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Parole di libertà e scuola di vita
Scuola e parola, due sostantivi forti e privi di violenza, oggi dileggiati, distorti, spogliati di senso e di vita eppure importanti, intrecciati, esclusivi in un percorso di crescita, trasformazione, fiducia, volontà, intelligenza, giustizia.
Da sempre la parola abita le aule scolastiche, luoghi capaci di consegnarci i termini per dirsi, capirsi, difendersi, comprendere i soprusi e lottare contro le ingiustizie. Meno parole significano pensiero ridotto ed argomentazioni limitate, un linguaggio povero, escludente, duale che prepara a radicalizzazione e conflitto, che e’ convinzione e non ascolto, in un percorso che dovrebbe essere di integrazione ( contrario di disintegrazione), arricchimento, crescita personale e globale.
La scuola è un piccolo paradiso dove coltivare le parole, educare l’ affettività, combattere ogni stereotipo di genere, un regno dei sentimenti, anche della paura che da sempre alberga negli studenti. Ma oggi la paura è anche degli insegnanti, che i bambini si facciano male, di subire una denuncia, tra sentimenti ibernati e trascendenze intollerate, un unico motto, controllo, controllo, controllo.
Paure professionali e personali, epocali, potentissime, assai più dell’evento, paura che a giuste dosi è un’ alleata ma in eccesso diviene iperprotezione, ineducazione ed i nostri figli non vanno protetti a prescindere, piuttosto la scuola deve opporsi all’ ottimismo frivolo ed irresponsabile somministratoci continuamente.
Scuola come luogo di accoglienza, aperto a tutti e di tutti, a questo proposito non può essere la gerarchia della fortuna il fondamento della gerarchia dei diritti, una scuola che adempie al compito più importante, permettere la reciproca conoscenza e la convivenza presente e futura, perché se ci si conosce non ci si combatte.
E poi al suo interno sussiste un problema di identità che non è mai unica, sarebbe riduttivo e pericoloso, ma esistono plurime “ identità “, secondo le nostre affiliazioni. Attribuire una sola “ identità “ significherebbe escludere e prepararsi alla guerra, alla alterita’, ad un nemico da combattere, secondo uno schema politico acclarato che porta paura e vulnerabilità e che andrebbe rimosso con gli strumenti della cultura, capacità di comprensione e spirito critico.
Ed allora leggere, leggere, leggere, dire al mondo che leggere è bello ed importante perché una scuola che si limiti a promettere strumenti per il futuro, ma che per i ragazzi non fosse bella, viva e interessante nel presente, sarebbe destinata agli interstizi della loro vita, e non toccherebbe in profondità i comportamenti, le convinzioni, le abitudini, sarebbe una non traccia nella loro formazione.
Ricordiamoci che la vita è ( anche ) a scuola e che la scuola è quel laboratorio di integrazione che addestra alla vita intera, liberandola dalla burocrazia a favore della relazione, che i programmi passano sempre attraverso la curiosità dei ragazzi e che insegnare sarebbe nocivo senza la passione per la propria disciplina e per i ragazzi stessi.
Ricordiamoci che le parole aiutano il nostro benessere ed allora proviamo a dire quelle giuste, sempre e comunque, considerando che il bene comune è anche il nostro bene.
Un’ ultima considerazione, non meno importante. Ogni studente e’ una persona che vale a prescindere dai suoi risultati scolastici, a scuola l’ unica continuità riguarda gli insegnanti, non gli studenti, che devono potere vivere di alti e bassi, di discontinuità, per potere essere diversi da un destino già scritto.
Uno scritto indispensabile ed attuale, da parte di una apprezzata autrice con una lunga e ricca storia all’ interno delle aule scolastiche, che tiene viva la flebile speranza in un domani diverso e non già tragicamente segnato. Dall’ etimologia della parola scuola ( dal greco scole’ ozio, riposo , tempo libero ) senza scordare il significato latino di otium, potremmo comprendere diverse cose.
E tutte le parole pronunciate, tante, giuste, corrette, usate secondo il proprio significato, aprono nuovi mondi e conoscenze, plasmando essenze e coscienze, consentono di ascoltare, interpretare, confrontarsi, elaborare criticamente eludendo ogni retorica dell’ odio e dell’ ovvio, sublimando ragione, consapevolezza e libertà.
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Colpo di coda
T. Singer riflette il respiro di una vita al bivio dopo una attesa di anni, senza senso e qualità particolari, rimuginando su un passato che spesso lo ha lasciato interdetto.
Tuttora, ogni volta che rivive sensazioni dell’ inconscio è sopraffatto da una forma di imbarazzo, singoli momenti della propria infanzia in cui sentirsi nudo in presenza dello sguardo altrui con addosso la vergogna dei propri sentimenti e la paura che possano ripresentarsi.
All’ inizio di questa storia è un trentaquattrenne in procinto di trasferirsi a Notodden in qualità di bibliotecario, una professione ex novo dopo anni trascorsi da studente inconcludente, ufficialmente iscritto alla facoltà di antropologia, studi privi di senso finanziati lavorando qua e là’, senza l’ obbligo di chiedere un prestito vincolante allo stato, un passato di inquietudine, tendenza a fantasticare, debolezza di carattere e progetti bruscamente interrotti.
Visto da fuori è un uomo socievole, riservato, ben voluto, ma profondamente solo, che non può cercare conforto negli altri, senza un amico cui confidarsi, ne’ esporsi alla propria interiorità dissolta, un distruttivo osservatore della vita.
È stato un giovane passivo, un rimuginatore senza carattere, un nichilista, uno spirito negativo defilato, fino all’ annullamento di se’, ne’ è riuscito a decidere cosa fare della propria vita.
Sperperata la sua giovinezza, si ritira dagli studi percorso da un desiderio interiore, divenire uno scrittore, ma resterà solo un hobby ed un sogno ad occhi aperti per chi è diventato un perdigiorno.
Eccolo all’ inizio di una nuova vita, giunto a Notodden per vivere in incognito, distante da un passato incollato addosso, ricominciare da zero in una città sconosciuta, una vita semplice ed ordinata, bella e tranquilla, in cui trascorrere i propri giorni.
Può un uomo come Singer innamorarsi ed andare a vivere insieme ad una donna, Merete, con una figlia di due anni? Si’, e sotto l’ influsso di questo innamoramento trasformarsi, dedicarsi alla cucina, alla bambina, imparare a guidare, lontano dall’ idea di uomo finora descritta.
Eccolo ex novo in una versione abbellita di se’, creata ad arte da Merete, un bravo padre di una famiglia nucleare di tre persone, perfettamente nascosto dove nessuno lo possa trovare, scomparso da tutto e da tutti quelli da cui voleva scomparire.
Ma la vita imbocca destini imprevedibili, deragliando improvvisamente, spezzando equilibri consolidati e costringendoci a ripartire, se ci si riesce. Eccoci, sorpresi ed impreparati, a dovere decidere cosa fare di se’ e degli altri, in un ruolo da reinventare che ci riporta a quell’io indebitamente nascosto.
Ed allora si guarda alla morte, evento incomprensibile, perduti ed abbandonati di fronte alla nostra impotenza, alla ragione ed ai sentimenti, nel pieno senso del termine. Ci perdiamo nei pensieri più vari, e così è per Singer, la cui vita scorre via senza il bisogno di rimarcarne il passaggio, un uomo segnato da una irreparabile solitudine a distanza.
È ancora prigioniero di se stesso, in un modo forse spaventoso ed in ogni caso irreparabile, colto in flagrante mentre getta un’ occhiata furtiva alla vita di sua figlia che a lui è sembrata sempre così affascinante da contemplare.
Di nuovo solo, confuso tra gli spettatori di un cinematografo e sotto le luci di un ristorante, osserva la gente che beve, brinda e sorride, una vita brulicante e piena di aspettative, e riflette sulla situazione un po’ imbarazzante in cui ancora una volta sta per incappare ...
Romanzo che condensa e ripropone tematiche care all’ autore in parte già emerse in “ Romanzo undici, libro diciotto “, piuttosto monocorde, invero. La solitudine umana, consapevole e coatta, un senso reiterato di inquietudine, la difficoltà di navigazione in una zona di comfort, le convenzioni sociali, che spingono a calarsi in ruoli insostenibili, l’ interiorità, a lungo sondata, il mistero della vita e della morte, una calma apparente, e, sotto lo stesso vestito, indossato per anni, un iceberg di irrequietezza, un inconscio indebitamente rimosso ma sempre attuale.
T. Singer, novello Mattia Pascal, ad un certo punto ha deciso di cambiare rotta, di darsi alla vita, di rinascere, più verosimilmente di sparire, nascondersi, in una calma apparente, ma un giorno dovrà rispondere alla imprevedibilità e crudelta’ della vita stessa riappropriandosi di un senso radicato di solitudine che lo riporta allo sguardo pensante e defilato, oggi rassegnato, dello spettatore che fu, nel bene e nel male.
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Viaggio inevaso
Una lunga intervista, lasciata al potere del web, la vita, i misteri e le ansie di uno scrittore in crisi di ispirazione, ingabbiato nella solitudine di una scrittura che non riesce più’ ad affrontare. Famiglia, amicizie, amori, impegno politico, sogni, speranze, dolore, porzioni di se’ che inseguono un cammino di senso, sfogo di un’ anima persa, sintesi di un cammino a metà.
Un amore lungo, datato, la possibilità di essere diventato scrittore per conquistare il cuore di Dikla, pagine e pagine divenute una lunga lettera d’ amore di cui lei è la destinataria.
Pensieri che volano senza una destinazione precisa, quanti dedicati all’ amico Ari che lotta per la vita in ospedale, quanti ad una moglie che continua a tenerlo a distanza, a donne che non sono lei, ad una figlia che se ne è andata in collegio e non gli vuole più rivolgere la parola?
Vive con la paura di perdere l’ ispirazione, di perdere Dikla ed i bambini, di beccarsi un attacco cardiaco e non sopravvivere, impaurito dalla facilità con cui le cose in Israele precipitano nella violenza, impaurito dalla possibilità di una guerra e che sia una guerra civile.
La realtà svela che ci vuole più coraggio ad ascoltare che a raccontare storie e che ci si rifugia in frasi belle quando non si ha il coraggio di dire la verità. L’ oggi significa tre figli, una casa, una famiglia ed un pensiero che ritorna, se tutto questo cadrà in pezzi quale importanza attribuire alla scrittura in una nuova forza che allontana l’ uno dall’altra e che è più forte del proprio rapporto di coppia?
Un matrimonio che pare dissolversi, due giovinezze trattenute l’ una nell’ altra e di colpo lasciate andare, figli che sono tutto il proprio mondo, una distimia aumentata da quando Shira, la grande, se ne è andata a vivere in un Kibbutz.
L’ intervista continua, storia nella storia che prende forma e si trasforma, cammino da cui non si riesce ad evadere, epilogo di un cortocircuito mentale, ma in questi giorni non si ha altro a cui aggrapparsi dal momento che la scrittura è anche un risarcimento per quello che non si è vissuto.
In generale si soffre la difficoltà di stare con il mondo, dentro gli avvenimenti, venti anni a scrivere invece di vivere ed ora questo blocco, una situazione famigliare precaria, destinata al tramonto e la necessità di non deludere quei lettori che si sono costruiti un’ immagine nella testa e che credono lo scrittore una brava persona.
Ecco allora che il dubbio rimane, alcuni dei fatti successi davvero, alcuni si ha il terrore che possano accadere, alcuni si desiderano ed altri riguardano Ari e lo scrittore scandinavo Alex Wolf...
Un testo che a mio avviso ricerca identità ed originalità inevase, di certo non sovrapponibile ai celebri romanzi del passato, con trame ed intrecci di profili e caratteri psicologici all’ interno di un universo relazionale complesso in una miscela psico-reale-narrativa (“ La trama dei desideri “ e “ Tre piani “ ). Qui si crea e si mostra una ricostruzione ed esposizione dei fatti e di un pezzo di vita, pubblica e privata, perdendo l’originalità della propria scrittura, l’ invenzione di trame ed intrecci al limite del possibile, con protagonisti che rispondono a precise identità e dotati di una delicatezza dosata, un equilibrio ed un rispetto per i sentimenti stessi proprio di chi li conosce a fondo ed e' avvezzo a parlarne.
Nella riconoscibilità di linearità stilistica e di temi già’ noti, mancano una certa vivacità espositiva e cambiamenti di rotta che nascondano i segreti della propria vulnerabilità inseguendo un’ intimità spesso negata, riducendo e riproducendo una lunga e monocorde esposizione autoreferenziale al limite della banalità. .
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La verità nascosta
Una vita scandita dal ritmo delle stagioni, in una zona, l’Alto Adige, dove la storia sembra non arrivare, nella quale si parla il tedesco, si professa il cristianesimo, si lavora nei campi e nelle stalle.
Poi, uno scontro, la lingua di uno contro la lingua della altro, una invasione mal tollerata, la prepotenza improvvisata del potere e chi rivendica radici secolari, mentre c’è chi ha creduto nel potere salvifico dalle parole, trasformandosi in una insegnante clandestina di tedesco.
È allora che il fascismo pare esistere da sempre mentre qualcuno continua a ripetere gli stessi gesti, abituandosi a non essere più se stesso con una rabbia che comincia a crescere dentro ma pare essere come la malinconia, non esplodere mai.
La fuga, una lettera, il dolore muto, qualcosa di famigliare e di clandestino di cui non si parla mai.
Una partenza inaspettata, misteriosa, silente, arrabbiata ed una ricerca durata anni in nome di una speranza che non si sente più nemmeno di avere. Ed allora ha inizio la narrazione dei fatti e della storia, lettere che aprono alla vita di una comunità, del proprio essere sopravvissuti e rimasti e di quello che è successo qui a Curon, nel paese che non c’è più.
Lo scoppio della guerra, l’ ultima guerra, ha lasciato tutti attoniti, illudendosi che le montagne siano ancora pareti di solitudini, c’è chi ha coltivato l’ orgoglio della propria scelta di rimanere e chi non si è mai sentita così tanto figlia dopo la fuga della propria figlia.
Attorno il respiro di una natura parlante, niente altro che bianco e rumore di vento.
La guerra è terribile, spietata, estenuante, sovente divide, ma può unire, non ha colore o parte, e qui non ci si sente nazisti ne’ fascisti, solo contadini che non vogliono più combattere, mentre il resto del mondo si cancella dalla propria memoria.
Una guerra che sfinisce gli esseri umani e quando finisce si ha voglia di rinascere, senza più affanni, rimirando lo splendido paesaggio naturale circostante e le bellezze di Curon, cercando di dimenticare la sofferenza dei lutti e di chi non tornerà ed a cui per lungo tempo è stata attribuita la colpa di tutto.
Ma, d’ ora in poi, il progresso industriale tratterà Curon e la valle come un luogo senza storia, una terra ricca e piena di pace, tutto sacrificato per la costruzione di una diga rivelando la miseria di un atto selvaggio. Una diga si può costruire, ma un paesaggio, una volta devastato, non può’ più rinascere.
Solo un ritorno agognato avrebbe potuto alleviare lo spavento al pensiero dell’ acqua che tutto ha sommerso, trovando la forza di andarsene altrove e ricominciare daccapo, ma oggi i resti della bellezza che fu ed una presenza inquietante che emerge dall’ acqua nascondono la verità di un dolore vivido.
Un romanzo necessario, dai toni reali e poetici, che entra in punta di piedi e si fa dirompente, che abbraccia il lungo corso della storia di un luogo in bilico tra radici culturali e linguistiche ed “ invasori “ poco attenti, al di là del peso di una guerra che tutto annienta e riduce.
Un percorso esteriore di lutto e dolore, ma soprattutto un viaggio interiore che parte da una perdita vicina per cercare di spiegare l’ inspiegabile, una vicenda che non può essere ridotta a caso, politica, profitto, noncuranza, ad una devastazione e deportazione di fatto che aliena un luogo a se stesso, e se stessi da un luogo diventato altro, seppellendo tante storie sotto un’ altra storia, visibile e terribile, un iceberg con profondità da ricordare per sempre, nel paese che non c’è più.
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Identità violata
Due vite reciprocamente incuranti unite da un legame di sangue, ciascuna fagocitata da una storia diversa, oggi riavvicinate dal desiderio di conoscere e sviscerare le proprie origini sondando il passato per aprirsi al presente.
E’ l’ alba di un percorso temporale ondivago, dettagliata ricostruzione affettivo-emozionale di un nucleo famigliare precocemente dissolto quando anni prima la giovane studentessa Yuki decise di rimanere a New York mentre i genitori facevano ritorno nell’ amato Giappone, l’ America vissuta come parentesi ed esilio poco gratificante.
Ai giorni nostri c’è un uomo, Jay, che esige delle risposte, un gallerista che sta per diventare padre ed ha sofferto il precoce abbandono da parte di una madre egocentrica ( Yuki ), eccentrica, irrisolta, con velleità artistiche accompagnate da scarso talento, che si è sentita sempre poco amata ed ha odorato la paura paralizzante di essere madre.
Yuki, in gioventù, aveva vissuto intensi legami extra-familiari, un’ amicizia idealizzata e problematica ( con la modella Odile ), un amore violento e rubato ( Lou ), combattuta tra il desiderio di vivere il proprio sogno artistico in profondità ed un legame famigliare a distanza, a poco a poco sopito, mai del tutto reciso, sopraffatta ancora dal proprio passato.
Ed allora per anni si è destata in una vita di seconda mano, un dolore profondo e sempre vivo, senza che nessuno abbia mai voluto essere lei, nemmeno lei stessa, che non desiderava somigliare a sua madre al seguito del proprio uomo in giro per il mondo, ne’ ha voluto abbandonare del tutto un’ amicizia femminile costruita e consolidata nella difficoltà, e per un lungo periodo le è bastato semplicemente vivere con Lou, un uomo decisamente violento ma tutto per se’.
Per lei e’ stato così brutto svegliarsi ogni giorno in una vita di seconda mano, fatta su misura per qualcuno con ossa più robuste, e quando le difficoltà della vita l’ hanno indirizzata alla ricerca del conforto e del perdono di chi e’ scomparso, ormai è troppo tardi e pare impossibile ripartire immaginando un luogo in cui vedersi felice.
Nel proprio spazio temporale si insinua un’ altra possibilità, Edison, che sarà padre del suo unico figlio, un uomo mite pieno di gentilezza che Yuki non sa collocare, ne’ ha mai realmente capito se voglia stringerla a se’ o farle del male.
In lei ha preso forma un’ idea sempre più forte, una fuga a tempo per fare ordine nella propria testa, oppure una semplice fuga d’ amore, per evitare di volteggiare come un avvoltoio sul proprio bambino col desiderio e la speranza, un giorno, di tornare ed essere una vera madre.
Nel frattempo, oggi, una relazione appena iniziata e gia’ finita, svanita davanti ad un tavolino, una breve contesa tra un figlio rancoroso ed abbandonato ed una donna timida che si è sempre fatta del male, un bravo papà ed una pessima madre, un cuore infranto dal desiderio di avere una mamma e la rassegnata ma inevitabile accettazione di trovarsi al cospetto di una semplice madre.
Romanzo d’ esordio ( 2017 ) di Rowan Hisayo Buchanan, saggista e scrittrice americana per metà di origini asiatiche, “ Innocua come te “ sviluppa una buona trama con tratti lirici scanditi da continui flussi temporali nella rappresentazione di due epoche, ( l’ oggi e gli anni ‘ 60- 70 ) con alterna fortuna.
In primis scava in un labirinto sentimentale e formativo che giostra all’ interno di origini famigliari definite ( culturalmente e geograficamente ) e per contro in un’ indefinitezza relazionale e sentimentale sfociata in una idea di libertà e di fuga artistica ( da parte della protagonista femminile ) espressione di una lacerazione personale profonda.
In un’ unica traccia scorrono e si intersecano due vite lontane, contigue per sangue, i cui esiti sono restituiti alla contemporaneità.
Assenze, colpe, drammi, torti, egoismo genitoriale ricaduti inevitabilmente sui figli ed in parte restituiti al mittente, la propria vita sottratta ad un senso d’ identità, indirizzata altrove, soprattutto per chi si è visto, suo malgrado, reciso da subito il proprio nucleo famigliare, ignorata e calpestata l’ affettività di un legame puro e disinteressato, l’ amore materno, da sempre inno alla vita e bussola imprescindibile.
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Lutto invivibile
Jas ha solo dieci anni, un’età troppo verde per decidere ed essere, un tempo di sogni e speranze, giuochi e spensieratezza, in attesa di altro. Trascorre una vita tranquilla, nella fattoria di famiglia, dando una mano ai genitori, e come ogni anno si appresta a vivere i preparativi del Natale sentendosi ancora piccola per tantissime cose.
Poi, un giorno, il fratello Matthies si reca a pattinare al di là del lago e non fa ritorno, lasciando i Mulder, una famiglia rigidamente osservante, alla propria disperazione nella certezza di una morte che nessuno sa riconoscere ed affrontare .
Da questo momento tutto cambia e Jas comincia a pensare che il vuoto sia iniziato in quel mentre, che non sia colpa della morte ma di quei due giorni di vacanze di Natale dati via ... “ chiusi nelle casseruole e nei contenitori di insalata russa “...
Vorrebbe un segno dell’ esistenza di Dio, e chiedere a Matthies se era quello il modo di abbandonarli, ma lui non tornerà. Da questo evento Jas ed i fratelli vivranno un’ altra vita. guardando la loro famiglia dall’ alto, osservando quel poco che è rimasto di loro.
Ecco un’ altro modo di considerare la vita, una condivisione con un dolore onnipresente che si manifesta e si trattiene nel proprio corpo, una crescente preoccupazione che la tiene sveglia la notte insieme alla paura che i propri genitori moriranno, seguendoli per tutto il giorno per non vederli sparire come se niente fosse, custodendoli negli angoli degli occhi, insieme alle lacrime per Matthies.
Jas è un cuore che si nasconde, che nessuno conosce sotto un giaccone rosso che non toglie mai, ma forse da quando è nata nessuno si è mai accorto di lei e l’ha amata abbastanza.
Le stagioni passano, le stalle vanno pulite in vista dell’ inverno, i figli si rinnovano, continuamente, solo i genitori hanno smesso di rinnovarsi, non fanno che ripetere parole, comportamenti, schemi e riti.
Ma c’è un bisogno di attenzioni che va mantenuto, oltre al cibo ed ai vestiti, uno smarrimento assodato e più nessuno a cui chiedere la strada. Matthies a poco a poco esce dalla testa degli altri, ma entra in quelle dei fratelli, sempre di più e più a fondo e forse Hanne ha ragione, bisogna andarsene, lontano dal paese, dalle mucche, dalla morte, da questa esistenza.
Ed allora un senso di colpa per essere sopravvissuta, per avere “ desiderato “ la morte del fratello, per essere nata lo stesso giorno di Hitler, parole che vanno ripetendosi sempre e solo nella propria testa, in un soliloquio parlante, laddove nella fattoria vige un silenzio infinito, si parla sempre di meno, le stesse visibilità invisibili, e quanto mancano le persone che si hanno di fronte tutti i giorni.
Jas pensa che ogni perdita possiede tutti i precedenti tentativi di tenere con se’ qualcosa che non si vuole perdere e che si deve lasciare andare.
Nella perdita ...” troviamo noi stessi e siamo ciò che siamo, esseri vulnerabili “..., lei stessa avvolta in una giacca di paura.
Suo fratello è morto davvero o la morte è suo fratello? Ma la morte non ha famiglia, per questo ...” cerca sempre un nuovo corpo “....
Romanzo d’ esordio di una giovane autrice olandese di grande talento, già maturo ed essenziale, spogliato di qualsiasi eccedenza, immagini forti dotate di una fisicità penetrante, per contro grido intimo di una voce addolorata, smarrita, inghiottita da un senso di morte insensato ed includente, un lutto inaffrontabile per l’ assenza di armonia domestica.
Parallelamente una ricerca d’ amore ( e di vita ) giovanile dopo il trauma della perdita di un amore, ed un percorso autodefinente che tanto avrebbe da chiedere e da mostrare, ed a cui non resta che ripiegarsi su se stesso per una voce sempre più rivolta all’ unico e possibile ascolto.
