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UNA PERNACCHIA ALLA STORIA MINIMA
Il primo archivista Emerenziano Paronzini, nato a Cantévria, reduce di guerra, passato all’ufficio del Bollo e del Demanio, giunge un giorno a Luino, sponda occidentale del Lago Maggiore, estrema provincia settentrionale al confine con la Svizzera , e lì, dopo anni di praticantato con vedove rigorosamente cercate e accalappiate nel suo lungo celibato, approda in casa Tettamanzi, in via Pusterla e fa bingo: tre brutte zitelle a sua completa disposizione, sotto un unico tetto e sotto l’egida del più rigoroso e decoroso dei matrimoni.
Sposatosi con la maggiore, dopo aver inizialmente adocchiato la mezzana, giunge a concupire infine anche con la minore. È una vera spartizione che rende giustizia alle tre zitelle delle quali è apprezzabile nella loro bruttezza eccessiva un unico particolare fisico: i capelli, le gambe, le mani .
Arrivati quasi al termine di questa godibilissima narrazione , quando ci si appresta a chiedersi quale epilogo darà l’autore ad una vicenda che pare ormai cristallizzata come Luino stessa “ un piccolo mondo chiuso in un tempo senza storia”, sarà proprio lo sberleffo di Chiara alla storia minima del fascismo a dare giusta e dignitosa chiusa: divertentissimo, come il più monello dei compagni di classe. Bravo Chiara! Quale trovata, quale gustoso ingegno, quale fine ilarità, quale mirabile presa in giro di una pagina di storia vergognosa.
Il primo impatto con questo narratore che iniziò a scrivere dopo i cinquant’anni, avendo prima divertito gli amici con la sua arguzia, mi fa pregustare altre letture che ora sono impaziente di affrontare per conoscere meglio lo scrittore della piccola gente, delle piccole storie, degli ambienti corali dove tutti sanno tutto, il ritrattista delle piccolezze umane delle quali tutti generalmente sorridiamo.
Il romanzo in questione è altro ancora: è la descrizione del suo luogo natio, è l’amore in fondo per quei luoghi e per quella gente, è lo sguardo disincantato di chi ha l’occhio lungo, la vista acuta e un’irresistibile verve comica. È anche la rappresentazione delle ipocrisie sociali e della spartizione di ben altri tesori : lo stato , la chiesa. Ve lo consiglio, sicuramente.
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Fiume terra, fiume cielo
Romanzo bipartito con netta preponderanza attribuita alla prima parte”Di qua dalle mura” e un ruolo catartico e risolutivo alla seconda “Di là dalle mura”. Un unico elemento di congiunzione : il fiume, dapprima associato alla terra, poi al cielo. Il fiume: elemento naturale teso allo scorrere, al non ritorno, destinato ad una foce, giunto da una sorgente. Anche Lulù , giovane laureata in agraria, fortemente ancorata alla sua terra, nutrita dalla speranza che essa possa essere salvifica, ha un luogo aspro nel quale è nata, giunge dolorosamente a percorrere il letto della sua vita, partendo torrente irrequieto, irrisolto, e scavandola, la terra, per trovare la sua foce.
Questa è la storia di Lulù, ripercorsa con l’alternarsi della narrazione e delle lettere che Giosuè, il padre, le scrive, da quando lei è partita e lo ha abbandonato, là sull’appennino, perso nel suo sogno utopico di poter fondare una città ideale, avvilito e profondamente deluso dalla corruzione politica e dall’agonia del partito socialista. Lui, solo, ha plasmato la sua Lulù, ha scelto per lei imponendole studi in agraria dopo averla allevata in solitudine all’amore per la terra, ancestrale, atavico. Nora, la moglie, non può, depressa dapprima poi persa nel buio della mente: non è mai stata moglie, non è mai stata mamma. A suo modo, oltre le lacerazioni inferte alla figlia per gli abbracci mancati, per le stranezze comportamentali, per il suo grande abbandono in presenza, anche lei ha trasferito qualcosa alla ragazza.
“Se mi tornassi questa sera accanto” riprende un verso di Alfonso Gatto, tutto lo scritto in realtà è puntellato di citazioni, abilmente mimetizzato in un pensiero creativo che da esse ha tratto origine, si tratta per lo più di versi e una nota finale dell’autrice riporta alle fonti. La scrittura è di certo interessante e il contenuto originale, la Pellegrino è una storica dedita all’”abbandonologia”, scienza poetica alla quale la stessa aveva già dedicato il suo romanzo d’esordio “Cade la terra”. Potrei dire che la sua scrittura esercita il fascino dei luoghi abbandonati a cui manca però quell’afflato vitale che si può cercare di costruire ma che non arriva diretto al cuore. Bella storia, interessante triade di personaggi, aridità emotiva.
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FANTASILANDIA
Nel marzo del 2011 questo gustosissimo libro è apparso per la prima volta nella collana “Oscar Junior” e la scelta editoriale si è rivelata vincente: è stato proposto il testo illustrato da Sto come nella prima edizione Einaudi datata 1963, arricchito inoltre da una presentazione dell’autore che consiglia ai più giovani di saltarla pure, se vogliono, perché forse sarà più utile in qualità di “istruzioni per l’uso” ai professori. Dunque, una bella edizione per i più giovani, a partire dai nove anni. Eppure proprio in virtù di quanto afferma Calvino nella sua presentazione il libro non può essere catalogato come “libro per bambini” e nemmeno come “libro per ragazzi” o “libro per adulti”. La sua peculiarità è di essere, oserei dire, evanescente, di situarsi a ridosso di generi letterari, di linguaggi attinti dal comico, dalla favola e dalle vignette dei giornalini per l’infanzia, di non arrestarsi al reale, di non produrre denuncia ma di strappare ad ogni novella una sana, genuina, spontanea ilarità. Ci si affeziona al personaggio, filo conduttore di venti avventure- disavventure, ci si affeziona perfino allo scenario urbano nel quale opera, ci si aspetta, pagina dopo pagina , un guaio, un imprevisto, un elemento grottesco o surreale che possa trasfigurarla, ma non troppo, la realtà. La ciclicità delle situazioni è scandita dal succedersi delle stagioni, ogni novella- sono venti in tutto- è dedicata ad una di esse, per un ripetersi del ciclo stagionale per cinque volte. La stessa struttura delle singole novelle è fissa secondo un modulo che porta a scoprire la natura, a sognare un riavvicinamento ad essa, a maturare una delusione che però non annienta mai il protagonista. Spesso , a racconto terminato, potrà capitare di chiedersi quali saranno gli sviluppi ulteriori della vicenda ma si intuisce che anche se il protagonista è in partenza per Bombay, presto farà ritorno nella sua città, nella sua misera abitazione , nella sua squallida esistenza di operaio di fabbrica, coniugato, con figli a carico, perennemente in bolletta. Povero Marcovaldo, intrappolato dalla vita ma così disponibile nei suoi confronti. Suscita, oltre che simpatia, una vena di malinconia. E poi la moglie Domitilla e i bambini, Teresa, Filippetto, Pietruccio e Michelino , a rincarare la dose di ingenuità, incoscienza, accettazione incondizionata, tutti tranne la moglie che invece sbotta, borbotta, subisce consapevole: direi la vera nota realistica del libro.
In sintesi un libro da non perdere, anche e soprattutto se se ne conosce qualche stralcio, qualche episodio.
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io lo adoravo!!
Epilogo
Breve e amara novella datata 1927, racconta la fine di un’esistenza che coincide con la morte del sentire, con l’indifferenza usata come arma di protezione e di difesa. Il vecchio ebreo Salomonsohn, ricco e agiato borghese austriaco, sacrificato al lavoro, si concede una vacanza in Italia con la sua famiglia: la moglie e la bella figlia Erna. A Gardone, una notte, in albergo, sente dei rumori e vede la figlia rientrare nella sua stanza congedandosi da un furtivo incontro d’amore. Qualcosa in lui si spezza e l’intera sua esistenza si rivela: mentre si rende conto, dilaniato dai calcoli biliari, che la figlia è cresciuta, che la moglie gli è divenuta estranea, che è stato incapace di vivere le gioie della vita, il suo cuore sanguina. La sofferenza è tale che l’unica soluzione che riesce a trovare per conviverci è estraniarsi ancora di più e dalla famiglia e dalla vita. Il ritiro è subitaneo, immediato, doloroso e straniante. La famiglia si adatta anche a questo mutamento, solo quando gli eventi precipitano accorre al capezzale per trovare però l’estremo barlume di astio e di incomprensione.
Lettura veloce, può contribuire a migliorare la conoscenza dell’autore e le tematiche da lui affrontate nella produzione novellistica, mi lascia piuttosto indifferente come un bozzetto dimenticato.
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Un giro di giostra
Con una prosa coraggiosa che reitera frasi in maniera ossessiva e che si nutre di un vivace alternarsi di voci verbali ai limiti della consecutio, Buzzati stupisce. Stupisce nello stile, lui che nei suoi racconti aveva prediletto il linguaggio semplice e comune, la prosa lineare e limpida dove l’assurdo regnava incontrastato. Stupisce inoltre nel contenuto: un amore maschio per una giovane ragazza che si prostituisce, la rappresentazione della psiche maschile. L’uomo in questione è un affermato professionista ma nella vita privata è limitato nel rapporto con le donne, è insicuro, inefficace. A corollario della sua affermazione professionale una Milano rampante, frenetica, operosa e grigia come non mai. Una città capace di schiacciare l’individuo, un agglomerato di palazzi perso nella collettività affannata a produrre, a fare e non a vivere. Leida allora diventa per lui la vita: se ne innamora subito e la cerca e la vuole ripetutamente. La paga: lui il borghese agiato, lei la ragazzina che ambisce a mutare il suo status sociale.
Il denaro paga, il denaro garantisce la via di fuga qui rappresentata da una casa chiusa e dall’antico mestiere dei quali, attraverso Dorigo, il protagonista, si tesse l’elogio: l’unica bolla di libertà in un mondo rigidamente regolamentato. Il paradosso e l’assurdo, cui Buzzati non poteva rinunciare, scaturiscono dallo scontro dei mondi, quello borghese e quello delle meretrici, entrambi retti dal denaro, nel quale si intrufola il sentimento, l’amore. L’opera insegue faticosamente per quasi due anni l’evolversi dei rapporti tra Dorigo e Leida, il lettore teso a cercare una possibilità di realizzazione del legame, si assiste invece all’annientamento totale dell’individuo, ora in balia della forza cieca, ingenua, ossessiva alimentata dall’amore. Si giunge poi, d’un fiato, al finale bellissimo, struggente, inquietante come nel migliore Buzzati e il lettore si riappacifica con l’autore , lo ritrova, gli perdona l’avventura erotica nella quale ritrova infine la dimensione surreale e inquietante dell’esistenza che un amore aveva momentaneamente adombrato.
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Amor absolutus
Il giorno del suo quarantunesimo compleanno il famoso romanziere R. fa i conti con la sua vita, con il suo essere, con la sua anima. Lo mette di fronte alla sua essenza una lettera che gli giunge da una sconosciuta, probabilmente morta nel frattempo e che gli confessa dapprima la morte del suo figlioletto, il suo incondizionato amore provato per lui fin da quando era una bimba- sua vicina di casa-, e il presagio della sua imminente morte.
La missiva si apre con la confessione del grande dolore e del lutto di una mamma, sono pagine bellissime e strazianti che fanno pregustare un’ottima lettura. Successivamente si ripercorre la cronistoria di questo amore atipico poiché privo della necessaria corrispondenza utile ad alimentarlo; sono pagine utili a delineare una possibilità tra le tante per alimentare il sacro sentimento, una possibilità che sfocia però in comportamenti assurdi, in silenzi, in ostinazione e nevrosi . Un amore alimentato dall’atto dello spiare, dall’idealizzazione dapprima della persona amata e poi dalla sua accettazione completa; peccato che manchi ciò su cui si fondano i rapporti amorosi: la conoscenza, la convivenza, il reciproco impegno. Ecco, questa è la rappresentazione di un amore absolutus, sciolto in prima istanza proprio dai legami di frequentazione, di imposizione, di accoglienza e di accomodamento che lo rendono realizzabile. È un amore ideale, monco della sua controparte, impossibile dunque. Eppure si è realizzato.
La lettura scorre veloce, l’impatto iniziale va via scemando, rimane tra le righe impreziosite da una prosa cristallina e incisiva, l’anima di una donna impossibile da capire, e alla fine l’esito prodotto dalla sua rivelazione.
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La profezia
È la prima volta che uno scritto di Zweig mi delude e questo crea in me una difficoltà di esprimere le ragioni che sottendono a questa delusione. La prima alla quale mi appiglio è la brevità, ma – presa singolarmente- sarebbe ben poca cosa; unita ad essa una debole struttura narrativa se paragonata a quelle che animano altri suoi scritti brevi quali “Novella degli scacchi” o “Sovvertimento dei sensi”. In ultimo un’assenza quasi totale del suo spirito che ritrovo solo quando debolmente ci sussurra che il mondo procede per via diretta verso repentini cambiamenti:”..tutto ciò che è unico diventa sempre più prezioso in questo nostro mondo che va fortemente divenendo più uniforme”. Qui la delusione verso il cambiamento è resa attraverso il destino di un uomo di grande cultura, di grande capacità intellettiva che viene annientato dai tempi i quali, per natura, per scelta, con ostinazione, con rassegnazione, subisce nel momento in cui non li riconosce e non li vive. Mendel è totalmente assorbito dalla sua inumana capacità di accumulare dati e informazioni sui libri, dal Caffè Gluk, dove vive appartato dal mondo, è punto di riferimento per pochi eletti di Vienna, non perché scelti personalmente da lui ma perché naturalmente selezionati dalle loro attività intellettuali che li portano, quando si trovano in una qualche difficoltà di reperimento del testo, a farsi aiutare da questo alto ingegno. Saranno proprio loro poi a rappresentare all’uopo una momentanea ancora di salvezza in un periodo in cui la barbarie del nostro piccolo mondo sarà capace di generare campi di internamento in ogni Paese coinvolto nella prima guerra mondiale. È chiaro l’intento di denuncia , è emblematica la mestizia del personaggio, è inaccettabile il suo destino e con essa anche la triste profezia che essa racchiude : la vittoria della caducità e dell’oblio. I nostri tempi ne sono una triste conferma. Dov’è la cultura dei libri?
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"Una meravigliosa idea..."
L’ambiguità del miglior James , quello di “Giro di vite”, le mirabili descrizioni di Venezia ancor più belle di quelle contenute ne “Il carteggio Aspern”, un personaggio femminile centrale, totalizzatore come in “Ritratto di signora”, questo e altro il lettore trova in uno dei romanzi della produzione ultima dello scrittore americano. Un’ambiguità ancora più marcata anima l’esile impianto narrativo, una snervante ma enigmatica scrittura, una capacità di rappresentazione della doppiezza dell’animo umano reggono il filo della narrazione che si dilunga in numerose pagine, criptiche, a volte involute, spesso sospese e sfuggenti. Il lettore ne viene rapito come nella tela del ragno, fagocitato ma anche arricchito. Il Maestro mette in scena le situazioni, le ingarbuglia, le insegue rappresentandole e aprendole a molteplici sviluppi ed esse rimangono tali: solo situazioni. Il lettore, insieme ai personaggi, le insegue, le proietta, le amplifica ma poi esse tornano alla loro origine di puri fatti. È una lettura in fin dei conti amara, non concede nulla, se non la consapevolezza che l’uomo può tutto il male possibile e quando lo asseconda e quando lo origina.
