dapprima soffocato eppoi esplosivo, che racconta di sofferenza, di abbandoni, di voglia di amare e essere amati per come si è veramente, di inadeguatezza nel ricoprire i ruoli che la vita impone.
Mali profondi che i protagonisti hanno accumulato e stratificato, intrappolandoli dentro se stessi, fino a muoversi con fatica e disagio nelle pieghe della quotidianità.

Forte ed emozionante l'incontro descritto dall'autrice tra due anime perdute, due cuori induriti come pietra, due esseri incompresi dalla famiglia e dalla società, destinati però ad entrare in simbiosi; sono due personaggi apparentemente duri e gelidi come ghiaccio, le cui esistenze si intrecciano, riuscendo a scardinare quelle porte che per anni li hanno resi prigionieri.
Si percepisce la necessità bruciante di abbandonarsi ad un desiderio irrefrenabile di riscatto e di rivalsa, di ritrovare passione, stima e volontà.

E' una storia lacerante, che non lascia scampo al lettore, ma lo travolge come un fiume in piena; i toni sono forti e crudi, nessuno spazio ad atteggiamenti ipocriti ed edulcorati, esternazioni schiette e senza filtri dominano il racconto. Un racconto la cui forza è acuita dall'utilizzo della prima persona, che coglie in maniera viva e trasuda tutta la rabbia ed il dolore dei protagonisti.
Lo stile di scrittura della Comencini contribuisce a rendere il romanzo ancora più aspro e tagliente; la narrazione di questa autrice è veloce, spigolosa, secca, pungente, gelida, ma capace di delineare uno stato d'animo con una sola parola.

E' una lettura che raggiunge livelli altissimi di intensità, sfociando in un'analisi dell'io più profondo, contenitore questo in grado di accogliere tutte le verità.
Ottima la capacità dell'autrice di cogliere le infinite sfumature del disagio e della sofferenza, le cadute nel baratro e al contempo gli spiragli di luce che illuminano il buio della notte del cuore.

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Romanzi autobiografici
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    19 Marzo, 2013
Top 50 Opinionisti  -  

Storie di famiglia

Fausto De Lalla ha deciso di condividere la sua storia familiare col pubblico, scrivendo un “libro di memorie” davvero intenso e molto interessante.
Libri come questo diventano uno strumento validissimo per conoscere la storia italiana, per affrontare un percorso che a ritroso ci fa entrare nelle case degli italiani del secolo scorso.
Tra le pagine di questo racconto prendono vita momenti cruciali delle vicende italiche da fine Ottocento al secondo conflitto mondiale, osservati attraverso gli occhi ed il cuore di chi li ha vissuti, di chi ha dovuto fare i conti e convivere con l'avanzare inesorabile dei tempi.
L'autore ritrae i protagonisti nel loro vivere la quotidianità, regalandoci uno spaccato del nostro paese genuino e verace, dotato di una forza comunicativa nettamente superiore a qualsiasi manuale di storia.
La penna fluida e descrittiva di De Lalla riesce a trasmettere un'infinità di sensazioni, dalla gioia per le piccole cose al timore per eventi cruenti contro cui è impossibile opporsi ma solo tentare di difendere se stessi e i propri cari, dalle scelte imposte da situazioni esterne alle scelte fatte con passione e con cuore.
Insomma i protagonisti qua rappresentati sono un micromondo variegato che lotta, soffre, gioisce, ama, si impegna ad andare avanti con decisione e fermezza.
Da questo racconto trapela la voglia da parte di chi scrive di ricordare le proprie origini, di ricordare e ricostruire la storia della propria famiglia, nella consapevolezza che ciascuno di noi è anche il frutto del percorso intrapreso da coloro che ci hanno preceduto, è anche il frutto dell'educazione ricevuta e dell'ambito socio-familiare in cui è cresciuto.

E' un racconto scritto in maniera armoniosa, accurato nelle descrizioni, fonte di emozioni per il lettore, coinvolgendolo con lacrime e sorrisi.
“Una famiglia borghese” appartiene ad un genere letterario cui è importante dare spazio per ricordare il passato attraverso esperienze di vita che dalla sfera individuale ci aiutano a leggere la storia di un paese intero.

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Romanzi storici
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    13 Marzo, 2013
Top 50 Opinionisti  -  

Vetro

Una splendida Venezia rinascimentale è la protagonista del romanzo di Giuseppe Furno.
Va reso merito all'autore per avere elaborato un romanzo storico di ottima fattura, innestando una trama tinta di giallo su di un poderoso costrutto storico.

Il fulcro narrativo parte dalla realtà storica e si colora di tinte fosche e misteriose, convogliando gli spunti di creazione letteraria verso una rappresentazione corale e completa delle vicende veneziane seguenti al 1569, anno dello scoppio delle polveriere dell'Arsenale.
Tra queste pagine si apre il sipario su una città in fermento, impegnata in un continuo braccio di ferro contro il temibile nemico turco per difendere l'egemonia commerciale ed economica, dilaniata da lotte intestine per il potere politico e finanziario, tiranneggiata dall'inquisizione romana per dare la caccia all'eresia.
Sono pagine avvolgenti, dense di contenuto, di eventi, di personaggi; ciò che stupisce è che la pluralità dei personaggi è orchestrata con una maestria notevole, amalgamando i fili della storia con fluidità, regalando al lettore in ogni istante una visione d'insieme.
I protagonisti, ciascuno nelle proprie vesti, sono ritratti con estrema e piacevole verosimiglianza storica, dal doge ed i suoi consiglieri ai rappresentanti della Chiesa, dagli amministratori della giustizia ai prigionieri tacciati di cospirazione, dai maestri dell'antica arte del vetro ai popolani vessati dai potenti e costretti ad una vita difficile.
Una galleria variopinta, un piccolo mondo che pullula di ingiustizie, lotte, sotterfugi, spionaggi, ma anche di amore, altruismo, fedeltà, desiderio di riscatto.
E' una storia talvolta complicata che sembra frammentarsi in mille tasselli, ma la mano accorta dell'autore saprà ricomporre il tutto per dare un volto unico ad una città avvolta nei vapori della laguna, una città in cui il potere temporale e quello spirituale tentano di mantenere un rapporto di equilibrio, una città avvezza a difendersi e a scendere in guerra all'occorrenza.

La penna di Furno è riuscita a dare vita ad un romanzo che brilla per l'accuratezza e lo spessore dello sfondo storico, cornice basilare per infondere una buona credibilità alla narrazione.
Senza dimenticare la cura dedicata al linguaggio utilizzato; una ricerca linguistica che abbraccia sovente il vernacolo veneziano, perfetto per trasportare il pubblico sui luoghi descritti e per rendere i personaggi ancora più genuini e veraci.
In generale è da riconoscere all'autore una indubbia capacità narrativa, in grado di amalgamare e dosare con sapienza momenti descrittivi a momenti di dialogo, esplicandosi con chiarezza e morbidezza, stimolando il lettore e coinvolgendolo con passione.

Uno dei migliori romanzi a sfondo storico che il panorama letterario italiano degli ultimi tempi ci propone, adatto ad un pubblico esigente e cultore del genere.


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Storia e biografie
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    12 Marzo, 2013
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Cleopatra

Cleopatra visse solamente 39 anni, spegnendosi nel 30 a.c.
Una fama imperitura ha accompagnato da sempre questa donna, ammantandola di un alone di mistero e collocandola in una dimensione a cavallo tra storia e leggenda.
Tanta parte delle informazioni ci è stata tramandata dagli storici vissuti in epoche a lei abbastanza vicine, ma altrettanto è frutto di ricostruzioni di parte o meno avvenute a posteriori in base ad interpretazioni o convincimenti di natura soggettiva.

Antonio Spinosa si propone di dirimere le nebbie che avvolgono la figura della bella egiziana, tentando una ricostruzione biografica di stampo prettamente storico, avvalendosi delle fonti storiche latine e greche e di tanta parte della letteratura latina.
La ricostruzione del periodo storico è accurata seppur rimanendo succinta, rendendo al lettore un quadro concreto e nitido all'interno del quale poter collocare le vicende personali di Cleopatra.
In definitiva l'autore non concede spazi a voci alimentate da fantasia, non elabora teorie di stampo personale; egli mostra di attenersi alle fonti, vagliandole con cura e dando l'idea di aborrire certi estremismi di pensiero maturati in certi ambienti storici.

Leggendo questo saggio, della donna lussuriosa, ammaliatrice e calcolatrice come tramandataci nei secoli, rimane ben poco.
Sicuramente Cleopatra fu una donna affascinante e scaltra, ma a tutt'oggi è difficile dire se fosse una manipolatrice senza scrupoli oppure se sia caduta vittima lei stessa delle ambizioni proprie o altrui.

Non si tratta di una biografia particolarmente complessa ed elaborata, quindi si presta facilmente alla lettura da parte di un pubblico “non addetto ai lavori”, per poter riscoprire o approfondire la conoscenza della regina egiziana
Una lettura che può essere utile per sfatare luoghi comuni accumulatisi nei secoli intorno alla figura di Cleopatra.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    27 Febbraio, 2013
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Una donna di nome Rita

Rita Levi Montalcini, una vita dedicata alla ricerca nel campo della neurobiologia.
Un nome che noi italiani possiamo annoverare tra le personalità più esimie cui la nostra terra abbia dato i natali.