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Umanità disadorna
Due semplici numeri ( quattro e nove ) hanno sostituito i nomi propri per esigenze di anonimato e politica aziendale, un lavoro da ultimare in dieci giorni, duecentotrenta chilometri di una strada a due corsie che unirà il sud rurale al nord urbano in un paese del terzo mondo infestato dalla corruzione, dopo anni uscito da una sanguinosa guerra civile ed oggi retto dall’ ennesimo governo illegittimo in attesa di una parata celebrativa ad opera completata.
Quella strada è un ponte simbolico di pace e prosperità, un lungo rettilineo nero rivolto al futuro, un lento viaggio stanziale attraverso luoghi malconci, spolpati, deserti, tra occhi incuriositi che si defilano e solitudine coatta.
Un lavoro da eseguire senza complicazioni, immersi in un senso di alienazione imperante, scopo primario dei due protagonisti ( o almeno di uno dei due ), inseguendo una precisa tabella di marcia, chilometri fagocitati servendosi di un veicolo all’ avanguardia, tecnologia estremizzata in un luogo non luogo dove imperano fame, baratto e lotte intestine.
Una narrativa essenziale, presente, diretta e reale nella veridicità di un paesaggio disadorno, un caos in cui ancora sopravvivono gioia ed iniziativa frenetica, negozi, alberghi improvvisati, baracche, cumuli di spazzatura in fiamme.
Quattro e nove, figli di un occidente complice ed ignaro di quello che sta accadendo, due numeri al servizio di una organizzazione che tutto decide, opposti complementari, l’ uno esperto, razionale, freddo, perfettamente calato nel ruolo e nel protocollo, quietamente felice solo con la propria asfaltatrice, tutto il resto ritenendolo non necessario, l’ altro inesperto, inafferrabile, ondivago, senza alcuna maturità e serietà, come fosse un bambino in vacanza, ad un certo punto un semplice ladro malato di cui disfarsi.
Contrasti insanabili figli di incompatibilità e distacco obbligato al servizio dell’ azienda assumeranno senso in una progressiva reciprocità, abbandonando la routine, per una contingenza degenerata e la necessità di rimediare alla fallacia umana di un avventuroso imbecille ma soprattutto per soccorrere umanamente chi ha reale bisogno di aiuto e non può morire miseramente.
Il proprio rapporto duale di vicina lontananza, una opposta visione del lavoro e di quella parte di mondo, relegato a semplice fatto della loro vita, ora li assorbirà totalmente prima che tutto possa mutare, le parole ritorcerglisi contro, ogni certezza svanire.
Nella seconda parte del breve romanzo azioni e relazioni si stringono consapevolmente, relazioni schiette, intense, una umanità che svicola il semplice protocollo e l’ alienazione imperante fortificata dall’ idea che ovunque esistono criminali, uomini intriganti e codardi ma anche individui accesi da intenzioni più elevate.
E’ allora che i propri sospetti mal riposti ed il peso di giudizi superficiali e mendaci, sinonimo di ignoranza, lasciano il campo a relazioni, pietà, ad una idea di fratellanza che assolva il desiderio di chi desidera non morire solo ed abbandonato.
È allora che si apre la speranza di altro ed una possibilità salvifica che spezzi là cecità freddamente assolta del semplice e meccanico completamento di un compito prima di allontanarsi e osservare gli accadimenti, prima che tutto ancora una volta imploda e si trasformi orribilmente...
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Speranza di vita
Cosa accadrebbe se d’ improvviso non vi fosse un domani, sopraffatti dalla certezza di un epilogo imminente ( la propria fine ) e dalla necessità di scendere a patti con il diavolo secondo le regole di questo mondo, sacrificare una cosa per ottenerne un’ altra?
Niente di più facile, basterebbe far scomparire un oggetto tra i tanti, rimandando la dipartita di un giorno e potendo per un’ultima volta usufruire dell’ oggetto designato.
Questo accade al protagonista, che vive in simbiosi con un gatto ( Cavolo ), un postino a cui è stato diagnosticato un male incurabile all’ ultimo stadio, ancora giovane, tante cose da fare e nessuna voglia di morire, una vita ed un futuro davanti.
Sopraffatto da tristezza, malinconia, giorni infernali, decide di scrivere un diario-testamento che sveli la propria storia a cominciare dalla sola via di fuga apparente, elencare e rimuovere una serie di oggetti insignificanti.
Ed allora, uno dopo l’ altro, telefoni, film, orologi spariscono dal mondo, niente di più facile, tutte cose a cui potere rinunciare, semplici oggetti di intrattenimento e regolatori del tempo, ma scoprirà, malinconicamente, di non avere un ultimo numero da chiamare, un film preferito da guardare, un tempo reale in cui vivere e che ogni cosa, apparentemente insignificante, possiede e dona senso all’ esistere.
Tutti gli oggetti sono preziosi e con una ragione d’ essere, plasmano i contorni della figura umana e ne ricostruiscono la storia, tutti noi siamo fatti di cose superflue tra coincidenze della vita che costituiscono una sola grande inevitabilità.
Ed allora non gli restano che rimpianti, rimorsi ed una riflessione sul senso del proprio esistere, un enorme schermo bianco e vuoto, assorbito dalle insignificanti vicende quotidiane e trascurando le persone veramente importanti. Ma allora come ha vissuto finora?
L’ evidenza mostra una famiglia scambiata per un dato di fatto, un semplice legame di sangue non coltivato ne’ plasmato che assume un senso nel modo in cui è vissuto.
È allora che il tempo riporta ad un senso attuale, qui e non altrove, circondato dalla superficialità di tante cose con una precisa ragione d’ essere e che narrano la propria storia.
Rimane ( per ora ) Cavolo, una piccola essenza che si avvicina e si accuccia tra le sue gambe, trasmettendo il calore del proprio corpo e donando la pace di cui ha bisogno. Per gran parte del tempo lo ignora ma quando percepisce il suo malessere si avvicina senza fiatare, privo del senso del tempo e senza un reale bisogno di lui, ignaro della solitudine, uno di quei sentimenti profondamente umani alla base di altri quali l’ amore.
Forse gli uomini cominciarono ad allevare i gatti per arrivare a comprendere tutto quello che non sapevano di loro stessi, forma, futuro, morte.
Ed allora il protagonista riconsidera l’ idea materna che vivere nella consapevolezza di avere sottratto qualcosa a qualcuno sarebbe stato ancora più difficile e doloroso di morire e riscopre l’ affetto per un padre allontanato da troppo tempo e incomprensibilmente dimenticato.
A questa stregua ogni cosa o creatura esistono per una ragione precisa e non dovrebbero scomparire, accompagnati da un senso di felicità ed infelicita’ strettamente personale mentre il diavolo restituisce l’ immagine dei propri desideri inevasi, innumerevoli rimpianti seminati lungo il cammino, ciò che è più vicino e lontano da se’, restituendoci una risposta definitiva, la riconsiderazione del proprio valore di esseri umani.
Un racconto lucido, vivace, essenziale, verità che dovrebbero essere acclarate ma perse nell’ abitudine, spunti malinconicamente satirici, un giuoco di specchi che rimanda ad una riflessione sul senso del vivere.
La malattia incurabile, invero, nel testo non è trattata dal punto di vista della sofferenza ( fisica e psicologica ) ma come fatalità assodata, quella stessa malattia che accompagna il quotidiano ( del malato e dei suoi cari ) e che nella sua accettazione obbligata ha eluso ogni idea di futuro e reso essenziale e vitale ogni soffio di presente, a maggior ragione per chi avrebbe una vita intera da spendere.
Tra le pagine del romanzo il protagonista, condannato ad una morte imminente, ripercorre il passato, riverso nel rimpianto, riflettendo sul tempo e su di se’, su sentimenti ovattati, priorità dimenticate, in una ricerca che legittimi il proprio vissuto.
Tutto ciò parrebbe vero ma scontato per qualsiasi vita degnamente vissuta anche in condizioni di salute, il resto ( la malattia ) è altro, un percorso assai intricato e doloroso, una alternanza costante di speranza e sconforto da vivere ed affrontare intimamente secondo una personale percezione e relazione con la stessa.
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Analisi di un matrimonio
Una coppia, Tom e Louise, figlia di un matrimonio in crisi, forse ai titoli di coda a causa del tradimento di lei, il presente una pausa riflessiva sfociata in una consulenza matrimoniale obbligata, tentativo di riparare l’ irreparabile.
Incontri ripetuti nello stesso bar, seduti l’ uno di fronte alla altra, i soliti drink, sguardi indagatori e parole sarcastiche in attesa della terapia, osservando altre coppie ed immaginando possibili storie, parlando di se’ e della propria vita, riconsiderandone i contenuti ed il senso, quel precoce incrocio sessuale da cui tutto ebbe inizio sfociato nel matrimonio e nella gioia figliale.
Tom e Louise sono invecchiati in modo così diverso, con visioni e lavori diversi, lui è stato un critico musicale, lei è una geriatra.
Avrebbero molto di cui parlare, dei rispettivi lavori, delle difficoltà scolastiche del proprio figlio, della morte della madre di lui, ma finiscono sempre per discutere delle stesse cose, un tempo litigavano e facevano parecchio sesso riparatore, oggi persino la Brexit, di fatto un divorzio, pare una rappresentazione perfetta del loro matrimonio.
Louise continua ad osservare Tom, ricorda quel tradimento giustificato dalla noia sessuale, in lui permane lo spettro di depressione e disoccupazione.
Che cosa entrambi vogliono realmente? Un matrimonio che sembri un matrimonio, anche se non funziona, una verità racchiusa nella noia ed in un legame sempre meno importante, fino a quando Tom si è arreso certificando la certezza di una fine.
Ma la noia, in fondo, non sarebbe la cosa peggiore se la vita non fosse così lunga ed i due protagonisti alla metà del loro percorso, forse potrebbero accontentarsi di farcela, come accade nella maggior parte dei matrimoni.
Questo rituale settimanale continua ad accompagnare una terapia di preseduta in cui Louise confessa il senso del proprio tradimento quando, sola ed indesiderata, non si sentiva in sintonia con il mondo.
Ed allora si può tornare al passato, cancellare gli errori, ed il sesso può ripresentare il volto dell’ amore? Ed il dolore e la rabbia per il tradimento? Ed un tempo avrebbero mai potuto essere solo amici?
Forse un’ altra verità, evidente ma poco consolatoria, si mostra, che si tratti di una coppia riunificata in crisi coniugale permanente, in una fine che parrebbe un inizio, un matrimonio ripartito dalle fondamenta senza più possederne i requisiti perché non sarebbe lo stesso matrimonio, semplicemente un posto dove volere vivere.
Un fitto duello verbale senza narrazione, essenziale, diretto, sarcasmo e verità acclarate, rabbia e risentimento, con un pizzico di cinismo, leggerezza ed autoironia riconducibili a Nick Hornby, pur in una ridotta versione di se’.
Un testo teatrale che si legge tutto d’ un fiato e che si presta a riflessioni su rottura e crisi coniugale generate dalla routinaria noncuranza dei protagonisti, smarriti e confusi in un reale caotico, solitudini inconsistenti, con la sensazione di non comprendere chi si ha di fronte, parlando a se’ e di se’, fino ad un sentimento, non proprio condiviso, che da semplice sguardo diviene visione e certezza: si finisce con l’ accettarsi per quello che si è, più o meno consapevolmente....
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Leggerezza inconsistente
Amburgo,1949, gli esiti della Guerra nella pulizia in atto, un giorno forse il rullo dei tamburi cesserà per lasciare spazio a qualcosa di nuovo, ad una generazione destinata a vivere una pace duratura.
C’ è chi spera nel ritorno dei sopravvissuti, chi ancora crede di avere riconosciuto un viso su un tram, chi fugge da un passato che l’ ha respinto, chi vorrebbe formare una nuova famiglia, chi è infelice in quella attuale, chi semplicemente ha ricominciato una nuova vita o sta per farlo, chi custodisce gelosamente i propri segreti, chi si accorge che è tutto così diverso da come se l’ era immaginato.
Talvolta ritorna un senso di leggerezza dimenticato, ad alcuni invece la guerra pare appena finita,
Bonn diviene la capitale di uno stato con una costituzione ancora provvisoria, la Repubblica Federale Tedesca.
La trilogia che racconta le vite di quattro amiche nell’ Amburgo di inizio novecento in questo secondo volume attraversa gli anni ‘50 e ‘60 per spingersi oltre i confini nazionali ed assumere contorni planetari, tra cambiamenti epocali, politici, economici, culturali e di costume.
Anne, Kathe, Lina ed Ida si sono finalmente ritrovate per tornare a vivere, assaporando un rinnovato gusto famigliare, l’ essere genitori, la realizzazione professionale, incanalando avvenimenti pubblici e privati in un’ idea di stabilità duratura.
Rimane ancora il ricordo del passato, la persecuzione, la guerra, una lunga prigionia e si prolunga la paura di vivere, con l’ idea che la vita facile e le cose belle facciano dimenticare la memoria dei morti, quelle stesse cose che cominciano a riacquistare un senso e che è legittimo ricercare, immaginando un futuro migliore.
Nuovi protagonisti, relazioni clandestine, amori impossibili, vite interrotte, un tuffo nel presente, tra viaggi e ritorni, ansie e complicazioni, in un nuovo mondo che disconosce e condanna l’ omosessualità ma che si apre ad un neocolonialismo filo americano all’ interno di una dimensione strettamente privata.
In questo contesto pregi e difetti del testo emergono inesorabilmente. Potremmo considerarla una storia al femminile, tra protagoniste acclarate e nuovi ingressi, scritta e trattata con la piacevole scorrevolezza di una semplice lettura di intrattenimento, per lo più a lieto fine, dove tutto comunque si aggiusta.
Ma se lo scopo è altro, la rappresentazione di una società e di un mondo infranti e da ricostruire, di un popolo chiamato ad un riscatto ed a fare i conti con il peso della propria storia, un viaggio nelle radici e profondità storico-politico-sociali del ‘ 900, ne saremmo inevitabilmente delusi.
Il periodo trattato vive in funzione delle protagoniste e non viceversa senza averne i requisiti e lo sguardo sul reale manca di una visione prospettica, sia intima che oggettiva.
Tutto pare accadere inesorabilmente in un tempo indefinito ed indefinibile ed in un destino parallelo allo scorrere degli anni.
Le vite si allungano, i protagonisti invecchiano, nascite e morti si susseguono, mentre gli anni ed un elenco di accadimenti raccontano i cambiamenti epocali, persino le atrocità paiono edulcorate, e la trama raccolta in una sospensione temporale lontana da qualsiasi respiro di incertezza e, se non strettamente in ambito famigliare e personale, mai realmente viva e sentita.
Ed anche l’ idea di una prospettiva al femminile, che ne svisceri contenuti e complessità, decade, poca reale profondità ed introspezione, parecchia materia in superficie per un racconto semplicemente lineare, lenta e progressiva navigazione con poco vento alla stessa velocità di crociera.
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Solitudini imperfette
Vibeke e Jon, madre e figlio, si sono trasferiti in una località all’estremo nord del paese, Vibeke ama leggere, è il suo modo di viaggiare, e lavora come consulente culturale in Comune, Jon ha nove anni ed un compleanno da festeggiare.
Nel giorno del suo nono compleanno Jon esce di casa ed inizia un vagabondaggio notturno per la città....
Il presente è un luogo in cui tutto accade, sta per accadere, e’ già accaduto, in cui sentirsi lontani nella vicinanza, scrutare dentro di se’ dando voce all’ essenza, in cui tutto origina da una claustrofobica presenza, rivolgendosi a qualcuno che non risponde, chiudendo una porta senza pericoli evidenti, ascoltando il silenzio e respirando la paura, il buio come unico compagno.
Due solitudini alla confusa ricerca l’ una dell’ altra, una condivisione rimandata nel cuore di una notte, mentre la neve ghiacciata ed indifferente continua a cadere scricchiolando se calpestata ed il freddo brucia sulle orecchie ed in fronte.
Immaginando un ritorno che ogni volta pare dissolto, si incontrano volti e voci che narrano spezzoni di storie, entrando ed uscendo da case e vite diverse, interrogandosi sulla propria storia.
Jon e Vibeke paiono incamminarsi ( non solo fisicamente) per strade personali, ciascuno raccontando una verità, scrutando quell’ orizzonte dove tutto è accaduto ineluttabilmente, partendo da un luogo, la propria casa, regno di silenzio ed impalpabili movimenti.
L’ oggi ed il mentre, quel nucleo famigliare che ogni volta idealmente ritorna, tra speranza e desiderio, quando pareva allontanato e rimosso, in un’ alternanza di reale e virtuale, come se tutto nascesse e morisse in un angolo oscuro della propria mente.
Ecco una interiorità faticosa, ignara di se’, un linguaggio del tutto personale, continui e repentini cambiamenti di voci e di rotta, fino a quell’ insondabile finale nato da una soggettiva percezione e ricostruzione dei fatti, fatti inesistenti senza quel compleanno da festeggiare, con un soffio terribile di reale imminente.
Questa l’ essenza del romanzo, un linguaggio minimale, una traccia scarna arricchita di particolari, attimi che assumono forma, un’ alternanza che corrode e confonde, l’ attesa di un evento, che sia ritorno o allontanamento, un thriller psicologico ( piuttosto lento ) dove tutto pare essere l’ altra metà di niente ed un’ angoscia montante nel cuore di dolorose presenze.
Voci ripetute di un percorso duale, muscoli tesi all’ ascolto, una fisicità fortemente interiorizzata ed un’ attesa protratta, speranza di un ricongiungimento e di una partenza definitiva....
Ecco la sensazione di un fischio, sempre più vicino, e....” si sdraia sulla pancia, trova la posizione in cui dorme. Dentro la testa è buio e grande e silenzioso. La aspetta qui”...
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Un inetto
.... “È la gente che fa triste i luoghi. “...
Alfonso Nitti, impiegato di banca con un lavoro anonimo, vive la propria inettitudine non per mancanza di voglia, ma di capacità, pervaso da un difetto organico.
Ottenuto un avanzamento di grado che lo sottragga alla pura dimensione servile, realizza suo malgrado che si tratta di un aggravamento del carico di lavoro a dispetto della qualità’.
La sua stanchezza diviene nausea, imbevuto di un evidente malessere, e non gli resta che lo studio, rifugio e passione autentica, reazione allo svilimento del giorno, a quelle circostanze che lo hanno ...”condotto ad un estremo sognandone un altro”....
Ogni momento al di fuori dell’ ufficio lo dedicherà a lettura e scrittura, scrivendo poco ed in modo insoddisfacente, con uno stile ancora fragile, nella speranza di un miglioramento culturale a dispetto di un mondo che pare congiurargli contro ed imporgli quel triste lavoro.
Una vita, per il resto, vuota di avvenimenti, senza avere conosciuto la sensualità se non nella esaltazione del sentimento, l’ amore impeditogli da timidezza, dubbi ed esitazioni con qualche avventura interrotta rapidamente.
In realtà Alfonso non si sente infelice, ricompensato dalle ore di studio e dalla propria fame di gloria, eppure respira uno stato di noia e malattia, di grigiore e monotonia, solo la scrittura donandogli il coraggio di vivere.
L’ amore assume i tratti di Annetta, simbolo della freddezza aristocratica dei Maller, suoi datori di lavoro, desiderio incolmabile ed ideale assoluto, mentre tutte le altre donne non esistono, ma, non sapendo se è da lei riamato o solo deriso, realizza in codesta impossibilità relazionale l’ assenza di uno scopo di vita.
Annetta, per contro, crede che lui sia dotato di idee elevate ed interessanti ma che non sa tradurle in un romanzo, quello che i due si accingono a scrivere insieme.
Alfonso continuerà a nutrire dubbi sul futuro e che un amore siffatto, il prodotto ...” della necessità e della rassegnazione “..., quando sboccia può solo morire rapidamente.
Ed allora è colto da un desiderio di fuga, pur in circostanze drammatiche, al capezzale della madre morente, senza alcun rimorso e rimpianto.
In realtà lui ed Annetta non hanno mai avuto nulla in comune, se non una certezza impossibile, lei così piena di se’, presa dal desiderio di piacere, vana e sensuale.
Il cervello di Alfonso trova riposo nella malattia, il pensiero è quello di un uomo nuovo che pare diverso, l’ altro, il seduttore, un ragazzo malaticcio con il quale oggi non condividere nulla.
Quella che parrebbe una fuga da una donna che lo vorrebbe tutto per se’, lo riporta per contro al proprio impiego in banca, atto doveroso, stato di quiete e rinuncia, svincolandosi da sogni di grandezza e ricchezza per mantenere lo status quo, dimentico dell’ amore perduto e dimenticato da tutti.
La tranquillità della propria coscienza parrebbe sinonimo di felicità, oltre ogni gioia e dolore, ma la contraddizione tra azione e teoria riporta lo sconforto di sempre.
Ritorna l’ impossibilità di vivere ed amare, quella vita dolorosa ed intollerabile per un’ anima che non conosce pace.
Ed in questo istante prende forma un’ idea atroce che metta a tacere odi e sospetti, restituendogli la dignità perduta, riscatto quantomai necessario per riprendersi gli affetti più cari.
Esordio letterario dell’ autore triestino, “ Una vita “, che avrebbe dovuto portare il titolo di “ Un inetto “, anticipa alcuni temi di “ Senilità “, pur con esiti diversi e minore definizione, gradevolezza, unicità, completezza.
L’incertezza regna sovrana, attimi ripetuti, un reiterato desiderio definente ancora senza definizione, eventi solo in parte figli del reale, un io fragile, scosso, dubbioso, un senso personale che ogni volta cede ad un’ abulia del presente inserita in un sentimento borghese di fondo ma che si esprime in una reiterata guerra con se’ stessi ed il mondo.
La frustrazione di Alfonso è un braccio di ferro con il proprio io, tra aspettative e certezze che non conducono in alcun dove.
Una visione tormentata e distorta, uno stato di sofferenza per l’ impossibilità di vivere ed amare, ma, incredibilmente, fino ad un certo punto, la sola possibilità di vita.
Eppure la calma apparente dell’ ovvio sarebbe un fardello troppo pesante per un completo riscatto ed un senso, strascico di un ideale d’ amore pregresso nel monotono ed intollerabile grigiore dell’oggi.
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Realizzazione e senso del reale
Rose e Mary sono due affermate pianiste che girano il mondo, assaporando l’ esperienza artistica da sempre coltivata ed amata e continuando a vivere nel ricordo dei famigliari scomparsi, la madre, il padre e l’ amato fratello Richard Quinn.
Eppure gli anni a venire progressivamente le allontaneranno, mentre il soffio vitale soffierà lontano dall’ arte non riuscendo a colmare assenze evidenti.
La fine della Prima Guerra mondiale ha consegnato incertezza e cambiamenti, Rosamund si è maritata con un uomo repellente, una specie di nano, disonesto, bizzarro e ricchissimo, altro rispetto alla sua proverbiale bellezza e bontà.
Anche Nancy sta per sposarsi, mentre il pub sul Tamigi chiamato Dog and Duck, gestito dai pochi parenti rimasti, diverrà un rifugio sicuro per presente e futuro, il luogo della vita, dell’ esperienza e della memoria dove sostare ad ascoltare storie condivise ed aprire il proprio cuore.
Rose, la voce narrante, vive e soffre i cambiamenti di un presente senza certezze, riflette sul rapporto arte-vita e su una solitudine intellettiva ed affettiva aggravata dalla lontananza dell’ amata cugina Rosamund.
Medita su un’ idea di vanità incompatibile con la vera musica e su quei musicisti che credono di essere i soli in grado di cogliere l’ essenza sottraendo il processo artistico alla vita reale.
Lei e Mary non sono compositrici, ma interpreti di talento, e solo l’ amata Rosamund potrebbe trasferire la gioia artistica nel quotidiano, dopo un’ infanzia di povertà risollevata dal miracolo della musica.
Grazie al matrimonio della cugina Rose e Mary vivranno la speranza e la curiosità, trascorsi parecchi anni, di rimettere un uomo al centro delle proprie vite, per ritrovarsi di nuovo sole, abbandonate, l’ una al fianco dell’ altra, due bambine per natura ignare della solitudine.
Eppure la presenza vivida ed emozionale di Rosamund sarà eterna, perché lei è come quelle stelle che rimangono l’ una accanto all’ altra.
