Opinione scritta da Mario Inisi
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Arte e Potere
“C’era un altro scienziato, suo coetaneo, di Galilei non meno perspicace.
Costui sapeva che la Terra gira,
ma aveva purtroppo famiglia.” Evtusenko
Il rumore del tempo indaga il difficile rapporto tra Arte e Potere. L’Arte, per sua natura, vorrebbe essere un unicorno libero da ogni asservimento, ma è chiaro che in certi regimi uno scrittore deve stare attento a come usa le parole e probabilmente gli sarà chiesto di partecipare alla propaganda e cose dl genere. Meno chiaro potrebbe il rapporto con il Potere quando l’Arte è la Musica, la cui lingua non è comprensibile a tutti. Eppure il Potere, soprattutto quando è arbitrio pretende di decidere che il bianco è nero riservandosi di cambiare idea. Del periodo di Stalin, delle delazioni, delle convocazioni nella grande casa già sappiamo tutto da Solgenitsin. Della difficoltà dell’artista a esprimersi e a trovare spazio ( il manicomio in cui stava il maestro) ci ha già parlato Bulgakov nel suo modo surreale, il più efficace quando la realtà diventa essa stessa surreale e impossibile. Il romanzo di Barnes racconta di un famoso musicista Dmitrij Sostakovic, diventato rappresentante di Mosca nel mondo, una persona intelligente che non amava il regime, non credeva nel regime ma che fu costretto a scendere a compromessi per vivere e per far vivere i suoi amici e famigliari perché cadere in disgrazia all’epoca non era un evento che coinvolgesse solo l’interessato. Perciò il testo è pervaso di malinconia, di senso di inutilità e di sconfitta, di quel sottile disprezzo per se stessi per i compromessi cui si è scesi, per le cose non dette, per gli amici che non si sono difesi. Ma è una discesa all’inferno perché man mano i compromessi richiesti aumentano fino a aderire (malvolentieri) sotto Chruscev, la pannocchia, al partito. Per non parlare delle dichiarazioni sottoscritte alcune delle quali tradiscono le proprie convinzioni e così via.
Interessanti le opinioni su artisti dell’epoca: Picasso che fa il rivoluzionario filo sovietico dalla poltrona di casa sua, Sartre il filosofo che offre soldi ai “convertiti”, e Nabokov (il compositore) che dall'America in cui risiede mette in difficoltà Sostakovic e cerca di fargli dichiarare quello che pensa pur sapendo cosa significhi parlare per chi sta ancora in URSS. E quell’oca di Prokof’ev di una ingenuità candida e ridicola, che mai comprese la portata della situazione, e nemmeno quello che doveva dire per far contento il Potere e che cercò sempre il compromesso.
Interessanti i mille volti del potere ambigui, accattivanti, ammiccanti, persuasivi.
Perciò il rumore del tempo non è una biografia, non è un romanzo in quanto non inventa nulla. E’ una indagine nell’animo di un uomo come tanti quanto a coraggio, non un eroe e nemmeno un cretino, un uomo che capiva la storia e le sue perversioni e storture ma non aveva la forza di affrontare la famosa pallottola nella nuca e di farla affrontare ai suoi cari. Un uomo forse debole ma non più di tanto, un uomo molto simile a noi. In più grande artista.
“Che cosa poteva contrapporre al rumore del tempo? Solo la musica che viene da dentro-la musica del nostro essere-che alcuni sanno trasformare in musica reale. E che se nei decenni a venire sarà abbastanza forte e pura e autentica da annegare il rumore del tempo, si trasformerà in mormorio della storia.
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C'è ancora un mondo là fuori?
Racconti bellissimi tra Buzzati e Oscar Wilde con un po' di Kafka. Non conoscevo l'autrice e non capisco come è possibile che mi sia sfuggita. In effetti non ho mai letto qualcosa di così bello nella narrativa contemporanea fantastica. I racconti stanno alla pari con quelli di Buzzati per bellezza, suggestioni, fascino.
I racconti, quattro sono in crescendo come bellezza. In ogni caso sono tutti estremamente suggestivi possono essere considerati metafore del rapporto tra arte e artista, un rapporto con luci e ombre di reciproca attrazione e seduzione, un rapporto in qualche modo antitetico a quello con la vita. Nel primo racconto la povera e innocente Eulalia è rapita alla sua vita già piena di incanto da una immagine. L'immagine la seduce e la trasforma da spettatrice in artista. Nel secondo racconto è ancora l'illusione dell'amore a rapire l'artista. Suggestiva e interessante l'immagine finale della statua senza occhi, che richiama la solitudine di ogni esistenza. Il gigante è forse il racconto più misterioso (completato dal racconto seguente che mostra le cose dal pdv del prigioniero, cioè del gigante).
Nel gigante il rapporto arte artista è intriso di tristezza, di nostalgia, di mura, di impossibilità di vita e di amore, di incapacità di vita e di amore come se bellezza e bontà o bellezza e anima potessero essere anche loro in qualche modo antitetici a dispetto di quanto pensavano i greci in proposito. L'ultimo racconto è la stessa storia del gigante narrata dal gigante stesso e in forma epistolare. All'inizio non mi andava di avere questo punto di vista, tanto mi era piaciuto il racconto precedente. E non mi piaceva il gigante visto da vicino. Invece poi ho cambiato completamente idea. Questo racconto inserisce una nota sadica nel rapporto arte artista e arte/artista spettatore, un rapporto sempre di seduzione reciproca ma anche simile a quello del ragno con la mosca, con la mosca che o viene mangiata o si trasforma a sua volta in ragno, come è successo al povero gigante. Questo racconto sprigiona un fascino incredibile, bellissima l'immagine della donna mosca vestita di nero con le sue ali bianche, e la confusione tra quella donna, la prima donna, e la suonatrice attuale del pianoforte. Bellissima pure la confusione mentale del gigante che alla fine confonde le due donne, confonde se stesso con il ragno e si sdraia e muore nella sua prigione di carta. Triste ma veramente molto, molto bello.
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La stranezza umana
Il romanzo ci racconta la storia di una coppia particolare, Thaddeus e Letitia. Hanno appena avuto una bambina, Letitia è una donna molto buona. In teoria i due dovrebbero essere felici ma Thaddeus non riesce ad amare le ragazze, si trova bene solo con le donne mature che riempiono quel vuoto causatogli dall’assoluta indifferenza con cui è stato trattato dai genitori nell’infanzia. Thaddeus riesce però miracolosamente ad amare sua figlia, cosa di cui non si sospettava capace. Dopo la morte di Letitia in un assurdo incidente Thaddeus deve pensare a come garantire una figura materna alla piccola.
Il romanzo è fatto di minime cose e la parte gialla del rapimento non è la cosa più interessante. Poteva anche non esserci, è un espediente per movimentare un romanzo molto riflessivo e tendenzialmente lento e introspettivo, molto malinconico che punta il riflettore su un personaggio strano e molto interessante, Thaddeus. Thaddeus è considerato un uomo venale che si è sposato per interesse ma venale non è, ha avuto una relazione con una donna molto più vecchia per cui si potrebbe pensare che cercasse da lei l'esperienza e invece non è un uomo molto passionale. Si affeziona alle donne anziane, un affetto lento, malinconico, asessuato, molto interessante. E' una persona ingenua, assolutamente carente di scaltrezza, sprovveduto, incapace di pensare male di chiunque. Al confronto i suoi due domestici sembrano dotati di intuito incredibile. Forse è proprio l'attenzione curiosa e maliziosa per la gente che gli manca.
In un certo senso la rapitrice gli somiglia: anche lei ha la maledizione di non avere avuto l’amore dei genitori e di sentirsi attirata dagli uomini maturi, passione che innescherà tutta la vicenda. Thaddeus è un bellissimo personaggio.
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Leggete gli altri
Anche in questo romanzo Yehoshua tenta incursioni nel mondo del cinema, genere surreale. Il tema sembra interessante ma purtroppo non fa per lui. Yehoshua dovrebbe parlare solo d'amore. I suoi libri Il divorzio tardivo e l'amante sono meravigliosi. Li ho letti molti anni fa ma credo che se li rileggessi li troverei belli anche adesso. I film surreali descritti a me sembrano soprattutto noiosi come noiosa è la storia e tirato per i capelli il finale. Non so, forse quello che voleva descrivere il romanzo è il rapporto sempre difficile tra arte e genio, ma mi pare che manchino entrambi.
Curioso il fatto che in uno di questi film surreali sia espressa l'idea che chi vuole essere aiutato deve a sua volta aiutare . Concetto surreale? Mi sa che a livello sociale non siamo messi bene se un'idea del genere è la base di un film surreale.
Le tracce dei film non stimolano la fantasia in nessun modo. A me sembra che l'autore ha poco da dire in questo momento, ma i libri che ha scritto in passato sono molto belli.
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L'incesto- romanzo pro-aborto
Il romanzo di Edna è molto, molto bello ma con alcuni limiti che stanno nell'incipit, nell’excipit e nell'intento troppo vistosamente didascalico, nel senso che il romanzo è una specie di crociata dell’autrice pro-aborto. Sull'argomento io ho idee diverse, ma questo non influenza il mio parere sul romanzo.
Edna gioca a carte scoperte. Fin dal primo capitolo, assistiamo alla violenza sulla ragazzina e sappiamo cosa ci aspetta. Sempre nei primi capitoli un’estremista cattolica convoca una riunione di donne cui mostra le terribili immagini di un aborto e della morte del piccolo. Dalla riunione si evince di cosa parlerà il romanzo. Di aborto, e di violenza sulle donne in particolare del caso peggiore cioè l’incesto, di cosa resta da fare alla ragazza vittima di quell’”improbabile” crimine ( così viene definito nella riunione): cioè buttarsi nel fiume, quello del titolo.
La caratteristica di tutte le donne cattoliche del romanzo è di essere intransigenti e senza cuore in modo esageratamente caricaturale. Questo disturba un po’ la lettura anche perché i personaggi della piccola Mary, del padre, dell’amica, del preside ecc… sono tratteggiati con straordinaria finezza e sensibilità. Persino il personaggio del padre è reso molto bene con luci e ombre e aspetti infantili e molto verosimili della personalità, come bello è il suo rapporto con gli amici e con le altre persone del luogo.
Date le premesse, non avevo grandi aspettative sul romanzo, lo stile mi piaceva poco. Invece ho cambiato molto presto idea perché la parte centrale, che costituisce la maggior parte della storia, è bellissima. Personaggi teneri, vivi, delicatezza di tratto nella loro descrizione, insomma qualcosa di veramente bello.
Ci sono pagine toccanti come la lettera di Mary, quella in cui lei dice che avrebbe preferito vivere in città perché lì almeno se urli qualcuno ti sente.
Nel finale purtroppo il libro si trasforma in una vicenda giudiziaria con lotta dei buoni per permettere alla piccola Mary di abortire. In questa parte folleggiano le integraliste cattoliche, poco verosimili, quelle che mi avevano disturbato anche all'inizio del romanzo.
Avrei preferito una conclusione in linea con le idee dell’autrice ma senza tribunali e senza quelle donne caricaturali. Invece è bello che ci siano quei personaggi come la madre di Tara, normalmente ottusi, che accusano la bambina di essere lei la causa dei suoi guai. Secondo me il finale guasta un bellissimo romanzo che comunque resta un’ottima lettura.
In un certo senso la soluzione scelta è un po’ riduttiva. Come pensare che Mary potrà mai vivere compresa da quei compaesani? Avrei preferito un finale aperto sul vuoto esistenziale di Mary, che non rassicurasse troppo sul suo destino. In fondo, a un certo punto uno dei personaggi lo dice chiaramente: qui tutti sapevano, ma nessuno ha fatto niente perché non sapere è molto più comodo.
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Quando la messinscena non paga
Alice Adams è un libro piacevole e ben scritto, che consiglio caldamente agli amanti dei film con Marylin Monroe, Catherine/Audrey Hepburn. In effetti Alice è stata impersonata proprio da Catherine Hepburn nel film Primo amore, sicuramente l’attrice meno adatta alla parte, io ci avrei visto perfetta Audrey. Alice è una ragazza bella, affascinante, brillante, forse non del tutto stupida e nemmeno cattiva ma modaiola, frivola, ambiziosa e arrampicatrice. Al sogno di riscatto sociale della ragazza e soprattutto della madre di lei viene sacrificata ogni cosa in famiglia, e soprattutto l’onestà e la salute del vecchio padre. La madre in effetti è un personaggio caricaturale nella sua egoistica stupidità, nella sua incapacità di preoccuparsi almeno per un secondo per gli altri, nella sua attenzione spasmodica alle apparenze e solo a quelle. L’idea inseguita è quella che i figli DEVONO avere tutto. Il loro diritto a essere felici diventa il principale dovere morale dei genitori. Devo dire che il libro è ben scritto, però i dialoghi con il loro cicaleccio e leschermaglie tra Alice e il suo presunto principe azzurro Russell stancano. Lo stesso vale per tutti i trucchi e gli artifici di Alice. Invece, il personaggio del vecchio Mr Lamb mi è piaciuto molto. Il finale poi è veramente bello, ha un tocco di genio e di poesia e riscatta il resto del romanzo che ha qualche limite più evidente a distanza di tempo. Questo libro vinse il Pulitzer ma ho letto che il capolavoro dell’autore è considerato l’altro romanzo, vincitore pure lui del Pulitzer: i magnifici Amberson (al momento introvabile).
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L'innocenza del colpevole
I personaggi rinchiusi nella prigione di stato di Falconer non sono certo degli stinchi di santo: un fratricida, uno strangolatore di vecchiette, e così via. All’inizio del romanzo un ingenuo vedendoli passare commenta che però sembrano brave persone e la guardia ribatte: “Prova a voltargli le spalle e chiunque di loro ti pianterà un coltello nella schiena.” E il narratore aggiunge: ma aveva ragione l’ingenuo.
L’incipit è favoloso, ci sono delle immagini bellissime, prima tra tutte quella del fratricida che osserva un uomo dare croste di pane a un uccellino. Poi il romanzo in un certo senso prosegue sull’idea del’innocenza di questi colpevoli descrivendo la vita e i rapporti umani nel carcere. Il racconto ha un tocco infantile, tra birichinate e dispetti e un rapporto quasi paritario con le guardie e clima da collegio. I personaggi fanno tutti un po’ tenerezza, per il loro bisogno d’affetto che si esprime come desiderio sessuale a pioggia, nel senso che è diretto verso donne, mogli, compagni di galera con una facilità di cambio di direzione e polarità che fa pensare a un estremo bisogno di calore umano. I rapporti e i dialoghi fanno pensare ai ragazzini non a gente così scafata. Così il ladro ruba l’orologio o la Bibbia al compagno con un trucchetto infantile, e la fuga dal carcere nell’aereo ha la leggerezza di una marachella e l’evasione finale (che richiama Il conte di Montecristo) ha tutta l’aria di una assoluzione morale.
Leggero ma efficace il richiamo ai problemi di relazione con i genitori (con la madre) che hanno prodotto il crimine, ma non il criminale. Nel romanzo sono descritti degli eterni ragazzini che meritano il finale catartico e liberatorio. Falconer è un romanzo tenero.
“A Farragut la parola madre evocava una donna che pompava benzina, faceva le riverenze alle assemblee e batteva colpi di martelletto su un leggio. Questo lo confondeva e lui dava la colpa della propria confusione alle belle arti e precisamente a Degas, che raffigurava la grande serenità materna. Il mondo continuava a premere perché lui facesse corrispondere sua madre, incendiaria famosa, snob, benzinaia e cacciatrice all’immagine di quella sconosciuta con i suoi fiori autunnali dal profumo amaro.”
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Il mio cerbiatto
Come parlare della morte in guerra del proprio figlio, una guerra assurda, una morte assurda, senza scrivere qualcosa di insopportabile, di troppo tragico, di troppo personale, senza far chiudere il libro al lettore o calarlo nella disperazione? Come scrivere qualcosa che non parli di morte ma in qualche modo renda vivo e presente quel figlio? David Grossman ci riesce a fare tutte queste cose, in un romanzo bellissimo, toccante, geniale, intenso. Un romanzo che non parla mai di morte, quasi mai, ma di ciò che c'è di più vivo nell'uomo: l'amore, l'amicizia, i sentimenti vissuti in modo assoluto, nella ricerca di limpidezza, di sacrificio per l'amico, nella generosità e nella preoccupazione per l'altro.
Perciò la morte è relegata all'ultima pagina, mezza pagina, come l'ultimo ostacolo, quello che non si può saltare da soli ma che richiede di tenere per mano l'amico per potercela fare.
Con quella mano magari chissà, anche la morte è un sonno provvisorio da cui c'è un risveglio, è una pausa come lo stato di Ilan (uno dei due amici) all'inizio del romanzo molto simile alla morte anche se non vera morte
Il romanzo ha un incipit e un excipit bellissimi.Racconta una storia d'amore, ma soprattutto d'amicizia, David fa sempre un po' di confusione tra le due cose. Due amici sono innamorati della stessa donna e anche il loro rapporto è un po' più che amicizia (vedi le braci di Marai) componendo così un triangolo equilatero perfetto. Per amor di simmetria la donna ha un figlio con entrambi gli amici. Il figlio di Avram, Ofer(il cerbiatto) è in guerra. Avram non ha mai voluto conoscere il figlio. Nel romanzo Orah, la madre di Ofer fa un viaggio con Avram e durante il viaggio racconta a Avram la sua vita e il figlio facendo entrare Ofer (e non solo) nel cuore del lettore. Il libro è bellissimo e anche ogni amico si innamora un po' dell'amico/a, i rapporti tra le persone sono profondi, i personaggi vivi. Anche la storia d'amore tra Avram e Orah è molto bella, anche troppo, a volte sembra così intensa che la presenza di Ilan, l'altro amico e marito di Orah, diventa incomprensibile. Credo che sia un artificio narrativo,la separazione forzata tra due persone che si attraggono tanto, per poter raccontare e tenere desta l'attenzione del lettore sia per la vicenda personale dei tre amici che dei loro figli. Forse alcune pagine sono di troppo, ma non è certo facile per un editor tagliare pagine anche superflue scritte così bene.