Chi era in realtà Rita, questa donna alla cui fragilità esteriore faceva da contraltare una determinazione e una tenacia pervasiva, mente brillante e acuta consacratasi alla scienza per passione ?
La risposta ce la fornisce la diretta interessata in questo saggio biografico intitolato “Elogio dell'imperfezione”.
E' affascinante e toccante ascoltare la voce della Montalcini ripercorrere le tappe salienti della sua vita: una vita lunga, come ben sappiamo, destinata ad abbracciare un secolo di storia del nostro paese.
Il racconto di Rita diventa un album fotografico in bianco e nero, in cui si alternano immagini di luoghi, case, consuetudini, ritratti familiari, sorrisi, lacrime; una storia personale e familiare che si dipana in parallelo agli eventi della storia del periodo pre-bellico e bellico.
Questa è la parte dell'opera più coinvolgente e tenera, in cui il lettore riesce a percepire la presenza della scienziata tra le pagine, rette da una narrazione pacata ma capace di far trasparire con molta eleganza espositiva pensieri, sentimenti, emozioni che confluiscono vivi più che mai nel ricordo.

Non poteva la Montalcini non tracciare un breve excursus della sua attività scientifica, annoverando oltre al suo percorso di studi, le ricerche, la sperimentazione, i traguardi raggiunti.
Certamente sono pagine ostiche per chi non è padrone della materia, tuttavia di grande utilità per avvicinarsi, seppur da profani, a comprendere l'importanza del lavoro e dei risultati raggiunti da questa grande donna.
In una figura come questa diviene quasi impossibile scindere la vita dall'attività lavorativa, esse sono fuse e inestricabili; la vita di Rita è stata dedicata al mondo scientifico in toto, non per dovere ma per amore, motivo per cui non avrebbe mai potuto parlare di se stessa senza parlare delle sue attività. Ed anche se il racconto si fa complesso, si percepisce un'enfasi ed un calore che sono contagiosi per il lettore.

E' una lettura estremamente interessante, una sorta di testamento letterario in cui la Montalcini svela al pubblico tanta parte di sé, in maniera asciutta e per nulla auto-celebrativa, lasciando in eredità un messaggio di amore per l'umanità e di dedizione assoluta.


Un ringraziamento particolare a Cub!

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    25 Febbraio, 2013
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Un cuore continua a battere

“Cuore Cavo” accoglie tra le sue pagine una storia cruda, in cui la morte domina la scena prepotentemente.
Questo romanzo non si può ridurre semplicisticamente ad una storia di suicidio; questo romanzo nasconde altro, vuole trasmettere altro.
Viola Di Grado utilizza la storia della sua Dorotea, per indagare sull'intreccio tra la vita e la morte, per interrogarsi sui volti oscuri della morte e sulle eventuali strade percorribili dopo di essa.
Argomenti complicati e opinabili che si colorano di infinite sfumature a seconda dei punti di vista e dei credo di natura religiosa o personale.

L'autrice ha la capacità di materializzare davanti agli occhi del lettore sia la vita sia la morte.
La vita talmente spinosa, amaro calice, ingiusta, diversamente articolata, vita familiare spezzata, vita sociale inappagante, vita amorosa deludente, piccole gioie, grandi rancori e incomprensioni, continuo rincorrersi di speranze; eppoi la morte, non solo accidentale o naturale, ma anche bramata come soluzione, come via di scampo, come uscita di sicurezza, come occasione per voltare pagina.
Ma la morte cos' è?
Un approdo sicuro verso un'agognata serenità o l'inizio di una nuova esistenza?

La Di Grado affida la sua risposta alla narrazione, improntando il suo racconto sulla duplice faccia della morte.
Da un lato la morte come nemica della fisicità umana, colpevole del disfacimento e della perdita di ogni connotato fisico della persona, dall'altro la morte con la sua capacità di creare un nuovo essere, di cui non può intaccarne la sensibilità e le emozioni, anzi ne esalta il potere di vedere oltre ai limiti posti dal vivere quotidiano.
Insomma l'autrice immagina la nascita di una persona novella, in grado di di comprendere l'essenza ed il significato della vita terrena in maniera limpida e più distaccata dalle costrizioni imposte dalla famiglia e dalla società.

E' un romanzo lacerante e duro, in cui la narrazione in prima persona della protagonista amplifica il suo grido di dolore e la sua estenuante ricerca di una collocazione nel mondo; un lungo monologo per fare il bilancio di una vita, per accendere una luce sul passato, per accettare il presente e immaginare un futuro.
A livello contenutistico è un racconto dal costrutto coraggioso, ma ottimamente articolato ed elaborato; l'asso nella manica di questa giovane autrice è la forza e l'originalità stilistica, doti che le permettono di utilizzare le parole come armi che puntano dritte al cuore di chi legge.
Parole secche, dure, evocatrici di sensazioni immediate, senza filtri per edulcorarne gli effetti.

Viola Di Grado è una giovane penna talentuosa, capace di trasformare inanimate pagine di carta in una fucina di sentimenti e di emozioni.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    21 Febbraio, 2013
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Troppa fantasia

Chi, almeno una volta, non è stato stuzzicato dal desiderio di approfondire la conoscenza di Nostradamus, il cui nome è divenuto nei secoli sinonimo di “veggenza” e oggetto di una ridda di studi per sondare l'attendibilità o meno delle sue profezie?

Sicuramente scrivere un saggio biografico su Michel de Saint Remy, alias Nostradamus, è complicato, considerando che ad oggi mancano tante informazioni sulla vita di quest'uomo; ma seppur orientandosi su uno scritto che assuma la natura di biografia romanzata, occorre dedicarsi ad un buon lavoro di ricerca documentaristica per infondere una dose di credibilità sufficiente.
Ebbene, l'opera dei coniugi Nobecourt è destinata a lasciare al pubblico una netta sensazione di amarezza, soprattutto per coloro che si affidino a queste pagine spinti dalla voglia di conoscere realmente la vita, il lavoro e le opere dell'indovino.
Gli autori imbastiscono un romanzo prevalentemente fantasioso, tenendo ferma solamente la collocazione temporale, annoverando quindi i rapporti intrattenuti da Nostradamus con la corte reale di Francia, di cui in effetti si è sempre tramandato il legame di fiducia instaurato con Caterina de Medici consorte di Enrico II.
Il lettore vorrebbe leggere altro, vorrebbe vedersi materializzare davanti agli occhi in maniera nitida la figura del veggente, vorrebbe leggere alcune delle famose “quartine”, vorrebbe vedere analizzati i rapporti tra la formazione scientifica del medico-astrologo e le doti legate alla profezia ; insomma, il lettore che ricerca una valenza storica non è interessato alle tinte rose di cui abbondano queste pagine.

E' un romanzo dominato da un ritmo narrativo lento e monotono, dettagliato nei dialoghi spiccioli tra protagonisti nati dalla fervida immaginazione di coloro che scrivono, oltre ad essere corrotto a livello linguistico da una pessima traduzione.
Detto ciò, se sul piano biografico il romanzo è del tutto insufficiente e a tratti fuorviante, non è possibile neppure promuoverlo sul piano puramente narrativo.

Forse alle spalle di questa pubblicazione c'è lo zampino dell'interesse commerciale, per cui si è ben pensato di scomodare un nome come quello di Nostradamus, per avere un richiamo garantito a livello di vendite.


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silvia71 Opinione inserita da silvia71    19 Febbraio, 2013
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Voci dal passato

Pochi anni prima della sua scomparsa, l'oramai anziana Edith Hahn Beer decise di affidare alla penna della giornalista ed autrice S. Dworkin, la ricostruzione della propria vita.

La storia personale di Edith è la storia di tante persone private della libertà e della dignità, che videro stravolto il proprio mondo e la propria vita in un battere di ciglia, senza la possibilità di opporsi.
Il racconto di Edith ripercorre con una lucidità disarmante le tappe della vita di una giovane donna, colpevole di appartenere ad una “specie” da cancellare; è una storia che palpita della dolcezza dei ricordi legati agli affetti familiari e della brutalità susseguente alla segregazione.
In particolar modo, Edith ha vissuto per tanti anni la realtà dei “campi di lavoro”, offrendoci una fotografia nitida dei luoghi, delle condizioni e delle finalità diverse rispetto ai campi di sterminio.
Anni trascorsi come una schiava a lavorare la terra e poi all'interno di una fabbrica, senza avere più notizie sulle sorti dei familiari; anni di disperazione e avvilimento, sfociati poi in una vita rocambolesca fatta di fughe e cambi di identità.

E' un racconto toccante, condotto da una penna dotata di un buon equilibrio, che riesce sempre a mantenere obiettività, senza scadere nel lacrimevole forzatamente.
Siamo di fronte ad un genere di lettura che, a prescindere dagli intenti commerciali, trovo di sicura utilità, in quanto capace di sprigionare una forza ed un coinvolgimento diretto, totalizzante e pervasivo rispetto ad una pagina di narrativa.
Queste testimonianze dirette ci riportano i dolori dell'umanità, il duro passaggio della storia sull'uomo, gli errori e le sconfitte; sono pagine che aprono delle finestre sul passato per fare in modo che chiunque possa affacciarcisi e giudicare da sé.