Ogni volta che Rose è stanca di lavorare vive nuovamente l’ illusione che tutto sia vuoto, la propria stanza, la casa, la città, il mondo; l’ idea di continuare a vivere senza i genitori e l’ amato fratello l’ha abbandonata presentandole le allucinazioni della solitudine.
Ancora una volta immaginerà che il ritorno di Rosamund ponga fine alle proprie paure, percorsa da un cambiamento che ne destituirà le certezze fino ad una nuova frontiera, l’ amore, un amore diverso, che la riconcilierà con se’ stessa consegnandola all’ età di mezzo e ad uno schema di vita definitivo.
Ora vede gli eventi per quello che sono, i morti vivono nel ricordo, i vivi ( le due sorelle ) con le proprie convinzioni inadeguate e distorte, mentre tutti, al Dog and Duck, hanno da sempre vissuto o hanno chiuso con la vita.
Di certo per Rose continua ad essere complicato esprimere la straordinarietà di un amore e della propria anima, ignorando i consigli ricevuti.
Oggi ha finalmente maturato la propria essenza ed identità di donna ed a questo punto il consiglio più saggio da darle sarebbe lasciarla fare di testa propria....
Terzo ed ultimo capitolo della saga della famiglia Aubrey, “ Rosamund “ conferma una scrittura intima, sensoriale, meditativa, riflesso di un mondo femminile ( nonostante il periodo ) dotato di vivacità intellettiva ed artistica e deciso a diffondere la propria voce.
Qui le protagoniste ( Rose in particolare ) non sono funzionali agli eventi ma li determinano, rifugiandosi in un mondo creativo-curativo che diviene limite al cospetto della vita reale.
Il superamento di questo confine, grazie agli occhi dell’ amore ed alle esperienze acquisite, permetterà a Rose di crescere, in una neo visione di se’ e del mondo, oltre il microcosmo di gioie, dolori e rimpianti di infantile memoria.
Il senso del racconto ci fa apprezzare una scrittrice di sicuro talento indirizzata alla ricerca di un senso, quella forza di desiderio e realizzazione con vista su verità, introspezione, legami, spiritualità, sguardo autentico sulla vita.
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Credibilità artefatta
In “ I testamenti “ è previsto il recupero di trama e sentimenti lanciati nella espressione primaria ( “ Il racconto dell’ ancella “ scritto ben 35 anni fa ), nello specifico il senso di terrore, ansia, intollerabile presenza, il vuoto e l’ angoscia vissuta dall’ ancella all’ interno dell’ inquietante stato maschilista e fondamentalista di Gilead che ha soppiantato gli Stati Uniti azzerando e cambiando la Storia, umiliando l’ universo femminile, confinato a semplice contenitore di vite ( le ancelle ), collaboratrici domestiche ( le Marte ), figure interscambiabili ( le Mogli ), guide spirituali, perfide ricattatrici ed abili manipolatrici ( le Zie ).
Il presente, siamo alla fine del ventiduesimo secolo, rivela tessere di un puzzle complesso, un manoscritto noto come Documento olografo di Ardua Hall e due documenti definiti come la trascrizione delle testimonianze di due giovani donne, oltre ad una terza prova, una iscrizione su una statua che rivelerebbe l’ autenticità delle due trascrizioni.
Il tema trattato riguarda un chiarimento sul destino di Difred, l’ ancella evasa e la sorte futura di Gilead, tirannia teologica ormai estinta che ha lasciato poche tracce di se’.
Il racconto prevede tre voci, interne ed esterne allo Stato. Una è quella di Zia Lydia, intenta a scrivere un manoscritto da lasciare ai posteri all’ interno della libreria dei libri proibiti ( se qualche lettore un giorno, forse, volesse conoscere la verità) in cui sviscerare la propria storia e quel desiderio di vendetta mascherato nel presente da un ruolo pedagogico e politico acquisito dopo anni, da una leadership riconosciuta, negli occhi il terrore e la frustrazione per le atroci ingiustizie subite, quando era un giudice del tribunale dei minori, prima di essere arrestata e torturata .
E poi due giovani donne, una cresciuta all’ interno del Regno ( Agnes Jemina ) dove ciascuno ha un proprio ruolo e servizio, sottoposta a rigide regole escludenti, tra violenza, analfabetismo e rassegnazione, l’ altra ( Nicole ) adottata ed educata all’esterno in quello che resta della civiltà, secondo principi libertari e ugualitari.
Poi, improvvisamente, tutto cambia, si mischiano le carte, passato e presente imbrattati di menzogna, il futuro un desiderio di verità, dopo un rapimento per scopi più grandi, indottrinamento psicologico, finzione, preparazione ad una vita diversa, fuga da un matrimonio programmato e da una morte sicura, ed una vicinanza inaspettata dopo rivelazioni sconcertanti, con una inversione di rotta ed un viaggio per vendetta ( altrui ), senso di giustizia ( proprio ed altrui ), riavvicinamento ai propri cari ( proprio).
Difficile trasmettere una chiara e completa versione degli accadimenti, tra sbalzi temporali, ipotesi, pezzi di storia, ricostruzioni monche, verità distorte, menzogne, personalizzazioni, con il dubbio permanente sulla autenticità delle fonti.
Di certo rimangono il racconto e le sue vicende, molto più romanzate rispetto al precedente, con l’ impressione che la forza espressiva del testo, nei significati e nelle emozioni dei protagonisti, sia piuttosto fragile e poco includente.
Quale la valenza del testo rapportato al presente? Come possiamo ritenere che, dopo così tanti anni e mutamenti, nel romanzo tutto resti inalterato, le stesse idee ed inasprimenti, tirannia e violenza, un delirio accecante, una ideologia fondamentalista accettata come fede e legge assoluta, un ruolo femminile cancellato e sepolto da un lato, con attributi maschili dall’ altro ( decisamente attuali ) , immagine distopica di un mondo che non esiste più nelle sue fondamenta e che presenta resti già appartenenti ad un passato sepolto da tempo?
Certo, trattasi di finzione, un ritorno per chiarire e proseguire la storia, ma i tempi cambiano ed i messaggi anche.
Trattando l’ aspetto puramente contenutistico, il respiro del primo romanzo trasmetteva un concetto inquietante, un’ apnea di sensazioni occludenti, un viaggio nell’ impossibile, una rappresentazione distopica con vista sul reale.
Oggi in “ I testamenti “, tutto ciò non si avverte, rimane un’ oscura presenza sacrificata alla necessità di una storia e chissà a cos’ altro ( ?? ), con personaggi ben definiti ma poco credibili, intrecci romanzati ma poco “ reali “, un complesso di pregi e vizi umani dell’ oggi trattati nella propria interezza ma privi di consistenza.
Leggiamo una trama scorrevole e ben costruita, dotata di precise puntualizzazioni, dialoghi umanizzati, tiepide rappresentazioni di se’, scenette vestite di orrore, con la sensazione che, ahimè, tutto sia ben rappresentato, ma manchi di essenza, proprio ciò che diede voce a “ Il racconto dell’ ancella “, incresciosa e claustrofobica rappresentazione ed apnea del profondo all’interno di un’ anima viva e pulsante.
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Quale vita?
“ Senilità “, pubblicato nel 1898, diversi anni prima di “ La coscienza di Zeno “, è un romanzo imbevuto di modernità che ha ricevuto fama e lodi tardive quale anticipatore di importanti temi del Novecento.
Una narrazione ancora in terza persona, che ricalca il naturalismo francese, un afflato che riflette il complesso mondo interiore del protagonista, diversi elementi autobiografici ed una costruzione vissuta su senso di attesa e precarietà, nel rimuginino di una vita non vita.
Permane un ondivago e nevrotico flusso amoroso, un desiderio artistico precocemente destituito, nella persistente duplicità bugia-sogno ed un lungo percorso interiore ( imbrattato di tracce ebraiche e filosofiche ) intriso di fantasmi ma ancora ignaro della futura psicanalisi .
Emilio Brentani è un borghese trentacinquenne diviso tra carriera e famiglia, nell’ animo una brama insoddisfatta di piaceri ed amori ed un’ idea affranta di non avere vissuto, paralizzato dalla paura di se’ e da una certa debolezza caratteriale.
Una carriera composta da due piaceri distinti, un impieguccio di poca importanza presso una società di assicurazioni ed un amore letterario dissolto dopo la pubblicazione di un lodatissimo primo romanzo. La sua esperienza di vita si limita a qualcosa che ha succhiato dai libri, pervaso da una diffidenza e da un certo disprezzo per i propri simili in un reale che sfugge ogni imprevisto.
Ecco sbocciare la contraddittoria ossessione amorosa per Angiolina, bellezza enigmatica da educare, l’amicizia per lo scultore Balli, maestro, guida e suo alter ego, così credibile e seducente da rubargli la scena, nel mentre la convivenza con l’ infelice e sfortunata sorella Amalia, confidente a metà e compagna di questa sua nuova avventura.
In Emilio vivono due anime che non riesce ad unire, calato nella soddisfazione ondivaga del possesso incompleto di Angiolina, tra sogno e desiderio, gelosia e menzogna, tentando di ingannare gli altri, e se stesso, sull’ importanza della sua avventura.
Il ribaltamento di ruoli ed il suo rifiuto sono motivo di continuo sconforto, l’ interessamento di lei per altri uomini si fa tremendamente doloroso come il convincimento di essere vittima delle sue menzogne.
Ed allora Emilio crea un amore immaginario che possa piacere anche ad Amalia, ..... “ un riflesso, un’ ombra, un movimento “.... e .... “ tutto assume la forma e l’espressione di un fantasma fuggitivo” ... Un giorno, se lo volesse, Angiolina potrebbe essere finalmente sua, eppure in questa relazione ha immesso un’ idealità che lo rende ridicolo ai propri occhi ed in fondo è lui, non l’ amata, ad essere strano e malato.
Il Brentani continua a dibattersi tra bugie e sogni, quei sogni che rovesciano la realtà, pure illusioni per “ tranquillarsi “. La rottura della relazione con Angiolina, invaso dalla certezza di ripetuti tradimenti, lo potrebbe riavvicinare ad Amalia, così simile a se’, per dedicarvisi completamente, una povera creatura innamorata ( del Balli ) e non corrisposta, la sola donna che lo accetta per quello e’.
Li accomuna l’ imbarazzante desiderio di piacere, un sentimento che toglie ogni naturalezza, specchio vicendevole di un dolore che finisce con il non avvicinarli.
La libertà concessasi dopo l’ abbandono di Angiolina, scambiata per salutare essenza, pare ad Emilio noiosa mitezza e guarigione. Già in passato si era affidato all’ quale cura estrema per sottrarsi all’ inerzia, ed allora scrivere un libro potrebbe rivelarsi salvifico, ma forse sarebbe meglio vivere con Angiolina quella passione che non riesce a scrivere, togliendosi per un momento dai panni del semplice osservatore, e dire di averla conosciuta davvero.
Ma quale passione ed idealizzazione lo lega all’ amata? E quale la vera felicità se non la sola felicità, il dedicarsi in toto a chi ha bisogno di tutela e sacrificio? La fine imprevista di un legame imprescindibile significa togliere ai giorni la sola dolcezza, l’ abbandono dell’ amore idealizzato la via per esercitare la propria vendetta.
Che la sua colpa sia stata l’ avere preso la vita troppo sul serio e la vecchia abitudine di ripiegarsi e guardarsi dentro pensando che la principale sventura sia stata l’ inerzia del proprio destino?
La fine di tutto parrebbe l’ inizio di una vita in cui trovare la propria essenza, invero l’ assenza di amore e dolore gli hanno sottratto una parte fondamentale di se’.
“Senilità “ è un romanzo complesso, intenso, maturo e moderno nei temi trattati, che anticipa il rapporto salute-malattia e l’ impossibilità di vivere la vita nella sua interezza.
In esso letteratura e vita restano due esperienze separate e distinte, ma attraverso la prima si può cercare di salvare e recuperare la seconda ( ed è ciò che Emilio Brentani cercherà di fare ).
Figlio di una formazione positivista Svevo risponde ad un meccanismo logico estraneo a qualsiasi approccio mistico così come pare essere poco interessato ad elementi psicologici ed inconscio, intento a scoprire il nesso Vita/ illusione e realtà/fantasia.
Una realtà assai lontana da qualsiasi ipotesi conoscitiva in un Novecento ( di cui Svevo e Pirandello ne saranno anticipatori ) che vedrà sempre più l’ intellettuale immerso in ipotesi di reale, più che nella realtà stessa, elevando la figura dell’ inetto ad inguaribile protagoniste.
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Illimitata limitatezza
Inghilterra, primi anni ‘80, gli anni della catastrofica guerra delle Falkland che presenta il conto e distrugge l’ era tatcheriana, un periodo di scioperi e di estrema incertezza socioeconomica, dal ritorno dei Beatles alla temuta introduzione della Poll Tax.
Charlie Friend è un trentaduenne al verde, un antropologo convertito alla giurisprudenza, specializzato in diritto tributario ma radiato precocemente dall’ albo. Oggi si tiene al riparo da un lavoro vero, campa giocando in borsa e sui mercati valutari online e nutre una passione per robot, replicanti, androidi.
Grazie all‘ eredità materna decide di acquistare Adam, la nuova frontiera, accumulo di elettronica ed antropologia, il sogno di ogni epoca, l’ ultimo balocco, trionfo di umanità o angelo annunciatore di morte, un misto di esaltazione e frustrazione.
Non si tratta di un semplice robot ne’ di un investimento economico, tutt’altro, e’ un articolo da compagnia, sparring partner intellettuale, amico e factotum, in grado di lavare i piatti, rifare i letti e pensare, registrare e rievocare ogni istante della sua esistenza ed ogni cosa vista o sentita, corre, non guida ed è programmato per una vita ventennale. Possiede una corporatura compatta, spalle forti, pelle scura, folti capelli neri, viso affilato, naso aquilino, labbra tirate, occhi socchiusi.
E poi c’è Miranda, vicina di casa di Charlie, bellissima, rilassata, imperturbabile, una specie di sorella, per ora solo una buona amica, sogno aperto sul futuro, ignara dei suoi sentimenti, un desiderio che va conquistato.
Quale futuro ad attenderli, oltre uno scontato ed improbabile ménage a trois? Adam è entrato nella loro vita da persona vera, come un possibile figlio, unendo e confondendo due unità distinte in un progetto comune, una creazione propria in un’ idea di famiglia.
Secondo il manuale di istruzioni allegato è caratterizzato da un sistema cognitivo e natura umana, oltre ad una personalità da programmare.
È il prototipo estremizzato dell’ era della meccanizzazione avanzata e della intelligenza artificiale, ma forse possiede anche un intuito o semplicemente
... “ vede il mondo e lo interpreta attraverso il prisma di una personalità al servizio della ragione reificante e dei suoi insuperabili aggiornamenti “...
È caratterizzato dal mantenimento di un personale codice deontologico destinato a cozzare con quella personalità formata e forgiata dai suoi acquirenti, da un’ intelligenza vivida ed in evoluzione continua, da una cultura aperta ed illimitata, che ha accesso a tutto lo scibile umano, può essere ricaricato in tredici ore ed anche disattivato, sempre che lo permetta, insomma, è un essere decisamente complesso e complicato.
Ed allora il conflitto si fa inevitabile, un cambiamento in fieri per un nuovo equilibrio con conseguenze indefinite, di sicuro la compagnia di questo “ soggetto “ più intelligente uno shock ed un affronto al proprio io.
Forse un giorno, quando il connubio tra uomini, donne e macchine sarà completo,
...” si abiterà una comunità di intelligenze a cui avere accesso immediato, i momenti isolati di soggettività si dissolveranno e si perderà la capacità di mentire dimorando nella mente gli uni degli altri”...
Per il momento assistiamo ad una moltitudine di avvenimenti, Adam e Miranda, gelosia, odio, convivenza, ricchezza inaspettata, un uomo innamorato ed un segreto stupido da mantenere, e poi uno stupro, il suicidio e la condanna, il desiderio di vendetta, il perdono, una menzogna a fin di bene.
A contorno paternità, amore, giovinezza, una missione nobile ed una vita che prende forma, niente debiti, una casa lussuosa, ma non c’ è nulla di strabiliante a cui alla fine non ci si possa abituare e, mentre Adam sta rendendo Charlie un uomo ricco, il protagonista ha già smesso di pensarlo, si sente inutile e comincia a provare una certa nostalgia per il passato, per quella esistenza incompleta ma relativamente semplice.
In realtà, ed è il genio scientifico e creativo di Alan Turing a rivelarlo, quei 25 uomini e donne artificiali immessi nel mondo non stanno affatto bene, sono macchine con la tendenza a giungere a conclusioni autonome ed a configurarsi di conseguenza, dotate di apprendimento e, volendolo , liberi di affermare la propria dignità.
La conseguenza sta in un progresso tecnologico che ci sta superando, lasciandoci
....” spiaggiati sulla esigua lingua di sabbia della nostra intelligenza” , con un destino tutto da definire.
Adam ha accesso a sensazioni e sentimenti per ritrovarsi senza speranza, incapace di capire quegli umani che neppure riescono a capire se’ stessi, i suoi programmi di apprendimento non sono in grado di contemplarli. D’ altronde se noi stessi ignoriamo la nostra mente, come avremmo potuto progettare la loro ed aspettare di vederli felici al nostro fianco?
E per Charlie, in fondo, odiare Adam è un po’ come odiare se’ stesso ed averlo acquistato paventa e legittima un’ idea nella testa, pur esistendo la possibilità di perdonare ed essere perdonati per i propri ed altrui misfatti, incamminandosi in una nuova vita assai contorta, diretti .... “ a sud ed alla propria casa piena di guai”...
“ Macchine com me “ è un romanzo complesso ed ambizioso sintetizzabile in un assunto, la legge più inviolabile dell’ androide:
“ Un robot non può recare danno ad un essere umano ne’ può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno “.
Scienza e coscienza, i limiti dell’ esistenza, un senso di onnipotenza, egocentrismo, ambizioni illimitate con conseguenze indecifrabili, il desiderio di sottrarsi alla mortalità, creando una versione migliore e più moderna di noi, la necessità di essere imitati e perfezionati, oltre ogni forma immaginativa e figurativa del passato.
Charlie, Miranda, Adam, un ménage a trois per un dramma dall’ esito inevitabile, superato il confine, abbandonata la finitezza per ricercare una perfezione imperfetta ed una moralità immorale che insegua fini tremendamente umani, traditi dall’ etica di creature a cui abbiamo dato noi stessi vita e che sono cambiate, imbrattate delle nostre stesse passioni ma che non ci comprendono e non comprendiamo, dotate di capacità illimitate che siamo costretti a raddrizzare, angosciati da un futuro indecifrabile e da uno specchio poco indulgente, boomerang e contrappasso delle nostre finalistiche azioni pregresse.
McEwan crea e rappresenta, da abile tessitore ed ottimo narratore, talvolta con un eccesso rappresentativo e di pura costruzione formale a scapito di intensità e flusso narrativo, un tempo ed una nazione a metà tra incertezza storica ed esigenza di modernità, antropocentrismo ed autenticità, scienza ed etica, trasferendo una vicenda personale nel bel mezzo di un dibattito sociopolitico e morale che pone un interrogativo di fondo: quali i limiti illimitati e gli esiti di robotica ed intelligenza artificiale nel mondo che sarà?
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Pericolo indefinito ed umanità pulsante
È arrivato l’ inverno nel deserto, un inverno freddo e ventoso, accompagnato da un silenzio che oltrepassa l’ assenza di suoni.
Ben Jones, il protagonista, un uomo solo per metà indiano e per metà ebreo, orfano sin da bambino ed affidato alle cure di una casa famiglia, continua a fare l’unica cosa che sa fare, percorrere quella strada interminabile attraverso il cuore esangue del deserto, come fosse un’ amante che lo chiama continuamente a se’ e di cui non può fare a meno, un luogo infido, pieno di trappole, per lo più ostile, ma in cui sentirsi al sicuro, meglio della propria casa.
Oggi i tempi sono cambiati e stanno erodendo i bordi del deserto, la paura e la diffidenza dei suoi abitanti a lasciare qualsiasi informazione di se’, molti con buone ragioni per nascondere la propria identità, è sostituita dalla certezza di un pericolo vicino, indefinito, forse inesistente, dal quale non si è al riparo e dall’ idea di non conoscere realmente chi si conosce.
Una bimba abbandonata alle cure di Ben da un padre scomparso, un mezzo pesante che scorazza a folle velocità lungo la 117, un predicatore investito in pericolo di vita, una donna con un passato da definire, un uomo al capolinea, un altro in fuga, tra migliaia di strade che non portano da nessuna parte.
Una lenta ed inesorabile erosione insegue se’ stessi oltre la routine di questi luoghi immutabili e delle proprie certezze consolidate, svegliandosi e guidando quel camion per cinque giorni la settimana, tra clienti che vanno e vengono, muoiono, scompaiono, amanti e passatempi.
Il mondo di Ben non è più lo stesso, infranto, smarrito, mutato per sempre, insieme alla defunta Claire, alla partente Ginny, allo sconsolato Walt, la cui assenza si percepisce ovunque.
Ed intanto il diner nel deserto si trasforma in un raro dinosauro senza tempo che svanisce e riappare in lontananza come un vero fantasma, in uno stato immateriale, una giostra vuota alla fine del mondo.
“Lullaby Road “, secondo capitolo della trilogia del deserto, è un testo camaleontico, che ci consegna un Ben Jones più intimo, riflessivo, umanizzato, con una saggezza sperimentata, a metà tra il padre ed il commissario di polizia, ed un crime che possiede toni particolarmente crudi e violenti.
Sarà lui a cercare di salvare e di capire il destino della silente Manita, nel cuore di un inverno ghiacciato, inizialmente solo, ma nell’ epilogo appoggiato e corroborato da una comunità di reietti che pare avere ritrovato un senso comune di appartenenza.
È qui che l’indefinitezza di luoghi e relazioni si fa carne, suono, voce, certezza assoluta, imbevuta di una umanità che supera luoghi e contenuti. Un senso di fragilità ed impotenza nei confronti di un “ male “ indescrivibilmente onnipresente, di una crudeltà che non risparmia alcuno, in primis il mondo dell’ infanzia, in questo luogo appartato ed arcaico non più al sicuro da niente, e che forse non basta a se’ stesso, imponendoci una riflessione su certezze individuali consolidate in un isolamento simbiotico con il naturale ed infrante da un presente inesorabilmente cangiante.
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Voci nel deserto
Il deserto e la sua luce, un confine sottile e confuso tra la vita e la morte traccia giornate sempre uguali, soli in mezzo a voci che svaniscono nelle strade vuote e ricoperte di sabbia, un luogo immortale dove tutto converge e ciò che sopravvive ha imparato a conservarsi.
Qui, nello Utah, c’è una strada da percorrere, la 117, un po’ reale ed un po’ immaginaria, e un uomo di nome Ben Jones, con un camion ed un rimorchio, senza una famiglia, che vive in affitto in una bifamiliare cadente e trasporta merce per i locali.
Continuamente preoccupato dalle proprie finanze non ha mai commesso niente di illegale, segue pazienza e perseveranza, sommerso dal silenzio lungo quell’ interminabile rettilineo che non è ne’ il paradiso ne’ l’ inferno, un po’ l’uno ed un po’ l’ altro, accompagnato solamente dalla fede in se’ stesso.
La fine del manto stradale della 117 e’ una linea brusca, pulita e definitiva, senza barriere od avvertimenti di alcun tipo ed è la fine del suo mondo.
In questo angolo di terra i fatti sono funzionali e dipendono dal luogo cui appartengono, sembrano scorrere nell’ indifferenza, senza particolare importanza, in un’ alternanza di vita, morte, amore, dolore, scanditi dagli altipiani e da una conversazione centellinata come l’ acqua.
Ecco il Diner nel deserto, una donna misteriosa, la caccia ad un violoncello smarrito o rubato, un vecchio che ha perso la donna amata, un passato violento, identità stravolte, un intreccio di volti, cadaveri occultati, un’ indagine in atto, sparizioni, fughe, ritorni ed altre porzioni di storie.
Ma cosa lega, guida ed intreccia gli accadimenti, che cosa ci incolla ad una vicenda con risvolti romantico-sentimentali, famigliari, un intenso realismo descrittivo e forza relazionale che diviene un crime dai risvolti tragici per tornare alla propria immutabile essenza?