Milly, giovane e ricca ereditiera americana, entra in relazione con Kate, giovane inglese schiacciata dalla sua misera condizione sociale. Ama Densher ma non può corrisponderlo apertamente perché ha accettato la protezione della zia Maud che progetta per lei un ricco matrimonio. Milly giunge in Inghilterra dopo aver conosciuto Densher in America e casualmente lo ritrova nelle relazioni che imbastisce nel Vecchio Continente. Gli elementi americano e inglese, accostati, giustapposti, sono un classico tema della narrativa di James che qui ripropone anche il viaggio in Italia e la rappresentazione di Venezia. La ricca ereditiera è paragonata ad una colomba le cui ali stentano a spiccare il volo in seguito al destino di malattia che la caratterizza. Una ragazza che brama la vita e ad essa cerca di rivolgersi fiduciosa, contrapposta e complementare a lei Kate che tenterà di volgere a suo vantaggio la condizione della prima. Una partita a due in “un cerchio di gonnelle” con pedina il povero Densher, e una situazione di partenza che , nonostante il susseguirsi di situazioni porterà la diabolica Kate a temere un fantasma, il suo carisma, la sua stessa ala protettrice, consapevole di aver modificato la sua essenza , quella dell’amato, quella della loro storia d’amore in peggio.
Lo consiglio a chi vuole dedicarsi ad una lettura lenta e ragionata, ma non scervellatevi troppo: il gioco lo conduce il Maestro.
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Giro di vite
Il carteggio Aspern
QUALCOSA , TROPPO, NIENTE
Romanzo dal tono fiabesco con protagonista una principessa che si affaccia alla vita e ne scopre le complessità insite in primo luogo in lei e riflesse nei fatti, negli incontri, nelle scelte, nelle relazioni che arricchiscono, complicano, suggellano la sua crescita. Quasi un piccolo frammento di romanzo di formazione, una lettura che ritengo particolarmente adatta per i piccoli lettori dai dieci ai tredici anni, più avanti il modulo fantastico basato su elementi fiabeschi potrebbe far storcere il naso ai più grandi i quali potrebbero trovare scontate le suggestioni che lo scritto sa innescare.
Una principessa nasce e si impone alla vita e alla famiglia con strepiti e urla fin dai primi giorni: è eccessiva, le vien dato il nome “Qualcosa di troppo”, appare fin da subito in perenne conflitto con il suo universo emozionale di ben difficile gestione. È il suo percorso di crescita, la via è segnata, dovrà affrontare un prematuro dolore, la scomparsa della mamma, e imparare a canalizzare il suo io, a circoscriverlo, a conoscerlo, ad accettarlo. Chi di noi è esente da tale tirocinio formativo? Interessante iniziazione con una serie di prove da affrontare , declinate attraverso le più classiche funzioni proppiane, e l’immancabile supporto dell’aiutante magico. Tutte le situazioni richiamano le sfide che i nuovi tempi impongono ai ragazzi di oggi, sottoposti come non mai a pressioni e stimoli che innescano un’accelerazione nella crescita non corrispondente all’età anagrafica, al loro sviluppo psico-fisico, al loro benessere. Pressioni e stimoli che sono tutti sovrabbondanti, ridondanti, fastidiosi e seriali e che stanno producendo purtroppo aberrazioni all’evidenza di tutti. In particolare è presente una velata critica alla necessità di affermazione dei giovani che trova sfogo sui social, paragonati qui a lenzuola esposte al balcone e zeppe di stati d’animo, di sbandieramenti circa la pienezza del proprio vissuto, di fondo, specchio evidente di tristi solitudini. È presente inoltre la riflessione circa i pericoli dell’amore quando non vissuto dalle giovani ragazze come un sentimento di amorosa corrispondenza ma secondo moduli che attingono a profili quali la salvatrice, la dipendente , l’affermata incapace di auto affermarsi al di fuori di un rapporto a due. Utili riflessioni per un universo femminile in crescita, per instillare attraverso una lettura semplice e fresca qualche pillola di educazione all’affettività coinvolgendo allo stesso modo l’universo maschile in crescita, ancora più depauperato, secondo il mio punto di vista.
Il qualcosa che siamo noi, il troppo di cui lo riempiamo, il niente che riconduce alla piccolezza della nostra esistenza e alle bassezze di cui la nutriamo, la scomparsa della noia e la paura della solitudine sono infine spunti di riflessione adatti a tutte le età che si possono ritrovare in questo piacevole libretto snello ma estremamente curato nell’ aspetto grafico, in una forma mista sempre più in auge con la commistione dei linguaggi: il letterario e l’ iconico che si avvale, in questo caso, delle efficaci illustrazioni di uno dei più quotati fumettisti italiani, Tuono Pettinato.
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CHEZ KRULL
Scritto nel 1938 e dato alle stampe l’anno successivo,”La casa dei Krull”, torna ora in lingua italiana grazie ad Adelphi che continua a ripubblicare le opere del belga. Il romanzo oggi parrebbe quasi profetico rispetto alle sfide inclusive richieste alle nostre entità statali, ma prima alle nostre menti e ai nostri cuori, dai continui flussi migratori, dal cosmopolitismo crescente, dalla stessa globalizzazione. Eppure , preferisco darne una lettura prettamente letteraria e non politica, geopolitica, antiamericana, non c’è bisogno … all’occorrenza basta guardare casa nostra. O meglio entriamo a casa dei Krull accompagnati da un cugino tedesco che sta arrivando in taxi e che con la sua presenza, con la sua condotta o più semplicemente con il suo sguardo lungo, mette a repentaglio delicati equilibri consolidati nel tempo eppure fragili come un vetro filato.
I krull sono dei crucchi, abitano in un paese del nord della Francia, in una dimora al limitare dell’abitato, lungo una triste prospettiva scandita dalle chiuse di un canale navigabile. Possiedono un emporio e Cornelius, il capofamiglia, ha un laboratorio annesso nel quale si dedica all’intreccio del vimini. È la moglie a gestire la merceria che viene frequentata, insieme alla mescita per la compravendita di alcolici al banco, soprattutto dalle mogli dei cavallanti, i quali con le loro famiglie vivono in chiatte semigalleggianti al limite della società. I vicini di casa dabbene preferiscono servirsi altrove. La famiglia si completa di tre figli: un giovane laureando in medicina e due ragazze, dedite al cucito e allo studio del pianoforte. L’arrivo del cugino Hans, figlio del fratello di Cornelius, rompe la monotonia di una casa nella quale tutto pare essere cristallizzato e coincide, dopo poco tempo, con il barbaro assassinio di una ragazzina. In un crescendo di tensione la famiglia si ritrova coinvolta nell’omicidio, vero capro espiatorio di una comunità che fatica ad integrare il diverso. Protagonista assoluta della rappresentazione- lo scritto vive di una teatralità necessaria e assai funzionale- è la gente, quell’insieme di identità indefinite capace di tutto, cui fa da contraltare proprio il giovane Hans che con il suo fare disinvolto, con la sua superiorità mentale, con la sua furbizia da mascalzone, mantiene integra la propria identità schierandola apertamente non dalla parte del decoro civile. Paradossalmente sarà colui che, a conti fatti, uscirà integro da una vicenda capace di sconvolgere un’intera famiglia, quella dei suoi parenti più prossimi. Al contrario il cugino, suo coetaneo, schiacciato da un vissuto di inadeguatezza, dovrà ricostruire la propria identità, forse già scritta …
Essenziale, perfetto, lucido, spietato, il romanzo si attesta come l’ennesima prova di bravura nella quale i tratti incisivi sono i movimenti scenici , gli ambienti perfettamente descritti, la fusione di questi due elementi usati indirettamente per rappresentare pensieri, emozioni, tensioni, silenzi , rumori , tutti fondamentalmente sospetti.
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Disperso e...incompiuto
Un giovane sedicenne, Karl Rossmann, viene esiliato dai genitori in America perché sedotto nella patria boema, a Praga precisamente, da una domestica che è rimasta incinta. Quando il giovanotto giunge in America , prima ancora di sbarcare, perde ombrello e valigia, trova casualmente uno zio benefattore e dopo un inizio rocambolesco pare ben avviato verso il suo obiettivo: farsi una posizione. Successive peripezie lo distolgono e passando per diverse esperienze si ritrova alla mercé di due mascalzoni ben accompagnati poi da una sorta di donna cannone. Non si conosce il finale e il romanzo incompiuto lascia il giovane in una indeterminatezza che ben gli si confà.
È il primo romanzo dello scrittore praghese, nasce però in concomitanza con il suo periodo più creativo che ci ha consegnato “Il processo” , “La metamorfosi” e il racconto“Nella colonia penale”, e dunque osserva , nell'introduzione dell’edizione Newton da me letta, Italo Alighiero Chiusano, si è in errore quando lo si ritiene un “frutto primaticcio e preludiale”. In effetti il romanzo fa respirare le tipiche atmosfere kafkiane: spazi claustrofobici, il perdersi, la concezione dello spazio come prigione, luogo labirintico angoscioso e angosciante, il subire situazioni paradossali che nel momento in cui vengono accettate subito godono di pieno diritto di esistenza e fuoriescono dalla zona di impossibilità assurda dalla quale nascono . Vi è inoltre una discreta rappresentazione critica dell’America, luogo disumanizzante, alienante, teso al progresso, schiacciato dal suo peso e penosamente e in maniera ridicola democratico ( bella la descrizione dei comizi elettorali in strada e delle baruffe dei candidati avversari). Interessanti i riferimenti continui a scioperi e diritti dei lavoratori contrapposti alla rappresentazione del ceto dei politici (lo zio) e dei privilegiati ( i suoi amici), grottesco e vivido il brulicare dell’Hotel Occidental dove i turni dei lavoratori sono massacranti. Colpisce il disincanto del protagonista, l’ingenuità, la passiva rassegnazione: quando lo scatto di ribellione si fa più teso ha già inevitabilmente perso l’occasione. Da più di un ventennio non leggevo Kafka e devo dire che , pur non essendo questo un capolavoro, questa prima lettura di “America” si è rivelata pur sempre un gradito ritrovarsi tra le pagine di uno scrittore che a vent’anni esercitava su di me un fascino che evidentemente dura nel tempo.
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“Sono un indiano ma sono anche un ebreo”
Sedici racconti inediti o poco conosciuti scritti nell’arco temporale compreso tra il 1940 e il 1984, presentati in ordine cronologico, più un romanzo inedito “Il popolo”, costituiscono questo volume apparso per i tipi della Minimum fax nel mese di maggio del 2016. Volume splendidamente corredato di una prefazione eccellente sui libri incompiuti, firmata Alessandro Zaccuri, e di un’introduzione di Robert Giroux, colui che fu amico ed editor di Malamud e che ebbe il merito di far pubblicare postumo “Il popolo” nel 1989.
La raccolta ha sicuramente il pregio di fungere da ottima selezione di un trentennio di attività di scrittura e chi conosce la produzione malamudiana ci ritrova personaggi, ambienti, situazioni già incontrati nei suoi bellissimi romanzi. In molti di essi è rappresentato il tema dell’incomunicabilità in seno alla famiglia, oppure il delicato equilibrio dei rapporti sociali; i personaggi di questi racconti ambiscono ad un’altra vita ( “A new life”?), si nutrono di speranze, di arditi slanci, di vere e proprie ribellioni ma poi finiscono quasi sempre per soccombere e riallinearsi al loro vissuto dal quale hanno momentaneamente deragliato rischiando di cambiare tutto e per sempre. Chi osa è solo un pazzo (“Confessione d’omicidio”) ma forse non è riuscito neanche lui e la pazzia è un tarlo come il ronzio che solo Zora sente temendo di divenire matta (“Il ronzio di Zara”). Tra i racconti “Esorcismo” a evocare i rapporti intercorsi tra Malamud e il giovane Philip Roth e due “biografie immaginarie”: una dedicata a Virginia Woolf e l’altra ad Alma Mahler. Due gioiellini.
“Il popolo” invece è la bozza di un grande romanzo che Malamud non ha potuto terminare e che iniziò a scrivere quando la sua lucidità intellettuale non era più integra anche se non venne mai meno l’abnegazione verso l’arte dello scrivere. Rivedeva le sue opere infinite volte con un metodo di revisione molto preciso: nulla era casuale o affrettato o ,peggio ancora, superficiale. Valutare pertanto uno scritto postumo, un incompiuto è per me far torto all’autore. Si può dunque solo accennare al contenuto. Yozip è l’ebreo errante fuggito dalla sua patria (?) per evitare il servizio militare, che incappa in una serie di casi fortuiti i quali lo portano a diventare venditore ambulante, falegname, sceriffo, portavoce dei diritti di una tribù indiana, dopo essere stato dagli indiani rapito, capotribù infine di quel Popolo.
Fortemente ironico nelle situazioni e nei toni, al limite del disincanto tipico della fiaba, è un’allegoria che ricalca il destino di un altro popolo, quello ebraico. Che differenza passa infatti tra un pogrom e un assalto ad un accampamento indiano? Quale differenza tra un esodo e una riserva? Il male, la sopraffazione accomunano i popoli, gli uomini: chi lo subisce e chi lo fa , perché, quando uccidi, il primo a morire sei tu
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Una scintilla cova
Tra i romanzi del Nobel sardo, è questo uno dei più complessi e interessanti benché si collochi in una fase produttiva ancora acerba e lontana cronologicamente dall’opera che viene generalmente riconosciuta come il suo capolavoro:” Canne al vento”. Rileggendo la sua produzione con una certa continuità è emersa in chi scrive la consapevolezza netta di trovarsi di fronte ad una serie di romanzi che anticipano la tematica sintetizzata efficacemente nella metafora contenuta nel titolo “Canne al vento” e che appare infatti abbozzata in “Elias Portolu” e maggiormente sviluppata in “Cenere”. Il tema in questione è la centralità del fato sul vissuto umano, una sorta di predestinazione alla sofferenza, all’espiazione in vita di colpe ataviche, alla inutilità del dolore, tutto comunque da esperire nel proprio percorso esistenziale.
L’opera seppur complessa per l’impianto narrativo, per la ricercata caratterizzazione psicologica , per la costruzione dei personaggi, per la funzionalità delle descrizioni paesaggistiche tese a assecondare stati d’animo, ad anticiparli o a contrapporvisi, risulta ampiamente riuscita nella prima parte ed eccessiva nell’enfatizzare situazioni, emozioni e catarsi nella seconda e ultima parte. Si presenta la vicenda umana di Anania, bimbo nato fuor di matrimonio e condotto per volere di una madre ancora bambina, Olì, in seno alla famiglia del padre legittimo, accolto amorevolmente dalla moglie di lui. Cresce Anania, abbandonato a tranello dalla madre a sette anni , dopo aver poggiato le sue fondamenta esistenziali in un ambiente povero, connotato da amore e difficoltà. Il suo apprendistato alla vita prosegue in città, a Nuoro, dove le relazioni della famiglia paterna lo portano a diventare uno dei tanti protetti di un ricco padrino, il signore presso il quale lavora la sua famiglia. Innamorarsi di Margherita , la figlia dei ricchi, allontanarsi per gli studi dapprima a Cagliari e poi a Roma non lo distoglieranno dalla macchia da cui si sente infangato. Egli può ambire al riscatto individuale ma deve risolvere se stesso cercando la madre della quale immagina infinita perdizione. Il romanzo termina con un seppur debole spiraglio e con una scintilla che cova, comunque, nella cenere e che alimenterà altri fuochi, altre passioni.
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Canne al vento
Singer al femminile
Romanzo in yiddish, finora inedito in Italia, della sorella maggiore dei due celebri scrittori Israel e Isaac. Interessante leggere la sua biografia e scoprire il veto della famiglia agli studi, garantiti invece ai fratelli, il matrimonio combinato e la distruzione dei suoi scritti prima dell’evento. Nata nel 1891, morta nel 1954, transitata da Bilgoraj a Varsavia, poi ad Anversa e a Londra, la sua biografia è emblematica dei luoghi e dei tempi da lei vissuti che tornano, affascinanti nelle loro peculiarità, in questo scritto.
