Opinione scritta da Valerio91
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A ferro e sangue
Jo Nesbø, uno degli autori di crime più acclamati, fa il suo ritorno insieme al suo personaggio più amato: Harry Hole. La fama che avvolge lo scrittore norvegese non è un caso, perché senz'altro è molto abile nel tenere in tensione il lettore, molto bravo a gestire lo svolgersi di situazioni intricate senza contraddizioni e non scadendo troppo nel banale.
"Sete" è un thriller che scorre in maniera molto piacevole e non si risparmia su colpi di scena perlopiù inaspettati.
Dunque, il famigerato autore norvegese e il suo caro Harry Hole fanno il loro rientro in scena, e non deludono le aspettative.
Harry Hole sembra avere ormai chiuso con la dura vita del detective. Omicidi macabri e sanguinosi sembrano non essere rimasti altro che un ricordo: è sposato con la donna che ama, Rakel, e insegna alla scuola di polizia. Dopo tanta sofferenza ha trovato finalmente la pace in una vita tormentata oltre ogni dire. Eppure, per Harry Hole, vivere questa felicità è come camminare sul ghiaccio scricchiolante, e la paura che questa finisca e di finire nell'acqua gelida è sempre presente e angosciante.
Difatti, i peggiori incubi di Harry torneranno a tormentarlo e uno di questi ha un nome: Valentin Gjertsen. L'uomo che non è riuscito a catturare, l'unico che gli sia sfuggito nei lunghi anni di una carriera gloriosa è uscito dal suo nascondiglio e inizia a mietere vittime tra giovani donne in tutta Oslo. Sui corpi delle vittime, oltre ai segni di violenza sessuale, delle ferite profonde provocate dai morsi di una dentiera di ferro affilato. In cosa si è trasformato Gjertsen?
Harry Hole è costretto a rimettersi in gioco, a riunire una squadra che lavori in parallelo alla polizia per frenare l'onda di terrore che sta travolgendo Oslo. Una Oslo prigioniera nelle grinfie del "Vampirista".
"Se vuoi essere ricordato come un buon re hai due possibilità. Essere il re dei bei tempi, avere la fortuna di sedere sul trono in anni di buoni raccolti, oppure essere il re che guida il Paese fuori dai tempi di crisi. E se non sono tempi di crisi puoi fingere, provocare una guerra e dimostrare al paese in quale profonda crisi precipiterebbe se non entrasse in guerra. In questo caso bisogna dipingere il diavolo più brutto di quello che è. Può anche essere una guerra piccola, l'importante è vincerla."
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Cronache di una vita ordinaria
Ero molto incuriosito da quest'opera, pubblicata nel 1965 ma riscoperta solo recentemente da critica e pubblico, tanto da farne un vero e proprio caso letterario. Peccato che il suo autore non abbia potuto goderne il successo, accostandosi nella sventura al personaggio da lui stesso creato.
"Stoner" è un libro particolare nella sua semplicità. Si legge la trama e viene da chiedersi: "come può un romanzo con queste premesse essere avvincente?". Sta in questo il maggior pregio dell'opera, saper rendere interessante e avvolgente la vita di un semplice uomo, mostrandolo vividamente al lettore, che in alcuni dei suoi tratti non potrà fare altro che rivedere sé stesso.
William Stoner è un semplice ragazzino di campagna che non conosce l'altro che i lavori della terra e i confini di quest'ultima. Quando i suoi genitori decidono di mandarlo a studiare agraria all'università, il giovane Stoner decide di partire con un'indifferenza per la propria sorte che lo accompagnerà per gran parte della sua vita.
All'università capirà di amare la letteratura piuttosto che l'agraria, e questo lo porterà a diventare un professore di quella materia nella stessa università in cui ha studiato. Farà questo per tutta la vita, e probabilmente è l'unico ambito in cui riuscirà a imporsi un po' in più, senza accettare gli eventi con passività come in tutti gli altri aspetti della sua vita. Sì, perché si innamorerà di colpo e sposerà una donna folle che lo renderà infelice, senza fare nulla per cambiare le cose; si vedrà privato dell'amore di sua figlia e rimarrà inerme anche quando quest'ultima si abbandonerà e manderà in malora la propria vita con la stessa indifferenza del padre, se non più acuta; lascerà che l'unica donna che ha amato davvero e che lo ha reso felice si allontani da lui, soltanto per i limiti impostigli dal giudizio altrui.
Stoner fa rabbia, delle volte, ma non si può fare a meno di provare empatia e tenerezza per lui, forse perché in alcuni dei suoi tratti ci si rivedono più o meno tutti. Questo è un libro che ci prende per mano, che ci sussurra e ci invita a conoscere la vera storia di un semplice uomo, illuminando gli antri segreti della sua vita, scrutandolo alla luce della sua stessa lampada, seduti su una sedia all'angolo della stanza. Ed è solo così che si può trovarne la profondità d'animo, quella che all'esterno non traspare quasi mai perchè si rende manifesta solo nell'intimità, quando si è soli con sé stessi.
"A quarantatré anni compiuti, William Stoner apprese ciò che altri, ben più giovani di lui, avevano imparato prima: che la persona che amiamo da subito non è quella che amiamo per davvero e che l'amore non è una fine ma un processo attraverso il quale una persona tenta di conoscerne un'altra."
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Un prigioniero delle fantasie del passato
Ho dovuto aspettare un po' prima di recensire questo libro, riflettere su tutto quello che c'è dietro questa storia tragica.
La prima cosa che mi sono detto è che, in fondo, si tratta di una storia abbastanza semplice se ci si sofferma soltanto sugli aspetti superficiali. Nonostante questa impressione iniziale, sentivo dentro di me una strana sensazione, un senso di incompiutezza, come se mi stesse sfuggendo qualcosa.
Ho guardato la più recente trasposizione cinematografica (quella con Leonardo Di Caprio) e pian piano quella nebbiolina si è andata dissipando. Ho guardato il film libro alla mano e non so quante volte ho premuto il tasto pausa per dare uno sguardo alle pagine.
La drammatica storia di Gatsby ha preso a sedimentarsi nella mia mente in un modo che non mi aspettavo.
Jay Gatsby è un uomo che si è fatto da solo. Persino Gatsby è un nome che egli stesso si è dato.
Dalla povertà ha innalzato sé stesso, ha creato una statua d'oro da un cumulo di ceneri e tutto questo con un unico semplice obiettivo: una donna, Daisy.
Un amore insopprimibile che è stato catalizzatore di tutte le sue forze, unico motivo che lo ha spinto a diventare quel che è. Gatsby ha vissuto per Daisy, ha lottato per Daisy; la sua casa magnifica, tutti i suoi possedimenti non hanno alcun senso se nel contesto non è presente colei che è il sogno che nessuno di questi beni materiali può eguagliare, Daisy.
Lei è sposata con un uomo ricco che non la rispetta, ma questo non è abbastanza da fermare Gatsby, prigioniero di un passato felice che vorrebbe riprodurre a ogni costo e che ha soltanto lei come perno indispensabile.
Daisy annulla Gatsby.
Eppure, quell'uomo che fin dall'inizio appare come quello privo di morale, da condannare, sarà l'unico insieme a Carraway che si sia mostrato genuino, vero, determinato nel suo proposito e incorruttibile nel raggiungere l'oggetto del suo desiderio, che non è all'altezza del piedistallo in cui lui l'ha posta.
Tutto questo in un contesto disegnato meravigliosamente da Fitzgerald, in un'America degli anni '20 controversa e profondamente diseguale, divisa tra ricchi che si abbandonano smodatamente ai propri piaceri e morti di fame che affondano in un mondo fatto di cenere.
"Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C'è sfuggito di nuovo, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia... e una bella mattina...
Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato..."
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L'analisi atomica di una tragedia
Una di quelle letture "difficili" che vanno fatte, assolutamente. I motivi? Molteplici.
1. Preservare il ricordo di una strage disumana che non va mai dimenticata, per non ripeterla, per stare in guardia.
2. Per convincersi che non esistono atrocità impossibili soltanto perché non vengono vissute in prima persona, che uomini come noi hanno sofferto pene impensabili e non partoribili nemmeno nei nostri peggiori incubi.
3. Per apprezzare la vita, per capire quale grande dono è viverla e come possa esserci strappata facilmente dalle mani; come migliaia di uomini, donne, bambini che avrebbero voluto viverla l'hanno vista scivolare via nel sangue, nel dolore, nella disperazione, senza possibilità di appello. "Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case"…
Non c'è molto da dire, inutile ripetere riflessioni trite e ritrite, che andrebbero stampate a fuoco nella mente di ogni essere umano, grande o piccolo.
"Se questo è un uomo" e più di un semplice titolo, è quasi il simbolo di una tragedia. La lettura di questo libro non fa altro che ricordarci quello che dovrebbe essere alla base della nostra umanità, e lo fa nel modo più brutale, mostrandoci quello che accade quando queste basi vengono a mancare.
Primo Levi ci offre la sua testimonianza, paradossalmente distaccata, di quella che era la realtà dei Lager, quegli inferni in terra che hanno mietuto vittime senza distinzioni. È un'analisi quasi fredda, uno scomponimento in atomi che ci vengono mostrati singolarmente al microscopio; uno studio fatto nel modo che ci si aspetterebbe da un chimico quale era Primo Levi, che ha messo da parte la rabbia infinita dell'uomo che quelle atrocità le ha vissute e ce ne ha fornito un resoconto obiettivo.
Una cosa mai vista prima.
Pensi alla domanda: "se questo è un uomo", e sai che Primo Levi si riferisce ai prigionieri, ma in fondo anche e soprattutto agli oppressori (seppur non lo dica), agli artefici della distruzione di quegli esseri umani; ai "non uomini" che hanno sperimentato negli altri lo stesso annientamento, constatando che negli oppressi questo non può portare ad altro che alla morte.
Leggetelo.
"Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c'è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga."
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Una Norvegia cupa e ammalata
Eccoci alle prese col secondo capitolo della trilogia ideata dallo scrittore norvegese Ingar Johnsrud, che ha come protagonisti i due detective Fredrik Beier e Kafa Iqbal.
"I cacciatori" è il seguito diretto de "Gli adepti", e racconta un'indagine apparentemente separata dalla prima (e comprensibile anche a chi non ha letto il primo libro), ma che segue un unico filo conduttore.
Posso dire, avendo letto anche il prequel, che l'autore alza leggermente l'asticella della qualità, gestendo meglio e aumentando i momenti di suspence e allontanandosi un po' dagli stereotipi dei quali era pieno "Gli adepti", riuscendo a incuriosire il lettore e spingendolo, per buona parte del tempo, a voler andare avanti nella lettura.
Personalmente, l'autore ha generato in me la curiosità necessaria a voler sapere come si conclude la storia e quindi a leggere il terzo libro. Questa non è una cosa banale, considerando che mostri sacri come Stephen King non ci sono riusciti, ad esempio con la sua ultima trilogia che ha come capostipite "Mr. Mercedes".
Dunque complimenti a Johnsrud.
Beier è prigioniero della sua sofferenza, di un passato che lo tormenta e non gli permette di andare avanti con una vita normale, prendendosi cura dei suoi affetti.
Il ritrovamento di due cadaveri che in apparenza appartengono allo stesso uomo, porterà Beier e Kafa Iqbal a lavorare nuovamente insieme, dopo un inspiegabile allontanamento. Tuttavia, non è il ritrovamento del "doppio cadavere" il vero fulcro di questa storia, né il fattore più misterioso. Ci troveremo nel bel mezzo di intrighi che coinvolgono molte persone importanti, i servizi segreti, lo stato norvegese e la Russia.
Anche in questo sequel, ci troveremo a seguire una storia parallela raccontata in flashback, che ci spiega cosa ha portato ad alcuni avvenimenti del presente senza distogliere troppo l'attenzione dalla storia principale.
"Senza la morte, la vita non avrebbe valore. Le cose eterne non valgono nulla. L'aria, per esempio. Priviamo dell'aria una persona per una minima frazione della sua vita, e tutto svanisce. Bastano dieci minuti, per chiunque di noi. Eppure l'aria non ha valore. Ce n'è talmente tanta che la crediamo eterna."
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Un viaggio alla scoperta della vita
Quando mi appresto a iniziare un qualsivoglia libro di un autore che amo particolarmente, la sensazione che provo è alquanto strana: un misto di eccitazione e triste consapevolezza che, una volta finito di leggere, rimarrà un'opera in meno di quell'autore da potersi godere.
È questo il caso del mio amato Charles Dickens, che con il suo "Il circolo Pickwick " non si smentisce, creando un mondo meraviglioso fatto di personaggi spassosi e profondi, puramente Dickensiani. Non potranno non rimanervi nel cuore personaggi come l'inimitabile Samuel Weller, Weller Senior, Mr. Jingle e lo stesso Mr. Pickwick. Potrei stare qui ad elencare nomi per ore e comunque non basterebbe: quello che Dickens ha creato va gustato e basta. Risa, lacrime, commozione, empatia, c'è tutto; e quando il libro si chiuderà definitivamente, quella sensazione di malinconia tipica dei grandi libri e dei grandi autori vi assalirà. Non vorreste mai lasciare Pickwick e i suoi amici, ma purtroppo siete costretti, anche se vi rimarranno nel cuore.
Un bel giorno alcuni dei componenti del circolo Pickwick, compreso il suo fondatore, decidono di intraprendere una serie di viaggi per l'Inghilterra, allo scopo di studiare la popolazione del loro tempo e redarre una testimonianza tangibile. Particolari circostanze accompagneranno la compagnia fin dal principio, cose che non avrebbero potuto nemmeno immaginare prima di partire. Conosceranno persone e stramboidi di ogni sorta, personaggi che solo guardarli (o leggerli) è un avventura.
Si lasceranno andare a ogni tipo di esperienza: alla caccia, alle feste, alle gozzoviglie e simili. C'è chi troverà l'amore, perché quelle creature angeliche dalla forma umana che comunemente chiamiamo donne hanno il potere di rapire anche lo studioso più serio e il viaggiatore più temerario. Quello di Pickwick e compagnia sarà un viaggio che in fin dei conti li porterà a scoprire sé stessi più che gli altri; a saldare profonde amicizie; a riscoprire piaceri perduti e ad assaporarne di nuovi; a ritrovare la bontà d'animo e lasciare che il male gli scivoli addosso a discapito dei torti, che non sono mai abbastanza di fronte a un pentimento sincero. Spassoso e serio, profondo e leggero, complesso e frivolo allo stesso tempo; come solo Dickens sa fare.
"È perfino banale il detto: la mattina è troppo bella per durare. Quanto più proprio sarebbe applicarlo alla nostra vita di ogni giorno. Dio! Che cosa pagherei per tornare ai giorni della mia infanzia, oppure poterli scordare per sempre!"
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Smarrimento
Questo testo entra di diritto nella lista di quelli più controversi che ho mai letto.
Kafka imbastisce una storia che fa dell'assurdo la sua materia principale: rende tutto inafferrabile, strano e mai comprensibile del tutto.
Eppure, sembra chiaro al lettore quanto questo sia voluto dall'autore, che fosse consapevole di stare lì a produrre una storia che provocherà un senso di profondo smarrimento. Ci ritroveremo a camminare nell'incubo kafkiano nella sua accezione più pura.
Josef K. si sveglia in una mattina che dovrebbe essere come tante altre, ma che in realtà lo trova incomprensibilmente sotto arresto. Non si sa quale sia l'accusa né chi lo abbia denunciato, gli unici fatti constatabili sono il suo arresto e le guardie fuori dalla porta. Eppure, quello di K. sarà un arresto che gli permetterà di essere libero per tutta la durata del suo misterioso processo.
Accompagneremo Josef nel seguito del suo processo: gli ambienti si faranno sempre più cupi, asfissianti e claustrofobici, definendo sempre più il senso di impotenza del protagonista, che cerca disperatamente di capire come venirne fuori vittorioso, pur essendo all'oscuro delle sue colpe e non conoscendo nulla del Tribunale che dovrebbe giudicarlo.
E lungo questo viaggio, come se la passa il lettore? Anche lui è spiazzato come il protagonista, anche se per altri motivi. Molte delle vicende sono confuse, poco chiare, e il lettore (in questo caso io) tenta invano di trovare un senso ai fatti narrati. A tratti, ci sembra assurdo quanto il protagonista sembri NON VOLERNE sapere di più, considerando che non fa mai domande esplicite riguardo a ciò di cui è accusato. E se il fine di Kafka fosse stato fargli sperimentare lo stesso senso di smarrimento che prova il protagonista?
In quel caso, ci sarebbe riuscito alla grande.
Insomma, non avete capito se mi è piaciuto o meno? Bene, vorrà dire che sarò stato Kafkiano proprio come volevo.
"Le donne hanno molto potere. Se riuscissi a muovere certe donne che conosco ad operare di comune accordo a mio favore, dovrei spuntarla. Tanto più con questo tribunale composto quasi soltanto da donnaioli. Mostra al giudice istruttore una donna da lontano, e per arrivare a tempo lui travolgerà il banco e l'imputato."
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Un richiamo selvaggio e antico
"Il richiamo della foresta" è stato uno dei primi libri che ho letto da bambino. Una di quelle tante storie che apprezzi ma poi diventano sfocate, perché il tempo passa e molti ricordi si appannano. Eppure ho sempre tenuto questo libro tacitamente nel cuore, associato a bei ricordi che mi generano piacevoli sensazioni. Dunque meritava una rilettura un po' più matura, e vi posso assicurare che gli è assolutamente dovuta.