Quella di Edith è la voce di una donna incolpevole, è la voce di un essere umano perseguitato, è una delle tante voci che esce dal buio degli orrori del passato per non dimenticare.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    14 Febbraio, 2013
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Gente di Dublino

In questa raccolta di racconti, Joyce si propone di rappresentare e analizzare, con un evidente spirito critico, la società del suo tempo.

Dublino fine Ottocento, una città immersa tra le nebbie e le nevi del freddo inverno irlandese, abitanti appartenenti ai diversi ceti sociali avvezzi solamente ai propri interessi, schiacciati da piccole meschinità e ipocrisie, soffocati dalle consuetudini imposte loro dall'ambiente familiare e socio-culturale cui appartengono.

Dall'insieme delle storie narrate si coglie alla perfezione la visione maturata dall'autore sulla propria città, fotografata con schiettezza e con audacia, portando alla luce una società scontenta e annoiata, ma allo stesso tempo priva totalmente di spirito di rinnovamento.
Una società immobilizzata negli schemi voluti dalla posizione sociale, dalla politica, dalla religione, destinata a necrotizzarsi; sulla scena uomini e donne che seppur scossi nella coscienza, tuttavia mostrano di accettare passivamente gli eventi senza tentare una fuga verso un futuro migliore e più appagante.

Un'opera di denuncia sociale, un valido strumento con cui il letterato si proponeva di smuovere le coscienze dei propri concittadini, esortandoli ad uscire da una staticità sociale e morale dilagante.

Leggere queste pagine è come ammirare una tela dipinta con colori tenui, in cui i personaggi sono avvolti da un alone che ne sfuma i contorni, colti con espressioni dimesse e poco reattive; la sensazione che se ne ricava è quella di una desolazione profonda, di un piccolo mondo grigio, di un'umanità malata di apatia.
Con quest'opera, la penna di Joyce riesce a trasmettere al lettore tutta l'amarezza ed il senso di ribellione per un mondo in cui l'autore rifiuta di rispecchiarsi.

E' un lettura che va affrontata con la consapevolezza di imbattersi in uno stile di scrittura datato, lontano dalla freschezza narrativa contemporanea, tuttavia in grado di offrirci un viaggio nel passato di indubbio interesse e ti riflettere sull'evoluzione del mondo e dei rapporti sociali, scoprendo somiglianze e affinità tra ieri ed oggi.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    11 Febbraio, 2013
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Lucy

In quest' ultimo lavoro, la Comencini ci accompagna nell'intricato mondo dei sentimenti e delle relazioni umane siano esse di coppia o familiari.

Lucy è un romanzo che con la sua struttura a più voci, coinvolge il lettore in maniera totalizzante, obbligandolo a prestare ascolto ai monologhi-confessione dei protagonisti.
Ecco che la storia narrata perde univocità per colorarsi e moltiplicarsi in un caleidoscopio di visioni differenti, in base al punto di vista e alla sensibilità emotiva di colui che parla.

Questo è un romanzo amaro, pregno di incomprensione, solitudine, rimpianto, delusione; siamo di fronte a donne e uomini che decidono di fare i conti col loro cuore, per capire il tempo presente interrogandosi sul passato e sul peso delle scelte fatte.
Il fardello del passato si intreccia col presente generando la consapevolezza che nulla nella vita si cancella, ma occorre trovare la forza per riconoscere gli errori, per ripartire alla volta del futuro, facendo pace prima con se stessi poi con il mondo circostante.

Tra le pagine di queste romanzo si innalza un canto alla estrema durezza della vita sia di un uomo sia di una donna sia di un figlio che nasca in un contesto familiare anomalo o difficile.
La Comencini è superba nell'analisi dei sentimenti; attenta a cogliere le infinite sfumature della coscienza umana, la profondità dei drammi e dei dolori, le incertezze che destabilizzano, le passioni brucianti, i rimorsi, le paure radicate, oltre a tutti quei meccanismi che si innescano nella coppia e nella famiglia allorché insorgano problematiche.

E' un romanzo avvolgente e penetrante, dove la forza graffiante delle parole ci accompagna in un turbinoso viaggio nell'animo umano, navigando tra amori lacerati, famiglie alla deriva, sogni infranti, speranze disattese.

Cristina Comencini sa parlare di sentimenti, di uomini e donne, sa trasmettere al pubblico intense emozioni trasportandolo sull'onda della commozione e dell'immedesimazione, utilizzando un linguaggio diretto, dosando con equilibrio dolcezza e forza di espressione.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    09 Febbraio, 2013
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Due di due

Mario e Guido, due adolescenti speciali o forse come tanti.
Mario e Guido, due giovani insoddisfatti della vita, alla ricerca spasmodica di uno scopo e di una serenità che scivola via.

La penna profonda e ammaliante di De Carlo genera due personaggi incredibili, corrosi da un male di vivere tangibile e palpabile; due giovani che gridano la loro voglia di vivere ad un mondo che non sembra prestare loro le orecchie, due giovani orfani di affetto, che bramano un' integrazione con la società che li circonda, ma prima ancora con se stessi.

De Carlo è un mirabile indagatore dell'animo umano, sviscerato quest'ultimo in ogni sua piega, in ogni suo angolo oscuro; il ritratto psicologico dei protagonisti è l'arma vincente dell'autore, il momento in cui riesce a dare la massima espressione delle sue capacità narrative.
Siamo di fronte ad un autore che sa raccontare le storie, che sa raccontare l'uomo e la vita, che racconta i sentimenti attraverso le immagini.

Un racconto forte e complesso che abbraccia tematiche spinose come il valore dell'amicizia, l'importanza della famiglia, il bisogno di mettere o ritrovare delle radici; oltre a fornirci un valido spaccato degli anni Settanta, periodo caldo di trasformazioni socio-culturali, economiche e politiche.

La narrazione di De Carlo trasporta il lettore in un turbine di sensazioni, ancorandolo alla vita dei suoi protagonisti fino all'epilogo; impossibile rimanere esenti dal dolore e dalla malinconia di cui sono pervase le pagine, impossibile evitare di riflettere sulla natura umana, sui sogni e le speranze, sulla capacità di adattarsi alle carte che il destino ti assegna.

Un romanzo che fotografa una condizione umana svincolata dal tempo, destinato ad essere sempre attuale.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    06 Febbraio, 2013
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Il tormento e l'estasi

Irving Stone è uno degli autori più completi e credibili nello scrivere biografie romanzate di alto livello.
Il suo “Il tormento e l'estasi” incentrato sulla vita del grande Michelangelo, raggiunge una completezza a tuttotondo, sul piano contenutistico e stilistico.
Stone è in grado di coniugare il risultato di un lavoro minuzioso di ricerca ad uno stile narrativo corposo ma fluido, attenendosi fedelmente al dato storico per quanto possibile, oppure ricostruendo taluni momenti con verosimiglianza assoluta e rispetto degli usi dell'epoca.

La biografia romanzata appartiene ad un genere letterario piuttosto difficile; i rischi sono molteplici, come quello di stravolgere la vera natura del personaggio oppure eccedere nell'utilizzo di dialoghi inverosimili, creando dei lavori in cui il lettore respira odore di fasullo.

La penna di Stone ha confezionato sempre ottimi romanzi, regalandoci personaggi indimenticabili.
Il Michelangelo descritto in queste pagine è un vero capolavoro; un uomo dilaniato dalla sua stessa passione artistica, logorato da una vita economicamente difficile e raminga, un uomo svuotato nei sentimenti, incompreso da familiari, amici e colleghi.
Stone ci rappresenta il Michelangelo uomo e artista, grazie ad una ricostruzione certosina della lunga vita dello scultore e di tutti gli eventi da cui fu attraversata e segnata; l'autore ha compreso come il binomio vita-produzione artistica sia pressoché indissolubile, coinvolgendo il pubblico in una narrazione poderosa e inarrestabile, ponendo cura speciale agli eventi storici del periodo unitamente ad un'indagine scrupolosa dell'animo del suo protagonista.
Sono pagine ricche di sentimenti, espressi in maniera mirabile; ardori, passioni, vittorie, timori, insoddisfazioni, vendette, conflitti, rancori.

E' un romanzo di gran valore storico per tutti coloro che volessero approfondire o conoscere la produzione artistica di uno dei grandi dell'arte del nostro paese, unitamente alla scoperta delle origini della sua“vocazione artistica”, senza tralasciare un'immersione nella storia italiana a cavallo tra XV e XVI secolo di cui Stone ce ne offre uno spaccato nitido e verace, fornendoci immagini pregevoli della Roma e della Firenze dell'epoca.

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Brama di vivere
L'origine
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    02 Febbraio, 2013
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Lo scurnuso

Leggere questo breve romanzo della Cibrario significa immergersi nella storia di Napoli dal '700 ad oggi.
Pennellate rapide ma incisive, ci regalano colori e odori della città di un tempo e di quella odierna.
Passeggiare per i suoi vicoli, ammirare scorci cittadini, respirare le fragranze che sprigiona l'aria, ascoltare il vocio degli abitanti, osservare costumi ed abitudini.