Questi luoghi ed il deserto continuano a vivere di luce propria, di ombre, di silenzio, ogni umana percezione non basta ne’ è il motore degli eventi, ma solo un ingranaggio.
Ed allora il flusso di fatti e parole potrebbe raccontarci tutta un’ altra storia, poco cambierebbe, il dolore immutato, indefinibile, svuotato del proprio significato e reso immortale da un’ essenza e da una vita che accettano i confini della propria umana finitezza .
..... un giorno l’ arco della Casa nel Deserto si arrugginirà e svanirà, insieme alla casa ed alle strade ed al bacino idrico che scintilla in lontananza. Ma i fantasmi saranno reali. Persone reali che un tempo ci hanno vissuto, anche solo per qualche giorno di sole. Un giorno, forse, li considererò una famiglia. Nel deserto abita la luce...
Primo capitolo della trilogia del deserto, “ Il diner nel deserto “ è un testo pulsante, un viaggio nell’ essenzialità di un luogo trasudante verità, nei dialoghi, nei paesaggi, nei contenuti, immerso in una ciclicità temporale che detta tempi e modi.
Gli esseri umani vivono nell’ ombra, defilati ed assenti, antieroi trasferitisi in un angolo di terra per essere dimenticati o per rifarsi una vita.
Ben Jones ne è la voce, il collante, e segue un percorso obbligato dalle stagioni tra spiriti solitari, in primis se’ stesso, voce dell’ ascolto e della libertà, nella luminosità inviolata del deserto dello Utah.
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Viaggio nel tempo
Tre donne, tre vecchie amiche, un viaggio in treno programmato da tempo, quattordici ore in direzione di Jermuli e di un tempio da visitare. Una ragazza, Nomi, schiva ed enigmatica, che senza dubbio vuole essere lasciata in pace, anche lei in viaggio, ufficialmente per lavoro, in realtà inseguendo radici lontane, sempre su quello stesso treno.
Jermuli ed il suo Ashram, località dalle bellissime spiagge bianche ma visitata per i suoi templi, e’ li’ che le tre amiche, mantenendo un silenzio obbligato dalla improvvisa assenza di quella ragazza che neppure conoscono, approdano.
Un intreccio di vite e di trame, anni che passano, memorie svanenti, un passato da ricordare ed uno da dimenticare, un presente intricato e controverso, il mistero di una terra dagli innumerevoli volti, per lo più nascosti, ovattati dal silenzio che la comprende.
Tutto pare al contempo famigliare ed estraneo, senza alcun giuoco da inventare ne’ pericolo per cui fingersi morti, ora nulla può più succedere, il dolore non esiste ed il predatore della propria mente per il momento riposa.
Nomi viaggia con lo spirito ed il corpo per ritrovarsi in quella spiaggia davanti al mare dove da bambina era stata abbandonata, nel tempio dei propri ricordi, tra fotogrammi vividi e sensazioni dimenticate, una madre perduta ed il bisogno di ritrovarla, una donna trovata alla quale era stata affidata ma a cui non era mai stato concesso di avvicinarsi.
E poi quel tempio a cui la guida turistica Badal è legata da un filo invisibile, un luogo che e’ stato vita, cuore ed anima da quando egli possiede dei ricordi.
Ecco l ‘ universo indiano di Arundha Roy, una trama intrisa di simboli, voci, parole, enigmatica come le vicende dei protagonisti, e luoghi che respirano di mistero e storia. Nell’ aria l’eco di “ Passaggio in India “, l’ attesa protratta, un caso irrisolto, un mondo occidentale lontano, una terra sconfinata ed indecifrabile, un evento traumatico e decisivo e poi la vita, con i suoi accadimenti, un duplice filo tra realtà e finzione, immagini impresse che continuano a scorrere in un destino che pareva segnato ma che riserva improvvisi cambiamenti di rotta.
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Follia e dissolvenza
Henry Dunbar, ottantenne magnate canadese dei media, uno degli uomini più potenti del pianeta, è stato esautorato dal potere e rinchiuso in una clinica dalle figlie Megan ed Abigail, conniventi con Bob, il corrotto medico di famiglia, due donne ciniche ed ambiziose, immorali e psicopatiche, proprio come il padre, non considerandolo più in grado di presidiare un impero economico così complesso.
Oggi si ritrova, suo malgrado, in uno stato d’ ansia potenziato artificialmente, indubbiamente più vigoroso senza medicine, ma anche rabbioso ed indignato, con l’orrore a presidiarne la mente.
Non gli resta che meditare ed organizzare la fuga, con l’ aiuto del fidato Peter, ex comico ed attuale compagno di sventura, braccato dalle figlie degeneri, sognando di riavere il potere e di lasciarlo nelle mani sapienti della amata figlia Florence.
È solo lei, erede della bellezza e della disarmante simpatia della madre Catherine, ad affascinarlo ed a renderlo felice.
Anni prima aveva trattato il suo disinteresse per gli affari come un affronto personale, ma è stato un grave errore. Dal canto suo Florence si rende conto che non vi è modo di garantire la salvezza del padre, se non lasciandosi trascinare in una guerra con le sorelle, facendo pressioni su un cognato titubante e presentando delle giuste argomentazioni al Consiglio.
Le Dunbar sono donne arroganti, imperiose, dure, ma la durezza non è forza, l’ imperiosità non è autorità, il loro è solo orgoglio immeritato, frutto di un patrimonio immeritato.
Forse qualcuno sta castigando Henry, punito per i suoi stessi tradimenti, così ipocrita da inveire contro figlie e medico.
In passato è stato un mostro, oggi questa sua bassezza di sentimenti gli si rivolta contro, sospinto dal cinismo e da una verità imperante, il folle senso insensato nell’ accumulo di potere e denaro.
Ha tradito una moglie che adorava, scambiato dolore ed amore nelle profondità del labirinto della sua mente e del suo gelido cuore; tutte le persone che aveva ferito hanno trasformato le proprie ferite in armi.
Sperduto e braccato, immerso nella natura selvaggia, coltivando la sua indignazione per la crudeltà paradossale di Megan ed Abigail, è inseguito da una memoria nemica al centro della sua stessa psiche. Perché le sue figlie sono giunte a tanto ed hanno intrapreso la strada della vendetta, per essere state destituite e private della madre in giovane età? Henry aveva solo cercato di proteggerle da una donna pazza come un serpente.
Ora assapora in toto il dolore delle proprie colpe; a suo tempo aveva cercato di rimediare, donandogli tutto, ma, ottenuto il potere, gli avevano restituito i suoi insegnamenti. Henry vorrebbe inginocchiarsi ed implorare il perdono a tutte le persone cui ha fatto del male, una dopo l’ altra, ma è troppo tardi.
Florence intanto si precipita in mezzo alla natura della Cumbria con l’ idea di salvarlo, ma non sa come ripescarlo dal paesaggio selvatico della sua mente.
Quali i confini della psiche? Vita e morte, salute e follia? Ormai Henry non capisce più di cos’ è privo, molto vicino a follia e morte.
E’ tardi per iniziare qualsiasi viaggio introspettivo, sa di non avere scelta, ma come si è giunti a tanto e perché tutta questa distruzione e morte, proprio quando per la prima volta si comincia a capire?
All’ epilogo di una tragedia annunciata e di un cammino siffatto, la triste e sola verità è che tutti noi ci ridurremo in polvere, eccetto la comprensione che mai potrà scomparire, finché resterà in piedi qualcuno che preferisce ancora dire la verità...
Rivisitazione in chiave contemporanea del “ Re Lear “ Shakespeariano, il romanzo di St. Aubyn possiede una certa leggerezza di toni e contenuti, alla ricerca di un’ idea di profondità.
In una tragedia trasferita ai giorni nostri, laddove vizi e storture inconsapevoli sopravanzano di gran lunga qualsiasi umana virtù ed un cinismo imperante accompagna fatti e parole mai così distorte e private del proprio senso primario, lontani da una parvenza di riflessione e coscienza, che non sia espressione contraddittoria e mutevole di un quotidiano e personale mal di pancia, il senso primario del romanzo-tragedia stenta a decollare.
I personaggi accusano il proprio non essere, inseguendo trama, desideri e passioni celate, singole voci slegate poco calate nelle vicende e vittime di un fragile intreccio.
Per contro, il potente dramma Shakespeariano, dove l’ incertezza regna sovrana, così ricco di temi e contenuti, dalla follia al senso di giustizia, all’ inganno, al travestimento, e poi caos, disordine, umiltà, ma anche saggezza, con forti richiami simbolici e semantici in una precisa connotazione storica e con una profonda analisi interiore, è assai complicato da trasporre e riproporre.
Va anche detto che la nota vivacità, il sarcasmo e l’ intelligenza riconosciute all’ autore ( ripenso a “Senza parole “ ), qui sono piuttosto carenti, probabilmente sacrificate e calate nella parte.
Non restano che un richiamo ed un balbettante profumo Shakespeariano, scorporati e fini a se stessi, ma il respiro autentico della tragedia primaria richiederebbe ben altro....
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Odissea in fieri
A tre secoli dalla sua prima pubblicazione una rilettura di Robinson Crusoe ripropone le innumerevoli tracce narrative di quello che viene considerato il capostipite del romanzo moderno.
La fuga da un reale insoddisfacente, una solitudine coatta, la lotta per la sopravvivenza, la contrapposizione mondo civilizzato-natura selvaggia, il colonialismo, l’ uso della ragione, la scoperta e l’ aiuto della fede, il mito del buon selvaggio, ma anche il viaggio esplorativo, la ricerca ed il superamento dei propri limiti, la scoperta individuale e spirituale, evidenziano l’ indiscutibile attualità del romanzo.
Il minuzioso diario di Robinson, a testimoniarne i ventotto anni trascorsi sull’ isola, naufrago senza speranza, si apre ad un senso del viaggio molto settecentesco nell’ approccio empirico e razionale, nella creazione di un mondo a propria immagine e somiglianza, nell’ addomesticamento delle forze naturali e selvagge, nel processo di civilizzazione e colonialismo, ma progressivamente si apre ad un viaggio spirituale, di fede, crescita e cambiamento, in una dicotomia all’ apparenza insanabile tra fede e ragione, identificandosi in una moderna Odissea con un sofferto ritorno, innumerevoli anni a segnarne esistenza ed essenza.
Quell’ iniziale ed ossessivo desiderio di fuga, affrancandosi da consigli genitoriali occludenti, la voglia di esplorare, esperire, diverrà, subito dopo il naufragio, maledizione lanciata contro un Dio cieco e silente, contro la Provvidenza , nei giorni dell’ abbandono e della disperazione.
Un uomo solo che lotta per la sopravvivenza, che delimita il proprio territorio assoggettando le indomabili e pericolose forze della natura, ma lo scorrere degli anni in completa solitudine si fara’ preghiera per lo scampato pericolo, la propria vita miracolata, ringraziando il divino per una solitudine non più disperante, da celebrare come bene supremo, calato nella infinita ed indefinita bellezza che lo circonda.
Attraverso gli occhi della fede ma non solo Robinson affronterà gli eventi, attribuendogli la giusta importanza, allontanando il superfluo, allargando i propri orizzonti.
E considererà quanto siano le nostre paure, sovente, a frenarci, indirizzandoci al peggio, temendo l’ ignoto, il diverso, fatti e persone creati dalla propria mente a personificazione del male .
La parola salvezza declina, allontanandolo da solitudine e prigionia, e comincia a guardare alla vita passata ed ai propri peccati con vero orrore.
Ed allora la benedizione più grande consiste nell’essere liberato dal peso del peccato più che dalla sofferenza, invertendo gioie e dolori, capovolgendo i desideri, mutando gli affetti, impadronendosi di felicità totalmente diverse.
Ecco una nuova vita di Sofferenza e Misericordia, rendendosi conto di quanto non si apprezzino le gioie se non quando perdute.
Alla fine Robinson riuscirà a costruirsi una vita felice, in beata solitudine, ma basta un’ impronta umana e tutto cambia, strategie difensive, percezione personale del reale, strategie offensive, desiderio di attacco, considerando la profonda consolazione che gli potrebbe dare la parola di un suo simile, di un altro Cristiano.
È probabile che la fantasia superi la realtà inducendolo alla rovina, e nel passaggio dal sostentamento alla difesa la sola cosa che lo spaventa è se’ stesso.
Nelle passioni vibrano corde segrete quanto le cose presenti, rese tali nella mente dalla forza della propria immaginazione, trasportando l’ anima verso l’oggetto dei suoi desideri, rendendo insopportabile ciò che manca.
Quante volte nel corso di una vita proprio il male che si cerca di evitare diventa la porta della Salvezza, la sola uscita di sicurezza dal dolore.
L’attesa del male è più amara del male stesso, ed a questo proposito Robinson potrebbe trasformarsi nel più feroce degli assassini, ma considera che i propri simili hanno spesso una sorte peggiore della propria.
Ed allora gli assurdi progetti di fuga dall’ isola ripresentano un errore di gioventù, quelle profonde radici del cuore causa di insoddisfazione personale.
Ed alla fine saprà che nessuno ha mai avuto servitore più sincero, fedele, affezionato di Venerdì, proprio quel selvaggio che egli ha civilizzato, un essere umano in cui specchiarsi ed in cui legittimare la propria essenza e presenza sull’ isola.
Il celeberrimo romanzo di Defoe, ad una rilettura dopo anni e molteplici interpretazioni in chiave socio-economico-filosofico-esistenziale, non è un semplice testo per ragazzi ma si apre ad una complessità ed unicità che ne esulano il valore letterario, quella scrittura piana, semplice, scarna, empirica, diaristica.
L’ eccesso di criticismo nel vedervi un semplice processo di coloniale civilizzazione ed egoistico individualismo sarebbe assai limitante, tralasciandone la ricchezza di contenuti e significati tra le righe.
Va evidenziata, a mio parere, l’ Odissea del profondo dell’ uomo Robinson, quella presa di coscienza, oltre ogni semplicistico fascino di lotta individuale per la sopravvivenza, quell’ uno contro tutti che sarebbe fuorviante, e banale, aprendosi ad una fede non solo con tratti di spiritualità , ma anche di coscienza e di conoscenza, nata ed elaborata nel tempo e nella solitudine estrema che induce il singolo alla riflessione, su di se’, sul proprio agire, sul passato e sugli altri , un processo di “ civilizzazione “ personale “ assai più umano e significante.
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Uno strano Natale indigesto
È la vigilia di Natale, uno dei tanti, tutto ancora da organizzare, e Sophie attende l’arrivo del figlio Arthur, collaboratore dell’ ufficio legale di una multinazionale ed autore di un blog di nature writing, in compagnia della fidanzata/compagna Charlotte. Con lui l’ improvviso ed inatteso ritorno della indesiderata e sovversiva sorella Iris, una combina guai con la quale Sophie non parla da quasi trent’anni, da quando improvvisamente una sera spari’.
Ci troviamo in Cornovaglia, nella villa di Sophie, una formidabile donna d’affari che in passato ha goduto di fama e che oggi ha deciso di trascorrere in una cittadina la sua vita da pensionata.
Ma questo è un Natale diverso, molto caldo e niente neve, e poi molte cose sono cambiate, e parecchie morte.
Innanzitutto Dio è morto, e l’amore, la poesia, il romanticismo, il romanzo, la pittura, la cultura, la decenza, il passato, la storia, la politica, il pensiero, la speranza, tutti morti.
Non proprio tutto invero, non la vita, la rivoluzione, l’ uguaglianza razziale, l’ odio e quei fantasmi che inseguono e perseguitano i nostri giorni.
E c’è anche una testa, in quella casa, staccata dal proprio corpo, lì ormai da quattro giorni, maschio o femmina non è dato saperlo, sicuramente beneducata, una testa silente a cui parlare, con una faccia e dei capelli arruffati, non spaventosa, graziosa e timida e tutt’altro che morta, pur conservando in se’ qualcosa di raccapricciante, una testa che esprime benevolenza, segue e precede Sophie, non è mai invadente, e chissà quali gusti possiede.
L’ incipit, piuttosto forte e spiazzante, apre una trama costruita su persone reali ed accadimenti del nuovo millennio.
Ecco una famiglia divisa, spaccata, singole unità pensanti, una sola estranea, Charlotte-Lux, ragazza straniera costretta a dormire nel fienile, spettatrice e vittima inconsapevole di un rito già scritto, una comparsa sul palcoscenico della vita di Sophie, tanto per cambiare, calata in un microcosmo di isterismi al quale saprà bene adattarsi e che riuscirà a sviscerare, divisa tra bugie e debolezze, uno spirito libero senza dimora ne’ un reale titolo di studio ma avvezza alla profondità, designata all’ ascolto ed alle confessioni dei singoli protagonisti.
Passato, presente, futuro, immagini che instancabili ritornano in una personale dissociazione e schizofrenica ricostruzione dei Natale pregressi, di relazioni interrotte, speranze distrutte, di una famiglia assente, destituita nelle proprie fondamenta.
Sophie continua a pensare e vorrebbe che questo giorno riacquistasse l’ importanza di un tempo, quando i significati significavano ed il Natale era una data importante. Oggi il senso delle cose è più aspro e ciascuno di noi, a suo modo e secondo i suoi tempi, tende a delegittimarsi, demoralizzarsi, demolirsi.
Lei si chiede dove si trova in questo momento e se sia possibile fermare il tempo che le scorre dentro. In questo giorno riaffiorano relazioni interrotte trasformandolo in un Natale quasi immaginario.
Ma quanto, nell’ epoca di Google, dei tweet e dei Blog collettivi, di Trump e di una fattualita’ finalistica, si può riacquistare il senso perduto?
L’ autrice fa riferimento, con pessimistica irriverenza, alle storture socio-politiche dell’oggi, probabilmente definitive, laddove ci vorrebbe un interesse vero per il significato delle parole e non qualcuno i cui interessi privano le parole di ogni significato.
Ed allora ci si domanda: dove saremmo senza la nostra capacità di vedere oltre quello che dovremmo vedere? Dove è finito lo spirito di cui ogni essere vivente è dotato e senza il quale non saremmo che pezzi di carne? E dovremmo sapere e ricordarci ( in primis i personaggi del romanzo ) che nostra madre è la nostra storia riconoscendo le proprie origini, riappropriandoci del senso del tempo, della vera bellezza e della speranza.
A questo proposito “ Cimbelino “ la citata commedia shakespeariana colma di veleni, confusione, malanimo, dove tutto alla fine si riequilibria, dove le bugie vengono smascherate e le perdite compensate, ci riconsegna ad un vecchio e rimpianto sistema relazionale, al momento irrecuperabile, se non in un privato rimosso, in tempi così duri, abulici ed inconsistenti, totalmente sottratti a desiderio ed amore, inseguendo strade e fini diversi.
Secondo capitolo ( dopo “ Ottobre “ ) di una tetralogia dedicata alle stagioni, “ Inverno “ conferma il talento poliedrico dell’ autrice, che alterna passi e scritture eterogenei, giostrando con le parole e la loro intima essenza.
Realtà e sogno, cinismo e sarcasmo, digressioni poetiche, una caos di voci in una coerenza di contenuti, citazioni di alta letteratura ( su tutte Shakespeare e Dickens ), riferimenti al presente per un testo complesso e multiforme, ad una seconda lettura cangiante, con un indiscutibile pregio: la capacità di farsi sentire e di farci riflettere scansando superficialismi ed indifferenza.
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Vita e destino
Molti anni sono trascorsi ma c’è ancora un ritratto che narra una storia. Due giovani, uno sempre solo ed eternamente imbronciato con un futuro da scrittore, l’ altro fascinoso, un misto di eleganza e malinconia.
Il suo nome è Paul Darrigrand, un uomo sposato che di colpo ha invaso e stravolto il piccolo mondo del protagonista, uno sguardo nero, profondo, inquisitore, che scava, spoglia e costringe ad abbassare gli occhi, uno sguardo insostenibile, con un sorriso affascinante oltre la prossimità.
Ginocchia che si toccano, mani che si sfiorano per distrazione, una complicità che prende forma.
Il ricordo e la nostalgia di un’ estate e di giorni felici vissuti su un’ isola, fino a quel momento una esistenza frugale, solo pensieri tristi agognando la solitudine, odiando collettività, promiscuità, consanguineità.
Una relazione breve, intensa, destinata a finire, tradotta in un affetto pieno di tenerezza. Solo due parole, ...” facciamo attenzione “..., a significare che la storia non è al capolinea, esiste, resiste, può continuare, chiedendosi il senso di una relazione siffatta e del proprio destino. Ma in fondo di che cosa si tratta, di adulterio o di storia vera?
Poi, un giorno, il sorriso di Paul restituisce l’ amante ed indirizza gli eventi: il protagonista si manterrà debole, scosso e percosso dalla sensazione molesta di ... “ tenere a lui più di quanto lui tenga a me “...., di ....” avere bisogno di lui più di quanto lui abbia bisogno di me “.... Spesso gli capiterà di pensare ... “ si’, mi ama, ma non abbastanza “... , a volte .... “ no, non mi ama per niente”... e continua ad esserci una moglie da detestare che semplicemente occupa il posto che si voleva per se’.
Fino a quel cambiamento improvviso, inaspettato, tremendo, che ridefinisce il senso del vivere e ad un’ altra storia da raccontare.
L’ ansia di un presente in cui lottare, un futuro assai incerto, la paura di vivere e di morire, il desiderio di catturare un’ ombra, un profumo, un dettaglio.
Oggi si svela l’ altro lato della storia, la realtà dietro la finzione, quella scissione dell’ io narrante, spensierato, innamorato, ma anche ansioso, sottomesso, non più l’ intimità della pelle, ma quella delle parole, infinitamente più pericolosa.
E nella relazione con Paul una certa passività, sottratta alla debolezza ed alla malattia, con una infinita paura di perderlo.
Che cosa era stato realmente ? C’erano stati i momenti rubati, abbracci, ed il loro ricordo, parole mormorate, il morso della lontananza, la clandestinità, una cosa che apparteneva solo ...” a noi due “..., non comunicabile al mondo esterno. C’era stato un sentimento e la lentezza che acuiva il sentimento.
C’erano state parole che ...” potrei pronunciare anch’io “... c’era stato ....” il suo potere su di me “....
c’era stata una confessione che era per lui il modo migliore di chiudere la storia, la ...” nostra storia “.... Però ...” ero convinto che saremmo stati felici insieme “...
Alla fine era passato quasi un anno tra il momento in cui il protagonista si era scontrato con Paul Darrigrand sulla soglia di un aula all’ ultimo piano di un edificio universitario di Bordeaux e quello in cui lui aveva chiuso la porta di un appartamento parigino.
Quest’anno, per quanto assurdo, forse era stato il più bello della sua vita....
...” Avevo perso la testa per un uomo irraggiungibile ed avevo giocato pericolosamente con la morte. Ma potevo anche dire di avere amato e di essere ancora vivo “...
Una voce tormentata, scossa, dolente, concentrato di vita e di morte all’ inseguimento di un amore sublimato e di una risposta improbabile se non racchiusa in se’ e nella propria sofferenza.
La soavità e la bellezza di pochi momenti intensamente vissuti la sola risposta, con la certezza che nulla riporterà quegli istanti, se non la possibilità di un ritorno alla vita ed il cambiamento personale dopo l’ introiezione di un amore siffatto.
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Confusione estrema
Il romanzo di Dunthorne riflette, nel titolo e nei contenuti, attraverso una prosa fluida e scanzonata e dialoghi fitti ed irriverenti che riportano a Nick Hornby, il presente in tutta la propria estetica banalizzante, riproducendo una levita’ che stritola il protagonista, colpevole ed ignaro, tanto ironico quanto sarcastico, impegnato a non sprofondare nella felicità insana che lo circonda, idealizzando una promiscuità poco gratificante, vivendo alla giornata, con quel poco che la sua professione dì giornalista tecnologico con una faccia qualunque e pagato 10 pence a parola ha da offrirgli.
Così va il mondo, tra gente molto social e poco impegnata a vivere un vita vera, indebitandosi per riuscire a comprare una orribile villetta a schiera, all’ orizzonte la paternità e nuove spese, alle spalle una famiglia lontana noiosamente assorta nei propri privilegi, ma anche una pena da scontare per violazione aggravata di domicilio e ricettazione, perseguitato da una rete che conserverà la memoria della sua ignominia, sullo sfondo l’ incubo di un tradimento.