London è in grado di suscitare emozioni e di far riflettere pur raccontando la semplice storia di un cane che, dalle comodità di una famiglia benestante, si ritrova catapultato nelle terre selvagge che sono state dei suoi antenati.
Incrocio tra un San Bernardo e un cane da pastore scozzese, Buck vive in una grande casa nelle terre del Sud, circondato da comodità e agi. Quando la corsa all'oro nel Klondike diventa una febbre irrefrenabile, il giardiniere di quella casa rapisce Buck per venderlo a degli uomini che hanno urgente bisogno di cani da slitta robusti. Buck, per niente abituato alla vita dura e alla fatica, si troverà spaesato, immerso in un mondo selvaggio e difficile che non ha mai conosciuto. Eppure, gradualmente, lo spirito combattivo dei suoi antenati si ridesterà in lui, permettendogli di sopravvivere e primeggiare. Il mondo selvaggio si farà spazio nel suo cuore, richiamandolo a sé e rivendicando di diritto il suo possesso. Buck diventerà uno dei cani più ambiti e ammirati delle terre del Nord: uomini ammazzerebbero per averlo, eppure il richiamo della foresta si fa sempre più forte e cupamente seducente. Rimane solo una barriera a separare Buck dalle sue origini sepolte: l'amore. L'amore per un uomo che gli ha salvato la vita, l'ultimo legame con quel mondo che non gli appartiene ma che in fondo lo ha accolto, temprato con colpi di bastone e carezze.
Comunque, per quanto questo legame possa infine spezzarsi non lo farà mai del tutto, e una volta ceduto al richiamo della foresta rimarrà l'eco dei ricordi e dell'amore a ricordare a Buck che si è per sempre lasciato un pezzo di cuore alle spalle.
"Quando nelle gelide notti silenziose egli puntava il naso una stella, e lanciava lunghi ululati da lupo, erano i suoi antenati, ora divenuti polvere, che puntavano il naso verso quella stella e ululavano attraverso i secoli fino all lui. E le sue cadenze erano le loro, cadenze che esprimevano il loro dolore, e ciò che per loro significavano la quiete, il freddo e il buio. "
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Il libro della Giungla
On the other side
"Il passaggio" rappresenta l'ennesima avventura di Michael Connelly e del suo ormai pensionato detective Harry Bosch.
Con un ritmo incalzante e una trama abbastanza coinvolgente e interessante, Connelly riesce a ridare un po' di brio al suo personaggio più rappresentativo, dopo le ultime uscite abbastanza deludenti.
I personaggi sono caratterizzati molto bene e riescono a suscitare sia empatia che disprezzo (nel caso dei soggetti negativi della storia). Soprattutto i due protagonisti, Bosch e l'avvocato Haller, contribuiranno a rendere vivo il contesto e la storia nella quale si muovono, che non va mai per le lunghe e tiene il lettore incollato alle pagine. Certo, non si tratterà di un racconto originalissimo, ma con la miriade di storie che ci sono in giro quanti autori possono vantare questo diritto?
Bosch si è quasi rassegnato alla sua vita da pensionato: la sua unica occupazione è rimettere in sesto una vecchia Harley Davidson e cercare di entrare nelle grazie della figlia ormai prossima al diploma. Peccato che quando il dovere chiama, Bosch non sia capace di ignorarlo.
Quando il fratellastro e rinomato avvocato Mickey Haller gli offre un lavoro, ovvero scagionare un suo cliente che ritiene accusato ingiustamente dell'omicidio di una donna, Bosch si mostra palesemente contrario, almeno all'inizio. In una vita intera, si era sempre trovato dalla parte dell'accusa, e passare alla difesa era considerato un vero e proprio tradimento, sia dalla sua coscienza che dai suoi ex colleghi. Ma quando si ritrova a osservare i dettagli del crimine e nota più di un particolare sospetto, comincia a farsi strada la prospettiva che un assassino si trovi a piede libero a discapito di un innocente, e perciò l'anima del detective torna a farsi sentire. Si rimetterà in carreggiata, sfoggiando sul campo tutte le sue grandi capacità di deduzione e la sua esperienza, seguendo una scia di morte e misteri che sembrano legati da un unico filo conduttore.
Ritmo serrato e una storia che susciti un buon interesse sono ingredienti fondamentali per un buon thriller, e stavolta Connelly ci è piaciuto.
"Lascia perdere, Haller, questa storia imbarazzante. Qualsiasi avvocato di difesa dice quello che stai dicendo tu. Non c'è cliente che non sia innocente. Sono trent'anni che sento la stessa solfa ogni volta che entro in un'aula di tribunale. Ma sai una cosa? Non c'è una sola persona che mi pento di aver ficcato in galera. Eppure tutti in un momento o nell'altro si dichiarano innocenti."
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L'amore è il fulcro
Non si può negare che le sorelle Bronte avessero un debole per le storie d'amore tormentate, ma con quale maestria gli hanno dato consistenza!
"Jane Eyre" è una di quelle storie che, come "Cime tempestose" e "La signora delle camelie", definire semplicemente come il racconto di un amore sarebbe riduttivo e ingiusto.
"Jane Eyre" è un grande classico.
Dopo un inizio dalle forti tinte dickensiane, sia per quanto riguarda le vicende sia per il tipo di ambientazione, proseguiremo nel tragitto seguito dalla giovane Jane fino al suo punto culminante: l'incontro con la sua anima gemella, il signor Edward Rochester.
Come i giovani Oliver e Pip partoriti dalla penna di Charles Dickens, la piccola Jane si trova a vivere un'infanzia tutt'altro che piacevole. Orfana di entrambi genitori, è affidata alle cure di una zia che la odia e costretta alla compagnia dei cugini, che la maltrattano in ogni modo. Ma fin da piccola Jane mette in mostra il suo carattere forte, sopra le righe, non disposto a mollare né a sopportare le ingiustizie senza lottare. Il suo carattere la terrà viva nell'ambiente ostile della scuola in cui crescerà, Lowood, fino all'incontro con il signor Rochester nella bellissima dimora di Thornfield. E' qui che l'anima della combattiva Jane conoscerà l'amore, ma come ben sappiamo, quest'ultimo è un essere a dir poco capriccioso.
L'amore di Jane per Edward è sincero, puro, ricambiato, eppure il mondo intero sembra volersi mettere di traverso, come se il suo unico scopo sia frapporsi fra l'uomo e la sua felicità. Eppure, se l'uomo si affida alle mani del Signore e si sforza di seguire le norme che ha stabilito, Lui ricompenserà sempre i suoi sforzi sinceri. Ed è quello che, dall'inizio alla fine, farà la nostra cara Jane.
Forse il tragitto ci riserverà dolori mai provati, afflizioni apparentemente insostenibili, ma alla lunga sforzarci di fare la cosa giusta porterà i suoi frutti. Forse ci regalerà di nuovo quel che abbiamo perso, quello a cui abbiamo rinunciato pur di mantenerci sulla retta via. Forse perché ogni cosa ha un suo tempo e la fretta è una cattiva consigliera. Forse perché a volte il nostro essere umani, e quindi imperfetti, rischia di farci perdere quello che ci spetta di diritto, solo perché non siamo in grado di capire che spesso, per essere felici, bisogna prima imparare a soffrire.
- Non vedo ostacoli a un esito felice del suo avvenire, se non nella fronte; E quella fronte sembra dire: "Posso vivere da sola, se il rispetto di me stessa e le circostanze me lo chiederanno. Non ho bisogno di vendere l'anima per comprare la felicità. Ho un tesoro interiore che mi manterrà viva anche se tutti i piaceri esterni mi saranno negati, offerti a un prezzo che non potrò accettare"
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Cime Tempestose
L'ossessione non ha che un'unica nivea fine
Finalmente ce l'ho fatta.
Sì, perché completare la lettura di questo Leviatano della letteratura è stato un combattimento degno di quelli tra Achab e i suoi uomini contro la Balena Bianca.
Vi confido che forse è stata la lettura più difficoltosa che abbia mai portato a termine, complici lo stile non semplice di Melville, ricercato e carico di termini marinareschi, e la natura del romanzo in sé. Sì, perché "Moby Dick" è per tre quarti un trattato e un'esaltazione della baleneria, in cui ci si perde tra gli infiniti dettagli sulle balene, e solo per un quarto la storia della follia, dell'ossessione del capitano Achab per il mostro che l'ha privato di una gamba: Moby Dick.
La conoscenza dell'autore, il suo amore per la baleneria sono magistrali, ma alla lunga possono mettere a dura prova anche il lettore più temerario.
I capitoli "d'azione", quelli che si soffermano sulle vicende, contengono alcune perle indimenticabili rese tali dai magnifici personaggi, tra i quali spicca come un sovrano l'affascinante capitano del Pequod.
Dire se questo libro sarebbe stato il capolavoro che è senza le digressioni di Melville è impossibile, sta di fatto che la balena il cui nome gli fa da titolo compare a pagina 611 di 641 e, a fronte di un intrigante inizio e di un meraviglioso, triste ed evocativo finale, vi aspetteranno dei lunghissimi intermezzi che sono un inno dell'autore alle balene e alla loro caccia. Giusto per farvi un'idea di quello che vi aspetta.
Il Pequod è una nave predestinata, così come il suo equipaggio. Essa salpa caricata dalle speranze degli armatori che da essa sperano di ricavare enormi profitti, olio di balena e altre rarità da poter vendere al miglior offerente. Ma essi non tengono conto dell'anima tormentata e distrutta che sceglie la rotta di quello sciagurato legno americano.
Non sono i capodogli il suo obiettivo, o meglio, lo è soltanto uno: il terrore bianco, l'invincibile balena che stata ribattezzata Moby Dick. Colei che gli ha strappato una gamba e lo ha costretto a una protesi d'avorio ma, cosa ancor peggiore, gli ha strappato ogni residuo di sanità mentale. Eppure, nella sua pazzia, permane un residuo di umanità nella sua accezione più primordiale: la volontà d'uccidere a costo di morire si mescola con la voglia di vivere, la perdizione dovuta all'ossessione si mescola al desiderio del ritorno al porto di partenza, a una vita normale, all'abbraccio caloroso di una famiglia troppo presto abbandonata e troppo poco vissuta. Il ruggito della tigre che si confonde col pianto sommesso di un agnellino. Purtroppo è sempre la prima ad avere la meglio.
Così se ne va per i mari il coraggioso Pequod col suo sciagurato capitano, mascherando il suo vero intento che è sempre soltanto uno, stanare quella montagna Bianca che ha la propria dimora negli abissi.
L'uomo si scontra con la natura nella sua realizzazione più possente. Chi ne uscirà vincitore?
Una lettura difficilissima ma che, a mia opinione, va fatta assolutamente perché eredità di un grande letterato e baleniere.
"Intorno a me, marinai. Voi vedete un vecchio ridotto a un ceppo, che appoggiato a un frantume di lancia si puntella su un solo piede. Questo è Achab… la sua parte corporea; ma l'anima di Achab è un millepiedi che si muove su mille zampe. Mi sento teso, mezzo sfilacciato, come i cavi che rimorchiano le fregate disalberate nella burrasca; e forse ne ho l'aspetto. Ma prima che mi spezzi, m'udrete scricchiolare; e finché non udirete questo, sappiate che la gomena d'Achab rimorchia ancora il suo proposito."
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Paurosamente nella media
Trovarsi a leggere determinati autori genera sempre una sorta di attesa e di influenza positiva, soprattutto quando parliamo di grandi penne come Wilbur Smith. Tuttavia, durante la lettura de "La notte del predatore", andando avanti tra le pagine si fa gradualmente spazio l'idea di avere a che fare con un thriller spaventosamente convenzionale, che è abbastanza carente in molti aspetti in cui il suo autore aveva saputo distinguersi nelle sue precedenti fatiche.
La trama risulta coinvolgente solo in pochissimi e brevi tratti, è priva di suspance e non riesce mai ad intrigare. Sembra la versione romanzata di una serie di fatti di cronaca contemporanea. Da Wilbur ci si aspetta di meglio, e non vorrei che questo fosse solo il primo passo verso un declino che ha colpito altri grandi scrittori, tra i quali spicca Stephen King. Che Smith sia la prossima vittima della voglia di vendere a qualunque costo?
Capiamoci, "La notte del predatore" non è pessimo, ma rappresenta comunque un mezzo passo falso.
"La notte del predatore" è il terzo romanzo del ciclo che ha come protagonista Hector Cross, il capo di un'azienda di mercenari che è anche un importante socio di una società petrolifera.
Cross si appresta ad assistere all'esecuzione capitale del suo peggior nemico, Johnny Congo, pregustando una vita tranquilla con la sua fidanzata Jo Stanley e la figlia di tre anni. La rocambolesca fuga di Combo però, sconvolgerà i suoi piani tranquilli, costringendolo a rientrare in azione per proteggersi dalla sofisticata vendetta dell'evaso. Combo ha infatti come unico obiettivo quello di rovinare l'uomo che l'ha sbattuto nel braccio della morte e che ha ucciso l'unica persona alla quale avesse mai tenuto veramente.
Vi troverete di fronte ad operazioni militari in piena regola condotte da professionisti sprezzanti del pericolo, a intrighi finanziari e giudiziari, e a donne che al solo vedere il nostro protagonista saranno disposte a concederglisi senza remore, senza che lui se lo faccia ripetere due volte.
Personaggi un po' scialbi e trama non abbastanza coinvolgente.
Wilbur, che mi combini?
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- sì
- no
"Sott'er celo de Roma"
Ero curioso di sapere come sarebbe stato leggere uno degli autori italiani contemporanei più internazionali. Quel che mi sento di dire è che, probabilmente, Donato Carrisi è uno di quegli autori fruibili da chiunque, un po' come Jeffery Deaver o Michael Connelly, per intenderci. Forse è a questo che è dovuto il suo successo.
Con "Il maestro delle ombre", Carrisi ci ripropone il frate penitenziere Marcus, in una Roma devastata dal maltempo e da un blackout.
La lettura è scorrevolissima e la trama intrigante fin dal principio, mai noiosa e carica di colpi di scena (anche se alcuni risultano abbastanza prevedibili).
Immagino che Carrisi possa essere ormai annoverato tra i grandi scrittori di thriller contemporanei, anche se forse gli manca ancora qualcosa per essere perfetto.
"Il maestro delle ombre " ha inizio con il nostro protagonista, Marcus, imprigionato in una cella inusuale, il Tullanium. Ha perduto la memoria, ma lungo la sua strada troverà degli indizi che lo porteranno alla ricerca di un bambino sparito nove anni prima, indizi scritti di suo pugno, come se avesse previsto la propria amnesia. Roma, nel frattempo, è devastata dal maltempo e il Tevere minaccia di uscire dei propri argini, mentre un blackout forzato staglia ombre scure sulla capitale, preannunciando la follia che si riverserà per le strade al tramonto. Sciacallaggio, vandalismo, vendette, rancori. È in questo scenario che Marcus, insieme alla sua vecchia fiamma Sandra, dovrà seguire la scia di indizi e affrontare una serie di ostacoli non indifferenti: l'ispettore Vitali, uomo dalle oscure mansioni che si erge al di sopra delle leggi, e la Chiesa dell'eclissi, organizzazione misteriosa e senza scrupoli che vede nel blackout l'adempimento di una profezia vecchia di secoli, pronunciata dal Papa Leone X. Una profezia che nasconde misteri macabri e ancora irrisolti.
"Era la dittatura della tecnologia, pensò Vitali. La gente ne stava sperimentando le conseguenze. Ti rende l'esistenza più facile ma, in cambio, ti sottomette. Credi di averne il controllo, invece ne sei schiavo. Adesso erano liberi. Ma la libertà li spaventava. Non sapevano gestire la nuova situazione, e così diventavano un pericolo gli uni per gli altri. "
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Michael Connelly
Queste gioie violente hanno fine violenta
Eccomi alle prese con l'opera che, tra quelle del grande drammaturgo inglese, è forse la più amata e che suscita più emozioni negli innamorati e negli animi prettamente romantici.
Un'opera carica di contraddizioni, perché contraddittori sono i due protagonisti, troppo giovani e istintivi per affrontare una realtà estremamente avversa al loro amore.
La passione irrefrenabile e l'amore disperato fanno da padroni sul palcoscenico, trascinati dalla volubilità di Romeo Montecchi, che si palesa fin principio. Perso d'amore per la bella Rosalina, che non lo contraccambia, a Romeo basta uno sguardo di Giulietta a spegnere un amore immaturo per accenderne un altro ancor più pericoloso, perché costretto a celarsi dalle discordie che imperversano tra le famiglie dei due.
L'impeto con cui Romeo e Giulietta vivono il loro amore, unito alla guerra tra le due famiglie, darà il via a una serie di eventi tragici che vedere tutti insieme ha quasi del surreale, e distrugge l'animo dello spettatore (e lettore). Eppure, chi assiste alle vicende non trova in nessuno dei personaggi un'anima innocente. Come confermerà il Principe di Verona, tutti sono responsabili della tragedia che fa da epilogo a "Romeo e Giulietta", comprese le vittime ed il povero frate Lorenzo, che suo malgrado è forse il maggiore artefice della messa in atto. La strada per l'inferno è lastricata di buone intenzioni.
Personalmente, sono le vittime di questo dramma che hanno suscitato in me la rabbia maggiore. Seppure sia la discordia dei propri genitori a generare la difficoltà nel vivere il proprio amore, sarà la loro debolezza e impulsività ad avere il ruolo fondamentale nella loro fine. Pronti a togliersi la vita al primo ostacolo, sarà la fretta di poter vivere il loro amore a ucciderli, e l'eventualità di non poterlo fare darà loro il colpo di grazia. L'attimo in cui Romeo apprende della morte di Giulietta è emblematico in questo senso, perché nel giro di poche battute egli passa dalla gioia di un sogno felice che porta un buon auspicio alla ferma convinzione di togliersi la vita, senza in alcun modo fermarsi a riflettere e capire come Giulietta sia potuta morire. Sarebbe bastata una parola con frate Lorenzo. L'amore cieco, invece, gli regala come primo pensiero la morte e come prima azione l'acquisto di un veleno mortale da uno speziale.