Oltre alla bellezza e alla poeticità descrittiva dei luoghi, il romanzo palpita di sentimenti e commozione.
La storia di una antica statuina del presepe, porta alla luce una storia di abbandono, di solitudine, di miseria, di dolore.
Una storia di altri tempi, dove la povertà e la malattia costringono gli uomini a scelte difficili, sacrificando ciò che hanno di più caro.
Un giovane orfano, negletto ma con un talento innato nelle mani ed un uomo derubato di tutto dalla vita, sono i protagonisti della prima parte romanzo, cui l'autrice riesce ad infondere cuore e anima; due figure incredibili capaci di coinvolgere il lettore in una galleria di immagini tenere e tristi, dove la durezza della vita sembra avere il sopravvento sulla fragilità umana.

Leggendo questo romanzo è percepibile quanto la penna della Cibrario sia cresciuta in intensità rispetto ai tempi del suo esordio letterario.
L'autrice elabora una trama in cui si intrecciano una serie di storie di ottima fattura, studiate ed equilibrate nel contenuto, ponendo un'attenzione particolare sui personaggi.
Personaggi che si stagliano vividi agli occhi del lettore, ritratti ciascuno nella quotidianità imposta dal ruolo sociale e dall'epoca, mossi da passioni o da necessità impellenti, vincitori sulle traversie della vita oppure vinti dalla forza di un destino avverso.
Ne nasce un romanzo in grado di trasmettere emozioni e di mantenere alto il coinvolgimento fino all'epilogo della storia.

Un ottimo tributo a Napoli e alle sue tradizioni, espresso da una penna legata a questa terra da un affetto profondo e percepibile.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    29 Gennaio, 2013
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Sostiene Pereira

Antonio Tabucchi affida a queste pagine il racconto di una storia amara, una storia di repressione, intolleranza e privazione della libertà; una storia che narra l'ascesa e il consolidarsi di un regime anti-democratico che annulla l'uomo come cittadino ed essere umano.

Un'afosa Lisbona del 1934 fa da sfondo alle vicende narrate; il sole ed i colori si fondono con il grigiore ed il buio della paura, della violenza, del silenzio.
Va reso merito alla penna di Tabucchi per aver creato un personaggio splendido quale è il signor Pereira, uomo mite e compassato, con gli anni arresosi alla vita e ad un destino poco propizio, a cui la sorte pone sul cammino un incontro destinato a mutare la sua visione della vita.
L'evoluzione psicologica del protagonista è stupefacente, dando vita a pagine dense di commozione e sentimento.
Né l'età né il clima politico possono arrestare la rinascita di un uomo.
L'autore con una narrazione pacata ma incisiva, descrive la parabola della rinascita del protagonista in un momento storico in cui reagire e sovvertire i diktat di un regime repressivo potrebbe essere deleterio.
L'apatia, l'inerzia, l'indifferenza cedono il passo al coinvolgimento, alla passione, alla solidarietà.
L'aridità di un cuore provato rifiorisce di sentimento.

Un ottimo lavoro, ben costruito a livello di contenuto e a livello stilistico, capace di catturare l'attenzione del lettore avvolgendolo in un crescendo di tensione e di emozioni.
Oltre ad offrirci uno spaccato storico estremamente realistico e di valore, l'autore ci regala un viaggio indimenticabile all'interno della coscienza umana, destinato a farci riflettere e a rimanere impresso nella memoria.
Nel giardino della violenza e dell'odio potrebbe sempre spuntare un filo di speranza.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    22 Gennaio, 2013
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Il sottosuolo

Questo piccolo gioiello della letteratura, è figlio di un momento difficile e tormentato per Dostoevskij.
Con questo romanzo egli si stacca dalla precedente vena narrativa, per creare un personaggio dilaniato nell'animo, un “antieroe” come lui stesso lo definisce, sofferente ma consapevole.

Il narratore si cela dietro le vesti del giovane protagonista, auto-confessandosi in un monologo crudele e dissacratore, mettendo a nudo “il sottosuolo” dell'anima con rabbia e determinazione, rendendosi un anticipatore del concetto di inconscio e di psicanalisi.
E' un racconto che prende vita da un tormento interiore, da un male di vivere, dalla una solitudine affettiva e sociale, da una insoddisfazione crescente e avvolgente.

La penna di Dostoevskij fonde la bellezza narrativa alla profondità di un saggio filosofico, attraversando le zone più oscure della mente umana, scavando con consapevolezza e furore.
Egli vuole dimostrare che la forza della ragione non arriva a svelare tutto, perché nel fondo dell'animo si trovano tanti nodi da sciogliere e da interpretare.
Insomma la luce della scienza e della ragione non sempre è sufficiente per dirimere la notte dell'anima.

E' una storia dai toni forti e crudi, come testimonia un linguaggio cinico e dirompente che evade dagli schemi del perbenismo e della morale, capace di regalarci un personaggio sui generis che ci introduce in un viaggio all'interno della coscienza.
Un personaggio difficile, troppo acuto o troppo pazzo, talora irritante talora commovente, aggressivo e indifeso, capace di destabilizzare anche l'uomo più saldo con i suoi quesiti.

E' un testo impegnativo, in grado di offrire infiniti spunti di riflessione sulla vita ed arricchire il lettore che saprà captare gli infiniti messaggi affidati a queste pagine.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    05 Gennaio, 2013
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Annibale

Gianni Granzotto pubblica nel 1980 questa interessante biografia su Annibale.
Annibale è uno di quei personaggi destinati a rimanere impressi nella memoria di ciascuno di noi, a prescindere dagli interessi storici coltivati; ma superata la fase scolastica, cosa ricordiamo effettivamente del condottiero cartaginese, o meglio, cosa ci tramandano di lui i testi di storia?

Leggendo questo testo di Granzotto, ci riappropriamo del piacere di approfondire la storia, addentrandoci nelle pieghe meno conosciute della vita di un personaggio indimenticabile, guidati da una penna sapiente, colta e onesta.
Granzotto come biografo ha il pregio di essere molto equilibrato, anche nei momenti in cui esprime valutazioni di stampo personale.
E' normale dover formulare teorie ed ipotesi, mettendo a fuoco un periodo così lontano, di cui col tempo si sono perse fonti e documenti diretti; tuttavia in questi casi la voce dell'autore è sempre discreta e ben documentata.
In merito al contenuto si tratta di un resoconto biografico molto dettagliato, che accompagna le gesta del grande cartaginese dalla nascita alla dipartita, rendendo edotto il lettore sugli eventi personali, politici e militari.
Di sicuro interesse e ben approfondite, le vincenti strategie militari che fecero di Annibale un grande tattico, oltre che vincitore, anche in situazioni di estremo disagio ed inferiorità numerica.

Sono pagine di facile lettura, esenti da una narrazione eccessivamente cronicistica e pedante.
Granzotto ha un'ottima chiarezza espositiva, in grado di rendere appetibile e brillante il racconto della vita di Annibale anche per coloro che non avessero mai affrontato questo genere letterario, talvolta tacciato come impegnativo e noioso.
A tal proposito risultano gradevoli, alcuni spaccati di viaggio compiuti dall'autore sui luoghi simbolo degli scontri tra Roma e Cartagine, per poter capire e raccontare meglio certi episodi e talune dinamiche tramandateci.
Un romanzo imperdibile per chi ama conoscere la storia, per chi vuole scoprire il piacere di fare un viaggio nel tempo alla scoperta di un uomo divenuto “ leggenda”.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    03 Gennaio, 2013
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Il bianco e il nero

Con questo romanzo Missiroli affronta una grande sfida; parlare di una delle vergogne più grandi dell'umanità, le persecuzioni razziali.
Cosa significa in realtà razzismo?
Cosa spinge un uomo ad intraprendere la strada dell'odio verso il prossimo solamente a causa della diversità della pelle?
Il tema è delicato e complesso, ma l'autore si propone, come sempre, di scavare nel cuore degli uomini e scandagliare tutte le zone d'ombra.
La profondità dei protagonisti è sublime, ritratta con tocchi incisivi e fugaci al tempo stesso, come rapide pennellate; volti, gesti, sguardi che gridano più di mille parole.
Questo è Missiroli, capace di commuovere costruendo dei personaggi che parlano anche col silenzio.
Da una parte le vittime dall'altra i carnefici, uomini e donne cui la vita sembra aver assegnato un ruolo; l'analisi di Missiroli ci spinge ad indagare dietro le quinte della coscienza umana, delle convenzioni, degli stereotipi imposti dal contesto sociale.
Quanto può influire il luogo in cui siamo radicati, la famiglia che ci ha educato e cresciuto?
Tutte le risposte dell'autore sono sapientemente e abilmente affidate alla narrazione di questa storia dal sapore amaro e dolce insieme, in cui il male estremo riesce a fondersi con un bene ritrovato.
La crudezza di talune immagini e la grettezza di certuni animi si incontrano e si scontrano con la forza del cambiamento e dell'amore; quest'ultimo percorre come un fiume sommerso tutto il romanzo per esplodere in una resa dei conti finale.

Questo lavoro conferma la concretezza e la maturità dei temi trattati dal giovane autore, imbastendo un racconto fatto di sentimenti, errori, scelte, rimorsi, sorrisi e dolori.
Missiroli non fa sconti nel ritrarre la società “malata”, il suo sguardo è accorto e impietoso, tuttavia pronto a cogliere qualche spunto di speranza e di luce.
Illuminante il bisogno dell'autore di fondere sempre passato e presente nel corso della narrazione, intrecciando i colori al bianco e nero; perché l'uomo è figlio di questo incontro.
L'uomo non è esente dal fardello del passato, ma può sempre trovare la strada della redenzione.

