Opinione scritta da Mian88
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Case, luogo di vita e vivere
Ci sono luoghi che non sono soltanto luoghi quanto anche metafora. Metafora del vivere, metafora e sinonimo di casa. Ed è quello che accade con “Le case del malcontento”, opera di Sacha Naspini che ci porta in Toscana, in bassa Maremma. Ed è proprio a Le case, un borgo che è prigione, un borgo che è provincia, che ha inizio lo scritto dell’autore. Apparentemente siamo in un contesto dove non sembra esservi possibilità di fuga e scampo. Quei borghi millenari sono un microcosmo chiuso in se stesso e che porta il lettore a interrogarsi su quel paese morente e su quei protagonisti che rappresentano ciascuno un caleidoscopio di vite diverse ed eterogenee.
Ogni storia di ogni personaggio è narrata con una propria e specifica narrazione suddivisa per capitolo. Ognuno ha cioè la sua voce ed emerge con le sue caratteristiche principali e peculiari. In questo contesto e in questa realtà ogni voce ricrea la propria anima e il proprio essere. Torna a dare vita a una propria dimensione che si incastona con quella dell’altro per via diretta o indiretta. Gli equilibri vengono però rotti da un ritorno inaspettato; quello di Samuele Radi. Nato e vissuto tra quelle mura è poi fuggito per il mondo. Quel mondo dal quale adesso sta facendo ritorno con la sua scia di storie e realtà da affrontare.
Ed è da questi brevi assunti che prende il via una storia che in perfetto stile Naspini nulla risparmia al lettore. Il narratore ci costringe a metterci nei panni di ogni voce narrante, ci invita alla riflessione e ci porta ad osservare quelle brutture del nostro vivere che spesso non vorremmo affrontare. Si crea una struttura solida e stratificata, perfettamente incasellata che chiede di andare nel profondo e di non fermarsi alle apparenze. Le case è metafora, le case è una realtà che talvolta non vogliamo vedere. È lo specchio del nostro vivere e del nostro esistere. Non semplice è all’inizio la lettura essendo caratterizzata da questa moltitudine di voci che ricorda quasi un racconto tanto possono apparire tra loro a se stanti, di fatto sono in realtà tutte magistralmente intessute tra loro. L’invito è dunque quello a non interrompere la narrazione ma a procedere con curiosità e rapido incedere.
Ecco perché “Le case del malcontento” è uno scritto vivido e forte che si legge gustandolo un poco alla volta e che con semplicità si sedimenta nel cuore senza farsi dimenticare.
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Transumanisti
Ambizioso il progetto di Mark O Connell che ci conduce tra le pagine di questo scritto, con caratteri e impronta saggistica, finalizzato a farci riflettere su quelli che sono i transumanisti e ancor più su quegli scienziati, ingegneri e pensatori vari che operano giornalmente per rendere verità i sogni e le fantasie degli scienziati dalla Storia dei tempi. Questi transumanisti fondano le loro tesi sull’idea della possibilità di vincere quel dogma improcrastinabile stante il quale la vita avrebbe un inizio e una fine a causa di quell’evento chiamato morte che è scritto nel destino di ognuno di noi. Ma è davvero possibile vincere questo vincoli biologico? Ed è altrettanto lecito farlo? Dov’è il confine tra etica ed esistenza? Ed è davvero possibile trovare una cura per l’invecchiamento?
È da questi brevi assunti che ha inizio l’opera di O Connell, un saggio che pone in essere tra le sue maglie molteplici riflessioni e che spinge il lettore a interrogarsi tra quel che un tempo era, appunto, mera fantascienza mentre oggi è divenuto un dogma concreto sul quale soffermarsi perché non più solo utopia. Molteplice è la riflessione sulla filosofia transumanista che viene analizzata in tutti i suoi corollari, ivi comprese le varie contraddizioni che la caratterizzano.
Uno scritto molto particolare che ha il grande pregio di riuscire a solleticare la curiosità del lettore e a spingerlo a chiedersi fino a dove può arrivare l’essere umano. Divide. O si ama o si odia proprio per questa sua capacità di toccare temi da sempre oggetto di curiosità e interrogazione.
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Per affrontare il dolore
«Ma i miei fantasmi, un tempo, sono state persone, e io non posso dimenticarlo. Non posso dimenticarlo quando cammino per le strade di DeLeslie, strade che sembrano ancor più spoglie dopo Katrina. Strade che sembrano ancor più vuote dopo tutte quelle morti, dove invece di sentire i miei amici o mio fratello che ascoltano la musica in macchina nel parco della contea, l’unico suono che sento è il pappagallo di uno dei miei cugini, un pappagallo il cui grido tormentato, un grido simile a quello di un bambino ferito, è tanto forte da riechiggiare per tutto il quartiere da una gabbia così piccola che la cresta tocca la sommità e la coda sfiora il fondo. […] Mi chiedo perché il silenzio sia il suono della nostra rabbia repressa, dei nostri dolori accumulati. Decido che non è giusto, che devo dar voce a questa storia. Te l’ho detto: qui dentro c’è un fantasma, diceva Joshua.»
Jesmyn Ward da sempre ci ha abituato a scritti evocativi e dove i temi della natura e della famiglia erano preponderanti. Rapporti forti, intensi, travagliati. Rapporti fatti di legami anche marci a causa di una serie di vicissitudini affatto semplici da vivere e di un ambiente sociale altrettanto complesso. In “Sotto la falce” non vengono a mancare quei temi ad ella cari ma al contempo si toccano anche aspetti di cruda e dura quotidiana verità. Perché l’opera è prima di tutto un memoir all’interno del quale ella parla della dipartita prematura di suo fratello Joshua e di altri quattro ragazzi. Sono vite accomunate dal colore scuro della pelle ma anche giovani che tra il 2000 e il 2004 hanno visto spazzare via la propria vita a causa di alcol, droga, povertà, razzismo, diseguaglianza, solitudine, indifferenza e chi più ne ha più ne metta.
La Ward focalizza l’attenzione del lettore su quella che è una comunità che resta a sua volta silente in quel grido che non trova forma. E lo stesso vale per la scrittrice che è sopravvissuta a quelle perdite ma che sente il bisogno di tirar fuori il dolore, il rancore, il “covato” in quegli anni. Ed è questo ciò che accade.
Jesmyn si guarda intorno. È una bambina, poi una giovane ragazza, infine una donna adulta. Vede perire tante anime al suo fianco, sente la violenza che aleggia tutta attorno. Quella solitudine, inoltre, estrema che condanna e vincola quelle anime che non riescono a rifuggire dalle tentazioni quali la droga e l’alcol.
Il tutto sino a giungere a quell’ultimo capitolo in cui siamo colpiti da un’altra perdita per Jesmyn: quella del marito a causa della Pandemia.
Ed ecco allora che la scrittura è anche terapeutica e riesce a ricomporre il volto di quel vissuto che chiede consapevolezza e speranza per il divenire. Uno scritto dove il sentimento e l’emozione fuoriescono con tutta la loro forza dirompente. Un libro che fa male e che suscita tante riflessioni e domande a cui è necessario dare risposta.
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Francis e quella presenza
«Avevo la sensazione che stesse cercando di derubarmi di qualcosa, non di un tesoro prezioso, niente del genere, ma di un terrore assolutamente reale che avevo conosciuto da giovane in Spagna.»
Per Francis McNulty il passato non è mai diventato davvero passato. Siamo a Londra, luogo ove il poeta vive in compagnia della domestica di sempre in quel del 1975. Nella notte i suoi sogni sono sempre più irrequieti, ella stessa è preoccupata tanto da arrivare a contattare la figlia e la sorella dell’uomo. Quest’ultimo non prende positivamente la decisione di dover mettere su piazza i suoi affari e ancor meno di dover condividere quel che gli sta accadendo. Sono notti ormai che Lui appare al suo cospetto. E no, anche se sua figlia non gli crede, non sono solo visioni. Lui, il generale Francisco Franco, è tornato per ricordargli quella colpa che in realtà mai ha dimenticato e che dai tempi della Guerra Civile spagnola si porta dentro. Quella oscura presenza all’interno di Cleaver Square è sempre più opprimente, chiede di essere ascoltata e brama che venga affrontato quanto occorso ormai quarant’anni prima. Ecco allora che decide di accompagnare la figlia in viaggio di nozze a Madrid, un matrimonio che non pensava nemmeno si sarebbe mai celebrato. Qui non potrà tirarsi indietro, dovrà fare i conti con quegli scheletri che da troppo tempo lo attanagliano.
Narrato interamente da Francis stesso che ci trasporta in un viaggio che è prima di tutto un viaggio nella sua mente, “La lampada del diavolo” è un romanzo intriso di tutte quelle che sono le componenti proprie della penna di Patrick McGrath, autore noto al grande pubblico per opere di indiscusso valore, tra le quali, il celebre – ma non unico – “Follia”. Quello di McGrath è uno scritto che è prima di tutto un flusso di coscienza ma anche una resa dei conti con rimpianti, rimorsi e sensi di colpa. Questo suo essere un flusso di coscienza è al contempo un pregio e un difetto. Un pregio perché caratterizza l’io narrante, un difetto perché alla lunga è privo di mordente e cade nella non empatia. Le pagine scorrono ma il lettore, per quanto curioso, fatica a farsi completamente catturare. Viene dunque meno la componente emotiva che in un elaborato come questo sarebbe stata fondamentale.
In conclusione, un McGrath che conquista solo a metà e che lascia qualche perplessità.
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- sì
- no
Una raccolta a tema gelosia
Piccola ma doverosa premessa: se già conoscete Jo Nesbo e vi aspettate di trovarvi davanti a uno dei suoi canonici romanzi potrete restare con “Gelosia” sorpresi o delusi. Sopresi perché l’autore si cimenta in una raccolta di racconti di cui appunto uno omonimo al titolo, delusi perché l’impronta che viene data a questi scritti si allontana molto dai soliti gialli/thriller a cui questo ci ha abituati. Sia per mole che per contenuti che per colpi di scena.
In libreria dal 7 settembre scorso, il libro ha inizio con un racconto intitolato “Londra”. In questo ci troviamo su un aereo con destinazione intuibile, un uomo e una donna sono vicini di posto, ella è in lacrime, lui cerca di consolarla, si professa addirittura psicologo. Lei confessa di aver firmato un contratto dal quale è impossibile recedere. Entro tre settimane questa morirà per mano altrui, una piccola vendetta perfettamente architettata per vendicarsi del marito che ovviamente la tradisce con la bellissima (ex) migliore amica. Il colpo di scena giunge sul finale e spiazza per quelle che erano le basi di partenza anche se il lettore resta perplesso già durante lo scorrimento da quell’organizzazione che lavora su desiderio di morte altrui. Il meccanismo è farraginoso.
“Gelosia” è anche il secondo racconto che vediamo in questa carrellata che Nesbo ci propone. Più corposo dei sette è ambientato su un’isola greca e vede quali protagonista due gemelli a cui interessa la medesima donna. Uno dei due scompare e a essere sospettato è l’altro. Da Atene sopraggiunge “l’uomo della gelosia”, esperto di crimini mossi proprio da questo sentimento.
Nel terzo racconto, “La fila”, conosciamo una commessa che decide di vendicarsi di un torto del passato sfruttando gli obblighi della pandemia. Tra tutti gli scritti questo è il più slegato tra gli altri non essendo condotto da un vero e proprio denominatore comune.
In “Spazzatura”, ancora, ad essere protagonista è un operatore ecologico che non si occupa solo dei rifiuti da caricare sul camion e da smistare. Cosa succede se proprio durante queste operazioni subentrano dei problemi con i proprietari?
In “La confessione” conosciamo un uomo e la sua passione per gli snack, passione che veniva condivisa con la moglie e che lui non abbandona anche se le sorti di questa non sono state così rosee.
In “Odd” conosciamo uno scrittore vittima dell’ossessione che i personaggi da lui costruiti suscitano sugli altri, qui il pensiero va immancabilmente a King e ad alcune delle sue opere più celebri.
Una raccolta di racconti, quella proposta da Nesbo, dove a far da padrone è un senso costante di umiliazione affiancato dal desiderio di vendetta. Da questo si scatena la gelosia in tutti i suoi dogmi incontrollabili. L’obiettivo dello scrittore è certamente quello di dare un volto a tutte le sfaccettature della gelosia e su questo fronte si può dire riuscito almeno in parte l’esperimento.
La pecca di questo elaborato? La mancanza di quella tensione che è propria dei suoi lavori. Dunque, se cercate un Nesbo alla “L’uomo di Neve”, tra queste pagine non lo troverete. Se cercate un Nesbo più psicoanalitico, meno thrillerista e più giallista, qui lo troverete. A fare da ulteriore scriminante alla piacevolezza del componimento vi è anche la formula narrativa adottata che per definizione tende sempre a dividere.
Nel complesso una lettura non entusiasmante, non ai massimi del norvegese ma piacevole. Si esaurisce in poche ore ed è adatto a chi cerca un leggere non troppo impegnativo e con cui staccare la spina.
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Occhi che accarezzano l'anima
«Un giorno, quando ero solo una neonata, qualcuno aveva deciso che non servivo e che potevo anche morire. Mi aveva abbandonato senza curarsi affatto delle mille persone che sarei potuta diventare, delle parole d’affetto che avrei potuto rivolgergli una volta cresciuta.»
Quando Miki è stata ritrovata sul soffice letto di alghe, era appena una neonata. Una neonata abbandonata dalla madre ma trovata da un’altra donna desiderosa di donarle, insieme alla sua famiglia, tutto il suo affetto e il suo amore. Ecco perché Miki non sente mai la mancanza della madre naturale. Certo, ci pensa come è atavico che sia, ma al contempo è sopraffatta dall’amore che la famiglia Ohira ha a lei destinato negli anni. Il suo sguardo verso il mondo che la circonda è fatto di meraviglia, gioia e felicità e questo non manca di destare il disappunto di chi, al contrario di lei, non riesce a guardarsi intorno con gli stessi occhi.
La vita di Miki scorre normale e tranquilla fino a che tutta una serie di avvenimenti la portano a dover conoscere anche altri sentimenti oltre all’amore; tra questi, l’amarezza e l’odio. Conosce anche il senso della perdita, la bellezza del ritrovarsi. E forse, in un certo senso, scopre anche cosa significa amare. Perché se da un lato sono gli affetti principali ad essere toccati, dall’altro il tornare a casa di un coetaneo trentenne vecchio amico a sua volta toccato dalla morte della moglie, la porterà a riscoprirsi e la porterà a interrogarsi sul senso di quel che la circonda.
«Poi qualche volta otteniamo qualcosa, ed è la prova che ce la siamo cavata. La vita è un ripetersi continuo di questo gioco: quanto ci insegna l’esperienza? Come affronteremo le successive tentazioni?»
“Su un letto di fiori” è una delle opere in assoluto più mature di Banana Yoshimoto. È uno scritto che trasmette dolcezza, tenerezza, che fa sorridere. Miki entra nel cuore, lo solletica con la sua semplicità e genuinità. Tuttavia, al contempo, questo scritto è anche il più triste ed emotivo della narratrice nipponica. È infatti un titolo che lascia un retrogusto dolce come amaro e questo, probabilmente, perché ha l’obiettivo di sconfiggere le tenebre e illuminarle proprio passando per la ragione per il quale nasce.
Banana da dedicato e scritto questo racconto per il padre, per affrontare la sua perdita e quel dolore incolmabile lasciato da questo vuoto. È un libro ancora che parla di viaggi anche in senso metaforico, ma di radici. Perché tutti abbiamo il nostro posto nel mondo e talvolta dobbiamo solo capire quale questo è.
«Dietro casa nostra forse le piante si erano già riempite di gemme, e in breve tempo avrebbero coperto tutte le cose brutte che erano capitate in passato. Le leggi della natura non conoscono rallentamenti. Scorrere, marcire, nascere. E non conoscono nemmeno accelerazioni. Il tempo della natura è la sola legge che conosciamo. […] Di fronte ai grandi cambiamenti, possono verificarsi situazioni positive o negative. È un fatto scontato. Ad agitare la superficie calma del lago si solleva ciò che si era depositato sul fondo e anche l’aria esterna ne risente. L’acqua si intorbidisce, ma ogni movimento fa affiorare nuove meraviglie. Poi l’acqua si calma e torna limpida, ma il lago non è più identico a com’era prima. Non è migliore né peggiore, è solo cambiato.»
«Ecco perché ho scelto di vivere pienamente, apprezzando ogni istante, giorno dopo giorno. Ecco perché ho scelto la vita semplice e infinita che questo piccolo villaggio, quest’angolo di mondo, ha voluto offrirmi.»
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Teresa e i tanti scheletri
«Era cenere, ma la sofferenza è diventata fuoco. Ti ha resa incandescente. E dalla cenere della tua vita precedente sei rinata. Questo è il destino dei comandanti, commissario Battaglia. Non abbassare mai più la testa, davanti a niente e a nessuno. Nemmeno te stessa.»
Ieri e oggi. Ventisette anni fa e il presente contemporaneo. Un continuo alternarsi nella narrazione, capitolo dopo capitolo, per sapere cosa è accaduto un tempo e ricomporre il puzzle del mondo di oggi. Una Teresa Battaglia alle prime armi, una Teresa Battaglia logorata dalla malattia, esperta e sempre accompagnata dal fedele Massimo Marini. Eppure, Teresa, quel che è stato non può dimenticarlo. Né da punto di vista affettivo, né da quello lavorativo. Ancora vi è lui, lui che le mani di sangue più volte si è macchiato e che anche adesso che è rinchiuso in prigione e si è fatto arrestare non nega di aver compiuto altri omicidi e di essere stato assoldato per farlo. Uno in particolare sembra essere collegato a Teresa e sembra avere quale obiettivo indiretto lo stesso carnefice. Ma perché? Chi può avere un siffatto interesse? Chi e che cosa può muovere queste fila?
Ilaria Tuti torna in libreria con un terzo capitolo dedicato alle avventure della sua fortunata protagonista. Dopo lo spin-off di “Luce della notte” e il piccolo intervallo rappresentato da “Fiore di roccia”, ecco che torna a narrarci delle avventure del suo personaggio principale.