Il romanzo è incentrato sulla tragica figura di Gedaliah Berman, agiato ebreo, commerciante di diamanti che ad Anversa, giuntovi appena ventenne dalla fame e dalla miseria del suo povero villaggio polacco , è riuscito a farsi una posizione benché ambisca a elevarsi ulteriormente fra i più importanti venditori di diamanti. È sempre attivo e lo troviamo a inizio narrazione in preda al delirio di chi è costretto da una festività a fermarsi, incapace di sfuggire alla metodicità della sua esistenza scandita da riti e ritmi ormai assodati. È preoccupato Berman, pur avendo una moglie che lo ama e tre figli, due maschi e una femmina, il primogenito David è uno scansafatiche attirato dai movimenti socialisti, dalle donne, da Spinoza. Gli giunge nel mentre la notizia che il figlio di un suo concorrente convolerà a giuste nozze, quelle che appunto, con cospicua dote in diamanti, permettono di ascendere l’ambito gradino sociale. Subito ci si appassiona e il personaggio ha tutte le caratteristiche per tenere desta l’attenzione, eppure dopo l’ottimo esordio la narrazione languisce e si sfalda nella rappresentazione di una realtà a tratti monotematica, L’Anversa che ruota intorno al commercio dei diamanti, con annesse considerazioni sulla evidente dicotomia ebreo ricco- ebreo povero, alternata alla narrazione della quotidianità della famiglia Berman alla quale si intrecciano le vite parallele di alcuni personaggi secondari, fa da collante il vivere dissoluto di David.
Lo scoppio della grande guerra costringe i Berman all’esilio ad Amsterdam e poi a Londra, con loro il vecchio padre di Gedaliah che nel frattempo li ha raggiunti ad Anversa. Proprio l’arrivo del padre permette alla Singer di sviluppare una prosa efficace, toccante, abbandonando l’ironia tagliente che imperversa fra le righe rilasciando intelligenza e acume al femminile. Qui si aprono le più belle pagine del romanzo, Gedaliah si racconta e ci racconta l’errare dell’ebreo povero, l’amore di un figlio per il padre, la devozione alla mamma, la scelta del riscatto. Poche pagine purtroppo, con mia grande delusione. Si procede e a tratti si gode per l’efficacia descrittiva e si insegue la trama che purtroppo si serve in alcuni casi di espedienti scenici eccessivi tradendo la scrittura e la sua riuscita globale e ancora affiora un senso di delusione. La narrazione termina ad Anversa, a guerra finita, a sigillo di un’esistenza immolata al riscatto dell’individuo condannato alla sua solitudine e alla sua tragedia individuale. Da leggere, per curiosità.
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Identità reale o reale identità?
Corposa biografia consegnata al mondo nel lontano 1932, testo che ebbe il merito di bilanciare la verità storica restituendo identità reale ad una regina ma prima ancora ad una donna. Zweig chiarisce fin dal sottotitolo e poi attraverso la breve nota introduttiva, il taglio dato al suo lavoro: parla semplicemente di “una donna comune, non troppo intelligente” , di una donna “media” che la storia ha plasmato in eroina involontaria dandole la possibilità di riscattare ,con gli ultimi anni ,la sua esistenza insignificante seppur contestualizzata in una cornice dorata. L’autore ripercorre gli anni di questa esistenza con la professionalità dello storico più scrupoloso, evitando di cadere nella tentazione di infiocchettare una narrazione, di per sé dall’oggetto evidentemente popolare, con l’insieme di dicerie, leggende, documenti falsati, che da soli animano un romanzo nel romanzo. Ribadisce a più riprese il fine lavoro di espunzione di tali materiali e dal suo scritto e dalla sua mente, rendendosi capace di offrire la storia in una brillante trasposizione, animata dunque da altissimo genio creativo. Opera ardua non confondere le fonti, non annebbiare la mente, non oltrepassare il limite del reale per addentrarsi nel baratro dell’immaginazione, della calunnia, della falsificazione, della mistificazione. Rigoroso Zweig legge le fonti, non solo quelle scritte, studia il personaggio, contestualizza i fatti, arma la sua penna e difende il vero entrando in un’epoca e restituendocela nella sua integrità. Parlandoci di Maria Antonietta inneggia alla Dea Libertà, sorride sornione sui disastrosi esiti storici di quell’insieme di azioni e reazioni che è passato alla storia col nome di Rivoluzione Francese. Acutissimo riesce a rianimare la storia, lavora finemente alla psicologia dell’arciduchessa d’Austria, ne fa rivivere incoscienza e incapacità nei suoi deliziosi anni adolescenziali. La rappresenta nelle amarezze di un matrimonio non consumato per ben sette anni, la ritrae soprattutto con le parole della madre Maria Teresa d’Austria, solo le parole di una madre sono capaci di rendere i limiti di una figlia. Assurge quasi a suo paladino quando nella condotta dei suoi ultimi anni, dopo averci minuziosamente dilettati con la rassegna dei divertimenti e delle debolezze reali, riesce a cogliere l’attecchire dei presaghi moniti materni e l’evolversi del suo spirito in quello di una donna vera ora , non più l’emblema di un’epoca ma la compiutezza di un individuo.
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Letteratura e letterati oggi
Che l’epoca a noi contemporanea sia di difficile definizione, di aspro inquadramento, presumo dunque di difficile rappresentazione, mi appare ancora più lampante dopo la lettura di questo romanzo. Esso riesce sicuramente a restituire l’epoca coeva, le sue disarmonie, l’omologazione dei vissuti pur descrivendo un preciso gruppo sociale nella Washington odierna e non disdegnando l’immaginazione di un futuro apocalittico per Israele fra terremoto ed ennesimo conflitto, eppure a questo scritto manca il sentimento universale. Languisce in oltre seicento pagine nell’individualismo che ci caratterizza, si inabissa nella famiglia Bloch e nella sua incapacità di reggere alla sfida della propria epoca, è deludente anche perché i fatti narrati evolvono in negativo e l’intera narrazione si chiude con una scelta dolorosa.
Nello stile tipico di Foer che caratterizza la sua prosa con abbondanti dialoghi, qualcuno al limite della decenza della rappresentatività , o per l’uso di un lessico animato da volgari riferimenti sessuali o per ridondanza o per inutilità pura, la narrazione vive anche di piccole brecce che fanno intuire il potenziale di questo autore capace di narrare e indubbiamente di consegnare al lettore interessanti spunti di riflessione. Lo scritto è animato dal sentimento del tempo, fuggevole, che tormenta in particolare Jacob, l’antieroe, padre stupendo ma uomo irrisolto, ingabbiato da un ‘identità ebrea che nulla a che vedere con la religiosità, incapace di conoscersi e di darsi agli altri, immaturo nella sua disfatta. Foer ha saputo creare un ottimo personaggio, disgregato però nell’identità, perso fra le innumerevoli pagine. Solo quando la narrazione si focalizza su di lui e non tramite lo strumento del dialogo ma attraverso il più necessario narratore esterno, allora si gode di una buona scrittura. La moglie, Julia, è personaggio secondario ma necessario a individuare i limiti di Jacob, per cui perfettamente funzionale, i tre figli infine sono ben caratterizzati e offrono lo spunto per parlare di genitorialità, rapporto di coppia, crescita. Vi sono pochi altri personaggi e sono quasi tutti appartenenti alla famiglia: sono i parenti che vivono in Israele, sono i genitori e il nonno di Jacob, sono insomma le sfaccettature assunte dalla diaspora nel terzo millennio, funzionali anche esse a far riflettere sul lascito della storia di questo popolo, sulla sua evoluzione che pare sfociare nell’involuzione culturale delle nuove generazioni depauperate anche del credo ma ingabbiate dalla cultura religiosa, dai riti e dalle celebrazioni che non si sanno più comprendere ed accettare. È tramontato il senso di appartenenza, essere ebrei sembra quasi un inutile fardello che può inorgoglire solo a livello culturale.
Personaggio a parte il cane Argo, quasi il fulcro di un universo disgregato e disgregante.
Consiglio la lettura solo a chi è capace di apprezzare quanto per me ha rappresentato un limite, non rientra nei miei canoni estetici.
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In viaggio: la famiglia, il ricordo, l’identità
L’esordio letterario del giovane autore americano di origine ebrea è stato un successo letterario che ha avuto notevole seguito anche nella riduzione cinematografica ma che , ancora oggi, a distanza di anni divide i lettori. Vi è chi lo acclama come un genio letterario e chi invece abbandona le sue opere fin dai primi capitoli. Ho faticosamente letto il romanzo e sono stata più volte tentata di non concluderlo, eppure un filo tenue, caparbio, allo stesso tempo magnetico mi ha riportato a quelle pagine nelle quali ho potuto apprezzare uno sperimentalismo narrativo che probabilmente è anche il suo pregio maggiore, ai miei occhi. La lettura è ardua fin dalle prime battute perché occorre destreggiarsi fra diversi piani temporali e fra due voci narranti, una delle quali si esprime in un inglese improbabile, essendo appartenente ad un ucraino ( sforzo linguistico tradotto magistralmente a rendere comprensibile il disavanzo tra le due lingue anche a noi italiani). Ad esse si aggiunge uno scambio epistolare fra i due narratori , il quale ha per oggetto, in piena situazione meta- letteraria , il romanzo che stiamo fruendo. A complicare il tutto appunto i due piani temporali, il primo avente per oggetto la ricostruzione storico- favolosa dell’origine dello shtetl ucraino di Trachimbrod e della sua distruzione totale per mano nazista, il secondo teso invece a narrare l’arrivo di Jonathan, l’autore del nostro libro, in Ucraina a cercare, con l’aiuto di Alex e del suo nonno, le tracce della donna che salvò il suo di nonno dall’eccidio che rase al suolo quello sperduto villaggio al quale abbiamo già accennato. Confusi? Abbiate pietà, di più non so. L’ intera trama è forse riassumibile in tal modo : favoloso viaggio in Ucraina alla ricerca della propria identità famigliare ad opera dell’autore medesimo coadiuvato dall’ amico Alex e supportata dalle rivelazioni finali del nonno di costui. Ad ogni modo il quadro di insieme lo avrete solo a lettura ultimata e questa è l’ovvia ragione per cui consiglio di non desistere, altrimenti non ci potrebbe esprimere proprio, né a vantaggio né a svantaggio dell’opera. Tutto sommato la salvo, pur non rientrando nei miei canoni: troppo moderno, troppo innovativo, troppo imprevedibile. La salvo perché mi ha consegnato in maniera originale la memoria di uno shtetl fra i tanti, più di 1200 morti in una sola notte, perché me l’ha consegnata alternando i registri linguistici in un innovativo impianto narrativo, perché a tratti ha spruzzato di magia un’orrida realtà, perché infine si avvale di quadri narrativi che rimangono, per efficacia creativa, impressi nella mente.
Un carro si inabissa nel fiume Brod, una bimba si salva delle acque, dei genitori nessuna traccia, una festa celebra la ricorrenza dell’evento ogni anno …
Un giovane arriva in Ucraina e si imbatte in due improbabili accompagnatori, anzi tre: un giovane, il nonno , il cane puzzone …
Il giovane ucraino, Alex, ha velleità letterarie ma tanto inglese da masticare …
Trachimbrod è sparito dalla faccia della terra, eppure una donna ci vive e consegna ai nostri la sua e tante altre storie, faticosamente recuperate e gelosamente custodite in una scatola …
Provateci!
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Un pugno di esistenze
Colpa ed espiazione, condanna del vivere e accettazione del bene e del male in esso insiti, fragilità umana ed epica resistenza, un’unica immagine ad esprimerla: le canne al vento, piantate nella terra, condannate all’elemento, capaci però di flettersi, talora di piegarsi, anche spezzarsi, a volte.
Efìsi, il servo sopravvissuto ai vecchi padroni, è immolato al destino delle loro tre figlie, custodi di un’antica nobiltà, di un rango decaduto, superstiti all’interno di una vecchia dimora capace di generare solo ortiche, ferite dalla vita e dall’abbandono della loro sorella, partita a tradimento, a cercare la sua libertà, la sua vita. Da quel giorno la loro esistenza si è cristallizzata, il padre morto, la famiglia in rovina, la sorella lontana, ormai madre e, mai perdonata, morta. Eppure il passato torna, veste gli abiti del figlio da lei generato che torna e, irrisolto, nella sua stessa generazione, entra di prepotenza in una famiglia chiusa, incapace di accettarlo e tanto meno di perdonarlo quando con le sue azioni pare reincarnare nuovi errori rinfocolando passioni mai sopite …
E tornano insieme a lui le colpe , non solo quella del servo, ma di tutti i personaggi, sapientemente rappresentanti nelle loro peculiarità, nella loro composita individualità fatta, in tutti, di bene e in ugual misura di male. Efìsi assurge a simbolo, efficace, di tale condizione, è il fulcro su cui è costruito un interessante impianto narrativo, è la cartina al tornasole della bellezza del paesaggio, dell’amore per la terra, delle sovrapposizioni dei pensieri, delle usanze e della morale, è in ultimo il cardine su cui ruota un pugno di esistenze che la vita ha generato in un territorio, piccolo, infimo, stretto quanti gli usci di case confinanti che non sono più capaci di aprirsi agli altri.
La prosa ricca ed efficace svetta in pagine di puro lirismo, restituisce i pensieri dei personaggi, anima i dialoghi, riempie i silenzi, descrive il paesaggio, racconta l’ambiente, svetta infine trionfante nel pensiero di un moribondo, richiudendo delicatamente l’uscio a proteggere gesti delicati e intimi.
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Scomode verità
Raccolta di tredici racconti pubblicati nel 1974 e ora apparsi, per la prima volta, in Italia. Si tratta di storie brevi affidate ad un narratore esterno, in pochi casi, la maggior parte invece orchestrati da una voce narrante in prima persona, femminile, rigorosamente. Sono storie intense e dolorose, sapientemente gestite da un registro stilistico sobrio, rigoroso, efficace, una scrittura che in modo asciutto racconta la realtà dei fatti, pochi, mentre va a infrangersi nel composito universo emotivo femminile fatto di sensazioni, emozioni, reazioni, ma soprattutto relazioni. La Munro è una maestra nel restituirci quel sentimento negato, offuscato, quell’universo di pensieri che agitano le nostre menti, e parlo da donna, intrecciandosi, dissolvendosi, alimentandosi, nel nostro cuore, nel nostro umano sentire, quando siamo figlie, mamme, sorelle, mogli, amanti, zie, nonne.
Ogni racconto apre una breccia temporale che procede a ritroso, si parte da un pretesto narrativo contemporaneo per andare a ripercorrere il passato: uno sguardo retrospettivo che non genera soluzioni, non porta conforto, non risolve conflitti anzi li rinnova, nell’atto stesso del raccontarli. In alcuni casi si restituisce un frammento di infanzia (“La barca trovata”, “Giustizieri”), personalmente mi sono parsi i testi meno riusciti; in altri si percepisce il peso della vecchiaia ( “Una cosa che volevo dirti da un po’”,”Marrakesh”, “Vento d’inverno”), sono quelli che ho prediletto, in altri cogliamo donne nella piena maturità ma ancora profondamente irrisolte (“Materiali”, “Come ho conosciuto mio marito”, “Perdono in famiglia”,”Dimmi se sì o no”, “La dama spagnola”, “Cerimonia di commiato”, “L’Ottawa Valley”).
Solo un racconto si focalizza su un protagonista maschile, non mi è piaciuto affatto.