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La corsa
David propone una bellissima storia per ragazzi, molto cinematografica e piena di buone intenzioni, azioni e sentimenti ma non falsa, perchè lui credo che sia esattamente una persona così: piena di buone intenzioni, azioni e sentimenti. Per caso ho portato avanti la lettura in parallelo di due suoi romanzi. questo e Al cerbiatto somiglia il mio amore e il confronto è inevitabile. L'altro romanzo è un capolavoro, una cosa incredibile che lui è riuscito a scrivere quasi con il suo stesso sangue e che contiene colpi di genio e invenzioni anche di scrittura (l'incipit ad esempio). Qualcuno con cui correre è ugualmente un bel romanzo ma più semplice, lineare, pulito, come un bel film che procede in modo spesso abbastanza prevedibile. In ogni caso il bello del libro è il fatto che parli di amicizia, amore, solidarietà riempiendo queste parole di altruismo e di significato. Per i ragazzi adolescenti mi sembra una lettura perfetta (e non solo peri ragazzi). Se però volete leggere un capolavoro, io consiglio il cerbiatto. Il messaggio di Qualcuno con cui correre è bellissimo: non importa quanto grande sia il problema e alta l'asticella dell'ostacolo, con un amico al tuo fianco anche l'impossibile diventa raggiungibile. Anche se si parla e si allude all'amore tra i due ragazzinini è sempre l'amicizia che domina tutte le pagine. I protagonisti positivi sono tutti amici e si butterebbero nel fuoco per un amico. Quindi nel romanzo si parla dell'importanza di trovare qualcuno con cui correre. Di trovare un amico vero.
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Idealismo e cinismo
In questo romanzo Turgenev affronta e combatte le nuove idee che si stavano affacciando nello scenario della sua epoca e che mettevano in discussione tutta la società, il suo assetto e i suoi valori economici, politici e morali . Anche se il titolo fa pensare a una contrapposizione generazionale, in realtà a contrapporsi nella storia sono soprattutto due persone che apparentemente stanno dalla stessa parte, due amici: Arkadij, cuore puro, poeta, romantico e idealista e il suo amico Bazarov che si autodefinisce nichilista. Negare i valori, i pilastri e le istituzioni della società non è difficile.Come noto, criticare e trovare difetti è ben più facile che costruire. Non per niente i vecchi, padre e zio di Arkadij ad esempio, bravissime persone, hanno ben evidenti lacune nelle loro vite imperfette. Lo zio è innamorato della compagna del padre di Arkadij. E il padre di Arkadij non ha sposato la ragazza perchè inferiore a lui e inoltre ne ha fatto la compagna alla morte della madre di lei, in un momento in cui la poveretta aveva ben poca scelta.
Bazarov non ha torto a guardarsi intorno con cinismo, a non aspettarsi niente da nessuno, a vedere il marcio in ogni cosa, dato che effettivamente c'è in ogni cosa. Solo che vivere da cinici non vale la pena. Solo l'amore, qualsiasi amore (anche senza l'aggettivo romantico attaccato che è un po' troppo limitativo) giustifica un'esistenza.
In ogni caso, nel romanzo, Turgenev ridimensiona la questione e contrappone l'amore romantico al nichilismo operando una semplificazione eccessiva e forse non del tutto corretta. Dal punto di vista dell'ampiezza del pensiero preferisco i romanzi del grande Dostoevskij.
Turgenev per dimostrare la giustezza del proprio sentire fa innamorare il povero nichilista di una cinica peggio di lui e ... gli dà quello che si merita per fargli scontare le sue idee e redimerlo. I cuori puri come nelle migliori favole avranno l'amore romantico che meritano al costo contenuto di chiudere un occhio sulla posizione sociale dell'amata. Insomma, una bazzecola. Perciò la scelta tra le nuove idee e le vecchie diventa la scelta scontata tra cinismo e amore romantico, scelta che porta le vecchie idee dei padri a una facile vittoria e che richiede un sacrificio minimo.
Devo dire che la mia copia Bur del romanzo andrebbe rinfrescata nella traduzione. Ci sono ancora delle parole: costì, pugna, lindura, uomo giubilato o delle costruzioni della frase che guastano il romanzo. A me il linguaggio ha dato fastidio per molte pagine. E' un peccato, basterebbe affidarlo a uno scrittore/traduttore per i ritocchi.
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Tra irrequietezza e nevrosi
Il romanzo esplora le esistenze di giovani coppie scavando nelle loro debolezze, fragilità, ansie, insicurezze e mettendo a nudo il fragile confine tra patologia e normalità. Là dove le esistenze hanno subito ferite profonde, il marcio viene fuori, il riscatto è un'illusione provvisoria, nata dal desiderio di simulare una tranquillità, una serenità impossibile. Il romanzo inizia con lo spettacolo teatrale mal riuscito e finisce con lo spettacolo malriuscito di quelle esistenze apparentemente perfette che altro non sono che esibizione e recita. L'esistenza di qualsiasi persona che nella sua vita ha accumulato profonde e incolmabili carenze affettive riflette la stessa incapacità d'amare di cui è stata vittima. Un romanzo impietoso scritto da una persona con evidenti difficoltà nei rapporti umani, che immagino facilmente nei panni di John, il matto- saggio, una specie di Cassandra moderna, una voce impietosamente sincera. La voce di un pazzo, persona dunque incapace d'amore, che non ha problemi a ferire il prossimo. Purtroppo l'incapacità d'amore sembra un male sociale.
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La paura
I pescatori, finalista al Man Booker Prize è un romanzo insolito per lo stile scarno, semplice, evocativo che richiama culture tribali e lontane dalla nostra, con un tocco esotico e magico vicino alla fiaba ma non proprio fiaba.
In passato mi è capitato di chiacchierare con seminaristi africani e di ascoltare storie in cui loro credevano ciecamente, di uomini politici locali che si trasformavano in pitoni e mangiavano esseri umani per aumentare il proprio potere. Questo romanzo ha lo stesso clima di quelle storie, infatti le due anime del romanzo sono la famiglia, unita e potente nell’amore, e nello stretto legame tra i suoi componenti e la maledizione che ha come suo esecutore un personaggio particolare: Abulu, doppiamente matto, matto in senso letterale ma non pericoloso e matto in senso di posseduto dal demonio e in quanto tale terribile.
La storia inizia con la partenza di Padre che sgretola l’unione famigliare permettendo alla maledizione di Abulu di infilarsi nelle maglie di quella famiglia perfetta e di attecchire nonostante l’amore che vi regna portando i suoi frutti di male. La figura di Abulu, il leviatano, la balena immortale è bella e tragica. Mi ha colpito il punto del romanzo in cui lui partecipa alla cerimonia per i due fratelli e piange per loro come se potesse vedere, solo in quel momento, il male che ha fatto. Io ho visto in questa scena la preparazione a quella successiva dell’aggressione con gli ami che altrimenti sarebbe inspiegabile. Certo, considerando la storia e il cambiamento nel modo di pensare dei personaggi, la maledizione ha attecchito in quella famiglia, legittimando odio e vendetta come strumenti necessari di difesa. Le parti si rovesciano sul finale in un certo senso e il volo salvifico e liberatorio degli aironi, i due fratelli piccoli è forse meno interessante della fine tragica di Abulu, che sa tutto, che è immortale, inattaccabile dal veleno, che ha reagito all’attacco di Padre prevedendolo ma non ha evitato la propria tremenda fine. La più terribile e improbabile tra quelle immaginabili.. Non ha voluto secondo me.
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Tra pensiero e desiderio
Singer anche in questo romanzo ci descrive personaggi indimenticabili. Al solito alcuni di loro hanno una voracità di vita che li rende particolarmente interessanti. La voracità è in molti casi unita a intelligenza e senso morale, ragion per cui i personaggi vanno incontro a contraddizioni e crisi di coscienza. Grein ad esempio supera il solito triangolo amoroso e si cimenta in un quadrato: ama in modo diverso la moglie Leah, l’amante anziana Esther e un nuovo amore Anna. Ogni donna ha per lui un diverso ruolo: moglie fedele, amore sensuale, amore romantico/sensuale. In un certo senso la necessità della scelta fa crollare le cose. Leah si ammala e lo lascia, Esther sposa un altro, e così via.
Ogni volta che Grein si ritrova solo con una delle tre la relazione si abbruttisce e smette di funzionare. Un personaggio simile a Grein ma senza scrupoli e senso morale è il primo marito di Anna l’affascinante attore Yasha. Ma è interessante anche il bravo medico Margolin che riprende con sé la moglie infedele. Infedele con la lettera maiuscola perché in Germania, sotto Hitler, l’ha tradito per sposare un nazista e mandare la loro figlia in una scuola che educava all’antisemitismo. Lui stesso si è salvato dai campi per un soffio. Il perdono è vissuto da lui come una grave colpa verso la sua razza.
In tutto il romanzo si percepisce il duplice magnetismo del mondo e dello spirito. Ma anche la ribellione a Dio. Un ribellione subito placata, non una rivolta totale, che però cela la domanda: come è potuto succedere tutto questo. E la riflessione amara: se il mondo ha ragione, cioè se deve prevalere il mondo allora bisogna dire tutti Heil Hitler. Ma se il mondo non ha ragione, perché Dio ha taciuto, perché ha lasciato all’uomo il libero arbitrio.
Dice Grein a un suo amico sopravvissuto ai campi: “ Ti sto parlando con franchezza Morris. Non parlo mai con nessuno di me stesso: a che cosa serve? Ma di te posso fidarmi. Forse perché a Vienna parlavamo sempre liberamente. Ho una casa piena di libri, ma non ho niente da leggere. Non sopporto la letteratura. Alla mia età i romanzi non mi interessano, neanche dovesse comparire un secondo Tolstoj. La filosofia mi disgusta. La storia arriva sempre alla stessa conclusione: che gli esseri umani sono criminali. Dio sa se l’hai imparato di persona. Quindi non c’è niente che io possa leggere. Ho sempre creduto che le scienze esatte- la fisica, la chimica- fossero interessanti. Ma sono anche noiose. Di recente ho letto tutto quello che ho potuto procurarmi sull’atomo ma è vero quello che dicono. La noia comincia dall’atomo. Che cosa può essere più terrorizzante di un pezzo di materia che non riposa mai? Passano milioni di anni, e gli elettroni continuano a girare intorno ai protoni. Secondo il vecchio modo in cui concepivamo l’atomo, se non altro riposava. Il nuovo atomo che ci è stato rivelato, invece, continua a sbattersi come una cosa folle, a torcersi, a rivoltarsi senza fermarsi mai. Forse è il massimo simbolo dell’uomo, oggi. Comunque, la cosa più fastidiosa è che non riesco a credere a niente di tutto ciò. La scienza moderna diventa di continuo sempre più simile alla finzione narrativa. Prendi la teoria dei quanti. Non la capisco e ho paura che non ci sia niente da capire. E’ sempre la solita assenza di forma, il solito vuoto, ma senza un Dio, senza uno spirito che si muova sopra la superficie del profondo. E tu, Morris? Hai una filosofia?”
In ogni caso, nonostante l’attrazione per le donne, per i piaceri del mondo Singer ha sempre un senso di pessimismo nei confronti del mondo: il destino di chi insegue la materia è sempre l’infelicità. La sazietà e poi la nausea, quindi l’infelicità. Perciò, nonostante i dubbi che nutre su Dio, in ogni caso sente la necessità di rivolgersi allo spirito e di liberarsi della materia che sente in definitiva come zavorra della propria natura superiore e spirituale. La materia, i desideri inducono alla meschinità, all’egoismo e portano ai campi di sterminio. L’unico personaggio contento è proprio l’unico che non ne avrebbe motivo. Morris, l’amico di Grein, ha una moglie orrenda: brutta fuori e insopportabile. Però è contento. Il frigo è pieno e anche se deve andare alle riunioni dei comunisti o a vedere film di gangster, mette i tappi alle orecchie, chiude gli occhi e non c’è nessuno che lo vuole uccidere. Che puoi volere di più dalla vita?
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Storie gotiche
Ultime storie e altre storie è una raccolta di racconti scritta da Vollmann, vincitore del NBA con un’altra serie di racconti Europe Central. La raccolta inizia con una specie di prologo filosofico, bellissimo e con due racconti completamente diversi da tutti gli altri, ambientati in Iugoslavia dove Vollmann è andato come giornalista durante il conflitto. Questi primi due racconti sono eccezionali. La vicinanza tra vita è morte è resa in modo molto interessante e originale e lui stesso compare come personaggio nel secondo nei panni dell'americano, giornalista non per soldi, e con pochi soldi , diverso dagli altri perchè lì per scelta. Forse in cerca di quella deformazione dell'esistenza causata dalla vicinanza stretta con la morte che può far sentire la vita anche a chi "non riesce a sentirla più" nella quotidianità asettica dell'esistente. La presenza della morte (cecchini, granate, acc..) rende infatti più brillante la vita sotto ogni aspetto: la festa, la quotidianità, l’amore. E’ come se l’angolo di visuale delle cose si fosse spostato, sia da un punto di vista mentale che di scopo delle cose. Come se il piacere del gesto di tutti i giorni potesse raggiungere di nuovo il cervello esaltato nella sua intensità. Il punto di vista nuovo riscopre la realtà, riempiendola di valori e significati nascosti. Questi racconti che partono dal reale, magari trapassandolo, magari sconfinando poi da questo mondo nell’altro con la morte di alcuni dei protagonisti, sono bellissimi. In un certo senso a me hanno tolto il piacere degli altri, in quanto avrei voluto leggere solo cose simili . Invece poi tutti gli altri racconti sono di altro genere, cioè di un fantasy gotico, con vampiri, spose cadavere, statue che parlano, vivono, si accoppiano, troll, zombie, cadaveri in decomposizione e non, teste parlanti, diavoli, Madonnine, preti, streghe. Il clima è medioevale, da roghi, caccia alle streghe e inquisizione, con il prete inquisitore che è un personaggio losco e demoniaco, mentre la madonnina non ha nulla a che fare con la religione ma è la donnina buona e dal cuore puro, piena di bontà e sorrisi. E’ un tipo di racconto che rispetto ad altri fantasy o ad altra letteratura gotica si distingue per la perfezione stilistica. Ricorda vagamente Murakami, credo che potrebbe piacere ai lettori di Murakami. Per parlare con sincerità, mi è dispiaciuto che il libro sia toccato a me, in quanto non riesco ad apprezzare né Murakami né questo tipo di storia. I cadaveri e le teste mozzate non mi invogliano alla lettura, anzi... Ma credo che sia un mio limite, perciò consiglio i racconti a tutti quelli a cui piace il genere fantasy-gotico e agli appassionati di Murakami. E’ una lettura fantasiosa ma colta, un po’ mortifera, non esageratamente macabra e con molto stile, sempre piuttosto elegante e raffinata.
p.s. C'è una cosa che non mi spiego in questa raccolta. Il libro è di più di 700 pagine, quindi molto corposo. I primi due racconti sono completamente diversi da tutti gli altri e molto, molto belli. Non capisco perchè l'autore non abbia pubblicato tutti i gotici da soli riservandosi di scrivere una raccolta a sè stante di racconti sulla Iugoslavia magari mettendo insieme altro materiale. Secondo me è un peccato.
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Rapporto padre figlio
Matteo stavolta ci propone una storia molto diversa da Cate io, sia come tipo di trama che come stile. La scrittura è più brusca e ironica e il romanzo è di formazione, di tipo socratico. In un certo senso credo che il romanzo attinga all'esperienza di insegnante di Matteo e al suo rapporto con gli alunni che, si immagina, deve essere tenero e di profondo rispetto. La storia è adatta per i ragazzi delle medie/superiori oltre che per i loro insegnanti e genitori e fa riflettere sul rapporto genitori figli, sul fatto che i genitori non sono perfetti e volte sono più che imperfetti pur senza essere cattivi, cioè volontariamente cattivi. In particolare, Gordon il protagonista undicenne, ha un rapporto con il padre particolarmente difficile anche se parlare di rapporto è già una definizione ottimistica, in quanto ciò che lo caratterizza è proprio l'assenta totale di un qualsiasi dialogo. Interviene a spezzare questa drammatica situazione famigliare una rapina con ratto del minore e fuga con McCBoom, uomo che si trova in mezzo alla rapina e interviene per salvare il ragazzino prima dai rapinatori e poi dalla sua stessa famiglia. Importante nel romanzo è la figura di educatore di McCboom. Il rapporto tra Cboom e Gordon diventa di affetto profondo per cui, come in tutti i rapporti di vero affetto, la crescita e l'arricchimento sono reciproci. Triste la conclusione ma anche bella.Lo stile del romanzo cambia sul finale, si fa più lirico e poetico mentre nella prima parte è più caustico e brusco.