Tuttavia, sin dalle prime battute, e ancor più nello svolgersi ed evolversi di questo romanzo, viene spontaneo porsi una domanda: siamo di fronte a un thriller o a cosa? La vicenda si sviluppa in modo lineare anche se privo di mordente a causa di questo alternarsi di lassi temporali che alla lunga annoiano e sfiancano, ma a prescindere da ciò, vi è una accelerata inaspettata stante che l’autrice vuole da un lato dare uno smacco al rapporto con Marini e dall’altro svelare parte di quel passato della donna atto a spiegare perché ella così è. Il problema è che in termini di proporzioni di narrato questo aspetto è così ampio che alla fine non sembra più di trovarsi di fronte a un thriller. Scelta condivisibile per le ragioni ma non necessariamente nella costruzione. Il confine tra un thriller che sappia gestire aspetto emotivo e aspetto del giallo è molto sottile. I titoli della Tuti non sono mai stati titoli crudi alla Nesbo o alla Zilhay, per citare due esempi dello stesso filone a loro volta opposti, non hanno mai avuto le stesse elaborate e convincenti trame, ma avevano delle storie abbastanza ben contestualizzate che anche piacendo meno avevano un loro perché.
Già da “Luce della notte” si evince che la scrittrice ha desiderio di parlare di tematiche più vicine all’attualità (dall’adozione alla violenza sulla figura femminile e domestica) e non c’è niente di male in questo. Ma se vuole farlo in un romanzo thriller deve fare leva su quelli che sono gli aspetti del filone di appartenenza e rispettando quelli che ne sono i confini o, in alternativa, scrivere un romanzo che non vi appartenga.
“Figlia della cenere” è un libro che vuol puntare sull’emozione e che per questo trascura quello che è il suo essere e quella che è sempre stata la serie. Cade in un vortice dal quale fatica a riemergere e per effetto è come se perdesse la sua essenza.
Io sono sempre stata un po’ la voce dal coro su questa scrittrice in quanto per me lei non è mai stata una thrillerista, la sua penna trova libera evoluzione e capacità in romanzi che appartengono a filoni non di questo genere. “Fiore di roccia” ne è una conferma. Dunque trovarmi innanzi a un “Figlia della cenere” e dopo a un “Luce della notte” mi ha fatto molto riflettere e lasciato tante perplessità.
Se in “Luce della notte” il conoscitore poteva passarci sopra per le ragioni che si trovano alla sua base (fatti occorsi durante la pandemia e che hanno coinvolto direttamente la Tuti) e perché alla fine si tratta di una storia con i connotati quasi fiabeschi, il ritorno alla serie vera e propria non consente un’altra attenuante.
II lettore amante della saga si aspetta un thriller e si trova di fronte a un romanzo che di thriller non ha niente e che si avvolge e piega su se stesso. Il lettore che già prima non era convinto tende a desistere. Il lettore che si trovava a metà e che ancora non aveva preso una posizione netta e definitiva si ritrova con un bel “mah”.
Capisco la necessità di spiegare chi è la Battaglia e perché. È un passo necessario nell’evoluzione della vicenda, capisco anche la necessità dell’accelerata con Marini, ma era davvero necessario farlo così e in un unico libro?
La sensazione è infatti anche quella che i tempi non siano stati rispettati, che si sia passati da una “prima” a una “quinta” marcia senza prima consentire al motore di raggiungere i necessari giri per scalare.
Il risultato è un libro fiacco, che fatica a decollare, che non sorprende per quel “colpo di scena”, se così vogliamo chiamarlo, che viene proposto a più di 2/3 dalla storia, e che lascia più dubbi che certezze. Di fatto non coinvolge, stanca.
Quali libri bruciamo?
Tre personaggi: il professore, Daniel, l’assistente e Marina, la studentessa che altro non è che la compagna del secondo. È noto, inoltre, che in inverno fa molto molto freddo e che costantemente siamo alla ricerca di fonti di calore. Ma cosa accadrebbe se decidessimo di appellarci a fonti di calore provenienti dalla carta bruciata? Dal bruciare i libri?
È quello che pensa Marina che decide di bruciarne. Sì, ma quali? Quali sacrificare per la causa? Quali salvare? Quali criteri adottare?
Scritto adottando la forma del testo teatrale, “Libri da ardere” è un elaborato fluido ma che immediatamente fa tornare in mente il celebre “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury. Per similitudine di tema, per concomitanza.
È uno scritto rapido, coinvolgente, piacevole. Non la solita Amélie per la forma ma sicuramente da leggere. Non mancano ancora le componenti filosofiche che le sono proprie così come i tanti interrogativi che solleva. Buona lettura!
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Una sete atavica
A esser protagonista di queste pagine è Gesù insieme ai suoi pensieri sulle sue ultime ore di vita.
È un viaggio introspettivo quello che ha inizio. Un viaggio che osserva, che si sorprende, che scuote e che porta a riscoprire tematiche tautologiche non indifferenti. Ci interroghiamo, ancora, su quei dogmi che appartengono alle divinità, osserviamo al contempo un Gesù umanizzato che si sorprende e quasi condanna dell’aver accettato il disegno divino del Padre.
Non mancano poi riferimenti ad altri personaggi della religione nonché ai miracoli.
“Ci sono uomini che pensano di non essere dei mistici. Sbagliano. Basta essere stati sul punto di morire di sete, anche solo per un attimo, per avere pieno diritto a questo appellativo. L’istante ineffabile in cui l’assetato porta alle labbra un bicchiere d’acqua è Dio.”
“Sete” è un romanzo che divide. O si ama, o si odia. Primariamente occorre amare la prosa della narratrice ma anche essere interessati alle sue tematiche e in particolare all’aspetto della religione che ella tratta e affronta sempre con molto scrupolo e cura.
Viceversa, in assenza o mancanza di queste componenti, il titolo non potrà arrivare al lettore in tutta la sua interezza rischiando, oltretutto, di annoiare o perdere di interesse e forza.
Come sempre il tutto in sole 108 pagine. Buona lettura!
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Èpicène
Protagonista di queste pagine è Claude, un giovane di venticinque anni che è follemente e perdutamente innamorato della sua Reine. Ma cosa accadrebbe se un giorno come un altro il castello d’amore venisse a disintegrarsi? È quello che accade all’uomo che apprende della notizia del fatto che la sua amata sta per sposarsi con un uomo che è il vicepresidente di una grande società di elettronica, che la porterà a vivere in quel della capitale francese e che le assicurerà una vita forse mediocre ma da benestante. Questa la scelta irrevocabile della (ex) compagna.
Da questi assunti prende campo il romanzo di Amélie Nothomb, opera che gioca sulla falsa riga dei nomi, appunto epiceni, ma che al contempo si interroga sulla vendetta, la collera e il dolore. Conosciamo gli aspetti più crudi e duri dell’animo umano, entriamo nella mente del tradito e assistiamo al suo restare sopraffatto da queste emozioni abiette e meschine. Come spesso accade, ovviamente, a farne le sorti sarà una terza persona, in questo caso Dominique, e in particolare la figlia, Èpicène.
Ancora una volta la romanziera non si risparmia e si interroga e ci interroga su quesiti affatto semplici o di facile analisi. Il risultato è quello di uno scritto che fa storcere il naso, che fa riflettere e che offre una diversa prospettiva sui legami della famiglia e sull’amore.
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Madame Ramotswe, Samuel e molto altro ancora.
«Sarà pur vero che chi semina vento poi raccoglie tempesta, ma quella tempesta distrugge anche i raccolti di chi gli sta vicino.»
Cosa accadrebbe se, dalla detta alla fatta, dopo tanto lavorare ci fosse finalmente concesso – o quasi intimato – un periodo, piccolo o grande, di meritate vacanze? È questo quello che accade a Madame Ramotswe, proprietaria dell’Agenzia investigativa che manda avanti insieme alla socia, e che da un giorno all’altro viene invitata a prendersi un periodo di riposo. Una settimana, non di più, ma pur sempre una settimana di libertà.
Questo quello che si figura nella mente la donna che, con la sua stazza e altezza ben presto si rende conto che quei sette giorni non saranno poi così diversi da quelli che normalmente vive. Ciò perché sulla sua strada arriva Samuel, un giovane difficile, dal passato tormentato, dalla madre prostituta, e da una matrigna atta a sfruttarlo. Non sa nemmeno di preciso quanti anni abbia, il bambino, cosa che però è certa è che quel denaro deve portarlo a casa e in tempi rapidi, altrimenti la padrona dell’alloggio in cui vive si arrabbierà e non esiterà ad utilizzare il suo bastone.
Nel mentre, le preoccupazioni aumentano: Madame Makutsi, la sua socia, ha per le mani un caso delicatissimo che vede quale protagonista un politico del Botsawana amato dai suoi seguaci e che a distanza di tempo dalla sua morte prematura sta per ricevere una onorificenza dal sindaco. La sua reputazione è in pericolo e da qui la necessità di contattare l’Agenzia di Madame Ramotswe.
«È solo che se si vuole sapere dove vanno a mangiare i leoni, è inutile chiederlo all’istrice.»
Ancora una volta Alexander McCall Smith torna in libreria con un libro che ci insegna soprattutto a fare proprie compassione, solidarietà ed empatia. Unendo le componenti etiche e sociali a una indagine da portare avanti e risolvere, ci fa destinatari di uno scritto di rapida lettura, uno scritto che coinvolge e conquista per la sua generosità. Non manca la componente dell’humor, non mancano, altresì, gag divertenti ed esilaranti atte a conquistare e trascinare il lettore.
Uno scritto appartenente a una serie forse meno conosciuta del narratore ma di grande piacevolezza. Da leggere e gustare. Per sorridere ma anche riflettere.
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Una storia che invita a riflettere
«Se solo fosse stata ancora piccola, l’avrebbe consolata con pastelli colorati e favole, ma oggi sa che solo il tempo avrebbe ricucito una ferita di cui conosce troppo bene ogni sfaccettatura.»
Giada è poco più di una adolescente quando le viene comunicato di quell’imminente trasferimento al Nord, a Milano. Tante le promesse fatte dai genitori, tante le disillusioni causate da quelle false speranze infrante. La realtà che si apre innanzi a lei nel capoluogo lombardo tutto è tranne che rosea: se da un lato è vittima di atti di bullismo a scuola, dall’altro la sua famiglia si sta sgretolando a vista d’occhio con una madre sempre meno incline a esser tale e sempre più dedita alla ricerca di una taglia di abiti sempre più di piccole dimensioni che alla cura della casa, mentre il padre è sempre più dedito a uscite fuori porta con amici e nuovi colleghi, donne d’occasione, sigarette fumate di nascosto ma costanti.
Giada è dunque alle prese con tanti di quei problemi che attanagliano i ragazzi dei nostri giorni ma al contempo è anche costretta a fronteggiare una vita i cui contorni sono sempre più sfaccettati, ingombranti, aguzzi. Ciò è acuito ancor più dai ritmi di una metropoli che non aspetta e che al contrario scandisce tempi rapidi, veloci, inarrestabili. La giovane è consapevole che la realtà le sta sfuggendo di mano, che è sempre più incapace di uscire da quel buco nero in cui è precipitata. Ma come può venir fuori da questo incubo? Come può ribellarsi alle sue carceriere anche quando queste nei suoi confronti alzano l’asticella della cattiveria al punto tale da avere ancora meno scrupoli nei suoi confronti?
Tuttavia, la giovane protagonista creata dalla penna di Allegra Giulia Perboni decide di alzare la testa e di non sottostare più a quelle vessazioni che giorno giorno la attendono. Si sente tradita dalla propria famiglia, incompresa e disincantata da quella vita che tanto promette e poco mantiene. Deve capire chi è, cosa è, qual è il suo posto nel mondo, credere nel futuro, credere in quei sogni che devono smetterla di essere incubi.
«A volte ci capitano cose che sembrano non avere senso, che sconvolgono i nostri piani, ma opporsi agli eventi non è la risposta. […] Devi assecondare il flusso della vita, riconoscere i segni del destino, come quando hai imparato a nuotare. Te lo ricordi? Prima hai dovuto imparare a galleggiare, a lasciarti andare, ad avere fiducia. Certo, la corrente può portarti lontano o alla deriva, ma tu capirai come sfruttarla, le darai la giusta direzione quando sarai capace di intuire il disegno, il vero motivo per cui sei qui.»
Ed ecco ancora che sopraggiunge quello spazio senza tempo, quello spazio senza tempo che è impregnato di odore buono, di buona vita. “Uno spazio senza tempo” quello di Allegra Giulia Perboni che si propone al suo pubblico in modo intelligente e maturo. Caratterizzato da una penna precisa e minuziosa ma che si adatta all’età della voce narrante e della protagonista, lo scritto affascina il lettore e non teme di trattare tematiche attuali ma forti, tematiche che talvolta vorremmo non esistessero tanto sanno essere dolorose. Perché la scrittrice non si limita a parlare di bullismo, di famiglia, di legami, di rabbia, dolore, tradimenti e paure, ci offre anche una visione propositiva del tempo futuro, una visione fatta di possibilità, di riscatto, di rivalsa, di passioni che pulsano nel cuore e nell’anima per uscire e realizzarsi.
Uno scritto che accarezza, solletica e resta.
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Le tante domande di Emma
Emma ha tante domande e tante curiosità. È giovane, curiosa e metodica nella cura della sua persona perché è importantissimo che non manchi mai del suo rituale chiamato “il gioco delle gocce”. Emma deve stare attentissima alla pulizia della sua persona, la sua pelle è delicatissima e il suo “gocce d’acqua per lavare, gocce di crema per idratare” non deve mai essere dimenticato. Cerca anche delle risposte alle sue domande, è curiosa e con lei non manca mai il suo amico Dudy, il suo coniglietto rosa di peluche che ha bisogno di lei e non la lascia mai sola.
Alle sue domande trova risposta grazie al confronto e alle visite costanti con la Dottoressa Perebella che non manca mai di chiederle come sta ma anche di donarle tutte le informazioni che desidera perché Emma sa che a lei tutto può chiedere nella massima libertà.
«Così ridiamo insieme e ci abbracciamo tra le risate. Mi sento felice e al sicuro, e penso che quello che dice mamma è proprio vero: ognuno ha qualcosa di speciale di cui prendersi cura. E ora so che saprò farlo sempre con tanto amore.»
È con dolcezza e meticolosità che Daria Tinagli ci parla per voce della piccola Emma di una patologia molto particolare, quella del Lichen Sclerosus, una malattia rara e cronica di tipo infiammatorio che colpisce prevalentemente la pelle dell’area anogenitale. A seguito di questa la pelle risulta più sottile e richiede una cura maggiore e quotidiana essendo particolarmente delicata. Può colpire sia il sesso maschile che il femminile e non è semplice da diagnosticare. A maggior ragione, nel momento in cui viene individuata, richiede una informazione completa e costante.
Scritto da Daria Tinagli, psicologa responsabile dell’area pediatrica di Lisclea, Associazione Italiana Lichen Sclerosus e illustrato da Sarah Khoury, diplomata all’Accademia di Belle Arti di Venezia, “Le domande di Emma” è uno scritto destinato ai più piccoli per sensibilizzarli e insegnargli a vivere con questa possibile malattia ma anche per i genitori che in questi casi devono essere completamente ragguardati su quel che vuol dire confrontarsi con il Lichen Sclerosus. Altro grande pregio dell’opera è quello non solo di avvalersi di splendide illustrazioni ma di essere caratterizzato da un interessante testo a fronte in lingua inglese.
Un libro che arricchisce e sensibilizza con delicatezza e cura.
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Arcadipane
«Ecco cos’è invecchiare: non avere più tempo per diventare bravo a fare niente.»
Con “Le bestie giovani” Davide Longo ci porta nella periferia torinese dove, in una mattina come tante, vengono ritrovate delle ossa. Sono dieci cadaveri e il comando incaricato non esita un attimo ad attribuire la paternità di questi a resti della Seconda guerra mondiale. Tuttavia, Arcadipane non è sicuro di quanto affermato da loro e continua a indagare. Troppe sono le circostanze che lo portano a dubitare, prima tra tutte ma non meno importante, quell’operazione chirurgica che si evince essere stata effettuata su un femore di un corpo e che certamente non può attribuirsi al periodo storico di riferimento.
Da qui torniamo indietro nel tempo, in un perfetto alternarsi tra presente e passato, tra fatti risalenti agli anni Settanta e altrettanti relativi al ritrovamento. Arcadipane con la sua squadra conducono tra le fila di queste nebbie e con rapidità l’opera giunge al suo compimento.
«Tutta gente che non ha capito l’unica cosa che c’è da capire: la vita è quello che si vede, al massimo quello che si fa. Nient’altro.»
Ha inizio da queste brevi premesse l’opera di Longo. Si tratta di uno scritto ben articolato, di facile lettura e ben strutturato nella sua forma. I personaggi arrivano per le loro caratteristiche peculiari e non mancano di coinvolgere il lettore. Quello che convince soltanto in parte è lo stile narrativo. Va bene la caratterizzazione dei personaggi ma personalmente non prediligo una penna troppo semplicistica e avvalorata di parolacce nel suo estrinsecarsi. Chiaramente una scelta voluta per rendere più appetibile il titolo e per renderlo più fruibile e concreto ma nella mia modesta impressione questo ha fatto perdere di intensità al componimento e al suo sviluppo che quindi si lascia apprezzare ma che non conquista completamente.
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Marie & Diane
Brillante, bellissima, perfetta. Questa è Marie, o almeno, questo è quello che tutto il mondo pensa di lei stante la profonda invidia provata nei suoi confronti. Ella adora essere al centro dell’attenzione, gode della gelosia altrui ed è bravissima nel creare motivi di collisione. Oliver entra nel suo mirino esclusivamente perché è il più desiderato e bramato. Da quest’ultimo ha una figlia, la cui nascita non suscita in lei la prevista gioia, non suscita in lei niente se non un fastidio crescente. Diane è sinonimo per lei di sogni infranti e di una vita che non potrà più tornare. Questo almeno sino a che, anche a seguito del matrimonio riparatore, non si rende conto che tutti credono che loro siano la famiglia perfetta nonché il ritratto della bellezza. E poco importa se verso la bambina nulla prova. Ricomincia così a studiare, a crearsi un futuro e a puntare sempre più in alto. Della bambina si occupano i nonni che si preoccupano del fatto che questa sia circondata da amore. Per la piccola la madre è una dea, desidera in ogni modo il suo affetto ed esistere ai suoi occhi. Peccato che la genitrice non riesca a vederla allo stesso modo. La cosa peggiorerà quando questa resterà nuovamente incinta e avrà un altro figlio…
Amélie Nothomb torna a parlarci di emozioni, sentimenti, gelosie, legami e affetti propri della famiglia. A rendere ancora più forte ed emotivo il libro vi è la consapevolezza dell’assenza dell’amore materno che rende Diane vivida e cristallina nella mente del lettore. Il suo amore puro è disarmante.