Si tratta insomma della restituzione di verità nascoste, di sentimenti, spesso malsani ma così frequenti e umani, di verità scomode lasciate affiorare affinché un penna magistrale potesse coglierle, essenzialmente, senza gravarle di ulteriore peso, tantomeno di quello del giudizio. Ci ritroviamo tutte, penso. Il difficile è ammetterlo.
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LE COSE DELLA VITA
Pubblicato a puntate nel 1900 sulla Nuova Antologia, il romanzo risente in modo evidente della periodicità della pubblicazione, principale artefice di uno squilibrio fra le parti che purtroppo genera disarmonia, proponendo una narrazione lenta e fortemente descrittiva per i tre quarti dell’opera la quale va poi a culminare in un crescendo di eventi sempre più drammatici e, purtroppo, assai prevedibili.
Elias è un giovane sardo, lo conosciamo al rientro dallo sconto di una pena in un carcere del continente. È un elemento di rottura in un mondo che fa dell’onore e della balentìa due dei suoi tratti peculiari. In fondo è solo un giovane dall’animo “debole”, direi io gentile, spesso preda delle sue emozioni e in eterno conflitto con se stesso. Conosce Maddalena, la futura cognata, e se ne invaghisce immediatamente, corrisposto, nonostante si celebrino presto le nozze e lui sia intenzionato a farsi prete. La passione genera un figlio e stride con la vita che, in un susseguirsi di lutti, rammenta la vacuità della condizione umana soprattutto se consegnata tutta alle passioni.
Il testo non brilla nell’impianto narrativo, non si nutre di elementi lirici, non offre grandi spunti di riflessione eppure ha la sua valenza che è profondamente radicata nella terra sarda, nella descrizione di usi e costumi, nella restituzione di una realtà socio antropologica che ora ci appare infinitamente distante dai nostri pseudo valori e dalle odierne realtà sociali. È un mondo strettamente correlato al ciclo delle stagioni, al paesaggio, alla liturgia, complicato però da un substrato di credenze ataviche, misteriose, magiche che cozzano anch’esse con le pulsioni, le passioni, i sentimenti, le emozioni, le scelte, gli errori, la vita.
La Deledda indaga l’animo umano, lo espone ai più torbidi sentimenti , lo passa al vaglio di un sistema di valori fortemente intriso di religione cattolica, lo settaccia e lo rigenera nella fede e tramite la misericordia divina. Pochi slanci narrativi degni di nota, abbondanti ed efficaci descrizioni, un sapore genuino di Sardegna tra realismo e melodramma.
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Lascia correre
Romanzo dallo stile pulito, scorrevole, funzionale al contenuto e ad esso strettamente correlato. Si legge d’un fiato e non manca di restituire al lettore giusta ricompensa: una bella storia, tanti spunti di riflessione, un personaggio indimenticabile e soprattutto naturale empatia. Come non simpatizzare per un giovanotto che a dispetto della sua umile origine trova le risorse in se stesso per esplorare il suo percorso di vita, un ragazzotto che fa dell’amore per la letteratura la sua identità, che da adulto riesce a convivere con le storture della vita senza mai sgomitare, senza mai mancare di rispetto a nessuno, senza fondamentalmente tradirsi mai?
Apparentemente imperturbabile, possiede una grande capacità di amare che gli fa scivolare addosso le cattiverie della moglie, le gelosie di un ambiente lavorativo ostile, le mire vendicative di un collega, essendone comunque pienamente cosciente ma volutamente superiore. Mentre Stoner, tassello dopo tassello, costruisce la sua crescita personale in una parabola di vita, a mio avviso stupenda, tutto il contesto è altamente distruttivo. La sua vita coincide con il culmine dell’aberrazione umana, i due conflitti mondiali, a più riprese lo scritto evidenzia il pensiero pacifista dell’autore, e tra di essi il periodo nero della recessione economica seguita alla crisi del ’29. La stessa forza distruttiva è mirabilmente rappresentata dalla figura della moglie, dal loro matrimonio, dal destino della loro figlia; eppure Stoner resiste, il personaggio più resiliente che abbia mai conosciuto. Non sono affatto d’accordo con chi vede in lui un inetto, mai mi sono disperata per le avversità da lui patite, mai una volta, nel corso della lettura ho disapprovato le sue scelte, al contrario ho visto in lui un grande esempio di vita, una capacità, la sua, di scorgere l’essenziale e di non farsi toccare dalle miserie umane, adottando una strategia vincente, quella degli abitanti della sua terra educati all’imperturbabilità fin da bambini. Al momento delle scelte decisive, pragmatiche, fondamentali, pur soffrendo, non sbaglia un colpo. Posto di fronte alla malattia e alla morte, come tutti, sperimenta un’estrema disillusione rispetto alla sua esistenza, eppure è ancora capace di riconoscersi il giusto merito: non ci può essere fallimento laddove si ci si è profondamente rispettati e mai traditi.
“La coscienza della sua identità lo colse con una forza improvvisa, e ne avvertì la potenza. Era se stesso, e sapeva cosa era stato”.
Bellissimo, struggente, dentro il cuore.
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SONO NATA IN SARDEGNA
Cosima quasi Grazia fu il titolo voluto da Antonio Baldini per la prima edizione di un’opera postuma, incompiuta e forse solo abbozzata, pubblicata dapprima in puntate nel 1936, l’anno stesso della morte, e poi edita in volume per i tipi Treves l’anno successivo. Cosima è il secondo nome del Premio Nobel, è dunque la sua vera identità, svelata in una sorta di memoriale scritto in terza persona e teso a recuperare il perché di un’esistenza, il suo andamento, la sua origine. Si tratta di un’autobiografia romanzata e purtroppo rivista e censurata dal figlio Sardus e dallo stesso Baldini. Sul finire di questo 2016, anno deleddiano per volontà della Regione Sardegna ( ricorre l’ottantesimo anniversario della morte e il novantesimo del Nobel), la casa editrice Edes ne ha proposta un’edizione critica epurata dagli eccessi correttivi.
Che cosa si andava a celare, a camuffare, a sminuire? Semplice! Tutto ciò che comunque trapela anche dalla lettura dell’edizione baldiniana. Ci si rende conto immediatamente che lo spazio e il tempo hanno potuto poco rispetto all’amore per la scrittura, a poco è valso nascere a Nuoro nel 1871, e di contro proprio quel destino spazio- temporale ha decretato il perché di tutta la scrittura deleddiana che è profondamente intrisa nella terra di appartenenza.
Se si riesce a superare la ruvidezza di un’opera postuma, queste pagine possono essere godute come un documento sulla condizione femminile nella Sardegna di fine Ottocento e primi del Novecento, seppur in prospettiva di gran lunga privilegiata, la nostra autrice appartenendo ad una famiglia mista già avviata al processo di imborghesimento e dunque ben lontana da altri e più terribili destini.
E allora non si sarà molto lontani dai sogni giovanili, dalle speranze che animano il cuore, dai tremori che accompagnano le prime simpatie, non si sarà neanche tanto lontani da quelle delusioni cocenti che svelano l’intima essenza della famiglia di provenienza, le sue debolezze, i suoi limiti. Si scoprirà come si forma un animo esposto a miti, leggende, usanze, credenze, valori culturali che nella loro potenza distruttiva minano per sempre il cuore di chi se ne nutre; si vedrà anche come una giovane possa leggere questo bagaglio culturale trasformando l’onta in identità attraverso il necessario e doloroso passaggio del distacco, dalla propria famiglia, dalla tradizione, dalla terra, infine, di certo pagando lo scotto di sentirsi diversa, non uniformata, di sicuro colpevolizzata per il fatto di voler far valere il semplice diritto di autoaffermazione. Vale il Nobel anche solo per questo. D’altronde cosa si poteva pretendere da un una signorina sarda, bruttina, avvezza solo al dialetto, scolarizzata fino alla quarta elementare, immersa in una cultura profondamente maschilista? Brava Grazia!
“Sono nata in Sardegna, la mia famiglia composta di gente savia ma anche di violenti e di artisti produttivi, aveva autorità e aveva anche biblioteca ma quando cominciai a scrivere a tredici anni fui contrariata dai miei...” (dal discorso al conferimento del Nobel nel 1926).
Ecco perché è importante ricordarla, scoprirla, rileggere le sue opere.
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FASCINO INSULARE
Due sorelle, una buona e una irrequieta, figlie del prevosto di Eyvik, sono destinate a completare la loro formazione all’estero, se la maggiore, Thurithur, parte molto volentieri e ritorna arricchita nonostante le paure dei genitori, diverso destino attende la giovane Rannnveig la quale si decide a lasciare l’Islanda dopo mille ripensamenti. Lei è affidabile, docile, latrice di gioia, bella quanto o forse più della sorella ma non corteggiata. Tutta una società, quella ricca e borghese, si preoccupa per lei e condivide con la famiglia l’urgenza di trovarle un pretendente, senza successo. Parte insomma senza destare ansia alcuna ma giunta in Danimarca, dopo un periodo di fitta corrispondenza, lascia sgomenti tutti con il suo silenzio fino a quando non tornerà nell’isola e niente sarà come prima... Pianti, riunioni, sconquasso fanno tremare le pareti della casa paterna: l’onore è perduto, occorre riparare in ogni modo, salvare le apparenze, mantenere lo status quo. Ogni tentativo però pare vano e l’ironia dell’autore fa godere piacevolmente per ogni disfatta, fa parteggiare per la giovane che rompe gli equilibri e non è aiutata dal destino, propendendo inoltre per una sentita avversità nei confronti della sorella maggiore, interessante figura, la quale incarna tutte le virtù del buon ceto al quale appartiene: un marito importante, una famiglia numerosa, una viva vita sociale, onore e rispettabilità ma il cuore involuto nel perbenismo che le fa voltare le spalle alla sorella e le fa innalzare inutili alti muri. Godibilissima la parte nel quale se ne tratteggia una momentanea debacle. Altrettanto bello il finale siglato dalla parola amicizia che risuona però inquietante.
Piacevole incursione in un mondo letterario per me lontano, scoperta del Premio Nobel 1955, primo approccio con il maggiore autore islandese del Novecento , attento a tematiche sociali e storiche, capace di donare nel 1933 anche una storia semplice dallo stile sobrio e lineare a ribadire alcuni dei temi che interessarono la sua produzione: la dicotomia rappresentata da ciò che è islandese e ciò che è straniero, la chiusura della società isolana rigidamente divisa in ceti sociali deboli e forti, l’ipocrisia del perbenismo.
Mi ha pure ricordato la giovane Klara Gulla rappresentata da Selma Langerlof ma siamo lontanissimi dalla sua scrittura: mancano la rappresentazione del paesaggio, il simbolismo, l’atmosfera magica densa di significati, forse il comune denominatore si può ricercare nell’elemento di rottura rappresentato dall’emancipazione venuta da luoghi altri e lontani.
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E se nulla fosse accaduto?
Cinque episodi : Mille gru, I boschetti al tramonto, Il bricco dipinto, Il rossetto della madre, La stella; cinque elementi che nella loro specificità consegnano una storia o un frammento di essa o un intero mondo sensoriale che si risveglia.
La vista è rapita nel primo episodio dal particolare: la ragazza Inamura ha un fazzoletto da collo col disegno “mille gru”, è bianco su fondo rosa, Kikuji ne è come rapito mentre ignaro si avvia ad un miai, un incontro prematrimoniale nel tempio Engakuji a kamakura, invitato alla cerimonia del tè da Chicako, signora avviata ad un processo di mascolinizzazione. Progressivamente, come in una sorta di gineceo, lo stesso Kikuji si ritrova circondato da sole presenze femminili: due madri, due giovani fanciulle e la stessa Chicako. Da allora si assiste ad un recupero di eventi passati i quali si riallacciano con il presente mentre vanno convergendo nell’unica figura maschile che veicola il passato e lo trasforma rinnovandolo e in qualche modo appestandolo in un gioco di nuove relazioni amorose. Due delle donne, le più attempate sono state amanti del padre.
Il risveglio sensoriale, reso attivo dalla vista, nutrito di fantasie infantili, acuito dal ricordo di un padre ormai morto ma presente attraverso gli astanti e tramite la cerimonia del tè di cui era un cultore, scivola in un delicato erotismo, in un nuovo rapporto e nei successivi risvolti. E se nulla fosse accaduto?Non è il fatto in sé , generatore di trama, a dare lo sviluppo. È ciò che il lettore percepisce, anticipa, e faticosamente cerca di capire, il fatto è narrato nel suo realizzarsi, è colto in presa diretta, lo sguardo d’insieme può attendere. Sorprende quando finalmente ci si giunge e ci si chiede a che cosa tendesse lo scrittore. Io, purtroppo, non ho risposte, solo qualche conferma sugli eventi narrati giusto per essere certa di aver, tutto sommato, capito. Mi lascia un senso di incompiutezza come la vita, come l’occasione mancata, come l’incapacità di vivere il presente, mi lascia inoltre un maschio alla deriva, le sue supposizioni e i suoi forse.
Kawabata, maestro di stile, arricchisce ogni volta l’immaginario e incanta con le nostalgiche ambientazioni natie. Da apprezzare.
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Il paese delle nevi
Un eroe moderno
“ Esiste un passaggio dall’Oceano Atlantico al Pacifico. Io lo so, io conosco il luogo e il punto. Datemi una flotta e io mostrerò il passaggio e compirò il giro di tutta la terra da oriente a occidente”.
Uomo risoluto, impavido, dotato di grande forza di volontà e al contempo solo, animato da un grande sogno e capace di realizzarlo contro ogni difficoltà, il capitano portoghese strappato per lungo tempo agli onori dovutigli - si pensi che una delle maggiori preoccupazione di Zweig fu quella di chiarire con un sottotitolo l’identità dell’illustre sconosciuto- , incarna perfettamente l’ideale della virilità e dell’audacia per una generazione che, viste le vicende storiche, ha perso il coraggio di vivere, di amare e di lottare per i propri ideali.
La biografia del grande navigatore , oltre ad assumere per i lettori contemporanei la funzione di veicolare implicitamente siffatti pericolosi ideali, si pone inoltre come una delle numerose opere che andò a nutrire il filone biografico particolarmente in voga nella prima metà del ‘900 in Europa, e che allo stesso Zweig diede grande fama presso i lettori, tutti, anche i più comuni, anche quelli per i quali era fin da subito necessario specificare chi fosse l’oggetto della narrazione. Oggi potrebbe sorprenderci questa ignoranza, in realtà la lettura stessa chiarisce quale fu per molto tempo la gloria riservata al nostro eroe in patria, in Spagna e nel mondo. Insomma, rimasti affascinati dalla narrazione della sua titanica impresa, a lettura ultimata soffriamo per l’ingiusto destino, per la sorte avversa, per quella ironia della stessa sorte che attribuisce e dispensa allori a chi non li merita affatto. Compatiamo un destino avverso, dopo aver condiviso il trionfo della volontà materializzarsi nel bel sì strappato ad un re straniero ad armare una flotta di cinque navi , la fatica a dominare il mare, le ribellioni dell’equipaggio, la rada a pochi gradi di latitudine dal famoso estrecho senza essere consapevoli di esserci arrivati , la gioia di riuscire infine a superarlo e la conferma che una grande distesa d’acqua si affaccia per riportare alle meravigliose e tanto ambite isole delle spezie. Pagine animate da viva partecipazione contribuiscono a creare la necessaria empatia con un uomo che oggettivamente viene rappresentato con tutte le sue virtù ma anche con tutti i suoi limiti, e la narrazione di questi fatti storici, rigorosamente avvallata da tutte le fonti disponibili al momento, collima con il romanzo e si fonda in una mescolanza di generi che potremo non a torto definire biografia romanzata. Il piacere della lettura allora si impenna, dimenticate le prime lente ma preziosissime pagine, ci si ritrova immersi dall’incalzare degli eventi in un climax ascendente verso la pura avventura. L’introspezione psicologica è la regina della trama e ora siamo anche noi lì in quei cento orribili giorni in balia di un mare terribilmente pacifico con impresse negli occhi ancora le immagini dei curiosi patagoni, gli uomini dai piedi grandi, curiosi e assettati di verificare di persona i miti che circolano nella vecchia Europa sulle ricchezze di queste terre incantate, bramosi , se possibile, di estorcere anche qualche vantaggio personale oltre la gloria di far parte di questa spedizione che al porto di partenza nessuno attende più.