Troppo amore può uccidere, e al cuore va sempre accoppiata una buona dose di mente, perché da solo è un organo pericoloso. In questa tragedia tutto va per il verso sbagliato e l'unico risultato che si può tastare è il risanamento della discordia tra Montecchi e Capuleti, che metteranno da parte l'odio uniti da un dolore comune.
Un amore maturo avrebbe forse ottenuto lo stesso risultato, peccato che quello dei due giovani non fosse un amore di tal sorta.
"Queste gioie violente hanno fine violenta e muoiono nel loro trionfo, come il fuoco e la polvere che baciandosi si consumano. Il miele più dolce è nauseabondo nella sua dolcezza e distrugge, a chi lo gusta, l'appetito. Ama, perciò, con moderazione. Un tale amore è più lungo. Chi troppo corre arriva tardi come ti va troppo piano."
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L'eterno e silenzioso dualismo dell'anima
Che l'uomo sia un essere strambo, carico di sfaccettature che il più delle volte risultano oscure anche a sé stesso, è un fatto risaputo.
Robert Louis Stevenson, con questa sua opera che é senz'altro una di quelle più celebri, mette in risalto la dualità dell'essere umano nel suo contesto più delicato, quello che vede contrapporsi bene e male.
Non mi stancherò mai di dirlo, un'opera, un personaggio, una vicenda, non passano alla storia per puro caso, ed è stato così anche per il curioso dottor Jekyll e per la sua controparte. E dire che questa storia è stata scritta in fretta e furia, per un bisogno impellente dell'autore di ricevere denaro, venduta al modico prezzo di uno scellino.
Ma non è così che sono nati tanti capolavori?
Quello che ci attraversa la mente ogni giorno non è certo un esempio di coerenza. Una moltitudine di pensieri, spesso contrastanti, affollano ogni giorno il nostro cervello. Eppure siamo abituati a considerare noi stessi come un individuo unico. Da cosa scaturisce, allora, una così consistente varietà di pensieri?
È questo, bene o male, l'interrogativo che tormenta il dottor Henry Jekyll, domanda alla quale il medico non sa che dare una risposta: un singolo uomo racchiude in sé due personalità agli antipodi, e ciò che il mondo può osservare all'esterno non è che la mescolanza di queste ultime. Isolare l'una dall'altra e l'obiettivo che il dottore si pone, ma il dilemma sta nella scelta: meglio il bene o il male assoluto? La scelta non è così facile come può sembrare e non è detto nemmeno che possa esserci. Il dottor Jekyll infatti, una scelta non l'ha avuta, e il risultato è stato il disgustoso signor Hyde, la parte peggiore di sé, che si è gradualmente impossessata del palcoscenico della sua vita, con conseguenze disastrose.
Un'opera piacevolissima da leggere, ricca di tensione e che lascia spunti per riflettere sull'argomento che da sempre ci affligge è sempre lo farà: noi stessi.
"[...] per singolari che fossero le circostanze, i termini del dilemma erano dunque banali e antichi quanto l'uomo: ogni tremante peccatore, nell'ora della tentazione, si trova di fronte alle stesse lusinghe come alle stesse paure, e sono poi sempre queste a gettare i dadi per lui. Ciò che del resto m'accadde, come quasi sempre accade, fu di scegliere la strada migliore, ma senza poi avere la forza di restarvi."
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Paradise Sky in Hell's Land
Non so voi, ma quando leggo un romanzo la mia più grande gioia è quando questo ultimo riesce ad immergermi nella realtà e nelle vicende che racconta.
"Paradise sky" riesce in questa impresa che ormai è sempre più rara, soprattutto nei libri moderni.
Joe R. Lansdale mi hai davvero stupito, portandomi a considerare seriamente la lettura delle sue altre opere "western". Si è dimostrato un autore estremamente poliedrico, in grado di coinvolgere il lettore e fargli "sentire" la storia, oltre che i personaggi.
Il mondo del Lontano Ovest è già spietato di per sé, e lo è ancor di più se ti ritrovi a nascere con la pelle di colore diverso.
L'abolizione della schiavitù non ha cambiato molto, perché l'uomo è un animale ottuso.
Lo sa bene il giovane Willie, che a causa del colore della sua pelle e di uno sguardo leggermente esitante sulle curve di una donna bianca, si ritroverà a soffrire le pene peggiori che possano capitare a un uomo, a vivere un'avventura fatta di sofferenze e difficoltà. Certo, incontrerà alcuni uomini buoni, ma perlopiù si troverà di fronte gente violenta e priva di scrupoli, che lo vorrà morto per motivi che è anche difficile spiegare, forse perché sono privi di una reale consistenza e aventi uno stupido denominatore comune: quella pelle nera.
Eppure Willie, che poi cambierà il suo nome in Nat Love e infine se lo ritroverà cambiato grazie alle sue imprese in Deadwood Dick, riuscirà a cavar fuori qualcosa di buono anche da questa lunga e sfortunata serie di eventi. Ma ci riuscirà soltanto grazie al suo cuore e alla sua perseveranza.
Se sai meritarli, amore e amicizia sapranno trovarti anche nel violento e selvaggio West. E voi, vi ritroverete a osservare questa realtà con gli occhi del povero Nat, che a differenza vostra, a tutto questo dovrà trovare il modo di sopravvivere.
"Più pensavo all'orologio, più mi convincevo che Dio non fosse così amorevole. Era come un grande orologiaio: noi eravamo gli ingranaggi del suo orologio, e la terra in cui viviamo ne era la superficie scivolosa. Finito di costruirlo, e dopo averlo caricato, si è seduto e ha detto: Bene, buona fortuna, il mio compito finisce qui."
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Un ritorno all'infanzia
Come ritornare indietro nel tempo, ai meravigliosi anni dell'infanzia.
Mark Twain riesce a regalare una lettura in cui tutti possiamo riconoscere noi stessi da ragazzini.
Dire che questo romanzo sia godibile soltanto dai giovanissimi sarebbe davvero riduttivo, e l'autore riesce nell'intento che rende noto nella prefazione, ovvero "ricordare in modo piacevole agli adulti quello che erano un tempo".
Col suo modo di scrivere e con le vicende di Tom Sawyer e Huck Finn, Twain ci è riuscito in pieno.
Tom è un ragazzino come tanti, il classico monellaccio dal cuore grande, al quale non si può fare a meno di voler bene, nonostante le sue malefatte.
Tom incarna appieno l'infanzia, con la sua sfacciataggine, la sua sincerità, il coraggio e la superstizione. Quell'infanzia in cui c'è sempre un nuovo modo per divertirsi: fare i pirati, i banditi, andare alla ricerca di tesori; e basta davvero poco per entusiasmarsi. Il mondo degli adulti ci tocca, ma sempre alla lontana e per breve tempo. Finché arriva un momento in cui questo vuole strapparci dall'età felice per non farvi più ritorno. Per Tom e Huckleberry, quel momento è coniugabile con una persona: il temibile Joe l'indiano. Colui che assassinerà il dottore del paese proprio sotto gli occhi di questi due ragazzini, che si troveranno ad affrontare la prima vera prova della propria vita.
Quella prova che segna il passaggio da ragazzini da uomini, che è un passo che ci tocca indipendentemente dalla nostra volontà. Eppure, Tom ci dimostrerà che anche se superiamo questa prova, avvicinandoci inesorabilmente all'età delle responsabilità, quelle da cui non possiamo esimerci, potremo sempre custodire in noi il fanciullo che siamo stati e tirarlo fuori.
Perché come Tom siamo stati tutti, coi nostri giochi assurdi, le nostre marachelle, le nostre bugie a fin di bene e i nostri momenti di spensieratezza.
Possiamo tornare ad essere Tom, ogni tanto.
"Tom si disse che, dopotutto, il mondo non era poi questa gran voragine buia. Senza rendersene conto, aveva scoperto una legge importantissima che regola l'agire umano: e cioè che per indurre un uomo o un ragazzo a desiderare qualcosa, basta far sì che quella cosa risulti difficile da ottenere."
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L'amico ritrovato
Lo stereotipo
Ero molto curioso di leggere questo romanzo, non tanto per la trama in sé (che comunque mi aveva intrigato), ma anche per valutare la penna di un autore che ultimamente vede un gran proliferare delle proprie opere in libreria. Inoltre, appartenendo a un genere che amo molto, mi interessava conoscere uno dei suoi esponenti italiani più affermati.
Massimo Carlotto con il suo "Il turista" però, non ha soddisfatto le mie aspettative.
Con uno stile abbastanza semplice e piatto, privo della suspense che un autore di questo genere dovrebbe saper creare a occhi chiusi, ci racconta una storia abbastanza stereotipata.
"Il turista" è un serial killer psicopatico a cui piace strangolare delle belle donne, con delle belle borse, per poi provare piacere carnale profanando i ricordi che riesce a scovare tra i loro effetti personali.
Quando un giorno a Venezia sceglie la vittima sbagliata (un'agente di un'organizzazione di mercenari), si ritroverà privato della libertà e assoldato come killer a pagamento contro la propria volontà.
In contrapposizione a questa organizzazione criminale, ci sono i servizi segreti (non meglio definiti), che ingaggeranno il protagonista Pietro Sambo per dare la caccia al turista e di conseguenza alla sua banda. Pietro, ex commissario di polizia roso dai rimorsi per aver accettato in passato una tangente ed essere stato espulso dal corpo, si troverà invischiato in una faccenda molto più grande di lui, che non è in grado di gestire.
In realtà, a giudicare dalla psicologia del personaggio, ci si chiede come sia mai potuto diventare commissario.
Un po' dilettante e poco sicuro di sé.
In questa carrellata di dettagli sulla trama, siete riusciti a cogliere qualche stereotipo? Parecchi, vero? Ovviamente ci può stare il serial killer psicopatico, (in fondo sono personaggi quasi indispensabili a rendere interessanti questo tipo di storie), ma sono davvero pochi i tratti originali di questo libro, in questi senso e in vari altri.
Pecca peggiore, è il non "incitare" il lettore a proseguire, senza concludere con scene efficaci che lo inducano a voler sapere a tutti costi come va a finire.
Per un thriller questo è un peccato grave, soprattutto quando quest'ultimo ha un finale che lascia tutto in sospeso per un sequel sicuro. La sensazione che invade il lettore, purtroppo, non è l'impazienza.
"In quella parte del mondo dove erano occulte anche le coscienze, non c'erano limiti e tutto era lecito"
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- sì
- no
L'allegra banda del maligno
Immaginate cosa potrebbe accadere se, un giorno come un altro, il diavolo in persona si aggirasse per le strade di Mosca? In questa particolare e discussa opera, Bulgakov mette in scena questo curioso scenario e i risultati sono quanto mai variegati e accentuati dalla controversa società sovietica atea.
Devo dire che questa opera di Bulgakov è unica, nel bene e nel male, ed è difficile dire se esista qualcosa di realmente simile. Almeno io, non ho ancora letto nulla che gli somigli.
Quando il diavolo fa la sua apparizione nella capitale russa, porta con sé lo scompiglio, seminando stupore dalle prime pagine. La sua presenza soprannaturale è un qualcosa che i russi non sono per niente abituati ad accettare. Così, quando questo eccentrico signore si siede accanto a due letterati russi e si intromette nei loro discorsi riguardo all'esistenza di Dio, è chiaro che in lui c'è qualcosa di strano. Quando poi afferma di essere stato presente nel momento in cui il procuratore Ponzio Pilato prese la sua decisione riguardo la più famosa condanna a morte della Storia, i due letterati si convincono di avere a che fare con un pazzo.
Mai supposizione fu più errata, purtroppo.
Ci troveremo di fronte alle scorribande del diavolo, altrimenti detto Woland, accompagnato dalla sua "allegra" combriccola: l'enorme gatto nero parlante Behemoth, uno strano figuro di nome Korov'ev, il sicario Azazello e vari altri personaggi curiosi. Nella controversa società russa, troveranno terreno fertile per le loro malefatte, come uno spettacolo di magia nel teatro di Mosca, conclusosi in maniera tragicomica.
Woland è un personaggio a tratti spietato a tratti bonario, che metterà spietatamente in evidenza le contraddizioni della società russa. Eppure, è come se fosse quello che è non solo per malvagità, ma anche perché in fondo quella è la sua mansione.
Il Maestro e Margherita non sono che due dei tanti personaggi che popolano le pagine di questo libro, ai quali viene data attenzione maggiore per dare risalto all'unico sentimento indistruttibile ed eterno, al quale anche il diavolo deve inchinarsi: l'amore. La loro unione, travagliata e difficile ma indistruttibile, è in grado di addolcire anche l'essere più malvagio dell'universo.
Ne "Il maestro e Margherita" il bene e il male si contrappongono, ma in certi tratti si fondono, coesistono, e arriva un momento nel quale quasi ci si convince del fatto che non può esistere l'uno senza l'altro.
"Hai pronunciato le tue parole come se tu non riconoscessi l'esistenza delle ombre, e neppure del male. Non vorresti avere la bontà di riflettere sulla questione: che cosa farebbe il tuo bene, se non esistesse il male? E come apparirebbe la Terra, se ne sparissero le ombre? Le ombre provengono dagli uomini e dalle cose. Ecco l'ombra della mia spada. Ma ci sono le ombre degli alberi e degli esseri viventi. Vuoi forse scorticare tutto il globo terrestre, portandogli via tutti gli alberi e tutto quanto c'è di vivo per il tuo capriccio di goderti la luce nuda? Sei sciocco."
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Un lungo viaggio tra le sabbie
Quando si parla di romanzi d'avventura, uno dei primi nomi che ci sovviene è quello di Wilbur Smith.
Autore di genere molto apprezzato sia in Italia che all'estero, trova nella sua serie di romanzi egizi quella più conosciuta e ammirata. "Il dio del fiume" è il capostipite della suddetta serie ed è probabilmente il suo romanzo più famoso.
È indubbio che questo genere di storie sono pane per colui che le narra, essendo palese la conoscenza dei luoghi e dei tempi storici in cui sono collocate le vicende.
Lo stile è chiaro e abbastanza fluido, anche se in certi tratti la storia risulta un po' ripetitiva e il ritmo tende a calare, specie quando l'autore si lascia andare a dettagli che appesantiscono un po' la lettura.
Nel complesso però, è una storia piacevole e interessante, seppur non realmente indimenticabile.
C'è un po' di tutto né "Il dio del fiume": uomini di ogni sorta, potenti e spietati, umili e intelligenti, valorosi e onorevoli; una grande civiltà affascinante; amicizie devote e amori impossibili.
Al centro di tutto, troviamo l'umile schiavo Taita, che per la sue spiccate capacità in tutti i campi potrebbe benissimo regnare come faraone. Sarà lui il narratore di questa storia, che troverà i personaggi che la popolano impegnati a fronteggiare una moltitudine di pericoli: partendo da uomini corrotti, passando per una divisione interna del regno d'Egitto, fino ad arrivare alla spaventosa invasione degli Hyksos, che irromperanno in scena sui loro terribili carri da guerra trainati da cavalli, bestie fino ad allora assolutamente sconosciute alla civiltà egizia.
Accompagneremo Taita, la regina Lostris, il valoroso Tanus e il principe Memnone nel lungo e sanguinoso viaggio che avrà inizio col proprio esodo, e si concluderà col ritorno in patria, trovandoli pronti a offrire la vita per la propria madre terra.
Un libro che in alcuni tratti sa emozionare, e che ci trasporta all'epoca di quella civiltà che è per noi così affascinante, soprattutto ai nostri giorni, nei quali ancora ci lascia tanti interrogativi e misteri da svelare.
"Forse le piogge erano cadute in quella zona cent'anni addietro. Sembrava impossibile, ma i semi erano rimasti a dormire per tutto quel tempo. Il sole e il vento del deserto li avevano disseccati mentre attendevano che piovesse di nuovo. Se qualcuno dubitava dell'esistenza degli dei, quel miracolo ne era la prova. Se qualcuno dubitava che la vita fosse eterna, quella era la promessa dell'immortalità. Se i fiori potevano sopravvivere così, sicuramente l'anima dell'uomo, tanto più meravigliosa e preziosa, doveva vivere anch'essa per sempre."
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Robin Hood Begins
Robin Hood è una di quelle leggendarie figure che, come Dracula e Re Artú, si sono scolpite nell'immaginario collettivo e continuano ad essere protagoniste nella letteratura, nel cinema, in televisione.
Il tempo non affievolisce il fascino che questi grandi personaggi ispirano, ed essi sono in grado di influenzare anche quei grandi artisti che di idee ne hanno da vendere.
Il valoroso eroe della foresta di Sherwood è riuscito a conquistare un grande come Alexandre Dumas, al punto da spingerlo a dedicargli un racconto.
L'opera di Dumas si concentra sulle origini di Robin Hood, di come gli eventi lo abbiano realmente portato ad essere il "bandito" che è.
Se quindi vi aspettate di assistere alle gesta di colui che "ruba ai ricchi per dare ai poveri", potreste rimanere gravemente delusi. Se vi piace questa immagine di Robin Hood, vi conviene rispolverare altri tipi di opere cinematografiche e letterarie, e riporre la fatica di Dumas sullo scaffale.