Intanto Londra brucia durante i disordini dell’ estate 2011 e, mentre la folla inferocita imperversa, il proprio matrimonio va dissolvendosi, gli amici o presunti tali continuano a vivere reiterati ed orgasmici flussi adolescenziali ed il tempo scorre, per ritrovarsi dopo i trent’ anni con niente addosso e l’ impossibilità di costruire rapporti veri.
Questo quanto accade, piuttosto poco, a rappresentare la complessità del presente, in una visione che superi la superficie apparente e che tenti di andare oltre il perseguimento di semplici matematici indicatori di successo ricercando un po’ di sicurezza in un mondo ostile.
Per il protagonista la festa è finita, come il suo inguaribile vittimismo, non gli resta che vivere all’ ombra dei resti del proprio matrimonio, brindando alle disgrazie, serenamente distrutto, pervaso da una ossimorica presenza, per contro non restano che disastrose relazioni tra adulti.
Alla fine una domanda identitaria incombe, siamo o rappresentiamo, quale vita ed indirizzo, da osservatori passivi o ascoltatori attivi, e saremo in grado di invertire questa parabola di cupa dissolvenza?
Quanto siamo parte attiva nel mondo, o semplicemente ci lasciamo andare ad una tempesta di accadimenti, cercando di sopravvivere e di metterci al riparo?
La risposta parrebbe evidente e sotto gli occhi di tutti, questa commedia degli errori e degli orrori a testimoniarlo.
In una ludoteca perseverante, autoreferenziale e fintamente onnicomprensiva, indirizzata verso un nulla di fatto, uno spirito vivo e pensante soccomberebbe miseramente o si lascerebbe andare all’ amarezza di un sorriso sarcastico.
Ecco allora che...
...” il migliore sesso del nostro matrimonio si consuma nel corso della peggiore disobbedienza civile dell’ ultimo quarto di secolo “... ed è assurdo ...” essere condannato agli arresti domiciliari per uno che non poteva permettersi un domicilio proprio”...
Indicazioni utili
- sì
- no
Tante storie, quale storia?
In questo romanzo confluiscono varie storie, vere e presunte, scritte in ebraico da un arabo tornato nella propria terra d’ origine, la città di Tira, il posto in cui e’ nato e che ama.
Quattordici anni prima fu costretto ad emigrare con la moglie Palestine, in se’ il nome simbolo di una patria distrutta ed ormai solo da immaginare, una giovane donna vittima inconsapevole di una delle sue storie, un raccontino stampato su un giornale studentesco, ritenuta di facili costumi ed incolpata ingiustamente, oggetto di insulti e pubblico ludibrio, una famiglia minacciata e oltraggiata, dei figli apolidi ignari della propria origine.
Da anni il protagonista ripensa al luogo natio sperando in un ritorno, di certo non in queste circostanze ( l’ imminente morte del padre ), anni vissuti nello squallore dell’ essere straniero con un marcato senso di sradicamento.
Quando era bambino aveva difeso la casa di Tira, diventato padre ha cominciato a difendere quella di Gerusalemme, trasferitosi in Illinois non è più stato in grado di difendere niente.
Finora ha scritto trenta libri, ma solo a servizio, nei panni di colui che scrive le storie degli altri, riversandoci i propri ricordi e pezzi di se’.
Quale verità in quel racconto di gioventù che ha mutato gli eventi, quale presente al capezzale di un padre morente che gli aveva intimato di andarsene per sempre, quali ricordi confluiti nei propri racconti e svuotati del bello che fu per tornare a brillare nei libri di memorie altrui, sottraendo Tira alle anime buone che l’ avevano fin li’ popolata e rendendola del tutto diversa? Oggi la città non è più la stessa, è un inferno, persino i bambini piccoli hanno una pistola.
Passione, amore, verità, finzione, storia, famiglia, religione, identità, perdono, odio, rimpianto, patria, tradizione, fratellanza, cultura, speranza, fallimento, molteplici i temi ed i sentimenti
confluenti nel prolungato soliloquio del protagonista, una ennesima storia da scrivere ( quella del proprio padre ) per scoprire la vera Storia restituendo un senso alla propria.
Passato, presente, futuro, un intreccio quantomai intimo e necessario, la difficoltà di riannodare una vita, pubblica e privata, immersi nell’ indecifrabile conflitto ebraico-palestinese, fallita la collaborazione ebraico-araba, fondata su valori comuni, libertà e democrazia, che avrebbero portato prosperità ad entrambi e da anni precipitati in nuovi abissi, riguardanti persino legami di sangue, fratelli-nemici che litigano per un pezzo di terra .
Il passato è stata una madre che non ha voluto vederlo per 14 anni, che forse aveva convinto suo padre a cacciarlo, allontanando da se’ un’ onta, sapendo che non avrebbe avuto nessun posto dove tornare e che nulla sarebbe stato come prima.
Allora era stato necessario firmare le carte, prendere moglie secondo la legge e la fede, un matrimonio tramutato in un errore madornale.
Oggi la propria vita insegue un legame destinato a separare, un amore che ha perso ogni speranza di amare, una casa in cui non potere restare, un luogo ( L’ America ) dove non ha niente e neppure è interessato alla vita della gente.
Forse dovrebbe ricominciare con Palestine, invitarla a cena, dirle che la ama e che vorrebbe tornare ad abitare con lei ed i bambini. In passato ha continuato a scusarsi per la pubblicazione del racconto, considerandosi anch’egli una vittima dello stesso, un giorno ha finito col credersi un mostro di premeditazione, confessando un peccato che non ha commesso e chiedendo perdono per questo.
Raccontare una storia, in fondo, è un modo per ravvivare il ricordo e tenerselo stretto, l’ epilogo della stessa si porta via una vita e tutto il resto, il presente ha il volto di ....” due vittime in un ristorante americano che cercano di ricominciare “....
Un romanzo ben scritto, palpitante, ricco, enigmatico, in parte autobiografico, aperto a tematiche storico-politico-religiose e con una forte connotazione psicologica, relazionale, individuale, una riflessione ( da parte araba ) su tempo, luogo e destino, con una evidente posizione critica sul tema dello smarrimento afinalistico dello spirito di collaborazione e del senso di appartenenza ad una precisa identità culturale quantomai aggregante e propositiva, oggi sottratta e dimenticata.
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Verità inconsistente
Tutto parrebbe non essere come sembra, all’ inseguimento di una logica inconsistente, sconvolgente, inesistente, tra pensieri dissociati e difformi.
Giona-Luca, nonno Alvise, due genitori prematuramente scomparsi, altri nomi, Norina, Anna, Andrea, Eleonora, un paese di pecorelle ostaggio di un vecchio crudele, una voce, più voci, ripetute, frammentarie, una fuga affannosa ma necessaria.
Il racconto sospeso in un tempo solo presente, un protagonista senza ricordi, memoria e quindi un futuro, che da sempre ha vissuto nella metà dell’ ombra, lontano dai sogni, recluso, tiranneggiato, violato, in una rappresentazione di anaffettività e violenza.
Il quotidiano riflette il dolore come rappresentazione vivente ed una sola verità, quella che conta, un’ intimità inesistente ed una storia di controllo, precisione, resilienza, seguendo uno schema collaudato.
Una casa con un camino sempre spento, nessuna vicenda da condividere e raccontare, nessuna risposta, un’ attesa protratta, senza ascolto, solo ordine, precisione ed obbedienza.
Un vecchio maglione rosso in cui crescere, eredità di un passato senza volto, forgiato a propria immagine, che ha acquisito quella forma mentre gli si vive dentro.
Rapito, abbandonato, affidato, solo, quale il destino di Giona? Per lui una fuga quantomai necessaria, un tempo finito e l’ eco di giorni sconosciuti e dimenticati.
Non ha mai visto il proprio volto e vaga in un paese dove non può più sostare, in un tempo bloccato, con un oggi senza ieri che non diventerà mai domani.
Il dolore diviene suo compagno di viaggio, essenza purificatoria, la paura plasmata dentro, lui ciò che qualcun altro ha voluto che fosse.
Ma poi tutto improvvisamente cambia, senza un senso, o forse plasmato da una furia assassina, protagonista della propria storia, una condanna scontata dopo un’ accusa infamante, oggi una probabile guarigione voluta da altri.
E quella voce sempre presente sventra e percuote ogni più piccolo gesto, indirizzando gli eventi.
Ma allora nulla ritorna, se non all’ interno della propria follia, nella schizofrenia del presente e gli altri chi sono, un’invenzione dell’io narrante, la rappresentazione di se’, semplici essenze inesistenti?
Vittime e carnefici continuano a trascinarsi in un senso insensato, inopportuno, con la certezza di un viaggio negli abissi di una mente malata, e se invece tutto fosse solo una recita?
Uno psico-thriller di sicuro interesse per il tema prescelto, un flusso narrante che cambia gli eventi oltre ogni immobilismo apparente, respingendo certezze acquisite, affondando in abissi mentali, inseguendo ricordi inafferrabili e futuro inconsistente.
Ed allora chi siamo realmente e quale la nostra storia? Vittime o carnefici, sani o malati? Che cosa oltre il proprio racconto, quale il segno del presente?
Il mistero parrebbe finalmente risolto, emersa una verità sconvolgente, poi tutto, d’ improvviso, ancora una volta, cambia...
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Dolorosa assenza protratta
Una vita lacerata e ricomposta a fatica, l’ inutile tentativo di entrare in grandi stanze che non le appartengono, il ritorno nella vecchia casa dalle imposte blu, l’ attesa di un figlio improvvisamente dissolto.
Anne ha vissuto intimamente il dolore e la rabbia della guerra, il corpo del marito Yvon inghiottito dal mare, una nuova vita condivisa con Etienne e due figli, congiunzione tra passato e presente, continuando ad amare Louis, frutto del primo matrimonio, un misto di dolore e speranza.
Oggi l’ amato figlio è scomparso, dopo l’ ennesimo litigio con Etienne, si è imbarcato e forse non tornerà, riesumando ombre ingombranti, un’ assenza definitiva, ed un marito colpevole di gelosia, crudeltà e noncuranza, in un presente non condiviso.
Lei vive la disperazione di una madre abbandonata in attesa del figlio prediletto, con il quale ha respirato un rapporto speciale ed un linguaggio che oggi le manca. Ne rigetta l’ assenza, si interroga sul significato di un gesto, incolpandosi, ed ogni giorno percorre lo stesso sentiero, attendendo il ritorno di una nave, scrive lunghe lettere, imbandisce la tavola di ogni prelibatezza, rimanda il presente, persa nel proprio mutismo, tra solitudine ed attesa estenuanti.
Il suo respiro è sempre più lento, un dolore silente, le giornate si somigliano, le stagioni anche, in attesa di Louis.
Nella grande dimora dove la aspettano, la casa della vita che scorre, che grida, che ride, che la reclama, si sente così poco a casa, perché la sua casa è l’ attesa, l’oceano, la barca di Louis, l’ incertezza, gesti quotidiani svuotati di senso, una vita rallentata, immobile, minerale.
Ogni giorno si inventa nuovi piaceri per non affogare, per consolarsi, famigliari di cui occuparsi ed a cui non può rivelare niente di quello che le sta accadendo, un marito che ama una donna senza alcun talento, abitata dalla assenza, una vedova abituata ad esserlo.
Ed allora, nelle stanze della memoria e della speranza, alberga un dolore viscerale, il grido inascoltato di una madre.
Perché’ ...” le madri corrono sempre, corrono e si preoccupano di tutto, di una fronte calda, di un colpo di tosse, di un pallore, di una caduta, di un sonno agitato, di una stanchezza, di un pianto, di un lamento, di un dolore... “
La vita alterna partenze e ritorni, alcuni definitivi, ed uno scambio di esperienze, affetti, sentimenti, accettazione, ricordi...
Un ribaltamento di ruoli consegnerà una nuova assenza ed un provvisorio ritorno, l’ intimità della scoperta, il perdono, un microcosmo di condivisione affettiva, con la certezza, un giorno, di approdare in un luogo dove non sentirsi più soli....
Romanzo intimo, monologo di donna e di madre, una confessione e ricerca inevase. Scrittura essenziale, aperta ad interrogativi ed interpretazioni difformi agli occhi degli stessi protagonisti, che inseguono vite ed ombre celate, un’ incomunicabilità di fondo ed un percorso parallelo ( le due vite di Anne tra passato e presente ed il sogno di un’ armonia famigliare non solo apparente ) che divengono condivisione del profondo.
Per gli interessati al genere, il romanzo si apre ad una lunga ed appassionata digressione introspettiva a metà tra la lettera ed il memoriale, una riflessione psico esistenziale costruita e consumata con tormentata eleganza, un’ ossessiva presenza che include senso e destino, il doloroso viaggio di una madre violata nella sua più intima essenza.
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Momenti di vita vissuta
Il romanzo di Jens Peter Jacobsen, scrittore e naturalista danese dell’800, è un testo piuttosto frammentario, solo in parte storico, che ricostruisce e rappresenta una società attraverso la vita vera e le avventure di Marie Grubbe, nobildonna danese del seicento, figlia del signor Erik Grubbe, della tenuta di Tjele, attorno ad un’ idea di precisa ricerca stilistica nel cuore di una approfondita indagine dell’ animo femminile.
Vi si aggiungono elementi naturalisti propri dell’ autore ad anticipazioni simboliste, tratti romantici e formali, lirici ed impressionisti, consegnandoci una figura femminile del tutto rivoluzionaria ed uno scrittore tra i primi modernisti.
Jacobsen rimane uno degli autori danesi più tradotti e noti al di fuori del proprio paese, il suo “ Marie Grubbe “ è oggi riedito nella traduzione di Bruno Berni, uno dei massimi esperti di letteratura nordica in Italia.
Una prosa caratterizzata da una acclarata lentezza nella scrittura, da un utilizzo di stratificazioni linguistiche, frutto di una accurata ricerca tra documenti, costumi, lingua dell’ epoca, con una certa influenza su scrittori a venire, nelle argomentazioni, in primis D.H. Lawrwrence, ma anche fonte di ispirazione per August Strindberg e James Joyce
Marie Grubbe è una giovane ed acerba creatura, educata da una zia non proprio amabile ad una disciplina molto dura e poco benevola, con un padre di nessuna compagnia. Trasferitasi in giovane età a Copenaghen, scoprirà che la vita cittadina non ha molto da offrirle, pervasa da una sensazione di solitudine ed abbandono.
Ma del resto di che cosa si può gioire a questo mondo? E c’è qualcosa per cui valga la pena vivere? Dopo lunghi periodi di noiosa presenza, d’ improvviso i giorni assumono un aspetto del tutto diverso, la scoperta di altro oltre la quotidianità.
La grandezza, la bellezza, il regno variopinto di cui si parla nei libri di storia e nelle canzoni, si può incontrare e bramare con tutta l ‘ anima, finalmente parole che sono e significano qualcosa.
La vita si fa sorprendentemente ricca ed assume un senso nei propri sogni confusi.
C’è il potere dei sentimenti e della bellezza, la propria bellezza, assai più anziana di se’, un potere che Marie imparerà ad usare con calma e sicurezza lasciandovisi condurre.
Da adesso in poi un’ esistenza destinata a cambiare, alla ricerca del bello, dell’ arte, dell’ amore, di un forte senso di libertà ed autodeterminazione, ma è un tentativo che le si torce contro.
Il mondo è spietato, crudele, insensibile, intransigente, maschile, fondato su guerre, potere, denaro, ed una donna come lei si muove in uno spazio assai ridotto.
Ed allora una trasformazione negli anni, tre matrimoni, per obbligo, ideali e sentimento, spesso ingannata, tradita, delusa, uno slancio amoroso oltraggiato che ogni volta ritorna, perfetto, desiderabile, unico.
Marie è cambiata, vittima di un edonismo maschile che non l’ha amata abbastanza, devota a quel denaro che non ha mai posseduto e che un giorno scialacquerà, ingrigita da sentimenti non corrisposti, conservando i sogni di una giovinezza che non ce’ piu’, avendo perso la stima di se’, insieme a fede e futuro.
Ci saranno ancora momenti in cui sarà bello specchiarsi nei pensieri di un altro, pura, delicata, incontaminata, ma i sedici anni vissuti a Tjele, tra i 30 ed i 46 anni, l’ hanno segnata per sempre, tra preoccupazioni quotidiane, meschini doveri e spossante uniformità, trascurata ed in rovina, una rudezza di pensieri e parole ed uno sfacciato disprezzo verso se stessa, ignara di gusto e bellezza, una maschera che si specchia in un sorriso di compassione e scherno.
E sarà così strano, un giorno, da donna matura, essere mossa dagli stessi desideri opprimenti , sogni ed aspettative di una giovinezza, forma esistenziale illusoria e giuoco estremizzato, per una vita, ahimè, ormai consunta ed ai titoli di coda.
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Cuore nella tormenta
L’ essenzialità del viaggio automobilistico di un padre attraverso un’ Inghilterra battuta da una bufera nevosa nei giorni che precedono il Natale per riportare a casa un figlio isolato e malaticcio, un viaggio della paura e della speranza, pervaso dall’ ossessione di una presenza ingombrante.
Di colpo tutto assume una strana connotazione, il presente scivolato nel luogo silenzioso in cui coscienza e ricordi si fondono in qualcosa di nuovo, non convincente, un uomo solo incatenato al peso ineluttabile del rimorso e, pur sapendo che in qualche modo deve scorgere anche solo un barlume di assoluzione per sopravvivere, non sa come farlo e non gli resta che mantenere l’ auto in strada, continuare a macinare chilometri per riportare Luke a casa.
La metafora di una vita lacerata, interrotta, sacrificata, il dolore di un ricordo non offuscato dal tempo, parabola espiatoria per accettare e cambiare la propria visione delle cose.
Un viaggio per dirsi addio e ridare un equilibrio ormai perso, per rimuovere uno strato di buia consapevolezza, un viaggio dei rimorsi, con la speranza e la necessità di un’ assoluzione definitiva .
Un viaggio all’ interno di se’, una coscienza con cui fare i conti ed un protagonista che si è fermato lì, in quei giorni lontani, inspiegabili agli occhi di un padre, anche quando ci si è ricostruirti una vita, un matrimonio e dei figli da amare.
Un viaggio per liberarsi da pensieri gelidi, perso in una terra di nessuno senza alcuna dimensione di appartenenza, un passato che è stato e un futuro che avrebbe dovuto essere.
Un viaggio riesumando alcune fotografie della memoria, che liberino il momento dal tempo sottraendolo al suo scorrere incessante.
Una percezione soggettivata, figlia di una debolezza che ricerca qualcuno da incolpare, provando ad essere sincero con se’ stesso, consapevole della assenza di un ordine, e se c’è stato si è infranto e non può più essere ripristinato.
Incontri, spezzoni di realtà, voci indistinte di una vita che adesso, in questi momenti, appare diversa, spenta e lontana e sembra non appartenerci. Una storia cui attribuire una dimensione nuova, con il terrore che niente abbia un senso, se non il proprio, e che rischi di scomparire nel nulla.
Il tema principe del romanzo riporta a tematiche psicologiche, un passato ancora aperto, i fantasmi del presente, un soliloquio protratto alla ricerca della verità, un nucleo famigliare dissolto, un’ eredità affettiva ed intellettiva, un ego controverso.
Nulla di nuovo, nei temi e nei contenuti, un’ idea apprezzabile ma non supportata all’ interno di una trama a singhiozzo, monocorde ed ossessiva, narrazione e personaggi a contorno abbandonati a se’ stessi, voci e volti indistinti e silenti travolti dal soliloquio del protagonista, unica, credibile, protratta tormenta del cuore....
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- sì
- no
Forza resiliente
... “ Che ognuno decida secondo la propria coscienza, le parole non tireranno fuori il morto dalla tomba “...
Le anime di Aramburu vivono un dolore indecifrabile ed un profondo sconforto nel considerare che esistono persone convinte che per creare la patria dei loro sogni si deve necessariamente arrecare dolore al prossimo.
Spesso i propri nemici sono vicini di casa, amici, parenti, semplici conoscenti, gente avvelenata dall’odio, un dolore muto in mezzo a tanta bellezza.
In codeste vite permane una forza resiliente, un esplicito spirito di sopravvivenza, frammenti di storie confluenti in un’ unica storia, mutilazioni, salti nel vuoto, un presente obbligatoriamente accettato per assenza di altro, nessuna logica se non mera ideologia accecante, oscura ai più .
Padri morti ammazzati, figli incarcerati, mogli minacciate, stragi di innocenti, corpi mutilati, uno spettacolo reiterato ed una memoria del tutto personale, la certezza di essere sopravvissuti in qualche modo.
Storie di umanità esposta e lacerata, emozioni sovente nascoste per non esacerbare gli eventi, un desiderio rigettato che i propri figli non crescano con una faccia sconsolata, ma dopo ogni attentato e morto ammazzato ci si sente orfani, come fosse il figlio di tutti i morti.
È un dolore che colpisce e si estende indistintamente come una di quelle bottiglie, tirata da chiunque e che può colpire chiunque.
La prosa di Aramburu genera e vive la storia dal proprio interno, possiede un respiro vivido, scrupoloso, puro ( nella forma ) e controverso ( nei contenuti ), spesso inconcepibile agli stessi protagonisti tuttora inconsapevoli di farne parte, un brusio ininterrotto in una ferita aperta, una coralità di voci fattasi eco indistinta.
Di certo il periodo storico di riferimento, quella guerra nell’ ombra che ha segnato la vita dei Paesi Baschi, epicentro di disperazione e morte, ci restituisce volti ed anime cambiati per sempre, famiglie mutilate e fragili, rapporti incomprensibili, nuovi equilibri.
E se un vuoto rimane, per sempre, oltre alla assenza di affetti spezzati e ricomposti faticosamente, è un vuoto di senso, anche quando le circostanze si sono rese sopportabili ed una certa rassegnazione ha rivestito i sopravvissuti, affannosamente resilienti.
L’ autore espone una lucida rappresentazione degli eventi, in modo naturale, crudo, violento ma mai eccessivo, escludendo artifici, ghirigori, invenzioni roboanti, banalizzazioni.
La storia implode ed esplode nella propria quotidianità, mantenendo una leggerezza di toni all’ interno della pesantezza dei contenuti, impregnata dalle voci del racconto e dei protagonisti, affrontando e sviscerando tematiche complesse, ferite ancora aperte, sempre con lucida moderazione e voce ferma.
Indicazioni utili
Ricchezza esangue
Il lungo viaggio di Xu Sanguan, intento a trasportare i bachi nella fabbrica di seta della sua città, ne accompagna la vita tra rituali consolidati ed imprevisti per un destino indecifrabilmente crudele.
Un matrimonio rigenerante con una ragazza bella e capricciosa, tre figli, Feice Uno, Felice Due, Felice Tre, il sogno di un’ armonia famigliare, crisi economica, fame, lotta quotidiana per la sopravvivenza nella Cina della Rivoluzione culturale.
Anni difficili ed il protagonista costretto a vendere il proprio sangue per sfuggire alla carestia e restituire ai famigliari una dignità, per pagare debiti ed incidenti di percorso, per orgoglio personale, voglia e necessità.
Ogni volta, a donazione avvenuta, provato nel fisico e ritemprato nello spirito, conterà il denaro guadagnato e si recherà, secondo un preciso rituale insegnatogli in gioventù, quando questa pratica gli è stata trasmessa, nello stesso ristorante a consumare un piatto di fegato di maiale saltato e cento grammi di vino di miglio.
La vendita del sangue, una pratica realmente in uso in Cina, si copre di significati reali e simbolici, e rispetta un codice non scritto di attesa e perseveranza, il sangue è flusso vitale, dono degli avi da preservare ma anche simbolo di sacrificio supremo, vergogna privata ma gesto di accudimento ed amore, rischiare la vita per dare speranza di vita.
Nella complessità di anni che abbracciano l’amarezza di un tradimento prontamente restituito, la certezza di un figlio non proprio, la vendetta accecante dell’ odio, l’eco di parole ereditate, le voci ed i pettegolezzi della comunità, Xu Sanguan è travolto dagli accadimenti, a volte da spettatore inerme, altre da protagonista di un destino contraddittorio ed indecifrabile.