Neanche la fugacità della vita e una morte ridicola tolgono valore all’impresa perché “l’umanità viene durevolmente arricchita soltanto da chi ne accresce la coscienza e la conoscenza creatrice” e onore a chi l’ha fatto sacrificando se stesso a dimostrazione del fatto che il singolo individuo può trasformare la realtà materializzando sogni e illusioni. La precisa misura della terra è ormai conquistata.
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I luoghi dell'anima
Il paese delle nevi è un piccolo libro diviso in due parti, è breve ma capace di racchiudere al suo interno un rimando di molteplici significati che lo rendono corposo, intenso, fagocitante. L’incipit e l’epilogo, superbi entrambi, racchiudono a mio avviso la sua quinta essenza fatta di evanescenza, impressioni, commistione di reale e irreale, sovrapposizione di elementi visivi e stati dell’animo. Nell’incipit si racconta l’arrivo in treno nel paese delle nevi, luogo- non luogo, microcosmo incantato come il sanatorio di Davos per Hans Castorp , e tutto è affidato al rimando di un ‘immagine riflessa e sovrapposta di un personaggio , la giovane Yoko, che manterrà integra la sua ambiguità per tutta la narrazione. Ricorrono parole quali “incantesimo”, “simbolo” e si insinua il ricordo di un “allora” vissuto da Shimamura, giovane uomo che lì ha lasciato Komako, una ragazza divenuta nel frattempo una geisha. Si succedono le stagioni: era estate, sarà autunno e inverno. Lo spazio è evasione per l’uomo che lì trova rifugio camminando in montagna e allontanandosi dalla sua famiglia, è prigionia per la giovane geisha intrappolata in relazioni dalle quali forse vorrebbe riscattarsi. Lui entra in quel mondo e ne esce volontariamente, lei “dal finestrino del treno dava l’idea di uno strano frutto dimenticato dentro uno sporco vaso di vetro in una povera drogheria di paese”. Si può dimenticare un’immagine così? Imperversano i colori: il bianco della neve, il nero dei capelli della ricca acconciatura, il rosso delle labbra. Pudore, dolore, passione, timore, resistenza, abbandono: associazioni libere fluiscono secondo la personale sensibilità. La trama, quasi del tutto inesistente in questo canovaccio, affonda improvvisamente nel rosso fuoco, nel precipitare degli eventi ma non nel loro risolversi. Rimane misteriosa, interpretabile, per niente univoca, aperta.
Da leggere per apprezzarne la prosa poetica, per arricchire l’immaginario e per immergersi nella propria anima.
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IL PICCOLO AMORY
Opera prima di uno dei più grandi autori del Novecento riportata in Italia dalla Minimum fax nel 2011 e corredata da una prefazione storico-critica curata dall’americanista Sara Antonelli e da una postfazione della traduttrice Veronica Raimo, entrambe preziose per comprendere lo scritto.
È un romanzo corposo, ingabbiato in una struttura classica che prevede la divisione in due libri: “L’egotista romantico” e “L’educazione di un personaggio” inframmezzati dall’interludio “Maggio1917- febbraio 1919”. La sua genesi narra invece di un sovrapporsi a strati di vari tentativi di pubblicazione preceduti dall’uscita in rivista di alcuni racconti e di un terreno fertile all’accoglienza di uno scritto acerbo, sporco formalmente, in un contesto culturale desideroso di autori emergenti che rappresentassero un necessario elemento di rottura rispetto ad un mondo dominato da falsi valori e apparenza. Stupisce che l’autore ventitreenne avesse l’acume di trasporre in scrittura un quadro così vivido della società da lui vissuta e contemporaneamente avesse come ultimo fine semplicemente quello di sposarsi e di ingabbiarsi in quelle stesse involuzioni sociali che il suo personaggio critica alla fine dell’opera, una delle parti più godibili a mio avviso insieme alla primissima.
Tutto ruota intorno ad Amory Blaine di cui si segue la crescita e l’evoluzione come persona nell’arco del suo esordio alla vita, dalla nascita fino ai venti anni e poco più. La parte relativa all’infanzia è godibilissima nella sua stravaganza e fa approcciare in modo positivo la lettura, è molto breve e pone le basi per dar ragione della crescita di questo giovanotto e della sua formazione che riempie il resto dello scritto la cui lettura risulta sicuramente più ostica e meno diretta. Insomma si intuisce subito, aldilà del mancato ritorno in termini di piacevolezza, che si ha per le mani una di quelle opere per le quali è necessario essere aiutati nella comprensione attraverso un apparato critico che permetta di avere chiaro il contesto socio culturale legato alla produzione, la storia della letteratura americana precedente e una buona conoscenza della stessa visto che lo scritto è puntellato di precisi rimandi culturali a scritti e autori.
Detto questo, penso si possa comunque lasciare agli altri un onesto e modesto parere pur non avendo potuto al momento fruire del testo con questo necessario substrato culturale.
Leggere questo scritto permette di incontrare un personaggio letterario straordinario che riflettendo un’epoca se ne discosta venendone fagocitato. La lettura ha inoltre il pregio di restituirci quella stessa epoca nella sua essenza e di anticipare o ritrovare temi della produzione più matura. Ci solletica con la sperimentazione di diversi moduli narrativi e con un narratore ironico abilmente celato e confuso e con l’autore e con il protagonista in una commistione letteraria di grande fascino. Seppur a tratti avvertito da me come pesante, lento e prolisso ne consiglio la lettura anche solo perché ha il potere di far pensare a quella famosa linea d’ombra che già Conrad, in altri termini, aveva magistralmente rappresentato.
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James
La festa è finita
Negli anni immediatamente successivi al primo conflitto mondiale New York pullula di gente ricca, bella, affermata: qualcuno proviene dall’ovest , ha il mondo in tasca e appartiene al bel mondo, altri sono in cerca di fortuna, altri ancora l’hanno fatta , qualcun altro già pensa a migrare verso l’ovest per non rimanere schiacciato. Sono i ruggenti anni venti: c’è posto solo per chi è benestante, ricco sfondato, mutevole nei gusti e nelle idee, razzista e profondamente egoista. Tutti gli altri sono destinati a soccombere compreso chi pur essendo un “grande” ambisce all’amore.
L’io narrante Nick, tornato dalla guerra , cerca, anche lui originario dell’ovest, di inserirsi in questo mondo mantenendo però ben salde le sue convinzioni personali senza subire il fascino dell’effimero, del transitorio, dell’apparenza e filtrando per noi, senza giudicare, un mondo e un’epoca. L’espediente narrativo lo vuole il collante di due mondi, quello dei ricchi e quello dei poveri, di due aree geografiche l’est e l’ovest del Paese, dell’antefatto e dello svolgimento della narrazione che altro non è che una storia d’amore. Stabilitosi a New York, trova modesto alloggio in un’abitazione schiacciata da magnifiche ville e destino vuole che lui sia vicino di casa di un personaggio enigmatico da tutti noto per la frequenza e lo sfarzo delle sue celebri feste. L’ottica esterna di Nick, il suo punto di osservazione rendono oggettiva una realtà consolidata fatta di eccessi, smanie, conoscenze, via vai e profonda solitudine. Nick a New York ha anche una ricca cugina che rivedendolo gli lamenta l’assenza al suo matrimonio mentre era in guerra. Si incontrano nella sua bella casa e lì conosce il marito Tom, la loro figlioletta, e l’amica Jordan Baker, una celebrità dello sport. La frequentazione prosegue fino a che entra in scena Gatsby e da allora tutto si mescola, si sfalda ulteriormente e precipita terminando in tragedia.
Gran parte della narrazione è tesa a descrivere la percezione che si ha di quest’uomo e ciò contribuisce a proseguire nella lettura, gli eventi anticipati e preparati in pochi capitoli precipitano e si risolvono magistralmente in quelli finali lasciando una lettura dal sapore amaro, struggente e malinconico. Non è stato semplice apprezzarla , non è amore a prima vista, gli riconosco efficacia narrativa e aderenza ad un mondo bello e spavaldo, una malinconia di fondo che detronizza il bel mondo e il sogno americano.
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NON DETTO, NON NARRATO
Parigi. Thérèse è alla stazione Chatelet e la sua vita scorre incessante come il tapis roulant che trasporta i parigini per le quattro direttrici della città. Un cappotto giallo, quello di una donna sconosciuta, e il suo viso, incredibilmente uguale a quello della madre , cambiano il corso della sua esistenza che pare mettersi in faticosa marcia solo ora, quando sono ormai dodici anni che nessuno la chiama più Bijou. Decide di seguirla e di riannodare i nodi del passato col pesante presente.
Modiano affida ad una breve ma intensa narrazione in prima persona la cronistoria di questa ricerca, fa scattare nel lettore i meccanismi di tensione necessari per captare ogni indizio, prefigurare scenari, ipotizzare soluzioni e rendersi in qualche misura partecipe della tensione creativa. Eppure non ambisce a fornirci una storia dai contorni definiti, prepara il terreno per un quid di possibilità che non trova mai conferma. Bijou trova la madre? Bijou ritrova davvero i luoghi della sua infanzia? Bijou riacciuffa se stessa bambina? Bijou, rovistando tra i frammenti della memoria e i pochi cimeli che le sono rimasti, trova conferma della sua storia individuale? Bijou, dove sei Bijou? Il presente le restituisce chiavi di lettura, la illude e la sconvolge ma finalmente la scuote.
Quanto è difficile abbandonare le illusioni coltivate per dare risposta ad un abbandono? È necessario conoscere i dettagli? È bene sapere a tutti costi una verità o sperare di ricostruirla? Mi pare che Modiano con la fumosità e l’evanescenza del vissuto restituito in questa ricerca abbia voluto rispondere negativamente a tutte le questioni sollevate, lasciando al lettore la consapevolezza che è meglio dare un senso ad un’esperienza, ad un trauma, offrendo una lettura ostica ma efficace senza necessariamente riempirla di un contenuto.
Interessante modalità narrativa del non detto, del non narrato, del suggerito, potrei dire che è una scrittura che attiva la modalità di riflessione , è efficace ma sconcertante, si imprime sicuramente nella memoria di lettura.
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Una boccata d'ossigeno
L’ultimo lavoro di Stefano Benni è una conferma dello spessore intellettuale di questo narratore comico dotato di potente immaginazione e votato alla filosofia. È la conferma di quanto l’immaginazione possa essere una risorsa alla quale attingere per sopravvivere nel quotidiano. È lo sguardo attento di un uomo verso le mostruosità dilaganti della e nella nostra epoca. Uno sguardo ironico, divertito, divertente.
Due ragazzi, Pin e Alina, due mondi contrapposti che entrano in contatto attraverso una bottiglia magica, mescolandosi, confondendosi, sintetizzando sogno e realtà. Lui ha un babbo “Jep” e vive nel Diquadanoy; lei soggiorna, rapita , nel college di rieducazione “Hapatia”, nel mitico mondo Diladalmar. Il suo compagno è il gatto Wifi, la sua specialità è entrare in altri mondi (non per niente ambisce a diventare scrittrice). Riconosciuti? Moderni Pinocchio e Alice nel paese delle meraviglie.
L’input narrativo è una richiesta d’aiuto attraverso il classico messaggio nella bottiglia. Il resto non lo posso raccontare. Preparatevi ad un viaggio, ad un’avventura, ad un continuo rispecchiamento delle aberrazioni del mondo contemporaneo. Gusterete la fine e intelligente parodia di un mondo ipercinetico, supertecnologico, aperto alla musica di Justin Biberon (sic), teso a distruggere i sogni e la fantasia. Rimescolate le vostre letture, preparativi a ritrovare Jules Verne e i suoi mondi immaginari, Pinocchio e Alice, Raperonzolo, Edgar Alla Poe, Zanna Bianca, Moby Dick e tanti altri. Vi sono anche la cucina crudelista e il Monster Chef e pure la biblioteca borgesiana!
Non mi resta che augurarvi un buon viaggio nel regno della fantasia impreziosito dalle illustrazioni di Luca Ralli e Tambe , un bel corredo. Ho goduto di una lettura bella, fresca, divertente e dal linguaggio arguto.
Consigliato a tutti.
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Masculo sono! Quando si è veri maschi?
Opera appartenente alla svolta ideologica e culturale che portò lo scrittore, dopo una prima illusa adesione giovanile, ad una posizione antifascista e ad una produzione letteraria sfociante nella satira politica e di costume. Questi due elementi sono i cardini su cui ruota l’ingranaggio di un romanzo intelligente, vivace, siciliano quanto basta a rendere la meschinità dell’Italia intera, dunque universale.
Antonio Magnano è bello, di una bellezza rara quanto scomoda , le donne gli cascano ai piedi, lui è adulato e ricercato ma spende i suoi anni migliori a cercare in sé il fuoco necessario per alimentare la passione amorosa. Poche volte è giunto al culmine del piacere, è dunque uomo solo in apparenza , pur sentendosi avvampare non può consumare l’atto d’amore neanche quando convola a giuste nozze con Barbara Puglisi a lui destinata in un gioco di alta diplomazia matrimoniale in quel di Catania, in pieno regime fascista, alla ricerca di una giusta posizione sociale. I genitori si affannano a garantirgliela, tronfi della bellezza del figlio e incapaci di dare giusta lettura alla sua apatia, alla sua indolenza. L’onta dell’impotenza nemmeno li sfiora ma giungerà a travolgerli.
Un sottile garbo ironico pervade lo scritto e dona piacevolezza al lettore. Asciutto nelle sequenze narrative, frizzante negli scambi dialogici, il romanzo si fa apprezzare anche per lo stile capace, proprio attraverso i brillanti dialoghi, di restituire atmosfere,sensazioni, convenzioni culturali, etiche, religiose, in una galleria di tipi umani indimenticabili e perfettamente caratterizzati.
In un mondo retto da falsi ideali si muovono le macchiette: chi fa a gara per diventare podestà, chi soggiace al volere del marito, chi fa il vero marito, chi fa il moralista e poi è peggio degli altri. Fra tutti il padre Alfio è indimenticabile e nella sua mascolinità bello ,fiero , vanitoso e tremendamente ridicolo.
Divertente, oserei dire, per siglare in un unico giudizio l’opera che risulta però amara come una menzogna scoperta, come una contraddizione in termini.
Utile la nota finale di Leonardo Sciascia che accosta l’opera all’”Armance” di Stendhal contribuendo dunque ad attivare nuovi circoli letterari in un gioco di continui rimandi.
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CITTADINO DEL MONDO
Andrò a parlare del libro conosciuto ai più attraverso la traduzione censurata restituita nell’acerbo 1940, coraggiosamente, dalla Bompiani e dal suo traduttore Carlo Coardi.
Il 2013 ha visto nascere una seconda volta il romanzo, sempre in casa Bompiani ma con una traduzione fedele, a quanto dicono gli esperti, al testo originale. Non essendo capace di una lettura in lingua , ritrovandomi in casa il testo in prima traduzione italiana, quello ho fruito.