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L'isola e la gelosia
Bellissimo questo romanzo, Elsa riesce a scrivere storie in cui gli elementi della realtà sono trasfigurati in una dimensione semi-onirica e semi-fantastica che dà alla narrazione un tocco magico e avventuroso. L'isola di Procida all'inizio del romanzo sembra un'isola deserta, dove un ragazzino Artù, aspetta il padre che non arriva mai tra corse, mare, cielo, sogni. Non ha una madre (morta di parto), e si sente uomo, pensa di non avere affatto bisogno degli altri, tutti a lui inferiori, perchè non sono dei Gerace. Un giorno il padre gli porta una matrigna-bambina sua coetanea, dolcissima che vorrebbe farsi chiamare da lui mamma, coccolarlo. La ragazzina immagina che ARturo avrebbe potuto crescere badato da lei nella sua casa di Napoli, una casa mitica, affollatissima, un posto magico come l'isola ma tutto l'opposto dell'isola di ARturo. La casa di Napoli è abitata da una infinità di bambini, che dormono tutti su un letto comodissimo a due piazze (tutti sullo stesso) che da come lo descrive non sembra nemmeno un letto ma una nave per quanta gente ci può dormire sopra. La matrigna ben presto rimane incinta e arriva il fratellastro: un bambino perfetto. Questo bambino fa crollare tutto l'equilibrio di Arturo che si accorge improvvisamente di essere cresciuto senza madre e senza baci, ignorato da tutti. La mancanza di affetto della sua vita che prima la rendeva eroica ora gli appare insopportabile. Bellissima la scena in cui Arturo vuole uccidere il fratellino ma poi finisce per fargli il solletico e giocarci o in cui immagina tutto il mondo scambiarsi baci: le barche che si toccano, le nuvole in cielo e così via e lui, solo lui non ha mai avuto un bacio di mamma. Il romanzo evolve verso la perdita dell'innocenza nel rapporto con la matrigna, che lo porta a dare un nome e un divieto ai sentimenti che li legano.
I personaggi sono belli perchè innocenti. Hanno una purezza, una bellezza straordinaria che probabilmente viene dall'autrice, non solo i ragazzini ma anche il padre di Arturo. E la malizia del mondo, per esempio di Assuntina o dell'ergastolano sembra una malizia buffa e un po' infantile.
Un romanzo bellissimo, veramente magico. Anche la conclusione è perfetta.
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LIna
Il quarto volume della tetralogia è molto bello, forse anche più bello degli altri a parte alcune pagine centrali che secondo me andavano tolte o riassunte in cui Elena parla della sua carriera di scrittrice: andavano tolte perché il romanzo è in 1° e non in 3° per cui il fatto che Elena Ferrante parli troppo dei successi di Elena Greco rende entrambe antipatiche al lettore.
A parte queste pagine il resto del romanzo (cioè quasi tutto) è particolarmente riuscito. Mi piace il fatto che ci siano situazioni che aprono alla fantasia e a una visione surreale delle cose come la conclusione, la sparizione di Lina e di sua figlia Tina.
Il romanzo sembra contenere una autoanalisi sincera in alcune pagine particolarmente toccanti. La relazione tra le amiche si chiarisce rispetto agli altri volumi.
La maggior parte delle relazioni descritte nel romanzo, tutte quelle con Lina e con Nino, sono chiaramente relazioni narcisistiche, caratterizzate dal reciproco rispecchiamento e spesso dalla perdita di identità di una delle parti. Essendo relazioni narcisistiche hanno una forte carica distruttiva che si manifesta nelle conseguenze della relazione: Alfonso perde la sua identità sessuale, Nino vede la sua eterosessualità vacillare e per compensare deve costringersi a una attività seduttiva senza distinzione di oggetto (significativa la scena del rapporto con la vecchia), Michele Solara idem come Alfonso, e Elena stessa soffre il peso schiacciante del giudizio dell’amica su ogni cosa che fa.
Ciò nonostante, Lina è il bene e il male, è il fulcro del romanzo, ogni cosa ruota attorno a lei, è così centrale che diventa la chiave di interpretazione di ogni personaggio, della società e della visione del mondo di Elena, contraddittoria e per questo interessante.
Il romanzo è una dichiarazione d’amore/affetto a Lina, l’unica donna, rispetto alla quale tutte le altre sono sbiadite persone usa e getta.
Il romanzo si affaccia sul mondo della mala dei fratelli Solara e delle BR mostrando come nessuno possa dirsi estraneo a questi due mondi. Le BR e la mentalità della lotta hanno affascinato tutta una generazione di intellettuali e la mala ha rapporti così personali con la gente del rione che è difficile riconoscerne la natura maligna. Il lettore stesso ha simpatia in vari punti della storia per Michele Solara. In un certo senso Elena guida il lettore a una diversa morale, a una visione del mondo amorale, cioè libera da regole morali. Ognuno lotta per emergere in piena libertà e il limite alla libertà propria è dato dalla libertà altrui per cui i Solara finiscono ammazzati, Pasquale va in prigione, Nino ha il premio/castigo delle sue mille donne (tutte meno Lila, l’unica che per lui conti qualcosa), Elena ha il successo, gli uomini si cambiano e si alternano e se la figlia quindicenne vuole portarsi in casa un convivente ventenne, peggio per lei. Se la vedrà con il tempo. Tutto questo scenario, questa nuova morale inseguita per quattro volumi e di cui Elena sembra seguace però le crea anche un certo disgusto per cui il romanzo è contraddittorio.
Elena arriva a dire che quello che le piace di Lila è il fatto che non sia schiava proprio di questa visione del mondo, che abbia sprecato in piena libertà il suo talento, che sia stata generosa con gli amici, disinteressata, altruista. Che non abbia cercato il successo a ogni costo.
Perciò, a un mondo basato sull’autoaffermazione egoistica, Elena affianca l’esigenza di generosità e la nostalgia per un mondo in cui ci sia solidarietà e amore disinteressato. Ma come tutti, non vuole essere lei l’idiota (in senso Dostoevskijano) a rimetterci per prima con la storia dell’amore disinteressato, essendo il mondo indiscutibilmente un inferno popolato da piranha.
La conclusione sembra una dichiarazione d’affetto e di perdono e un riavvicinamento oltre le apparenze del visibile, quindi per l'eternità, tra le amiche.
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Ragioni dell'anonimato e anni 70
Il terzo volume dell’amica geniale è molto diverso dai primi due e capisco che a qualcuno possa non piacere. A me il cambiamento però sembra positivo. La vicenda delle amiche passa in secondo piano e fa da sfondo a una descrizione/analisi sociologica degli anni 70 con tutto il marasma che essi contengono: nascita del sindacato, Br, lotta continua e così via. Secondo me è proprio questo l’aspetto interessante del volume.
Nelle prime pagine Elena immagina di avere pubblicato un primo romanzo con il nome sulla copertina. Da tutte le seccature che ne conseguono per una donna che abita in un rione, l’equivalente di un piccolo paese, capiamo le ragioni dell’anonimato. Scrivere con il nome è come girare nudi per strada facendo finta di niente.
A parte questo, la prima parte del romanzo è la più bella, e Lila fa da protagonista con il suo lavoro nel salumificio, pretesto per descrivere le condizioni di lavoro degli operai, in particolare delle donne, la nascita del sindacato.
Leggere queste pagine in questi anni in cui siamo al capezzale dei sindacati fa uno strano effetto. Certo l’impoverimento e la perdita dei privilegi ottenuti in passato è evidente come è ancora più triste il fatto che ora il lavoratore non ha più possibilità di puntare i piedi ma deve sacrificarsi per far campare la fabbrica. Nel romanzo c’è un diverso fermento, e la condizione operaia è terribile ma contiene delle possibilità di miglioramento. Le pagine che parlano di Lila sono le migliori come se Elena riuscisse a sentire la vita e le cose soprattutto attraverso la pelle dell’amica. Nello strano rapporto comunque c’è una componente di affetto che è evidente dal calore e dalla partecipazione di queste pagine. Poi Elena si ritrova moglie di Airota, un intellettuale con idee non così innovative e coraggiose. Airota pur nella sua mentalità laica e sinistroide ha dei valori come la famiglia, il rispetto, la lealtà, una diffidenza verso la violenza che gli vengono rimproverate da moglie e colleghi, come se fosse un residuo poco ripulito della vecchia mentalità DC. A me Pietro piace, e anche sua madre Adele e sua sorella, li trovo onesti.
Invece interessante e terribile è la mentalità degli ambienti intellettuali del tempo: la vicinanza con la mentalità delle br, l’idea che l’intellettuale coraggioso debba spingersi oltre ogni limite, e terribile è soprattutto il fatto che dietro queste discussioni e ideologie non c’è quasi mai l’uomo o un senso di solidarietà ma una potente volontà di autoaffermazione. In un certo senso il mondo degli intellettuali fa rimpiangere i Solara. Michele Solara fa per mentalità mafiosa, alla luce del sole, quello che gli altri fanno sotto il mantello “etico” dell’ideologia. Ma che differenza c’è? In un certo senso è come se all’uomo fosse impossibile uscire dal rione perché c’è sempre un altro rione.
E’ bello il modo affettuoso con cui sono descritti tutti gli amici del rione nei loro simpatici difetti, nel loro dire le cose che pensano schiettamente. E’ come se a Elena pesasse il mondo degli intellettuali e rimpiangesse l’immediatezza, la franchezza dell’altro mondo pur nella sua grettezza e nelle sue passioni a volte meschine e mal mascherate. E’ la simpatia che fa il bambino rispetto all’adulto.
Curioso il secondo romanzo di Elena sulla donna creata dai maschi. Immaginando Elena Ferrante uomo, mi pare che se la rida sotto i baffi. In ogni caso la donna come la presenta Elena, la donna emancipata e liberata assomiglia pure a un uomo. E se Elena condanna la donna dell’immaginario di un Airota, tutta casa, marito e figli, anche la donna dell’immaginario Ferrante ha qualcosa che non va e assomiglia alla donna dell’immaginario della nostra società che trova spazio solo se ha pretese da uomo per carriera e ambizione, se è più cattiva di un uomo, se è disposta a sacrificare tempo, affetti, famiglia, figli alla carriera. Oggi, la donna che vuole fare figli dopo anni di lotte sindacali ancora non fa carriera se è nel pubblico e viene licenziata se è nel privato, nonostante la società sia a rischio di implosione per il calo demografico: uno strano caso di schizofrenia sociale. Nella parte finale mi pare che Elena non abbia troppa simpatia per il suo personaggio. Non c’è molta simpatia quando si descrive, mentre c’è quando descrive Lila che è sempre a colori. Pur arrivando davanti all’amica sempre e in tutto, mi pare che la guardi con rimpianto oltre che con diffidenza. Secondo me rimpiange un diverso tipo di rapporto che non è riuscita a impostare con lei, che non contenesse tante paure e rivalità.
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Tira quel sassolino, Horacio, ce la puoi fare!
Rayuela è un romanzo bellissimo e sconcertante. Si procede nella lettura senza scivolare nella storia ma saltellandoci dentro con una gamba sola. In un certo senso è una Divina Commedia moderna e laica, un romanzo escatologico che parla dell’al di là eliminando però ogni idea di pena, di colpa, di punizione, di giudizio. Resta la scelta. Per il gioco del mondo occorre un sassolino e la punta di una scarpa, e lo scopo è arrivare dalla terra al cielo. Ma da bambini in genere non si dosa bene il calcio e si spinge il sassolino fuori dalla casella, e da grandi ci si scorda lo scopo del gioco, perciò capita che si crei un altro cielo, più accessibile del cielo vero, che assomiglia a un paradiso dei desideri, un kibbutz del desiderio dove si vive in libertà parlando di arte e di filosofia e in cui vige il libero amore, nel senso che il desiderio non ha una precisa orientazione affettiva. In questo luogo metafisico, chiamato dall’autore Dall’altra parte, Horacio Oliveira, un personaggio bellissimo, cinico, intelligente, amorale, affascinante tira a campare con gli amici del club del Serpente tra discussioni e riflessioni, caffè e mate. Divide il suo tempo tra due compagne, Lucia la Maga e Pola. La Maga, innamorata di Horacio, ha un bambino Rocamandour, che Horacio digerisce con difficoltà e anche lei ha un innamorato non ricambiato, Ossip. La storia evolve verso una scelta di Horacio (tra amore e desiderio, scelta metafisica) per cui lui lascia la Maga per poi rimpiangere la decisione presa. La Maga rappresenta l’amore e la sua presenza è incompatibile con le idee di Horacio, con il club del Serpente, con lo spirito del Kibbutz. Ci sono diversi riferimenti alla natura del luogo: il nome del club, l’Oscuro…. Per cui si può pensare in una delle chiavi di lettura che il paradiso dei filosofi sia l’inferno cristiano o qualcosa di simile. Le fiamme dell’inferno sono sostituite dalle fiamme del desiderio separato dall’amore, e dalle fiamme della nostalgia che non lascia mai Horacio: nostalgia della patria, l’Argentina (tic toc), nostalgia della Maga, nostalgia forse persino di Rocamandur, nostalgia del vero cielo anche se Horacio non pensa di meritare il vero cielo. Si intuisce che la nostalgia attuale di Horacio è niente, un assaggio della nostalgia vera perché il gioco non è finito, le porte della prigione non si sono chiuse, e lui può ancora rovesciare le cose, tirare il sassolino e ritrovarsi da un’altra parte. E infatti dopo un enigmatico colloquio con Ossip, l’amico-rivale, dopo la sparizione della Maga, troviamo Horacio da questa parte (cioè in argentina), dove va a vivere con Geprektel. Una donna Talita, molto simile alla maga ma non la Maga, e il suo vecchio amico Trevaller, lo accolgono con poco entusiasmo. Trevaller, bisogna dire che ricorda un pochino Ossip. Si ripropone tra Travaller e Horacio la rivalità che ricorda quella che c’era con Ossip, e bellissima è la scena del ponte di tavole di legno traballanti tra i due appartamenti di Trevaller e di Horacio in cui Talita si arrampica fermandosi a metà a suo rischio, rischio di cui tutti, lei compresa, se ne fregano. Un ponte simbolico tra i due amici in cui sembrerebbe che Talita debba scegliere tra i due. In realtà non si tratta di scelta e di amore, come sembrerebbe ma di altro (potere? Qualcosa di metafisico, forse). In realtà il vero ponte è simbolico e ci deve salire Horacio e è un ponte puntellato da Talita che porta da un’altra parte e che forse, lo riporterà dalla Maga. Horacio nei suoi momenti di lucidità intuisce che il kibbutz del desiderio è una gabbia, solo più grande rispetto alla famiglia. Il finale, bellissimo è aperto con Horacio che forse giocherà (io penso di sì), forse cadrà dalla finestra, con Talita che forse cadrà nel fiume, la Maga che forse è annegata. Tutto dipende dalla tenuta del ponte, dalla decisione di Horacio che deve salire sul ponte e decidersi a giocare. Tutti i personaggi, dalla Maga a Talita a Ossip a Trevaller sono specchi per Horacio, riflettono la sua immagine ma mettendoci un po’ di calore, la riflettono com’è per cui Horacio si può fidare di quello che vede dato che non può guardarsi direttamente. Trevaller a un certo punto sembra l’alter ego di Horacio. In realtà è una persona diversa, buona, che ha fatto scelte metafisiche diverse e serve proprio per la sua somiglianza a Horacio a reggere il ponte e a mostrare una possibilità. Il romanzo rimanda a una terza parte non scritta, al cielo più in alto.
Il nome Horacio contiene la radice del verbo orao vedere e infatti sembra preveggente ma non chiaroveggente. Infatti sa le cose prima ma non è sapiente, non vede dentro le cose capendole interamente, ha bisogno di una guida con una torcia (Lucia, Talita). All'opposto Lucia con le sue candele verdi è chiaroveggente ma non preveggente e nemmeno sapiente, solo saggia perchè ha il suo centro nel cuore.
La terza parte scritta è invece una raccolta di brani secondo me scartati dall’autore per le prime due parti, ma sempre interessanti, che chiariscono alcune situazioni e personaggi. Però non è una terza parte vera. In fondo al libro Einaudi mette anche un’intervista a Julio che colpisce perché Julio sembra saperne del suo romanzo molto meno dell’intervistatore.
Una chiave di lettura del romanzo potrebbe essere filosofica e rimandare a Kierkegaard di cui io ricordo ben poco. Il kibbutz potrebbe essere lo stato estetico, la vita in Argentina, nella casa con una donna lo stato etico. Lo stato etico sembra opprimente a Horacio(come del resto anche a Kierkegaard) e non solo perché vive con la sua Penelope invece che con la Maga. Si capisce che anche la vita con la Maga sarebbe per lui costrittiva. La casa è una prigione piccola, il kibbutz una prigione grande. L’unico posto accettabile sarebbe quello del capitolo mancante, il cielo, un kibbutz dell’amore (diverso da quello del desiderio) dove ritroverebbe Rocamandur e la Maga.
Bello il fatto che Horacio con tutta la sua scienza e conoscenza non arriva da nessuna parte perché gli manca il centro mentre la Maga, confusionaria e disorientata nella materia, si orienta benissimo nello spirito e ritrova sempre la direzione. La Maga come Talita sono delle guide per Horacio, gli sorreggono il ponte e gli indicano la strada incerta e traballante con le loro candele verdi. Il finale con il moto di simpatia di Horacio, insolito e promettente, fa pensare bene per lui. La simpatia viene dal cuore, non dalla testa.