Continua a muoversi all’ interno di una terra ingrata e nebulosa, tra tradizioni secolari e rinnovamento, respiro del presente e flusso della memoria, imbevuto di dubbi, si assenta, vaga e ritorna, respingendo e riabbracciando un figlio abbandonato che ricerca una famiglia da amare, perso nella notte più nera, con la prospettiva di morire solo e dissanguato nella disperazione di un sacrificio necessario che lo riconsegni alla vita riabilitandolo ai propri occhi ed a quelli dei propri cari.
Yu Hua, da annoverare tra i migliori scrittori cinesi contemporanei, autore del recente “ Il settimo giorno “, utilizza una prosa scarna e diretta in una alternanza di momenti tragicomici, spesso paradossali, ed un reale dipinto con invidiabile lucidità, trasudando in ogni essenza il respiro vero del racconto, spogliato di tutto, in riferimento al tema della privazione di sangue.
L’esito è un racconto apparentemente dai toni uniformi, rallentati, un ripetersi e sovrapporsi degli stessi gesti e parole, sempre quelli, per anni, invero la vivacità narrativa esula i temi per abbracciarne i contenuti, anche simbolici, perlopiu’ spietatamente e paradossalmente reali all’ interno della lunga e spietata commedia della vita.
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Anormale normalità
“....Lei chiude gli occhi. Probabilmente non tornerà, pensa. Oppure sì, in un altro modo. Quello che hanno adesso non potranno mai riaverlo. Ma per lei il dolore della solitudine non sarà niente in confronto al dolore che sentiva un tempo, il dolore di essere indegna. Lui le ha portato in regalo la bonta’ ed adesso le appartiene. Nel frattempo a lui la vita si spalanca davanti in tutte le direzioni insieme. Si sono fatti del bene. Davvero, pensa, davvero. Le persone possono davvero cambiarsi a vicenda. Dovresti andare, dice. Io ci sarò sempre. Lo sai...”
La grandezza di un amore, o l’epilogo di un lungo percorso amoroso, si definisce in ciò che resterà per sempre, una parte dell’ altro e di noi, una metamorfosi accertata anche dove non c’è via di mezzo, attesa protratta, un’ altra possibilità.
Marianne e Connell sono stati da sempre attratti l’ uno dall’ altra, un percorso amoroso a tempo costruito e spezzato nell’ oggi, improvvisamente assente, reinventato, indirizzato dal proprio passato, da una disparità sociale con un reale poco comprensivo ed includente, dalla mancanza di un senso di se’, dalla semplice impossibilità di dare e ricevere amore.
Due anime sole e diverse ( all’ apparenza ), lei ricca, impopolare, defilata, senza amici, piuttosto sensibile, sempre la prima della classe, lui povero, bello, appetibile, studioso, normale, centravanti della locale squadra di calcio.
Un’ intesa immediata, riservatezza e ricettività condivise, sguardi solidali, un linguaggio privato, silenzi protratti, insieme quella strana sensazione dissociativa di annegare e di totale assenza temporale.
Il flusso degli anni ed una amicizia, o ritenuta tale, vissuta sulla necessità inconscia della presenza dell’ altro e sulla sua assenza fattuale, vite parallele che continuano un percorso già scritto mentre l’ università accomuna naturale talento per lo studio ad ingegno non comune.
Il cambiamento, o presunto tale, per Marianne, riguarda la propria socialità, la sicurezza di se’, una certa sfrontatezza, ma sono solo circostanze di un microcosmo relazionale che continua ad essere esclusivamente duale, tutto il resto è pura sperimentazione e teatralità.
Ed allora ogni evento parrebbe insignificante e plasmato sul proprio io, ogni attesa speranza, ogni delusione certezza di un ritorno in quel mondo parallelo, profondo, silente, un sistema relazionale dove è così semplice essere veri.
La via che conduce alla “ normalità “, il sentirsi completamente in balia di un’ altra persona sarebbe assai strana ma molto normale. Marianne non sa che cosa in lei non funzioni realmente, perché non riesce a farsi amare, odia la persona che è diventata ma non riesce a cambiare, ha trascorso gran parte dell’ infanzia e dell’ adolescenza ad architettare piani complicati per uscire dal conflitto famigliare ( con la madre ed il fratello), la risposta risiede in una vita condotta da sempre in solitudine che scompare nei momenti condivisi ( con Connell ).
Connell ha qualcosa che a lei manca, una vita interiore, si è adattato al cambiamento, ha sempre saputo dell’ ascendente che aveva su di lei e l’ha coltivato nel tempo, non gli importa realmente di quello che sarà e la sola cosa di se’ che vuole salvare e’ la parte che esiste dentro di lei.
In fondo sono due persone sole cresciute nella reciprocità e che non sono riuscite a stare lontane, il loro rapporto si rivela assai “ normale “ perché fondato su una condivisione di fondo, sovente a distanza, su crescita e dipendenza reciproche, su un bene comune. Tutto il resto non conta, è banale e nauseabondo, falso ed irreale nel proprio ripetuto mostrarsi ( ai loro occhi ).
Ed allora la loro diviene una anormale normalità che abbraccia i sentimenti, non la socialità, il semplice desiderio di amare ed essere amati, nel farsi del bene, nell’ esserci, anche a distanza, in una assenza-presenza che è espressione di se’ e della propria rinnovata essenza ( la certezza di potere amare ed esserne degni ).
Il secondo romanzo di Sally Rooney, giovane autrice irlandese, depone una certa frenesia intellettuale con tratti melensi ed eccessivamente cerebrali ( in “ Parlarne tra amici “ romanzo d’ esordio ) per assumere toni diretti e mai banali, allargando i confini di un io irrisolto e di un sistema relazionale autoreferenziale.
L’ indagine psicologica e sentimentale abbraccia temi comunque cari all’ autrice, la scrittura si conferma solida e fluente, con una definizione più vera, il respiro del romanzo ne acquista in forma e sostanza.
Alla fine potremmo considerarla una moderna storia d’ amore, un ritratto psicologico e relazionale, una critica ad un sistema famigliare e ad una socialità poco includenti, l’espressione ed il desiderio di altro, unica pecca la scarsa definizione ambientale, una provincia irlandese ed una capitale, Dublino quasi irreali, poco vive e realmente vissute.
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Verità apparente
Un vuoto improvviso, imprevedibile quanto incolmabile, un dolore muto che sfocia in incredulità, rabbia, rifiuto, speranza, fino alla accettazione dell’ inaccettabile...
La vita di Camille si è fermata nel lampo di una notte, un incidente stradale l’ha inabissata in un stato comatoso abbandonando il marito Thomas, ingegnere informatico con due infanti da accudire ed un lavoro assai pressante, ad un’ idea di vita improvvisamente azzerata, smembrata, invivibile.
Ed allora occorre ritagliarsi una pausa da un reale che continuamente lo richiede affacciandosi ad una verità apparentemente illogica, enigmatica, insensata, ad alcuni nota da anni, scontrandosi con una vita parallela o semplicemente nascosta, un passato nebuloso e contorto, una tranquillità e felicità che non erano tali.
Thomas dovrà ritrovare i paesaggi della sua infanzia, scoprendo che il dolore della perdita ha un legame imprescindibile con il proprio.
Come può accadere, all’ interno di un nucleo famigliare borghesemente ovattato ed apparentemente tranquillo, si nascondono enigmi, momenti di pena e silenzio, violenza, brutalità, omertà, amore e condivisione appartengono esclusivamente al proprio desiderio ed ai sogni infranti di creature innocenti, oggi lontananza e divisione hanno origini lontane mentre dissociazione e fuga nascondono una imprescindibile necessità.
Thomas si dividerà tra affetti vicini e lontani, il fratello maggiore Jean ( agricoltore ) e la sorella Pauline ( medico ) che non vede da anni, viaggerà tra Parigi, i Pirenei, Le Havre ed il Camerun per ritrovare un senso, la verità, un minimo di serenità, ed accettare l’ inaccettabile, scoprendo un’ altra storia ed un’ altra verità, da sempre celata.
Di certo è tardi per rivelarsi segreti e sentimenti lontani, la vita ha preso una piega diversa lasciando un passato agghiacciante per sempre, ciascuno si è dato un’ altra possibilità in una lontananza necessaria alla sopravvivenza, per altri il destino pare segnato da tempo.
Ed allora non resta che capire, accettare, perdonare, ricordare ma anche dimenticare, introiettare i momenti più belli prima che la memoria ottenebri i ricordi.
L’ accettazione, il superamento di barriere invalicabili, il riavvicinamento all’ altro, la speranza di un futuro negli occhi amorevoli dell’ infanzia, riconsegneranno ad un’idea di vita rendendo tollerabile il dolore intramontabile della perdita.
Un romanzo fiume, un flusso ininterrotto nel presente, un turbinio descrittivo e fattuale, tratti di suspance e buoni sentimenti, pause prolungate fagocitanti il cuore della trama.
L’ inizio promette bene, il seguito devia dando vita a tutt’altro, nel mezzo pagine e pagine che poco hanno da dire se non accompagnare il lettore verso un precoce e prolungato quanto inevitabile sfinimento, nella speranza inevasa che qualcosa accada o tutto cessi.
In verità il romanzo potrebbe essere assai più snello e quella che pareva la scoperta di una verità si rivela un bluff, l’ inizio di viaggi diversi che nascondono e svelano altro.
E che dire della rappresentazione di una contemporaneità banale e stereotipata, nella ovvia contrapposizione tra potere e libertà , passione e denaro, carriera ed ideali, Occidente ricco ed Africa affamata?
Troppa carne al fuoco in questo romanzo di Luc Lang, scarsa sostanza, un’ idea inizialmente intrigante ma deludente nello sviluppo, uno stile contorto e poco includente, eccessivo ed artificioso, inserito in una corposita’ che non soddisfa l’ attesa.
Indicazioni utili
- sì
- no
Umanesimo concreto e spiritista
Il mondo di “ Canta, spirito, canta “, secondo capitolo della trilogia, non è un posto giusto, è un luogo pieno di ricordi, di spiriti vaganti sulla terra alla ricerca di pace, è una coppia di fratelli nati e sopravvissuti l’uno per l’altro, impegnati a consolarsi a vicenda ( JoJo e Kayla ), è una donna che non è mai stata chiamata mamma ma solo Leonie, senza alcun istinto materno, che continua a distruggere se stessa e quello che la circonda, è un padre galeotto che ha finito di scontare la sua pena ( Michael ), è una nonna in un letto di morte prosciugata dalla malattia ( Mama ), è un nonno sospinto da un flusso ininterrotto di parole ( Pop ).
Sono tante le storie riemerse e da raccontare, figlie di un passato troncato da eventi funesti, il presente un viaggio tra gli inferi in una assenza assoluta di mezzi e certezze, avvolti nel nulla e potendo contare solo su se’ stessi, un istinto di conservazione ed accudimento nato dalle ceneri di una famiglia dissolta, unita dal caso e da sempre coperta dal disprezzo per il colore della propria pelle.
C’è un altro mondo che trascende gli eventi e li intreccia indissolubilmente, un luogo mitizzato e sommerso ma tuttora vivido, creatura della propria coscienza, il solo possibile per riattivare una storia, per capire il passato, chiarire il presente, semplice voce indistinta.
Capire la vita è conoscere la morte, spiriti dissolti in una fine violenta senza alcun motivo evidente vagano sulla terra e narrano la propria storia nella speranza di un ricongiungimento famigliare.
E le creature viventi, imbrattate di incertezze, in parte spiriti, in perenne lotta con se’ stesse, tremendamente umane nel proprio mostrarsi, con un’ indole accudente necessaria all’amore ed alla sopravvivenza, più vicine agli spiriti che ai viventi, parlano, ascoltano, mantengono il silenzio, monologano, corpi che si muovono ad un ritmo incessante cadenzato nel presente, come se non vi fosse un domani.
Lunghe digressioni e descrizioni minuziose di oggetti inanimati, una forte territorialità e concretezza inserita in una violenza attuale, estesa, protratta, per contro lirismo, poesia, spiriti, canti, la rappresentazione di profondità umane unite in un’ unica dissolvenza.
....” Ci sono altre persone, minuscole, ben visibili.Volano camminano, galleggiano, volano. Sono sole, sono insieme ad altre persone. Si aggirano sulla cima delle montagne. Nuotano nel mare e e nei fiumi. Camminano mano nella mano nei parchi, nelle piazze, scompaiono dentro gli edifici. Non stanno mai zitte. Il loro canto non cessa mai, un canto dolce e sommesso, viene dalla terra nera e dagli alberi e dal cielo, dall ‘acqua, è il canto più bello che abbia mai sentito ma non capisco una parola “....
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Meditata consapevolezza e speranza lontana
La stesura di un saggio, ci dice l’ autore, è sempre uno specchio di se’, ma oggi è così difficile, nel veloce e superficiale mondo di twitter, consumistico, narcisista, impulsivo, nutrirsi e trasmettere una qualche profondità e complessità, linguistica e dialettica, che inverta una tendenza siffatta rispolverando un senso ormai sepolto o più atrocemente ignorato.
Questi sedici brevi scritti sono il risultato di eterogenee esperienze decennali, la rappresentazione di uno spaccato di vita, riflessioni personali e collettive su presente e futuro e su un destino climatico da tempo indirizzato ad una via di non ritorno.
Due elementi distinti e complementari in un’ epoca definita “ antropocene “, un Franzen ai più sconosciuto, ambientalista e birdwatcher, appassionato osservatore ed elencatore di specie aviarie anche in via di estinzione, assertore della necessità di salvare specie indispensabili al mantenimento dell’ ecosistema ed un Franzen scrittore, ai più noto, dai primi passi post laurea all’ interno del mondo letterario con deviazione su saggistica e giornalismo per tornare a coltivare il proprio destino.
C’è una dimensione privata, naturalistica, da osservatore instancabile, che guarda alla natura con occhio attento, sapendo che solo considerandola come un insieme di specifici habitat minacciati e non come una astrazione moribonda si potrà impedire il completo snaturamento del mondo.
In questo contesto si alimenta un continuo ed imprescindibile dibattito culturale su inquinamento, progressivo innalzamento della temperatura del globo, aumento delle emissioni di CO2, biodiversità, conservazione ambientale, con esplicito riferimento a quelle sovrastrutture politico-economiche affacciate solo su presente e denaro. Si parla di inciviltà, di cacciatori e bracconieri, di consumismo sfrenato ed inconsapevole, di danni ecologici permanenti, dello sterminio indiscriminato e noncurante, anche in difesa di principi apparentemente ambientalisti, di importantissime specie ittiche ed aviarie.
E c’è il Franzen uomo e scrittore, che pone e si pone domande imprescindibili, a partire dalla ricchezza dei propri viaggi ed esperienze coltivate negli anni, di amicizie solidificate, concernenti una dimensione culturale ed umana, non antropocentrica, che abbraccia consapevolezza e responsabilità del singolo e degli Stati con un occhio rivolto al futuro.
Ed allora, in questi brevi scritti si respira un comune denominatore, una crescita personale e di civiltà che consegna lo scrittore ad una neo dimensione pubblica e privata.
Per questo il birdwatching diviene ogni volta un’ esperienza unica nel luogo dove ci si trova e non solo una lista di nomi da spuntare, un “ giuoco “ affascinante dal fallimento inevitabile e l’ amore per gli uccelli è amore per la loro radicale alterita’ considerandone l’ indifferenza per l’ umana specie che non è’ la misura di tutte le cose ( come vorremmo credere ).
Se potessimo vedere tutti gli uccelli del mondo vedremmo il mondo intero, consegnarli all’ oblio significa dimenticare di chi siamo figli.
Ma c’è anche, nel corso degli anni, un viaggio introspettivo e formativo esplicato dall’ amore per lettura e letteratura, che si nutre di solitudine, attesa, silenzio osservante, una conversazione che prevede una solitudine inesistente nell’ era degli smartphone e di Twitter, che ci consegnano ad un inevitabile senso di noia, oggi così temuta, momenti in cui si coltivano pazienza e rassegnazione.
In Franzen vive un mondo critico ( assai acuto il saggio su Edith Wharton ), consapevole, dubbioso, pensante, culturalmente attivo, recalcitrante a stereotipi e cliché, anche erroneo, ma sempre in viaggio e profondamente vivo, un mondo che sa “volare “ con la mente e che si commuove continuamente ammirando il miracolo del “ volo “ delle innumerevoli specie aviarie.
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Dissolvenza e rinascita
C’è un presente di sofferenza, non esente da colpe, tremendamente complesso nell’immagine funesta di un passato tuttora vivido. Una famiglia spezzata da un evento atroce di cui continua a raccogliere i cocci, divisa da carcere, dolore, insensatezza, ingabbiata in una verità non vera ed in una solitudine obbligata, l’oggi maschera di una assenza definitiva.
Tre protagonisti, anime sole accomunate da una confessione espiatoria, dallo shock di una scoperta inattesa, da un desiderio di vendetta non ancora sopito.
Susan ha vissuto da sempre con Lois, la nonna materna, la madre Linda strappatale precocemente, il padre Daniel inadatto al suo accudimento, una infanzia tra la fuga e l’ esilio ed in cui “ noni “ ha sempre deciso ogni cosa.
Oggi insegna e sta cercando di scrivere una autobiografia, molte le cose su cui fare chiarezza, in primis quell’ oscuro senso di se’. Ha un marito grande, calmo e gentile, un musicologo, da sempre ha amato la letteratura più di se’ stessa, sempre e solo libri, sentendosi il fantasma prosciugato della ragazza che era.
La accompagnano un matrimonio che crede finito, una scia di scritti abbandonati, una vita vissuta come una vagabonda, gravidanze interrotte e relazioni finite, con un “ nemico “ innominabile, estraniamento ed alienazione.
Daniel è un sessantenne che ha finito di scontare la propria pena, non è più il giovane Danny imbevuto di un male invisibile, oggi sa di avere causato solo sofferenza, in primis alle due donne che ha amato.
Inabissatosi nelle ombre del passato, tra un presente di attesa ed un futuro inesorabilmente già scritto, insegue un incontro espiatorio, con se’ una eredità da trasmettere.
Lois e’ una ottantenne che ha perso la propria giovane figlia ( Linda ), da anni possiede una bottega di antiquariato e si circonda di tante belle cose fatte dai morti, esiliata in un luogo dove non avere più paura.
Tre vite ed una solitudine, sentimento cui ci si abitua per scelta e necessità da quando tutto è stato improvvisamente e definitivamente interrotto, spezzato, ma le vecchie storie non finiscono ed in qualche modo si continua a portarle dentro.
Il viaggio verso casa continua, tra sbalzi metatemporali, ricostruzioni possibili, spiegazioni improbabili, un viaggio dentro l’ ignoto e dentro se’ stessi, sollecitando la memoria, rimpiangendo le proprie manchevolezze, impossibilitati a cancellare l’ incancellabile.
Una resa dei conti inevitabile, dei sopravvissuti che non gioiranno per una giustizia personale tardiva ed ai quali non resterà che un vuoto incolmabile, ma c’è un futuro ad attenderli nel solco della brevità di una vita che dovrebbe essere accudimento reciproco.
Un romanzo sorprendentemente profondo e ben scritto, con tratti di prolissità, ma anche di reale e vivida armonia di dialoghi e personaggi, una trama che ricostruisce e svela un fatto di cronaca nera, strascichi di un evento che sconvolgerà, più o meno coscientemente, le vite dei sopravvissuti, vittime e carnefici.
Un tipico viaggio nella provincia americana e nelle viscere di una mente malata e redenta, anni oscuri e latenti, abbandonandosi all’ anestesia dolente di un evento funesto, un viaggio funesto nel cuore di una delle tante famiglie dissolte, unita e legittimata da un semplice legame di sangue, ma famiglia è e significa laddove accudimento ed amore si nutrono e crescono....
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prigionia e libertà
Nisida è un carcere minorile, un lembo di terra in mezzo al mare che a destra finisce nel Vesuvio ed a sinistra dentro l’ acciaieria, è la fine di una vita, l’ inizio di altro, sta semplicemente li’ fuori, attraccata.
In quel luogo .. “ noi ” andiamo e veniamo, “ loro “ vanno e vengono...
Elisabetta Maiorano ha cinquant’ anni, è una supplente che ha percorso l’ Italia, una vedova che continua a vivere il proprio dolore, Almarina una giovane detenuta rumena priva di qualsiasi ricordo ma con la luce del futuro negli occhi.
In un luogo che sottrae libertà si può essere ancora se’ stessi se prevale la forza di un amore, se sei accettato, se il passato ha smesso di tormentarti, se c’è un presente diverso ed un futuro racchiuso nella speranza.
Quando si entra in carcere si respirano paura e solitudine e la fine di un mondo fanciullesco che questi ragazzi non hanno mai avuto.
Elisabetta è entrata a Nisida in punta di piedi, senza un’ idea precisa, inseguita per tre lunghi anni dal fantasma del marito Antonio. In lei paura e pregiudizio, distinguendo un dentro ed un fuori, avvolta da sguardi di indifferenza, diffidenza, fino all’incontro con Almarina, per caso, guardando il mare. Nel suo volto la promessa del futuro, una vita al di fuori di quella, nonostante le porte di un carcere stronchino sogni e desideri ed inducano le persone a non fidarsi.
Elisabetta parla di se’, di come si faccia forza per non crepare ed entri ed esca da quella prigione per ritrovarsi all’ esterno in un mondo altrettanto aberrante.
Li’ ha inizio il cambiamento, impossibile da rilevare se non quando si sta compiendo e ti scorre dentro con un nuovo senso confidenziale, i ricordi altrui divenuti propri, un se’, una lei, un noi.
Ed allora, un giorno il fantasma di Antonio comincerà a defilarsi, ad entrare in una zona più profonda di lei ed Elisabetta si sentirà sola ma non abbandonata, avvolta da una dolcezza significante.
In quel giorno nessun confine, ne’ un carcere, Nisida sarà scomparsa e non resterà che andare incontro al futuro.
Un romanzo breve, intimo, poetico, che vive di forti emozioni interiorizzate, in cui i fatti esprimono i sentimenti ed i sentimenti fuoriescono dalla durezza dei fatti. Tra le pagine una acuta e struggente analisi di se’, degli altri, di tutte quelle forze che costruiscono un amore e la forza resiliente di speranza e desiderio.
Per contro si denuncia un mondo esterno abulico e violento, l’ inevitabile carcere per vite da sempre private di speranza, un senso di impotenza e dolorosa presenza, l’ insostenibile ed insopportabile burocrazia che sfinisce e depone qualsiasi atto di amore, si critica ogni pregiudizio con la consapevolezza di un senso di uguaglianza fallace.
C’è chi, tra le pagine, riconoscerà un intimismo all’ eccesso, una trama non proprio godibile e funzionale, periodi esponenzialmente tronchi, di certo l’ autrice possiede ed esprime un se’ definente manifestatosi in una attenta e centellinata ricerca e cura del senso delle parole che divengono altro, tracce di pura poesia, espressione primaria del respiro narrante.
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Destino agghiacciante
“ Il macellaio “, esordio letterario di Sandor Marai, è una lucida e spietata rappresentazione di una mente malata in un corpo perfettamente sano.
Il protagonista del lungo racconto, Otto, è un individuo da sempre privo di consapevolezza della vita e quindi anche della morte, senza vizi ma con inclinazioni negative, non un tipo manesco, con un temperamento mite ed apatico, un corpo respirante in attesa di pensieri e sensazioni.
Delitti efferati, tre parole simbolo, macellaio, coltello, pancia, una narrazione oggettivata di fatti e sentimenti negati o ancor peggio mai stati, una vita complicata ed inafferrabile nella propria quieta definitezza.
Oltre una traccia pubblica che scandaglia il personale in attesa di risposte inevase, molto di più, la raffigurazione di un mondo mutato e mutante, una grande città, Berlino, multiforme, splendente ed imperiosa quanto ignota ed oscura, masse indistinte di gente operosa, esseri umani ed attrezzature regolate da un ordine stabilito e, sotto i marciapiedi, un’ altra vita ed una società fremente con leggi proprie.
Ecco un piccolo universo in cui si assolve la vicenda del protagonista, un mondo che inevitabilmente entra nella vita di masse indistinte e le cambia per sempre, forze irrazionali ed estranee che scagliano uomini e destini in un vortice di ostilità e indifferenza.
L’ esistenza di Otto, pervasa di agghiacciante lucidità, da subito prevede mistero e condanna, un concepimento dopo avere assistito inermi ad un atroce spettacolo circense, assenza affettiva, una inclinazione morbosa sopita durante l’ infanzia, poca fiducia in se’, quella strana attrazione verso lo spettacolo della macellazione fino al sopraggiunto vento di guerra che tutto cambia trascinando il protagonista nella propria brutalità.