Il racconto dello scrittore francese si concentra sulla metamorfosi di Robin, da giovane guardaboschi a impavido capobanda dei sassoni di Sherwood.
Tranquilli, non mancherà la presenza dei personaggi più rappresentativi, quali il valoroso Little John, la bella lady Marian, lo scontroso e forte frate Tuck. Questa storia testimonierà i loro primi incontri, lo sbocciare di forti amicizie e grandi amori.
Insomma, una lettura leggera e piacevole (seppur non indimenticabile), dedicata a uno degli eroi più ammirati di tutti tempi, il principe dei ladri, l'infallibile arciere di Sherwood.
"Le mani unite, gli occhi lacrime, il sorriso sulle labbra, si giurarono l'un l'altra un amore eterno: un amore che sarebbe finito solo quando avessero esalato l'ultimo respiro."
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Cronache terrestri
Ho imparato a riconoscere i libri che mi rimangono nell'anima, quando li chiudo.
Quella stretta al cuore nel momento in cui volto ultima pagina, una sensazione strana che dura un secondo o poco più. La tacita riflessione che scaturisce automatica nei minuti seguenti.
"Cronache Marziane" è all'ultima pagina, la giro, ripongo il libro. Stretta al cuore. Silenzio.
Questo libro può essere preso come simbolo di come, anche nei generi spesso ingiustamente considerati "di serie B", si trovino perle di rara bellezza.
L'opera di Bradbury va messa lì, tra i più bei classici della letteratura contemporanea.
Soffermarsi sullo stile dell'autore sarebbe superfluo. Un maestro.
Pensiamo piuttosto agli innumerevoli messaggi che questo capolavoro ci offre, raccontandoci la colonizzazione di Marte da parte dei terrestri, tramite dei racconti legati da un unico filo conduttore e che alla fine comporranno il meraviglioso mosaico.
L'uomo ha sempre guardato il cielo con meraviglia, pervaso dal desiderio di poter, un giorno, esserne viaggiatore e abitante.
Allo stupore e alla voglia di scoprire, si unisce la consapevolezza di essere una razza fallimentare, che se dovesse persistere nei suoi errori non potrà che portare sé stessa e la sua casa planetaria alla distruzione.
Ma se c'è una cosa che la razza umana, nella sua Storia, ha sempre dimostrato, è quella di essere incorreggibile, imperfetta. Non impariamo dai nostri errori, mai del tutto.
Rifuggiamo la nostra imperfezione, ma i nostri sforzi non sono altro che un rimandare l'inevitabile.
È questo a spingere gli uomini su Marte: la fuga da sé stessi. Credono che sia la terra, quel pianeta ormai troppo corrotto per sopravvivere, il problema. In realtà, il problema è quell'ombra che non possiamo evitare di portarci dietro.
Siamo esseri che cercano disperatamente di salvarsi, disposti a tutto pur di sopravvivere, di continuare ad essere. Anche invadere un pianeta alieno, che non ci appartiene, mascherando la "conquista" con la voglia di confrontarsi con altre razze, di conoscere, nascondendoci in una falsa voglia di condivisione per poter più facilmente pugnalare il prossimo alle spalle e ottenere ciò che ci serve. Divorare tutto quello che ci capita, come un'orda di locuste.
In un unico grande racconto composto da pezzi differenti, compiremo un viaggio interplanetario nelle profondità dello spazio, e un altro non meno intenso nell'animo umano, scrutando le sue luci e le sue ombre.
Ray Bradbury ci regala un capolavoro unico, che in certi tratti sfocia nel poetico.
Leggete "... And the moon be still as bright" con attenzione, e poi mi direte se non ho ragione. Un tizio di nome Spender vi rimarrà nel cuore.
Da non perdere assolutamente.
"I marziani non hanno cercato troppo intensamente di essere ognuno tutto uomo e niente animale. L'errore che abbiamo commesso noi dopo le scoperte di Darwin. L'abbiamo abbracciato con Huxley e Freud, tutti sorrisi. Poi ci siamo accorti che Darwin e le nostre religioni non andavano d'accordo. Abbiamo cercato di smuovere Darwin, Huxley e Freud. Ma non era facile buttarli giù dai loro piedistalli. Allora, come idioti, abbiamo tentato di abbattere la religione. E abbiamo fatto un bell'affare. [...] la fede ci aveva sempre dato la risposta a tutte le cose. Ma tutto è andato a finire nella spazzatura con Freud e Darwin. Eravamo e siamo ancora una razza perduta."
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Non siamo che polvere
Si dice che il tre sia il numero perfetto.
Beh, per quanto riguarda il mio terzo incontro con William Shakespeare, rappresentato dal suo "Amleto", posso certo dire che, se non perfetto, è stato certamente il più memorabile finora.
L'Amleto è il suo personaggio più profondo, più riflessivo, più umano. Shakespeare, come al solito, riesce a rivoltare l'anima dei suoi personaggi, immergendoli in un contesto che li costringe a riversare e a mettere a nudo la propria interiorità, gettandola in pasto al lettore, che ne sarà giudice e spettatore.
Abbiamo parlato della gelosia per l'Otello, dell'ambizione per Macbeth; per l'Amleto parleremo dell'indecisione. "Essere o non essere, questo è il problema", frase simbolo che è tale perché rappresenta alla perfezione il personaggio che la pronuncia.
Egli lo dimostra fin dall'inizio, fin da quando lo spettro di suo padre, re di Danimarca, lo mette a conoscenza del turpe assassinio da lui subito per mano di suo fratello, allo scopo di usurpargli il trono e la moglie.
In questo caso, il suo dubbio sarà giustificato, essendo indecifrabile la natura di questa rivelazione, ma quando grazie a un sotterfugio partorito dal suo genio riuscirà a confermarne la veridicità, il dubbio comunque non l'abbandona.
Pur avendo la certezza della colpevolezza dello zio, nell'esercitare la sua vendetta indugia, attende troppo a lungo il momento propizio, vuoi per paura o per eccesso di riflessione.
Tra tantissime scene memorabili, a partire dalla riflessione sull'essere e dal colloquio col defunto padre, fino ad arrivare alle riflessioni sulla vita e sulla morte prima del funerale di Ofelia, accompagneremo nel suo viaggio il controverso e affascinante Amleto, che in fin dei conti è un po' il simbolo del passaggio dall'età medievale a quella moderna.
Stupendo.
"Ma noi spesso spezziamo quello che decidiamo. Della memoria il proposito è schiavo. Nel nascere vigoroso, nella sostanza povero [...] quel che nella passione a noi stessi proponiamo, finita la passione lo perdiamo [...] ma per finire in ordine da dove ho cominciato, volontà e destino sono tanto contrari che i nostri progetti sono spesso rovesciati. Nostri sono i pensieri ma non i risultati."
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Il caso Bella Elliott
Mi sono lanciato nella lettura di questo libro, carico di aspettative e di curiosità. È un periodo in cui vengono lanciati tanti scrittori esordienti nel mercato internazionale, annunciandoli come dei veri e propri "crack". Fiona Barton con il suo "La vedova", era tra i più osannati, basti leggere le entusiastiche opinioni fatte dai vari giornali, sparate tutte in copertina.
Devo smettere di prendere i proclami dei giornali però oro colato. Sì, perché questo libro e al livello di una media produzione di un autore, tanto per citarne uno, come Jeffery Deaver. Forse essere paragonati a un grande maestro del thriller come lui può essere una lusinga, ma in questo caso non lo è del tutto.
Se deve sfondare il mercato internazionale e meritare di farlo, a un esordiente non basta questo, mi deve stupire, intrigare, incollare alle pagine. Non mi aspetto un capolavoro, ma almeno qualcosa che sia al di sopra della media. "La vedova", è nella media.
Non fraintendetemi, è un buon libro, scritto bene, scorrevole, con una trama intricata e abbastanza inconsueta, e durante la lettura lascia un pizzico di voglia di capire come andrà a finire. Tuttavia, tutti questi fattori non sono portati al punto da rendere il libro memorabile.
Bella Elliott, una bambina di due anni, viene rapita mentre è da sola a giocare nel giardino di casa. La madre l'ha persa di vista per un attimo, troppo presa dalle faccende di casa. Dopo una serie di indagini da parte della polizia, con a capo l'ispettore Bob Sparkes, tutti sospetti ricadono su Glen Taylor. Glen è un semplice impiegato di una ditta di trasporti, ma il suo furgone blu viene visto aggirarsi nelle vicinanze della casa di Bella proprio il giorno del rapimento. Inizierà la guerra della polizia per incastrare il "mostro", che in questa lunga persecuzione avrà sempre al suo fianco la devota moglie, Jean.
La loro vita sarà travolta: polizia, giornalisti, televisione, non gli daranno un attimo di pace. Quando il presunto mostro muore, investito da un autobus, l'accanimento non si spegne, ma si concentra unicamente sulla fresca vedova.
E se lei sapesse la verità? Se fosse stata costretta dal marito a tenere la bocca chiusa? La storia ripercorre, tra flashback e flashforward, il percorso che porterà a scoprire la verità su Bella Elliott, su Glenn Taylor e sulla vedova Jean Taylor.
"Invitare a pranzo i nostri genitori ci piaceva, ci faceva sentire grandi. C'è chi entra nel mondo degli adulti quando trova il primo impiego, o quando va a vivere da solo; io invece ho sentito di esserci entrata grazie pranzi della domenica."
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Stay drunk on writing
LAVORO. RELAX. NON PENSARE!
Questi sono i tre concetti fondamentali che, secondo il mitico Ray Bradbury, possono trasformare un uomo con in mano una penna in uno scrittore di successo. Sarà una volta entrati in simbiosi con questi tre concetti che la parola LAVORO diventerà sinonimo di AMORE, e potremo considerarci realmente creatori di storie.
Facciamo una premessa: Bradbury è un maestro, dunque nulla da stupirsi se uno come lui ha buttato giù questo libro sulla scrittura, che più che un manuale è una specie di opera motivazionale.
Raccontandoci alcuni aneddoti presi dalla sua esperienza personale, Bradbury ci darà una serie di dritte per orientarci nella nostra mente, per prendere la direzione che conduce alla creazione di buone storie.
Il consiglio universale è sempre quello di leggere e scrivere tantissimo, almeno 2000 parole al giorno, per affinarci con l'esperienza. In fondo, non si diventa bravi nel proprio lavoro proprio svolgendolo ogni santo giorno? Cosa c'è di diverso nelle arti, compresa la scrittura?
Quello su cui l'autore pone l'accento però, siamo noi stessi. Quando lo scrittore diventa unico? Quando le parole e i pensieri che mette su carta scaturiscono da sé, dalle sue esperienze, dai suoi viaggi, dalle sue letture, dalle sue gioie, dai suoi dolori. Siamo il pozzo dal quale attingere le nostre storie uniche, e se solo ci soffermassimo per un attimo a riflettere su quel che siamo, su quel che abbiamo accumulato, ci stupiremmo di quanto materiale troveremmo ad attenderci. Il cervello è come una coppa da riempire all'infinito, e dal quale far uscire quello che poi verrà letto da altri che, essendo lettori come noi, apprezzano l'autenticità e le emozioni. Questa coppa però, bisognerà pur riempirla, e possiamo farlo soltanto lavorando su noi stessi, facendo, e non aspettando che le idee scendano dal cielo. Anche l'immagine più semplice che giace nei recessi della nostra mente, può diventare un'immagine meravigliosa da mettere su carta.
Obiettivo numero uno? Non avere obiettivi. Ricercare la fama e i soldi e farne lo scopo principale della nostra produzione non farà altro che contaminarla nella direzione che, nella nostra testa, ci porterebbe a ciò che vogliamo. Ma difficilmente sarà così. Queste cose potranno arrivare solo se daremo vita alle nostre idee senza lasciare che siano influenzate dalla ricerca disperata di cose materiali.
Il concetto chiave è, come dice Bradbury, NON PENSARE!
"Devi essere perennemente ubriaco di scrittura, per impedire che la realtà ti ditrugga."
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Aspiranti scrittori
L'amore ha i sintomi del colera
Non posso negare la difficoltà che trovo nel dare la mia opinione su questo libro. È stato il mio battesimo con Màrquez, un autore che mi ha sempre attirato ma che fino ad ora non avevo ancora avuto il coraggio di affrontare. Il suo stile è particolare e ha una prosa simile a quella di José Saramago, anche se molto diversa nei contenuti. Lo stile è davvero eccelso, anche se risulta un po' pesante, perché Màrquez fa uso di dialoghi col contagocce e racconta tantissimi eventi arricchendoli con infiniti (forse troppi) dettagli. Se non fosse così bravo a usare questo stile, che non facilita la lettura, mi sarei sicuramente suicidato prima di finirla.
Fortunatamente, l'autore è un maestro.
Florentino Ariza è un giovane impiegato con la passione per le poesie d'amore, che un giorno si innamora follemente della bellissima Fermina Daza. Fin dal primo momento, capisce che è donna della sua vita. Comincia ad aspettarla per ore per vederla passare in un momento fugace. Le scrive poesie e canzoni d'amore. Le suona serenate controvento, in modo che l'aria turbolenta porti le note fino alla tanto amata finestra. Il loro amore fiorisce gradualmente, per poi sbocciare in un uragano indomabile.
Purtroppo, gli ostacoli non saranno pochi. Primo fra tutti il padre di lei, che opporrà il suo veto incontestabile, deciso a farla sposare con un buon partito, cosa che Florentino non è assolutamente. Ma quando anche l'ultima barriera è stata superata, e i due potrebbero finalmente godere del proprio amore, vedendo l'amante dopo tanti mesi di lontananza forzata Fermina ha un lampo. Nella sua testa scatta qualcosa di repentino che le dice che Florentino non è l'uomo che sposerà. Lo respinge, dopo un pò di tempo si sposa con il rinomato dottore Juvenal Urbino e va avanti per la propria strada, dimenticandolo. Per Ariza si spalanca un oblio che durerà oltre cinquant'anni.
Avete capito bene. Perché lui l'aspetterà, attenderà pazientemente la morte del suo attuale marito per ripresentarsi da lei, sapendo che di fronte a tale perseveranza, a tale amore, non potrà che essere sua.
Un amore immenso, eterno, indistruttibile. Un amore che nemmeno altre donne hanno potuto sostituire, perché potevano anche essere migliori di Fermina, ma non erano lei. Lei che gli ha pervaso l'anima, che lo ha legato come un condannato alla prigionia, che lo ha infettato come il colera, e che come quest'ultimo non ha termine se non con la morte, nella maggior parte dei casi.
Un amore che non si spegne nemmeno nella vecchiaia, né nella morte.
"Ma la visita riveló che non aveva febbre né dolori in alcuna parte e che l'unica cosa concreta che sentiva era un bisogno urgente di morire. Gli bastó un interrogatorio insidioso, prima lui e poi alla madre, per constatare un'ennesima volta che sintomi dell'amore sono gli stessi del colera."
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Gli scrittori validi sono prima grandi lettori
Quando si vuole intraprendere un mestiere o un hobby sofisticato, ricevere consigli da un rinomato esperto del settore può rivelarsi utile, quasi illuminante.
È stato così per me e questi "consigli per l'uso" riguardanti la narrativa creativa, redatti nientemeno che dal grande Stephen King.
E' diviso in due parti, la prima prettamente autobiografica, il suo percorso all'interno del mestiere, la seconda ricca di consigli tecnici e pratici sull'arte dello scrivere.
Con il tipico stile che lo distingueva tanti anni fa (On Writing è stato pubblicato nel 2000), il buon vecchio Steve vi farà sorridere e sperare con i suoi aneddoti di vita vissuta, ed è chiaro come il sole quanto la sua vita fosse votata all'amore per la scrittura fin dai primi anni. Saremo spettatori dei suoi dolori, delle gioie, dei sacrifici e delle soddisfazioni nella rincorsa al suo sogno. Chi ha già avuto modo di incontrarsi con il mondo della scrittura creativa, proverà empatia per lui e si troverà come a colloquiare con qualcuno di cose che entrambi capiscono, trovando un piacevole appagamento.
I consigli tecnici sulla scrittura e quelli pratici sull'editoria non saranno oro colato, ma quasi. Certo, non pensate di diventare ottimi scrittori solo leggendo questo libro. Personalmente, ho fatto tesoro dei suoi consigli. Giusto per fare un esempio, quando parla di quanto sia nociva l'eccessiva presenza di avverbi, una volta capito e accettato il consiglio, mi sono precipitato a tagliarne un infinità dai miei scritti.
Ma il consiglio più importante e anche il più ovvio è: per essere buoni scrittori è essenziale leggere tantissimo.
Immagino che King abbia i suoi motivi per dirlo.
Per concludere, un messaggio all'autore di questo ottimo libro: Caro Steve, se accetti un consiglio da un povero mortale come me, rileggi il tuo "On Writing". Spesso la risposta risiede in noi stessi, e può valere anche per te. Ultimamente hai perso un po' di smalto, e chissà che non lo ritrovi tra le pagine che sono frutto delle tue stesse mani. Non è una critica, semplicemente un desiderio di avere altri capolavori come 22/11/'63, giusto per citarne uno.
"No, la scrittura non mi ha salvato la vita, ma come sempre ha contribuito a renderla più felice e radiosa. Scrivere non c'entra con i soldi, diventare famosi, rimorchiare senza problemi o farsi un sacco di amici. Alla fin fine, il nocciolo della questione è arricchire la vostra esistenza e quella dei lettori. È rialzarsi, rimettersi in sesto e passare oltre. Ritrovare la gioia, d'accordo? Ritrovare la gioia."