E come si riconfermano e cambiano le tematiche così cambia lo stile che non manca di essere facilmente riconoscibile agli affezionati della narratrice ma che al contempo si semplifica per essere più consono alla voce narrante e più incisivo nella sua portata di dolore. Un libro diverso.
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Tra dramma e ironia
Ardenne, un antico castello, una famiglia con un titolo nobiliare quale quello di “conte”. A voler essere precisi siamo nelle Ardenne belghe e il conte in questione è un conte decaduto, Henri Neville, che è costretto a fare i conti con un destino inatteso e al contempo con un omicidio.
Eh sì, perché leggendo le pagine de “Il delitto del Conte Neville” la prima consapevolezza che sopraggiunge al lettore è quella di trovarsi di fronte a un giallo atipico nelle sue sfumature e nei suoi colori. A far da padrone tra queste pagine, inoltre, è il conflitto tra morale e dovere in relazione con profezie nefaste e situazioni familiari tutt’altro che semplici. Neville è costretto ad occuparsi del ricevimento che si terrà presso la propria abitazione prima di abbandonarla definitivamente a causa delle difficoltà economiche che hanno costretto alla vendita del castello. Ovviamente non può prendere nemmeno alla leggera quella premonizione che pur sempre tale è! Dunque ecco che la ricerca del soggetto da fucilare ha inizio. Il candidato non può essere uno a caso, deve essere selezionato con cura e dovizia!
Neville deve tirarsi fuori dall’impasse in cui si trova e nessuno potrà ostacolarlo, nemmeno Sérieuse, diciassettenne sua terzogenita disposta a offrirsi in sacrificio per semplificare l’arduo compito del padre.
“(…) vide intrufolarsi Sérieuse con aria imbronciata. Le parlò in cuor suo:”Tutti sono felici qui, tutti si godono la festa, non hai che da esserci, ma no, a te questo non basta, devi soffrire e la tua sofferenza finisce per cancellare il resto”.
Il tutto con una penna pungente e precisa, rapida e coinvolgente come solo Amélie sa destinare. Battuta dopo battuta il lettore è coinvolto in uno scritto diverso rispetto a quelli a cui la donna ci ha abituati, è condotto sino a un epilogo che spiazza ed è chiamato a interrogarsi, nuovamente, sulla componente filosofica ivi intrisa.
Ad avvalorare ulteriormente la lettura, riferimenti alla letteratura classica e un inconfondibile humor.
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Prima, durante, dopo.
«E come il male feconda il male, così dal bene nasce il bene.»
Una realtà che muta dalla mattina alla sera, una famiglia che, come molte altre, subisce della Storia e del suo incedere. Che nulla risparmia, che nulla perdona. Una Edith Bruck bambina che abbandona il suo pane in quel villaggio tedesco e che inconsapevolmente sta per affrontare una delle prove più impensabili che la vita può sottoporre: la deportazione.
Gli anni sono trascorsi ma quella pagina del vivere e del vissuto è rimasta. Indelebile, incancellabile. E proprio per non dimenticare, per non farsi prendere gioco dalla memoria che può sfumare, ecco che alla carta vengono affidate quelle stesse memorie di sopravvivenza e dolore. Un “prima” e un “durante” che ci accompagnano per un “dopo” che rappresenta la parte prevalente dello scritto. Perché cosa significa essere sopravvissuti? Come convivere con quella sopravvivenza? Come colmare il proprio vuoto dentro e trovare quella che è la propria casa?
Un diario che, come tale, è scritto, che è avvalorato da una penna semplice e fluida, priva di qualsivoglia tecnicismo o artifizio letterario, depurata da tutto quel che non è sostanza e che in tal senso giunge ai conoscitori, un diario che ricostruisce un tassello del nostro passato, è “Il pane perduto”. È un elaborato che si esaurisce in poche ore, che sorprende per la rapidità con il quale è letto, che raggiunge per la riflessione che solleva. Soprattutto sul tema delle radici. Forse un poco troppo piccolo, forse un po’ troppo semplice nello stile. Ad ogni modo da leggere.
«La guardia con il fucile e il forcone, arrivando, aveva giurato che avrebbe spaccato la testa di chi si fosse trovato laggiù; lo aveva già fatto, sottolineava, con un altro trasporto di maledetti e il mio cuore era già impazzito dalla paura, ma la testa ragionava più che mai e la vita, in qualsiasi condizione, era più forte, più cara e mi nascosi sotto una grande botte vuota. La guardia inutilmente la colpì più volte con le punte del forcone e se ne andò. Quando i suoi passi si allontanarono, piano piano, sgusciai fuori e risalii alla vita.»
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Hubert e Lolita
«[…] L’altro quando evochi d’un tratto, a occhi chiusi, nel buio interno delle palpebre, la replica oggettiva, esclusivamente ottica di un viso amato, un piccolo fantasma dal colorito naturale (e così vedo Lolita).»
Non è semplice recensire un titolo quale “Lolita” di Vladimir Nabokov. Non tanto e non solo per quell’argomento così crudo e duro da affrontare che respinge per la sua essenza e incuriosisce per quegli inspiegabili atti, quanto anche per il viaggio che ha inizio e che altro non è che una apnea totale nella mente di quel protagonista così coinvolto e innamorato della piccola dodicenne Lolita, dalle sue sorti e da parte di quel fato avverso che sembra macchinare contro di lei.
La maestria di Nabokov è certamente nello stile e nel riuscire nell’immedesimazione. Hubert, il suo antieroe, è un pedofilo che vive della malattia quasi con vergogna ma che eppure, nonostante tutte le sue più intime riflessioni, non riesce a sottrarsene. Se all’inizio i suoi sono soltanto pensieri, il punto di non ritorno si ha con l’incontro con la giovane adolescente che supera quella linea di demarcazione tra immaginazione e realtà.
L’amore dell’uomo sarà accentuato dal diventare patrigno della ragazza, sarà vittima di gelosie estreme, sarà consumato nell’indifferenza in cui ella si concede ai suoi desideri e da quella sottigliezza caratteriale che, ancora, la caratterizza.
Il risultato è quello di un titolo che scuote e lascia il segno nel bene e nel male.
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Shutter Island
L’Ashecliffe Hospital è un luogo molto particolare già sin da quella visione che appare quando sopraggiungi in prossimità dell’isola e ne inizi a scorgere le sembianze in lontananza. Manicomio criminale per malati mentali è ancora, un luogo, dove vengono adottate cure sperimentali e innovative sui pazienti, cure attorno alle quali ruota un alone di mistero e misticismo e la cui legalità è altrettanto dubbia quanto la relativa applicabilità.
Quell’isola al largo di Boston, Shutter Island, ha le sembianze di un relitto sospeso sul mare e la cupezza di quelle strutture che al loro interno racchiudo segreti innominabili e indicibili. La scomparsa inspiegabile di una delle pazienti ivi ricoverate, Rachel Solando, porta il Dipartimento di Stato a intervenire e a inviare sul posto l’agente Teddy Daniels, abituato a lavorare in solitaria, ma questa volta affiancato da Chuck Aule, personalità eclettica e ironica che ben riesce ad ambientarsi in ogni circostanza con naturalezza e spontaneità. Teddy è celebre e stimato nel settore, soffre però di profonde e intense emicranie causate dagli orrori vissuti nei giorni di combattimenti durante la Seconda guerra mondiale e a causa della perdita della moglie in un modo alquanto violento e brutale. Perdita, questa, che non ha ancora superato. Daniels e Aule una volta sul posto si scontrano con le ferree regole imposte dal nosocomio e in particolare saranno costretti a cercare di vincere le reticenze del dottor Cawley che sposa la terapia della parola e dei rapporti umani tra pazienti ma che al contempo vuol celare quelle che sono le terapie e le ombre dell’ospedale nel loro dettaglio. Ogni accesso agli atti dei pazienti subisce una sottile forma di ostracismo che non sembra possibile vincere. Talune tecniche particolarmente invasive, e non solo limitabili all’elettroshock, sono a Shutter Island utilizzate da tempo ma assenti sono le prove al riguardo. I sospetti, dunque, che la squadra di agenti federali possa trovarsi sul posto anche per indagare su ciò non sono assenti e spingono l’itero personale a una maggiore chiusura circa eventuali fuoriuscite di informazioni. Ma cosa è successo a Rachel Solando? È davvero scomparsa? E perché tutto quell’alone di mistero attorno alle attività del manicomio criminale? Quali saranno le sorti di Teddy e Chuck? Cosa si cela dietro le apparenze di questo castello di specchi che si susseguono tra loro confondendo e smaccando tra colpi di scena che si susseguono?
“L’isola della paura” di Dennis Lehane è uno scritto che non mancherà di appassionare gli amanti del genere e che verrà, laddove ancora non visto, a essere ben accompagnato dalla trasposizione cinematografica composta da un cast di alto livello. L’elaborato nel suo essere caratterizzato da molteplici intrighi si prefigge anche di far riflettere su tematiche di grandi attualità quali ad esempio la malattia psichiatrica e la realtà di cure non sempre lecite che venivano – e talvolta ancora sono – sperimentate su pazienti altrettanto spesso dimenticati in quanto facenti parte di un mondo scomodo e silenzioso, chiuso in sé e circondato da mura invalicabili. Tratta, ancora, dell’amore che viene a essere tratteggiato da scene oniriche, da sogni che si trasformano in incubi, in fantasmi del passato mai affrontati.
La trama è volontariamente a tratti confusa, talvolta anche troppo nella sua evoluzione tanto da destabilizzare il lettore o rischiare una sua caduta di interesse, lo stile è fluido ma difetta di empatia e quindi, per quanto i fatti avvincano e il conoscitore brami di sapere, non riesce a coinvolgere completamente. I personaggi sono delineati in modo abbastanza soddisfacente e per questo sono sufficientemente vividi nella mente.
In conclusione, uno romanzo valido, piacevole, adatto a chi cerca storie avvincenti ma senza troppe pretese e non indimenticabile.
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Umorismo e intelligenza
Se amate la formula del racconto e in particolar modo non resistete al classico humour inglese, “Il meglio di P.G. Wodehouse” è una raccolta alla quale non potete resistere e che in alcun modo potete perdervi. Con ironia, satira e uno stile pungente ma intelligente, arguto ma ben strutturato, lineare ma mai banale, Sir Pelham Grenville Wodehouse dona e destina i suoi lettori di rocambolesche avventure che ruotano attorno alla figura di molteplici personaggi.
Ecco allora che ci ritroviamo nel castello di Blandings dove il povero Lord Emsworth è in balia della tirannica sorella Lady Constance e delle sue improcrastinabili decisioni (“Io? Assolutamente non sono stato io a sparare!”), o che ancora assistiamo alle vivaci storie con cui il signor Mulliner intrattiene gli avventori dell’Anglers’ Rest o ancora alla comicità propria di quelle situazioni in cui vengono a trovarsi i frequentatori del Drones Club. E se pensate che sia finita vi sbagliate perché ancora non mancheranno altrettante ironiche vicissitudini caratterizzate, questa volta, dalle arguzie del maggiordomo Jeeves che se ne inventa di tutti i colori per togliere dai guai il suo giovane signore.
Tante storie tutte avvalorate da un unico denominatore comune: l’umorismo. Un umorismo irresistibile che mai manca e che ha conquistato generazioni e generazioni di lettori anche perché caratterizzato da questo stile narrativo inconfondibile e di alta qualità.
“Il meglio di P.G. Wodehouse” è una raccolta da leggere e gustare un poco alla volta, che sazia gli appetiti più esigenti e mai manca di solleticare le menti dei lettori.
«È sempre sgradevole per un uomo orgoglioso dover constatare di non essere più padrone di se stesso e di essersi fatto schiacciare dal piede numero quarantacinque d’un capo giardiniere scozzese.»
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Cavolo
«Mi trasmetteva il calore del suo corpo e mi dava la pace di cui avevo bisogno. I gatti sono qualcos di fantastico. Ti ignorano per la maggior parte del tempo, ma quando percepiscono che stai davvero male si avvicinano senza fiatare.»
Cosa decidere di fare di fronte alla consapevolezza che oggi, l’oggi che stiamo vivendo, è l’ultimo oggi che vivremo? Che dopo questa giornata alcun altro giorno si alzerà per noi? Che non abbiamo più possibilità alcuna di vivere e convivere con i nostri affetti ma anche con i nostri scheletri nell’armadio? E cosa decidere di fare se innanzi a noi si palesasse il signore oscuro degli inferi assicurandoci ogni giorno un nuovo giorno di vita semplicemente facendo scomparire qualcosa? Un giorno di vita per un qualcosa di scomparso, un baratto conveniente, a suo dire.
Questo è ciò che accade al nostro protagonista, giovane uomo a cui è stato diagnosticato un male incurabile al cervello, di professione postino e che vive in simbiosi con Cavolo, il gatto ereditato a seguito della morte della madre. Di fronte alla tristezza in cui viene catapultato inizia a scrivere una sorta di diario-testamento che racchiude la propria esistenza e il proprio vissuto. Un buon modo, se così vogliamo dire, per esorcizzare quel che sta accadendo e assicurarsi una seppur minima via di fuga dall’inevitabile.
Ed ecco che comincia a immaginare cosa accadrebbe se iniziassero a scomparire telefoni, film, orologi (come scandire il tempo se il tempo non esiste più essendo diventato un qualcosa di indeterminato e indeterminabile?), il cioccolato (ok, il cioccolato no!), e via dicendo. Man mano che analizzerà la scomparsa di ciascuno di questi elementi arriverà alla consapevolezza di quell’ultimo e doloroso numero da chiamare.
Ma si può davvero rinunciare a qualche oggetto perché “meno prezioso”? Esistono davvero oggetti meno preziosi? Se esistono hanno una loro ragione d’essere, delineano un loro perché. Il bisogno egoistico del singolo che decide per l’eliminazione dell’uno o dell’altro si ripercuote inevitabilmente su tutta quella collettività che attorno a quell’oggetto ha costruito il proprio vivere. E questo vale anche per gli animali quali Cavolo che, nel suo piccolo, rievoca l’idea materna e porta a interrogare su questo significato più recondito.
«Ci rendiamo conto che qualcosa era importante solo dopo averla perduta.»
Un racconto fluido, vivido, cristallino e vivace che tocca tematiche importanti che vanno dalla malattia, alla fatalità, al sopravvivere, ai rapporti umani, ai legami umani e con la famiglia, al rimorso, al rimpianto, alla possibilità di porre rimedio a quanto è stato a favore di quello che potrebbe essere. Un titolo da leggere un poco alla volta per assimilare ogni perdita, per non essere stancati dall’impostazione narrativa che può risultare quasi un elenco e dunque rischiare di sfiancare e per riflettere su ogni importanza, un titolo da gustare e intriso di tanta tanta filosofia e magnetismo.
«Grazie a lui ho capito che le emozioni nascono nel momento in cui le persone parlano di qualcosa che amano veramente e con tutto il cuore, a prescindere da quale sia l’oggetto del loro amore.»
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Orano
«Nel mondo ci sono state tante epidemie di peste quante guerre. Eppure la peste e la guerra colgono sempre tutti alla sprovvista. Era stato colto alla sprovvista il dottor Rieux, come lo erano stati i nostri concittadini, e questo spiega le sue titubanze. E spiega anche perché fosse combattuto tra la preoccupazione e la fiducia. Quando scoppia una guerra tutti dicono: “È una follia, non durerà.” E se forse una guerra è davvero una follia, chiunque se ne accorgerebbe se non fossimo sempre presi da noi stessi. A questo riguardo, i nostri concittadini erano, come tutti gli altri, presi da se stessi, in altre parole erano umanisti: non credevano ai flagelli. Dal momento che il flagello non è a misura dell’uomo, pensiamo che sia irreale, soltanto un brutto sogno che passerà. Invece non sempre il flagello passa e, di brutto sogno in brutto sogno, sono gli uomini a passare, e in primo luogo gli umanisti che non hanno preso alcuna precauzione.»
Orano, in un anno come tanti e in un tempo sconosciuto, un luogo che altro non è che una prefettura francese della costa algerina che un giorno come un altro viene colto dalla fuoriuscita di topi. Topi e ancora topi, ovunque. Nelle case, per le strade, in prossimità degli uomini. Sono una moltitudine e man mano che escono dai loro nascondigli per affrontare la luce del giorno, periscono. Cosa sta succedendo? Può essere che quel fenomeno inspiegabile correlato ai ratti possa essere ricollegabile anche agli esseri umani stante che ben presto i medesimi iniziano a soffrire di quella patologia che a Rieux appare subito propria del suo nome di peste? E come parlare di quell’epidemia che nulla risparmia e niente concede se non per mezzo di una vera e propria cronaca dell’evoluzione dei fatti?
«Ci si stanca della pietà, quando la pietà è inutile.»
Ed è così che Camus ci prende per mano e conduce tra i meandri di queste pagine intrise di una verità ad oggi molto vicina a quella che noi per primi abbiamo vissuto – e stiamo vivendo – con l’epidemia covid-19. Lo scrittore descrive e delinea con cura quelle che sono le maturazioni delle circostanze così come dell’animo umano. Ci parla di solidarietà, ci parla di assenza di solidarietà, di luoghi comuni, di vite che cambiano e assumono nuove dimensioni e forme ma ci parla anche di egoismo e cattiveria, divergenze economiche e sociali che in un momento dove dovrebbero essere assenti sono al contrario presenti e onnipresenti.
Dopo averlo letto negli anni di studio e in lingua francese sono tornata a “La peste” con un occhio nuovo e diverso, con un occhio che ha osservato il narrato da una diversa e ulteriore prospettiva che si è sommata e fusa con la precedente data dalla prima lettura. L’effetto di impotenza resta e si amplifica, anche se ci sentiamo parte e partecipi, anche se ci sentiamo complici degli abitanti di Orano e delle loro disavventure.
Una lettura che invita alla riflessione e che suscita, per l’impostazione cronachistica di cui è improntata, sensazioni ed emozioni diverse nel conoscitore che se da un lato è incuriosito dai fatti, dall’altro rifugge dall’empatia completa e dal coinvolgimento totale. Ad ogni modo un titolo immancabile nel bagaglio di ogni lettore a prescindere dalla situazione che stiamo vivendo anche noi.
«E mentre svoltava nella via di Grand e di Cottard, Rieux pensava fosse giusto che almeno ogni tanto la gioia ricompensasse coloro che si accontentano dell’uomo e del suo povero e terribile amore.»