Ebbene, ho letto un romanzo che restituendomi una geografia e una storia ben circoscritte al sud degli Stati Uniti, negli anni immediatamente successivi alla Grande Depressione, mi ha però prepotentemente rimandato all’orribile presente che viviamo ora, in Italia, in Europa, nel mondo intero.
I processi migratori non sono eventi eccezionali che segnano epoche ben definite, la storia insegna tutt’altro. Questo romanzo ha il potere di rappresentare attraverso le vicissitudini migratorie della famiglia Joad il sentimento di possesso, di identificazione, di esclusività che proviamo quando pronunciamo le parole “la mia casa”, “la mia terra”, “la mia patria” e quando strenuamente le difendiamo da oscure e generalizzate minacce e quando , in posizione meno felice e sicuramente più sofferta, un qualche evento ci strappa ad esse. Potrebbe anche non essere la necessità di sfamarsi, di trovare lavoro per farlo, e sì che lo hanno fatto i nostri nonni e nella mia terra lo fanno ancora i giovani, perfino per studiare; potrebbe semplicemente essere un evento che si definisce straordinario ma che di fatto quando arriva in quella situazione ti fa vivere (un terremoto? un’alluvione? una catastrofe nucleare?...non so). Ebbene allora tutti saremmo capaci di capire cosa significa non avere più la casa, il lavoro, la sicurezza e dover trovare una soluzione per ripristinare una situazione, la più accettabile possibile. Chi di noi non lo farebbe? Chi non cercherebbe un futuro migliore? Chi non offrirebbe speranza ai propri figli?
La famiglia rappresentata lo fa, subisce, patisce, cerca, trova e perde. Perde membri della stessa famiglia, perde consuetudini e con esse valori etici, perde la speranza di un’illusione, si scontra con fatica, povertà, sottomissione, odio e mantiene viva la volontà di sopravvivere. Ci sono due personaggi in particolare che tengono alta la speranza: Tom e la mamma; gli altri- a contorno- definiscono un quadro sociale in decadenza. Può essere il capofamiglia defraudato dal suo ruolo che subisce la capacità organizzativa della moglie e il potere decisionale che essa assume gradualmente, può essere la giovane figlia che paga il prezzo dell’illusione dell’amore con una gravidanza in solitudine , oltre che precoce, può essere un pastore che ha nutrito la sua vocazione con la Bibbia e si ritrova a organizzare il diritto allo sciopero della massa di braccianti. Mi è piaciuto tanto questo libro, a prescindere dal contesto socio-culturale ed economico che lo ha nutrito, a dispetto delle critiche che lo hanno tinto di rosso, a dispetto della traduzione italiana che lo ha restituito monco ma comunque potente. Non sono in grado di esprimere considerazioni sullo stile autentico ma ciò che ha traslato Coardi è sufficiente per capire, eccome. Qui il contenuto è più importante, il messaggio di speranza che traspare ( e spero non sia buonismo italiano in chiave fascista), la forza dei dialoghi e delle immagini. Da leggere e se si ha curiosità comparando le due traduzioni. Non provate però a comparare i tempi, quelli, ahimè, non mutano mai.
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IL GIOVANE MANN
Il romanzo , corposo, ancorato ai moduli narrativi tipici della prosa ottocentesca , caratterizzato da un registro stilistico elevato, è anche una godibilissima opera da leggere con vivo trasporto. Scritto a soli 25 anni diede grande fama all’autore e gli permise di rappresentare, attraverso la decadenza di una dinastia di Lubecca, il conflitto vissuto in prima persona quando ruppe con gli schemi borghesi della sua ricca famiglia di commercianti abbandonando gli studi per dedicarsi esclusivamente all’attività letteraria.
La narrazione segue le alterne vicende della famiglia Buddenbrook incentrandosi prevalentemente sul destino della piccola Antoine e dei suoi due fratelli Thomas e Christian. Abile l’autore a farci affezionare ai tre, seppur così diversi, a farci vivere il loro modo di leggere la transizione da un’epoca all’altra o l’incapacità di farlo. Suscita immediata tenerezza Tony/ Antoine, costretta alla politica matrimoniale di rango e totalmente asservita ad essa, lei rigidamente impostata sul blasone che non può scolorire, sull’incedere a testa alta per preservare il buon nome della sua famiglia. È ammirevole l’abnegazione di Thomas che si scontra col mutare dei tempi e con i solidi modelli del nonno e del padre ormai poco opportuni. È comprensibile il disorientamento del fragile Christian e la sua naturale dissipatezza.
I vecchi muoiono, i giovani soccombono. Triste romanzo, lucido, sapientemente descrittivo, anticipatore di temi cari al grande autore tedesco: il crollo del mito borghese, lo scontro fra ideale e reale, i grandi interessi culturali (in questo caso la fa da padrona la musica nella parte finale), l’amore omosessuale, la decadenza, i dilemmi dello spirito. Opera da leggere , ha il pregio di tenere vivo l’interesse del lettore fino all’ultima pagina stampando nella memoria di lettura scenari, ambientazioni, tipi umani difficilmente dimenticabili. Invoglia anche ad una visita alla città di Lubecca, nota per la conservazione del suo centro storico medievale, e alla casa natale dell’autore, aperta al pubblico e ispiratrice delle splendide descrizioni dell’opera.
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Tra le righe
Erri De Luca torna alla scrittura provato dalle note vicende giudiziarie che lo hanno visto coinvolto recentemente. È pronto per dedicarsi ad essa e per veicolare su carta l’ennesima storia che dichiara non sua: un racconto di un amico scultore in bronzo, Lois Anvidalfarei, il quale, avverte l’autore, forse non riconoscerà in tutto e per tutto l’oggetto della sua narrazione. De Luca dà l’impressione di appropriarsi di uno spunto narrativo interessante per convogliare interessi, sensibilità del suo percorso di uomo e di artista, probabilmente sintetizza le proprie incertezze, i propri dubbi, o semplicemente si ritrova nelle parole di un amico che nato a Badia, in Alto Adige, ha sperimentato la chiusura della chiesa altoatesina con le sue sculture Figliol prodigo e Adamo.
Uno scultore vive nel più improbabile luogo di frontiera quale è la montagna, inadatta al reticolato, alla barriera fisica, ricca invece di passaggi naturali che nessun confine politico può cancellare, aiuta i profughi che giungono al suo villaggio nell’ attraversamento clandestino del medesimo confine ma a differenza dei suoi due amici che si dedicano a questa attività per lucro, restituisce loro, a impresa riuscita, la somma prima richiesta. Tra i suoi fortunati “viaggiatori” appare uno scrittore il quale stabilitosi all’estero fa conoscere al mondo la storia del santo traghettatore. Il clamore suscitato dalla stampa sottrae agli amici la possibilità di proseguire nei loro traffici per cui essi costringono l'amico a lasciare il luogo natio. Lo scultore va a vivere in una località marina, Napoli vicina. Lì cerca lavoro come restauratore di sculture e ottiene il restauro di un crocifisso dei primi del novecento: lo si vuole riportare allo status originario quando la nudità del Cristo era raffigurata e lo scultore aveva reso fedelmente l’usanza del crocifiggere nudi, nessun drappo a mascherare una parte del corpo che desta imbarazzi nella figura del Cristo. Lo scultore libera la statua dalla censura marmorea voluta tempo prima dalla Chiesa. Il breve racconto ricostruisce la storia della scultura e i passaggi necessari all’artista per scoprire il messaggio dell’opera originale così da riportarla fedelmente ,a restauro avvenuto, anche quando sotto il drappo appare un principio di fisiologica erezione...
I temi trattati sono tutti interessanti: la montagna, le migrazioni, la visibilità di ogni singolo essere umano, la tensione creativa, il binomio artista- opera d’arte, la fede, le religioni, eppure tutto appare solo accennato, citato, richiamato per cui, a parte la modesta tensione narrativa delle ultime pagine, tutto scorre molto velocemente senza lasciare alcuna impressione profonda. Fatto salvo che si respira un Erri De Luca invecchiato e a tratti stanco ma ancora capace sinceramente di palesarsi anche quando racconta la storia di un vecchio amico. Tra le righe c’è un uomo non più giovane che lotta ancora con i suoi dubbi ma pare aver abbandonato la tipica intransigenza giovanile.
Lo consiglio a chi apprezza l’autore anche solo per i suoi interessi, le pagine dedicate alla montagna sono le più riuscite, a chi si interessa di scultura, a chi ama semplicemente l’autore.
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SOGNI E INCUBI
Terminata la lettura di questo romanzo, quello d’esordio del grande narratore americano, si viene ancora una volta sorpresi e dalla capacità narrativa dell’autore e dalla sua particolare originalità che, per chi ha già letto parte importante della sua produzione, stupiscono essere presenti in un’opera prima.
La narrazione è incentrata su un uomo solo, annientato, piegato ma non ancora sconfitto, inutile dire, per chi già conosce la poetica dell’autore, che allo status di vinto si avvierà, come tanti suoi antieroi della produzione successiva : l’ebreo della Russia zarista vittima di un errore giudiziario, l’ebreo americano votato al suo umile commercio , il professore di letteratura alla ricerca del suo riscatto come individuo, o ancora l’artista fallito costretto ad un eterno apprendistato. Sono Mendel Beilis, Morris Bober, Seymour Levin e Arthur Fidelman e il loro antenato è Roy Hobbs, giovane promessa del baseball americano.
Roy Hobbs è un personaggio impreziosito da una serie di caratteristiche che lo elevano agli occhi del lettore in una dimensione quasi epica: è dotato di un talento naturale per il baseball, è uno sprovveduto, ingenuo e sognatore, è accompagnato dalla sua inseparabile mazza Wonderboy che lui stesso ha ricavato da un albero colpito da un fulmine, ha un debole per le donne, è purtroppo anche uno che non si accontenta mai. Mentre si avvia, ancora giovanissimo, ad una brillante carriera, diviene la terza vittima di una pistolera che sta sterminando a suon di pallottole d’argento il fior fiore degli atleti americani. Colpito al ventre si salva ma subisce uno stop di quindici anni durante i quali si arrangia a far di tutto per sopravvivere e riacciuffare il suo sogno. Ormai superati i trenta riesce a farsi accogliere da una squadra sull’orlo del collasso e tenterà di far vivere col suo riscatto personale quello di un’intera squadra.
L’ambiente sportivo è realisticamente rappresentato e regala un’ambientazione sobria, viva, verace dove il lessico sporco non stona mai e si addice perfettamente al mondo restituito. La specificità relativa allo sport , anche quando non conosciuto, è facilmente dribblabile e non mina la comprensione globale. Alle basi, alle linee di foul, alla casa base, allo strike si accompagna una vicenda umana che fa palpitare tenendo incollati gli occhi alle pagine, suscettibili come non mai se si viene interrotti nella lettura e bramosi di saper che ne sarà di questo ragazzone. L’alternanza di sogno e realtà, Roy è vittima di incubi ricorrenti e di sogni ad occhi aperti, contribuisce inoltre a tenere desta l’attenzione sperando sempre che il realismo dell’incubo dissolva e l’evanescenza del sogno si materializzi.
Non posso anticipare niente della trama, aggiungo solo due belle donne, l’una l’antitesi dell’altra, gli allibratori dello sporco mondo delle scommesse, un antagonista morto il cui fantasma si impone prepotente, i sogni di gloria, la volontà di riscattarsi e la capacità di non tradirsi.
Leggetelo!
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L'uomo di Kiev
Una nuova vita
POESIA GIOVANILE
Un tono piacevolmente nostalgico avvolge da subito il lettore, probabilmente quello che nonostante l’età continua a crogiolarsi nei suo sogni, nelle sue speranze, allontanando le intime disillusioni che hanno reso il suo animo progressivamente e inevitabilmente più duro. Ci si sente schiacciati già dalle prime righe, timidamente vergognosi di ammettere che sotto il bellissimo cielo stellato, luminoso che contempla il narratore ci stiamo probabilmente anche noi tra le “persone irritate e capricciose”. E allora come è possibile che di fronte alla bellezza del creato l’essere umano non soccomba smettendo di cedere all’insulso negativo? Come è possibile che la nostra anima giovane sia evaporata o sia così evanescente? Eppure anche i giovani possono essere nature imperfette, capricciose, irritate, inadeguate...sole. La solitudine è sicuramente la compagna del protagonista che, Pietroburgo svuotata dei suoi attori partiti in vacanza, prepotente mostra il suo vero volto al giovane sognatore privato della folla che mai lo notò ma di cui lui si nutriva. Sono le prime pagine, coinvolgenti, intense, poetiche di questo breve romanzo edito nel 1848 appartenente alla primissima produzione del grande russo. Il resto è l’incontro con un’altra anima ferita- una giovane ragazza innamorata in attesa del ritorno del suo amato - seguono gli appuntamenti concatenati l’uno all’altro, tutti nel corso di magiche notti -crepuscoli impavidi che non cedono il passo al buio- la conoscenza reciproca, le confidenze, il patto d’amore, il tempismo che in un attimo dona tutto per tutto rubare.
Sorprende l’economia della scrittura puntellata di dialoghi e capace di regalare l’utopia di un lieto fine che non ci sarà, facendoci appunto ancora una volta sognare e gioire per scoprire poi che anche la disillusione, vissuta una bella esperienza seppur breve e traditrice, può concedere la gioia di un attimo fermato nell’eterno. Poesia giovanile, appunto, da adulti ci si scontra con la presunzione che la felicità possa essere duratura nel tempo e perfetta ed è sempre più difficile accettarne i limiti.
Sempre bello leggere questo grande scrittore che ha il potere di mettere a nudo l’animo umano spogliandolo di inutili orpelli e riconducendolo sempre a quella disordinata matassa che è la sua essenza.
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DIMENSIONE TEMPO
Un’ ossessione perseguita Stephen e la moglie Julie da quando la loro bimba di tre anni, Kate, è stata rapita in un supermercato, mentre il padre che era con lei chinava il capo per una frazione di secondo in un gesto di routine, tipico di chi è alla cassa.
Da quel momento l’incapacità di condividere l’immenso dolore opera una frattura insanabile che allontana i due, la narrazione da allora predilige il percorso dell’uomo e ci rende partecipi della sua esistenza o meglio sopravvivenza.
La caratteristica principale della scrittura è la sua perfetta adesione ai singoli momenti che si vogliono rappresentare e ciò emerge con uno stile potente, nel ritmo serrato, asfittico, carico di tensione che si coglie nelle pagine dedicate alla sparizione di Kate o ancora in quello dilatato all’estremo, teso a fermare il tempo scindendolo in nitidi fotogrammi separati, che si respira nelle pagine dedicate all’incidente automobilistico in cui si trova coinvolto Stephen, o in ultimo nelle bellissime e ancora una volta sorprendenti ultime pagine dedicate ad un evento risolutivo degno dei migliori lieto fine. La narrazione però vive anche di momenti statici ai quali manca uno sviluppo narrativo imminente e allora può predominare la noia. Il materiale narrativo oltre alla rappresentazione degli stati emotivi dei due genitori, è dedicato alla critica del sistema politico inglese, alla dimensione temporale e alla sua ineffabilità come nella miglior lezione di T.S. Eliot dei “Quattro quartetti”, all’attenzione verso l’età infantile intesa dall’autore come un’età magica che segna tutta l’esistenza e che può prepotentemente riemergere, nei suoi tratti peculiari e scomodi, anche durante l’età adulta talvolta concedendo lussuose fratture temporali , tutte da scontare. La nostalgia dell’infanzia, il senso del tempo, la sovrapposizione dei suoi attimi inducono a interessanti riflessioni,riportano alla memoria i racconti de “L’inventore di sogni” e incuriosiscono circa la restante produzione.