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Il bacio d'alluminio
Ed eccoci qua, a recensire il nuovo romanzo di Jeffery Deaver che ha per protagonista il suo personaggio di punta, il criminologo tetraplegico Lincoln Rhyme, famoso per la sua avventura col collezionista di ossa.
Lo stile di Deaver è il solito: tiene il lettore sempre sul pezzo, lo incita a continuare la lettura, lo stupisce.
Ci riesce anche questa volta, anche se non con la potenza del passato; non riesce più a lasciarci di stucco, ad appassionarci irrefrenabilmente.
Non fraintendetemi, "Il bacio da acciaio" è un buon romanzo, ma è anche ben lontano dall'essere un capolavoro. Inizia a materializzarsi la paura che un capolavoro degno del "Il collezionista di ossa" non possa essere più partorito.
La storia è carina, ma non entusiasmante; i colpi di scena ci sono, ma non lasciano a bocca aperta (anzi, alcuni sanno tanto di una scopiazzatura di Deaver a sé stesso); i personaggi mai portati al limite, forse per non urtare i lettori più sensibili, ma questo può rivelarsi un'arma a doppio taglio.
In poche parole, serve un capitolo forte per portare aria fresca alla saga di Rhyme (visto che è chiaro che andrà avanti), ma di questo passo rischia di stufare anche chi, come me, lo adora. Anche se da questo siamo ancora lontani.
Rhyme si è ritirato dalle scene per fare l'insegnante: i sensi di colpa per un errore di valutazione che ha portato alla morte di un suo sospettato erano troppo per lui, e ha deciso di abbandonare. Amelia Sachs, sua partner nel lavoro e nella vita e completamente contraria a questa assurda scelta, si ritrova ad affrontare un pericoloso criminale soprannominato "Sosco 40". Ma stavolta non avrà il prezioso aiuto di Linc. L'assassino, uccide le sue vittime manomettendo via wireless tutti quegli oggetti "superflui" di cui l'uomo contemporaneo non può più fare a meno, e inizia la sua scia di morte aprendo il vano di una scala mobile e facendo precipitare un uomo negli ingranaggi, lasciandolo morire stritolato. Si firma "Il guardiano del Popolo", e sarà il nemico pubblico numero uno.
Sachs però, non sarà sola per molto; Rhyme si troverà costretto ad aiutarla, perchè la moglie dell'uomo precipitato negli ingranaggi è coinvolta in una causa civile in cui lui prende parte. Aiutato dalla sua nuova tirocinante, Juliette Archer, tetraplegica come lui, partirà per la consueta corsa contro il tempo, tipica delle sue indagini, ma decisamente più stanca rispetto al passato. Anche "L'ombra del collezionista" scorreva più veloce e la corsa verso l'assassino era asfissiante. In nostri protagonisti erano sempre a un passo dall'acciuffarlo e questo teneva il lettore sempre incollato alle pagine. Certo, "Sosco 40" è risultato meno schematico dei nemici affrontati in passato, ma non vorrei che questa stanchezza palpabile tra le pagine sia un riflesso di quella del forse troppo prolifico autore. Non fosse stato per i colpi di scena nell'ultimo quarto di storia, il voto sarebbe stato anche più basso.
Speriamo in una ripresa.
"Quando la gente si abitua alle comodità, poi è difficile togliergliele. Spegnere le luci a distanza se le hai lasciate accese quando sei partito per le vacanze? Tenere d'occhio la babysitter in tempo reale? Dieci anni fa, quando non c'era la alternativa, non si pensava certo all'eventualità di non poterlo fare. Ma adesso? Tutti quelli che hanno un prodotto intelligente si aspettano che non smetta mai di funzionare. Altrimenti, si rivolgeranno altrove."
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Addio alla giungla
Ci sono cose che ci toccano il cuore, ma alcune lo fanno più di altre.
"Il secondo libro della giungla" è stato, alla fine, commovente. Ora non so dirvi se questo sia dovuto al fatto che le storie di Mowgli mi hanno fatto crescere. In ogni caso, va dato a Kipling il merito di aver dato vita a questi personaggi meravigliosi. Non fossero stati personaggi così ben riusciti, ai quali l'autore riesce a dare un'anima e a legarli affettivamente al lettore, l'emozione non sarebbe certo venuta fuori.
Bisogna dire che, probabilmente conscio del maggior successo di Mowgli e compagnia rispetto al resto, in questa seconda raccolta di racconti sono più numerosi quelli incentrati su di loro, anche se i racconti "esterni" non mancano. Riguardo a stile e piacevolezza, Kipling perde un po' di smalto; in questo seguito la lettura risulta un po' meno scorrevole, soprattutto nei racconti esterni ai personaggi della giungla, ma vale assolutamente la pena leggere le sue fatiche.
L'Uomo, alla fine, torna sempre all'Uomo. Alla legge della giungla non si scappa. Non basta l'amore che lega il giovane Mowgli a ogni suo componente, non basta il sangue versato per fronteggiare i Cani rossi e tutti gli altri pericoli che ogni giorno incombono sui suoi fratelli e sul Branco, non basta il cielo stellato, immacolato e incorniciato dalle fronde degli alberi. Il passo, l'istinto, a un certo punto ti guida sempre verso le origini, e Mowgli a questo non può opporsi, nonostante l'amore che lo lega alla Giungla.
L'addio che Mowgli dà alla giungla è così tristemente affine all'addio che l'uomo dà alla fanciullezza. Abbandonare quel che ci ha cresciuto, o almeno non poter dedicare ad esso tutti noi stessi come prima, a causa dell'impietoso avvento della responsabilità e della crescita. La spensieratezza che lascia il posto alle preoccupazioni.
Dire ciao a Baloo, Bagheera, Kaa, Akela e a tutti gli abitanti della giungla è triste, anche se il leggero conforto sta nel sapere che li troveremo sempre lì, resi indelebili dalla penna di un eccelso autore. La fanciullezza non torna, ma puoi sempre tornare a darle uno sguardo. E ricorda sempre che: "Ti bastano poche briciole, lo stretto indispensabile, e i tuoi malanni puoi dimenticar...". Forse in questo sta la vera felicità, ed è per questo che sono tali cose a emozionarci di più.
- [...] la mia parola è la parola di Baloo. Ricorda che Bagheera ti ha amato, - gridò e d'un balzo sparve. Ai piedi dell'altura lanciò ancora un grido, alto, e prolungato: - buona caccia su una nuova pista, Signore della Giungla! Ricorda che Bagheera ti ha amato.
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Una giungla è l'intera terra
Una piacevole scoperta è stato Kipling e il suo "Libro della giungla". Non mi fraintendete, con Mowgli, Baloo, Bagheera e Shere Khan ci sono cresciuto, nella loro versione disneyana che ancora mi emoziona ogni volta. E li ho amati profondamente. "Ti bastano poche briciole, lo stretto indispensabile, e i tuoi malanni puoi dimenticar...". Che ricordi.
La lettura del primo libro della giungla è stata soddisfacente oltre le mie previsioni, soprattutto nelle parti che hanno come protagonisti Mowgli e compagnia. Già, perché non tutto il libro è incentrato su di loro, ma diviso in una serie di racconti, alcuni dei quali hanno tutt'altri protagonisti. Inutile dire che i più belli e memorabili sono quelli sul cucciolo d'uomo, anche se quello sulla mangusta Rikki Tikki è stato altrettanto carino. Kipling è un magnete, è piacevole a leggersi e ti porta nei meandri della giungla, in mezzo ai suoi variegati abitanti.
Disperso durante la fuga dalla tigre Shere Khan, il piccolo Mowgli trova rifugio nella tana di Babbo lupo e Mamma lupa, che lo crescono come un figlio. Accolto dal branco con la diffidenza che è però tipica degli uomini, sarà accettato solo grazie all'intercessione del saggio orso Baloo e dell'astuta pantera nera Bagheera, che per la salvezza della vita del cucciolo d'uomo offrirà le spoglie di un toro da lei ucciso. Saranno proprio l'orso e la pantera nera a insegnargli a sopravvivere nella giungla, trasmettendogli le sue leggi e permettendogli di vivere in armonia con essa.
Certo, la giungla è crudele, spietata, ma lo è anche il mondo "civile" degli uomini, forse anche di più, e Mowgli potrà scoprirlo sulla sua stessa pelle. Eppure le analogie tra i due mondi sono tante, come fossero un'unica entità la cui differenza sta nei suoi abitanti e in pochi altri dettagli.
La giungla ha i suoi lati oscuri, così l'uomo; ha i suoi abitanti senza pietà, carnefici, ma anche quelli dal cuore grande; ha i suoi grandi difetti, ma da qualche parte l'amore rende qualsiasi posto migliore, se lo si riesce a scovare e stanare. Che sia giungla o mondo umano, bisogna semplicemente imparare a viverci e ad amare.
Scusate, ora vado a vedere il cartone Disney.
- Ma perché… Perché qualcuno dovrebbe volere la mia morte? - disse Mowgli.
- Guardami, - disse Bagheera, e Mowgli la guardo fisso negli occhi. Tempo mezzo minuto e la pantera aveva girato la testa.
- Ecco perchè, - disse Bagheera, spostando la zampa sulle foglie. - Neanch'io riesco a guardarti negli occhi, e io sono nata fra gli uomini, e ti voglio bene, Fratellino. Gli altri ti odiano perché non sanno reggere il tuo sguardo; perché tu sei giudizioso; perché hai estratto gli spini dalle loro zampe… Perché sei un uomo.
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Il richiamo della foresta
Diversità tangibili eppure inesistenti
Diciamo la verità, un libro non viene proclamato "capolavoro" all'unanimità senza un motivo. "Il buio oltre la siepe" tratta temi scottanti in un modo che definirei molto intelligente. Lo stile dell'autrice è piacevole, mai pesante, lascia che la storia scorra in maniera fluida e ininterrotta. Harper Lee esprime egregiamente la mentalità degli uomini dopo la Grande Depressione, quello che era il loro modo di agire e pensare in quel periodo storico. Lee riesce anche a caratterizzare i suoi personaggi donandogli l'esatta mentalità di abitanti di una piccola città, l'immaginaria Maycomb dell'Alabama, nella quale è ambientato il romanzo. Sembra di rivivere quei tempi, di trovarsi in un luogo simile, di respirare la stessa aria dei protagonisti. E' chiaro che l'autrice ha attinto a piene mani dalle proprie esperienze di vita.
Tramite le vicende della famiglia Finch e per mezzo degli occhi della sua componente più giovane, Jean Louise detta Scout, ci ritroveremo nel bel mezzo della "tranquilla" Maycomb, popolata dai suoi abitanti così diversi tra loro. I tempi duri sono appena finiti, eppure c'è ancora qualcosa di triste, nell'aria. La popolazione di Maycomb è pregna di pregiudizi e divide sé stessa in due fazioni fondamentali, nel modo in cui si è sempre divisa l'umanità e tristemente ancora oggi spesso si divide, anche se meno marcatamente. Uomini dalla pelle bianca e uomini dalla pelle nera.
Eppure differenza reale non c'è, non c'è mai stata, se non per quello che è il colore della pelle.
Solo due tipi di esseri umani riescono a superare le barriere di questa "differenza", e sono gli uomini assennati e quelli non ancora cresciuti. E' tramite personaggi di tal sorta, come Atticus e Scout, che Lee ci rende spettatori dell'insanità dell'essere umano, della sua testardaggine nel considerare diverso e addirittura inferiore quello che in realtà non lo è. Fummo creati tutti esseri umani, allo stesso livello. Nessuno nasce diverso dall'altro, a nessuno spettano meno diritti che a un altro. Eppure, in nome di convinzioni errate e ideali folli, l'uomo riesce a farsi carnefice del proprio fratello, a giudicarlo, a segregarlo, a ucciderlo.
C'è qualcosa di tremendamente sbagliato nella natura umana, qualcosa di innato che lo porta a essere crudele nei confronti dell'apparente diversità, e non si tratta soltanto del colore della pelle, ma di qualsiasi cosa che ci possa distinguere in maniera sensibile dalla massa.
Forse soltanto quando sapremo sopprimere questi ignobili sentimenti, la vita su questa Terra potrà essere considerata migliore.
Un romanzo che emoziona, fa riflettere e che una volta chiuso ti lascia dentro qualcosa di tangibile.
"Voi conoscete la verità, e la verità è questa: alcuni negri mentono, alcuni negri sono immorali, alcuni negri non possono essere lasciati accanto alle donne, nere o bianche che siano. Ma questa è una verità che si può applicare a tutta la razza umana e non a una particolare razza di uomini. Non esiste una persona, in quest'aula, che non abbia mai detto una bugia, che non abbia mai fatto una cosa immorale, e non esiste un uomo al mondo che non abbia mai guardato una donna con desiderio!"
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Le tragedie tingono gli uomini di grigio
Il libro che mi accingo a recensire ha causato in me delle reazioni un po' controverse.
Partendo dallo stile, l'ho trovato buono, la Stridsberg é molto brava e il suo modo di scrivere non è certo banale, ma la decisione di strutturare questo racconto come un'accozzaglia confusa di ricordi senza un filo cronologico (né logico, a mio parere), ha reso il tutto molto difficile da seguire e capire.
Il romanzo scorre abbastanza bene, ma è anche merito della sua divisione in brevi scene, lunghe in media tre pagine, se non meno. La storia in fin dei conti è interessante, ma non proprio magnetica, e seppure raggiunga buone vette in certi tratti, in altri pare perdersi. Molto spesso si fa fatica a collocare gli eventi nel rispettivo spazio temporale e capita spessissimo di non saper distinguere il sogno dalla realtà. Un momento prima una personaggio c'è, quello dopo non c'è più, quello dopo ancora ce lo ritroviamo di fronte. Ah no, aspetta, era solo un sogno. Forse.
I miei voti potevano salire di almeno un punto, se fosse stato reso il tutto un po' più fluido e lineare.
Jackie è una bimba di Stoccolma. Sembra più grande della sua età, forse per quello che la vita le ha posto di fronte fin da piccola. Non è stata certo generosa con lei. Suo padre, Jim, è matto, o almeno così pare. Passa buona parte la sua vita nell'ospedale psichiatrico di Bockemberga, anche se il controverso dottor Edvard gli permette spesso di uscire. Lui è felice in quell'ospedale, o forse no. Probabilmente non è felice in nessun luogo. La piccola Jackie va sempre da lui, sua madre non la vede mai. Jackie ama suo padre, ama stare in quell'ospedale, come se fosse irrefrenabilmente attratta da tutto ciò che è dannato e che non può amarla di rimando.
Lì Jackie conosce l'amore, l'amicizia, la paura. La sua è una storia triste, come quella di Jim, quella di Sabina, quella di sua madre Lone, come se il loro mondo fosse colorato di grigio dalle tragedie che vi hanno luogo, così lontane dal corpo, così vicine al cuore.
Chernobyl. Odessa. Le guerre mondiali. L'Olocausto.
Non vi è alcun ammonimento in questo libro, non esplicito almeno. Come se l'accusa più grande fossero gli uomini e le donne che di quella realtà sono state il frutto. Un frutto marcio, che considera sé stesso insalvabile e senza futuro.
Un libro forse troppo triste, confuso e pervaso da metafore non troppo chiare, ma comunque non da buttare.
"Ho sempre pensato che avrei potuto salvarti, ma forse non si può salvare qualcuno da sé stesso. Forse hai sempre saputo che non sarebbe stato possibile, solo io credevo che tu lo volessi."
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- sì
- no
Il bazar dei... sogni
Un titolo suggestivo per una raccolta di racconti nella norma. Ormai il King degli ultimi anni è pericolosamente nella norma, e ci si aspetta molto di più da lui. Certo, ci sono storie di buona fattura, e la varietà di temi e generi conferma la poliedricità dell'autore, ma nessuno dei racconti realmente memorabile. La lettura è comunque abbastanza piacevole, e lo stile del re e sempre inconfondibile.
Il bazar dei brutti sogni è un luogo in cui non vi sono soltanto incubi. Vi troverete di fronte a macchine infernali (vi ricorda qualcosa?), giocatori di baseball tonti e sanguinari, dune di sabbia premonitrici di morte, bambini cattivi e Kindle multidimensionali.
Il re del brivido riesce ancora a tenerci sul pezzo, in alcuni racconti, alcuni dei quali mi hanno riportato alla mente i meravigliosi "Piccoli brividi", che tanto mi terrorizzavano (e intrigavano) da bambino, emozioni che è raro provare ancora. In altri, mancano il mordente e l'elemento soprannaturale, che in un libro dal titolo del genere ci si aspetta in ogni pagina. Non vorrei che alcuni racconti siano stati buttati lì giusto per allungare il brodo, e sono dell'idea che ometterli sarebbe stato probabilmente più produttivo.
C'è un'idea strana che mi frulla in testa ultimamente, quando mi cimento nelle più recenti uscite letterarie di Stephen King, ed è che si sta tentando di sfruttare tutto quello che è sfruttabile. Qualsiasi cosa, buona o cattiva che sia. Non è sempre una buona scelta, anzi, direi che non lo è quasi mai.
Concludendo, il bazar di brutti sogni contiene alcuni racconti non eccezionali, altri molto buoni, come "Ur", "Il bambino cattivo", e "Seppellisco i vivi", ma nessuno di questi è stato memorabile per davvero.
Peccato.
"Puoi arrivare alla persona, ma non al male. Il male sopravvive sempre. Vola via come un uccello del malaugurio e si posa su qualcun altro. È questa la cosa davvero infernale, capisci? La cosa davvero terribile."