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Il tradimento
Questo libro parla del tradimento, non di un tradimento o del Tradimento (quello di Giuda) ma di tanti tradimenti e a parlarcene in un certo senso (anche se il libro è in terza persona) è il protagonista Shemuel, il tradito. Shemuel, infatti, è stato lasciato all'improvviso e senza una parola di spiegazione dalla fidanzata e è stato lasciato senza mezzi dalla famiglia. Così si trova a fare compagnia a un anziano in cambio di vitto e alloggio e a casa di Wald conosce la nuora di lui Atala, donna di una certa età ma affascinante. I tradimenti come dicevo sono tanti: traditore è stato considerato il nonno di Shemuel, traditore il padre di Atala, traditori i commilitoni del marito di Atala per averlo lasciato in mano agli arabi, traditori gli arabi che lo hanno ucciso senza un barlume di pietà umana, ma traditori anche gli ebrei che occupano suolo arabo (specie se intransigenti) e così via, senza considerare che gli ebrei sono i traditori come popolo, i Giuda, quelli che hanno ucciso Gesù il cui sangue deve ricadere sui loro figli ecc...Oz affronta il tema politico dei rapporti arabo-israeliani dando a diversi personaggi, diversi punti di vista, ma mi pare ritenga per lo più che l'inasprimento dei rapporti non porti nulla di buono. E cerca di riabilitare Giuda, forse perchè non vuole l'etichetta di Giuda per il suo popolo.
Da Shemuel, il tradito, viene l'assoluzione dei traditori, che non sono davvero traditori Giuda compreso. Shemuel cerca di vedere le cose dal loro punto di vista.
Shemuel dà così una sua spiegazione del tradimento di Giuda: lui credeva in Gesù più degli altri, non ha mai rinnegato di conoscerlo. Se l'ha tradito non è stato per soldi ma per dare al mondo la prova del nove che era figlio di Dio perchè scendesse dalla croce. Per questo lo tradisce con un bacio. Il bacio significa, ti voglio bene so che ci rivedremo dopo (cioè dopo che sei sceso). Per questo briga perchè la gente a cui stava simpatico e i farisei ecc... lo volessero morto.
Su questa parte, apprezzo lo sforzo, ma mi pare che Amos sia un po' distante dal capire lo spirito cristiano. E ammesso che le cose siano andate proprio così, cosa non assurda, dire a un amico ti voglio bene se..., cercare di manipolare la sua vita e le sue azioni a me pare un tradimento come quello di chi dice non lo conosco, più profondo, anzi. Tanto più che se con un amico puoi sempre farlo perchè pensi che nelle cose non ci arriva, un figlio di Dio, avrà una idea Sua di cosa fare, dire e pensare. E comunque, accertato di aver fatto una stupidaggine, peccato che non si sia pentito in modo diverso. Il cuore del messaggio cristiano è il perdono e la misericordia per chi, come lui, è credente.
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Un'amicizia quasi perfetta
Il secondo volume della tetralogia è bello come il primo e se nel primo sono descritte le bambine, qua sono riportati gli studi di Elena fino alla pubblicazione del suo primo romanzo. Quello che colpisce è lo stile elegante e agile e la piacevolezza della scrittura che non annoia mai, sorprende, non cade nel banale e lascia un’impressione di originalità. Nel secondo romanzo salta all’occhio anche la doppia blindatura dell’identità dell’autrice: la prima data dalla non conoscenza del suo vero nome, la seconda data dal fatto che l’io narrante è la maschera. Perciò a differenza di tanti romanzi in prima persona dove proprio la prima persona facilita il lettore nell’entrare nella testa e nel cuore dell’io narrante finendo per fondersi con lui, con Elena questo non succede che in poche pagine. L’io narrante è sempre la maschera anche se questo può passare inosservato nel senso che l’eleganza stilistica fa sì che non ci si accorga che Elena intrattiene il lettore come se fosse ospite nel suo salotto: gli parla con garbo e con educazione ma senza mai urlare e dare da matto o farsi cogliere in vestaglia e ciabatte. Il fatto che le emozioni non sono urlate fa sì che il romanzo resti affascinante e interessante e crei un elegante distacco, credo voluto, che è la peculiarità dei romanzi di Elena.
Elena per tutelarsi ha dunque tolto dal romanzo la chiave principale di lettura che servirebbe per entrare nella sua testa e nel suo cuore, cosa che lei non vuole che accada.
Quale potrebbe essere la chiave di lettura del romanzo:
1)Le due amiche potrebbero essere due figure di fantasia uscite dalla mente di Elena autrice, 2) Lila e Elena potrebbero essere due diverse personalità dell’autrice, 3) Lila potrebbe rappresentare per Elena un amore impossibile o una rivale in un amore impossibile. 4) Elena potrebbe essere un uomo che vuole battere la donna perfetta, bella e intelligente sul suo stesso terreno dimostrando di poter essere più femminile di lei, una sfida nella sfida, dunque. 5) Una amicizia reale tra le due donne sarebbe l’ipotesi più difficile da capire.
L’ amicizia tra le due donne è infatti faticosa, pericolosa per il loro strano rapporto pieno di non detto. In tutto il non detto, la cosa che viene detta meno di tutte è l’affetto mentre è spiegata l’invidia, l’essere l’una stimolo all’altra, la gelosia.
Il romanzo è bello, non c’è bisogno di dirlo, ma il modo di essere di Elena porta riflessioni amare sul senso dell’esistenza e su come una donna intelligente riesca a buttare a mare la sua vita e a farsi sempre del male pur avendo tanto successo e tanto talento. Elena trasmette al lettore questo senso di mancanza a cui non dà nome. Forse è l’amica che le manca ma è sempre lei a cacciarla, a tenerla lontana, a non sopportare il confronto.
Lila mi ricorda Elsa Morante per la genialità, il carattere ribelle, la bellezza e per il fatto di avere studiato da sola.
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Straniero
Che strano uomo Mersault. Tutto gli è indifferente, non capisce le emozioni e il loro linguaggio. Non capisce il dolore, l'amore, la rabbia, cosa dire di fronte al giudice per accattivarselo. Gli altri imputati piangono di fronte al crocefisso, ma loro sono criminali incalliti, si sanno comportare. Mersault sembra affetto da una specie di autismo o da una sindrome di Asperger. Il linguaggio delle emozioni non lo tocca, capisce solo quello del corpo, il caldo, il freddo, la fame, il desiderio e è di una ingenuità, di una trasparenza infantile. Di fronte alle domande del giudice si ritrova indifeso nella sua sincerità, per questo Maria si innamora di lui e anche il lettore.
Il romanzo si divide in due parti: nella prima Camus ci descrive le giornate che portano al delitto, il funerale della madre di Mersault, la conoscenza di Maria e del vicino, con la fama di essere strozzino. Il vicino coinvolge nelle sue beghe poco chiare Mersault che è come un bambino, limpido, indifeso, ingenuo, manovrabile e con scarsa coscienza di sè. La scena del delitto, una specie di mezzogiorno di fuoco è bellissima. Al delitto segue il giudizio. Naturalmente Mersault, incapace di emozioni è incapace anche di pentimento. Ma la sua incapacità di pentimento sembra legata a una innocenza superiore, a una incapacità di calcolo e di male che commuove il lettore. Mentre i discorsi malevoli del giudice e la sua sentenziosità rimandano all'impossibilità assoluta dell'uomo di giudicare un altro uomo che a sua volta richiama il non giudicare cristiano pur essendo Camus assolutamente ateo.
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Il rione
Il romanzo è molto bello e anche molto piacevole da leggere. Racconta la storia di due amiche: Lenù e Lila. Elena Greco, Lenù, è l’amica geniale quella che unisce all’intelligenza la volontà, il piacere del nuovo e il giusto distacco dalla famiglia mentre Lila, la più dotata, la più cattiva in apparenza, è quella che sente il peso dell’ambiente e la zavorra della famiglia, quella che non si sa liberare degli altri per emergere, quella che dice a Elena di non smettere mai di studiare, di non smettere mai di essere l’amica geniale, quella veramente geniale. Con il pretesto di parlare della loro amicizia la Ferrante ci racconta del quartiere di Napoli, dei rapporti tra le persone, dei rapporti interquartiere, cioè tra le persone della zona bene e della zona più povera. La parte più interessante del romanzo è proprio la descrizione dei tanti personaggi di contorno e dei rapporti tra i personaggi secondari. Tutti sono in cerca di un riscatto, che spesso è socio economico ma anche culturale e morale. Spesso i padri o le madri sono la zavorra dei figli: ad esempio don Achille per i due figlioli Stefano e Alfonso, molto simpatici soprattutto Alfonso, compagno di scuola di Elena. Oppure Donato Starratore, il seduttore incallito di poverette come Melina che riduce sull’orlo della follia, pietra al collo per il figlio Nino. Melina ricorda la poverella dei giorni dell’abbandono. Ma anche la madre di Elena e il fratello di Lila sono pietre al collo. E’ interessante anche l’analisi sociale: la povertà che avvicina il gruppo degli amici ai fratelli Solara, malavitosi (nell’episodio della gita ai quartieri bene) e li separa dai ragazzi ricchi.
La visione del mondo di Elena è abbastanza cruda, la vita è lotta per emergere e il debole è colui che si lascia impietosire e tirare indietro dagli altri. La lotta di classe è tangibile.
“Noi stiamo volando sopra una palla di fuoco. La parte che s’è raffreddata galleggia sulla lava. Su questa parte costruiamo i palazzi, i ponti, le strade. Ogni tanto la lava esce dal Vesuvio oppure fa venire un terremoto che distrugge tutto. Ci sono microbi dovunque che ti fanno ammalare e morire. Ci sono guerre. C’è una miseria in giro che ci rende tutti cattivi. Ogni secondo può succedere qualcosa che ti fa soffrire in un modo che non hai mai abbastanza lacrime. E tu che fai? Un corso teologico in cui ti sforzi di capire cos’è lo Spirito Santo? Lascia stare è stato il diavolo a inventarsi il mondo e non il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.”
L’analisi impietosa è di Lila ma è fatta sua da Elena. E’ Elena la dura, quella che non si lascia tirare indietro, forse perché supportata dalla famiglia, forse perché più indifferente agli affetti famigliari, spesso pietra al collo.
La diversa strategia di lotta delle amiche le separa. Lila è abbandonata a se stessa. Elena può studiare. Lila è costretta a scegliersi il meno peggio degli uomini per sottrarsi a Marcello Solara, il malavitoso prepotente. Ma alla fine del romanzo, primo volume, si capisce che mettersi nelle mani di un uomo è una pessima trovata.
L’amicizia come viene descritta è molto poco femminile. Non c’è affetto, non c’è emotività, umoralità. Il legame è molto intellettuale, di stimolo reciproco, soprattutto da parte di Elena. Elena è in cerca del pungolo, il pungolo che rimanda alla citazione all’inizio del romanzo dal Faust, al diavoletto che Dio dà come pungolo all’uomo perché non si riduca all’immobilità. Anche il nome Elena fa pensare al Faust, Elena la donna ideale di Faust. Nel romanzo non c’è amicizia nel senso che in genere diamo al termine ma un rapporto socratico tra le persone. Elena tende alla noia e ha bisogno di avere intorno persone che la stimolino e facciano uscire il genio che sta nella sua testa ma che tende ad addormentarsi. La descrizione delle due amiche è molto fisica, come in tutto il romanzo c’è una tensione alla materia, al denaro, al riscatto sociale, alla conoscenza come strumento di riscatto sociale e morale ma morale in senso abbastanza esteriore, al piacere e alla novità intesa come conquista del mondo. Le due amiche sembrano in certe parti del romanzo molto simili, meno che fisicamente, una mora e una bionda, una specie di mostro e due teste anzi a due corpi uscito dall’immaginario maschile e simili a divinità greche o a personaggi mitologici. Anche il rapporto che hanno con gli uomini è molto dall’alto, in un certo senso.
Il romanzo è molto piacevole, le considerazioni anche sociali sono ben mimetizzate nel testo. Ci sono aspetti originali e idee che trattengono sempre l’attenzione del lettore: la smarginatura, la perdita di realtà delle cose, l’esplosione della pentola di rame.
L’incipit è favoloso con la scomparsa di Lila. E’ come se l’incipit ci dicesse che effettivamente Lila non è esistita davvero se non nella testa di Elena, o che la vera Lila è quella che lei ha in testa e che ha chiuso dentro il romanzo.
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Delitto senza castigo
La morte felice è il primo romanzo di Camus, pubblicato postumo e da lui abbandonato per la scrittura di un altro romanzo, mi pare Lo straniero. La storia è interessante, inizia una riflessione sulla vita e sul senso della vita, riflessione che prosegue negli altri romanzi dove si approfondisce. Qui Camus pensa ancora che la felicità sia possibile, sia legata non a contingenze, non a una morale, ma a una volontà di felicità. La felicità è possibile a esseri superiori, non è legata a una idea romantica di felicità, quindi all'amore. Il protagonista si sposa con una donna che di certo non può amare, che rispetto alle altre lui considera un corpo senza niente dentro; il protagonista rifiuta anzi, di prendere in considerazione un approccio più sentimentale al mondo e alla vita in quanto vuole dimostrare che la felicità dipende solo dalla volontà oltre che dal benessere economico che però serve solo a non dipendere dal denaro.
Camus ha una visione del mondo materialista, del tutto materialista anche se in modo quasi idealista e intransigente di rifiuto a priori dell'anima. In ogni caso anche qui la malattia si erge come ostacolo alla felicità e l'uomo che potrebbe essere felice si vede ergersi contro il muro del male. Il romanzo è diviso in due parti: la morte naturale e la morte cosciente. Non so bene come giustificare le due morti. La prima è la morte dell'invalido Zagreus che viene ucciso dal protagonista Mersault all'inizio del romanzo (tipo incipit di Delitto e castigo. La morte di Zagreus è naturale benchè provocata forse perchè chiude un'esistenza infelice di malattia. Dopo un'iniziale periodo di sofferenza di Mersault, di tristezza, di malessere dell'anima che potrebbe rimandare al pentimento, il protagonista si riprende completamente e sembra poter essere felice .L'ubris di questa innaturale felicità che sfida l'ordine delle cose viene punita con la malattia e la morte. Forse la morte è detta cosciente perchè il protagonista ha raggiunto una sua consapevolezza del mondo.
Nella Peste però c'è una visione della vita molto più affascinante chè dà all'uomo un 'anima anche se non in senso religioso.
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Divieto di addio
Il romanzo per il contenuto mi ha ricordato molto La lucina, forse più deGli increati per la presenza del bambino e per chi rappresenta quel bambino. Anche qui il discorso è difficile: come può l’uomo spiegarsi e giustificare la sofferenza dell’innocente. Non può. Non c’è spiegazione che convinca, non c’è ragionamento, non c’è azione che la possa colmare e sanare. Nemmeno la vendetta del poliziotto giustiziere serve a nulla. L’unico balsamo è la vicinanza solidale dell’uomo al bambino, del bambino all'uomo, quell'esserci e camminare vicini. Per il resto il male è invincibile, è troppo forte, è alla radice di tutto, prima e dopo. Nemmeno in una favola si riesce a estirpare la sua radice maligna in modo da far cessare il canto dei bambini che accolgono altri bambini che in ogni momento muoiono di morte violenta. Il mondo è ingiusto, violento, marcio. Le ferite che vorremmo curare e vendicare sono le nostre stesse ferite, l’unico guadagno è tenere per mano noi stessi bambini.
Di fronte alla tenerezza dell’uomo per il bambino fa quasi un passo indietro anche l’amore che è meno presente che negli altri romanzi di Moresco. La tenerezza per il bambino riempie tutto il romanzo in modo bello e straziante e la si percepisce dal non detto, dal non descritto, dal rispetto con cui è trattato il tema da uno scrittore che di solito non ci risparmia nulla. La critica al male è radicale, c’è il male evidente dell’uomo di luce che risplende nella sua terribile ovvietà e c’è il male nascosto nelle pieghe della società, subdolo e carnivoro. C’è una descrizione della materia che rimanda alla morte, all'abiezione, al degrado come quando vengono descritti certi personaggi che mangiano, ruttano, guardano film porno come se piacere e dolore fossero strettamente legati e il male si nascondesse tra le pieghe della vita, di quella che consideriamo vita. I bambini cuciti, i bambini che cantano però sono immagini di pace, nonostante tutto. Certo, di fronte al dolore dell’innocente non c’è risposta solo umana.
Come direbbe Camus, anche se tutti dovessero morire di peste il medico resta al suo posto a fare il medico fino alla fine e pure il poliziotto e, perchè no, lo scrittore con i suoi occhi bianchi. Infatti, le parole sono importanti per combattere il male: sono il cannone, la mitragliatrice, la pistola e la bomba a mano.
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Il mistero della sofferenza dell'innocente
Il romanzo è bellissimo, esce dal cuore e dalla mente dell’autore, è una grande metafora che spiega il modo di vedere la vita di Camus, pessimistico, ma non esageratamente.
Certo, l’inizio del libro è difficile da leggere, non me lo ricordavo così duro, con quelle descrizioni di ratti e di bubboni che certo non rientrano nella categoria del piacevole. Ma più o meno da metà libro ci si distacca dalla situazione ormai nota per presentare la peste come metafora e per guardare l’uomo di fronte alla peste. Gli uomini di fronte al male. Il male è nella vita ma Camus vuole essere medico e guarire se possibile il male altrui, oltre a rifiutarlo in sè per non trasmetterlo ad altri in uno sforzo estremo della volontà. L'uomo è chiamato ad essere eroe, data l'emergenza del morbo (male) che infetta ogni vita.
"Il microbo è cosa naturale, Il resto, la salute, l’integrità, la purezza, se lei vuole, sono un effetto della volontà e d’una volontà che non si deva mai fermare. L’uomo onesto, colui che non infetta quasi nessuno, è colui che ha distrazioni il meno possibile."