Consiglio la lettura in virtù di quanto scritto, consapevole che a numerosi lettori è piaciuta in modo incondizionato questa produzione. Io, al momento, ho maturato un giudizio di gradevolezza ancora tiepido dovuto al fatto che percepisco questa scrittura originale e a tratti coinvolgente ma emotivamente spenta, involuta, fredda, se non rari sprazzi.
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Libro parlato e identità
Rivelato da Bassani nel 1963 proprio con questo scritto, il veneto Meneghello è una voce narrativa che è utile scoprire ma soprattutto ascoltare. Come si fa ad ascoltare un libro quando lo si legge? Lo si potrebbe declamare a voce alta ma solo uno di Malo lo saprebbe fare, eppure a più riprese ci ho tentato ma le mie corde vocali, cristallizzate ormai da tempo immemore sulla altrettanto bella e complessa fonetica sarda, non riescono a produrre quei suoni che ho potuto solo immaginare. Sarebbe allora bello pensare ad un vero e proprio audiolibro che potrebbe restituire, penso, tutto il valore dell’opera. Si badi bene, con ciò non sto minimamente affermando che non sia fruibile in altro modo, anzi me ne guardo bene. L’opera, scrittura mista oscillante tra il memoriale e il reportage, è scritta in ottima lingua italiana ma gioca su più livelli linguistici facendo leva sul latino- basti pensare solo al titolo- sull’inglese, l’autore visse in Inghilterra dove fondò e diresse a Reading la cattedra di Letteratura italiana, sul francese e sull’italiano stesso , per quanto mi è stato possibile dedurre.
Sul filo della memoria Meneghello restituisce intatto un mondo, quello del suo paese natio, fornendo una galleria di tipi umani, di situazioni, di storie che nella loro autenticità hanno il potere di far godere della lettura come se fosse un film in presa diretta, con l’audio sporco, disturbato. Non c’è una narrazione vera e propria, si fatica soprattutto nella prima parte a seguire il filo che , seppur debole, è presente e ci porta a immergerci nella vita di una comunità fatta di una pluralità che l’autore non vuole focalizzare su un unico nucleo famigliare anche se poi, inevitabilmente, la forza centripeta porta alla sua famiglia, una tra le tante che compongono quell’universo. Se poi chi racconta condisce il tutto con una godibilissima ilarità e una sagacità linguistica ci si ritrova a sorridere di quel fazzoletto di terra, di quella gente e incredibilmente ci si ritrova, penso, in tutte le regioni della nostra Italia. L’educazione cattolica, il latino delle messe mal digerito e mai compreso, il patrimonio linguistico, la storia che entra prepotente in casa e nemmeno si capisce perché ci travolge, l’esigenza di comunicare nella nostra lingua madre o per altri in dialetto quando la potenza dell’altra nostra lingua materna non ha la parola nel suo infinito, e ancora sconosciuto ai più, lessico. La musicalità della lingua parlata, le sfumature lessicali, la sintassi concorrono a evidenziare le sfumature culturali che ci caratterizzano e il libro di Meneghello riesce a far percepire e a far riflettere, soprattutto quando si abbandona a deliziose divagazioni saggistiche ( linguistiche e antropologiche), sul senso della nostra identità, della nostra cultura, dei nostri valori, del nostro essere.
Liberarci di tutto questo è mai possibile?
No. La lingua, l’appartenenza geografica, la cultura materiale, il sistema di valori che ci formano da piccoli li portiamo con noi per tutta la vita in qualsiasi parte del mondo anche oggi quando tutto appare ibrido. Ottimo pertanto il valore culturale di quest’opera , ne consiglio la lettura lenta e sono certa che offrirà a tutti ottimi spunti di riflessione e una certa identità ritrovata.
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Fame d'azione, sete di fede
Il secondo romanzo scritto da Ignazio Silone in esilio, tra il ’35 e il ’36 dopo l’esordio di Fontamara, è incentrato sulla storia di un uomo, Pietro Spina, per molti tratti l’alter ego letterario e ideologico dello scrittore. Il protagonista è in esilio e, malato, sente prepotente il richiamo della sua terra dove torna celando la sua vera identità e vestendo i panni di un sacerdote. Tra alterne vicende entra lentamente in contatto con una comunità che subisce, come qualsiasi altra disgrazia, il fascismo , quasi senza patire più di tanto. Si assiste ad uno scontro di priorità: il vecchio mondo fucinese gratta la terra, attende le stagioni, ne patisce i capricci, si arrocca su valori saldi ma più di tutti sull’onore, non è deprivato della propria libertà, la terra l’ha già ampiamente vincolato. Di contro il non più giovane rivoluzionario, il prete anziano, qualche altro nuovo giovane patiscono la libertà negata. “La politica è un lusso riservato a persone ben nutrite”, i poveri hanno un sistema morale che mira a salvaguardare le apparenze e poi rotolano, insozzati, nei loro stessi peccati. Le giovani si procurano aborti rischiando di morire, le mamme piangono il disonore, gli amori sono sottomessi all’economia domestica o a matrimoni più fruttuosi, può capitare che non ci sia posto neanche per l’amore verso Dio quando la donna serve in casa. Gli uomini escono la mattina, tornano la sera, sulle spalle il peso di una terra sempre meno produttiva. Ognuno vive come può. In queste lande desolate neanche il conforto di un prete è garantito, c’è sete di sacramenti, c’è bisogno di conforto spirituale. Il rivoluzionario malato e passivo si ritrova, non volendolo affatto, a svolgere questo ruolo. D’altronde dov’è la Chiesa? Aspetta tempi migliori, si pasce di un concordato, non cura le anime ferite e meno che mai si sogna di denunciare soprusi, guerre, ingiustizie. China il capo, come tanti.
Pietro no, non ci sta, tenta con tutte le sue forze l’azione ma è confinato, peggio che in esilio. Pochi atti sono a sua disposizione e quel poco che può lo fa , intanto lascia al suo passaggio la stessa nomea che lo aveva preceduto arricchita stavolta di alti valori morali che pur non appartenendogli per credo religioso sono proprio quelli che ci si attenderebbe da un’istituzione che non è riuscita a proseguire l’opera di Cristo.
La lettura di questo romanzo è gradevole, notevole invece è la sua importanza storica e letteraria se pensiamo che circolò clandestinamente in Italia quando niente era concesso. Ha sicuramente infervorato quegli animi puri che nessun potere poté piegare. Oggi , mutati i tempi, la lettura è utile a tutti perché rimarca la necessità di preservare la propria libertà di coscienza a dispetto dei tempi che si vivono e dei fatti che si subiscono. L’azione è nella nostra coscienza, sempre: essa è la forma di fede più alta che si possa perseguire. Il potere politico? “Intrabit ut vulpis, regnabit ut leo, morietur ut canis”. Vi ricorda qualcuno? A me più di uno!
Insomma, sempre attuale.
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il segreto di Luca
Dignità
Fin dove può spingersi la libertà individuale? Quali strani meandri percorre il libero arbitrio? O più semplicemente : quanto è potente la dignità umana?
Per avere una risposta, univoca, a questa ultima domanda, occorre non solo leggere questo libro ma scoprire, per i tanti che non la conoscono, la vicenda umana e la produzione letteraria di Ignazio Silone al quale una ingiusta e incompetente critica ha, in unione con le circostanze della vita, precluso la notorietà in patria e rallentato la sua conoscenza successiva.
Il romanzo in questione racconta la vicenda di Luca Sabatini un uomo che , segnato dalla ingiusta condanna all’ergastolo, graziato ma non riabilitato da un nuovo processo, torna nel suo paese, Cisterna, dopo la confessione in punto di morte del vero assassino. Quarant’anni di vita congelata per Luca si rispecchiano nell’immobilismo del paese abruzzese che all’ombra delle sue rovine non riesce a mutare la propria identità. Il paese è popolato di vecchi, tutti ricordano la vicenda e molti ne sono stati segnati perché il pensiero collettivo non ebbe la forza di opporsi alla decisione individuale di Luca di far correre gli eventi. Molti, consapevoli della sua innocenza, si riunirono in un unico sentimento: l’accettazione della libertà individuale che però creò in loro un’insanabile frattura morale, un tormento dell’anima, una macchia indelebile che la rinnovata presenza di Luca riapre come una ferita mal cicatrizzata. Tutti lo temono, lo sfuggono e di nuovo, lo condannano. Solo il giovane Andrea, antifascista anch’egli appena rimpatriato, si interessa a Luca e, in una dimensione di estraneità dal paese e dai suoi segreti - data dal suo alto senso civico e morale- conduce una ricerca della verità che mira a ricomporre le diverse prospettive dei suoi compaesani per scoprire poi che tutto si riduce ad un’unica realtà : la grandezza morale del singolo che non teme la collettività e che persegue i suoi alti ideali. Tutto il racconto è teso dunque a rivelare il segreto di Luca, in una lettura veloce e godibile che cela fra le righe i valori cristiani e politici che animarono l’uomo Silone.
Da conoscere sicuramente.
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Che fare?
Esautorato da ogni possibile attivismo, esule scampato al disordine interno della sua patria, disilluso dalla sua stessa statura morale che non gli permise di gradire la svolta stalinista del suo partito, solo a Davos, in Svizzera, lo scrittore abruzzese ricercò la compagnia della penna , scrivendo questo importante romanzo, e della sua terra, rappresentandola stretta nella morsa della storia fatta dagli usurpatori, di qualunque specie, e di suoi tre compaesani, i quali immagina a loro volta esuli al suo cospetto.
Inizia così il romanzo, con l’intento di raccontare ciò che è stato di Fontamara, piccolo paese della Marsica, inesistente nella carta geografica ma lì, vivo, nel Fucino, come tanti. Il racconto è affidato proprio alle voci narranti dei tre esuli: padre, madre e figlio. La loro vita e le loro peripezie restituiscono il travaglio dell’intera comunità pur focalizzandosi sul destino di alcuni piccoli uomini e di alcune piccole donne.
Il candore della narrazione affidata ai tre compaesani ha la potenza di rappresentare, senza intermediazione alcuna, in un abile stratagemma narrativo, lo stupore e l’ingenuità di una comunità che ha registrato per secoli la realtà su determinati schemi mentali,su logiche assodate, e che ora non ha alcun strumento per dare lettura alla realtà cambiata. Non ha cultura, il cafone, per evitare gli imbrogli, non ha informazioni per capire il segno dei tempi mutati, non conosce problema che non sia direttamente riconducibile alla sua stretta e grama esistenza. Lo sguardo lungo può giungere solo a capire i minimi scarti registrabili in una corta scala sociale: non c’è movimento, ormai, neppure minimo. Ognuno è condannato al suo stato sociale. Berardo, la figura tragica della narrazione, rappresenta questo immobilismo e il misero tentativo di combatterlo. Le oscure figure che dettano le regole attuali, i fascisti, possono essere contrastate se si vuole modificare la propria condizione; si assiste così ad un’ evoluzione politica dello spirito di questo emblematico personaggio che, mosso da un intento di riscatto individuale, si immola ad una causa senza in fondo capire bene la sua scelta depauperata dalla sua carica idealista, venute meno le premesse individuali che lo portarono all’azione.
La narrazione ha il pregio di restituire l’impatto della barbarie fascista sui poverini cafoni , ignoranti, ingenui, inconsapevoli e vittime fin troppo gratuite di un artificio storico. Le pagine si nutrono di una sottile e amara vena ironica che la realtà stessa determina nel tentativo di decodifica di un quid astruso, incomprensibile, sfuggente che è però capace di suscitare almeno una domanda: “Che fare?”
Amaro ma fondamentale.
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Loro gli evangelisti, lui il Padreterno?
Quattro come gli Evangelisti al cospetto di un Padreterno del quale non vogliono rivelare l’identità, un soldato, un poeta, un barone e uno studente aspettano l’alba della loro morte. Cospiratori condannati alla ghigliottina condividono l’ultima notte con frate Cirillo, noto rivoluzionario. Chi sono in realtà questi uomini, qual è la loro identità svelata in parte dal loro ultimo racconto in quella terribile notte? È vero ciò che raccontano? Intanto il Governatore attende quel nome, in cambio, chi lo svelerà , avrà salva la vita. Loro decidono invece di non cedere alla tentazione e accolgono l’invito del pesto frate Cirillo a trascorrere le ultime ore raccontando il loro momento di massima felicità.
Quando in vita furono veramente felici?
Si apre così una narrazione dentro la narrazione, un Decameron notturno che allontana l’attenzione del lettore dall’evento atteso. Ogni racconto ci immerge in un mondo a parte , in atmosfere ancora più irreali, atemporali,rispetto a quelle, bellissime, già assaporate nella cornice. Ognuno dei quattro episodi è seguito da riflessioni e commenti. Tutto diventa fumoso, evanescente ma compiuto come una narrazione perfetta. Un colpo di scena finale riassume l’intento del sagace Bufalino e ne rappresenta al massimo grado l’ingegno, l’estro, l’acume. Come in ogni sua opera i rimandi extratestuali arricchiscono una prosa ricercata dal linguaggio forbito ma gradevole: una vera sfida all’ingegno e un piacere quasi musicale.
Sempre consigliato.
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Cara terra mia
“Da quando mi ricordo, qui da noi sono venuti dapprima gli austriaci, poi gli italiani, dopo i tedeschi; infine siete venuti voialtri. Tutti se ne sono andati, ed erano più forti di voi. Io stesso ho visto cadere prima l’aquila, poi il fascio e la croce uncinata. Perché un giorno non dovrebbe cadere anche la falce e il martello?”
Con questo interrogativo Francesco Kozlovic’ sfida il potere, la prepotenza, l’ingiustizia, semplicemente presentando la verità storica che anche un umile colono è in grado di constatare: Materada è terra di confine, terra schiava, terra bella e meravigliosa ma destinata ad essere posseduta. Qui il secondo dopoguerra sancisce l’ennesima beffa dei territori spartiti e condanna gli uomini ad una scelta improbabile, innaturale, una seconda vita e una seconda anagrafe. Il contadino di Materada, pur povero e vessato da uno zio imbroglione che lo ha reso nullatenente, dovrà fare anch’egli quella dolorosa scelta, dovrà ponderare bene il destino dei figli, dovrà decidere se mantenere saldo l’atavico legame con la terra, patria e suolo da coltivare, o salutare gli avi sepolti nel cimitero.
Non una riga di questo romanzo si abbandona al lirismo, non una pagina porta alla commozione dell’animo, né un intero capitolo si veste di pianto, eppure con una prosa asciutta, secca, viva e sincera ci si ritrova a patire per il destino di quelle genti, a comprenderne le ragioni, a sperare per loro. Vi sono delle pagine, soprattutto da metà opera in poi, che è difficile abbandonare e, a lettura ultimata, rimane forte nel cuore il sentimento della vita: sincero e pulito, senza fronzoli come la prosa di Tomizza.
Vivamente consigliato.
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Antica capitale
Romanzo breve dalla prosa venata di malinconica poesia, Koto è uno spaccato di vita, un affaccio discreto che mette momentaneamente alla ribalta un briciolo di umanità e tutta la sua carica emotiva.
Chieko è figlia adottiva di una coppia formata da un pittore e una commerciante, vive nell’antica capitale Kyoto , incontra per caso sua sorella gemella e si riappropria di una parte del suo passato. Le differenze sociali tra lei e Naeko impediscono un sereno proseguo del ritrovato rapporto che si chiude repentinamente come è nato.
Koto è il canto del cigno, è il tramonto del sole in una notte infinita, è l’intensità di un amore covato nel medesimo grembo , più forte del tempo e delle circostanze.