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L'amore è la linea di confine
Zanna Bianca può essere per me preso a simbolo dei pregiudizi letterari. Ho sentito una moltitudine di commenti, fatti anche da persone che non lo hanno letto, commenti del tipo: "è un classico minore" oppure "è un libro per ragazzini", e per concludere in bellezza "cosa ci può essere di profondo in un libro che ha come protagonista un cane?". Orrore, orrore e orrore. Fortunatamente, non sono il tipo che si lascia influenzare dai commenti (immotivati) altrui.
Zanna Bianca, a dispetto dei commenti, è un libro carico di significati. Certo, assume una sfumatura piacevole in più che è percettibile soltanto da chi ha posseduto un cane, ma come dicevo è solo una sfumatura che non toglie nulla alla bellezza dell'opera in sé.
Jack London descrive in maniera eccelsa il mondo selvaggio, come se lo conoscesse perfettamente, come se vi fosse in qualche modo sfuggito. Ma forse non possediamo in noi stessi, in qualche recesso profondo del cuore e della mente, una parte di esso che viene marchiato a fuoco dalla nascita? Qualcosa che viene comunemente chiamata "istinto"? L'autore rende questo mondo vivo con le sue descrizioni, le sue belle riflessioni, e ne palesa l'anima crudele ma giusta ed equa. Trovandoci di fronte a un libro quasi privo di dialoghi, come è ovvio, la lettura può risultare un po' più lenta e difficoltosa, ma quello che il libro ci regala val bene un sacrificio.
Zanna Bianca è per metà cane e per metà lupo, ma la sua indole è indirizzata dal mondo in cui nasce nella direzione del parente selvatico e feroce. L'argilla che compone il suo essere viene plasmata fin da cucciolo verso la solitudine, la ferocia adottata come mezzo per mantenere la sopravvivenza, costretto ad essere lupo dall'ambiente inesorabile che lo circonda.
Uccidere per non essere ucciso.
Nel momento in cui la componente uomo viene introdotta nella vita del piccolo cucciolo, è palpabile la differenza che questo essere può portare, ma non del tutto, perché "uomo" non vuol dire necessariamente migliore o civilizzato. Zanna Bianca si trova dominato da diverse sorte di "divinità" uomo, che in fin dei conti si rivelano peggiori di quel mondo selvaggio al quale era stato strappato, perché troppo brutale. Quel mondo malvisto e additato anche da chi non avrebbe, in questo senso, alcuna libertà di parola, perché nasconde la propria malvagità in una civiltà fasulla. Per questo motivo i tratti taglienti disegnati nei lineamenti di Zanna Bianca, non migliorano al contatto con determinati tipi di uomini, anzi, assumono sfumature peggiori e spaventose, contaminate dalla malvagità e dalla crudeltà immotivata.
Soltanto una cosa è in grado di portare una differenza che sia davvero notevole, che può delineare una netta differenza tra selvaggio e civile, ed è quel sentimento incontrastato e incontrastabile che è l'amore. Esso può ammorbidire i cuori di pietra e rendere ogni cosa migliore. Si avverte l'enorme abisso che c'è nel mondo descritto da London prima dell'introduzione di questo sentimento e dopo. Un mondo dalle tinte cupe, brutale e implacabile lascia il posto a una realtà carica di colori, fatta di pace e armonia, anche se turbata in certi momenti da quell'oscurità che è così dura a morire.
Solo allora il più selvaggio dei lupi, quale è Zanna Bianca, non può far altro che abbandonarsi alla splendida felicità che è insita nell'amare. Anche se è difficile cambiare un'entità vivente che fin dalla nascita è stata abituata a percepire il mondo in una determinata maniera, a diffidare di tutto e tutti, a vivere in solitudine e a uccidere per sopravvivere, l'amore è in grado di renderla migliore.
L'amore è la chiave. Esso rende il brutto più bello, il cattivo più buono e il selvaggio, addomesticato.
"Se il cucciolo avesse pensato alla maniera degli uomini, avrebbe potuto definire la vita un continuo, vorace appetito, e il mondo un luogo in cui si incrociava una moltitudine di appetiti che si inseguivano o erano inseguiti, che erano cacciatori o cacciagione, che mangiavano o erano mangiati. E tutto ciò in una cieca confusione di violenza e disordine, in un caos i di ingordigia e di stragi dominato dal caso, impietoso, fortuito e infinito."
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La gelosia e la parola
Ed eccomi qui, alle prese con il secondo appuntamento consecutivo con il caro Shakespeare, appuntamento che non si è rivelato meno proficuo e ricco del primo.
Con il suo inconfondibile stile, William ci porta a scrutare le conseguenze che porta un'altra delle sfaccettature dell'animo umano, se portata all'estremo.
Se per Macbeth era l'ambizione, per l'Otello parliamo della gelosia.
Otello, anche detto il Moro, è un rinomato generale al servizio della Repubblica di Venezia, distintosi per il valore dimostrato in battaglia (come Macbeth).
Otello sposa la giovane e bella Desdemona, che pur di convolare a nozze con lui è disposta a scappare da suo padre, tanto è l'amore che prova per il suo Otello.
Con la minaccia turca alle porte di Cipro però, il Moro non può ancora godersi i benefici delle nozze, e sarà inviato lì per fare da governatore e fronteggiare i nemici in arrivo. Me ben altri e ben più temibili saranno i nemici che si troverà ad affrontare.
Si recherà lì insieme alla stessa Desdemona, al suo fedele luogotenente Cassio e al suo diabolico alfiere Iago. Sarà proprio quest'ultimo, alla disperata ricerca di trarne dei vantaggi personali, a provocare l'immensa tragedia descritta in questo libro. Con le sue trame diaboliche e le sue menzogne, tesserà una tela nella quale intrappolerà tutti, anche sé stesso. Introdurrà nella mente di Otello il tarlo della gelosia, in modo meschino e subdolo. Viste dall'esterno, le prove che Iago offre a Otello riguardo l'infedeltà di Desdemona sono di scarso valore, ma Shakespeare vuole mettere in risalto proprio questo concetto: "[...] inezie leggere come l'aria sono per il geloso conferme forti come l'evidenza delle Sacre Scritture".
Ed è proprio così, Otello viene reso pazzo dalla gelosia infondata che Iago fomenta in lui, che scaturisce dal suo troppo amore e dal possesso, e lascia che i suoi occhi e il suo cuore lo ingannino enormemente. La realtà disegnata da quegli occhi contaminati dalla gelosia è lontana un'abisso da quella pura e vera, eppure agli occhi del Moro appare inconfutabile. Il mondo di Otello è nero, il suo amore Desdemona diventa una prostituta, il suo fedele servitore Cassio diventa un traditore, mentre l'unico a salvarsi dal suo severo giudizio è Iago, che invece di apparire come il diavolo che è in realtà, gli appare come un angelo onesto al quale deve tutto. La gelosia può dar vita a mostri che nel mondo reale non esistono nemmeno in minima parte, e quest'ultima può devastare un uomo, quando viene fomentata dalle parole.
Le parole. Esse hanno un potere che nemmeno la spada. Si insinuano silenziose nelle nostre fibre vitali, le corrompono, pizzicano violentemente le corde del nostro cuore, inebetiscono la mente più lucida e sono in grado di renderla folle. Semplici parole, pronunciate da un diavolo come Iago, che le adopera senza alcun freno, hanno potuto ferire, uccidere, dannare nel corpo e nell'anima. Tutto a causa della parola e della sua parente più prossima, la menzogna. Esse costruiscono un castello di carte composto dalle vite con le quali giocano, ed esse stesse si trasformano nel soffio di vento che quelle vite poi distrugge.
Quando l'uomo diventa schiavo delle proprie passioni, è in quel momento che la rovina si nasconde dietro l'angolo. È stato così per Macbeth, è stato così per Otello, può essere così per qualunque uomo.
"Guardatevi, mio signore, dalla gelosia! È il mostro dagli occhi verdi che schernisce la carne di cui si nutre. Beato vive il cornuto che, certo del suo destino, non ama chi gli fa torto. Ma oh!, quali minuti maledetti conta chi stravede eppure dubita, sospetta eppure ama con passione!"
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Una graduale discesa negli inferi
Che senso avrebbe soffermarsi sullo stile del più grande drammaturgo di tutti i tempi? Nessuno. William Shakespeare è semplicemente eccelso.
Perciò andiamo avanti, e capiamo in che punti il suo "Macbeth" e degno di nota.
Macbeth, barone di Scozia e valorosissimo guerriero, si guadagna il favore del grande Re Duncan grazie al coraggio dimostrato in battaglia, tanto da avere l'onore di ospitarlo in casa sua.
Il Male, grande protagonista di questo dramma, annuncia a Macbeth che egli diverrà Re di Scozia. Per quanto la ritenga assurda e insensata, questa profezia farà scattare nel cuore di Macbeth un meccanismo oscuro, che accompagnato dalla sua grande ambizione lo corromperà fin dentro le viscere. Sostenuto da una moglie ambiziosa quanto lui, se non di più, egli diverrà effettivamente Re di Scozia; ma sanguinoso e meschino sarà il modo in cui egli adempirà lo scopo. Intraprenderà un viaggio dal quale il suo corpo farà ritorno, ma non la sua anima. O almeno, non la stessa.
All'inizio tutto è paura, ma la paura è un ostacolo ben camuffato, una volta scoperta la sua natura inconsistente essa si supera con facilità. Basta affrontarla e sconfiggerla per la prima volta.
L'anima di Macbeth si corrompe irrimediabilmente, "sono avanzato a tal punto nel sangue, che il tornare mi sarebbe faticoso quanto il procedere", dice.
Forze opposte combattono tra loro, il bene e il male, il timore e il coraggio, l'onore e il disonore.
Il mutamento in Macbeth è graduale, ma spaventoso; come l'antitesi di una crisalide che si trasformi in farfalla. Colui che si lascia affascinare dal male, dai suoi doni preziosi e luccicanti, dovrebbe almeno conoscerne le macabre conseguenze. La morale svanisce man mano, Macbeth non teme più nulla, non conosce più misericordia, né amore, né affetto. Egli non è più un uomo, è un diavolo che ha sacrificato il suo cuore per qualcosa che una volta ottenuto, ha perso la sua importanza. Eppure, pur di non perderlo, questo diavolo sarebbe disposto a mettere il mondo a ferro e fuoco e a sacrificarne gli abitanti senza il minimo rimorso. Ma anche quando l'ultima minaccia viene eliminata, nemmeno allora, quella corrotta e tormentata anima troverebbe la pace.
Fugace e falsa è la gloria di colui che la ottiene tramite l'inganno, il sangue e il dolore altrui.
Disonore, a Macbeth.
"La vita non è che un ombra
Che cammina, un povero attore
Che si pavoneggia e si agita per la sua ora
Sulla scena e del quale poi
Non si ode più nulla: è una storia
Raccontata da un idiota, piena di rumore
E furia, che non significa nulla."
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I get the Blues when it rains
La copertina di questa raccolta di racconti di uno degli scrittori moderni più apprezzati, almeno dal sottoscritto, è la cosa che meglio la riassume.
Questo libro è una lettura piacevole, leggera, ma come ben saprà chiunque abbia letto Bradbury, per nulla frivola.
Ogni racconto, nella sua leggerezza, ha qualcosa da lasciare, ma lo farà solo al lettore attento e scrupoloso. Dimenticate e quindi le favole dalla morale spicciola, che si delineano in quattro parole, con concetti spesso stereotipati, triti e ritriti. Bradbury non è così, è complesso, ricercato, e nasconde il suo pensiero tra le righe, come un tesoro da scovare. Ed è decisamente più soddisfacente ed efficace. Vi troverete a fronteggiare la bizzarra natura dell'essere umano, dei suoi lati positivi, dei suoi lati bui. Vi troverete a riflettere sull'unicità di alcuni momenti che compongono la nostra vita, momenti unici e irripetibili che vanno vissuti pienamente. Questo e tanto altro.
"Il pigiama del gatto", che è solo uno dei venti brevi racconti che compongono questa raccolta, non sarà memorabile come il capolavoro "Cronache marziane", ma ha comunque dei racconti memorabili da regalarvi, come "I get the Blues when it rains", che quello che ho apprezzato di più. In breve, vi consiglio assolutamente di leggere questa raccolta di racconti, leggera, spensierata, ma carica di significati. Vi innamorerete sicuramente di questo autore.
"[...] come fare le cose giuste? Nello stesso modo in cui si fanno quelle sbagliate. Lo stesso procedimento, rovesciato. Le cose sono sbagliate quando si rompe un vaso, si strappa una tenda o si lascia un libro sotto la pioggia. Si ritorna a fare le cose giuste riparando un vaso, cucendo la tenda e comprando un altro libro. Questo significa fare."
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Un solenne inno all'amore
Impossibile per me spiegare la bellezza di questo libro nelle limitate parole di una recensione, a meno che questa non risulti oltremodo lunga o prolissa, e questo libro non lo meriterebbe. Proverò comunque a farlo brevemente.
Quello che posso dirvi con certezza è che Dumas deve aver provato un amore simile a quello che descrive, perché le emozioni che si provano leggendolo sono spaventosamente vivide e toccano il cuore per davvero.
L'amore tra Marguerite e Armand è qualcosa di meraviglioso.
In un'epoca in cui l'amore sincero, intenso, passionale, irrefrenabile e puro sta cadendo tristemente nell'oblio per lasciare spazio all'ego in tutte le sue sfumature, questo libro andrebbe letto da tutti. Anche soltanto per discernere cosa sia davvero questo quasi accantonato sentimento chiamato amore, e se davvero vale la pena sacrificarlo il nome del materialismo e dell'affermazione di sé.
Marguerite è la signora delle camelie, una mantenuta. Una prostituta d'altri tempi, per meglio intenderci, non abituata ad amare ma a donare il proprio corpo ad amanti che ne sostengono la vita lussuosa.
Ammalata di un grave male che pare spingerla troppo giovane verso la tomba, ella scopre improvvisamente l'amore in Armand Duval, un giovane per nulla ricco ma di buon cuore che per lei perde la testa. L'amore la travolge come una gigantesca onda alla quale non può sottrarsi. Un amore che diventa l'unica ragione per esistere, che tutto il resto, per quanto possa brillare, non potrà mai farlo quanto quel sentimento così nobile. Tutto il resto è sacrificabile e null'altro è più necessario se non la persona amata, e quanto è dolce perdersi in questo bisogno inarrestabile!
La felicità prende possesso della vita, i colori sembrano più intensi così come i profumi, e ogni suono diventa una splendida melodia.
Ci si rende davvero protagonisti della propria vita, e gli unici momenti che rimarranno indelebili nella memoria saranno quelli passati accanto alla persona che di quell'amore è la fonte. Anche le cose semplici diventano ricche di significato. Un bacio, una parola, le dita delle mani che si sfiorano prima di intrecciarsi immancabilmente.
Si arriva ad amare al punto che si è pronti a sacrificare questo amore che ci rende felici per il bene della persona amata. Ma si può fare davvero del bene con un sacrificio così estremo? O ci si sta solo facendo influenzare da ciò che questo mondo triste e grigio considera erroneamente importante? L'amore basta a sé stesso, e se ci si trova a dover fare una tale scelta è solo perché abbiamo lasciato che cose esterne ad esso lo contaminassero. È così che gli amori più meravigliosi finiscono, o meglio, si corrompono.
Denaro, vantaggi, fama, ego. Ma davvero possono renderci felici a tal punto?
Chiedetelo a Marguerite Gautier, chiedetelo ad Armand Duval. La loro commovente risposta verrà ascoltata dal vostro cuore, ed egli risponderà a voi, o meglio, proverà a farlo capire a quell'inflessibile e sciocco organo pensante che è nel vostro cranio, ma che in certe occasioni starebbe meglio altrove.
Quando finalmente capiremo che siamo stai fatti principalmente per amare, forse riusciremo a vivere in un mondo che sia davvero migliore.
"Quando penso che potrei non morire, che voi potreste tornare, che io potrei rivedere la primavera, che potreste amarmi ancora e che potremmo ricominciare la vita dell'anno scorso: che pazza che sono! È con fatica che riesco a reggere la penna con la quale trascrivo il sogno insensato del mio cuore. Qualunque cosa accada, io vi amavo tanto, Armand, e sarei morta già molto tempo fa se non ci fossero a sostenermi il ricordo di quell'amore e una vaga speranza di rivedervi ancora accanto a me."
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Seguace dello stereotipo
Impossibile non ammettere che gialli/thriller nordici negli ultimi anni stiamo andando parecchio forte.
Jo Nesbo, Stieg Larsson, Camilla Lackberg e chi più ne ha più ne metta. In questo mare di giallisti che hanno trovato la fama, cerca di ritagliarsi il suo spazio anche Ingar Johnsrud, che con il suo primo romanzo "Gli adepti", in Italia è riuscito a farsi pubblicare da Einaudi. Mica male per un esordiente.
È un esordio discreto, anche se si sente tutto. Lo stile è semplice ma non eccelso, un po' lento e confuso all'inizio per poi riprendersi nel corso delle pagine. Ci sono comunque delle scelte coraggiose, come quella di gestire un racconto parallelo in flashback, ovviamente attinente alla trama, con delle scene che si incastrano bene nel mezzo della storia principale.
Abbastanza piacevole a leggersi, ma non memorabile, soprattutto a causa della quantità di stereotipi presenti nel romanzo. Una setta religiosa che cerca a modo suo di salvarsi dal giorno del giudizio? Già visto. Esperimenti su cavie umane per studiare le distinzioni razziali ai tempi del nazismo? Visto. Ceppi di virus mortali prodotti in laboratorio, accompagnati dal pericolo che questo possa diffondersi? Niente di nuovo sotto il sole.