Complimenti al giovane autore, per aver saputo trattare un tema ostico come quello del razzismo, in maniera vibrante e toccante, grazie all'ausilio della sua originale penna, che pur utilizzando poche parole, crea immagini e uomini indimenticabili.

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Il buio addosso
Il senso dell'elefante
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    02 Gennaio, 2013
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Nel tempo di mezzo

Con questo romanzo Fois prosegue la narrazione della storia della famiglia Chironi, già protagonista dell'ottimo “Stirpe”.
Al cospetto della bellezza contenutistica e stilistica di “Stirpe”, questo secondo lavoro risulta davvero inferiore, tanto da apparire una mera forzatura.
O meglio, al termine della lettura si comprende che in realtà i due romanzi fossero un unico blocco, scisso solamente per scelte editoriali.
Per il lettore che abbia riso e pianto insieme ai protagonisti del primo romanzo, attraversando anni cruciali della nostra storia, queste pagine lasciano un senso di incompiutezza e di sbiadimento.
Manca la forza narrativa che ha infuocato le vicende precedenti, manca l'epicità, mancano personaggi vibranti e fantasiosi.
Se “Stirpe” vive di una propria compiutezza e indipendenza, lo stesso non può dirsi de “Nel tempo di mezzo”, che perde in comprensione agli occhi di un pubblico ignaro della precedente lettura.
L'esordio del romanzo è lento e si avverte la necessità dell'autore di creare un trait d'union tra la nuova storia e le gesta precedenti per fornire una minima consecutio.
La narrazione prosegue poi fluida, regalandoci qualche interessante spaccato del periodo che va dal dopoguerra agli anni Settanta, fotografando l'evoluzione dei costumi e del vivere sociale.

Ritengo Fois un grande narratore, ma talvolta alcune scelte non sono azzeccate.
Non ne sconsiglio in toto la lettura, ma raccomando di approcciarsi prima a Stirpe, per deliziarsi di un ottimo romanzo e per assaporare meglio la vicende dei discendenti della famiglia Chironi.

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Stirpe
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    20 Dicembre, 2012
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Il seggio vacante

“Il seggio vacante” è un romanzo di gran contenuto, destinato a scuotere le coscienze e a stimolare riflessioni sulla società attuale.
Poco importa l'ambientazione inglese, in fin dei conti lo spaccato sociale rappresentato ben si adatta a qualsiasi contesto nazionale.
I mali di una piccola comunità, assurgono a simbolo di un mondo malato, corroso da avidità e mosso da una ricerca spasmodica all'interesse personale, frustrato nei sentimenti e negli affetti familiari.
Un intreccio di famiglie alla deriva, focolari domestici in cui i legami si sciolgono come neve al sole, in cui il ruolo di genitori si frantuma contro il muro dell'incomprensione, della freddezza e dei rancori; veramente dolorosa la rappresentazione della lotta tra genitori e figli, colta in maniera cruda e dura, destinata a lasciare sul campo solamente feriti insanabili.
Sembra un mondo dove la luce è tramontata per cedere il posto all'oscurità morale e civile; ogni singolo personaggio non è esente dalla corruzione della propria anima, sia per fame di denaro sia per fame di successo, sia per deviazioni personali, sia per noia.
L'implosione di questa società non si limita allo scontro generazionale, ma provoca anche una spaccatura sempre più profonda tra classi sociali, dettata da mancanza di solidarietà, avversione all'integrazione, insensibilità alle problematiche che affliggono i soggetti più deboli.
La Rowling ci parla di una società flagellata su più fronti, dal personale al sociale, attraversando i campi familiari, lavorativi, scolastici, politici.
Queste pagine ci rendono una visione impietosa di uomini che non sanno più interagire, né con se stessi né con il prossimo né con i figli; aumenta la capacità di nutrire odio, invidie e insoddisfazioni a scapito di sentimenti positivi e costruttivi.

E' una lettura graffiante, nei contenuti e nei toni; l'incipit in sordina sfocia, strada facendo, in un fiume impetuoso, coinvolgendo il pubblico con forza, tra commozione, dolore e paura per una società che è mutata e sta percorrendo sentieri pericolosi.
L'estremo pessimismo che percorre il romanzo è dettato dal bisogno dell'autrice di evidenziare ed estremizzare gli aspetti peggiori della società contemporanea, senza alcun tentativo di giustificare gli uomini per i loro comportamenti; il messaggio arriva forte al pubblico, inchiodandolo alla visione straziante del mondo cui vive.
Coraggiosa ed audace la scelta narrativa della Rowling, poiché il suo microcosmo sociale sarà destinato a dividere la critica; qualcuno la potrebbe tacciare di avere accorpato un insieme inverosimile di circostanze, proponendo un messaggio esageratamente negativo e privo di speranza.
Al contrario, riteniamo che romanzi come questo siano ottimi spunti per riflettere sui disagi e le problematiche del vivere attuale, rompendo il guscio dell'individualismo per ritrovare una comunione sostanziale con chi ci circonda.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    12 Dicembre, 2012
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Il carnevale dei delitti

Il romanzo di Bruno Elpis ci regala il piacere di leggere un giallo classicamente inteso, senza il bisogno di chiamare in causa la polizia scientifica, senza scene cruente e senza azione da thriller.

Nella costruzione di questo giallo potremmo dire che tutto scorre con lentezza, facendoci respirare l'aria lacustre dello splendido lago di Como, ambientazione principale ma non unica degli eventi.
Pacato e riflessivo è il commissario protagonista, lontano dagli stereotipi impostici dalle figure di detective americani; Giordan è l'antitesi del poliziotto- rambo, è uomo a cui piace riflettere e ascoltare gli altri, raccogliendo i tasselli e unendoli con cautela.
Il romanzo affronta il tema complesso e spinoso delle patologie psichiche, con cognizione di causa, mettendoci a parte di conoscenze mediche e scientifiche reali, infondendo veridicità agli eventi narrati ed ai protagonisti.
Ne nasce un romanzo ben costruito e maturo sotto il profilo del contenuto, dotato di lucidità e chiarezza nell'addentrarsi nel mondo della psicoterapia, delle fobie e dei traumi pregressi; vengono espresse nozioni di notevole interesse che donano una ricchezza aggiunta a questo storia dalle tinte gialle.
Al nostro autore sta veramente stretta la stesura di un romanzo giallo; le potenzialità sono maggiori e forano prepotentemente queste pagine; ci riferiamo alle descrizioni storico-antropologiche fornite in merito ad alcune maschere utilizzate dall'assassino durante i delitti. Sono delle vere chicche per il lettore, che aprono delle gradevoli parentesi, proiettandolo in vari ambiti storici; anzi, se questi aspetti fossero stati più approfonditi, avrebbero fatto la gioia di taluna parte del pubblico.

Sul piano stilistico, l'autore si dimostra già una penna matura, dal linguaggio raffinato e consono ai temi trattati, privo di sbavature, molto gradevole alla lettura.
Ben riuscito, anche se non originale sul panorama letterario, l'utilizzo a tratti della narrazione in prima persona del serial killer, il quale impegnandosi in una sorta di monologo, si analizza e si confessa.
E' un romanzo dedicato a chi non ama scene truculente e inseguimenti folli, ma a chi volesse riscoprire il gusto di una caccia all'assassino con le sole armi della logica, fino ad arrivare a capire le cause scatenanti che stanno alla base della trasformazione di un uomo.

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Romanzi storici
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    10 Dicembre, 2012
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La nostra storia

“Non tutti i bastardi sono di Vienna” è il meritatissimo vincitore del Campiello 2011.
Chiamati a dare una prima e rapida definizione di quest'opera, affermiamo che si tratta un romanzo storico, ambientato tra il 1917-18, periodo finale della Grande Guerra.
L'autore ricostruisce uno spaccato storico di cui poco si è tramandato, ossia dell'invasione dell'esercito austriaco nelle zone orientali del fiume Piave; nel giro di breve tempo, agli abitanti di quei luoghi furono requisite le abitazioni e vessati fino alla fame.
Nella sua brillante ricostruzione, Molesini si è avvalso di numerose letture, tra cui alcuni preziosissimi diari, come “Diario dell'invasione”, scritto da una sua ava; gli spunti ed i personaggi sono veraci, mentre le vicende narrate sono arricchite dall'ottima mano dell'autore, mantenendo ferma la perfetta congruità delle stesse alla reale situazione vissuta in quei luoghi.
In questo romanzo si narrano le gesta di uomini e donne a cui la guerra mutò la vita irrimediabilmente, irrompendo tra le mura di casa, spezzando l'unità e la quiete familiare, trasformandoli in ospiti scomodi.
Molesini ci mostra un pezzetto di storia italiana, ci mostra una faccia della guerra di cui poco apprendiamo dai testi storici a carattere generale; in queste pagine ci attende una splendida rappresentazione di quella forma di resistenza che si venne formando tramite una fitta rete di azioni volte al disturbo delle azioni militari nemiche.
Gente di gran coraggio e di tanto orgoglio, a cui la guerra ha tolto affetti e futuro, ma non la forza di reagire, di porgere una mano al prossimo mettendo a rischio la propria vita.
I personaggi che animano il romanzo sono caratterizzati in maniera esemplare, colti non soltanto con estremo realismo storico, ma con nitidezza e profondità umana, sul piano dei sentimenti.
Sono veraci, con il loro bagaglio di vizi, manie e abitudini, anche se la vita li pone sull'orlo di un baratro.
Grazie alle figure che animano la narrazione, il romanzo, pur essendo doloroso, è pervaso da un filo sottile di comicità che si fonde con la tragicità degli eventi; un'operazione straordinaria figlia di una penna sagace e accorta.
Immagini forti e pregne di lacrime si innestano alla levità della vita di gente comune che non chiede altro che poter continuare ad accudire alle proprie faccende domestiche, alle proprie piccole gioie quotidiane, ai propri affari del cuore.
Molesini affida la narrazione alla voce più giovane della famiglia, trasmettendoci attraverso i suoi occhi il volto della guerra; la narrazione in prima persona, pur richiedendo un linguaggio rapido e scorrevole, infarcito di dialetto, dona un'intensità commovente.
E' una lettura che appassiona e fa innamorare di questa gente, spingendo il lettore a divorare queste pagine, con grande coinvolgimento.