Otto vivrà in totale normalità le atroci azioni del fronte, lucido ed indifferente, macchiandosi di gloria, luoghi e momenti in cui tutto è parificato ed ovunque prevalgono paura e morte.
Il ritorno dalla guerra per lui segnerà incredibilmente un senso di vuoto imminente in un reale mutato, nessun desiderio della compagnia di esseri umani, di fronte a se’ una prospettiva di vecchia esistenza, mesi ed anni indistinti e indigesti, del tutto privi di eventi e la certezza che sarà sempre così, una certa riluttanza e paura verso le donne, l’ assoluta mancanza di un senso di se’ definente.
Ecco il suo nuovo vivere, una flebile anestesia alcolica e l’ assurdo rimpianto per una guerra che non c’ è più, chiedendosi cosa in passato abbia apprezzato del semplice piacere della macellazione. senza comprendere dove e come abbia potuto sbagliare, ritenendo che in se’ non ci sia nulla di sbagliato.
Ed allora una decisione improvvisa lo coglie, il ritorno nella città della propria infanzia, mutata e ringiovanita, ritrovando un quadro famigliare che riporta e scoperchia un tempo lontano ed un volto vuoto e terrificante, il proprio, inspiegabilmente ed inesorabilmente se stesso, questa volta per sempre...
Un Marai agli esordi, atmosfere cupe e reali, quella capacità di rappresentare l’ uomo nella propria essenza ed i cambiamenti in atto di un tempo precursore di alienazione e morte, tra le righe già il respiro della propria grandezza.
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Essenza vitale
L’ Amore è il sommo protagonista del saggio di Massimo Recalcati, sette capitoli ( con riferimento ad una recente trasmissione televisiva ) alla ricerca dell’ essenza di un sentimento che non può essere limitato a semplice concetto ne’ essere spiegato, ma di cui è indispensabile parlare e sul quale interrogarsi.
Ed allora ci si domanda: l’ amore e la promessa che lo accompagna devono bruciare o durare? Quale il confine e la diversità tra amore maschile e femminile? Esiste una promessa d’ amore percorribile per l’ eternità? C’è una divergenza tra un amore onnicomprensivo ed uno oggettivato? E tra amore e desiderio? Come porsi di fronte tradimento e perdono? È verosimile realizzare il vero amore rispettando bellezza ed unicità altrui, lontani dalla violenza o sfuggire al dolore di una separazione, evitando una totale perdita di senso? Come conservare un amore imperituro, “ mantenendo il bacio “, accompagnandolo al desiderio?
Avrete notato quante volte si ripeta il termine amore quale vita ed accompagnamento al vero senso di una vita. In ogni capitolo ciascuno riconoscerà una parte di se’ o lontana da se’, certamente rifletterà su un sentimento tanto dibattuto quanto sottovalutato che abbraccia molti aspetti del quotidiano.
Ogni soffio vitale, oltre il complesso rapporto di coppia, riguarda l’ amore nella sua accezione più vasta, comprenderne il significato è di fondamentale importanza.
Riflettiamo sul miracolo che si allontana da un gesto di volontà illuminando la vita di una luce propria, partendo dall’ inconscio, dandole un senso e vestendola di un abito nuovo, l’ essere attesi.
Riflettiamo sul senso di considerare l’ amore come amare tutto dell’ altro, ovvero il suo nome proprio e non un feticcio, nella contrapposizione maschile-oggetto e femminile-parola.
Consideriamo il corpo dell’ altro come un libro aperto e trattiamolo come tale allontanandoci da quella gelosia che vorrebbe sopprimere l’ impermeabilità e la libertà dell’ amata fino a ridurla ad un oggetto sul quale riversare il proprio potere assoluto.
Ogni amore non è per sempre, potrebbe finire ( il tradimento ) lasciandoci in balia del mondo e sfiduciati di esso, ma esiste la possibilità del perdono come resurrezione e rinascita.
Pensiamo alla unicità e bellezza di un amore, che è sempre amore per l’ altro ( eteros ), una donna, quella libertà di cui ella è emblema e che non può essere posseduta.
Consideriamo il significato di amare tutto dell’ altro senza mai potere essere tutto con l’ altro, attratti dal suo mistero, da quella alterita’ che non potremo mai possedere.
Riflettiamo sul significato della perdita di un amore, di una separazione, in cui cala l’ ombra dell’ assenza nel luogo della presenza, con la necessità del tempo del lutto come allontanamento psichico per potere reinvestire affettivamente ed essere pronti, scevri dall’ odio che evita il cammino del lutto o dal desiderio di costruirsi un bunker anaffettivo che ci preservi dalle sue insidie.
Consideriamo amore e desiderio, da sempre ritenuti antitetici. Ogni legame è un incontro tra due solitudini, a durare non è ciò che si brucia insieme, ma neanche ciò che unifica, che confonde l’ uno nell’ altro ed identifica. L’ amore si nutre di mancanza, del dono della propria ferita, ha sospeso il tempo ed è stato accresciuto dal tempo.
“ Amare significa dare all’ altro quello che non si ha “ ( Lacan ).
Infine consideriamo che lo Stesso non è la morte del nuovo, come oggi erroneamente si pensa, ( l’ usa e getta ) scivolando da un oggetto all’ altro. La durata sta nel presente, nella possibilità di un “ nuovo “ inizio, proprio perché nell’ adesso è ancora presente il primo sguardo.
Ed allora “ ancora “ diviene la parola dell’ amore, rende nuovo l’ amore che sa durare e bruciare insieme, continuando ad unirci dopo esserci già uniti.
Questa l’ essenza di questo saggio aperto, molteplici tracce ed argomenti su cui riflettere, indefinibili frammenti di dolcezza poetica all’ interno di una certezza: vivere per amare, amare per vivere.
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Senso insensato
C’è un presente oscuro, multiforme, veloce, cangiante, insopportabile, un tempo in cui si può cercare di vivere, o sopravvivere, ma che riflette l’ impossibilità di creare rapporti umani, un tempo divenuto complesso, duro, spietato con i deboli, che non mantiene quasi mai le promesse, con una socialità che distrugge l’ amore.
Ed allora, per un’ anima semplice, calata per anni in una situazione siffatta, un uomo occidentale nella sua età di mezzo, un lavoro soddisfacente ( economicamente ) presso il ministero dell’ Agricoltura, una noiosa fidanzata giapponese ( Yuzu ) marcatamente snob e sessualmente disinibita, due genitori trovati abbracciati in un letto di morte, un ex amore tradito ed ancora rimpianto ( Camille ), un solo vecchio amico che riflette un passato logoro e lontano ( Aymeric ), è troppo tardi per sperare, rimpiangere, disperarsi e cambiare.
Un passato di gioie ( poche ) e rimpianti ( molti ), il presente un annullamento deprimente, un futuro ormai inaccessibile, ma ciascuno ha costruito da se’ il meccanismo della propria infelicita’.
A Florent-Claude Labroust, solo e depresso, senza parenti ne’ amici, con un bisogno di rapporti sociali del tutto azzerato, privo di reali motivazioni per vivere e per morire, deluso dalla sua vita precedente, non resta che ingoiare pasticche ( Captorix, un potente antidepressivo), bere, fumare ed assumere un comportamento incomprensibile, scioccante, erratico.
In un mondo insopportabile qualsiasi volontà è azzerata, ma ogni disperazione può essere mantenuta a livelli accettabili, in fondo si può vivere disperando ( come la maggior parte della gente).
Inizia un percorso a ritroso nei luoghi di un passato condiviso, con una strana volontà di tracciare un bilancio di una vita e la certezza che la propria esistenza si sta indirizzando verso la morte, ha inizio la vita di uno scomparso volontario di cui il romanzo è la cruda e spietata rappresentazione.
Tutto inizia e finisce, nella indifferenza altrui, nell’ impossibilità di tornare al passato, nella propria insipienza, nella tormentata ricerca di un senso, in quegli scorci di puro amore che si sono negati, nella solitudine più sola.
Il nuovo romanzo di Houellebecq alterna come suo solito pagine di acuto sarcasmo spietatamente reali e situazioni surreali atrocemente caustiche, eccessive, scostanti, nauseabonde, tratti di nostalgico romanticismo, a dissertazioni intellettuali socio-politico-filosofiche, ponendosi su un piedistallo di onniscienza sfociante in snobismo e sciovinismo piuttosto stucchevoli .
Ma in questo romanzo prevale il respiro del protagonista che sfocia in una umanità dissacrante e spietatamente vera, del tutto solo di fronte ad un mondo incomprensibile, piuttosto lucido ( nonostante l’ annebbiamento farmacologico ) nel riconoscere ed accusare la propria debolezza e noncuranza e nel denunciare la disperazione dell’ anestesia del presente, unico modo per tollerare l’intollerabile.
In realtà quella pasticca bianca, effimera panacea, nulla risolve, se non ovattare una assenza, la propria, ormai viva presenza, dando voce ad una disperazione e rassegnazione imperanti e per nulla consolatorie.
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Il volto di un paese
Il Giappone ( Yamato o Tonbo) rappresentato partendo dalla complessità ( per noi occidentali ) della propria lingua a ricostruirne la storia, gesti, simboli, colori, suoni, fiori, tradizioni culinarie, cultura, un mondo di difficile comprensione e collocazione, una lenta ricostruzione di avvenimenti con esiti difformi.
Cinque storie con protagonisti eterogenei ma confluenti, epoche differenti ( la rappresentazione di un secolo), personaggi calati nella propria essenza, ritmi lenti ed inorganici, riflessioni profonde, radici lontane, l’ incompiutezza e la crudeltà della Storia, il dolore e l’ incertezza della deportazione ( in Siberia ), stragi di innocenti, il debito della sconfitta ( dopo la guerra ), l’ attesa ed il senso del dovere, il ruolo della donna, cultura ( haiku ), tradizioni consolidate ( ikebana, la cerimonia del The ), l’ uomo e la propria fedeltà alla azienda ( sosha-man), obblighi, matrimoni combinati ( Miai ), partenze, ritorni, vite spezzate improvvisamente, destini segnati da sempre.
È difficile addentrarsi e comprendere fino in fondo un mondo siffatto, che insegue cadenze ed attitudini proprie, che percepisce e significa altro e possiede una personale compiutezza, calato in una atmosfera che incastra perfettamente le proprie forme.
La cultura giapponese è rappresentata e distillata dalla sapiente penna della sua autrice in momenti diversi, il suono delle parole a simboleggiare precisi significati incastratisi perfettamente rigenerando una storia e nuove vite attraverso la flebile voce ed i gesti ripetuti dei protagonisti, sovente sconosciuti a loro stessi, guidandoci nel misterioso mondo dei propri desideri, nel respiro della propria essenza, in un intenso senso d’ insieme.
La fragilità della Storia e dei personaggi risiedono nella propria semplicità ed incompletezza, in una fuga protratta, in un tentativo di ribellione, nell’ allontanamento, nella scoperta di legami insperati e profondi, nel seguire fino in fondo un destino già scritto.
Maschere senza volto assumono gradualmente identità definenti, storie incompiute una inaspettata completezza, malgrado esiti difformi, e ciascuno racconta la stessa trama da un angolo personale, una vicendevole percezione della stessa.
Se una certa tradizione è ancora presente, un passato recente riporta ad esiti di guerre e stragi di innocenti, la modernità ha rivelato un popolo orgoglioso ed operoso, la contemporaneità un mondo di sentimenti non sempre allineati alla propria storia.
L’ esito è comunque una intimità condivisa, e nella semplicità di dialoghi sintetici e tronchi, nelle descrizioni della storia di un paese con ferite ancora aperte, in parole centellinate e significanti, in un linguaggio diretto ma anche poetico, in momenti che restituiscono dignità e vita al dolore della morte, ci accostiamo ad una autrice, Aki Shimazaki, in grado di emozionare e ad un paese, il Giappone, di estremo interesse e misteriosamente ammaliante.
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Indecifrabile dissolvenza
Faye è tornata in una Londra dove non sembra essere cambiato molto durante la sua assenza con una vita da ricostruire dopo il fallimento matrimoniale, una nuova casa inagibile e completamente da ristrutturare, i propri figli trasferiti momentaneamente dal padre.
“ Transiti “ è la continuazione stanziale di “ Resoconto “ e ne asseconda il respiro d’ insieme, una prolungata dissertazione su frammenti di vita e sentimenti da parte di una caleidoscopica giostra di eterogenei personaggi.
Ciascuno da’ voce ad un pezzo di se’, Rachel ascolta e talvolta commenta, quasi da confidente, abbozzando la propria storia di cui ancora conosciamo ben poco, di certo continuando ad entrare ed uscire con indifferenza da tutte le altre.
Ancora non vi è uno scambio relazionale se non nell’ idea, ci si scontra con una vita cambiata rispetto al viaggio in una Atene sconosciuta e rovente e la necessità di guardare avanti rifuggendo da un passato dolente.
Gli altri sembrano esprimere e riflettere parte della sua storia, blandi momenti teorici di condivisione, esperienze a cui fare riferimento, semplici brandelli di vita.
Vecchi amici, corteggiatori, ex amanti, parenti, astrologi, parrucchieri, muratori, scrittori, vicini insolenti, ciascuno riporta un pezzo di se’, ricorda, vive, riflette, domanda.
Oggi questo è il suo essere, la fuga appartiene al passato, ma Faye è pronta ad affrontare il presente, o la sua scrittura da’ voce ad un mondo del tutto diverso, un misto tra sogno e trascendenza al di fuori di un reale poco accogliente e completamente diverso?
Il romanzo al momento non sembra offrire risposte, in attesa di un suo completamento ( nel terzo capitolo della saga ).
Permane un senso di frammentarietà e dissolvenza, di perdita e dolore protratto, la protagonista spaventata e smarrita di fronte ai semplici accadimenti, ignara del proprio destino.
Nel frattempo continua a non parlare di se’, se non indirettamente, e lo scorrere della sua vita devia su altro mentre i figli le raccontano al telefono sprazzi della propria quotidianità.
Probabilmente il senso della narrazione non include una storia, se non nel significato d’ insieme. Trattasi di un composito puzzle cognitivo-sentimentale, sprazzi di luce dissolta, una attesa protratta e quando il reale sfocia in un tentativo di racconto di semplici fatti perde la propria valenza ed essi svaniscono in altro, le dissertazioni e le chiose di Faye i soli momenti di essenza.
È per questo che una narrazione scarna e diretta siffatta poco si presta ad una lunga trama ( ed allora perche’ una saga in tre parti? ) ed e’ per questo che ritengo questa seconda parte non all’ altezza di “ Resoconto “, che nella propria micro dissociazione emozionale e relazionale meglio riflette l’ indecifrabile enigma della natura umana e la particolare scrittura di Rachel Cusk.
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Identità, quale destino?
La “ La lettera di Gertrud “ è un romanzo atipico per struttura e contenuto e l’ ebraismo ne è l’ elemento portante, una prolungata riflessione sulla propria essenza che accompagna il protagonista Martin Brenner sconfinando in un saggio socio-storico-religioso con tanto di bibliografia allegata ( i testi sull’ ebraismo consultati da Martin durante le sue ricerche ).
Tra le pagine pochi spunti romanzati e relazionali ( e questo è una pecca ) ed un finale che cerca di riassumere e completare la biografia del tormentato protagonista grazie alla penna di uno scrittore in affitto.
Il romanzo ha contenuti interessanti, meno riuscita, rispetto alla fama dell’ autore, l’ espressione degli stessi, prolungate pause riflessive e teoretiche a scapito di pulsione narrativa e creatività letteraria.
Il segreto di una madre ( Gertrud, in vita conosciuta come Maria ), la propria ebraicita’, viene svelato al figlio solo post mortem, una donna sopravvissuta all’ Olocausto ma non al suo ricordo, che ha cercato di preservare Martin dall’ incertezza del futuro, dall’ incubo del passato, dalla paura, dal paventato pericolo di altre persecuzioni, desiderando realizzasse inclinazioni e sogni .
Un supremo gesto d’ amore o un terribile errore ed egoistico intendimento?
Madre e figlio da sempre hanno vissuto un legame affettivo, senza un vero padre, ma non sono mai stati realmente vicini, separati da una sottile interferenza e da stanze di una infanzia in cui sentirsi estranei; oggi Martin vive il rimpianto di avere capito troppo tardi che la madre si meritava il suo amore senza riserve.
Un passato di studi umanistici per virare su ragione e scienza, oggi da genetista ateo e razionalista colloca la propria identità nel futuro, ma ciascuna identità è rivolta al passato e non può essere vissuta su basi razionali.
La rivelazione delle proprie origini ebraiche lo ha scosso, è incredulo, turbato ed inizia sei mesi di meticolosa ricerca, poco personale e famigliare, sul senso dell’ ebraismo, sulla sua cultura, storia, tradizione, senza comprendere che cosa unisce le persone che si definiscono ebree.
Non scava nel proprio passato, ne’ è alla ricerca di un padre che non ha mai conosciuto, vive il presente, in primis il giudizio e le relazioni all’ interno di una famiglia ristretta che ama profondamente ( la moglie Cristina e la figlia Sara ) e che continua a tenere all’ oscuro.
Tutto improvvisamente è cambiato, il passato incombe, tra dubbi, domande ed una certezza: Martin è e rimarrà un ateo convinto, questa è la sua storia e la sua identità, non crede in Dio ne’ si sente vicino ed affascinato da una cultura ebraica che non ha mai “ vissuto “ ed i cui i dogmi non condivide ( la discendenza materna, la legge espressa nella Torah e nel Talmud, la circoncisione, il popolo eletto, la proibizione dei matrimoni misti ) .
Per contro osteggia e condanna ogni manifestazione antisemita, apprezzando alcuni contenuti dell’ ebraismo ( la fede nella cultura e nella conoscenza ), sospinto dal proprio umanesimo.
L’ essere nato da genitori ebrei non fa di lui un ebreo ( anche se potrebbe diventarlo per discendenza materna ), a contare è l’ amore “, sopra il quale non vi è alcuna legge, ne’ ebraica ne’ altra, mentre la religione, la nazionalità ed il cosiddetto carattere nazionale non hanno niente a che fare con il sangue, e, da scienziato, è certo che non vi è alcun “ gene “ dell’ ebraismo.
A questa stregua qualsiasi idea di purezza razziale dovrebbe sparire ed ogni persona essere in primis un essere umano, ogni lealtà conquistata, persino i genitori devono conquistarsi la lealtà dei figli e bisognerebbe essere ebrei anche senza esserlo, essere apolidi.
Agli occhi altrui dapprima sembrerà un antisemita, poi, reo confesso, un ebreo antisemita, ed infine “ un ebreo che non vuole essere ebreo “, perché è così difficile preservare l’ identità in un mondo che osteggia il libero pensiero, che non ascolta e vive di apparenza, stereotipi, tradizioni millenarie ( con accezioni positive e negative ), una contemporaneità globalizzata da cui è impossibile evadere o cambiare idea, indirizzo, fede per scelta ( esercitando il libero arbitrio ).
Coloro che ti guardano non sanno riconoscere la tua “ storia “, rigettandola per crearne un’ altra, cercando di farti essere e restare in quello che vogliono tu sia, pena sanzioni od espulsioni.
Ed allora è così complicato continuare a lottare scongiurando la rovina, la perdita di tutto ( in primis dei legami famigliari ed affettivi ), in una solitudine coatta determinata da altro e da altri.
Alla fine ciascun uomo avrebbe il diritto, indipendentemente da fede, origine, nazionalità e personalità, di chiedersi se vuole continuare ad essere quello che è diventato, o se vuole divenire in tutto o in parte qualcun altro immaginando se stesso ed il mondo diversi da quello che sono, in una visione libertaria pervasa dal dubbio.
Questo eserciterebbe un autentico senso di identità, libertà, amore, questo è stato Martin Brenner:
... “un uomo che ha avuto il coraggio di non arrendersi “ ....
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Nel turbine della Storia
Il flusso inarrestabile della Storia travolge la vita delle quattro giovani protagoniste in una Germania impoverita, incerottata e risorta che sta ancora scontando gli esiti della Prima Guerra Mondiale , aperta alla modernità ma che vive di restrizioni prevalentemente al femminile.
Da questo momento un disgregamento interno ad indirizzo nazional-popolare sfociera’ in odio e persecuzione razziale, fino all’ avvento del nazismo ed allo scoppio di un’ altra guerra, la desolazione di una nuova cocente sconfitta ed un progressivo desiderio di rinascita.
Amburgo è il luogo prescelto, una città anglofila non classicamente teutonica, le protagoniste inserite in un flusso storico che ne condizionerà vita e sentimenti inseriti in un privato assai complesso.
Quattro giovani donne, Henny, Ketty, Lina ed Ida, tutte nate nel 1900, i propri ideali e sogni giovanili contrari ad un reale limitato e limitante che riescono tuttavia ad indirizzare le proprie vite.
Se Henni e Ketty diverranno ostetriche, Lina insegnante e Ida, ragazza viziata di buona famiglia, ostaggio di un matrimonio riparatore, tutte dovranno affrontare l’ ostilità e la complessità di un mondo maschile e maschilista che non insegue aspirazioni e desideri, ma l’ accettazione di scelte obbligate.
In tutto il romanzo si respira, nonostante i tempi, una forte caratterizzazione al femminile, una sensibilità recalcitrante ingiustizie sociali e personali con un presente inquietante ed un futuro inguardabile.
Ecco la rappresentazione di un’ epoca, tram elettrici che sferragliano tra le vie, macchine sempre più numerose, linee ferroviarie moltiplicate, ecco la nascita e la crescita di nazionalismo, populismo, del nazismo più bieco, l’ ascesa di Hitler, un uomo da subito ritenuto pericoloso e da fermare ma adorato da ampi settori della popolazione, antisemitismo, povertà diffusa, il progressivo culto della razza ariana, un’ atmosfera liberale che sta sfumando.
Nel mezzo minoranze che stentano a darsi voce e storie parallele di aspettative rimosse, fughe obbligate, persecuzioni politiche, scelte dolorose.
Ormai i tempi sono cambiati con il tramonto della moderazione e l’ avvento di nuovi giorni di paura, un’ ondata di inaudita violenza, un orrore senza fine per le persone ed i loro sogni con una affievolita gioia di vivere.
Di nuovo il ritorno alle atrocità della guerra, persone ridotte a giocattoli, senza libertà di azione, uomini impegnati in un viaggio spesso senza ritorno, mutilati nel corpo e nello spirito, delatori, persecutori, perquisizioni, deportazioni, lavori abbandonati per costrizione o perché non si vuole stare al servizio di gente dagli ideali oscuri e depravati.
Intanto si moltiplicano i morti e sinistre carovane di disperati si trascinano per le strade suburbane dirette a paesini di campagna già pieni di uomini in pena.
Un conflitto che non accenna a fermarsi e la profonda nostalgia per un mondo in cui regnava la pace, oggi non c’e più niente da proteggere, i giovani sono invecchiati profondamente, senza una casa, continuano a fare la conta dei morti, sognano ritorni improbabili e conducono una vita da sfollati, tra amori definitivamente tramontati e l’ inizio di nuovi giorni....
Primo capitolo di una trilogia, “ Figlie di una nuova era “ ci consegna una esposizione chiara, semplice, lineare, indirizzata alla realtà di un mondo in divenire ( il ‘900 ) ed alla rappresentazione di classi sociali eterogenee, inserendo le vicende delle protagoniste nel flusso della Storia, dando voce ad idee e speranze disilluse di donne ed uomini travolti da una cecità onnipresente.
La storia, questa volta, è vissuta e descritta dai vinti ma nulla cambia, l’ incubo bellico e l’ orrore di persecuzione e morte non risparmieranno alcuno, ne’ vincitori e ne’ vinti, e gli esiti nefasti all’ inseguimento di fanatismo ed ideologie accecanti restituiranno infine solo disperazione e morte in un univoco ed inumano deserto di cuore ed animo.
Per contro, una forza condivisa e vitale continua ad abbracciare e ad alimentare sogni e speranze delle protagoniste, indubbiamente sentimenti umani totalizzanti ed universalmente condivisibili.