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Ritorno sull'Altipiano
“Quelli che rimanevano pensavano che anche una parte di loro se ne andava. Tutti camminavano con il cuore gonfio.”
Con “Le stagioni di Giacomo” Mario Rigoni Stern ci riporta sull’Altipiano a cavallo tra le due grandi guerre. È in questo contesto che conosciamo la voce narrante dell’opera e che apprendiamo del suo carattere e dei suoi valori. La figura che infatti ci viene presentata è quella di un giovane che non si arrende alle avversità e che anzi, al contrario, è in grado di combatterle per raggiungere quei pochi obiettivi a cui maggiormente tiene. Scopriamo un Giacomo che per andare al cinematografo o aiutare la madre in casa mentre il padre è in Francia a lavorare nelle miniere si arma di prodiga per quei boschi e quelle alture per raccogliendo bossoli e reperti bellici di ogni tipo. Egli è un giovane uomo che cresce in un clima non semplice essendo il fascismo ormai una realtà assodata e improcrastinabile. Studia, frequenta gli anni della scuola elementare, custodisce quel che ha imparato.
Un titolo, quello proposto da Mario Rigoni Stern che coinvolge e conquista, che è più un insieme di racconti che un romanzo con una storia unica in quanto a far da costante sono le avventure e le circostanze che vedono crescere l’eroe descritto. A far da contorno, ma non per questo meno importante, la natura con tutte le sue peculiarità e tutti i suoi aspetti più intrinseci.
Un elaborato che scalda il cuore e conferma la forza narrativa ed evocativa dello scrittore.
“Per qualche giorno dopo l’incidente alcuni si promisero di non riprendere quel lavoro disperato ma il Vu che mai aveva smesso di farlo diceva che l’uomo sapiente a tutti i costi acquista prudenza e che, come era scritto nella Bibbia, tiene nella mano destra la sua vita e nella sinistra la ricchezza.”
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Madre e figlia
«Se non sai come vengono indicati i luoghi porti la colpa dell’essere straniero, il figlio di nessuno, loro non sanno chi voterai alle elezioni, chi è il tuo medico di famiglia, che carro costruirai per Carnevale e se friggi latterini alla Sagra del pesce, non sanno come chiederti favori quindi non vogliono fartene, alla posta non ti salutano, dal macellaio ignorano se dici che è il tuo turno, perché è sempre, in ogni caso, il turno loro.»
Giulia Caminito approda in libreria, dopo “La Grande A” e ”Un giorno verrà”, con “L’acqua del lago non è mai dolce”, opera finalista al Premio Strega 2021 nonché selezionata al Premio Campiello dalla giuria dei lettori. Lo scritto si presenta sin dalle prime pagine ben strutturato a livello di forma essendo avvalorato da una penna che è in grado di condurre e che non fatica a proporre i suoi personaggi e le vicende che li riguardano. Prima di tutto conosciamo la giovane eroina di queste pagine, figlia di Antonia, madre ingombrante come personalità e autorità e di un padre che ha perso l’uso delle gambe a causa di un incidente sul lavoro, sorella di Mariano, fratello maggiore con cui condivide solo il sangue materno, e di due gemelli figli di entrambi i suoi genitori. Di fatto è sulla giovane donna che vengono riversate le aspettative e speranze di una famiglia che ben poco ha e che cerca dalla vita quel riscatto che mai sembra arrivare e che si traduce quando in una guerra politica sempre più infranta dall’assenza di valori nella società e dalla ricerca di una casa che è proprio quello Stato a negare e concedere a proprio piacimento.
E Gaia, questo il suo nome, impara, cresce, studia. Perché è l’unica donna, perché deve crearsi un futuro, perché è su di lei che si abbattono tutti i sogni della madre. Perché è su di lei che si concentra l’attenzione dopo che lo stesso fratello maggiore viene cacciato di casa per aver partecipato a un qualcosa che è entrato a far parte della nostra storia quotidiana ma della quale non conosce la portata. Chi mai, al tempo, avrebbe potuto conoscere di ciò? Scoprire degli effetti che questa ha avuto nel tempo prossimo e nel più remoto futuro?
La studentessa deve reagire però in qualche modo. Non può opporsi ai dettati imposti dalla figura materna, non può che esserne soggiogata. Si difende allora innalzando una barriera impenetrabile che la rende inarrivabile e mai feribile. I colpi che la vita riserba non possono scalfire la sua corazza, non possono piombare nel suo io più profondo. Anche quando perde i legami più cari, anche quando l’amicizia la fa soffrire, anche quando l’amore la delude: lei non può andare in pezzi.
«Io e Mariano annuimmo, eravamo fatte di briciole, eravamo bambini, eravamo senza giochi e senza casa, ma eravamo attenti.»
Un titolo, quello proposto dalla Caminito, che si prefigge di trattare tanti temi importanti che vanno dalla famiglia, ai legami madre-figlia, al riscatto sociale, alla ricerca di se stessi, al desiderio di raggiungere i propri obiettivi, alla speranza di poter trovare il proprio posto nel mondo e molto altro ancora. Tuttavia, lo scritto procede senza mai davvero trovare la propria essenza. Il lettore procede nella riscoperta, si interroga, comprende ove la scrittrice voglia arrivare ma resta con un senso di insoddisfazione e di mancato completo appagamento. Il titolo non decolla davvero, giunto alla metà ci si aspetta uno smacco, uno smacco che non arriva. L’impressione è che questo ruoti e si arrovelli su se stesso, quasi perdendo il proprio nord.
Il risultato è quello di un “buon compito scritto”, un tema ben riuscito ma che tale resta difettando di quel quid in più atto a renderlo una storia completa, emozionante, coinvolgente. Ed è un peccato perché i presupposti per riuscire vi erano tutti.
«Dille di non sporgersi troppo, prima deve cercare il suo equilibrio, essere padrona del proprio peso, quella sotto di voi è l’acqua di gennaio, di aprile, di agosto, l’acqua di quando guardavi la superficie e cercavi il riflesso di Cristo, è la prova che hai macinato questi chilometri solo per un tuffo, chiudi gli occhi e dille di fare lo stesso, poi grida: Il lago è una parola magica. È solo dopo aver urlato che tu e Iris avete il coraggio di saltare.»
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Alla ricerca di Popov
«Il dolore, disse fra sé la dona alla finestra, quando è immagine non si condivide. Che sciocchezza illudersi di trovare conforto nella compagnia, che idiozia il detto “mal comune, mezzo gaudio”.»
Nuovo capitolo dedicato alle avventure di Sara Morozzi è “Gli occhi di Sara”, opera classe 2021 che riprende le fila dal punto in cui si erano concluse le vicende in “Una lettera per Sara” e più precisamente porta il lettore a scontrarsi con la malattia del piccolo nipote della protagonista che in queste pagine appare in fin di vita a causa di un tumore di ben dieci centimetri per sei che il suo corpo da dodici chili e ottantaquattro centimetri in alcun modo può vincere.
Al contempo, nel mentre che Sara e Pardo, all’insaputa all’inizio di Viola, cercano in un medico russo la speranza di quell’intervento risolutore che lui e lui soltanto è in grado di porre in essere in quanto alcun altro mai si arrischierebbe a prendere in carico un bambino così piccolo e con una situazione così disperata al punto da considerarne già scritte le sorti, torniamo indietro nel tempo ed esattamente torniamo al 1990 dove un gruppo di studenti fuorisede di origine rumena e dell’est Europa assiste agli sconvolgimenti dettati dalla caduta del comunismo e da un clima sempre più complesso e difficoltoso per gli anni che furono. Come possono assistere in silenzio a quello che sta accadendo? Come possono tollerare le sorti dei loro stessi cari vittime di quel sistema ora volto a condannarli senza remore?
Presente e passato si coniugheranno tra loro; le storie dell’oggi, cioè, troveranno un collegamento con quelle dello ieri sino a far congiungere i vari tasselli e sino quindi a ricomporre quel puzzle più grande ideato dalla penna di De Giovanni.
Il titolo si legge con grande rapidità, è uno scritto leggero ma piacevole, che non si prefigge di essere indimenticabile. Durante lo scorrimento il lettore riesce a più riprese a intuire come si svilupperanno le vicende e dove le medesime ci porteranno, riesce in più occasioni ad anticipare i fatti e al contempo si aspetta quel finale che diverso non poteva essere. Perde di ritmo e rischia a più riprese di diventare farraginosa proprio per questo. Si aspetta, ancora, un nuovo capitolo della serie e per quanto possa aver preferito “Gli occhi di Sara” al precedente “Una lettera per Sara” fatica a restarne completamente convinto perché allo scritto manca quel quid in più tale da renderlo veramente coinvolgente e appagante. La lettura scorre, fluida e rapida ma non entusiasma. È fiacca, supponibile, prevedibile.
«Il destino magari esiste: ma si scrive all’indietro.»
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Vivere e morire
«L’espressione di quel volto pareva dire che tutto quanto si doveva fare era stato fatto; e fatto bene. Inoltre conteneva come un rimprovero o monito ai vivi.»
Vivere e morire. Vivere in uno stereotipo precostituito, con il volto di una famiglia e di una dimensione forse nemmeno davvero scelta e desiderata quanto frutto di un volere comune, di una impostazione predisposta da terzi, da una società che impone i canoni e i dogmi da seguire, con un volto che non appartiene. Ma il tempo passa e con esso il nostro esistere tanto che un giorno, come un altro, ci rendiamo conto che proprio quel tempo che ancora possiamo passare su questa terra con i nostri cari, con i nostri affetti, con i nostri obiettivi, sogni, desideri e impegni, ha le ore contate. La morte sopraggiunge implacabile con la sua falce, il dispiacere colpisce eppure proprio quelle persone che abbiamo accanto sembrano essere quelle che sotto sotto sono più sollevate e rincuorate. Perché sono sopravvissute, perché non è toccato a loro quella sorte funesta seppur inevitabile per tutti.
Passano ancora i giorni, passano le giornate, la morte avanza con il suo incedere cadenzato eppure chi come il destinatario della sentenza di condanna è vittima e preda delle conseguenze è anche il prossimo congiunto, la famiglia, chi quelle urla sente e subisce.
E questo è ciò che accade a Ivan che si renderà conto che presto morirà e che per la sua condizione non vi sono possibilità d’appello. Noi lettori lo seguiamo passo passo in questo percorso senza ritorno, in questa strada a senso unico che consente di rivivere il vissuto e al contempo di analizzarlo e scrutarlo in tutte le sue criticità. Forse quei valori in cui credevamo non erano altro che apparenze? Forse quell’esistenza basata su consuetudini e dogmi imposti ha distolto l’attenzione dal vero essere?
«Ivan Il’Ic resta sente che è lui ad aver comunicato loro quell’uggia e che non può dissiparla. Cenano e si separano, e Ivan Il’ic resta solo, colla coscienza che la sua vita è avvelenata e avvelena quella degli altri, e che questo veleno non cede, ma anzi sempre più penetra tutto il suo essere.»
Tolstoj ci conduce per mano in questo viaggio, ci porta a prendere consapevolezza del nostro tempo finito, di quel che abbiamo e di quel che possiamo apprezzare e amare. Ancora, ci fa riflettere su quel che davvero ha riempito la nostra esistenza e su quel che invece avrebbe potuto riempierla al posto di insignificanti ore susseguite da piaceri fatui.
Un lungo racconto che è un crescendo costante che non delude le aspettative e che al contrario invita il conoscitore a riflettere su un tema mai scontato e banale. Un titolo intriso di magnetismo e riflessione.
«Tutto questo non fu che un attimo per lui, ma il senso di quell’attimo ormai non poteva più mutare. Per i presenti la sua agonia durò ancora due ore. Qualcosa gorgogliava nel suo petto; il suo corpo macerato si scuoteva. Poi gorgoglio e il rantolo si fecero sempre più rari. “È finito!” disse qualcuno su di lui. Egli udì questa parola e se la ripeté nell’anima. ‘Finita la morte’, si disse. ‘Non c’è più, la morte’. Trasse il fiato, si fermo a mezzo, s’irrigidì e morì.»
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Tre. Tre vite. Tre volti
Dopo “Cambiare l’acqua ai fiori” e “Il quaderno dell’amore perduto” Valérie Perrin torna in libreria con “Tre”, un titolo brevissimo se considerate le seicento pagine che conta lo scritto, e di grande significato dal punto di vista dello sviluppo narrativo, ma che al suo interno racchiude l’intera essenza dello stesso.
Tradotto da Alberto Bracci per Edizioni E/O, “Tre” ci conduce tra le sue pagine per mezzo della voce di tre protagonisti e per un lasso temporale che va dal 1986/7, quando i tre ragazzi Etienne, Adrien e Nina si conoscono all’età di dieci anni, sino al dicembre del 2018. L’opera a firma Perrin appare sin dalle prime pagine quale un romanzo circolare e cioè atto, tra i suoi salti temporali tra presente e passato, a ricostruire un unico disegno più grande con un inizio e una fine che consegue, congiunge e si ricollega al punto di partenza.
I personaggi che vengono descritti tra queste pagine sono eroi come tutti noi, giovani uomini e donne con le loro fragilità, le loro paure, le loro debolezze e quel bisogno intrinseco di crescere. La vita li sottoporrà a tante e dolorose prove, in alcuni casi anche drammatiche, e loro non potranno far altro che sperare di poter andare avanti guardando al futuro.
Siamo a Le Comelle, una piccola realtà nel dipartimento di Saona e Loira, al centro di quella che è la Francia continentale. Qui vive Etienne Beaulieu tra agi e ricchezza grazie a una famiglia benestante composta dalla madre Marie Laure, il padre Marc e la sorella minore Louise. E se Etienne è il fascinoso giovane ricco e consapevole di ciò, Adrien Bobin è un timido e studioso giovane uomo che vive con la madre Josephine abbandonata dal compagno nonché padre del ragazzo e che ora vive nella capitale con nuovi figli e una nuova moglie. La sua presenza nella vita del protagonista si limita a sporadiche apparizioni.
Nina con la sua pelle ambrata e gli occhi scuri ha un temperamento artistico ma anche dedizione e bravura nello studio. Abita con il nonno, non ha mai conosciuto il padre, la madre Marion l’ha abbandonata appena nata e conosce soltanto l’amore infinito di Pierre Beau, il postino del luogo.
Tre volti tra loro diversissimi ma che eppure sono legati da una amicizia indissolubile che li rende inseparabili tanto da condividere tutto; dalla scuola alla vita sociale. Passano gli anni, Etienne è amatissimo dalle ragazze, Adrien scrive e si trasferisce a Parigi dove porta a termine il suo progetto e il suo sogno di romanzo che riscuoterà grande successo ma che verrà pubblicato sotto pseudonimo e infine Nina, che ormai sola al mondo a causa della morte del nonno in un incidente dai contorni strani, decide di sposare il ricco Emmanuel Damamme. Egli è innamoratissimo della ragazza ma ne è anche estremamente geloso e possessivo. Sarà questo un amore tossico seppur travestito di perfezione.
Ed è appunto anche di amore che si parla in queste pagine. Un amore dannoso come quello di Nina, un amore puro come quello di Adrien, un amore frivolo ma anche fatto di non detti, quello di Etiénne. Non mancano poi forme di amore quali quello genitoriale, quello verso chi è emarginato, amore come forma di cura, amore per gli animali abbandonati, vero l’arte, verso la propria professione, verso tutto quel che può esserne destinatario.
E non manca nemmeno il mistero: perché i tre ragazzi non si vedono e non si parlano da quattordici anni? E chi narra davvero la storia? Chi è la voce portante? Chi è Virginie con i suoi capelli a caschetto e con qualche filo bianco? Cosa succede nel 2003, anno della frattura della loro relazione? E cosa è successo a Clotilde Marais, ragazza popolare che aveva una relazione con Etiénne e che scompare misteriosamente nel 1994 per poi essere rinvenuta priva di vita e ormai in decomposizione nel 2017 a bordo di un’automobile che giaceva sul fondo del lago nei pressi di La Comelle? Etiénne, che adesso fa parte delle forze dell’ordine e vi lavora, sarà colui che dovrà prima di tutto fare i conti con quella pagina del passato che ancora oggi è in grado di metterlo in crisi.
Tante, ancora, le problematiche trattate dall’autrice tra queste pagine. Un libro che parla di radici, di radici famigliari perse e ritrovate, di abbandono dei genitori, di legami affettivi, di malattia, di sessualità, di pulsioni, di violenza sulle donne, di identità di genere, di difficoltà ad affrontare le pulsioni legate alla sessualità, alla vita, al vivere e all’esito finale della vita, alla morte.
La grande bravura dell’autrice risiede nel riuscire a trattare tematiche importanti con grande sensibilità, ben mixandole con personaggi vividi e una mole corposa, rendendole vivide e cristalline nella mente dei lettori, lasciandole giungere con una vena di leggerezza che conduce e appassiona ma che mai cade nello scontato o ne appiattisce la sostanza. “Tre” è un titolo che si legge con rapidità, che solletica il cuore, che trattiene, che emoziona e che commuove. Un libro che conferma le capacità narrative della scrittrice e che non deluderà le aspettative di chi ha amato i suoi scritti. Ancora è un elaborato che può convincere anche chi, al contrario, non ha amato “Cambiare l’acqua ai fiori” perché più stratificato, più maturo per temi e trattazione, più completo. Buona lettura!
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AA
«Sì. Deve essere andata così. Si erano persi. E forse solo adesso, per puro caso, si sono ritrovati.»
Klara non è una semplice AA, non è una semplice Amica Artificiale appartenente alla categoria dei B2, un robot umanoide ad alimentazione solare: Klara è un modello fuori dal comune, un modello robotico di grande sensibilità, con una voce fuori dal collettivo, con un occhio capace di osservare i dettagli più celati, con un orecchio capace di ascoltare davvero, con una anima di una dolcezza e delicatezza ineguagliabili. Ecco perché tra tutti viene scelta da Josie, quattordicenne reduce dagli effetti di un potenziamento andato male, che con lei inizia un nuovo percorso di vita. Klara sente di appartenere alla sua piccola umana, a quella ragazzina vivace; eppure, malata che mantiene la sua promessa, che ha un amico con cui condivide un progetto segreto, Rick, e una sorella perduta per sempre, Sal. Klara, una volta a casa e lontana dalla Direttrice del negozio in cui era esposta con gli altri amici AA quali Rosa e Rex, cerca di adattarsi alle direttive della fredda madre che sempre la mette alla prova e della domestica Melania che la tratta al pari di una aspirapolvere. Klara è curiosa, osserva il mondo che la circonda esattamente come lo osservava fuori dal negozio in cui si trovava prima di essere scelta. Klara è devota alla sua adolescente umana ma anche al Sole e al suo prezioso nutrimento. Quest’ultimo è vissuto quasi come se fosse un Dio e per questo è venerato e simbolo di grazia e generosità. Ma quale futuro è riservato a Klara? Quali saranno le sorti di Josie?