In buona sostanza è un romanzo improntato su un estremo realismo, animato da uomini e donne tratteggiati a tutto tondo, in grado di dare un volto a tanti protagonisti della storia di cui nessun testo riporta i nomi; tutto ciò è il nostro passato e grazie ad opere come questa possiamo conoscerlo e ricordarlo.

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Canale Mussolini di Pennacchi
Le due chiese di Sebastiano Vassalli
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    03 Dicembre, 2012
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Villa Metaphora

L'ultima fatica letteraria di Andrea De Carlo porta in scena la società contemporanea di casa nostra e non solo.
Quattordici personaggi, quattordici vite per creare un romanzo corale che fotografa mondi articolati e complessi, per porre gli uomini di oggi sotto una lente d'ingrandimento.
Tessere una trama con tanti fili è un'impresa ostica, talora destabilizzante per il pubblico; l'abilità dimostrata da De Carlo è indubbia e stupefacente.
L'idea “alla Agatha Christie” di confinare per una settimana questo manipolo di uomini e donne su di un'isola pressoché inaccessibile e lontana da agi e modernità, concede all'autore l'arma giusta per indagare l'anima dei suoi protagonisti, per far sì che gli stessi si confrontino e si scontrino, scoperchiando pentole in cui bollono segreti, malesseri, rancori, invidie, insoddisfazioni.
Lo scopo è quello di abbattere il muro dell'apparenza, indagare senza tabù e ipocrisie tanti aspetti dell'uomo di oggi; con spirito pungente e sarcastico l'autore ne coglie vizi e virtù, sia nelle vesti imposte dai ruoli sociali ricoperti sia nell'intimità della vita privata.
Il risultato è forte, spiazzante e doloroso per chi legge.
Quella di De Carlo è una società avida, gretta, insensibile, opportunista, immorale.
Qualcuno potrebbe tacciarlo di esagerato pessimismo; ma l'obiettivo è quello di stimolare una riflessione profonda per capire in quale mondo viviamo.
C'è tanta realtà in queste pagine, c'è tanta Italia e tanto mondo odierno.
Al termine della lettura si perde la certezza di avere fatto un lungo viaggio all'interno di un racconto metaforico; gli spunti, le storie, gli eventi sono maledettamente veri.

Senza ombra di dubbio è un romanzo che colpisce per la vastità del contenuto e per la originalità stilistica di scrittura.
Lo stile narrativo di De Carlo è corposo e abbondante, talora prolisso, minuzioso e ricco, in grado di generare una completezza di contenuto avvolgente e pervasiva; i suoi protagonisti si raccontano in prima persona dando la stura ad ogni tipo di pensiero, di opinione, di sogno, di esigenza.
Ciascuno tira le somme della propria esistenza, tra pentimenti e convinzioni; rammenta il passato, valuta il presente e ipotizza un futuro prossimo.
Interessante la mescolanza tra persone appartenenti al jet set, siano essi attori, giornalisti, politici e coloro che non lo sono; un confronto moderato dalla penna sagace di De Carlo con intelligenza e ironia, mettendo a nudo gli uni e gli altri con equilibrio e imparzialità.
Il linguaggio utilizzato è mutevole, camaleontico, poiché ad ogni personaggio è associato un diverso registro; si passa dal lessico scurrile a quello raffinato, dall'inserzione di intere frasi in inglese, francese e tedesco, per finire con la creazione ad hoc di un dialetto indigeno partorito dalla fantasia dell'autore fondendo elementi linguistici siciliani, maltesi, portoghesi, etc (ricordiamo che l'isola su cui si svolgono i fatti non esiste).

E' un romanzo che richiede un grande impegno per il lettore, un romanzo che di primo acchito potrebbe annichilire ed impaurire, ma una volta entrati in sintonia con l'autore, diviene impossibile staccarsi dai personaggi e dalle loro sorti.
Ci regala uno spaccato della nostra epoca, rappresentando un momento storico in cui occorre meditare sulla moralità, sulla dignità, sulla legalità.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    01 Dicembre, 2012
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Caravaggio uomo e artista

Dopo l'esordio con “Il libro segreto di Dante”, Francesco Fioretti pubblica un romanzo storico dedicato al grande Caravaggio, ripercorrendo il periodo romano risalente agli inizi del XVII secolo.

Ne nasce un lavoro di buona fattura e di notevole interesse, frutto di impegno nella ricerca bibliografia, in grado di offrire una lettura costruttiva e densa di contenuto.
In primis specifichiamo che Fioretti non ha la presunzione di elaborare un saggio, ma di ricostruire parte della vita del pittore mescolando abilmente accadimenti reali ad altri rielaborati con verosimiglianza; insomma la fantasia narrativa riempie quegli spazi vuoti di cui mancano testimonianze veraci o che col passare dei secoli hanno dato vita a diverse interpretazioni e congetture.
Convincenti ed esaustive sia l'ambientazione sia la figura del Caravaggio.
La Roma del 1604 è raffigurata con dovizia di particolari sia topografici sia politici, mettendo in risalto il clima dell'epoca che lacera la città con lotte di potere tra nobiltà e papato, l'immoralità e la corruzione dilagante, la violenza, la povertà.
Un quadro a tinte fosche accoglie il lettore che si addentra nella lettura, catturandone l'attenzione con elementi squisitamente storici e preparandolo ad una migliore comprensione degli eventi.
Per coloro che hanno una conoscenza superficiale di Caravaggio, questo romanzo si rende estremamente utile per conoscerne i tratti salienti della vita sia come uomo sia come artista;
i rapporti difficili e contrastati con la cultura ufficiale dell'epoca e con lo stile accademico imperante, le idee innovatrici e rivoluzionarie, la vita privata travagliata.
Ordunque, se a livello di contenuto il romanzo è una piacevole sorpresa, lo stesso si può affermare per la maturità stilistica, in grado di donare una narrazione dal linguaggio forbito e articolato.
Gradevole l'alternanza di narrazione tra la voce del protagonista che si racconta in prima persona e la voce del narratore; il tutto confluisce in un unico flusso narrativo ben legato e coinvolgente.

E' stata erronea la scelta di marketing di captare l'attenzione dei lettori inserendo la dicitura “thriller” sulla copertina del libro; tra queste pagine non alberga la suspense di un thriller, semmai un leggero filo di mistero percorre la storia senza divenire predominante sul restante contenuto.
Inutile dire che questa filosofia commerciale genererà insoddisfazione nelle aspettative di un pubblico alla ricerca del classico climax giallo.
Questo romanzo può entrare a buon diritto in quel filone letterario che si presta ad essere ottimo strumento di divulgazione, per avvicinare con piacevolezza alla vita di un grande pittore italiano anche coloro che non abbiano avuto la possibilità di approfondire lo studio della storia dell'arte o semplicemente per riscoprire un grande personaggio che ci ha lasciato dei quadri splendidi.

Sebbene nel raccontarci a suo modo il grande Michelangelo Merisi, Fioretti si sia concesso qualche licenza fantasiosa su alcuni aspetti della vita del pittore, tuttavia ciò non ne inficia la piacevolezza e la coerenza storica.