Ci sono tanti modi diversi di vedere la peste e di affrontare la vita e l’assurdo, il dramma. Rambert, l’innamorato separato dall’amata è l’uomo felice, che crede nella felicità, l’illuso o forse il fortunato. Rambert in un primo momento dice di volersene andare, la peste non lo riguarda e vuole tornare dalla sua donna. Ma poi ci ripensa e affronta la peste con gli altri, con dignità. Alla fine dell’epidemia c’è la sua donna ad aspettarlo e può ancora illudersi di poter essere felice, che il peggio sia passato. Bellissimo il rapporto d’amicizia tra Rieux, medico, alter ego di Camus, e Tarrou. Entrambi lottano contro la peste, entrambi pensano che la vita sia affetta dalla peste, entrambi sono convinti che la peste vada affrontata da medici ma Tarrou pensa che si debba essere persino santi di fronte al male, anche se la sua idea è di una santità laica. Ho pensato, leggendo di questa amicizia alla bellissima amicizia tra Camus e Simone Weil, il cui pensiero Camus ha fatto di tutto perché venisse pubblicato. Certo, Simone doveva essere una pensatrice carismatica, una specie di santa laica, chiamata dagli amici la marziana e l’imperativo categorico in gonnella per il suo caratterino.
I personaggi di Camus sono belli, sono degli Acab in lotta contro il male. E, comunque, ha una bellissima idea dell’amicizia.
La vita offre la conoscenza e il ricordo del dolore e dell’affetto, dell’amicizia. Per il resto non dà speranze se non agli illusi. Tarrou, ad esempio, non ha speranza se non quella di consacrare la propria vita al servizio degli uomini, cioè non avendo nessuna speranza è spinto, per così dire alla santità. Altri uomini possono magari illudersi, immaginare che la peste possa arrivare e andarsene lasciando immutato il cuore . Ma non per tutti è così. Nemmeno Rieux si illude.
Camus dice del suo alter ego Rieux: lui sapeva quello che ignorava la folla e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valige, nei fazzoletti, e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, sventura e insegnamento degli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi sorci per mandarli a morire in una città felice.
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LA VITA SECONDO ZIO ASHER
“Ascolta lo zio Shmuck, okay? Le cose vanno e vengono, e tu devi essere un ricettacolo, devi fartene attraversare. Altrimenti, per te, ragazzo, la morte sarà atroce, e a me spiacerebbe tanto. Che cosa vuoi diventare, un inscatolatore di esperienza? Ci metterai un tappo sopra e uno sotto? Lascia che l’esperienza fluisca, lasciala andare. Aspetta e accetta e impara a tirar via la mano. Non aggrapparti! Che cos’è il matrimonio, se non merdosa forma di rapacità, una terribile, ripugnante manifestazione di superbia.”
Il romanzo ha un incipit e un finale bellissimi, due lettere, la cosa migliore del romanzo, degne dell'ultimo Roth.
La storia è scritta in parte in prima persona dall’io narrante Gabe, studente e poi docente di letteratura che conosce una coppia: Paul e Libby Hearz. Gabe si sente di dovere la sua educazione sentimentale a Henry James, e Henry James è galeotto all'inizio del romanzo nel creare un filo d’attrazione tra Gabe e Libby. Bisogna però anche dire che Henry James stesso nutre seri dubbi sulle proprie capacità nel campo dei sentimenti, espresse in modo toccante in uno dei suoi racconti La bestia nella giungla, con rara sincerità. Magari maestro di stile,di eleganza, di nebulosità, ma affidare l’educazione sentimentale a Henry James….
Gabe presta, come dicevo, Ritratto di signora a Paul, ma lui non ha tempo per il romanzo, perciò lo legge Libby; all’interno del romanzo c’è la lettera della madre di Gabe, una lettera molto personale (quella dell’incipit). Dalla lettura nasce una certa intimità tra i due e anche attrazione. Gabe però ha l'attrazione facile, come vede una donna se ne innamora e entra in confusione. Libby dal canto suo ha un marito cervellotico e antipatico, adatto a rovinare la vita propria e altrui. Paul l'ha sposata senza ascoltare i giusti consigli di zio Asher di rimandare alla fine degli studi il matrimonio, l’ha spinta ad abortire quando lei desiderava tanto un figlio, e quando quel figlio poteva far loro recuperare il rapporto con i genitori di entrambi, rotti a causa del matrimonio. L'aborto era tra l'altro clandestino con il 16% di possibilità di morte della donna, e Paul aveva seri dubbi sulle capacità del medico. Il legame della coppia è da subito una specie di cappio al collo; Libby deve lasciare gli studi. L'aborto (causato dal rifiuto inconscio di John del legame) rappresenta il secondo passo falso. L'aborto verrà pesantemente espiato con l'astinenza sessuale, il disamore, la malattia di Libby e la sua nuova rinuncia agli studi e l'adozione costosissima di un altro bambino.
Spero tra l'altro che le adozioni in America non funzionino più così come viene descritto nel romanzo.
Gabe nel frattempo pur pensando a Libby con una parte del cervello, conosce una donna divorziata con due figli, Martha, ma anche lì porta scompiglio perché pensa a corrente alternata di amare/non mare la donna che certamente è attratta da lui. Gabe nel momento del culmine della passione e dopo che Martha ha passato due notti insonni a vegliarlo malato, non appena si alza va a perquisire gli armadi della poveraccia facendo notare al lettore e a Martha stessa lo stato di tremendo disordine della sua casa. Non solo, nota subito che la donna, una taglia forte, ha dei pantaloni che le ingrossano il sedere, e fa i suoi commenti velenosi con il lettore e con lei sullo stato del suo abbigliamento. Per non parlare delle meschine discussioni sui cento euro dell’affitto che lei non ha, e che chiede a lui (figlio di dentista di grido) con grette discussioni sulla spartizione delle bollette. Questo al culmine della passione, facciamo passare un anno. In ogni caso, la collega di Martha resta incinta e nel frattempo la coppia di Libby e Paul ha deciso di adottare il bambino e Gabe darà una mano anche in questa impresa grottesca.
Il lato debole del romanzo è che Roth non è ancora ben consapevole di sé, dei suoi limiti e punti di forza umani, di cosa è e di cosa vuole come uomo, non come scrittore. Nel romanzo si intravede, in alcune pagine molto chiaramente il talento del grande scrittore ma credo che questo non sia il suo miglior romanzo. Non c’è quella sua bellissima feroce lucidità. C’è una nebulosità non solo sentimentale, ma di conoscenza di sé, che allontana il libro dal lettore. I personaggi sono ondivaghi, soprattutto gli uomini, e le donne sono un po’ troppo succubi. Credo che il consiglio di zio Asher nel caso di Gabe e anche di Paul sia azzeccatissimo. In varie parti del romanzo Gabe decide di sposare qualcuno, in genere Martha. Ma poi si ricrede sempre. Non so, in questo romanzo le cose che mi piacciono di Roth non sono ancora molto evidenti, ma è sempre un Roth. Forse è un Roth che potrebbe piacere anche ai non –lettori di Roth, forse più a loro che agli altri. In ogni caso ci regala una storia sentimentale godibile, piena di dialoghi intelligenti (anche se non sempre brillanti come nei suoi migliori romanzi), e con molto poco zucchero. Forse alcune pagine andavano tagliate, per esempio la visita di Gabe ai parenti di Paul. Adatta per i lettori sentimental-diabetici ma non per le lettrici di romanzi rosa. L’idea di “sentimentale” che ha Roth lascia abbastanza a desiderare. Io lo preferisco come mostro senza cuore, dopo la metamorfosi o l’autocoscienza quando passa al sesso e lascia perdere i sentimenti che tanto non fanno per lui.
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Confusione, ecco cosa c'è
Che c'è nel suo cuore? A saperlo. Camila ha perso un figlio e dopo la perdita è piombata nella depressione. Non si lava, non si cura di sè, se ne frega della vecchia vita. Il marito, giornalista, le procura un servizio sul Messico che dovrebbe servire a scuoterla. In Messico conosce un altro uomo, Luciano, che la attira anche se resta legata al marito. Luciano però rappresenta la passione e la rinascita. Camila in Messico deve fare i conti anche con il rapporto con la madre che le procura un senso di inadeguatezza e di inferiorità. Sua madre è un'eroina e ha fatto scelte politiche coraggiose come oppositrice di Pinochet. Forse anche per questo, Camila si lascia coinvolgere con i ribelli messicani. In ogni caso, la partecipazione di Camila è poco meditata e consapevole, sembra dettata da una specie di leggerezza, di frivolezza per cui si ritrova quasi per caso, per affetto verso Reina, per attrazione verso Luciano, per desiderio di essere degna della madre, per non sapere dire di no nè rendersi ben conto dei pericoli cui incorre, coinvolta in vicende che non comprende pienamente. Dal libro non traspare una passione politica forte, un credo politico che travolge il lettore e nemmeno una passione sentimentale forte perchè la presenza di due persone nella sua vita limita l'importanza di entrambe. Mah! A me il romanzo non mi ha coinvolto particolarmente e credo di non averlo nemmeno capito del tutto.
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La grande famiglia Manzoni
Quest'opera dettagliatissima è consigliata agli appassionati di Manzoni. La vita del grande scrittore viene analizzata in tutti i particolari, e inseguita fin dentro le famiglie dei figli e dei figli dei figli in maniera estremamente minuziosa.
L'infanzia di Manzoni, fino ai vent'anni circa, fu molto infelice. Dimenticato dal padre e dalla madre visse senza che nessuno l'avesse a cuore. La madre Giulia Beccaria era stata condannata dalla famiglia a un matrimonio infelice che le aveva procurato questo figlio indesiderato. Solo a vent'anni madre e figlio si incontrarono e scattò l'amore e da lì non si separarono più. Bisogna dire che Carlo Imbonati, l'allora amante di Giulia, doveva essere una gran brava persona e si affezionò subito al ragazzo. ALessandro ebbe anche la fortuna di sposare una donna dolcissima, Enrichetta Blondel, e di trovare sul suo cammino degli amici carissimi. La sua vita pur piena di lutti e di preoccupazioni, fu piena di affetti. I figli di Enrichetta erano tutti care persone a parte Enrico che diede un po' di preoccupazioni al padre. Ma alla fine era un Manzoni anche lui. Per fortuna dopo la morte di Enrichetta la seconda mogie Teresa si dimostrò un po' più bisbetica e noiosa, se no tutti i lettori a questo punto sarebbero morti di invidia.
Nei Promessi Sposi troviamo traccia in Lucia della dolce Enrichetta e in Renzo, nel fatto che fosse orfano, della condizione di "orfano" a lungo sperimentata dallo stesso Manzoni.
Alessandro non era una persona semplice, soffriva di disturbi nervosi, non usciva da solo ma sia lui che il resto della famiglia erano persone dal gran cuore. Mi sarebbe piaciuto essere parte della famiglia, magari tra gli amici e non solo per curiosità.
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La città
Al solito Natalia propone un racconto tenero e senza pregiudizi morali. Il racconto affronta il tema della condizione femminile. La protagonista, Delia, è una ragazza molto poco consapevole di sè, che non conosce bene cosa vuole e nemmeno i suoi sentimenti e che si ritrova incinta di Giulio e innamorata di Nini senza quasi rendersene conto. La città è il paradiso provvisorio di chi soffre la noia e aspira ai divertimenti e a mettersi in mostra ma la scelta da parte di Delia della strada che va in città, luogo cui tutti aspirano arrivare, comporta la rinuncia magari inconsapevole ad altre strade. Con ingenuità Delia si ritrova moglie di Giulio, ragazzo ricco che non ama, e a combattere una suocera e una domestica antipatiche e la sua condizione fa tristezza perchè sembra più una sconfitta che una vittoria. Sembra talmente una sconfitta che anche ricordare il passato diventa difficile e fa paura.
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Riportate a casa Blanka
Strano romanzo, bello, nostalgico, irreale, fuori dal tempo. Una storia a metà tra ricordo e sogno che ripercorre l'amicizia che ha legato fin da piccoli 4 bambini, Iren, sua sorella Blanka, Henriett e Balint. Il legame è più di un'amicizia e è reso ancora più forte dal fatto che tutte le bambine amano per tutta la vita Balint e questo amore collettivo rende la loro amicizia più forte e il loro legame unico. Magda è bravissima a rendere le sfumature dei sentimenti: l'amore che contiene una nota d'affetto paterno o di gelosia in una polifonia e mutevolezza che rende quell'amore un sentimento unico e cangiante e diverso da tutti gli altri amori. Il romanzo come anche L'altra Ezter è difficile da seguire all'inizio ma poi prende il lettore e lo coinvolge anche se in ritardo per cui con questa scrittrice bisogna avere pazienza ma ne vale la pena. Balin si fidanza con Iren anche se ama di un amore paterno Henriet e l'amore per Henriet sembra quello più bello, tant'è che Iren si accorgerà che le manca qualcosa. Henriet muore uccisa da un soldato ma non scompare, resta nel libro come fantasma a ripercorrere avanti e indietro la vita dei suoi amici fino a fare dubitare il lettore che sia mai esistita fuori dal sogno.
Mi ero resa conto che Palin era l'unico elemento reale in quel concentrato d'irrealtà dove annaspavamo e soffocavamo tutti quanti, mio padre era diventato infermo, mia madre premurosa e spaventata, io e lui ci trovavamo in quella condizione, le case di via Katalin si erano dissolte, le persone che ancora sapevano qualcosa di noi, e chi eravamo stati, o si erano arrese alla malattia, come la signora Temes, o erano scomparse su un'isola lontana, come Blanka, o erano morte, come il Maggiore e gli Held. Pali invece era reale, vero, ma nessuno di noi l'aveva apprezzato, nessuno di noi l'aveva preso sul serio , e forse nemmeno lui si era preso completamente sul serio in mezzo a noi. D'ora in poi sarebbe scomparso e non appena fosse uscito dall'appartamento si sarebbe richiusa l'unica breccia attraverso la quale avremmo potuto andarcene anche noi e seguirlo, ma ora non avremmo mai più potuto raggiungere l'esterno, perchè Balint era tornato a sbarrarci la strada.
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Mia figlia
L'incipit del romanzo è favoloso. L'ho riletto tre volte. Una madre va in ospedale dove ha ricoverato la sua bambina piccolissima e le dicono che la piccola è morta. La disperazione della donna poi l' intuizione: non gliel'hanno fatta vedere, gliel'hanno rapita. Da qui inizia la storia, tutta al femminile o quasi perchè il marito non ha nemmeno un nome e sembra non meritarlo. Infatti non capisce niente, prende la moglie per pazza e si arrabbia con lei perchè trascura la casa e pensa ai bambini rapiti. Nell'incipit da come pensa e parla, la protagonista sembrerebbe una donna semplice, e questo è molto efficace e bello per l'immediatezza del dolore e dei sentimenti. Invece poi la Serrano non resiste e ci dice che la donna ha un diploma e ha letto diversi libri, quindi ha studiato. A me piaceva che restasse semplice come sembrava dalle prime bellissime pagine. Poi la trama si aggroviglia e si complica. Non so perchè la Serrano abbia affrontato questo tema ma ho pensato che fatti del genere avvenissero davvero in Cile e che è stata spinta da un impulso etico nella scrittura del romanzo. In ogni caso questa madre dà vita a un movimento che smaschera il meccanismo dei rapimenti vendita (a famiglie e trafficanti di organi) e impedisce che altri fatti avvengano.
"Donna ignorante, sono io, donna sciocca cui possono far credere morta sua figlia, donna povera e sciocca e ignorante, ecco perchè non ho la mia bambina, donna povera e sciocca, povera e sciocca, ancora conati di vomito, ancora nausea, ancora pena per essere nata povera e sciocca. Sentii le sue manine calde che non avrei mai più toccato. Mentre scendevo dal taxi, il tappo del thermos che mi ero portata dietro si aprì e il caffè si rovesciò tutto. Io e il marciapiede eravamo tutti sporchi, il caffè mi colava lungo i vestiti, lungo le gambe. Mi accorsi che piano piano tutto si tingeva di quel marrone scuro. Lo sapete, quel colore."
La madre non si rassegna e cerca la bambina che è stata comprata dal ministro. Non vi racconto il resto. Il finale a me è piaciuto, triste, perchè è triste, malinconico, aperto a una speranza che poggia sul sogno e sulla volontà di non vedere la realtà e nemmeno i tanti funesti presagi. Una fiducia illimitata nel sogno.
Osserva, che certe mani hanno un aspetto rapace e le sue? Ma no, le sue sono fatte per giocare. Con quelle stesse mani tiene lontani i neri presagi. Li spinge via, come il firmamento spinge via le nuvole burrascose dopo che è passata la tempesta. Sono andate via. Luride, svogliate, capricciose, non hanno potuto far altro che andare via. E allora il cielo. O l'eco del cielo. Com'è azzurro adesso.
Il romanzo nell'incipit e nel finale e in alcune altre pagine raggiunge punte altissime e è commovente.
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Il vuoto di senso
Olga, una donna di 36 anni bella e con due figli, viene improvvisamente lasciata dal marito Mario, ingegnere di mezza età, per una ragazza di appena vent’anni nonostante il loro bel rapporto. Il motivo, un vuoto di senso. E sul vuoto di senso è costruito tutto il romanzo. Cos’è un vuoto di senso: una cosa che non si crea non si distrugge, si tampona con un corpo, in maniera del tutto provvisoria e si trasmette come una maledizione. Olga ci parla infatti in prima persona del suo vuoto di senso che è il riflesso del vuoto di senso di Mario: riflesso ma amplificato come se Olga fosse uno specchio di Mario. Il vuoto di Olga viene descritto come assenza: assenza di attenzione, vuoti di memoria, fatica a fare le solite cose, sonno. La vita di Olga prima resa felice dall’affetto per il marito e per i figli viene svuotata di questo sentimento e nella sua assenza si insinua la follia, Olga si avvicina al confine con la follia senza però varcarlo. Questo avvicinarsi è descritto come uno svuotamento di spirito nella vita di Olga che viene riempita di materia. I figli e il cane diventano materia: feci, escrementi, vomito. Il linguaggio e il pensiero di Olga vengono stravolti come se Olga fosse posseduta e ci sono pagine di pensieri e di parole oscene, decisamente oscene. Lo scopo di Elena è quello di rendere la follia e l’avvicinarsi del famoso confine ma in realtà l’overdose di osceno non raggiunge questo scopo e io avrei tagliato diverse pagine, soprattutto i pensieri. Più i pensieri che le parole sguaiate, essendo il linguaggio sguaiato sintomo indicativo di depressione. Ma tutti quei pensieri sono troppi e poco femminili.