«Non solo avevo imparato che i “i cambiamenti” facevano parte di Josie e che dovevo essere preparata ad accettarli, ma avevo anche cominciato a capire che quel tratto non riguardava soltanto Josie; che la gente sentiva il bisogno di predisporre un aspetto di sé da mostrare ai passanti – come avrebbe fatto nella vetrina di un negozio – e che non era il caso di prendere troppo sul serio quel lato esibito, una volta passato il momento.»
Kazuo Ishiguro torna in libreria con un titolo che scuote e conquista, che invita alla riflessione e che non manca di solleticare le corde più intime del lettore. Sin dalle prime battute viene spontaneo e naturale riconoscere in “Klara e il Sole” retaggi di “Io robot” di Isaac Asimov e in particolare del racconto ivi contenuto intitolato “Robbie” (primo scritto dello scrittore sui robot classe 1940, edito in Italia nel 1963 e ripubblicato in successive antologie con il titolo “Uno strano compagno di giochi” a partire dal 1980). Kazuo Ishiguro nella sua opera crea e dà vita a un personaggio cristallino e puro, un personaggio che parla una luce propria e che si fa amare per questo. Klara è una personalità che spicca per empatia e magnetismo, che coinvolge con il suo sguardo genuino e autentico, per la sua devozione e la sua paura di essere di troppo o di non essere abbastanza nel suo cercare di aiutare la sua giovane umana. Al contempo, Ishiguro, non manca di interrogarsi su tematiche canoniche al filone distopico/fantascientifico e che toccano concetti quali esistenza, umanità, giustizia, moralità, anima, cuore, sentimenti ed emozioni. Si interroga su quel che gli AA provano, su quel che celano al loro interno, non manca di destinarci di una forma di razzismo al contrario quando questi vengono paragonati a meri elettrodomestici buoni soltanto ad esercitare la loro funzione precostituita per poi essere riposti in un angolo, non manca di offrirci una prospettiva a trecentosessanta gradi su un mondo in continua evoluzione e non così lontano da quello che oggi conosciamo. E non mancano, ancora, tematiche etiche e di filosofia morale. È giusto potenziare i bambini affinché abbiano “possibilità” in più? È giusto sottoporli a un rischio tale quale quello di una modifica genetica per consentire loro di raggiungere obiettivi “più alti”? O forse è solo un mero egoistico desiderio di incontentabili genitori? Ed è giusta quella sorte destinata agli AA ormai divenuti obsoleti e inutili?
Tante le domande che popolano queste pagine e che ci trattengono in loro. Ishiguro non delude le aspettative, torna ai suoi albori e mantiene alta l’asticella per i suoi lettori affezionati e novizi. Lo scritto si lascia gustare battuta dopo battuta anche grazie a una penna precisa e accattivante che conduce per mano per mezzo di un ritmo narrativo per cadenzato che mai rallenta o accelera mantenendo una sua naturale costanza e scorrevolezza.
“Klara e il Sole” ti entra dentro, scalda il cuore e resta.
«Tu credi al cuore umano? Non intendo semplicemente l’organo, è ovvio. Parlo in senso poetico. Il cuore umano. Tu credi che esista? Qualcosa che rende ciascuno di noi unico e straordinario? E mettiamo che esista. Se è così, non credi che per imparare Josie davvero non dovresti studiare soltanto i suoi modi ma anche quello che sta dentro di lei profondamente? Non dovresti imparare il suo cuore?»
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Scrittore da scoprire, libro da amare
«Esisteva dunque un rapporto tra amore e follia. Ma era l’amore a fare impazzire la gente o era la follia a esaltare i loro amori?»
Marcel è ancora un ragazzino all’inizio di questo scritto intriso di magia e ricordi, di pensieri e parole che si susseguono nel tempo che scorre e nell’ingenuità di un giovane che assapora la vita con i suoi occhi colmi di curiosità. E sono anche i primi amori, quelli che scopre. Amori vissuti con il brio e la voglia di scoperta, con il desiderio di realizzarsi e realizzare, con lo sguardo rivolto a un futuro fatto di fantasia. È un amore quello che prova per Isabel che porta anche a essere maltrattato e preso in giro da quella musa ispiratrice che di lui si approfitta piegandolo al suo volere. Ecco allora che subentra la fine dell’innamoramento, il bisogno di crescere, il ritorno alle proprie origini. Il tutto con quel magnetismo e quella prosa che è propria di uno scrittore poco conosciuto in Italia e ormai quasi introvabile.
Drammaturgo, regista cinematografico, autore di molteplici opere di inventiva e di verve, Marcel Pagnol ci fa destinatari in questo scritto di un piccolo gioiello di rara bellezza e pregio. Neri Pozza ha pubblicato altre opere a sua firma (in particolare con carattere autobiografico e a questo elaborato naturale e conseguente continuazione) purtroppo ormai difficilissime da reperire e che raccontano la crescita dello scrittore, la sua età adulta.
Un titolo che accarezza, trasporta e fa sognare.
«Fu in quel momento che riflettei sull’ingiusta distribuzione delle ricchezze, visto che Bernier scriveva come una gallina, e provai una brutta stretta al cuore.»
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Ricerca
«L’uomo si chiese come facesse quella gente ad andare avanti, come si potesse sottrarre tanto alla vita – il calore, la compagnia, la cultura, addirittura la luce – e vederla, malgrado tutto, resistere.»
Un uomo e una donna. Un viaggio in un luogo desolato, privo di confini, contorni, privo di orizzonti. Un luogo che sembra disperso nel tempo, un luogo che sembra dimenticato dal mondo. È qui che sono diretti. Stentano quasi a credere di essere arrivati quando il treno si ferma. Eppure la loro destinazione è quella, i lunghi giorni di viaggio li hanno condotti lì, all’estremo nord, alla ricerca di quel bambino da adottare sugello del proprio desiderio di genitorialità a maggior ragione ora che ella sta morendo e quello è l’unico desiderio che ancora la tiene in vita: lasciare lui con un ricordo di lei e un nuovo futuro da scrivere partendo da quel che è stato il passato. Riuscirà la coppia ad adottare il bimbo? Cosa accadrà davvero in questo tempo atemporale che li vedrà protagonisti in queste pagine dense di significato?
«Non è successo. Spesso le persone pensano che sia successo qualcosa quando non è successo niente. Lo desiderano tanto che il corpo si inganna da solo.»
Perché Peter Cameron propone ai suoi lettori uno scritto intriso di magnetismo e capace di suscitare emozioni e soprattutto riflessioni con semplicità e rapidità. Tra queste pagine sono contenuti sentimenti, contraddizioni, omosessualità, egoismi, relazioni, amore, fragilità, perdita, separazione, dolore, speranza per un domani che non è scritto insieme, desiderio di rinascita ma anche di comprensione, desiderio di possibilità. È un titolo delicato che scuote e che lascia il segno, che trascina chiedendo di essere letto un poco alla volta ma soprattutto è uno scritto che trasporta completamente al suo interno anche e soprattutto grazie alle ambientazioni che sono semplicemente vivide.
«Che tiro fuori le parole, i pensieri, le idee. Se non li esprimi, che senso hanno? Muoiono insieme a te. Invece, quando li esprimi, sono nel mondo. Chi lo sa cosa accade ai suoni? Noi pensiamo che scompaiano, ma potrebbero benissimo continuare a vibrare, restare sospesi nell’universo, e magari fra cento milioni di anni qualcuno o qualcosa ne percepirà la vibrazione. Magari sentiranno per filo e per segno quello che ti sto dicendo adesso.»
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Il cuore che cela il mistero
«Il segno può rappresentare una comunicazione d’amore, di fede, di passione, di qualcosa comunque volto al bene. D’accordo. Ma vi si possono annidare i tentacoli di una volontà del tutto intesa al male?»
Ci sono libri che semplicemente chiamano, ci sono libri che ti capitano quasi per caso e che appena sfogli sai che lasceranno il segno, scolpiranno in te le emozioni dell’amore ma anche della Storia e dell’intrigo che in essi si celano. Ed è così che ci risvegliamo ad Amantea, provincia di Cosenza, Calabria, anno 1733. Fratel Cosimo, investigatore, giunge al collegio dei gesuiti dopo essere stato inviato da Napoli per fare luce su alcuni eventi miracolosi tanto che è proprio al momento del suo arrivare che assiste al prodigioso e miracoloso salvamento della barca di Rocco Baldanza. Questo salvataggio viene, a causa di una visione, attribuito al Sacro Cuore di Gesù e poco dopo, sempre in occasione della sua visita, nella cappella di Santa Chiara, una reliquia rilascia “gocciole di Santa Manna”. L’investigatore, coadiuvato nelle indagini da padre Antonio, collega gli eventi all’interpretazione del segno “J” all’interno di un cuore rinvenuto sui luoghi dei miracoli e anche sulla sua cella. Tuttavia, a questi eventi miracolosi si contrappongono due fatti delittuosi che portano il frate a dover investigare anche sulla morte di uomini rinvenuti con petto spalancato e un sasso al posto del cuore. Cosa significa tutto ciò? Perché queste morti si sono susseguite a così breve distanza tra loro e a una distanza altrettanto inferiore rispetto a quella dei miracoli?
E poi ancora abbiamo loro; Anna Carratelli, la badessa del convento di santa Chiara, con la sua bellezza senza confini e la sua ancora giovane età atta a esprimerne i rigogli e le forme sinuose e affascinanti e lui, Nicola Guercio, medico di quel convento che cerca di conquistarne l’amore nonostante il sentimento e il suo sviluppo amoroso sia ostacolato da suor Tarcisia, la vecchia “ascoltatrice” del monastero che necessita di cure dall’uomo vertendo la sua salute in condizioni precarie.
«[…] Il bisogno assoluto di lei, “ecco il paradiso”, l’angoscia di perderla, un dolore insopportabile, “ecco l’inferno”. Esordiva con una esortazione e concludeva con una speranza, e con l’unica possibile risposta: l’amore, la vita, invece del seppellimento nella tristezza del convento.»
Una trama che sa ben mixare amore, intrigo, mistero, giallo, passione, fede e Storia è “Nel segno del cuore”, opera a firma Sergio Ruggiero classe 2013 che sin dalle prime pagine conquista l’avventuriero conoscitore grazie a una trama solida e priva di sbavature a cui ben si mixa uno stile narrativo curato, minuzioso, erudito. La sensazione del lettore è infatti quella di trovarsi di fronte a un romanzo storico ben costruito e delineato, che non tralascia i fatti del vero, ma che al contempo ben mixa l’invenzione. I personaggi, ancora, sono vividi nella mente, non faticano a essere immaginati e assaporati, amati e scoperti. L’empatia è immediata, il trasporto e il sentimento non lasciano mai. Le ambientazioni sono curate nel dettaglio tanto che viene proprio voglia di visitare Amantea e di perdersi tra i suoi borghi, i suoi usi e costumi.
Chi legge è completamente coinvolto dalla narrazione, condotto per mano senza difficoltà e affascinato da questi tre elementi che compongono la vicenda. “Nel segno del cuore” è un titolo che si assapora e si gusta un poco alla volta perché non lo si vuole ultimare, è un romanzo che resta.
«Il coinvolgimento del dottore pareva evidente ma l’evidenza non sempre corrisponde con la verità, semmai con l’apparenza. E questo mi sia di massima.»
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Amélie e Pétronille
Con questo ventitreesimo romanzo intitolato “Petronille” di Amélie Nothomb ci troviamo di fronte a un titolo auto-diegetico e caratterizzato anche da un connotato di autofiction e dunque una storia con aspetti di veridicità e altrettanti di invenzione ma che tra loro ben si mixano per realizzare un quadro completo. E così da un lato conosciamo Amélie, aristocratica figlia di un diplomatico e con una vita iniziata nella dimensione nipponica ma sempre condizionata dall’attività del padre e dall’altro conosciamo Pétronille Fanto, proletaria figlia di gente di sinistra, convinta dei suoi ideali e alter ego di Stephanie Hochet, scrittrice i cui lavori vengono citati. Amélie è amica di Pétronille con la quale è “convigna” ovvero, dal francese “convigne”, compagna di bevute (come da consueto autoironico neologismo). A unire due donne così diverse vi è l’amore per la scrittura e per le bollicine, per quello champagne che in più di una occasione ha loro concesso di incontrarsi in diversi periodi del loro vivere.
Due figure tra loro eclettiche e differenti che si stimano e che sono l’una incuriosita dall’altra e da quel mondo originario cui ciascuna appartiene. Due figure che concepiscono e vivono quello stesso scrivere in modo opposto anche e proprio a causa del ceto originario di appartenenza. Soprattutto Pétronille giunge per la sua caparbietà al voler vivere di parola scritta dovendo di poi far i conti con le difficoltà economiche.
«E se Pétronille si metteva in pericolo fino a quel punto, era per conoscere quell'esaltazione suprema, quella dilatazione estatica del sentimento dell'esistenza.»
Un libro che coinvolge per le emozioni che la scrittrice vive e prova, un elaborato che ci porta a conoscere di un altro tassello della vita dell’autrice belga e che giunge con la solita sensibilità e profondità – anche filosofica – che le appartiene. Non manca anche quella graffiante ironia che le è propria seppur in modo più sottile. Consigliato a chi già conosce della sua produzione, inadatto per un primo e acerbo approccio.
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Viaggio, ricordo, emozione
«Fino a oggi il mio idillio con il Giappone è stato perfetto. Contiene gli ingredienti indispensabili agli amori mitici: incontro abbagliante nel corso della prima infanzia, sradicamento, lutto, nostalgia, nuovo incontro all’età di vent’anni, tresca, relazione appassionata, scoperte, peripezie, ambiguità, unione, fuga, perdono, strascichi.»
Con “La nostalgia felice” Amélie Nothomb torna in Giappone a distanza di sedici anni dal suo ultimo viaggio nipponico. Anche questa volta le pagine sono intrise di elementi autobiografici ma non mancano elementi del quotidiano e dello storico: ella, con grande precisione, rivive della tragedia di Fukushima, rivive l’incontro con l’anziana bambinaia adesso così fragile e delicata, rivive del disastro nucleare, rivive Rinri quel ragazzo di assoluta bontà conosciuto ventitré anni prima, rivive del terremoto che ha messo in ginocchio il paese.
«Un’ora fa pensavo che ritrovarsi dovesse essere proibito. Adesso penso che dovrebbero esserlo anche le separazioni. Sto trasgredendo questi due tabù complementari a un’ora di distanza. La mia unica scusa è che ne ignoravo la natura tragica.»
L’intero romanzo si snoda sui ricordi e assume una forma reportistica tanto da suscitare nel lettore dalle grandi aspettative un senso di confusione, perdita delle coordinate, mancanza di empatia. In realtà l’autrice ci conduce per mano in quello che è un vero e proprio viaggio sentimentale fatto di significati, consapevolezza della cultura giapponese questa volta con una prospettiva più matura rispetto che ai ventidue anni di cui al primo viaggio, emozione e intensità.
Un titolo che è dolcezza, intimità, profondità. Un elaborato che aggiunge un tassello in più al quadro delineato negli anni dalla scrittrice belga. Consigliato soprattutto a chi ama e ha amato gli scritti della Nothomb, consigliato a chi già ne conosce la produzione.
«Le persone solidamente centrate non capiscono di cosa si tratti. L’imbarazzo presuppone un’ipertrofia della percezione dell’altro, da cui deriva l’educazione delle persone imbarazzate, che vivono solo in funzione degli altri. Il paradosso dell’imbarazzo è che crea un malessere a partire dalla deferenza che l’altro ispira.»
«Il giorno in cui la gente si farà gli affari suoi sarà sempre troppo tardi.»
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Saltiamo?
«Ricordo di avere pensato che era un momento strano per scoprirlo, proprio l’ultima sera della mia vita; dopo averla passata tutta quanta, la vita, con addosso la paura di tutto.»
Quattro illustri sconosciuti. Quattro illustri sconosciuti che in quella notte dell’ultimo dell’anno si ritrovano su quel tetto della Casa dei Suicidi pronti a fare quel salto. Ciascuno con un suo perché, ciascuno con una propria solitudine, ciascuno con una specifica ragione che lo conduce a desiderare di interrompere quella vita fatta di tradimenti, gelosie, prigionia, illusioni, sconforto.
E conosciamo Martin, ex star della televisione, caduto dalle alte vette del successo per una storia di sesso con una minorenne alla quale non ha saputo resistere. Jess, lasciata dal fidanzato verso il quale nutre manie ossessive-compulsive vive in una famiglia assente, agiata, ed economicamente forte ma che tuttavia non ha mai superato il lutto per l’altra figlia morta e da qui l’odio e l’astio verso tutto quel che è cultura ivi compreso il lessico forbito detestato con quella forza paragonabile all’astio razziale verso il diverso. Maureen, ancora, è una madre sola che si è sempre occupa di quel figlio Matt, affetto da una malattia invalidante che ha invalidato anche la sua vita sino a portarla al credere di non farcela più. Infine, ultimo protagonista, JJ, colui che sognava la fama musicale ma che invece si ritrova a essere fattorino di pizze al domicilio.
Quattro volti, quattro storie tra loro completamente diverse, quattro sconosciuti che sono pronti a saltare ma che eppure si fanno una promessa tanto da decidere di attendere un tempo prestabilito prima di compiere il salto. Quattro volti, quattro storie tra loro completamente diverse, quattro sconosciuti che sono pronti a saltare che iniziano a rispecchiarsi l’uno nell’altra riscoprendosi, forse, non più così soli.
«Capisci che non stai andando bene quando non puoi raccontare agli altri i fatti più semplici della tua via, solo perché si immaginerebbero che gli stai chiedendo pietà. Secondo me è per questo che una si sente così lontana da tutti, alla fine: qualunque cosa pensi di dirgli, finisce sempre che li fa star male.»
Novanta giorni, il tempo limite concesso per metabolizzare l’idea del suicidio ed eventualmente compierlo, novanta giorni in cui il quartetto potrà guardarsi dentro ma anche vivere una nuova esperienza di condivisione. Un legame, quello che nasce, che sorprende per primi gli stessi protagonisti ma che riesce a condurre per mano i lettori e a portarli, a loro volta, a porsi domande, a cercare risposte.