Koto è l’antica città imperiale che deve soccombere al mutare dei tempi, è lo splendore della natura, è la lentezza della cerimonia del tè, è la bellezza nascosta del particolare: una coppia di gemme su un acero maestoso, un dettaglio nella seta dell‘ohi.
kyoto è anche la città dei tessitori, dei kimono, delle feste, dei fiori in primavera e in inverno. Direi che è la vera protagonista del romanzo : la millenaria aperta all’Occidente, la malinconia della tradizione che va a tradirsi, a mutare, a sparire ingerendo tempi e ritmi non suoi, non naturali. È il sentimento della vita che tradisce, che soggioga, indurisce e abbruttisce ma è anche la forza di chi vuole rimanere fedele a se stesso, alla sua storia, alla sua tradizione. Le due sorelle, a mio avviso, con le loro scelte- l’una promessa sposa per convenienza, l’altra mancata sposa per rettitudine morale- incarnano il destino dell’antica capitale alla quale Kawabata ha voluto dedicare un delicato poema.
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ORIGINALE ESORDIO
Una nuova pubblicazione si affaccia sulle scene editoriali italiane, un libro di poco più di cento pagine il cui titolo ricorda immediatamente il gioco della morra cinese. L’autore è un giovane sardo, il genere è atipico, la struttura complessa, lo stile efficace e alto.
Un prologo firmato Egidio C. Sanjust , datato Tangeri, ottobre 2112; una prima parte “Il contesto”:pochi sprazzi del 2037, un batti e ribatti tra il direttore di una rivista intitolata “Sardus Pater” e un suo fedele lettore, una seconda parte “La miccia” giugno 2037/ novembre 2037; una terza parte “Il boom (ricordi a tappeto) anni 2046/47; una quarta parte “Ceneri” (2067) che copre a ritroso gli anni dal 1993 al 2018. Un epilogo: 2107.
Destreggiarsi tra i vari piani temporali è una sfida al lettore che viene invitato implicitamente a dipanare le fila di uno scenario urbano, politico, sociale con epicentro Cagliari e villa Zevi, sede di una ONLUS che verrà implicata in un processo mentre gli scenari mondiali mettono in essere l’ennesimo conflitto. I fatti vengono presentati attraverso dei documenti seguendo un criterio da indagine storica con recupero di fonti rappresentate da scambi epistolari, diari privati, conversazioni intercettate, memoriali. Una vera e propria ricerca storiografica mirante a colmare i vuoti di comprensione che gli eventi generano e la cui interpretazione porta alla stessa distorsione della Storia. Al di là dei fatti narrati o meglio degli stralci di vissuti recuperati, al di là degli attori ( Pier Giorgio e Lucrezia, Marta, Elia, il pugile Cappai, il cabillo Cargeghe), cioè che personalmente mi colpisce è l’insieme di messaggi impliciti che mi è parso cogliere.
Il filone sociologico muove da serie preoccupazioni dovute al melting pop che vede la Sardegna ritornare ai suoi antichi dominatori perché i nuovi flussi migratori- a dire che quelli preoccupanti non sono tanto quelli che portano a erigere nuovi muri per evitare l’atavico processo migratorio che ha caratterizzato la Storia- depauperano la Terra Sarda delle sue risorse migliori: quelle umane.
Il filone storico offre la prospettiva vichiana dei corsi e ricorsi e la constatazione amara di un’impossibilità di comprensione degli eventi storici nel loro divenire e nel loro fissarsi a eterna memoria magari in ottica revisionista. Mi pare passi il messaggio che gli stessi protagonisti la modifichino per i loro fini e intenti umani e a noi non rimanga, anche nella migliore delle ipotesi, una ricostruzione monca e già falsata all’origine. Lo storico può aiutare a ricostruire e comprendere gli eventi ma essi , noi , tutti avremo sempre una mera “costruzione verbale spesso apocrifa”.
Il filone puramente narrativo -descrittivo si nutre di una vena futuristica e apocalittica con una Cagliari ridotta al fantasma di se stessa e delle sue invasioni barbariche.
Il filone politico contempla meccanismi, interazioni, prospettive che più che futuristiche hanno la tristezza di essere contemporanee.
La storia è come” sa murra” : in bilico tra strategia e psicologia. Buona fortuna.
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Il cerchio della vita
Romanzo tripartito: “La finestra”, “Lo scorrere del tempo”, “Il faro”. Una gita negata, una gita imposta a chiudere un ventaglio di possibilità, un immaginario non compiuto, a sintetizzare ciò che si vorrebbe e ciò che si ha.
Prova magistrale e a livello stilistico e a livello contenutistico.
Siamo dentro una famiglia, un uomo e una donna opposti per vedute, per atteggiamenti, per sensibilità eppure complementari. Otto figli. Siamo in vacanza con loro, a ridosso di uno scoglio con faro: la meta ambita, vagheggiata ma al momento inarrivabile. Siamo con i loro ospiti, ne cogliamo i pensieri anche se è facile confondersi nello scoperchiamento neuronale messo in scena dalla tecnica del flusso di coscienza. Siamo però soprattutto coinvolti da lei, la vera protagonista, il faro della famiglia: la signora Ramsey. Il suo pensiero subitaneo, ratto, ineffabile è lucidamente creato e rappresentato nel suo divenire, il suo turbinio la avvolge , la mente sconvolta. Restituire quei pensieri così intimi, così femminili, così a tratti cupi e malinconici, è pura maestria. Fa paura, perfino. Come è riuscita la Wolf a rappresentare questa velocità, questa ineffabilità, questa verità? Probabilmente attingendo da un serbatoio di viva sensibilità, dal suo humus intellettivo, dal lavorio incessante della sua mente eccelsa.
Di che cosa parla il libro? Dei nostri pensieri, della nostra consistenza, del nostro mistero. Del sogno, dell’ambizione, dello scontro tra ideale e reale e del loro possibile incontrasi. Del tempo e della sua circolarità, dell’attribuzione di significato a eventi e persone e della loro comprensione reale quando tutto è già passato. Ci si ritrova chiunque , in qualità di essere umano. Perfetta fusione di stile e contenuto per un’opera la cui piacevolezza risiede nella sua fine sensibilità.
Adatto a tutti i naviganti, anzi vivamente consigliato.
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IO SONO UN CLOWN
Heinrich Böll iniziò a dedicarsi alla produzione letteraria nel 1946 dopo l’esperienza del richiamo alle armi con conseguente interruzione degli studi universitari e dopo aver subito non solo il fronte ma anche il campo di prigionia, avendo egli disertato. Il suo lavoro di intellettuale è stato sempre all’insegna dell’impegno sociale e civile e tutta la sua produzione è attraversata dalla critica al quadro sociale della Germania postbellica caratterizzata da conformismo, ipocrisia, opulenza.
“Opinioni di un clown” edito nel 1963 rappresenta in modo significativo le posizioni dell’uomo e dell’intellettuale, inscindibili.
Hans Schnier , giovane clown proveniente da facoltosa famiglia borghese, si perde a Bonn nell’appartamento messogli a disposizione dalla famiglia ma che non può né vendere né affittare. Vi arriva defraudato del suo amore per Maria che lo ha abbandonato , è inoltre in piena crisi artistica: i suoi ultimi spettacoli sono stati fallimentari.
Entra nell’appartamento,apre contatti telefonici con alcune persone, si prepara un bagno, riceve pure la visita del padre. Ricorda, trama, farfuglia, lucidamente analizza se stesso e gli altri: mi pare non salvi nessuno. Al bando l’ipocrisia di facciata, lui ha però bisogno di una maschera. Ipocriti i cattolici, altrettanto le forme rinascenti di borghesia, a partire dalla sua famiglia. Al bando il denaro, la miseria, la guerra, la pace.
La sua è una negazione continua: “io non sono sedentario”, “non sono ubriacone”, è ricco di famiglia ma gli è sempre stato negato l’accesso al denaro e perfino ad un vitto sostanziale, ha una madre ma è anaffettiva, non ha più Maria, non ha più la sorella sacrificata alla patria, il padre e il fratello sono altre due entità eteree. Lui senza Maria è niente. Nessuno lo capisce: non è protestante, non è cattolico. Lui è solo un clown, coglie l’essenza, gli pare dannatamente comica e la rimanda al mittente. Lui è solo come chi non si allinea, chi sfugge alle regole, chi ha le sue modeste opinioni e ha il coraggio di enunciarle anche quando non fanno comodo a nessuno, primamente a se stessi.
La narrazione asciutta, martellante, intervallata da ricordi accompagna il lettore oltre la maschera, oltre il cerone in una perfetta adesione dell’ideale al reale. Fortemente malinconico, da conoscere e da apprezzare.
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Disincanto
Mille e una notte. Come dire infinito.
E se dopo ci fosse mille e due? Sarebbe invece il tempo della fine: tetra, cupa, decadente.
Questa è la storia della milleduesima notte. Dura un po’ di più: è lenta, dilatata, triste.
Lo scià di Persia in un ottocento ancora lontano dal tramonto dei grandi imperi, preso da acuta malinconia, su dotto consiglio, prende il mare azzurro per l’Occidente, sarà ospite della corte imperiale viennese. Avrà da temere l’Imperial Regia Maestà Apostolica? Sono passati oramai duecento anni scarsi dalla minaccia musulmana, il pericolo è da ravvisarsi ora piuttosto nel vicino prussiano.
Lo scià in realtà è interessato a esperire l’amore unico, satollo ormai del suo nutrito harem. Godrà per una notte di una povera ragazza, Mizzi, immolata al piacere del sultano dal barone Taittinger- ufficiale di cavalleria- per puro capriccio personale. L’amore senza harem entusiasma lo scià che prima di partire dona lauta ricompensa alla predestinata: una pesante collana di perle a tre fili.
Chiusa la pagina fiabesca, creato l’antefatto, l’intera narrazione procede a imbuto distillando un succo al sapor di fiele. Le vite di Taittinger e di Mizzi, ormai indissolubilmente legate, procedono per binari paralleli andando in ultimo a confluire in una decadenza di costumi tesa a rappresentare tutto il disincanto di un esule a Parigi.
Il romanzo, pubblicato postumo nel 1939, ci consegna una cupa visione della vita celebrata con schemi narrativi da favola ma solo inizialmente per sprofondare poi nel ridicolo della parodia, tristemente a siglare un mondo tramontato, una vita vissuta, un sapore di fallimento.
Amaro ma fondamentale.
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AFFRONTA LA TEMPESTA
« Non esiste nulla che alletti, disincanti e renda schiavi quanto la vita di mare,
in nessun altro tipo di vita l'illusione è più distante dalla realtà,
in nessun altro l'inizio è soltanto illusione
e il disincanto è più rapido e la sottomissione più totale»
Joseph Conrad
Racconto lungo pubblicato nel 1902.
È la storia della battaglia condotta dal Nan-Shan, piroscafo a vapore, contro un tifone; è la descrizione suggestiva della sopravvivenza in mare in condizioni estreme. Un improbabile capitano, MacWhirr, lo governa: è egli stravagante nell’aspetto, “comune, insensibile e imperturbabile”nell’animo; giovanissimo, come il nostro Conrad, ha lasciato l’agiatezza per andare in marina. La sua impassibilità non è scalfita nemmeno dall’improvvisa caduta di pressione”di natura minacciosamente profetica”e quando la furia degli elementi si abbatterà sull’imbarcazione, il suo modo di agire rimarrà improbabile, coraggioso, imprevedibile e vincente.
La narrazione offre diversi “piani” descrittivi. In coperta, lo scatenarsi della tempesta: onde bestiali, vento, il tramonto che cede il passo a una buia e nera notte. Nella sala macchine, il febbrile tentativo di mantenere alta la pressione dei vapori, tra sinistri clangori e cigolii ad oltre quaranta gradi perché i ventilatori sono mal orientati. Il ponte intermedio a prora è occupato invece da duecento coolies rientranti in patria dopo sette anni di duro lavoro, ognuno con la propria cassetta di legno di sandalo, contenente i frutti delle loro fatiche. Tante piccole fortune destinate ad un infernale rollio e alla bolgia della mescolanza reciproca e terribilmente livellatrice. Povertà, ricchezza, vita, morte, superiorità razziale, rispetto umano, paura e speranza e su tutte il potere decisionale di un uomo modesto che affronta il pericolo di petto e non secondo manuale, impermeabile anche all’incantesimo della tempesta.
Da leggere per “toccare il valore ideale delle cose, degli avvenimenti e degli esseri”, come nella migliore poetica conradiana. Vietato ridurlo a un semplice racconto di mare.
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Al femminile
Nel panorama letterario internazionale spiccano le opere di autori israeliani: David Grossman, Yehoshua A. B., Amos Oz, solo per citare i più noti, ai quali si affianca la voce femminile di Zeruya Shalev che con all’attivo cinque romanzi, un libro di poesie e una pubblicazione per bambini, risulta essere una delle autrici contemporanee di lingua ebraica più lette al mondo.
Le premesse per leggere un suo libro ci sono tutte, anche se non si conosce il più famoso “Quel che resta della vita”, il titolo dell’opera ultima e la breve trama riportata in quarta, incuriosiscono al punto giusto.
Il romanzo catapulta il lettore nella vita di Iris, direttrice scolastica, quarantacinque anni, un marito e due figli. Una mattina come tante, nel salone di casa, prima di essere inghiottiti dalla quotidianità, Michi, il marito, ricorda distrattamente a Iris il decimo anniversario dell’attentato che per poco non la strappò alla famiglia. Improvviso si sveglia il dolore, dapprima fisico, prepotente, violento- sarà necessario ricorrere a consulto medico- poi dell’animo, ferito e non guarito da uno strappo emozionale violento subìto in piena adolescenza. Il medico che la visita si rivela essere il suo Eitan, il primo amore, colui che la abbandonò di punto in bianco, smessi i sette giorni di lutto per la morte della madre assistita amorevolmente anche da Iris. Il riconoscersi, il cercarsi, il tentativo di recuperare il tempo ormai perduto per sempre sono i motivi conduttori della narrazione, abilmente intrecciati alla rappresentazione di un quadro familiare in decadenza. Il rapporto tra i coniugi è solido ma intristito da radicate posizioni che li portano a essere due esseri in perenne lotta, i loro due figli, un maschio e una femmina in piena adolescenza, complicano il quadro con le loro urgenze, le loro identità, i loro percorsi di crescita. La famiglia ha subìto, tutta, l’attentato, ne è stata travolta, sconvolta, a fatica si è rimessa in piedi e si è trascinata. Sono rimasti sull’asfalto, insieme alle vittime, sentimenti ed emozioni: l’urgenza li ha cancellati, cristallizzati e nessuno comunica. Tutto è taciuto, tutto è vissuto, tutto è perduto. Un grande pericolo corso dalla figlia maggiore permette infine il recupero, non del passato- è andato-, ma del presente come attimo da vivere nella sua pienezza senza necessariamente catapultarsi verso il futuro.
La narrazione si avvale di uno stile fluido, a tratti ironico, ricco dell’emotività femminile e delle sue fragilità. Colpisce la capacità di penetrare nel profondo dell’animo della protagonista, ci si sente partecipi delle ansie, delle paure, del delirio di onnipotenza che talvolta ci assale mettendo al tappeto noi stesse e chi ci gravita attorno. Io almeno mi ci riconosco, purtroppo. Belle le fragilità e la potenza della donna e della madre. D’altro canto la narrazione scorre liscia e prevedibile verso il finale che risulta armonico e pacificatore strappando anche qualche facile lacrima. Complessivamente una bella storia ma come tante in circolazione; pochi i riferimenti socio- culturali , a parte qualche veduta sul sistema scolastico israeliano che è descritto di riflesso e restituisce un ritratto all’avanguardia, e rari cenni alla delicata situazione politica e all’integrazione del mondo arabo con quello ebraico. Avrei gradito uno spessore maggiore, in questo senso.
Lo consiglio sicuramente a tutte le donne, è una scrittura decisamente al femminile.
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