L’incipit, come tutti gli incipit di Elena è bellissimo. Sembra di entrare nella storia di corsa inseguendo il bianconiglio e ci si ritrova improvvisamente nel mondo di Elena. Mario, il marito, resta sullo sfondo e è descritto con poche pennellate che ne danno un ritratto molto efficace. Un uomo a volte grigio a volte molto divertente, un uomo a corrente alternata. Ma proprio in un momento in cui la corrente manca, cioè nel momento del vuoto di senso, Mario lascia la famiglia e mette il corpo di Carla a chiudere la falla di senso. Illumina cioè il vuoto assoluto con il cerino dell’emozione legata alla seduzione della ragazza, cerino che brucerà velocemente lasciando Mario al punto di partenza, cioè alla ricerca di un nuovo corpo che funga da provvisorio tappo. Olga, nel suo vuoto di senso, anche lei si ritrova nella stessa situazione come se venisse inglobata e convertita alla stessa filosofia di vita di Mario pur disprezzando Mario per aver usato il cerino dell’emozione. Olga si sceglie Carrano, il musicista come compagno, un uomo sensibile con cui illuminare il suo vuoto. Usa il fiammifero del sentimento invece del cerino dell’emozione pur nella consapevolezza della stessa provvisorietà della soluzione. Il vuoto d senso, viene naturalmente trasmesso anche ai figli in una reazione a catena.
Mario, viene descritto dagli amici benpensanti di lui alla moglie Olga come opportunista e voltagabbana, anche se con molte qualità. Ora l’essere opportunista non è una sua caratteristica genetica ma è anche quella una conseguenza del vuoto di senso che porta all’adesione alla filosofia di vita dell’effimero, che ha come conseguenza inevitabile l’essere opportunista e voltagabbana. Come dice Elena/Olga ci sono tante persone che conducono la loro vita tranquilla e dormono per cui non sono soggette a dolorosi vuoti di senso. Ma nel caso che uno ci fosse soggetto, le due possibili soluzioni sono l’adesione all’effimero, il vivere l’attimo che comporta un egoismo vorace e cieco (quello di chi sta annegando che per tirare il respiro tira sott’acqua chi gli si avvicina) o puntare al trascendente. L’egoismo è una conseguenza del sistema scelto di auto-salvataggio e non una caratteristica a priori dell’individuo-Mario. L’alternativa di scelta sarebbe quella di dare un senso trascendente alla propria vita legandola a un’idea di bene non a intermittenza. Sembrerebbe una scelta irrazionale, rispetto all’altra supportata dai cinque sensi, ma bisogna considerare che i cinque sensi non spiegano in nessun modo la vita e la morte (passaggio da materia organica a organica-vivente).
La parte finale del romanzo è molto bella.
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Minestrone di neve
Il romanzo ha ricevuto tanti elogi e non capisco perché. A me non è piaciuto lo stile e nemmeno l’intreccio. L’idea di fondo è buona, anzi molto interessante, ma l’autrice avrebbe dovuto lavorarci e ragionarci. Invece la mia sensazione è che il romanzo sia un caotico buttasù soprattutto nella parte finale che sarebbe da stracciare e da rifare. L’incipit non è granché ma al limite potrebbe funzionare e la parte centrale ha delle idee buone per cui è un gran peccato aver rovinato il libro pubblicandolo così con quelle bruttissime ultime 100 pagine. Lo stile di scrittura è leggero e frizzante ma anche insipido.
L’idea base è quella di riscrivere Biancaneve , favola interessante soprattutto per i temi che affronta: lo specchio, l’identità, il doppio, e così via. Insomma di spunti interessanti ce n’erano una marea e l’autrice ne coglie diversi nella parte centrale del romanzo per sprofondare in un guazzabuglio tematico improponibile verso la fine. La sensazione è che Helen voglia sorprendere e spiazzare il lettore e non sappia bene dove andare a parare. Le oscillazioni nell'identità, l’idea che il male che uno ha subito possa tornare fuori sono stimolanti e intriganti ma la scrittura è superficiale e non porta grandi spunti di riflessione. Se lo scopo era divertire e non far riflettere, la contorsione del finale a me non è sembrata piacevole e la trama è troppo assurda e complessa, ma di un complesso caotico.
Insomma è un libro che non consiglio ma tenete conto che i giudizi dei lettori su questo romanzo sono molto diversi e contrastanti.
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Mara il pellicano e altra gente strana
“Ti auguro ogni bene possibile, e spero che tu sia felice, ammesso che la felicità esista. Io non credo che esista, ma gli altri lo credono, e non è detto che non abbiano ragione gli altri.”
Il pellicano
Caro Michele è un romanzo in prevalenza epistolare, fatto di lettere a Michele, di Michele e anche a/di parenti e amici di Michele. La cosa più bella è il tono delle lettere, la freschezza, il candore, l’intelligenza e la profondità che però sa di immediatezza e non di ragionamento. Alcuni personaggi come il Pellicano, cioè l’editore del bruttissimo romanzo Polenta e Veleno che diventa Polenta e vino e Polenta e castagne in alcune pagine sono fantastici. Bella la figura di Mara, ragazza disinibita e onesta, profittatrice e di cuore. Bella la figura della madre ingenua e intelligente e l’amicizia-forse amore tra Michele e Osvaldo che dà un tocco di malinconia alle pagine.
“Io lo credo (Osvaldo) molto intelligente, ma sembra che la sua intelligenza la tenga custodita nel suo torace, nel suo pullover e nel suo sorriso, trattenendosi dall’usarla per motivi che restano nascosti. Nonostante il suo sorriso, lo trovo un uomo tristissimo.”
I rapporti umani sembrano più veri di quelli veri, sembra che siano più indelebili in qualche modo pur nella loro provvisorietà perché i personaggi della Ginzburg sono tutti buoni.
“Tu dici che non vuoi sulla tua persona, in questo momento, gli occhi delle persone che ti amano. E’ infatti difficile sopportarli, gli occhi delle persone che ci amano in un momento difficile, ma è una difficoltà che si supera rapidamente. Gli occhi delle persone che ci amano possono essere nel giudicarci estremamente limpidi, misericordiosi e severi, e può essere duro ma in definitiva salutare e benefico per noi affrontare la chiarezza, la severità e la misericordia. “
“La felicità era per me protestare e per te frugare nei miei armadi. Ma devo dire che abbiamo perduto quel giorno un tempo prezioso. Avremmo potuto metterci seduti e interrogarci vicendevolmente su cose essenziali. Saremmo stati probabilmente meno felici, anzi saremmo stati infelicissimi. Però io adesso mi ricorderei quel giorno non come un vago giorno felice ma come un giorno veritiero e essenziale per me e per te, destinato a illuminare la tua e la mia persona, che sempre si sono scambiate parole di natura deteriore, non mai parole chiare e necessarie ma invece parole grigie, bonarie, fluttuanti e inutili.”
Entrando nei suoi romanzi sembra di essere in un paradiso terrestre.
“Così penso che cercheremo di mandarti ogni tanto dei soldi. Non è che i soldi ti risolvano niente essendo tu sola, sbandata, vagabonda e balorda. Ma ognuno di noi è sbandato e balordo in una zona di sé e qualche volta fortemente attratto dal vagabondare e dal respirare niente altro che la propria solitudine, e allora in questa zona ognuno di noi può trasferirsi per capirti.”
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Il grande uomo e la moglie baffuta
Valentino è una raccolta di racconti, tre: Valentino, la madre e sagittario. Quest'ultimo l' avevo già letto separatamente non avendo visto che era incluso in questo libro.
Valentino è il racconto più bello della raccolta, bello per come è descritto questo ragazzo, il fratello dell'io narrante Caterina. Valentino è un narciso, innamorato di sè e cieco al resto del mondo incurante e inconsapevole dei sacrifici che tutta la famiglia fa perchè lui abbia la vita facile e la strada spianata. Il ragazzo è pigro, vanesio, perdigiorno e mentre le sorelle si fanno in quattro per mantenerlo e tirare avanti la baracca, lui se ne frega e nemmeno studia. All'inizio del racconto troviamo Valentino innamorato di Maddalena e soprattutto della vita comoda che lei può garantirgli e in procinto di sposarla. Maddalena, brutta e baffuta, è disprezzata da tutta la famiglia, ma si rivela una persona di cuore molto superiore al marito, bamboccio viziato e senza spina dorsale.
Il racconto è tenero, dolce, bello per come sono descritti i rapporti tra le persone, e in particolare l'amicizia e il matrimonio poi andato a monte tra Caterina e Kit. Sembrano affetti infantili e innocenti non contaminati dalle miserie del mondo che nonostante tutti gli avvenimenti conservano la loro purezza e innocenza.
Bella anche la sfaccettatura di sentimenti che le sorelle nutrono per il grande uomo: affetto, tenerezza, senso di protezione, invidia, gelosia, senso di ingiustizia e di rivalsa. Ma tra tutti prevale la dolcezza e la tenerezza. Malinconico il racconto successivo La madre, in cui i figli vedono sbiadire nella memoria la figura della loro madre morta suicida che non li ha mai molto amati. Sagittario mi è piaciuto meno degli altri due racconti anche se devo ammettere che l'ironia tenera della Ginzburg mi sta lentamente conquistando.
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Però è ariete
In questo romanzo la Ginzburg ci presenta sua madre. La madre di Natalia non è cattiva, non è calcolatrice, non è subdola, ma gli altri difetti ce li ha tutti: invadente, ingenua, impulsiva, impicciona, rompiscatole, superficiale e così si potrebbe andare avanti all’infinito. La consolazione per le lettrici-sagittario è che il titolo non viene dal suo segno zodiacale ma dal nome del locale che avrebbe voluto aprire con la sua amica. Nemmeno a dire che l’amica, lei sì sagittario, se l’era andata a scegliere nel mazzo. Mentre la madre di Natalia, è un personaggio buffo da commedia, quasi caricaturale, la sorella Giulia, silenziosa e malinconica le fa da contraltare. La madre è raccontata in prima persona da Natalia con affetto e ironia.
Bello il finale con l’ultima frase dedicata alla sorella e riportata come pensiero di quella madre superficiale per tutto il racconto, finale escluso. Il finale rende il racconto meno sciocco dandogli un retrogusto malinconico e uno spessore.
Adesso mia madre capiva il senso di quel sorriso. Era il sorriso di chi vuol essere lasciato in disparte, per ritornare a poco a poco nell'ombra.
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Uomo-dipendenza
Simone ci propone 3 racconti, tre diversi casi di uomo-dipendenza affettivo-socio-economica: nel primo, il più bello, una donna viene tradita dal marito e accetta di condividerlo con l'amante che piano piano la spiazza. Nel secondo racconto viene analizzato il legame morboso madre-figlio, morboso da parte di lei soprattutto. Infine l'ultimo racconto è interessante anche dal punto di vista stilistico. Parla di una donna cui è morta la figlia suicida, sola, in quanto i diversi legami che ha avuto sono tutti alle spalle. Il suo problema è il vuoto, la solitudine, spazio nel quale si fanno avanti incubi e rimorsi.In quest' ultimo racconto c'è una destrutturazione della frase, manca parte della punteggiatura, il linguaggio è sguaiato, un flusso di pensiero farneticante e ossessivo, ai limiti della follia. Le scelte stilistiche vogliono rendere più evidente proprio la smarginatura della donna, il fatto che sia arrivata al limite, alla famosa frontiera tra malattia e salute mentale. Così il linguaggio e l'uso del flusso di pensieri connessi dalla memoria e non da una riflessione della donna che non ne è capace, rendono il suo stato esaltato e quasi maniacale ma la si intuisce in bilico, prossima al baratro della depressione . Molto interessante. In più punti la dipendenza economica dagli ex mariti è tirata fuori.
Il secondo racconto è bruttino, invece il primo mi ha sorpreso perchè Simone, donna dura a quanto si legge dalla sua biografia, descrive alla perfezione i pensieri della moglie che sta per essere lasciata dal marito, l'amore della sua vita, i suoi dubbi, i suoi pensieri ossessivi e inconcludenti. Anche il marito per quanto egoista e bugiardo, è raccontato in modo credibile e il suo atteggiamento e i suoi pensieri sono comprensibili per il lettore. Non è un mostro ma una persona come tante, con una sua sensibilità per quanto fatichi a tenere conto dei sentimenti della moglie. La donna nemmeno in questo racconto lavora e l'indipendenza economica è considerata fondamentale dall'autrice per la libertà del pensiero e per l'affrancamento dalle dipendenze psicologiche. Simone è una donna di grande sensibilità e intelligenza. La sua vita mi stupisce ancora di più dopo la lettura dei tre racconti. Non riesco a far combaciare l'immagine della scrittrice e la sua vita. Forse ha voluto dimostrare come sarebbe stata la sua vita se non avesse preso in mano il timone in tempo facendo le sue scelte di libertà. Il fatto che la donna del primo racconto non si prenda l'amante è fatto notare al lettore come un passo falso della donna, un grave errore.
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Bella e nuova
Nuova: forse non sono io la persona più adatta a dirlo non conoscendo la vecchia Mariapia Veladiano ma certo dalle recensioni degli amici lettori sui suoi precedenti romanzi, dagli incipit me la immaginavo molto diversa. Mi aspettavo, avendo letto la prefazione, un romanzo sulla seduzione, questo sì, ma con redenzione del seduttore o almeno un tentativo di redenzione a suon di salmi. Invece niente. La nuova Maria Pia lascia Dio sul Suo trono e al seduttore ci pensa lei: lo serve al lettore, tagliato a fettine sottilissime con contorno di fiori e flambè al fuoco della passione naturalmente. Il romanzo è molto bello, davvero diverso da come me lo aspettavo: tagliente, affilato direi, diretto, schietto.Bianca, la protagonista è una donna bella e brava, una che va a testa alta. Una persona che ama l’arte e si circonda di cose belle. Anche lui ama l’arte e si circonda di cose belle, cose e persone, un occhio alla cartella con i dipinti e l’altro alle gambe dell’artista. Mentre Bianca è una persona trasparente per il lettore, non ci nasconde nulla, lui invece è difficile da capire anche se viene vivisezionato nei suoi modi costruiti e nelle sue strategie che funzionano sempre. Elsa Morante direbbe che Mariapia ci ha raccontato la storia d’amore tra la donna-fiore e l’uomo-camaleonte, perché il tratto più tipico di lui è questa rara capacità di capire al volo chi ha davanti e di usare le parole giuste e diverse per ogni donna, una qualità rara. Dodici donne e anche qualche uomo perdono la testa per lui con un totale di tre suicidi. Lui è un bell’uomo, alto 2 metri, ma niente di speciale. La sua bellezza è tutta nei modi di solito perfetti e soprattutto calibrati sull’interlocutore. Certo la storia d’amore tra i due sembra, come dice il titolo, perfetta ma a un certo punto lui sparisce, si nasconde sperando che Bianca sopravviva al dolore. Certo non si capisce perché lui scappi da Bianca. E’ un uomo calcolatore, seduttore e Bianca gli sembra bellissima. Ha 100 cartelle e con quelle potrebbe mettere le mani su una miniera d’oro. Se fosse un po’ più calcolatore dovrebbe restare con Bianca almeno fino all’esaurimento della miniera, potrebbe sfruttare qualche altro filone. Io credo che questa fuga, così poco conveniente dal pdv economico, sia la dimostrazione che lui tiene a Bianca. Forse è il gesto generoso di una mente storta che intuisce che tirare la storia per le lunghe renderebbe l’inevitabile colpo della separazione mortale. Il lettore vorrebbe immaginare un gesto protettivo da parte di lui anche se espresso in una lingua straniera. Certo, Bianca, come le altre donne si è abituata al suo camaleontismo e naturalmente ha preso sul serio le sue parole in lingua-Bianca. Ma lui non ha mai fatto promesse. Non ha mai fatto promesse a nessuna donna. Probabilmente nella sua vera lingua, quella incomprensibile alle donne, segue la famosa filosofia della passione: eterna per un solo istante. Per cui non ci sono promesse, non c’è domani, c’è solo l’oggi.
La sincerità dovuta è solo quella ai propri sentimenti. Il finale lascia intuire il suo rimpianto per qualcosa di bello che si è perso e al lettore dispiace un po’ per lui anche se è solidale con lei che non si lascia schiacciare e abbattere e esce dalla dura prova nuova e bella e … con tante nuove cartelle.
Il romanzo oltre che essere piacevole, bello, di facile lettura ha qualcosa di buono, come credo l’abbiano tutti i romanzi di Mariapia, qualcosa che paragonerei ai gorghi buoni che sputano la gente fuori dal fiume dandogli un po’ di carica, facendola sentire anche lei nuova e bella.
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Care amiche lettrici se lui lavora fino a orari impossibili anche se è disoccupato o peggio dipendente pubblico e quando torna non sembra distinguere tra voi e l’armadio regalatevi subito il libro della Veladiano e vi consolerete subito con l’idea che vi poteva capitare anche di peggio.