Tra disillusione per vita e amore (JJ), sconforto, inadeguatezza ed esaurimento (Maureen), ricerca e voglia di esistere (Jess), desiderio di una seconda possibilità e di rinascita mixato a gran senso dell’humor e ironia (Martin), ha inizio un viaggio volto a ricostruire, ricucire, ripartire, svegliare. Imparando a osservare, ascoltare, leggersi nell’animo. Imparando a darsi una seconda occasione. Imparando a guardare al domani, un domani che potrà stupire e sorprendere.
Un romanzo che è la perfetta fotografia della società del tempo, che è un incitamento al provare e al non demordere, a esistere e non soltanto sopravvivere. Scritto con una penna che muta a seconda della voce narrante e dunque conformandosi al personaggio al punto da renderlo ancora più concreto e veritiero, “Non buttiamoci giù” è un libro che chiama e coccola tra le sue pagine non deludendo le aspettative né degli amanti dell’autore che non.
«Passiamo tutti tanto tempo senza dire cosa vogliamo perché sappiamo di non poterlo avere. E perché sembrano robe rozze, o ingrate, o sleali o infantili, o stupide. O anche perché siamo talmente disperati da fingere che le cose siano come devono essere, e sembra una mossa falsa per confessare a noi stessi che non lo sono. Su, forza, sputa cosa vuoi. “Vorrei non averlo mai sposato.” “Vorrei che fosse ancora viva.” “Vorrei non avere mai fatto dei figli con lei.” “Vorrei avere una barcata di soldi.” “Vorrei che tutti gli albanesi tornassero nella loro Albania di merda.” Qualunque cosa sia, dilla a te stesso. La verità ti renderà libero. Oppure ti beccherai un pugno sul muso. Sopravvivere a qualsiasi vita tu stia vivendo significa mentire, e l’inganno corrode l’anima: quindi, almeno per un minuto, molla le bugie.»
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Saturnine
«Più lui la fotografava, più lei sentiva affiorare sulla pelle, un’energia incontenibile. Dato che lui sviluppava con l’argento, la seduta non fu sciupata dall’immediatezza del risultato: l’opera ha bisogno del mistero dell’attesa. È cosa buona, quando si crea, non negare il tempo.»
Saturnine, di origine Belga è alla ricerca di una stanza ammobiliata all’interno della quale vivere così da poter liberare quella ove alloggia presso un’amica in quel di Parigi, la città dell’amore. L’annuncio appare per caso, la decisione di partecipare al colloquio nonostante le avvisaglie e le perplessità che si celano dietro all’abitazione extralusso a prezzo irrisorio non la spaventano, la casualità di essere scelta non la fa demordere. Ed ecco che la giovane si ritrova ospite tra le mura incantante di casa di Elemirio Nibal y Milcar, grande di Spagna, di anni quarantaquattro, amante del periodo dell’inquisizione con relativi atti processuali al seguito, di sangue blu e proprietario di molti beni tali e atti a farlo vivere nella comodità e nel lusso così da non dover nemmeno uscire di casa. La stessa servitù dopo la morte dei genitori è stata ridotta al minimo ma non per una questione economica quanto, al contrario, per una scelta libera portata avanti da questa stessa in quanto l’erede aveva sposato uno stile di vita più riservato, eclettico e meno mondano. Ma cosa si cela dietro le apparenze? L’uomo si dichiara subito innamorato della giovane ospite, non nasconde di aver avuto altre otto coinquiline tutte amate negli anni precedenti, non si pronuncia sulla loro sparizione ma nemmeno afferma o smentisce di una loro presunta morte, ammalia, ancora, e affascina, con tessuti usati per realizzare oggetti fatti a mano, affascina e seduce con cene di prima qualità di poi, dopo la scoperta, accompagnate con calici di champagne così tanto amato dalla Nothomb. A far da padrone del mistero, una camera oscura. Impenetrabile quanto minacciosa nel suo semplice esistere.
« - Ammiro il suo tono ex cattedra nel parlare di un argomento che le è estraneo. Non crede che ogni essere umano abbia il diritto alla sua camera oscura?
- La cosa sconvolgente è che con lei diventa una minaccia.
- Ogni diritto implica una sanzione in caso di infrazione. È così.
- Una sanzione che non sia sproporzionata. Nel suo sistema, la sanzione è molto peggiore del crimine.»
Chiaro e immediato è il riferimento alla favola di Perrault ove Barbablù, barone di Rais, ovvero Gilles de Montmorency-Laval, aveva combattuto al fianco di Giovanna d’Arco vantando tra le sue frecce proprietà di tenute e castelli ma non per questo immune all’accusa e conseguente condanna per stupri, uccisioni e torture realizzate con cerimonie pantagrueliche. A queste non veniva meno il chiaro sacrificio di innocenti adescati tra i meno abbienti e dunque più inclini e facili al cedere alle avances di un benestare.
«Innamorarsi è il fenomeno più misterioso dell’universo. Chi si innamora a prima vista vive la versione meno inesplicabile de miracolo: se prima non amava, è perché ignorava l’esistenza dell’altro.»
Surreale, un po’ gotica, graffiante, lapidaria. Anche questa volta tutti i tratti principali e salienti della scrittrice belga non mancano e si riconfermano nella scrittura dialogica ben mixata con una impostazione narrativa che si conforma allo stile in cui il lettore più avvezzo ormai si riconosce. Tanti sono gli spunti di riflessione e le tematiche che vengono trattate in questo titolo che si snoda interamente sul concetto di allegoria e che tocca problematiche importanti quali i legami amorosi e affettivi, le relazioni disfunzionali, il moralismo, la punizione e molte altre ancora. Oltretutto per la Nothomb la favola di Barbablù è un ricordo di gioventù avendo ella amato la medesima e dato a questa una sua interpretazione personale. Lo stesso Barbablù è un suo amico immaginario protagonista di elaborati non ancora pubblicati. Non mancano poi i riferimenti alla sua vita autobiografica essendo Saturinine/Amélie la prima ad aver dormito su divani amici al momento del sopraggiungere in Francia. Nulla è lasciato al caso tra queste pagine nemmeno il nome della nostra eroina che rimanda a Saturno e all’età dell’oro, all’alchimia, al ruolo dell’arte. Un romanzo completo, che incuriosisce, stuzzica, porta alla riflessione e invoglia ad andare avanti. Di gran lunga preferito ai precedenti ultimi tre titoli letti (sto leggendo seguendo l’ordine cronologico) all’interno dei quali avevo invece ravvisato un affievolimento della sua produzione.
«Sì, ecco, parliamone. Il colore, che cos’è? Una sensazione prodotta dalle radiazioni della luce. Si può vivere senza: certi daltonici distinguono solo il nero e il bianco e non sono meno bene informati degli altri. In compenso, sono privi di un piacere fondamentale. È talmente vero che in giapponese “colore” può essere sinonimo di amore.»
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Fame.
«C’è un punto oltre il quale non si può andare. Forse, dopo aver pianto tante lacrime, un po’ ci stanchiamo del dolore. È come un’ombra che ormai ti ha gelato l’anima, ti accadono le cose e tu te ne resti sempre un po’ fuori, le guardi da lontano, non sono più tue.»
La fame. La fame con la F maiuscola, la fame che va oltre ogni morale, confine e ragione. La fame che ti prende dentro e che non vede frontiere e che è deve essere appagata, nonostante tutto e tutti. Anche a costo di dover assaggiare tua madre, anche a costo di perdere quella tua umanità, sino a essere tu stesso una bestia.
Bastiano e la sua famiglia vivono nella povertà più totale in quella Grande Guerra che porta all’avvio della vicenda narrata da Sacha Naspini. La guerra è ovunque e a loro non resta altro che quel nascondiglio, con quella lancia di fortuna e quel sopravvivere tra animali di passaggio e quel bosco che tutto circonda. Bastiano è la voce portante che ci accompagna con la sua filosofia spiccia e il suo essere cresciuto e vissuto in simbiosi con la natura. Questo lo porta a un bisogno di sopravvivenza a ogni costo in quella sinergia completa con l’ambiente circostante spietato, malvagio, cattivo, crudo. Non esistono sentimenti, non c’è spazio per il perdono, non vi è spazio per la morale.
«Io non lo so se hai mai provato la fame quella brutta, quella che neanche ti fa dormire e se per caso ci riesci non fai che sognare quello: di mangiare. La fame quella che ti fa impazzire, tanto che cominci a guardare il secchio dei bisogni, o scavi con un dito per terra, in mezzo a una fessura delle tavole, alle volte ti capitasse un baco tra le mani. Giuro che ti metteresti in bocca di tutto, se piangi non fai che leccarti le mani per sentire il sapore. Inutile succhiare le radici che ci sono d’inverno, non sono per la gente, se lo fai rigetti liquido e stai anche peggio. Io non lo so se hai mai provato quella fame lì. Quella che a un certo punto, una volta, ha fatto dire al babbo: “Ora mi levo dal mondo e mangiate me”.»
La Maremma rurale, le credenze popolari, il confine tra il bene e il male sono gli elementi che ancora ci accompagnano. Bastiano cresce, è costretto a separarsi dal padre, la madre viene a mancare dopo lunghi periodi di malattia, è sottoposto alla galera, è mandato in quella nuova guerra, è preso nei campi di prigionia, finisce con l’essere catturato da un nemico di cui ancora una volta non comprende la lingua ma dal quale deve difendersi. Scopre di un torto subito sin dalla nascita e che lo ha visto detentore di un destino infame a differenza di quell’altra persona prediletta a cui il fato ha riserbato il meglio. Ma sino a che punto è lecito spingersi per raggiungere i propri obiettivi? Sino a quando il fine può giustificare i mezzi? Può quella fame trovare appagamento? Essere saziata? Oppure, semplicemente, questa è costante guida di ogni scelta e di ogni decisione, di ogni gesto e di ogni barbaria?
Un viaggio che nulla risparmia al lettore è “I Cariolanti” di Sacha Naspini. Uno scritto che tocca anche le più ataviche delle convinzioni e che le mette in discussione oltre ogni dubbio e certezza. E quante le domande che vengono sollevate dall’autore, e quante le risposte cercate e bramate. Al tutto si somma una scrittura autentica, concreta, cruda, che nulla risparmia e nulla cela al conoscitore. Una trama, ancora, solida per una storia evocativa, di gran contenuto, che non si dimentica e che conquista pagina dopo pagina.
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Un esordio fiacco
Avvicinarsi a una raccolta di racconti è sempre una esperienza molto particolare perché la formula narrativa in questione difetta di quella continuità che sovente caratterizza altre forme quali il romanzo, il saggio e che per questo tende ad allontanare per definizione l’avventuriero lettore. Anche per questa ragione, generalmente, la raccolta dovrebbe essere avvalorata da un denominatore comune che porti e che conduca per mano passo passo, un poco alla volta, per quello che è un obiettivo costante e prevalente. Se viene meno il denominatore comune in questione il risultato è quello di un testo nel suo complesso disomogeneo e per effetto privo di mordente.
Purtroppo questo è anche ciò che accade con “Vie di fuga” di Naomi Ishiguro, opera d’esordio della medesima e chiaramente vittima anche del nome altisonante del padre. Inevitabile è la riconduzione di questa alle proposte paterne anche ricorrendo al non indifferente sforzo di scindere le due posizioni. La Ishiguro non si propone ai suoi lettori con uno scritto di difficile lettura, al contrario, lo stile è fluido e scorrevole, non manca l’autenticità nei racconti, ma il filo conduttore che rimanda a quello che è il titolo e a ciascun testo è estremamente debole.
Non solo. I vari racconti sono privi di quello smalto capace di trattenere con entusiasmo tra le pagine, di coinvolgere e conquistare, emozionare e trascinare. A tratti il conoscitore si chiede ove ella voglia arrivare e fatica a proseguire perché colpito anche da uno scarso ardore che spesso ricade nella noia.
Un esordio debole, fiacco, che non riesce a distinguersi e a lasciare impresso un segno nella mente.
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Alla riscoperta della Pianura Padana
«La nebbia ha a che fare forse con la noia? Una delle domande suggerite dalla nebbia non è: dove sono? Ma piuttosto: dove sono gli altri? E anche: cosa lega i miei pensieri alle cose che ci sono? La nebbia consente di immaginare, di guardare, di vedere quello che non si riesce a vedere quando tutto è completamente visibile.»
In questa sua ultima fatica Marco Belpoliti ci conduce per mano in un viaggio attraverso la Pianura Padana (versante emiliano). Il titolo nasce in quella che è una struttura aneddotica e si sviluppa cercando di portare l’attenzione del lettore proprio su quei misteri del presente e del passato che si celano in questo luogo dalle linee piatte e lineari. Marco non si fa però spaventare da queste linee rette che la caratterizzano, da questa assenza di curve che ne evolvono il promontorio, da questo solo apparente luogo caratterizzato da precisamente una pianura senza confini e la cui distesa non sembra averne. Egli ci fa riflettere sul fatto che in verità soltanto in apparenza ella è piatta in quanto, è un posto in mutamento costante. E come muta lei mutano anche i suoi abitanti e le loro storie, i loro aneddoti e il loro vivere.
Belpoliti tra queste pagine cerca di mapparla, di definirla e per farlo parte dalle epoche preromane passando per il Rinascimento, e lo fa con illustrazioni, immagini, scarabocchi, incontri con quelle persone che hanno legato il loro vivere alla Pianura Padana (da Luigi Ghirri a Giovanni Lindo Ferretti). Ecco perché questo suo ultimo lavoro può essere considerato una vera e propria cartografia, un diario di viaggio. Un’idea, questo scritto, che ha preso forma e campo ben venti anni fa quando già un contratto con Einaudi era stato siglato per la sua realizzazione. Sono passati gli anni, le storie, i pensieri e le riflessioni si sono accumulate ed alla fine è nato. Da un processo di accumulo, da un bisogno giunto e raggiunto di scriverne e dargli forma e contorno.
“Pianura” è sì una cartografia ma è anche un memoir per chi quella terra l’ha vissuta e la vive vicina, per chi quella terra dall’assenza di curve e spunzoni la sente pulsare nel cuore. Non è un titolo per tutti, l’ultima fatica di Belpoliti, ma certamente non mancherà di solleticare la curiosità degli appassionati e di chi è interessato a leggere la storia di una regione da un punto di vista interno, da una diversa prospettiva.
«La sua era una attenzione fatta di cose antiche, ma sempre nuove, quelle che vedono gli abitanti della campagna emiliana da secoli: pezzi di cielo, oggetti di casa, muri sbrecciati, vecchie cascine, cose di nessuna importanza per cui mai nessuno prima di lui s’era fermato a ritrarle.»
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La furia, l'urlo, il suono
«Un uomo vivo è meglio di qualsiasi uomo morto, ma nessun uomo vivo o morto è molto migliore di qualsiasi altro uomo vivo o morto.»
Classe 1929, “L’urlo e il furore” è uno scritto a firma William Faulkner che sin dalle prime pagine colpisce per la sua impostazione stilistica atta a suscitare un viaggio introspettivo in quello che è un flusso di coscienza continuo e ininterrotto. Obiettivo dell’autore è quello di ripercorrere la tragedia di una famiglia suddividendo simbolicamente il componimento in quattro parti che appunto ne ripercorrono negli anni le sorti e le conseguenze. Ogni sezione assume una diversa capacità evocativa, una capacità evocativa che risente di una diversa prosa e dunque di un ritmo in crescendo e confluendo e mai in adagio.
Non a caso, infatti, se nella prima e seconda parte lo stile si avviluppa, contorce e fa entrare il lettore in un meccanismo concatenato di fatti del presente, del passato e dello sperato che si fondano tra loro, nella terza e quarta sezione, al contrario, ci troviamo di fronte a lunghi periodi, a un incedere più cadenzato ma pur sempre incisivo nel suo proseguire, a una trama che muta la sua forma espositiva ma che mai cede dal punto di vista contenutivo e interiore.
Faulkner non delude le aspettative dei lettori e offre loro un titolo da assaporare un poco alla volta, sul quale riflettere, mai scontato e dai contenuti che lasciano il segno.
«Quel che vi è di meglio nel pensiero si aggrappa come edera morta su vecchi mattoni morti.»
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E all'improvviso, il silenzio.
«La vita a volte può diventare così interessante che ci dimentichiamo di avere paura.»
Anno 2022, Manhattan. Il silenzio, la catastrofe. Un titolo suddiviso in due parti. Nella prima parte abbiamo un aereo con una giovane coppia della media borghesia americana che rientra da una vacanza dopo la pandemia. Tuttavia, durante il volo, tutti gli strumenti elettronici smettono di funzionare tanto che i piloti sono costretti ad un atterraggio di fortuna. Una volta in ospedale, la consapevolezza: non solo gli strumenti tecnologici del mezzo sul quale viaggiavano si sono fermati, quel blackout ha coinvolto tutte le linee telefoniche, gli strumenti digitali, le metropolitane, i treni, gli aeroporti. Tutto quello che era automatizzato si è fermato. Gli ospedali hanno raggiunto la massima saturazione, le strade si sono riempite di folle impazzite.
Nella seconda parte siamo in una casa. È in questa che gli amici della coppia attendono il loro arrivo. Protagonisti sono una professoressa di fisica in pensione e un uomo, il marito, ex suo studente innamorato della teoria della relatività di Einstein. Di punto in bianco ecco che lo schermo del televisore diventa nero. Il silenzio prende campo, si impossessa di ogni cosa.
«In altri tempi, più o meno ordinari, c’era sempre qualcuno con lo sguardo perso nel proprio cellulare, di mattina, a mezzogiorno, di sera, in mezzo al marciapiede, incurante degli altri che gli passavano velocemente accanto, completamente immerso, ipnotizzato, consumato dall’apparecchio […]; e adesso questi tossicodipendenti digitali non possono fare niente, i cellulari sono fuori uso».
La coppia attesa riesce a raggiungere la casa degli amici e l’abitazione si trasforma in un rifugio da quel che sta accadendo, da quel silenzio che si è impossessato di tutto. Da cosa questo è dovuto? Che si tratti di un attacco alieno? Di un attentato terroristico?
«Quello che è successo ha messo fuori uso la nostra tecnologia […] La parola stessa mi pare obsoleta, persa nello spazio. Dov’è la fede nell’autorità dei nostri device sicuri, delle nostre capacità di criptaggio, dei nostri tweet, dei troll, dei bot?»