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Romanzi
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    26 Novembre, 2012
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L'amore rubato

Nel suo ultimo lavoro Dacia Maraini torna ad indagare sulla condizione femminile, tema a cui ha dedicato tanta parte della sua produzione letteraria.
Sono narrate otto storie tratte da casi di cronaca; quella cronaca che ogni giorno ci parla di violenze e abusi, tanto da parlare di “femminicidio”, utilizzando un neologismo coniato dall'Onu.
Quello rappresentato è un amore rubato, infangato, orrendamente sottratto con odio, inganno e brutalità.
Le mani colpevoli e assassine sono spesso quelle di chi ti sta accanto, di chi ti dovrebbe avvolgere e proteggere con un caldo abbraccio.
Cosa si spezza nel cuore e nella mente di un uomo per portarlo ad abusare di una donna, talora compagna, figlia, amica, sorella?
E' una domanda che indigna e che ci trova sempre impreparati, ma che bisogna continuare a porsi.
Per chi conosce l'autrice, sa con che tenacia ed impegno si volge a trattare questi temi sociali scottanti, affidando alla letteratura il ruolo di denuncia e di testimone per comprendere il mondo ed interrogarsi su quale strada stia prendendo.
Come già in “Buio”, la Maraini narratrice presta la sua penna alle storie con rigore e nettezza quasi giornalistica, perchè le vicende esposte parlano da sole, gridando di dolore o sprofondando in un silenzio agghiacciante.
Quel silenzio frutto della paura e della ritorsione, dettato dalla condizione di soggezione instaurata tra vittima e carnefice.
Il silenzio dilaga tra queste pagine, come un mostro sfuggente contro cui è ancora tremendamente difficile combattere.
Ecco che l'autrice torna a dare voce alla cronaca per lanciare il suo messaggio, affinchè il muro del silenzio sia abbattuto non solo con l'utilizzo delle leggi ma anche con la diffusione di un nuova cultura, che sappia regolare i rapporti uomo-donna ripristinando la dignità ed il rispetto.
La Maraini sta dalla parte di chi preferisce parlare di tali temi scomodi, rischiando anche di risultare ripetitiva, ma visto l'aumento esponenziale dei reati di violenza sulle donne, è d'obbligo riflettere sulle cause e sulle possibili soluzioni.
Insomma, se questo è il mondo in cui viviamo, è meglio urlare tutta la nostra riprovazione, smettendo di pensare che possa solo toccare gli altri.
La violenza tra le mura domestiche e non solo, è divenuta una piaga sociale di vaste proporzioni, perciò ben vengano opere come queste, in cui non c'è spazio per la fantasia e lo svago, ma solo per la riflessione.

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Storia e biografie
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    21 Novembre, 2012
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Consoli e ambasciatori

Maria Eugenia Veneri, giovane laureata in relazioni internazionali e diritti umani, nel 2008 riceve l'incarico di ricostruire la storia delle legazioni estere presenti a Torino dal 1861 ad oggi.
Nasce così questo saggio dal carattere prettamente tecnico-giuridico, rivolto ad un pubblico di addetti ai lavori, siano essi giuristi, appartenenti al corpo consolare e affini.

Il lavoro della Veneri è molto approfondito e dettagliato; si apre con un interessante excursus sulla nascita ed la veste di console nella storia, per arrivare poi alla specifica sul ruolo di console onorario, di cui molti non conoscono le caratteristiche intrinseche e l'importanza ricoperta.
Interessante anche per chi fosse digiuno da tali nozioni, apprendere la differenza che corre tra un console generale ed un console onorario, figure di cui spesso si sente parlare dai mezzi di informazione; grazie a questo testo, è possibile apprendere il ruolo determinante che un console onorario può assumere a protezione dei cittadini dello stato rappresentato contro comportamenti discriminatori e limitazioni della libertà, oppure a garanzia dell'osservanza del diritto internazionale generale e convenzionale.
Il saggio prosegue con un'esposizione minuziosa dei paesi rappresentati a Torino stabilmente dalla fine dell' ottocento, corredata dai nomi dei consoli che si sono avvicendati nel tempo e dalle attività svolte, con l'aggiunta di notizie scarsamente divulgate ma di certa utilità.
Questo testo entra a pieno titolo nella produzione saggistica di stampo giuridico, utile strumento di studio ed approfondimento per coloro che si accingano alla conoscenza della materia.
E' palese il grande lavoro di ricerca e ricostruzione che vi è sotteso, elaborato con chiarezza espositiva e metodo, per raggiungere un ottimo livello di comprensibilità.

Vista l'importanza nell'attuale panorama internazionale delle relazioni tra le nazioni e la realtiva disciplina dei rapporti tra le stesse, scritti di questa natura diventano mezzi concreti e validi per addentrarsi nella materia consolare, rammentandone i principi costituenti e le funzioni.

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saggistica giuridica
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    13 Novembre, 2012
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Senza coda

Con questo romanzo Marco Missiroli esordì nel 2005, premiato l'anno seguente col Campiello Opera Prima.
Le tematiche affrontate da questo giovane e talentuoso autore, qua come nei lavori successivi, sono forti e ardite, destinate a lacerare il muro del silenzio su certuni argomenti spinosi e a provocare sconcerto nel pubblico.

“Senza coda” è una storia di infanzia annientata, di contesti sociali e familiari violenti.
Il legame tra un padre e un figlio non sempre è contraddistinto da amore, dedizione e protezione; talvolta il destino ti assegna una famiglia “sbagliata”, dove il il gelo affettivo si sostituisce al calore, dove le minacce prendono il posto dei doni, dove le percosse si alternano alle carezze.
Il piccolo Pietro è una figura stupenda, destinato ad accompagnarci lungo il doloroso percorso che lo condurrà per sempre lontano dalle gioie e dalla spensieratezza di bimbo, per approdare nel mondo buio e complesso degli adulti che lo circondano.
Il sole, le risate, i giochi cedono il passo alla scoperta del male, del pianto, delle ingiustizie.
E' una lettura che fa male, che commuove e indigna, inchiodandoti ad immagini di una vita ingiusta, di una vita derubata dei sogni e della magia per mano di adulti “corrotti”nel cuore e nella morale.

Lo stile di Missiroli è già delineato superbamente in questo romanzo d'esordio, incantando con una scrittura marcatamente visiva, in cui colori e odori sono palpabili e immediati, capaci di raffigurare il mondo esterno con realismo e suggestione.
L'ambiente in cui si muovono i protagonisti è importante e decisivo per comprenderli ed entrare in sintonia con essi, per poter percepire l'influenza esercitata dal contesto circostante, per addentrarsi nella dinamica delle relazioni interpersonali.
Vincente l'idea narrativa di infondere al racconto un alone di mistero, pronto a diradarsi solo al termine dell'evoluzione del personaggio; una caratteristica costante della penna dell'autore in grado di offrire un valido supporto alla compiutezza dei contenuti.
Le immagini sono forti e crude, pronte a creare un climax teso e a trasportare il lettore all'interno di un tunnel freddo e nebuloso, al termine del quale tutto assume un significato; i “perché” disseminati lungo il cammino si ricompongono come mille tessere di un puzzle, sfociando in una storia di vita dai contorni netti e vividi.
In conclusione, già con questa opera prima inizia il viaggio dell'autore nelle pieghe dolorose e buie dell'animo umano, rappresentando con acume la società di ieri e di oggi.

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dello stesso autore "Il buio addosso", "Bianco", "Il senso dell'elefante"
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    10 Novembre, 2012
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Stirpe

Questo romanzo provoca un impatto forte nel lettore, vuoi per le tematiche vuoi per lo stile di scrittura.
Affrontare queste pagine significa immergersi nella ruralità sarda a cavallo tra fine ottocento e novecento, per rendersi spettatori attoniti delle tribolazioni dell'umile famiglia Chironi.
Gente modesta, avvezza al lavoro e al sacrificio, consapevoli delle difficoltà della vita e dell'ineluttabilità delle disgrazie e della sfortuna; quasi un piccolo mondo verghiano, dipinto con estremo realismo descrittivo e di sentimenti.
I personaggi di Fois sono vittime ed eroi; cadono sotto i colpi inferti dal destino e dagli eventi più cruenti della storia, ma al contempo, seppur rassegnati, proseguono la vita che gli è concessa.
Sono figure splendide, cariche di pathos, capaci di trasmettere tutto il loro dolore, alternando momenti di crudo realismo a momenti in cui prevale il bisogno di abbandonarsi al sogno, fantasticando di un mondo migliore.
Particolarità del flusso narrativo sta proprio nell'intrecciare improvvisamente momenti pervasi di magia alla rappresentazione della rude quotidianità, fatta di sudore e avversità.
Momenti lirici esplodono nel corso della narrazione, mettendo sulle labbra dei protagonisti le parole calde e sentite del cuore; parole che cantano il desiderio di avere o trovare delle radici cui aggrapparsi, parole che piangono la perdita degli affetti, parole che riflettono sugli accidenti cui ti pone di fronte la vita.

Lo stile di Fois, così secco, aspro, ruvido è spettacolare, calza a pennello a questa storia dura; una storia di lacrime e rassegnazione ma che nel profondo anela al sorriso, anela ad accaparrarsi un pizzico di felicità. Le frasi sono talvolta brevissime, imponendosi come sentenze senza appello, brucianti e fulminee.
Il linguaggio si presta ottimamente a scolpire i personaggi, utilizzando qualche termine gergale e dialettale all'occorrenza, ma senza eccessi; è una lingua che può sembrare scarna, ma ogni parola è pregna di significato.
E' un modello di scrittura che può essere reputato inibitore della fluidità narrativa, ma regala una profondità di sentimenti e contenuto fuori dal comune.

E' un romanzo stimolante, che ci svela l'essenza di uno dei regionalismi italici, raccontandoci la storia del nostro paese, riflessa nella vita della gente comune.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    07 Novembre, 2012
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Vita da ambasciatore

Si tratta di un'opera pubblicata lo scorso anno negli Stati Uniti, riscuotendo un notevole interesse.
Lo scrittore Erik Larson ci propone la storia del professor William Dodd, mite docente universitario, cui venne proposto un ruolo scottante e scomodo nel '33, ossia la poltrona di ambasciatore americano a Berlino.