Paradiso perduto
Anche questo romanzo come l’amore molesto e i lunedì blu tratta del rapporto madre-figlio, rapporto edipico che si fa con la malattia materna ambivalente e insicuro e che è caratterizzato dalla paura dell’abbandono, una realtà di fatto più che una paura. Il romanzo ripercorre la storia della cacciata dal paradiso materno del piccolo Manuelino, amatissimo dalla prima Aracoeli, la madre-bambina (anche il nome ricorda il paradiso)poi sempre più ai margini fino al periodo dell’aggravarsi della malattia materna in cui il povero bambino diventa invisibile al padre e alla madre. Dimenticato dai genitori è tirato su dai terribili nonni ( le statue parlanti, i due convitati di pietra) che non hanno per lui nessun affetto ma molte aspettative (l'educazione, la mascolinità).
L’approccio con la Morante è stato per me abbastanza difficoltoso. La lettura a un primo impatto sembra incepparsi per le parole obsolete, la lungaggine, lo stile ricercato che si pongono come degli ostacoli. Ci vuole pazienza: ci vuole tempo per entrare nella storia e nel mondo di Elsa, poi la scrittura diventa luminosa e in certe pagine ha dei lampi di assoluto genio, usa delle immagini bellissime. Entrandoci un po' più in sintonia si intuisce che quello che sembrava un gusto retro (in fondo scrive ai tempi di Moravia non di Manzoni) cela invece l'ambizione di inventare per il proprio mondo una propria lingua che usa le parole in modo leggermente diverso dal solito e che suggerisce immagini. La storia potrebbe essere morbosa, scabrosa, torbida in mano a qualcun altro, per esempio al suo ex marito: una madre per un tumore al cervello manifesta una ossessione per il sesso che aumenta di gravità fino a stravolgerne il carattere, a farle dimenticare l’amato marito e l’amatissimo figlio. La cosa bella è che la vicenda scabrosa non è mai guardata con curiosità molesta o compiacimento o con il gusto del torbido ma attraverso gli occhi innocenti e fantasiosi del bambino. Il racconto è magico, tra realtà e sogno, tra fiaba e ricordo. Il miscuglio è bellissimo, e ci sono delle immagini indimenticabili: il mare, Aracoeli, le due statue parlanti, il toro nero, la donna cammello. E’ comunque una storia piena di affetto oltre che di dolore: del figlio per la madre ma anche per il padre, di Aracoeli per marito e figlio, per non parlare del padre che ha per la moglie un amore assoluto e incondizionato, forse eccessivo, nel senso che la madre oscura Manuelino che finisce dimenticato dai nonni e comunque subisce il trauma del plurimo abbandono e la cacciata definitiva dal paradiso. I sentimenti ci sono e sono forti ma non arrivano, si perdono per cui ognuno è allo sbando per conto suo ma con la sensazione di non avere perso proprio tutto. Ognuno si rifiuta di adottare la condanna rigida del mondo benpensante nonostante la realtà della debolezza e del tradimento. C’è la consapevolezza che dietro ogni tradimento non c’è un calo d’amore ma la malattia del corpo e dell’anima contro cui è impossibile lottare. La storia è comunque triste perchè ogni personaggio viene abbandonato a se stesso.
“Io se fisso il cielo stellato fino in fondo, lo vedo tutto una fornace nera, che schizza braci e faville; e dove tutte le energie da noi spese nella veglia e nel sonno continuano a bruciare, senza mai consumarsi. Là, dentro quella fornace planetaria, si sconta la nostra vita. E’ qua, dalle nostre vite, che l’intero Là succhia tutta l’energia per i suoi moti. E allora, io vorrei che venisse il Sabato della paga finale, dove l’intero firmamento si spegne.”
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Hard rock
Il caso: questo individuo che uno si immagina soprattutto indifferente, che ti può far vincere al gioco o bruciare la casa… Be’, non è di questo pacifico individuo che tratta il romanzo di Auster. Forse non bisognerebbe nemmeno chiamarlo Caso.
Perciò, se come me, prendendo questo romanzo in mano, vi immaginavate una innocua partitella a poker con batosta finale dei nostri eroi, cioè un romanzo alla Tevis, avete sbagliato libro.
Il caso, se vogliamo continuare a chiamarlo così, inizia adagio la sua musica. Il protagonista del romanzo Jim, un pompiere, scopre il gusto di viaggiare spingendosi sempre più lontano con l’auto, il gusto diventa un’esigenza e infine una necessità. Non pensa ad altro. Lo stato mentale del viaggio compensa la sua irrequietezza, lo fa stare in pace con se stesso. Al viaggio sacrifica perfino un amore. Ha ricevuto un’eredità, lasciato il lavoro e si dedica al viaggio che diventa il suo stato d’essere. Viaggia non per vedere, non per conoscere ma per viaggiare. In uno di questi viaggi incontra un giocatore di carte, Jack Pozzi, bravo e geniale, e decide di finanziare con tutto il gruzzolo dell’eredità che gli resta la partita di Pozzi con due miliardari: se vince potrà continuare a viaggiare senza necessità di fermarsi. Se perde …
Non voglio raccontare il romanzo se no toglierei il gusto al prossimo lettore. Dico solo che il caso perde la sua faccia di assoluta indifferenza. Jim intuisce nei due miliardari qualcosa di strano, non sono i buontemponi sprovveduti che pensava, hanno qualcosa di feroce, una ossessività nei pensieri, una precisione paranoica nelle cose che portano avanti. Ha persino un’intuizione di sadismo, di follia lucida. Ma come immaginare l’iceberg sotto la punta che potrebbe essere visibile in ogni essere umano? Come non fidarsi in parte, in piccola parte, almeno, come immaginare che l’altro è un gatto che ha bisogno del suo topolino con cui giocare? Piano piano il lettore incredulo si trova catturato dal grado di stranezza crescente delle situazioni, catturato mentalmente perché l’ambiguità, la mancanza di punti fermi e di riscontri, l’impossibilità di confrontarsi con chiunque, di fidarsi di chiunque hanno costruito il muro attorno ai due amici. Il caso suona ora la sua musica martellante e ipnotica. La follia del mondo attraversa il mondo e contamina i nostri eroi turbando il lettore, fino alla bellissima conclusione. Il romanzo è in crescendo di tensione e di interesse. E’ il tipo di storia che di solito cerco di non leggere ma devo dire che mi è piaciuta.
Credo che ci siano elementi simbolici: l’automobile piena di musica (la libertà), il viaggio (la ricerca di sé), il muro (la prigione), la lettera (il messaggio) , la pistola (la minaccia), la partita (il caso), il bambino (l’innocenza).
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Rapporto madre-figlio (Edipo)
Anche in questo romanzo si tira fuori il complesso di Edipo:la madre di Marek passa da un uomo all’altro. Marek si sente invisibile. Nel libro la descrizione della madre di Marek è bellissima.
“Mamma era una stella, ma una stella senza un mestiere vero e proprio. Erano in pochi ad averla vista brillare, e ancor meno sapevano che il mestiere che si era scelta era suscitare desiderio. Un mestiere pericoloso, più pericoloso che cantare all’opera o scrivere. Eppure, se penso a come mamma faceva il suo ingresso nel negozio di fiori di Ralf Szalapka e come la sua semplice presenza potesse pietrificare le persone, mi domando se il mondo abbia apprezzato nella giusta misura i meriti della sua arte. Un’arte che consisteva in promesse, mezze verità, intrighi, un gioco che sfociava di continuo nel desiderio dell’amore di mamma e ancor più nel desiderio di liberarla dall’inaccessibilità e dall’infelicità che le restava incollata addosso.”
Marek forse perché si sente sotto giudizio della madre, decide di dedicarsi all’amour fou. Ha già deluso la madre in tante cose, non ha talento per la danza, campo in cui lei lo vorrebbe bravissimo e così spera di diventare “simile a lei” ma purtroppo non ha le doti naturai necessarie nè fisiche nè caratteriali.
“Quando la signora dell’accademia di danza aveva detto che il ballo poteva sempre diventare un hobby, qualcosa da fare nel tempo libero, mamma mi aveva tolto subito dall’accademia. Ci sono molti modi per fallire, ma fallire agli occhi di chi ti ha messo al mondo è uno dei modi più amari che io conosca.”
Marek dall’accademia passa a studiare filosofia.
“Secondo Camus l’unica domanda filosofica che conta è se devi o non devi vivere. E’ anche per rispondere a questo interrogativo che ho deciso di studiare filosofia e naturalmente è stato un atteggiamento molto ingenuo. Avrei avuto gli stessi risultati se avessi studiato chimica. O se avessi dato l’assalto a un panificio”.
La parte iniziale e finale della storia sono brillanti e geniali. La parte in mezzo ha un calo di tensione in cui Marek si butta, come nel precedente romanzo Lunedì blu, sul sesso. In questo caso la questione che lo interessa è la geometria del suo pene. Questo aspetto è tirato un po’ troppo per le lunghe, soprattutto per i lettori over 25.
Anche se questa parte centrale è abbastanza scontata, non si può però dire che l’autore sia stupido perché delle parti del romanzo sono geniali e divertenti. Nonostante che sembri voler far ridere c’è un fondo di amarezza abbastanza evidente soprattutto nelle pagine finali per cui ci sembra che Marek- Arnon ha scherzato con il lettore, ma solo fino a un certo punto.
“Se vita è qualcosa che si può negare, allora scrivere è decisamente la sua negazione, una delle negazioni più sottili e insidiose della vita.”
“Il fatto che abbia deciso di raccontare la storia della mia calvizie non deriva dalla speranza segreta che qualcuno scorga in me del talento, o, Dio me ne guardi, del genio. Non l’ho fatto per liberami della mia mediocrità così come il Brechespitz quel giorno sembrava essersi liberato dello Spitzingsee ma perché la vanità si è rivelata più forte di tutto ciò che sapevo sui miei difetti.”
Ma oltre alla vanità, qualcosa di diverso si nasconde dietro la definizione di romanzo. Una verità mescolata di bugie raccontata sotto la n di narrativa, dove vigono leggi e regole diverse da quelle del mondo. Per cui sotto la fatidica n si può confessare impunemente il proprio disagio e la propria immoralità.
Sotto la fatidica n può valere la pena di raccontare donne come la mamma di Marek o Mica. Di Mica si dice nel romanzo: Quella donna è una meraviglia del mondo ma è una benedizione che non abbia messo al mondo dei figli.
Questo romanzo è diventato famoso per avere vinto per la seconda volta un famoso premio per esordienti, cosa in cui nessun altro era mai riuscito prima, nel senso che nessuno degli altri aveva avuto la faccia tosta di farsi passare per esordiente quando non lo era più usando uno pseudonimo.
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Rapporto madre-figlia
Questo romanzo di Elena Ferrante è uno dei più belli dell’autrice, un romanzo onirico e simbolico che andrebbe analizzato non solo dal punto di vista letterario ma psicanalitico. E’ un romanzo pieno di immagini, e spesso il racconto assume la dimensione fantasiosa del sogno. Fin dall’inizio, con la prima riga: Mia madre annegò la notte del 23 maggio, giorno del mio compleanno, ci fa entrare nel vortice emotivo di rapporti famigliari in cui i congiunti si amano di un amore storto. Molesto è l’amore della madre per la figlia ma anche della figlia per la madre, o del marito per la moglie. Le molestie del vecchio sporcaccione non hanno lo stesso grado di malignità insita in questi rapporti e non fanno gli stessi danni.
L’amore più doloroso e difficile, più ambivalente è senza dubbio quello tra figlia e madre. E’ un amore minato dalla paura dell’abbandono, dalla sfiducia, dalla ambiguità della figura materna e infine dal senso di colpa della figlia sia per la morte della madre che per la vita della madre. Il senso di colpa esplora anche il sentimento di gelosia per la madre, un sentimento maschile simile e quasi più forte della gelosia ossessiva paterna. Delia è gelosa del padre che sente rivale, dell’amante (vero, presunto o possibile) della madre, delle persone che rivolgono la parola alla madre, dei sorrisi, dei pensieri di lei. L’amante della madre è una figura irreale, ingigantita e resa onnipotente dalla fantasia della bambina. La madre di Delia è una donna a due volti. Ha più di sessant’anni, età in cui una donna non si sente nemmeno donna. Eppure Delia ne dà al lettore una doppia immagine: vecchia e giovane, la donna con il ventre cascante e le mutande slabbrate e quella dalle gambe giovani, con il reggiseno sexi con cui è stata trovata, che ride con gli uomini, il cui corpo sembra gonfiarsi di una sensualità fuori controllo.
Delia descrive le sua ansie da abbandono: da bambina si chiude nello stanzino perché ha paura che la madre non torni, teme che incontri un uomo che gliela porti via. Da grande aspetta una sua telefonata per una giornata intera e ha paura che le succeda qualcosa nel viaggio come in effetti succede. L’amore della madre per la figlia non è sano, non è sicuro. La donna le manda messaggi contraddittori.
Ultimo ma non meno significativo, si suicida il giorno del compleanno di Delia. Quale regalo più crudele? Però, nonostante il suicidio e le telefonate strane alla figlia che come a cinque anni è a casa in pena attaccata al telefono, pensa a farle un regalo di compleanno: una valigia con vestiti della sua taglia e con biancheria femminile di lusso.
Il rapporto madre-figlia ricorda molto il rapporto madre-figlio di Purdy descritto nella versione di Geremia: un amore ossessivo in cui il figlio ammette di non poter amare altre donne che la madre. L’ambiguità materna si trasmette da madre a figlio come un’eredità e in un certo senso anche il regalo dei vestiti sembra andare in questa direzione. Sembra che la madre, sfuggente, debba essere incorporata da Delia dentro si sé per poterla avere con sé. Delia si allontana da se stessa per poter avvicinare lei e sentirsi Amalia.
Questa condizione di allontanamento da sé e di perdita di identità è accentuata dal senso di colpa, dalla bassa opinione che Delia ha di se stessa. L’unico modo per avere la madre con sé è introiettarla e intrappolarla dentro di sé al posto di sé. Il romanzo segue un percorso di riscatto e in parte di recupero ma soprattutto della figura materna. Il percorso seguito dal romanzo non è “sano” per la figlia che insegue la madre per la strada della nostalgia, del rimpianto, del senso di colpa. Fondamentalmente , la morte della madre mutila e manipola il tentativo di Delia di inseguire la verità sulla madre. Delia sente la necessità di salvarla più che di salvare se stessa. A un certo punto il lettore si trova al bivio ma da lì Delia allontana anche il lettore da sé, cerca di spingere la sua simpatia verso sua madre. Il conflitto non viene dunque risolto se non con il sacrificio di Delia .
Il percorso di difesa di Delia bambina e di comprensione per l’amore difettoso dei suoi non è portato avanti. C’è rancore di Delia per se stessa, la violenza che subisce da parte di Caserta nonno non suscita nessuna pietà in lei. Pensa di essersela meritata e cercata. Delia anche nel romanzo resta una figura smorta rispetto alla madre. Fisicamente la sua sessualità e la sua femminilità sono discutibili. Il suo corpo magro e muscoloso è descritto in alcuni momenti del racconto come maschile e in altri come femminile. Il racconto non riesce mai a smontare come invece dovrebbe (non per una riuscita letteraria ma di percorso psicologico) le radici del senso di colpa di Delia, di conseguenza il cammino di avvicinamento alla madre non passa per la consapevolezza del sé ma per la perdita dell’identità. Il sé lontano e indegno è sostituito da un ego lontano dal conoscersi, dall’accettarsi e dall’amarsi. Un ego che si sfama dello stesso amore insoddisfacente che la madre e il padre hanno vissuto nella loro vita in un perpetuarsi malato degli stessi errori. Delia ne è consapevole e interrompe la catena opponendo al meccanismo che intuisce perverso il suo rifiuto di avere figli. Non tenta però di percorrere la strada di smontare il senso di colpa legato alle pulsioni infantili incestuose. E’ curioso come il senso di colpa per pulsioni e emozioni resti prepotente e che spesso persone con simili traumi anziché smontare il meccanismo perverso del senso di colpa tendano a minare il senso morale che ha una funzione positiva e necessaria. Io credo che dipenda dalla profondità del senso di colpa e dal fatto che uno continui a guardarsi indietro con gli occhi di bambino e non di adulto condizionando però la vita da adulto. Delia non tenta di avvicinarsi ai suoi sul piano della realtà ma della fantasia e del sogno. Anche lei decide di restare avvolta dallo stesso sogno, dalla stessa nebbia da cui è forse affascinata.
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Il ponte (premio Pulitzer 1928)
Questo romanzo è di quelli che fanno bene allo spirito perchè pervasi di ottimismo verso la vita e proiettati oltre la vita. E' un romanzo in un certo senso didascalico di quelli con intento morale ma non è retorico nè pedante per cui nonostante sia datato conserva la freschezza di quando è stato scritto.
E' un romanzo che potrebbe sembrare ingenuo, come il personaggio del frate che l'ha scritto, ma lascia una leggerezza che non ha niente di ingenuo o di superficiale. Anzi. I personaggi sono tutti un po' particolari ma sono descritti dall'autore nei loro pregi e soprattutto nei loro difetti con una simpatia che coinvolge e fa venir voglia di leggere tutta la storia.
Il romanzo è scritto da frate Ginepro che assiste al crollo del ponte di San Luis Rey in Perù, un ponte bellissimo che sembrava dovesse essere eterno. Cinque persone muoiono nell'incidente. Il frate si pone la solita domanda: quelle persone erano peggio di altre? Perchè proprio loro sono morte?