Un dittico che invita alla riflessione e che in sole 123 pagine mostra al suo lettore le dimensioni di una apocalisse ordinaria. E cosa resta se non quel nero che circonda, rassegna, inquieta, non trova spiegazione? Non il miglior lavoro dello scrittore ma in ogni caso un titolo che sa offrire al suo pubblico molteplici spunti di interrogazione, domande e ricerca di risposte.
«Forse ognuno di quegli individui rappresentava un mistero per l’altro, per quanto il loro legame potesse essere stretto, ognuno di loro era racchiuso nella propria individualità in modo così naturale da sfuggire a una definizione conclusiva, a una valutazione immutabile da parte degli altri presenti nella stanza?»
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Voci, bosco, natura
«Siamo ciò che ricordiamo, ma siamo soprattutto ciò che abbiamo dimenticato.»
Torna in libreria Mirko Zilahy e lo fa con un titolo molto diverso rispetto alla precedente “Trilogia del Caos” che aveva incantato i lettori amanti del genere thriller e non solo. E in quest’ultima fatica l’autore non si risparmia. Si sente sin dalle prime battute che è un libro sofferto, che è costato dedizione, studio, ricerca e meticolosità nello sviluppo dell’intreccio e della trama. Primariamente c’è da dire che a prescindere dal mistero che si sviluppa su più piani temporali e con più voci che si fondono in una voce corale unica, vera protagonista dell’opera è la natura. Qui si parla di cave, di miniere, di sonde, di geologia, di scienza, di un progetto tanto ambizioso quanto prezioso e difficilmente realizzabile, di ricerca, di scavi, di relazioni umane e di legami. “L’uomo del bosco” è un componimento costruito su più tasselli incastonati tra loro alla perfezione.
«Ma Rico era il tipo d’uomo per cui il mondo e la vita erano fatti di cose che accadevano o non accadevano. E quando erano accadute non si potevano in alcun modo ignorare.»
Tuttavia, se avete amato il disincantato Commissario Mancini sappiate che qui non troverete un suo successore e che non troverete nemmeno un serial killer sullo stile di quelli conosciuti nelle precedenti avventure. Zilahy si stacca da quel che è stato e propone e offre al suo pubblico uno scritto diverso che da un lato attrae e dall’altro respinge. Attrae perché chi legge si chiede cosa si celi dietro la facciata, dove lo scrittore voglia portare, cosa effettivamente nasconda il volume, quale arcano sia il suo cuore paragonabile a quel nucleo terrestre che fa da ombra e fulcro alle pagine che si susseguono, e che respinge perché fatica a decollare, perché manca di quel mordente che trattiene e che coinvolge nella totalità. La sensazione è quella che si sia voluto fare troppo, mettere troppa carne sulla brace, aggiungere quella portata di troppo a un pasto già di suo ricco.
Un volume non per tutti, da leggere un poco alla volta e senza mai paragonarlo ai precedenti scritti.
«La memoria è una vecchia signora che gioca a scopa con la vita degli uomini. Tiene il mazzo in mano e bara tutto il tempo.»
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Salpêtrière
«È una responsabilità che le sopraffà, una ribalta che le turba. In quelle donne che la vita non ha mai messo in luce, un interesse così poco consueto ha un effetto che sconvolge. Di nuovo.»
Luci e ombre si celano dietro la storia della Salpêtrière, quella casa di cura, quel gruppo ospedaliero, quel manicomio nato nel diciassettesimo secolo e destinato a ospitare tutte coloro che non rappresentavano la volontà comune, coloro che andavano ordine l’ordine precostituito, che erano titolari di un pensiero diverso da quello delineato dalla maggioranza. Sorto come luogo finalizzato ad accogliere i reietti, i barboni, le prostitute, i delinquenti di bassa lena, si trasforma ben presto in quella struttura per malate mentali atto a ricevere, isteriche, alienate, donne scomode per la loro condotta alla società maschile.
«I sogni sono pericolosi, Louise, soprattutto quando dipendono da qualcun altro.»
Quattro le storie che si intrecciano: quella di Eugénie, di Therese, di Luise e Geneviève. Donne con vite diverse e storie diverse ma che sono simbolo di ribellione a quel volere altrui che le esclude, che è espressione di razzismo e discriminazione ma anche di crudeltà gratuite. Donne che hanno pagato per quel desiderio di ambizione di chi, in quelle strutture, riteneva di poter trovare quella fama e quel successo che avrebbe fatto passare alla Storia.
«Preferisce credere che Blandine ci sia, che la accompagni, che vegli su di lei. Credere significa già aiutarsi.»
E non importa se per quella fama e quel successo sono altri a pagare. E non importa se per quel successo occorre dare spettacolo con ipnosi, elettroshock e “cure” disumane. Non importa di quel da queste verrà pagato.
Un romanzo corale che porta l’attenzione del lettore su una pagina del nostro passato sulla quale più volte ci siamo interrogati ma che ancora oggi chiede di essere conosciuta, compresa, analizzata. Per capire, per andare oltre il pregiudizio, per tenere conto di quell’anima che viene esposta a un ballo di follia che è metafora, simbolismo, apoteosi. Un titolo che si interroga altresì sui legami, le speranze, i desideri, le atrocità, le sconfitte, il vivere.
«Poche cose fanno male come veder invecchiare i propri genitori, constatare che quella forza, un tempo incarnata da persone che pensavamo immortali, ha lasciato il posto a una fragilità irreversibile.»
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Dolore e crescita
«Mi sono detto, ci sono cose nella vita che non vuoi fare ma che devi fare lo stesso; non puoi sempre fare quello che ti pare e andare dove ti pare. La vita non funziona così, e questo è uno dei momenti in cui non hai scelta.»
James è un giovane ragazzo che vive la sua vita in uno stato di solitudine scelta e in un mondo suo e particolare. Vive a New York, James. I genitori sono divorziati e lui abita con la madre e la sorella mentre il padre si dedica alla carriera e all’attività economica della professione legale d’alto livello. I rapporti con i genitori sono freddi, distanti e soprattutto distaccati. Non esistono contatti fisici e ancora meno affettivi. La madre che gestisce una galleria d’arte moderna, ad esempio, all’inizio dell’opera è reduce dall’ennesima relazione finita male con un uomo sposato nella capitale dello sfarzo, del gioco d’azzardo e della lussuria. La sorella intrattiene una relazione amorosa con un professore sposato con una donna di aperte vedute. In tutto questo James sopravvive. Sopravvive in una realtà stretta dove l’unica figura propositiva è la nonna materna. È quest’ultima a essere sinonimo di speranza e possibilità per quel futuro così incerto e così incomprensibile soprattutto quando siamo circondati da un dolore altrettanto imprevedibile che sembra essere pronto a schiacciarci e che nei suoi connotati è semplicemente indecifrabile. Come può James adattarsi alle situazioni che lo circondano? Come può tollerare quell’uso improprio delle parole? Come può, ancora, convivere con quel sentimento d’amore che lo coinvolge inaspettatamente e che vive in silenzio portandolo a interrogarsi su quanto talvolta sia importante e fondamentale tacere perché non esistono parole pronunciate tali da rappresentare il vero e l’emozione?
«La gente pensa che se riesce a dimostrare di aver ragione l’altro cambierà idea, ma non è così.»
La lettura si sviluppa per mezzo del pensiero del giovane protagonista. Questo trasporta il lettore completamente nella sua mente e nelle sue riflessioni fatte di verità, pessimismo, depressione ma anche verità in quanto l’essere umano è fatto di una siffatta complessità da non poter essere circoscritto a schemi semplici e precostituiti. L’impostazione porta il libro ad avere un ritmo costante, statico e per questo non particolarmente rapido. Le scene mutano ma non prevalgono sull’interesse che è circoscritto alla psiche dell’eroe. L’opera si propone ancora con un titolo accattivante che suscita di suo coinvolgimento e curiosità, che suscita magnetismo, che sviluppa la voglia del conoscitore di conoscere di quanto accadrà e che al contempo lo porta a riflettere su quel soffrire che nel presente ci attanaglia per insegnare nel futuro. Eppure, nonostante tutto, il l’autore lascia delle questioni aperte che non trovano risoluzione così come alcune domande non trovano risposta. Ciò incide sulla piacevolezza della lettura in quanto determina un senso di incompiuto nel suo giungere. In conclusione, “Un giorno questo dolore ti sarà utile” è un lavoro che non può annoverarsi tra i migliori dello scrittore ma che è capace di offrire un viaggio introspettivo che scuote e suscita meditazione.
«A volte le brutte esperienze aiutano, servono a chiarire che cosa dobbiamo fare davvero. Forse ti sembro troppo ottimista, ma io penso che le persone che fanno solo belle esperienze non sono molto interessanti. Possono essere appagate, e magari a modo loro anche felici, ma non sono molto profonde. Il difficile è non lasciarsi abbattere dai momenti brutti. Devi considerarli un dono, un dono crudele, ma pur sempre un dono.»
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Madre e figlia
«È la prima volta che ti scrivo dopo la tua morte. Sono a casa tua. Vengo spesso qui, almeno un paio di volte alla settimana. Ho lasciato tutto com’era, come volevi tu. Non ho tolto niente. La pulisco io, non permetto a nessuno di mettere piede qui dentro. Sistemo e risistemo il tuo armadio, faccio prendere aria ai tuoi vestiti, apro e riapro i cassetti.»
Ella, nomignolo con la quale conosciamo Michela, la protagonista di questa storia proposta da Susy Galluzzo, è sposata con Aurelio e con lui ha avuto una figlia, Ilaria. Quest’ultima oggi ha tredici anni ed è tutta la sua vita ma anche la sua morte. Perché costei ha dedicato anima e corpo alla figlia, si è dedicata alla cura di tutte le sue ansie, di tutte le sue manie, di tutte le sue passioni quali il tennis, di tutte le sue difficoltà scolastiche a causa di quella concentrazione che proprio fatica a volersi palesare. Duccio, il labrador nerissimo con i grandi occhi color nocciola, preso per la figlia, è l’ombra della madre. Ma cosa è successo a Ella? Perché al ritorno dopo un allenamento quando Ilaria si distrae per guardare il cellulare in mezzo alla strada e rischia di essere investita da una macchina in corsa, non fa nulla per avvisarla? Tace, osserva ma resta inerte? La figlia si salva per un soffio ma da quel momento qualcosa è tra loro irrimediabilmente perduto e spezzato. Perché Ilaria ha visto, si è accorta della titubanza della madre.
Le ragioni di quanto accaduto devono emergere, devono venire a galla. Ella non può convivere con il dubbio e inizia allora a scrivere su un diario rivolto alla propria madre venuta a mancare ormai da quindici anni. E inizia proprio da qui, a narrare. Comincia spiegando alla madre di quel che è accaduto, comincia spiegando alla madre che quella figlia che è anche la sua croce l’ha osservata mentre attraversava e pur consapevole del pericolo, non è intervenuta. Comincia a scavare e a scavare in quello che è un rapporto che si è interrotto ma che mai davvero può interrompersi perché il legame tra una madre e una figlia è indissolubile. E si ha bisogno di questo, e si ha bisogno di credere che possa esistere ancora.
«Ho bisogno di credere, di convincermi, che tu voglia ancora parlarmi, Mamma, che quasi quindici anni dalla tua morte abbiano potuto far sorgere in te la nostalgia di me e che tu oggi sia contenta di sentirmi.»
Da qui Ella inizierà a riportare alla luce tante verità, tanti conflitti, tante paure e tante verità che negli anni sono rimasti sepolti nella mente e nelle profondità più oscure del cuore. Ha inizio da qui il viaggio di Ella ma anche quello del lettore con “Quello che non sai”.
Susy Galluzzo ci propone un titolo che va letto in una chiave di lettura molto introspettiva essendo questo, in primo luogo, un passo che viene a essere compiuto dalla scrittrice per vivere e convivere con quella che è la perdita della propria madre. È un libro sull’amore, sul timore perenne di non essere adeguati, all’altezza, capaci. È un romanzo sulla maternità, sull’esser figli, sul bisogno di distacco. Su quella calamita che ci trattiene e sprona.
È un viaggio interiore, un viaggio fatto di domande che cercano risposta, di commozione che arriva quando meno te lo aspetti, di cuori che pulsano e anime scosse.
Scritto con una prosa diretta, fluida e rapida che ci trasporta subito nei pensieri della protagonista che si rivolge alla madre per mezzo di quelle lettere troppo a lungo rimandate, l’elaborato scuote, lascia il segno e chiede di essere letto e custodito.
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La parabola discendente dei Florio
«All’inizio è un sussurro, un mormorio portato da una bava di vento. Nasce nel cuore dell’Olivuzza, al riparo di tende tirate, in stanze immerse nella penombra. Il vento afferra la voce e questa sale d’intensità, si mescola al pianto e ai singhiozzi di una donna anziana che stringe una mano fredda.»
Con “L’inverno dei leoni” giunge a conclusione la saga dei Florio iniziata con “I leoni di Sicilia” classe 2019. Torniamo dunque tra i membri della famiglia Florio, tra anime che si sono allontanate dalla terra natia per farvi ritorno, perché a quel mare è impossibile sottrarsi così come alle origini che segnano ciascuna esistenza, e altrettante che in questa terra siciliana sono riusciti a fare fortuna.
È Ignazio a dover portare avanti la storia di Casa Florio. Vincenzo Florio, senatore del Regno d’Italia e patriarca della dinastia muore nel 1868 mentre il figlio, trentenne e unico maschio, si è sposato nel 1866 con la baronessa Giovanna d’Ondes Trigona. Questo si traduce nel traguardo di aver portato sangue nobile nella famiglia. Ma Ignazio non dimentica le sue origini e quel lavoro che da sempre è stato radicato in lui come culto. Non dobbiamo mai dimenticare, leggendo queste pagine, che alla base dei Florio vi è il desiderio di riscatto sociale e di raggiungere sempre quel traguardo in più. Ecco perché se nel 1799 i fratelli Paolo e Ignazio sbarcando a Palermo sognano di fare fortuna prima come commercianti di spezie, poi con il commercio di zolfo e ancora acquistato terreni e abitazioni, mai si fermano nel loro desiderio di ascesa e conquista. Questa costante ambizione segna il loro divenire e la loro discendenza nel bene e nel male, con scelte giuste e altrettante errate che non risparmiano nemmeno i volti femminili che abitano la saga.
«Allora, solo per loro, lì, nello specchio, Franca è di nuovo giovane e bellissima. È nella sua stanza, quella con il pavimento coperto di petali di rosa e i puttini sul soffitto. Gli occhi verdi sono limpidi, la bocca è aperta in un sorriso sereno. Indossa un leggero abito bianco e le sue perle. E in quel momento, tanto perfetto quanto impossibile, è davvero felice. Come non è mai stata davvero.»
Ma è sufficiente un nome per portare avanti una dinastia e mantenere il successo e la fortuna di chi è partito dal nulla per giungere al tutto e all’ammirazione – e invidia – generale? Come gestire quella articolata ed estesa rete d’affari che va oltre il pensato? E quanto ancora può costare davvero il rinunciare a quell’amore per un destino segnato da responsabilità e un desiderio di ascesa inarrestabile? Come fronteggiare, ancora, quella parabola discendente che sembra voler porre una fine a quel divenire senza confini?
Tanti i presupposti di partenza per questo secondo e conclusivo capitolo delle avventure della famiglia di imprenditori siciliani. Se da un lato il lettore è incuriosito dall’evoluzione che le vicende prenderanno, è affascinato dall’idea di rivivere ambientazioni già note, dall’altro sin dalle prime pagine l’opera trasmette un senso di respingimento. I personaggi sono sì ben caratterizzati e non mancano le descrizioni degli orpelli e oggetti vari dei Florio così come dei luoghi ma è innegabile una sproporzione rispetto al narrato tanto che l’attenzione si affievolisce, l’intensità perde di forza e vigore, il conoscitore è rallentato nel suo interesse tanto che a più riprese si chiede anche dove effettivamente si arriverà con l’evoluzione della narrazione. Seppur questo conosca il dato relativo al fatto che ne “I leoni di Sicilia” a esser narrati erano prevalentemente i fatti relativi all’ascesa dei Florio e che qui al contrario quel che viene delineato è la caduta di questi, il rovinare dal più alto dei piedistalli, la lettura tende a essere farraginosa e non funzionante, macchinosa ed eccessivamente prolissa. Che si sia voluto far troppo e mettere troppa “carne sulla brace”? Che sia una conseguenza data da una responsabilità troppo grande per un pubblico esigente? Può darsi, tuttavia, tanto il lavoro di documentazione storica è inciso e meticoloso, tanto manca quel coinvolgimento emotivo proprio di quel filone narrativo cui appartiene il narrato.
“L’inverno dei leoni” è uno scritto da leggere se si è letto il precedente episodio per dare una conclusione a un qualcosa di già cominciato, è un romanzo strutturato per un pubblico specifico di lettori, è un elaborato che risente di una impostazione rigida e che non è riuscito ad andare oltre a quel meccanismo preimpostato che lo accompagna. È uno scritto che sembra aver imbrigliato tra le sue maglie l’autrice stessa quasi come se la medesima avesse avuto difficoltà nel romanzare tanto da essere la prima “prigioniera” di quel congegno innescato con i Leoni. È dunque un titolo che convince solo in parte e a cui si riconosce l’impegno e il lavoro di ricostruzione e documentazione senza però poter gridare al capolavoro letterario.
«Se ci ripensa, prova un vago fastidio, ma non dolore. Persino dipendere dalle figlie e dal fratello lo lascia indifferente. Non ha più neanche un soldo, lui, anche se, almeno formalmente, Casa Florio non è mai fallita. Quello che gli strappa l’anima è l’idea che con lui si perda… un nome. Una storia. La loro storia, racchiusa in quel piccolo cerchio d’oro reso sottile dagli anni. […] “Vero è.” Si gira e sorride alla bambina e al vecchio. “Gli altri sono gli altri. Noi siamo i Florio”.»
Indicazioni utili
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- no
No = a chi non ama il genere e cerca un altro tipo di romanzo storico.
Celeste, Nadir & Pietro
«Quelle le ha volute Nadir. Io ho scelto un altro ricordo. Uno scolorito e imperfetto dove non ci sopportiamo.»