Il lavoro di ricostruzione è meticoloso e valido, grazie all'utilizzo dei documenti diplomatici dell'epoca, dei diari personali, delle lettere intercorse tra l'ambasciatore e le più alte cariche politiche statunitensi e tedesche.
La forma assunta dall'opera si colloca tra un saggio e un romanzo; ossia, la minuziosità dei dati riportati e la trascrizione di interi stralci dai dispacci originali dona una connotazione di stampo giornalistico e documentaristico, tuttavia alcuni tratti della famiglia Dodd e la ricostruzione di taluni eventi risentono del completamento narrativo da parte della penna dell'autore.

E' un libro interessante sotto diversi punti di vista.
In primo luogo scopre alcuni atteggiamenti americani di cui la storia non ha mai riferito apertamente; come il primario interesse statunitense a pressare la Germania per saldare gli ingenti debiti accumulati dopo la prima guerra mondiale.
In seconda istanza, Larson svela il discreto disinteresse americano per la questione ebraica; un tema caldo che venne sottovalutato per lungo tempo oppure su cui si preferiva non contrastare i tedeschi per preservare interessi economici e per non prestare il fianco ad eventuali critiche in merito alla spinosa questione interna riguardante la difficile integrazione della popolazione di colore, neo triste e doloroso per la storia americana.
Inoltre il ripercorrere da vicino l'esperienza tedesca di Dodd e famiglia dal '33 al '37, ci fornisce una verace fotografia della Germania nazionalsocialista; della vita politica e sociale, del consolidarsi del potere nelle mani di Hitler, delle lotte intestine all'interno del partito del Fuhrer, dell'aumento esponenziale della violenza e della repressione nei confronti degli oppositori, del radicarsi del sentimento antisemita.

Più che buona la caratterizzazione del personaggio Dodd, ritratto con estremo realismo e reso umano dalla mano del narratore; un uomo colto nell'intimo delle aspirazioni, delle passioni, degli affetti, ma anche dei rancori e delle delusioni.
Un uomo rivelatosi troppo integro ed onesto per ricoprire un ruolo complesso in uno dei periodi più difficili e cruenti della storia; un uomo incapace di piegarsi alla “ ragione di stato”, bensì avvezzo ad essere sincero con se stesso e con gli altri, tanto che una volta comprese le reali intenzioni di Hitler, gli divenne impossibile tacere tutta la sua riprovazione ed il suo dissenso, cui fece da contraltare una sorta di muro di gomma da parte dei vertici politici americani ed il conseguente ostracismo.

Senza dubbio è una lettura per appassionati di storia, ma costituisce un invito per chiunque volesse avvicinarsi ad approfondire aspetti poco conosciuti del nostro passato, oserei dire addirittura taciuti.
Tanti gli spunti di riflessione ed un'ottima occasione per mettere a fuoco il ruolo chiave delle diverse potenze e delle ingerenze diplomatiche nel corso della storia.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    24 Ottobre, 2012
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Corpi e anime

Dopo il brillante esordio de “La solitudine dei numeri primi”, Paolo Giordano pubblica il suo secondo lavoro.

Anche questo romanzo è caratterizzato da un'estrema fluidità narrativa, tanto da stimolare una lettura rapida ed incalzante. Non cada il pubblico nell'errore di correre su queste pagine accattivanti e coinvolgenti, alla ricerca spasmodica di un finale degli eventi.
Questo romanzo va assaporato lentamente, va compreso col cuore e con la ragione, per poter captare gli infiniti messaggi dell'autore, o almeno, poter comprendere il punto di vista sotteso al nucleo narrativo.

Giordano rappresenta magistralmente, ancora una volta, la generazione che si affaccia alla soglia dei trent'anni, età che conduce a fare i conti con l'ingresso nel mondo adulto, fatto di responsabilità e scelte di vita destinate a riflettersi su se stessi e sugli altri.
Lo sfondo predominante è la guerra “modernamente” intesa, ossia uno spaccato crudo e reale delle missioni in zone calde del mondo, come l'Afghanistan; missioni a sostegno dei governi locali per ristabilire l'ordine e la legalità, che si trasformano troppo spesso in guerre dagli esiti funesti.
Ma la guerra viene utilizzata da Giordano come una metafora e vagliata in tutte le sue possibili sfaccettature, mettendo in scena diversi personaggi, dove ciascuno viene colto alle prese con la sua “personalissima guerra”.
La guerra non è solo sangue sul campo, non riguarda solo il mondo militare; la guerra talvolta è parte integrante della vita.
La vita può divenire scontro con se stessi per l'incapacità di accettarsi, di esprimersi con gli altri, familiari compresi, per l'insoddisfazione accumulata a causa di scelte sbagliate.
La vita è anche spettatrice di scontri familiari e generazionali, che si consumano tra le mura di casa, ma che possono causare danni permanenti ed irreversibili nell'anima di un uomo.

Il romanzo è percorso da un filo conduttore sottile e splendido, ossia il binomio tra corpo umano e persona. Un concetto non immediato, la cui intensità aumenta con il consolidarsi della narrazione: ossia l'evolversi delle situazioni rappresentate fa comprendere come le necessità del corpo non sempre coincidano con quelle della mente e come questo talvolta diventi un'entità scissa dal volere “ragionato” della persona. Ecco allora che il corpo diviene istinto, diviene mezzo per evadere dalle costrizioni imposte dall'anima, dai rimorsi, dai ricordi e dalle regole morali e non, imposte dalla società.
Altresì il corpo è sinonimo di fragilità e vulnerabilità, inteso come quella parte dell'uomo che per prima fa le spese delle scottature della vita, dagli eventi più gravi a quelli meno, destinata a caricarsi di patologie o cicatrici che saranno per sempre il simbolo del passato.

Giordano denota anche in questo lavoro un'ottima capacità di mettere a nudo il personaggio, di fare affiorare i sentimenti più nascosti, con una semplicità ed una chiarezza disarmante, ma a tal punto immediata e concreta da piegare il lettore ad una completa immedesimazione e compartecipazione nella problematica affrontata.
In queste pagine diventano palpabili i dolori, i timori, le solitudini, le ansie di una generazione che dovrebbe spiccare il volo verso la stabilità e la sicurezza, verso la convinzione nelle scelte effettuate, verso un segmento di vita che la trasformi dall'essere figlio all'essere padre.

Ne “Il corpo umano” c'è tanta voglia di scavare nel quotidiano di una società divorata da malesseri e instabilità, mossa da una ricerca famelica di affetto, protezione e realizzazione.


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silvia71 Opinione inserita da silvia71    22 Ottobre, 2012
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Il signor Popinga

Popinga, Popinga, chi è veramente costui?
Ecco l'ennesimo uomo messo a nudo da Simenon.
Anche in questo romanzo è possibile ritrovare i cardini della filosofia del grande scrittore e la solita ricerca dell'essenza umana, quella più segreta, quella nascosta sotto le maschere del vivere sociale, quella celata sotto le vesti del conformismo, del perbenismo e della legalità.

Popinga è il classico esempio di uomo che “esplode”, che decide di abbandonare i ruoli di padre di famiglia e di lavoratore modello; egli è stanco di osservare la vita degli altri, di essere succube di situazioni pesanti e logoranti, è stanco di non essere stimato e condiderato come forse meriterebbe.
E' un uomo che spacca il guscio scomodo e mortificante in cui è costretto e si è costretto a vivere.
Popinga deraglia dai binari su cui viaggiava da tempo, per spaziare liberamente per la strade di Parigi ed entrare in contatto con un mondo di personaggi che in condizioni normali non avrebbe mai conosciuto; anche se in questa fase il racconto diventa abbastanza convulso e rocambolesco, tuttavia è direttamente funzionale alla costruzione dell'uomo raffigurato in questo romanzo.
Infatti, l'aspetto più interessante dell'evoluzione del personasggio sta nel confronto tra Popinga stesso e le altre persone.
Popinga, come altri personaggi di Simenon, ci costringe ad osservare il mondo che gli ruota attorno con i suoi occhi; di fronte ad un mondo che lo vede come folle e paranoico, egli tenta di gridare la propria normalità.
Il personaggio di Simenon ed il mondo esterno, viaggiano su strade parallele, utilizzando metri di valutazione in antitesi.
Popinga grida tutto il suo “non essere pazzo”, ma il suo essersi allontanato dalle convenzioni e dalle leggi; “gli altri”, famiglia compresa, non lo accettano, ma si affannano a cercare verità nascoste o patologie neurologiche, per giustificare le sue azioni.

E' sicuramente un romanzo intenso, anche se la penna dell'autore a tratti corre e ci costringe ad inseguirlo, perdendo qualche punto in chiarezza; tuttavia rimane indubbio il grande lavoro intorno al personaggio, un lavoro degno di un grande scultore nella capacità strepitosa di dare forma ad un uomo “qualunque” cogliendolo alle prese con la fuga dalla normalità, la fuga dal lecito e dalla retta via, scandagliandone l'animo e sottoponendolo al fuoco di critiche e di accuse lanciategli dalla società.

E' un racconto da gustare con tranquillità, con la consapevolezza che l'autore deve trasmetterci un messaggio, utilizzando una selva di situazioni, tragicomiche, caotiche, aberranti, reali e assurde al tempo stesso.

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