Nonostante ciò, la storia presenta qualche tocco di originalità interessante, e vale la pena darle un'occasione.
Tutto inizia con una tragedia che ha luogo a Solro, dove una setta religiosa detta "La Luce di Dio" ha la sua dimora. Un pazzo assassino ne ha ammazzato alcuni componenti, mentre degli altri non vi è più alcuna traccia. Nei sotterranei della casa in cui dimoravano, viene rinvenuto un laboratorio adibito a scopi oscuri, ma ormai vuoto.
Tutto questo scatenerà una lunga serie di eventi che porteranno i due agenti Fredrik Beier e Kafa Iqbal lungo una scia di sangue e mistero, sulle tracce del mostro assassino che si cela dietro queste tragedie, alla ricerca della comunità scomparsa e del misterioso predicatore Per Olsen, anche lui scomparso, e che a quanto pare è la chiave di tutto.
"Gli adepti" è il primo romanzo di una trilogia, che a quanto mi è parso di capire sarà tutta incentrata su questa storia. Non si tratterà quindi di indagini differenti con i medesimi personaggi, ma di un'unica storia che si spalmerà su tre libri. Questo almeno, è quello che si deduce dalla lettura del romanzo, che lascia molti spiragli aperti. Giusto per farvi capire a cosa andate incontro.
"La maledizione della ricchezza. La prima generazione accumula i soldi, la seconda di amministra e la terza li sperpera. Piuttosto logico, in effetti. È difficile apprezzare una cosa per la quale non hai mai dovuto lottare."
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Quel demone che è un oblio eterno
Non è certo il Dostoevskij immenso letto nei Karamazov, né quello geniale de "Le notti bianche", ma "Il giocatore" rimane un'opera di rilievo nel mezzo dei capolavori dello scrittore russo.
Nella sua perenne analisi degli abissi dell'uomo, stavolta egli si imbatte in uno di quelli al quale è più difficile sfuggire, quello del gioco, e lo fa con il suo stile inconfondibile, che riesce sempre a coinvolgere emotivamente.
Ne "Il giocatore" ci vengono narrate le vicende del giovane Aleksej Ivanovic, precettore dei figli di un generale ormai caduto in disgrazia economica, profondamente innamorato della figliastra di quest'ultimo.
Dal titolo piuttosto eloquente, si potrebbe presagire che il nostro cammino sia a fianco a fianco al nostro protagonista mentre egli per la maggior parte del tempo si conduce alla sua stessa rovina di fronte alla diabolica Roulette. Errore.
La sua caduta non sarà così eclatante, né il demone del gioco lo aggredirà così repentino e aggressivo. Esso è un male furbo e paziente. Esso si insinua, come ogni male oltremodo pericoloso, in maniera silenziosa nella vita del giovane, prendendone subdolamente possesso mentre egli è distratto e reso senza difese dalle assurde vicende che si susseguono nella famiglia, e dal suo amore che sembra non essere corrisposto. Una volta insinuatosi, il suo attacco sarà violento e improvviso, ancora più pericoloso perché proveniente dall'interno. La rovina viene rapida come uno sbatter d'occhi, e l'abisso in cui egli cade è senza fine né via d'uscita.
Nulla può tirarvi fuori da quel pozzo senza fondo, nemmeno l'amore che avete desiderato per tutta la vita, e nemmeno se è stato proprio quell'amore a gettarvici, nella speranza che avevate di conquistarlo. Anche se questo si rivelasse in tutta la sua luce, dopo che per tempo indefinibile era stato solo tenebre fitte, non avrebbe il potere di salvarvi.
Si diventa schiavi di un male dal quale crediamo di poterci liberare in qualsiasi momento, come se fosse soltanto questione di volontà; continuiamo a sottovalutarlo come quando ancora non ci aveva ghermito del tutto, ma scoprendo ogni momento che da esso non possiamo più scappare e che siamo soltanto burattini nelle sue mani, avendo perso ogni potere sulla nostra vita e le nostre scelte. Esse si limitano al furioso rimbalzare di una pallina su un frenetico cerchio rotante, che ormai detiene l'assoluto potere sul nostro destino e ne sceglie i colori al posto nostro.
"Vi siete fatto di legno - egli osservó, - non solo avete rinunciato alla vita, agli interessi vostri e a quelli sociali, ai vostri doveri di cittadino e di uomo, ai vostri amici, non solo avete rinunciato a ogni altro scopo, tranne quello di vincere al gioco: avete rinunciato perfino ai vostri ricordi. Vi ricordo in un momento ardente e intenso della vostra vita; ma sono sicuro che avete dimenticato tutte le vostre migliori impressioni d'allora; I vostri sogni, i vostri desideri quotidiani di adesso non vanno oltre il pair, il dispair, il rouge, il noire, le 12 cifre centrali e così via, e così via, ne sono certo!"
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Yin Yang
È forse in questo particolare periodo della Storia dell'umanità, che più siamo sensibili a quello che concerne la religione islamica e i suoi diversi tipi di seguaci.
Oltre a esserne spaventati, per mezzo della sua componente più estremista, che si tratti di Al Qaeda o del Califfato, siamo anche incuriositi. Vogliamo conoscere quel che ci fa paura, quel che ci troviamo ad affrontare ogni giorno, chi in prima linea, chi da spettatore. Ed è qui che romanzi come "Il grande futuro" di Giuseppe Catozzella trovano terreno fertile.
Lo stile dell'autore è scorrevole, magari non eccelso ma comunque piacevole. L'ho trovato un autore molto Coelhiano, per lunghi tratti, anche se forse è l'ambientazione ad accentuare questa sensazione. Credo di poter comunque dire che chi apprezza l'autore brasiliano, probabilmente apprezzerà anche Catozzella, almeno in questa sua ultima fatica.
Amal e Ahmed sono due ragazzini, migliori amici fin da quando erano piccoli, con un'unica differenza: la famiglia del primo fa da serva a quella del secondo. Questo non impedisce ai due giovani di condividere una profondissima amicizia, costellata da giochi, disubbidienze, rischi, primi amori e anche contrasti. La vita li porterà a dividersi, a prendere due strade completamente opposte, e sarà quella di Amal, il servo, che seguiremo passo passo.
Il giovane dal cuore diviso (letteralmente), sarà nel corso degli anni alla perenne ricerca della pace interiore. Proverà a trovarla nel lavoro, nell'amore, nella fede, nella guerra, che permeeranno a turno le varie fasi della sua vita e della sua crescita. Quale di queste cose avrà la meglio?
Il viaggio di Amal ci porterà a guardare dall'interno la parte più oscura dell'Islam, quella più estremista e violenta, che forse con la religione non ha molto a che fare. Ma ci farà conoscere anche la grande devozione dei veri credenti, che nulla hanno da condividere con i sanguinosi terroristi che siamo purtroppo abituati a conoscere. Giusto per ricordarci che non si può fare di tutta l'erba un fascio.
È un romanzo che pone l'accento sulle contrapposizioni, l'Islam devoto e quello estremista, per l'appunto; la fede come scelta contro quella che viene imposta; l'amore contro il pregiudizio e l'odio.
La guerra contro la pace. Guerra vera e propria, ma soprattutto, guerra come conflitto interiore.
Perché non importa se siamo cristiani, musulmani o buddisti, tutti ci troviamo a combattere una guerra continua contro noi stessi, alla perenne ricerca di ciò che è in grado di portarci alla felicità. Per raggiungerla non esiste una strada precisa; ogni individuo può raggiungerla soltanto percorrendo la propria strada, che è unica e personale.
Ma per percorrere una strada, bisogna pur sempre camminare.
"Volevo ricordarti che la felicità è un diritto di tutti, Amal. Ricorda queste parole, qualunque cosa accada la tua giovane vita. Hai diritto alla tua felicità. Se la cercherai, lei si farà trovare. Te lo prometto."
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Uno Holmes senza Sherlock
Caro Doyle, tu sei stato il mio trampolino di lancio del mondo della lettura, e dopo centinaia di libri, nella mia rilettura sei stato in grado di apparirmi ancora migliore di allora. Per me, questo basta e avanza per considerarti un vero e proprio maestro.
Forse questo è, tra i romanzi di Sherlock Holmes, quello più suggestivo. La minuziosità (a volte anche prolissa) con la quale l'ambientazione di questo romanzo viene presentata, ci porta in un viaggio nel bel mezzo dell'immensa brughiera inglese. Veniamo assorbiti da quel paesaggio paludoso, sconfinato, dove la terra umida e la sterpaglia hanno il predominio, avvolte in un grigiore carico di suggestioni. Ci sembra di essere lì, come fossimo al fianco di Sherlock Holmes e del caro Dottor Watson, guardandoci intorno con timore, come se il famigerato mastino infernale potesse sbucare dal nulla e aggredirci senza preavviso.
In questo romanzo, veniamo investiti come al solito dal grande genio dell'investigatore londinese, ma soprattutto da quello del suo creatore. Perché? Andiamo per gradi.
Il penultimo successore di una ricca famiglia, i Baskerville, muore di crepacuore nel bel mezzo della brughiera. Non lontano dal suo corpo, le orme immense di una feroce bestia che pare perseguitare i membri di quella stessa famiglia da secoli, e ribattezzato per questo motivo come il "mastino dei Baskerville".
A indagare su questi misteriosi eventi, e a vigilare sulla vita dell'ultimo discendente, Sir Henry Baskerville, ci sono le nostre due vecchie conoscenze. Beh, non proprio. Ecco qui il genio Doyle: non saranno entrambi a recarsi nella dimora di Dartmoor, bensì il solo Watson. Ebbene sì: nel più famoso romanzo di Sherlock Holmes, quest'ultimo compare per forse meno della metà del tempo in cui si svolgono i fatti. In un certo senso. Ma nonostante la sua assenza come persona fisica, è come se fosse comunque presente in ogni pagina letta. In che modo l'autore faccia questo è un mistero; anche se il caro Dottor Watson ha indubbiamente attinto a piene mani dalla personalità e dai metodi del suo maestro, non è certo lui in carne ed ossa. Eppure, seguendo le vicissitudini del caro dottore durante la sua permanenza al maniero dei Baskerville, e come se Sherlock Holmes fosse accanto a lui, accompagnandolo nella risoluzione di questo intricato e misterioso caso.
Nella incalzante narrazione di Doyle, carica di mistero, intrighi, genio e colpi di scena, leggerete uno dei più bei gialli di sempre. Il mastino esiste o no? Scopritelo, e non ve ne pentirete.
"Quanto più un particolare è esagerato e strano, tanto più merita di venire osservato e meditato con attenzione, e proprio il punto che pare complicare un caso, se debitamente studiato e scientificamente approfondito, è quello che di solito finisce per chiarirlo."
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L'alchimia dell'amore
Questo libro (come anche il suo autore), ha una fama che lo precede. Difficile trovare qualcuno che non ne conosca il titolo. Un libro che solo in Italia ha venduto un milione e mezzo di copie, e dopo averlo letto riesco facilmente a immaginarne il motivo, almeno per quanto riguarda il nostro paese.
Nel complesso "L'alchimista" non è un libro malvagio: semplice, scorrevole, ricco di ragionamenti e frasi ad effetto, alcune delle quali anche sagge e che possono portare a qualche riflessione.
Un po' troppo sentimentale per i miei gusti, ma consigliato a chi piace questo genere di cose.
Santiago è un giovane pastore, che vaga per l'Andalusia con il suo gregge di pecore, almeno fin quando non gli si presenta, per due notti consecutive, un sogno riguardante un tesoro nascosto alle Piramidi d'Egitto.
L'incontro con una zingara e con un re particolare, porteranno il giovane a mollare tutto e partire per un viaggio alla ricerca di questo tesoro, verso la realizzazione della sua Leggenda Personale.
Come nella maggior parte dei lunghi viaggi, buona parte della bellezza non sta nella meta, bensì nel tragitto, lungo il quale il giovane Santiago troverà forse molto più di quello che può dargli il tanto desiderato tesoro.
Incontrerà il successo dovuto al duro lavoro, l'amore, e riuscirà a penetrare l'Anima del Mondo, dove tutte le cose, compresi gli uomini, si fondono in un'unica entità vivente e armoniosa. Solo chi saprà comprenderla potrà realizzare la propria Leggenda Personale.
Un viaggio interessante lungo il nord dell'Africa, popolato da incontri con personaggi altrettanto interessanti: il commerciante di cristalli, il cammelliere, Fatima, e ovviamente, L'Alchimista. Quest'ultimo sarà colui che aiuterà Santiago a perseguire il suo obiettivo, con la sua saggezza forgiata dal coraggio, dall'esperienza e dalla conoscenza dell'Anima del Mondo.
Un libro leggero per sentimentali.
"Perché vuoi conoscere il tuo futuro?"
"Per poter agire" aveva risposto il cammelliere. "E per cambiare ciò che vorrei non accadesse."
"Allora non sarebbe più il tuo futuro," aveva replicato l'indovino.
"O forse, allora, io desidero conoscere il futuro per prepararmi a quello che verrà."
"Se fossero cose belle, sarebbe una piacevole sorpresa," aveva detto l'indovino. "Se dovessero essere cose brutte, cominceresti a soffrirne assai prima che accadano."
"Voglio conoscere il futuro perché sono un uomo, e gli uomini vivono in funzione del loro futuro."
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Grandi speranze senza speranza
Caro Dickens, mi hai spezzato il cuore.
Eppure lo hai fatto con una tristezza così dolce, che non oserei mai fartene una colpa. Come hai fatto, mi chiedo, a scrivere una storia che sia così meravigliosa nella sua malinconia? Tu, che sempre ti sei mostrato così ricco di vere grandi speranze, nell'opera che nel suo titolo più avrebbe potuto rispecchiarle, risiedono le parole che più duramente le stroncano.
Giuro, mai nessuna opera prima d'ora mi aveva travolto in un tale turbine di emozioni, né mi aveva stretto il cuore fino a renderlo un piccolo tessuto organico deforme e striminzito.
Ci vuole un cuore forte nel leggerti in questa tua grande fatica, venuta fuori nella tua vecchiaia, ma beato quel cuore ardito e nobile che ne regge il fardello!
Pip non è che un componente del mondo composto dai tanti personaggi meravigliosi di "Grandi speranze", tutti diversi e così memorabili.
Pip, spinto come ogni uomo a cercare quello che non ha per amore di una donna crudele, insegue le sue grandi speranze abbandonando le sole cose che avrebbero potuto renderlo felice per davvero. Eppure l'essere umano non fa altro che questo, cercare quello che non ha seppure quel che già possiede sia tutto quel che desidera realmente. L'abbandonerà, e lo rimpiangerà soltanto quando sara troppo tardi per averlo indietro.
Vi è un cinismo brutale in tutto questo, e la cosa peggiore è che esso è così spaventosamente reale…
Pip non è affatto un eroe, seppure di buon cuore, i suoi errori di giudizio e le sue azioni "sbagliate" avranno un effetto devastante sulla sua vita, alle cui basi ha messo soltanto le sue speranze, per le quali ha sacrificato delle solidissime fondamenta di granito, nella speranza di costruire una casa ornata d'oro.
Anche nel buio più totale però, vi è un sottile barlume di speranza, che tuttavia non potrà mai portare a un pieno lieto fine; perché siamo sinceri, questo esiste solo nelle favole e la vita non lo è, almeno non del tutto.
Caro Charles, questo tuo libro lo amo e lo odio lo stesso tempo, l'ho sentito bruciare tra le mie mani, e mi è entrato nell'anima. Grazie per questo regalo che ci hai fatto, che per quanto inusuale, io ho apprezzato con tutto il cuore. Avrei voluto conoscerti, davvero.
Imperdibile.
"Tutti i più grandi imbroglioni della terra non valgono nulla in confronto a colui che imbroglia sé stesso, e con questo pretesto io m'ingannavo. Strano fatto davvero! Che io candidamente accettassi per buona una mezza corona coniata da un falsario, sarebbe stato comprensibile; ma che io coscientemente prendessi per buona la moneta falsa coniata da me stesso! Uno sconosciuto troppo premuroso, con la scusa di piegare con cura i miei biglietti di banca in modo che non rischi di perderli per strada, può sfilare i biglietti e sostituirli con dei gusci di noce; ma cos'è mai il suo gioco di prestigio in confronto al mio, quando piego con cura i miei gusci di noce e li rifilo a me stesso, come se fossero banconote!"
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La tragica scissione di corpo e anima
"Il ritratto di Dorian gray" è un'opera che in tutta probabilità racchiude il suo stesso autore, in tutta la sua eccentricità e cupezza, usata come pretesto da quest'ultimo per esprimere il proprio pensiero in maniera ancor più interessante.
Affascinante e terrificante proprio come il giovane inglese che ne è protagonista, questo libro è una terribile arma per il confronto dei pensieri del lettore con quelli dell'autore, su temi che definire scottanti sarebbe un eufemismo. Mentre si legge, è come se accanto al favoloso ritratto di Dorian Gray, ci fosse anche il nostro medesimo.
Il quadro dipinto dal promettente pittore Basil per il giovane Dorian, è di una bellezza inimmaginabile. È forse così che appare l'anima di ogni uomo, prima che essa conosca il piacere e il peccato? Dorian conosce questi ultimi al suo primo incontro con Lord Harry, che con le suoi terribili teorie sui piaceri della vita influenza quel giovane non ancora formato, dando inizio alla lenta corruzione della sua anima. Una volta che essa ha preso quella via oscura, è molto difficile che ne venga fuori.