Un semplice salto da uno scalino le è valso quel piede rotto. Una matita tenuta tra le dita – forse – in modo troppo stretto le è costato quelle dita fratturate, quel viaggio, ancora, nella natura che a causa di un battente tornato indietro da una folata di vento le costa un polso rotto. Celeste ha soltanto otto anni quando scopre che le sue ossa sono così fragili da avere la consistenza di una persona di ottant’anni. Scopre di avere “la malattia delle ossa di vetro”, una particolare patologia che la obbliga da un giorno all’altro a cambiare completamente la propria vita e la propria realtà. L’abitazione dove vive con il padre e la madre Mara viene completamente privata di ogni spigolo e adattata alla possibilità di tutelarla da ogni urto, la sua educazione viene mutata in modo tale che ella possa sempre rendersi conto dei pericoli che la circondano e dall’importanza di stare sempre attenta. Ma Celeste è anche una donna adulta, adesso. Una donna che convive con la sua malattia e che torna indietro nel tempo per rivivere quegli anni di mutamento e quegli affetti privati. Perché se ella ha un padre e una madre ha anche un fratello più grande, Pietro, nato dalla relazione del papà con un’altra donna, Lucrezia. Quest’ultima, medico che si occuperà delle cure della protagonista, è la madre di questo ma anche di Nadir, nato dall’unione con il nuovo compagno neurologo. Entrambi i bambini, Nadir e Celeste, dipendono dal fratello maggiore e nutrono verso di lui un sentimento di grande profondità e intensità. Si detestano all’inizio proprio perché si contendono il suo affetto cercando, ciascuno a suo modo, di diventare il preferito di Pietro. Gli anni passano e il rapporto tra Nadir e Celeste cambia assumendo sfumature diverse, non più di odio quanto di un altro sentimento dalle tinte della complicità. Un sentimento che alterna attrazione e respingimento, ferite e crepe, legami che non possono sciogliersi anche con quella lontananza voluta o obbligata.
Ma cosa accade a Pietro? Perché adesso Nadir è scomparso alla ricerca di una verità e di un perché? Perché la trentatreenne Celeste ha scelto proprio quel ricordo di lui “combattente” e di loro tre così imperfetti per ricordarlo e convivere con la sua perdita e assenza?
«Che non eravamo fratelli.
Che non si sapeva cosa fossimo, non c’era un grado di parentela per descriverci.
Non era certo una cosa che capitava a chiunque.»
Valentina D’Urbano propone ai suoi lettori un titolo che si sviluppa tra infanzia, adolescenza ed età adulta dei tre personaggi principali. Quel che viene narrato è un sentimento d’amore e amicizia che passa per speranza, solitudine, dolore, distacco e separazione soprattutto per quell’età della maturazione che nel sopraggiungere ci ricorda quanto sia impossibile tornare indietro. Affrontiamo i venticinque anni di vita tra scelte giuste e sbagliate, errori e consapevolezza. Conosciamo una Celeste che fa della sua malattia il metro con cui affrontare il vivere quotidiano, un Nadir che cattura le emozioni e che non può essere imbrigliato a qualsivoglia forma di catena e un Pietro che in veste di ricercatore intraprende quella strada per proteggere e difendere chi non può e chi ancora non riesce a far con le proprie forze.
«In questa vita niente e nessuno ci appartiene davvero, e arriva il momento in cui ognuno di noi deve restituire qualcosa al mondo.»
L’opera è avvalorata da uno stile scorrevole, una forma narrativa in prima persona, una prosa non particolarmente elaborata ma piacevole. Tuttavia il romanzo non convince completamente e non riesce a coinvolgere totalmente il lettore. Forse perché le voci delineate risultano essere troppo costruite, forse perché la storia nel suo complesso risente di una impostazione troppo rigida che non lascia spazio a quella naturalezza che di solito coinvolge e caratterizza le opere della scrittrice. Non mancano ancora espressioni che rimandano al luogo comune e una costante sensazione di déjà-vu con titoli precedenti della stessa e con tematiche sin troppo gettonate.
Nel complesso la lettura è gradevole ma non convince interamente, non spicca per originalità e maturazione tanto da non potersi annoverare tra le migliori della scrittrice. Una lettura estiva, non impegnativa e dalla quale non aspettarsi troppo.
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Ossigeno, ossigeno.
«Il giorno in cui hanno liberato lei hanno rinchiuso me. Da cinque anni a questa parte Laura è la vacanza che di tanto in tanto mi concedo, nonostante le ore di macchina e le spese. Boccate d’ossigeno che mi dicono quello di cui ho bisogno: e non solo.»
È il sei ottobre del 2013 quando il Professor Carlo Maria Balestri è accusato di rapimento, tortura, omicidio e occultamento di cadavere. Suo figlio aveva ventisette anni, lui cinquantanove. È questo il momento in cui Luca comprende di essere rimasto solo.
Sin dalle prime battute la sensazione che viene provata dal lettore è quella di un vuoto senza scampo che richiede ossigeno. Ossigeno come dal titolo, ossigeno che tra queste pagine manca e che è richiesto a polmoni pieni. Perché è prima di tutto questo quel che domandano i vari protagonisti dell’opera.
Lo chiede Luca che ha visto la sua vita sgretolarsi di fronte alla consapevolezza che quel padre non era chi aveva sempre creduto potesse essere e che non passa giorno senza chiedersi quanto quell’essere mostro possa essere contagioso, quanto possa essere radicato in lui, quanto l’azione dell’uno possa avere conseguenze anche sulle vite degli altri. Vicini e lontani. Come sopravvivere a quell’ombra che suo padre ha gettato su di lui?
E poi abbiamo Laura che di anni ne avevano otto quando in quel 12 di agosto del 1999 diventa vittima e preda del suo carceriere. Una data, questa, collegata a Luca per quel che quel giorno egli stesso visse. E allora scopriamo della sua prigionia, della sua dipendenza da quel container che l’ha ospitata per 15 anni, da quelle sigarette sinonimo di boccata d’aria e ossigeno. Come gestire adesso tutto quello spazio? Come convivere con quel cielo sovrastante e con così tanta gente quando negli anni la tua unica compagnia è stata lui con i suoi silenzi e il tetto di quella struttura che ti ospitava? Come convivere con quei sensi così acuti che reagiscono a tutto? Come mantenere la propria facciata quando la maschera è sempre più sul punto di cedere a quelle crepe che la solcano?
Come convivere, ancora, con quella donna che è quasi una sconosciuta e che è tornata dopo una così lunga assenza e con ferite incomprensibili? Come chiamarla figlia quando di lei non conosci alcunché anche se sei la madre? Come convivere, tu madre, con la consapevolezza che sarebbe stato meglio se non l’avessero mai riportata? Una terza voce e narrazione, quella di quest’ultima, che ben si alterna alle due precedenti ricostruendo un quadro completo di volti, voci e situazioni che marchiano sottopelle.
Se non puoi riconoscerti, puoi almeno accettarti? Puoi imparare a conoscere?
«Insomma, mi si chiede di rompere quel ponte che dura da secoli. Non ho più un prima. L’asfalto è crollato, nella strada che mi lega a tutto c’è un buco: porta il nome di mio padre. Lo stesso che mi ha formato, istruito, protetto, consigliato, guidato, vestito. Amato. Ma mio padre non è un evento qualsiasi. Ho un mignolo che parla chiaro.»
“Ossigeno” di Sacha Naspini è un titolo caratterizzato da una penna acuta, asciutta, priva di fronzoli, emotiva e capace di catapultare il lettore tanto in quel container quanto nella vita e nella mente di ogni attore principale. È un titolo che tiene alta l’attenzione del conoscitore senza mai perdere di intensità e che si prefigge di trattare tematiche importanti che non si limitano al prima ma anche al dopo. Perché cosa succede dopo un fatto cruento che per una ragione o per l’altra incombe nelle nostre vite? Cosa succede a chi viene catturato nel prima e nell’ipotesi successiva in cui riacquisti la libertà? Chi subisce davvero gli effetti di quanto accaduto? Cosa accade a quei loro che perdono quell’affetto e che inaspettatamente lo ritrovano? E cosa accade a chi è legato al mostro? Cosa succede a chi si porta dietro quell’ombra?
Un titolo intelligente, ben strutturato, capace di catturare e suscitare emozioni che scuotono e che non si dimenticano. Che scava dentro e interroga. Da leggere.
«Forse gli avrei aperto il viso a unghiate se si fosse presentato nel bilocale in cui mi stavano ospitando. Eppure una parte di me cercava il suo abbraccio; era uno schifo doverlo ammettere: spettava a lui tenermi, stringere con più forza. Avevamo ricevuto un colpo di vento che aveva buttato giù tutto. Camminavamo su macerie impossibili. […] Eravamo ignoranti; apprendevamo l’amaro del vivere della sofferenza, senza linguaggio. Impugnavamo alfabeti miseri che portano a scelte misere: io andare, lui lasciare che lo facessi. Ci sono casi in cui liberare qualcuno è un peccato mortale, ti segna per sempre.»
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Cronaca nera
«Nessun essere umano è all’altezza delle tragedie che lo colpiscono. Gli esseri umani sono imprecisi. Le tragedie, pezzi unici e perfetti, sembrano intagliate ogni volta dalle mani di un dio. Il sentimento del comico nasce da questa sproporzione.»
Ci sono storie che nascono sotto la pelle e ci sono storie che osserviamo, percepiamo con occhio esterno e che eppure si incarnano in noi, che suscitano quella scintilla di curiosità tale da continuare ad abitare nel nostro io, a chiedere notizie, a chiedere che la nostra fame di sapere venga appagata, che quei perché e quelle domande trovino una risposta. E questo è anche un po’ quello che accade a Nicola Lagioia che di quei fatti occorsi in quella notte romana è vittima e prigioniero tanto da decidere di scriverne e di rendercene destinatari. Ed è dell’omicidio perpetrato da Manuel Foffo e Marco Prato ai danni del ventitreenne Luca Varani che egli narra. Ed è di questa morte così crudele e violenta posta in essere da due appartenenti alla borghesia romana, scapestrati e senza una strada retta, che questo decide di affrontare. Perché quel Male chiede di essere spiegato, analizzato, capito. Perché quel Male per esistere deve avere un perché. Deve trovare una sua collocazione, una sua giustificazione, una ragione per poter essere anche solo lontanamente non tanto capito quanto ammesso nello scorrere di una società che per definizione lo condanna. Eppure, quel Male, non sempre ha un perché. Anzi, al contrario, non lo ha mai.
Ma è come una chimera. Che trattiene. Logora. Scava. Chiede. E allora Lagioia cerca le risposte. Ricostruisce i volti, le vite dei protagonisti – assassini e vittima – così da delinearne i contorni e i volti, ricostruisce gli eventi del prima del reato e del dopo del medesimo. Cerca di quelle origini che si celano nelle ombre dell’anima. Scuote e indaga.
“La città dei vivi” è un libro a metà tra un reportage di cronaca nera e un racconto e talvolta può risultare essere un poco ripetitivo nel suo scorrere ma non delude dal punto di vista dell’approfondimento per chi è interessato alla tematica e ai fatti de qua. Si evince inoltre il grande lavoro di ricostruzione e documentazione posto in essere dal narratore che, oltre che a parlare con quelle voci che questa storia l’hanno subita sulla pelle, ha riletto atti del processo tra fonti e analisi. Il risultato è un titolo che arriva nel lettore, che presenta una scrittura volutamente cronistica e per questo talora un po’ fredda ma percepibile e fruibile da ogni lettore e che senza pretese di interroga sulle ombre più oscure del nostro essere e del mondo.
«In un mondo che reputiamo costruito su basi sin troppo materiali, fatichiamo a credere che la parola conservi i suoi poteri magici. Eppure poche semplici frasi, pronunciate da Manuel, li avevano scaraventati in un incubo.»
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Tre volti nello ieri e nell'oggi
«Ci sono un sacco di cose che non sappiamo delle persone, anche di quelle che amiamo di più.»
A far da sfondo alle vicende che vedono quali protagonisti Lincoln Moser, Teddy Novak e Mickey Girardi sono i ricordi di quei giorni che videro quali protagonisti la guerra del Vietnam e la scomparsa di una giovane donna padrona dei cuori degli uomini. Adesso sessantaseienni, Lincoln, agente immobiliare in quel di Las Vegas, Teddy, piccolo editore a Syracuse e Mickey, musicista e tecnico del suono in quel di Cape Cod, i tre si sono conosciuti in quel piccolo college con indirizzo umanistico nel Connecticut, dove lavoravano come camerieri in una confraternita femminile all’interno appunto del campus medesimo.
Ma facciamo un passo indietro nel tempo e uno avanti nella storia. Sono gli anni del conflitto quando i tre si ritrovano seduti davanti a quel piccolo televisore in bianco e nero che annuncia la prima lotteria nazionale di reclutamento dei soldati che per quel Vietnam sono chiamati a partire. Come riuscire a scampare all’arruolamento? Ciascuno di loro ha sogni, desideri, speranze. Speranze, sogni e desideri che vanno dal laurearsi al continuare a vivere quella loro vita da giovane adulti. Le alternative? Scappare in Canada o disertare rischiando di finire in prigione. E quali saranno le conseguenze della guerra per i tre protagonisti? Perché anche per costoro ve ne saranno, alcuno è immune agli effetti di quel male che si radica nell’io umano e che porta ad imbracciare un’arma, qualunque essa sia. Come vivere, ancora, con il giudizio di chi ti considera un traditore della Patria e con il senso di colpa verso chi è partito al tuo posto combattendo una guerra che era anche tua?
I tre devono inoltre fare i conti con quel sentimento d’amore comune per Jacy Calloway. E sarà a seguito di quel weekend prima della laurea trascorso nell’abitazione di Lincoln a Martha’s Vineyard che la vedranno per l’ultima volta perché questa scomparirà nel nulla e di lei si perderà ogni traccia.
Da qui un altro passo avanti. Perché gli anni passano, le vite vanno avanti, i giovani si sposano decidendo anche – o meno – di fare famiglia, entrano nel mondo del lavoro, sono travolti dagli eventi del presente e dell’immediato futuro. Ma nessuno, nessuno di loro riesce a non guardare a quel passato e a interrogarsi su quella donna amata e le cui sorti restano celate. Anche per questo, in questo fine settimana che li vede sessantaseienni, lo sguardo torna a quel fantasma così ingombrante e mai dimenticato.
Richard Russo, vincitore del Premio Pulitzer con “Il declino dell’impero Whiting”, torna in libreria dopo un decennio con “Le conseguenze” edito da Neri Pozza parlandoci di sentimenti, di vita che scorre come un fiume senza che alcuna diga possa arginarne le acque, di un’amicizia maschile che si perpetra negli anni con tutti i suoi scossoni, di rapporti familiari, di istruzioni, segreti, nostalgia. È una lettura che sa tingersi anche di giallo ma che nel suo scorrere invita alla riflessione su tanti aspetti, anche sul conflitto. È un titolo che si legge con rapidità e con curiosità, che suscita emozioni diverse e che riesce a ben approfondire il periodo storico di riferimento. È un’opera, ancora, all’interno della quale non viene mai meno il volto americano che qui viene fotografato con tutte le sue crepe e contraddizioni.
La penna, infine, è magnetica e curata, precisa e ricca. Conduce per mano senza mai perdere di intensità o rallentare il ritmo narrativo che è costante nel suo divenire.
«È quello che vogliamo dai vecchi amici, no?
Sentirci rassicurati sul fatto che il mondo che ricordiamo con tanto affetto esiste ancora, che non è stato sostituito da una realtà che ci emoziona molto meno.»
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Ginevra/Blu
«Porti le dita al naso, tutte, e non puzzano più. Il problema della puzza, pensi, è che non si vede, come la tristezza o il senso di colpa.»
Ginevra, per tutti Blu, è una giovane adolescente che frequenta il liceo artistico e che vive tra ossessioni e rituali improcrastinabili che vanno da gesti scaramantici a sequenze meticolose di un vivere quotidiano imposto. I suoi genitori sono divorziati, ha una sorella i cui ricordi d’infanzia sono vividi come se fossero istanti del presente e un fidanzato che non sente di amare ma che al contempo non può lasciare. Il passo che può condurla a una strada di non ritorno è lieve e si traduce nella performance art, arte che scopre con Dora Leoni, pseudonimo di Dora di Silvestro, veneziana e classe 1977. Quest’ultima è un’artista italiana impegnata nei campi della pittura, fotografia e appunto performance art. All’interno delle sue opere ricorrono elementi quali saponi, vasche, lozioni purificanti e nel suo passato si legge di un’infanzia solitaria scandita da traslochi, periodi in viaggio di lunga durata, una forte incapacità di stringere relazioni umane e un incontro con Adriano Chiari, artista, che cambia la sua vita. Dora diventa subito il punto di riferimento per Blu, diventa la sua ossessione, il suo specchio nello specchio. La perdita di controllo è rapida, consequenziale, involuta ma esplosiva; le conseguenze, devastanti.
«Chi si infila nelle ferite per creare dipendenza è una droga o una malattia, e in ambo i casi è il male. Ricordi, Blu?»
Ed è da queste brevi premesse che ha inizio il secondo romanzo di Giorgia Tribuiani intitolato “Blu”. In questo titolo il primo elemento che colpisce il lettore oltre al messaggio sotteso ma percepibile repentinamente è lo stile narrativo: la Tribuiani si avvale di una prosa magnetica, di una penna creativa, di uno stile tale da trasportare il lettore nelle ossessioni e angosce della sua protagonista tanto da realizzare un vero e proprio viaggio nella sua mente. L’intero romanzo è filtrato dalla psiche della medesima e l’effetto è quello che la narrazione sia condotta dalla voce interna di questa. Vi è letteralmente catapultato dentro e ciò rende ancora più autentiche le tematiche che la scrittrice tratta e permette al conoscitore di entrare in simbiosi con quelle problematiche affrontate e che vanno dalle ossessioni, al senso di colpa, al desiderio di essere guardati, al disturbo compulsivo-ossessivo, al desiderio di andare avanti con chi ti segue anche oltre quel chilometro cinquantacinque.
È una storia di buio e filtri, di vetri e scudi invisibili che separano l’io dall’altro, è uno spazio asfissiante privo di vie di uscite, un dedalo di specchi in cui noi ci rispecchiamo in Blu e Blu in noi in modo deformato. E alcuna scappatoia è concessa. È una storia che fa riflettere, scuote e resta.
«Staccherai l’ultima puntina, leggerai l’ultimo scontrino, e solo allora, solo quando avrai speso l’ultima voce per l’ultimo inchiostro imbevuto nell’ultima goccia di sangue, potrai guardare il pubblico e ti asciugherai le guance.»
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