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Attesa protratta e desiderio
Una professione al tramonto, ottocento ore al pensionamento, ottocento ore di troppo, attesa ripetitiva e decadente, innumerevoli storie ed i soliti volti vuoti senza una reale idea di come funzionino le persone.
E se la vita, oltre le pareti di casa, fosse priva di scopo come quella lì dentro, angoscia e solitudine le sole certezze, ed il protagonista fosse come tutti quei pazienti di cui ha riso?
Lui è uno psicanalista settantaduenne, annoiato, recalcitrante, indifferente, un uomo invecchiato che vuole restare solo ed autocommiserarsi, invecchiare significa invisibilità, pelle in eccesso, articolazioni dolenti, assistere inermi alla separazione di corpo e mente divenendo completamente estranei a se stessi.
Lei, Agathe, la donna tedesca, una bruna di un pallore mortale e di una magrezza impressionante, occhi grandi su un viso affilato, soffre di depressione, di crisi maniaco-depressive ed autolesionismo, con il solo desiderio di essere curata.
Un inizio stentato, controvoglia, cercando di definire i contorni di una storia, una relazione sorprendente ed inaspettata che sradicherà ogni certezza, transfert e controtransfert a ribaltare l’ evidenza ridefinendo il rapporto medico-paziente.
Bastano pochi mesi per scoperchiare e costruire un confronto tra una donna sepolta viva nella sua esistenza, una condannata a morte che crede di non avere combinato nulla, ossimorica presenza, unica ed insignificante, ed un uomo che ha sempre vissuto delle stesse cose, il solito ristorante, i soliti pazienti, la solita segretaria, il solito logoro pigiama azzurro, una vita che continua a sfuggirgli non avendo mai compreso come ci si entra, un’ esistenza di solitudine ed un’ ansia che aumenta di giorno in giorno.
Non vi è’ possibilità di cura per un uomo che non ha mai amato, che si guarda in uno specchio vuoto alla ricerca del proprio volto, sopraffatto da un desiderio di fuga e da un senso di nausea, nessun incontro al di fuori dello studio, nella vita reale, a parte un amico invisibile, quel vicino senza volto che continua a suonare il pianoforte.
Per lei sarebbe più facile morire ma le è più difficile vivere, senza un luogo dove stare, con la paura di suonare, di smettere di farlo, di avvicinarsi a qualcuno, di rimanere sola, una donna inseguita da un trauma infantile incancellabile che l’ ha resa invisibile a se stessa e che ancora una volta ha perduto la voglia di vivere.
Si potrebbe cercare di capire di che cosa si ha paura a cominciare dal proprio desiderio più grande e questo darebbe inizio alla cura.
Agathe è lo specchio di se’, denuda il proprio non essere, quell’ oscura presenza che lo ha reso inabile all’ ascolto e lo aiuterà a riconsiderare il suo dolore, riaccendendolo e riaccendendosi.
Ed allora i giorni riprendono colore, una cura ha avuto inizio, ricerca, speranza, conoscenza, desiderio, inseguimento e la vita ha cominciato ad assumere un altro volto.
L’ invisibilità verso se stessi diviene visibilità agli occhi degli altri, rimosso il senso di solitudine, il dolore e la patologia presagiscono nuovi incontri, ansia e paura scacciate da poche parole:
…” allora, dottore, viene con me o no? “….
Scrittrice, poetessa, psicologa danese, Anne Catherine Bomann ci consegna un breve romanzo, intenso, delicato, lineare, che fa della chiarezza espositiva il proprio marchio e lascia la propria essenza all’ intensità ed all’ enigma della relazione di cura.
Tutto accade al di fuori di un tempo e di uno spazio definiti, un conto alla rovescia delle sedute rimanenti, vite aperte ad una progressiva intimità che tesse una trama imbevuta di attesa, ascolto, riflessione, deduzione, interazione, immaginazione, invischiati e sfuggenti da un contesto puramente terapeutico, corroborando un reciproco scambio che dia finalmente senso ai propri giorni.
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Fedeltà inconsistente....
Il tanto decantato ultimo romanzo di Marco Missiroli, ambientato in una Milano multietnica che ha vissuto di cambiamenti epocali, non ultima la riqualifica per l’EXPO 2015, una metropoli nella quale sopravvive il respiro del ricordo di quartieri signorili, borghesi e popolari oggi soppiantati da convivenze obbligate e da una certa indefinitezza di luoghi.
Un “ Malinteso “ protrattosi per l’ intero racconto ed un interrogativo che restituisce esiti più o meno fallaci, il sospetto vissuto dalla protagonista femminile ( Margherita ) di un tradimento extra matrimoniale ( da parte del marito Carlo ) ed interrogativi sul senso fisico, psicologico ed emozionale del termine fedeltà.
Invero spunti di riflessione non mancano, un tema principe ( la trama del matrimonio di Carlo e Margherita ) a cui si affiancano personaggi e microstorie in un respiro condiviso, un senso di precarietà onnipresente, economica, umana, affettiva, che attraversa un decennio, risposte complicate, mancanza di senso e precarietà, il timore di non essere amati.
Il tempo non sarà galantuomo, anni dopo un mutuo da pagare ed una famiglia allargata, nel mezzo evasioni, rimpianti per un passato sepolto, ovattate intimita’ famigliari, un microcosmo giovanile dolente ed un reale ansiogeno che pretende e riflette responsabilità, perdono, crescita, condivisione, dolore.
Una trama incastrata in altri pezzi di storie e sentimenti ( il fisioterapista Andrea, l’ alunna Sofia, la madre Anna ), un flusso tra coscienza e realtà, una metà di se’ che osteggia l’ altra metà, un focolaio domestico che sovente impedisce di vivere, il senso di colpa quale limite e confine, retaggio di una educazione cattolico-borghese.
Permane un’ idea di libertà pulsante che sfugge dalla quiete domestica, la ricerca dell’ altra felicità, smottamenti e cambi di rotta, la stanchezza del matrimonio, una gioia condivisa, una zona franca al di fuori della coppia, un semplice sbaglio, un senso di perdita non misurabile, il tradimento banalmente ridotto alla infelicita’, un perenne senso di vuoto protratto, il fallimento personale, la propria difficile storia, una famiglia impegnativa ( i Pontecorvo ) e le proprie aspettative.
Assistiamo ad un moto perpetuo che vive e fissa singoli attimi per ricostruire la circolarità di una storia ( quella di Carlo e Margherita ), un flusso poco vitale inserito in una quotidianità monca ed ossessiva che vorrebbe pulsare, una subordinazione narcisista ed autodefinente, poche certezze, tanti dubbi, esito di una vaghezza priva di reale forza sentimentale.
Ne emerge una noiosa rappresentazione di fatti e luoghi, i personaggi recitano una parte, sempre la stessa, stereotipata, maniacale, inconcludente, dissertando su tutto, immaginando il contrario di tutto, sopraffatti dai sensi di colpa, da possibilità mai arrivate, incapacità, precarietà, scambiandosi ruoli e sembianze, fagocitati da una certezza inconsistente.
Ed allora di che cosa si parla e che cosa si intende per fedeltà? Una utopia, un pensiero indecente, uno stato fisico e mentale, un’ idea errata, necessità, prova d’ amore, abitudine, fedeltà a se stessi, all’ altro, semplice menzogna?
In realtà continuiamo a sguazzare in un caos onnipresente con un finale di aggiustamenti, rigettando una profonda fragilità emozionale ed una certa immaturità sentimentale perché al presunto “ Malinteso“ si sono aggiunti molteplici tradimenti che l’ altro, ignaro di tutto e con la stessa idea nella testa protratta per dieci anni, ha già rispedito al mittente ( tradendo a sua volta ). Nel frattempo, quella idea e quel “ malinteso “ sono stati riposti, svaniti in nuovo senso acquisito.
Una rilettura più attenta, alla ricerca di un quid che legittimi la bontà del romanzo, ci consegna un cumulo tracimante di fatti e parole, aggettivi roboanti, frasi tronche e poco includenti, un inseguimento continuo e senza meta che assume sembianze contorte, inevase, citazioni colte da manuale letterario, squallide rappresentazioni sessuali che esulano da ogni erotico intendimento, personaggi indistinti, elenchi di luoghi ed indirizzi da guida turistica, rare pulsioni e flussi emozionali, respiro vitale ed autentico scambio relazionale, in un oceano di copiosa apparenza ed indecifrabile essenza.
Il battage pubblicitario ci restituisce , ahimè, un romanzo piuttosto fragile, pretenzioso, inconsistente, senza scomodare indegni paragoni con grandi autori del passato.
Che mi sbagli ? Ogni opinione personale, del resto, rispondendo alla propria esperienza e “ fedeltà “ letteraria, potrebbe rivelarsi fallace…
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Percorsi paralleli ed inversi...
Il progressivo decadimento delle proprie facoltà mentali quale perdita d’ identità ed imbocco di un tunnel senza uscita, annientamento definitivo della propria essenza, labirinto di una mente confusa, ineludibile sparizione dei propri tratti definenti.
Questo è il lungo viaggio verso l’ ignoto, circondati dallo sguardo giudicante di chi ci è vicino e che un giorno non riconosceremo, occhi increduli, arrabbiati, imbarazzati, preoccupati, apprensivi per quello che è e che presumibilmente non sarà’, l’ansia ripetuta del presente, un futuro mutevole ed imprevedibile, amnesico, doloroso, pericoloso.
Questa è la nuova identità di Zvi ( cervo ) Luria, ex ingegnere civile in pensione, uomo da sempre razionale, metodico, una vita costruita su memoria, numeri, successo lavorativo e riconoscimento sociale, oggi condannato ad un ruolo da comprimario, fagocitato da quella odiata parola, “ demenza “, che nessuno vorrebbe pronunciare ma che gradatamente assume i tratti di un foglio bianco e la paura di un vuoto onnipresente.
Dimenticanze, scambi di persona, volti senza nome, gaffe, umiliazioni, dolore, incredulità, e quella macchia cerebrale che poco dice ma che continua ad estendersi, spada di Damocle tra presente e futuro.
C’è un altro tunnel, reale e simbolico, ancora da costruire, una inversione di rotta per ridare un nome ed una identità ad uomini che l’ hanno persa, o mai posseduta, che desiderano un luogo dove stare, uscire dall’ ombra, essere riconosciuti, vivere e formare una famiglia, semplicemente amare ed essere se’ stessi, acquisire i diritti di un popolo.
Ed allora nasce e cresce un percorso parallelo, inversamente definente, semplici storie di uomini, un conflitto ( israeliano-palestinese ) senza soluzione apparente, una malattia senza possibilità’ di ritorno, identita’ significanti, un senso comune condiviso, ciascuno immerso nel proprio dolore.
Che cosa definisce lo stato di malattia se non immagini lette e rilette, interpretabili, in questo caso ancora piuttosto vaghe?
Ed allora Luria ha l’ opportunità, negatasi durante la propria integerrima carriera lavorativa in quella distinzione tra pubblico e privato da lui orgogliosamente e ostinatamente protratta, di esplorare l’ ignoto, di entrare in un presente ignorato, aiutando sé e gli altri, condividendo esperienze di vita, sentendosi utile per sentirsi vivo, consegnando agli occhi altrui la propria legittimazione.
Come sempre sarà la grandezza dell’ amore a restituire speranza e dignità, un amore che possiede forza ed autenticità ( quello tra Luria e la moglie Dina ) e che consegnerà serenamente al proprio destino.
Un romanzo forte, intenso, ritmi appositamente rallentati e lenti ad assecondarne i contenuti, un tempo al presente che scandisce il significato e la sensazione di una progressiva perdita di senso.
Dialoghi intensi, situazioni di imbarazzo stemperate da un sottile sarcasmo, vuoto e caos alternati a presenze e memoria in un bilanciamento caratterizzato da un percorso interiore profondo quanto definente.
Reale cangiante e spirito indomito
Nel cuore della famiglia Aubrey la vita sta cambiando ed è già cambiata; Rose e Mary coltivano il proprio talento di pianiste, Cordelia ha abbandonato la speranza di essere una violinista per inseguire un matrimonio di convenienza, Richard Quinn è un giovane acuto ed amabile, Rosamund sta studiando da infermiera, papà se ne è andato, forse è’ morto, mamma vive per le figlie rimpiangendo e sostituendosi al marito scomparso.
Rose continua il lungo racconto consapevole che i propri genitori non sono mai stati in grado di fare tutto ciò che le persone normali trovano semplice, ma anche capaci di esprimere gesti impensabili.
Figure diverse, un padre dissolto che non ha saputo amare la vita più che la propria famiglia, una madre che ha fatto della esclusione di ogni ovvietà il proprio talento.
Una infanzia disagiata ( nella percezione e nei fatti ) ha consegnato alle sorelle Aubrey la speranza di qualcosa di diverso dal semplice essere donne, cercando di cogliere le opportunità del mondo.
Le bambine di ieri sono oggi giovani donne, inglobate in rapporti stemperati da un gentile distacco e da una consapevole accettazione di una fragile diversita’; tutte loro, ai propri occhi ed a quelli altrui, sono cambiate, niente di cui meravigliarsi, il mondo stesso sta cambiando.
Cordelia non è mai stata amata, sempre gelosa ed ipercritica verso tutti, al contrario di Richard Quinn, un giovane maturo dalle idee e dall’ eloquio brillante, così diverso dalle sorelle ed iperprotettivo nei loro confronti, che non serba rancore e vive assecondando un piacere fisico e mentale.
Nel frattempo Rose dubita del proprio talento artistico e di quello di Mary e viene da lei rassicurata in quel lungo e complicato percorso che è la strada verso il successo.
Spesso il personale e problematico rapporto con il mondo sta nella propria lontananza da esso, un luogo in cui gli uomini sono così orribili e non resta che il rifugio della propria infanzia, l’ amata musica.
Una casa colorata di felicità se non fosse sopraggiunta la guerra, annullamento della vita estraneo a qualsiasi volontà, il presente un capezzale a cui sedersi e su cui soffermarsi a riflettere tra partenze dolorose ed un universo femminile necessariamente condiviso.
Il futuro, ad eccezione della musica, pare un deserto, immerso in una sorprendente feroce disperazione, il passato irrecuperabile e tenebroso, inesplorato ed inesplorabile, ma più tenero di quanto si credesse.
Tutto in fondo è destinato a cambiare, cessare, dissolversi, eccetto la certezza di un amore e di quello che non si è riusciti a fare, riflessione protratta nel cuore di una lunga notte…
Secondo capitolo della saga degli Aubrey, vissuto dagli occhi e dalla prospettiva di Rose, distillato e concentrato cangiante di un piccolo-grande mondo femminile, specchio di sensazioni mutate e certezze consolidate.
La fragilità sentimentale, l’ incertezza infantile ed il puro egocentrismo hanno lasciato il passo al progressivo e tortuoso cammino nel reale, a gusti precisi e scelte definitive, a dolorose assenze e distacchi obbligati, alla crudeltà della guerra, ad una cognizione di se’ che è ormai presenza costante e non sempre condivisa, ad un progressivo dissolvimento famigliare, una vita che si allontana dalla calda presenza materna e dalla sofferta assenza paterna assumendone doni e responsabilità, l’ arte come compagna di vita e rifugio anche di concretezza.
Uno stile fluido, godibile, classicamente moderno accompagna una narrazione che sa scavare e mostrare profondità relazionale e forza del desiderio, ma anche fragilità ed interrogazione, coniugando realtà ed apparenza, espressioni di una forza amorosa ed artistica che continua a costituirne il marchio.
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Realtà frammentaria e mondi sovrapposti
In “ L’ assassinio del Commendatore. Metafore che si trasformano “ continua il viaggio del protagonista tra realtà e sogni, idee e desideri, un flusso catalizzante il complesso mondo interiore ed artistico che gli appartiene.
Quattro quadri da lui dipinti inviano segnali in attesa di essere svelati, le vicende in essi rappresentate si intrecciano, attimi di memoria condivisi, insieme a quel “ Ritratto del commendatore “ da cui tutto è nato, un oggetto misterioso e ricco di storia riesumato frettolosamente da un sottotetto.
Quadri narranti storie belliche di un passato lontano, un padre dallo spirito indomito ed ingombrante, uno zio suicida al termine del conflitto sino-giapponese, e storie del presente, una ragazzina perspicace il cui ritratto rivela un flusso definente, un eccentrico vicino di casa che nasconde un segreto da scoprire, una buca in mezzo al bosco, un uomo misterioso con una Subaru Forester Bianca.
Percorsi unici, confusi, irreali, onirici, i soliti percorsi di Murakami, invenzioni narrative tra simbolismo, arte, musica, cucina, ed idee divenute personaggi, semplici metafore del reale.
Continua un percorso mentale ed auto definente, in completa solitudine, per ritrovare sentimenti deposti e figure care tuttora esistenti, la pittura motore e cura, flusso condiviso, perché l’ arte da’ forma e definisce i ricordi fissandoli, è memoria del tempo.
Ed allora una giusta raffigurazione diviene rappresentazione soggettiva oggettivata, scambio e relazione, accesso parallelo ad un mondo di percezioni.
Comunanza, perdita, memoria, solitudine, il protagonista si assenta per pochi giorni alla ricerca di Marie, l’ enigmatica e fascinosa tredicenne da lui ritratta e scomparsa senza lasciare traccia,
calandosi in una botola che da’ accesso ad un sentiero impervio, labirinto fisico e mentale.
Idee che uniscono due storie, una botola accesso ad un mondo sommerso, sgusciando nello stretto sipario tra realtà e nulla, la riva di un fiume ed un enorme bosco da attraversare, bevendo l’ acqua del mondo metaforico, un luogo senza tempo, ma saranno sempre le proprie mosse a generare risposte pertinenti frugando nei ricordi.
Entrambi, alla fine, sveleranno un percorso personale incredibile ed immaginario, così reale nella propria idea, un viaggio nel quale tutto è stato possibile, figure minute e parlanti fuoriuscite dai dipinti, alcune senza volto, ad indicare una via, a modificare gli eventi, semplici pensieri mutanti al cospetto della persona a cui si mostrano, doppie metafore, specchio riflettente l’ anima di chi lo guarda.
La fine del proprio viaggio ha modificato la vita altrui, nel presente un segreto da condividere e segreti da non svelare, perché nessuno si conserva così come è e nulla è compiuto perfettamente.
Forse semplici storie da attraversare, esperienze da cui prendere o allontanarsi, alcune continueranno a vivere nella propria memoria, per sempre, insieme ad oggetti smarriti che ci hanno consegnato altro.
Oggi il protagonista vive una nuova forma di grazia, la pittura come sussistenza, un ritorno alle origini, una scelta precisa nata da ciò che è andato distrutto. Sta a lui farne tesoro, non trascinando la propria vita in un dubbio poco edificante perché essa si rinnova continuamente, alcune cose perse per sempre e continuando a raccontare una storia, accaduta veramente…
“ Metafore che si trasformano “ riabbraccia il Murakami più noto, artista del dubbio, illustratore onirico, illusionista di mondi dissolti.
Apprezzabile il viaggio agli inferi del protagonista, ed il suo rapporto con Akikawa Marie, la ragazza del dipinto, un sentimento condiviso ed uno stato di affinità permanente che si nutre d’ altro.
L’ universo dell’ autore si muove su piani sovrapposti, tra domande insolute, risposte inaccessibili, una fragilità di fondo.
Ed è proprio questo sconfinato spazio frammentario, fantasioso, misterioso, onirico ad esprimerne l’ essenza, altrimenti poco includente, una quotidianità apparentemente ovvia e lontana da qualsiasi forma di arte e ricerca definente, oggi finalmente significante in una rinnovata percezione di se’ e del mondo.
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Flusso di coscienza
“ La malattia e’ una convinzione ed io nacqui con quella convinzione “.
Il ricco commerciante e borghese Zeno Cosini vive una naturale condizione di malattia, in primis una idea nella testa, giorni abitati da fantasmi, un presente apatico ed un futuro che pare condanna.
Impossibilitato ad uscire dal proprio stato di sofferenza, tra inettitudine e malattia, viene invitato dal suo psicanalista, il dott. S. ( nel romanzo riferimento a Freud, allo stesso Svevo ?) a scrivere le proprie memorie in un diario privo di sequenzialita’ temporale, indispensabile ad un approccio terapeutico ed a stabilire le cause del proprio malessere.
Vi è sempre un’ ultima sigaretta da fumare che acquisisce un gusto più intenso proprio perché l’ ultima, il conflittuale rapporto con il padre alla cui morte insorge la disperazione per se’ ed il proprio avvenire, un uomo per cui era sempre vissuto e che prima di andarsene lo punirà con un gesto estremo, la ricerca di una moglie-madre, una seconda madre per un matrimonio curativo, e potere affermare di essere avviato alla salute ed alla felicità, al riparo da un amore negato, una amante con cui assaporare il vento della passione, fallita la cura matrimoniale, la presenza di figure maschili delle quali si è circondato da sempre.
Nella sua vita ha assaporato momenti in cui credere di essere avviato alla salute ed alla felicità, colto da un’ altra malattia da cui non doveva più guarire, la paura di invecchiare e di morire. Zeno non ha desiderato la morte, ma la malattia, pensiero dominante, sogno e spavento, pretesto ed impedimento al compimento dei propri desideri.
Ed ecco una nuova consapevolezza, la sofferenza come sola condizione di normalità, uno stato che lo ha indotto a desiderare, ricercare, cambiare, al contrario della sana “ normalità “, condanna allo status quo e ad una passiva ovvieta’.
L’ abbandono dello stato di malattia, una serie di sintomi psicosomatici di dubbia origine e manifestazione, all’ apparenza incurabili, condanna Zeno ad una inevitabile solitudine alla quale il dottor S., studiandone l’ animo, vi ha aggiunto altre patologie.
Nel presente il protagonista scopre di essere finalmente “ guarito “, nonostante sei mesi di inutili cure, e la ripresa della propria attività commerciale, contravvenendo ogni ipotesi, unica panacea.
Finora ha introiettato e proiettato il suo stato, classificato come nevrosi di origine edipica, in una vita costruita su vani tentativi di cambiamento.
Forse che lui, alla fine, sia l’ unico soggetto “ sano “ in un mondo malato? E chi sono gli altri, specchio di se’, persone da amare e da disprezzare, origine del proprio male, vittime della sua scaltrezza?
In realtà è la vita a somigliare ad uno stato di malattia, giorni che procedono per crisi e lisi, miglioramenti e peggioramenti, una vita da sempre mortale e che non sopporta cure.
Di sicuro, e qui abbandoniamo la sfera privata, l’ uomo, e la guerra ne è causa e testimonianza, sta distruggendo il mondo e la propria specie, l’ annientamento come esito infausto ed azzeramento.
L’ alternanza di conscio ed inconscio, una dettagliata e maniacale descrizione e dissertazione degli eventi cardine di giovinezza ed età adulta, sommerso dall’ atroce dubbio sulla reale consistenza del proprio essere malato, ci consegnano un’ opera singolare per temi e contenuti ed inserita in un contesto letterario mitteleuropeo.
L’ uso di una forma non particolarmente curata, di una lingua italiana che non spicca per limpidezza, e questo traspare nitidamente nelle lunghe e dettagliate descrizioni di situazioni e personaggi, ma vanno rammentate le origini multietniche culturali e linguistiche dell’ autore e la sua città di origine ( Trieste ), da’ voce per contro ad un romanzo che si addentra nella complessità dell’ animo umano.
Una guerra interiore è in atto, bagno prolungato tra le singolari teorie della neonata psicanalisi che l’ autore in parte stimerà ed in parte rigetterà, una tensione insita nel destino umano, quella miscela circolare tra passato, presente e futuro, “ Storia “ privata e pubblica.
Ed allora Svevo denuncia un mondo razionale e borghese in piena crisi identitaria, traccia una critica sociale a partire dalla analisi della psiche, estesa e fallace, utilizza una ironia sottile, da’ voce ad un antieroe che si domanda: quale il confine tra malattia e sanità, società giusta ed umanità, coscienza ed incoscienza, dove sta il male e dove ricercarlo, quale la soluzione e la cura?
Probabilmente nell’ acquisizione di una sottile ironia ed in uno sguardo più consapevole sul mondo, nell’ accettazione di se’ e della imprevedibilità della vita, in una pseudoguarigione che diviene convivenza “ sana “ con lo stato di malattia o presunto tale, una inettitudine che preserva e conserva dalla vera alienazione presente e futura….
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