Lord Harry è quasi il simbolo dei pensieri di Oscar Wilde, sembra essere lui in persona sotto falso nome, mentre Dorian è una sorta di esperimento che Wilde ha voluto fare sull'attuabilità delle sue teorie e convinzioni, come se avesse voluto scoprire che tipo d'uomo sarebbe venuto fuori assecondando e incarnandovi del tutto i suoi ideali. Le mutazioni del ritratto e il triste destino del giovane Dorian sono ciò che ne risulta, e l'autore ne ostenta una spaventosa consapevolezza. Ogni peccato disegna una ruga, una piaga, un'imperfezione o un'espressione sgradevole sul viso del Dorian dipinto, mentre il vero uomo, pur restando immacolato nel corpo, vede la sua mente corrompersi e deteriorarsi a mano a mano, e ne vede il vero specchio in quella mostruosa tela.
Tuttavia, egli lascia che la sua anima si corrompa, tenendola lontano da sé, confinata in quel quadro gettato nella polverosa soffitta. Forse quel ritratto e la bellezza permanente di Dorian rappresentano l'indifferenza nei confronti dei nostri peccati, un'indifferenza che non fa altro che corroderci e logorarci silenziosamente, forse più dei peccati stessi. Possiamo decidere di non affrontarli, relegarli in soffitta e lasciarli a marcire mentre noi continuiamo ad andare per la nostra strada, ma loro continueranno a osservarci da lontano, nel buio, aspettando il momento della resa dei conti; che potrà anche tardare, ma non mancherà d'arrivare.
P.S. Lasciate perdere il film, e non precludetevi questa lettura se lo avete visto, soprattutto se non vi è piaciuto. Non ha quasi nulla a che vedere con questa grande opera...
"Perché influenzare una persona significa darle la propria anima. Non pensa più coi suoi pensieri naturali, e non brucia di passione naturale. Le sue virtù non sono più reali per lei. I suoi peccati, se esistono i peccati, sono presi in prestito. Diventa l'eco della musica di qualcun altro, un attore in una parte non scritta per lui. Lo scopo della vita è sviluppare noi stessi. Ognuno di noi è al mondo per realizzare perfettamente sé stesso. Ma al giorno d'oggi la gente ha paura di sé. Hanno dimenticato che il più alto dovere è quello che si deve a sé stessi. Certo sono caritatevoli, danno da mangiare agli affamati, e vestono gli ignudi. Ma le loro anime sono a digiuno, e restano nude. La nostra specie ha perso ogni coraggio, e forse non ne abbiamo mai avuto."
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Chiedi alla polvere.
Arancia Meccanica.
Il bene non esiste. Solo il male minore.
Questa "corposa" ultima fatica di Don Winslow mi ha piacevolmente sorpreso, se non addirittura stupito. C'è da dire che le premesse per attendersi un ottimo libro c'erano tutte, partendo dall'acclamatissimo prequel "Il potere del cane", passando dal fatto che è già in programma un film ispirato al romanzo, e finendo con i commenti entusiasti di grandi maestri come Ellroy e Connelly, e di grandi testate giornalistiche come il New York Times.
Insomma, quando un libro ha successo, qualche volta c'è dietro un motivo reale, un motivo che ho scoperto pagina dopo pagina.
Certo, le pagine non sono poche (quasi 900), ma la lettura è resa fluida dallo stile ottimo e magnetico di Winslow, che nonostante narri una miriade di vicende e introduca tantissimi personaggi (caratterizzati alla perfezione, alcuni dei quali memorabili), mantiene sempre vivo l'interesse.
La storia è coinvolgente e ben scritta, permeata da una buona suspance e ricca di informazioni accurate, che mettono in luce un evidente e approfondito studio da parte dell'autore. Il fatto che questa storia sia ispirata a fatti realmente accaduti, mette davvero i brividi.
Nonostante "Il cartello" sia il diretto sequel del precedente libro di Winslow "Il potere del cane", ci tengo a dirvi che può essere letto anche senza aver nemmeno aperto il prequel, anche se la voglia di leggerlo sarà tanta, quindi tanto vale cominciare da quello, no?
L'ex Re messicano della droga, Adàn Barrera, sta vivendo uno dei momenti più bui della sua vita. Sbattuto in galera dal suo acerrimo nemico, l'agente della DEA Art Keller, ha visto il suo potere dissolversi e la sua organizzazione scindersi nel caos.
Ma non del tutto.
Adàn si prepara con pazienza a riprendere il suo trono, e stavolta non ci sara Keller che tenga.
E' da qui che ha inizio una sanguinosa guerra tra le varie fazioni che si dividono il potere nel traffico di droga in Messico, in cui i veri cattivi sono difficili da individuare e i buoni non esistono. Winslow ci catapulta in un mondo dove il bene assoluto non esiste; dove con certe cose "sbagliate" non si può fare altro che imparare a conviverci; dove il male non lo si può estirpare. Si può solo accettare il male minore.
Il Messico diventa scenario di sangue e dolore, non adatto ai deboli di stomaco, dove il numero di vittime innocenti non si può contare.
"Il cartello" è crudo, intenso, spietato.
La violenza dilaga al punto che anche il lettore vorrebbe che finisse, come se la vivesse, trascinato nel terrore dilagante disegnato dalla penna di Winslow, che vuole rendere il tutto spaventosamente reale. La possibilità che questa possa essere la realtà in cui viviamo fa davvero paura.
Un "piccolo" capolavoro per stomaci forti e palati sopraffini dei thriller/noir contemporanei.
Per concludere, vi rendo partecipi di una domanda che mi è sorta durante la lettura, che soltanto chi conosce quel capolavoro assoluto di serie TV che è "Breaking Bad" potrà capire: se i cartelli della droga in New Mexico hanno solo un pizzico della crudeltà spietata di quelli messicani presentatici ne "Il cartello", come diavolo ha fatto Walter White a non finire morto ammazzato dopo la prima settimana? Heisenberg doveva essere proprio cazzuto, e la meth che cucinava roba da nouvelle cousine.
Da leggere.
"La sua solitudine è come un dolore lieve, una vecchia ferita che non noti più perché ormai è parte di te."
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Chi ha visto e amato Breaking Bad.
La vittoria nella sconfitta
Quando ho terminato la lettura de "Il vecchio e il mare", ho provato a immaginare la reazione di diversi tipi di lettore.
Il lettore occasionale, che si trova a leggere la breve descrizione della trama sul retro del libro, potrebbe dire: "Cosa diavolo c'è di interessante in un vecchio che se ne va a pescare? Meglio che compri l'ultimo libro di Ken Follett".
Il lettore inesperto ma abbastanza temerario da immolarsi nella lettura suddetta, una volta terminata potrebbe dire qualcosa di simile al lettore occasionale.
Il lettore esperto, invece, che sa bene come leggere questo genere di libri, e che è perfettamente consapevole della ricchezza inestimabile di significati che si può celare in una storia apparentemente semplice, saprà trarre il meglio dalle pagine che sfoglia.
Questa acclamata opera del tormentato Ernest Hemingway, può prendersi come emblema perfetto di questo concetto. Nella semplicità del suo stile, lo scrittore americano rende i suoi personaggi, come il vecchio Santiago, persone in carne ossa, gettate in uno scenario reso anch'esso reale e del quale viene messa in risalto la reale essenza e il ruolo che ha nella vita dell'uomo.
E così, dipinto nelle semplici parole scritte da Hemingway, il vecchio pescatore Santiago parte verso il largo in cerca della fortuna che gli è mancata per ben ottantatré giorni. Ormai è solo al mondo ed ha come unico affetto un ragazzino al quale ha insegnato a pescare, ma che è stato costretto dai propri genitori a lavorare per pescatori più "fortunati". Per questo motivo Santiago intraprende in solitaria questo suo viaggio, che si rivelerà la più grande avventura della sua vita.
Un pesce spada di enormi dimensioni abbocca al suo amo, e la lotta tra lui e il pescatore durerà per giorni, prima che quest'ultimo possa raggiungere la vittoria. Ma quella vita che il vecchio ha conquistato con il sangue, portando al limite lo sforzo a cui può sottoporre le sue membra e le sue ossa stanche, se la vedrà strappare dalle mani dalla natura stessa, con molta più facilità.
Non importa quanto il trionfo dell'uomo sia grande, esso non sarà mai assoluto, eppure, assoluta non sarà mai nemmeno la sconfitta. Quel che importa davvero è lo sforzo che si è fatto per affrontare il destino, le lotte, le battaglie. Sarà nella consapevolezza di aver lottato, di averlo fatto tenendo la testa alta e petto in fuori, che si troverà la vittoria nella sconfitta, e il perdente potrà considerarsi un vincitore. Forse questa consapevolezza può trovarla soltanto un vecchio come Santiago, nella sua saggezza, perché per un giovane è più facile considerare una sconfitta soltanto come tale, senza trarne alcun lato positivo. Ma per un vecchio che è saggio, una sconfitta che può distruggere può invece trasformarsi in una vittoria che ci dia l'occasione di ricominciare, o almeno, di continuare a lottare.
"[...] Soltanto non ho più fortuna. Ma chissà? Forse oggi. Ogni giorno è un nuovo giorno. È meglio quando si ha fortuna. Ma io preferisco essere a posto. Così quando viene sono pronto."
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Che narra del favoloso cavalier mancego
Penso che ogni commento che si soffermi sullo stile di quest'opera leggendaria sia sprecato. Cervantes, uno dei padri dello spagnolo moderno, ci ha regalato un'opera letteraria che assolutamente è tra le più alte della storia. Questi sono i libri che davvero accendono l'amore per la letteratura, che ti fanno entrare nel mondo e nelle storie che descrivono e che ti fanno piangere il cuore quando arriva l'ultima fatidica pagina. Ma è proprio nel momento in cui il cuore piange che esso spalanca le porte e fa' spazio a tante cose che vogliono entrarvi per non uscirne più. Così è stato per Don Chisciotte, e non potevo scegliere libro migliore per fare la mia centesima recensione su questo sito.
Proseguono nel loro cammino il valoroso Don Chisciotte, a cavallo del suo fidato Ronzinante, e l'altrettanto famoso suo scudiero Sancio Panza, su quell'asino tanto amato quanto malconcio.
Per il Cavaliere mancego non c'è avventura che sia abbastanza spaventosa o ardua, né pericolo che sia insuperabile, né donna più bella e virtuosa dell'amata Dulcinea del Toboso. Ogni angolo nasconde una nuova avventura; basta un semplice mulino a vento per dar vita a una storia che non sfiguri dall'essere raccontata nei salotti dei Re. In tanti vanno dicendo che egli sia pazzo, ma esiste forse un confine tangibile tra follia e sanità mentale? E non è folle anche la realtà in cui ci è dato vivere ogni giorno? Io dico, ben venga la follia benevola e divertente del buon hidalgo che si è fatto cavaliere, che prodiga sé stesso nell'intenzione di far del bene agli altri, che non la presunta sanità di chi si prodiga nel male.
E non è forse bello vedere Don Chisciotte e Sancio Panza, camminare fianco a fianco e prendere il meglio l'uno dell'altro, che avventura è anche migliorarsi prendendo il buono di chi l'affronta al nostro fianco? "Non con chi nasci, ma con chi pasci", queste sono le parole perfette per descrivere l'evoluzione di questi due erranti, partiti uno folle ma saggio, e l'altro sciocco ma "reale"; e tornati come fossero un'unica entità che racchiude tutte queste qualità prima divise in due individui differenti. Chi avrebbe immaginato, all'inizio della storia, un Sancio che diventi saggio, e un Don Chisciotte quasi consapevole della realtà? Gran parte della bellezza di quest'opera sta in questi due fantastici protagonisti, che l'Orlando e l'Amadigi hanno sol da essere invidiosi, tanto quanto Pegaso e Bucefalo debbono esserlo del buon Ronzinante.
Ho amato questa storia, davvero, ho riso tanto, ho riflettuto, sono stato triste quando tutto è finito. Evviva Cervantes, che ci ha regalato una leggenda, ed evviva i folli, se fossero tutti come Don Chisciotte della Mancia.
"Benedetti quei fortunati secoli cui mancó la spaventosa furia di questi indemoniati strumenti di artiglieria, al cui inventore io per me son convinto che il premio per la sua diabolica invenzione glielo stanno dando nell'inferno, perché con essa diede modo che un braccio infame e codardo tolga la vita un prode cavaliere, e che senza sapere né come né da dove, nel pieno vigore e dell'impeto che anima e accende i forti petti, arrivi una palla sbandata (sparata da chi forse fuggì, al bagliore di fuoco prodotto dalla maledetta macchina) e recida e dia fine in un istante ai sentimenti e alla vita d'uno che avrebbe meritato di averla per lunghi secoli."
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Umorismo Noir
Grossi, tosti e cattivi. Così sono i personaggi di questo noir anomalo di Joe R. Lansdale. Una storia torbida, puntellata dallo stile particolare dell'autore, che alla lordura degli eventi che presenta contrappone un umorismo quasi onnipresente e che probabilmente lo contraddistingue dagli altri autori di noir.
Un umorismo che si concentra nei due protagonisti, che sono anche i personaggi di punta dell'autore, una coppia tutt'altro che male assortita, Hap Collins e Leonard Pine. Se poi a questi due folli affianchi altri personaggi come Jim Bob Luke e Vanilla Ride, facendoli muovere in un contesto ben congeniato e abbastanza originale, ottieni un mix quasi esplosivo.
"... Poi qualcosa si allenta e comincia sferragliare, come il bullone di una giostra in un Luna Park. Questa storia parte nel momento in cui il bullone ha cominciato ad allentarsi".
Ed è proprio così che evolve la storia. Parte lenta, Hap e Leonard si ritrovano indagare su una ragazza scomparsa, e seppure possa sembrare un caso non troppo pericoloso, tutto inizia lentamente a complicarsi, a diventare più cupo e macabro, finché tutta la storia esplode e i personaggi vengono catapultati in qualcosa di oltremodo brutto e pericoloso. Ma i personaggi di Lansdale sono dei veri duri, e non ci sono sicari bifochi e violenti, uomini senza scrupoli o armi abbastanza potenti da infondergli più paura del necessario.
La seconda metà del libro procede con un ritmo incessante fino alla fine, anche quando il lettore si aspetta che le acque si calmino, come accade in quasi ogni romanzo. A voi il compito di scoprire essere così.
Lansdale ci racconta una storia macabra, sporca, pericolosa, volgare, dove buoni veri e propri non ce ne sono; forse soltanto la voce narrante di Hap Collins, e nemmeno lui, non del tutto. Tutto questo ci viene presentato alla maniera di Lansdale, particolare e interessante. Decisamente non adatto a lettori facilmente impressionabili o disturbati da un umorismo che fa della volgarità parte integrante di sé stesso, consigliato a tutti gli altri.
"È così che funziona l'amore. Finché va bene, è una magia continua. Ma quando le cose si mettono male, diventa peggio che se ti pisciassero nella minestra."
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Un'avventura degna di questo nome
Alla mia prima esperienza con Wilbur Smith, posso dire che ci troviamo al cospetto di un autore che merita la sua fama. Tralasciando il titolo del libro, che non ha molto a che vedere con la trama in sé, se non una vaga citazione all'inizio, mi sono ritrovato di fronte a un libro davvero bello e coinvolgente.
Lo stile di Wilbur Smith mi ha colpito. Leggero, scorrevole, accurato e piacevole. Ma la vera nota positiva che voglio mettere assolutamente in risalto è la egregia caratterizzazione dei personaggi. Non esistono personaggi inutili e, non vorrei esagerare, ma credo ce ne siano almeno sei degni di nota. Anche le comparse sono funzionali alla storia e davvero ben presentate. L'autore ha fatto un lavoro perfetto nel far muovere questi personaggi in una storia appassionante e varia, che sono loro stessi ad arricchire e rendere più interessante. Ci troveremo a navigare nei mari dell'Africa e ad attraversare alcune delle sue terre, inseguendo in lungo e in largo le frenetiche avventure di Courteney e dei suoi uomini.
C'è un po' di tutto ne "Il Leone d'oro". Assisteremo alla storia del comandante della nave Golden Bough, il comandante inglese Hal Courteney, valoroso combattente distintosi nelle battaglie tra musulmani e cristiani, alla difesa di reliquie sacre come il Graal e il Tabernacolo, e figlio di un altro grande comandante (e corsaro). Assisteremo all'amore che lo lega al generale Nazeth, valorosa e bellissima guerriera etiope, alla sua amicizia con il possente guerriero Aboli, ma soprattutto alla battaglia contro il suo peggior nemico: Angus Cochran, altrimenti detto l'Avvoltoio. Cochran, uomo che Courteney credeva di aver ucciso in battaglia, torna dal regno dei morti con il corpo ridotto a una carcassa bruciacchiata, ma animato dall'inesauribile desiderio di vendetta nei confronti di colui che l'ha ridotto a un vegetale. Coglierà al volo l'opportunità offertagli a Zanzibar dal sultano in persona, con il quale condivide l'odio per il comandante inglese, e che gli offrirà i mezzi per mettere a punto la sua tanto desiderata vendetta e privare il suo nemico di tutto quello che ha di caro a questo mondo: la sua nave, i suoi uomini, il suo oro, ma soprattutto la sua donna e il bambino che porta in grembo.
Popolato da uomini valorosi, da pirati, sultani, uomini senza scrupoli e vigliacchi, e animato da avventura, onore, amore, amicizia e vendetta, questo romanzo di Wilbur Smith mi ha piacevolmente sorpreso, e non posso fare altro che consigliarlo caldamente a tutti, soprattutto agli amanti dei romanzi d'avventura.
"Non sono gli schiavi a puzzare. Il tanfo è quello delle anime degli uomini che li riducono in schiavitù."
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