Per rispondere a questa domanda fa indagini sui cinque e il romanzo racconta le loro storie: storie tenere, buffe, simpatiche, dolci. C'è la Marquesa, con il suo bisogno infantile di essere amata dalla figlia che impara il coraggio dalla sua domestica dodicenne Pepita; i due gemelli inseparabili e identici Manuel e Esteban; zio Pio, e la sua protetta Camila Perichole lui uomo coltissimo lei attrice molto talentuosa anche se mai abbastanza per lo zio, perfezionista fino all'inverosimile. Le vicende di tutti si intrecciano con quelle della Badessa che viene fuori come figura nella sua bellezza soprattutto alla fine del romanzo.Carina l'idea del frate che nel tentativo di capirci qualcosa sul destino classifica le persone in base ai parametri bontà, devozione, utilità in occasione di una epidemia di peste (es Vera N. la scostumata ma praticante modello: bontà 0, devozione 10, utilità10) per arrivare all'incredibile risultato che il destino sembra sfavorire i buoni per 1 a 5. Perplesso per il risultato, il buon frate passa allo studio del ponte:
"egli credette di vedere nella stessa catastrofe, i perversi colpiti dalla distruzione e gli innocenti chiamati giovani in cielo. Gli parve di vedere l'orgoglio e la ricchezza confusi come un esempio al mondo, e gli parve di vedere l'umiltà incoronata e ricompensata, a edificazione della città."
Frate Ginepro viene condannato a morte come eretico; la badessa sembra costernata e colpita dalla morte di Pepita e dei gemelli suoi protetti all'idea che ci sia dietro un disegno un avvertimento del destino. In effetti il disegno viene fuori nella sua bellezza e dolcezza,
"Presto moriremo, ed ogni memoria di quei cinque sarà scomparsa dalla terra, e noi stessi saremo amati per breve tempo e poi dimenticati. Ma l'amore sarà bastato; tutti quei moti d'amore ritornano all'Amore che li ha creati. Neppure la memoria è necessaria all'amore. C'è un mondo dei viventi e un mondo dei morti, e il ponte è l'amore, la sola sopravvivenza, il solo significato".
Per cui il ponte, nonostante tutto, è ancora in piedi.
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Il potere e la libertà
Volevo vivere fuori della storia. Volevo vivere fuori della storia che l'Impero impone ai suoi sudditi, anche a quelli perduti. Non ho mai augurato ai barbari il fardello della storia dell'Impero.
Coetzee avrebbe meritato il Nobel solo per questo libro. Il romanzo è bellissimo e ha più livelli di lettura. E' una storia d'amore per una donna, d'amore per la libertà, di rifiuto della barbarie della menzogna imposta dalla necessità di conservare un ruolo di potere, di rifiuto di un ruolo di potere (attribuito dall’Impero) che pregiudichi la libertà della coscienza. L’Impero è la nostra civiltà, la nostra nazione, la nostra fede religiosa, la nostra mancanza di una fede religiosa. Non è identificabile se non come ciò che distingue noi dagli altri.
Il protagonista è un magistrato. Una persona non cattiva che cerca di amministrare la giustizia al meglio. Ma nel suo villaggio arrivano uomini dell'esercito come il colonnello Joll e le cose cambiano. Il magistrato si rende conto che Joll usa il potere in modo arbitrario, ricorre alla tortura e all’omicidio. I soprusi sono sempre di più e non fanno che aumentare per entità e gravità. L'Impero deve essere difeso dai nemici, i barbari, gente che vive nomade sui monti con archi e frecce, lontano dalla civiltà. Il magistrato pur avendo anche lui il potere conferitogli dalla sua carica e dunque dall'impero non può opporsi agli altri funzionari. Il potere che ha è apparente: è chiaro che il magistrato è una pedina dell'impero, uno schiavo.
A questo punto il magistrato si innamora di una barbara accecata e torturata dal colonnello e la prende in casa. Forse il suo amore non è solo per la donna ma per la libertà che lei rappresenta, libertà di coscienza e libertà dalla sudditanza all’Impero. La storia è abbastanza strana: più di compassione che d’amore, e comunque senza sesso. E’ chiaro anche al magistrato che una storia d'amore per essere vera richiede pari libertà delle parti, dunque decide di riportare la ragazza nelle montagne dai suoi fratelli barbari. Il viaggio è bellissimo tra paludi, tempeste, neve. Un viaggio catartico. A quel punto le chiede di tornare indietro con lui ma lei rifiuta.
"Se lei me l'avesse detto allora e io avessi capito, se fossi stato in condizioni di capire, se le avessi creduto, se fossi stato in condizioni di crederle, avrei potuto risparmiarmi un anno di stupidi e inutili gesti di espiazione."
Al ritorno l'espiazione del magistrato continua perchè viene imprigionato e torturato in quanto accusato di intrattenere rapporti con il nemico. La prigionia e la perdita del potere e dell' autorità sono per lui liberatorie in quanto è ormai chiaro che il potere conferito dall'Impero è soprattutto una forma di schiavitù dell'anima, la peggiore forma di schiavitù.
Inizia una guerra contro i barbari nata dal nulla e apparentemente senza senso.
"L'Impero si condanna a vivere nella storia e complotta contro la storia stessa. Un solo pensiero occupa la mente sommersa dell'Impero: come non morire, come non finire, come prolungare la sua era. Di giorno insegue i suoi nemici. E' cinico e duro e sguinzaglia ovunque i suoi scagnozzi. La notte si nutre di immagini del disastro: città saccheggiate, popolazioni violentate, piramidi di ossa, ettari di terre devastate. "
In ogni caso i soldati liberano il magistrato, scappano davanti ai barbari forse in arrivo. C'è un clima da deserto dei Tartari. Solo il magistrato spera nel ritorno dei tartari, soprattutto della ragazza che ha liberato.
Il romanzo si chiude sul mondo di tranquille certezze che sta per crollare, sul salvatore armato di spade che forse arriverà dando all'uomo un'altra possibilità di costruire un paradiso terrestre.
Cade la neve, simbolo di purificazione. Il magistrato che ha sognato per tutto il romanzo una bambina che costruisce un castello con la neve osserva nella realtà i bambini che costruiscono uno strano pupazzo di neve senza braccia. La ragazza che aspetta non arriva.
"Non è questa la scena che sognavo. Come tante altre cose ormai, me la lascio alle spalle sentendomi stupido, come uno che ha perso la strada tanto tempo fa, ma continua per una via che forse non lo porterà da nessuna parte."
Il romanzo è bellissimo. La conclusione è triste: c'è lo smascheramento del potere. Chi ha potere lo ha in quanto schiavo di altri (dell'impero o comunque del suo Imperatore). Ma la strada della libertà è incerta e passa per le montagne, per le terre dei barbari aspre e inospitali senza cibo nè acqua. Lascia solo un'apertura all'umano, che è l'unica cosa in cui si può sperare.
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Fortuna favet fortibus
Il romanzo è a tratti arguto, a tratti scontato e dal messaggio non chiaro. Forse se il messaggio fosse stato più chiaro, tipo la ricchezza non fa la felicità, il libro sarebbe irrimediabilmente precipitato nel banale. Io credo che l'autore se ne sia reso conto restando perciò un po' più sull'indecifrabile e lasciando al lettore la scelta del messaggio nascosto perchè da un simile romanzo uno si aspetta un messaggio nascosto.
Io scarterei la ricchezza non fa la felicità perchè allo stesso modo nemmeno la povertà la fa e probabilmente la felicità non è di questo mondo. Il protagonista Adam si occupa di finanza e l'autore ci lascia ben capire che è un uomo senza scrupoli morali nel suo lavoro che non esita a azzardare con il danaro altrui per non far mancare il superfluo alla famiglia e soprattutto alla moglie che ama. Il figlio ci suggerisce che l'amore è la chiave di lettura. Nella sua famiglia un po' strana l'amore è l'unica cosa che conta: il resto è solo in vestito da sera. Non c'è secondo me una vera morale se non quella latina: fortuna favet fortibus. Tanta ricchezza bisogna avere le spalle robuste per sopportarla come il protagonista Adam e forse (meno) sua moglie se no può avere effetti collaterali pericolosi. Loro forse se la sono meritata anche se a scapito di chi non la merita. Ma questo per l'autore non conta, non dà un giudizio morale sulla ricchezza e le modalità truffaldine di procurarsela come fa in un certo senso Jorge volpi nel suo Memoriale dell'inganno.
Certo i figli di Adam, cresciuti da una madre troppo tenera, non sono altrettanto in gamba da sopportare il vuoto di una vita senza problemi in cui i soldi risolvono velocemente ogni questione per cui si crea un eccesso di tempo libero, una specie di vuoto interiore, che attira i figli della coppia, soprattutto April in droga, frequentazioni di gente losca e pericolosa ecc... Ma anche Jonas il figlio, che sembrerebbe sopravvivere bene alla ricchezza dei suoi dimostra debolezze simili a quelle delle sorella, per cui alla fine dei conti, l'autore conclude il romanzo buttandosi sull'amore. Ma anche a proposito d'amore ha la stessa visione confusa che aveva sulla ricchezza.
Al ritorno ho cominciato a temere che il nostro rapporto stesse diventando troppo intimo. Ti lascio. Ti avevo lasciata, poi ho cambiato idea e sono tornato. Vuoi sposarmi? .....Al ritorno sono finito in un fosso. Sono stato rapinato, ho battuto la testa e ho avuto un'amnesia. Non ricordo più nulla di ciò che è successo prima di ieri. Ho trovato il tuo indirizzo nel portafogli. Non ricordavo più il tuo nome. Non lo ricordo ancora. Andiamo a procurarcene di nuovi. Offro io.
La conclusione confusa è la parte che preferisco del libro.
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La stessa storia nella storia
Il romanzo affronta il tema della contraddizione possibile tra amore e passione. L'amore esige il rispetto di chi si ama, la passione il rispetto dei propri sentimenti o meglio delle proprie inclinazioni che possono essere poligame o altalenanti o in contrasto con precedenti legami di amore/amicizia ma perfettamente sincere.
Il protagonista del romanzo 1 è Aaron, professore universitario, amico dell'aspirante docente George ma attratto dalla moglie di lui Helga, pur amando la propria moglie.
La vita di Aaron ci sembra in bilico come quella di chiunque, minacciata da un lato dalla passione disordinata per Helga e dall'altro dalla follia o dalla paranoia del marito di Helga e di diverse persone con cui per lavoro ha a che fare.
Aaron scrive un libro in cui il protagonista Allard è un ragazzo poco più che ventenne innamorato di due donne la bella e intelligente Noemi e la dolce Mary. Allard preso dalla duplice passione non ha rispetto nè per l'una nè per l'altra dimostrando una mancanza di intelligenza emotiva e di empatia quasi assolute. Harold, l'amico bacchettone e poco fortunato con le donne, ha invece una sensibilità ben diversa. Sia Harold che Allard scrivono a loro volta un romanzo e in ogni romanzo c'è qualcosa di verde che rappresenta l'amore per la ragazza tipo Mary ( inclusa la moglie del collega di Aaron) che incarna la purezza, l'innocenza che ogni autore e dunque Aaron, il responsabile della catena di romanzi, vorrebbe in qualche modo possedere.
Il romanzo percorre le vicende fino a dimostrare che l'amoralità che sembrava la soluzione proposta da Aaron/Allard in realtà porta nella vita delle ragazze un male che non meritano. Aaron si rende conto che volere bene a qualcuno può dover passare per la rinuncia a qualcosa che si desidera sinceramente con tutto il cuore. Le persone sono più importanti dei propri desideri.
Il finale rivela che Allard è l'alter ego di Aaron, quindi il romanzo racconta la sua storia vera.
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Tunnel dell'ego con finestra
Un pittore,Castel, io narrante del romanzo ci racconta come è arrivato ad uccidere la donna che amava o che riteneva di amare. Perciò non c'è ambiguità o suspense nei fatti. L'indagine è soprattutto psicologica.
L'artista vive nella certezza di non riuscire a comunicare con il pubblico: nè con i comuni mortali, nè tanto meno con i critici che a suo parere non capiscono nulla. L'unica persona che intuisce la chiave di lettura della sua ultima opera (una finestra in secondo piano) è una giovane donna. L'artista è dapprima ossessionato dall'idea di parlare alla donna che gli sembra l'unico ponte tra il tunnel in cui vive e il mondo. Il tunnel è probabilmente quello dell'ego che lo tiene chiuso come in una prigione. Quello che lo attira nella donna è la sua capacità di capire e dunque l'illusione di comunicare con l'esterno. In realtà la donna non fa che riflettere l' immagine dell'artista come il vetro di una finestra, un rispecchiamento narcisistico,simulando un'apertura inesistente. Non c'è apertura ma un muro di vetro. In ogni caso la donna è l'unica persona che si affaccia in qualche modo al vetro, una specie di finestra, che nessuno sembra notare. Questa consapevolezza di essere una specie di animale in gabbia, alla cui finestra per curiosità o per compassione si affaccia la donna si fa largo nell'animo dell'artista assieme alla consapevolezza che lei ha una sua vita altra là fuori nel mondo. Una vita separata dalla sua.
Il legame nato dall'esigenza di gettare un ponte con il mondo diventa piano piano un rapporto "d'amore" in cui la componente patologica possessiva e ossessiva è preponderante: ruminazione di pensieri da parte di lui e inafferrabilità da parte di lei che induce e aggrava la riflessione ossessiva dell'artista.
Pian piano diventa evidente che il tunnel dell'ego dell'artista non ha reali aperture e vie di comunicazione con il mondo nè l'artista sembra cercarne. D'altra parte la donna non vuole entrare e chiudersi nel tunnel rinunciando al mondo. La divergenza delle due posizioni aggravata dall'illusione iniziale di grandissima comprensione porta al tragico finale che è quasi liberatorio. La prigione mentale diventa una cella reale, con una piccola finestra sul mondo in cui rispetto a prima si ha quasi l'illusione di un allargamento degli orizzonti dell'uomo.
Il tunnel mentale viene invece murato per sempre chiudendo fuori il mondo.
E' esistito un solo essere che aveva capito la mia pittura. Per tutti gli altri questi quadri confermeranno ancora una volta il loro stupido punto di vista. E i muri di questo inferno saranno così sempre più ermetici.
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Da cervello a mente
Doctorow ci regala un libro bellissimo che non mi aspettavo da lui, nel senso che ormai dopo Homer & Langley lo consideravo uno scrittore bravo ma freddino e forse anche un po’ noioso. Invece questo libro è veramente geniale. Era da un po’ che sentivo il bisogno di una lettura così: intelligente, stimolante, affascinante ma non gelida emotivamente. Un libro bellissimo, spero tanto che vinca qualche premio. Una lettura difficile, nel senso che il libro è di quelli da rileggere perché alcune sfumature anche importanti possono sfuggire a una prima rapida lettura. Il romanzo ha tante chiavi: filosofiche, politiche, esistenziali, umane. Parla di torri gemelle ma non nel modo in cui siamo abituati. Parla di nostalgia, di dolore, di incapacità di vivere. Parla di politica in modo esplicito facendo riferimento al presidente Bush Junior, ai suoi errori (ha invaso il paese sbagliato, doveva convivere con la sua incapacità ecc…). Parla dei retroscena della politica e infine dell’amore e dell’amore per i figli. Di figli ne parla nell’ultima pagina in modo commovente, quella su Twain.
E’ un libro sincero, intelligente, spiazzante, geniale che non lascia mai indifferenti e che in ogni sua riga arriva al cuore o al cervello del lettore o anche da tutte e due le parti. Un libro intelligentissimo che si interroga su come un blocco di carne (il cervello) possa diventare mente rendendo umano l’uomo. Come sostiene Wittgetstein , colui che comprese meglio di tutti gli inganni del cervello pensante, scrutare dentro se stessi è pericoloso. Si passa attraverso infiniti specchi di autoalienazione che servono a non conoscere se stessi, una specie di percorso a ostacoli. In un certo senso il romanzo si può considerare esso stesso un percorso a ostacoli di evoluzione dell’io narrante (Andrew) e del relativo cervello: da Impostore a cervello collettivo a Pazzo santo (ovvero Andrew, finalmente).
Per tutto il romanzo, Andrew parla di sé con un interlocutore Doc, che non si sa chi è: uno psicologo, Doctorow, la coscienza come suggerisce il titolo?
Andrew , scienziato cognitivo,è un disastro, un catalizzatore di guai: si sente una minaccia per le persone che ama. Causa la morte di un uomo in un incidente, del suo cane, della figlia, della moglie. Non che sia colpa sua, ma chi può dire che non è colpa sua? Lo troviamo all’inizio del romanzo che porta sua figlia avuta dalla seconda moglie alla prima moglie chiedendole di badare a lei. Forse ha paura che solo per la sua vicinanza possa accadere qualcosa alla piccola e vuole tenerla al sicuro. Viene apostrofato come Impostore. Impostore è uno non pienamente cosciente di se stesso e dei guai che causa agli altri.
Il romanzo traccia il percorso che va da Impostore a Uomo, ovvero da cervello a mente e quindi a coscienza senza scomodare l’anima, Dio, e la religione. E questo è molto interessante. Non ci sono scuse, ostacoli: la coscienza è la meta di ogni individuo credente o meno. L’uomo è il Pazzo santo, tappa finale del percorso. Questa definizione o qualcosa di simile la troviamo in vari testi riferita al cristiano autentico e sicuramente a Gesù. Ma E. L. rifiuta categoricamente di lasciare ai credenti la proprietà privata di un simile percorso. Sottolinea in veri punti del romanzo che Mente non è anima e che il discorso sulla Mente deve essere indipendente da Dio cui lui non crede. Anche il non credente deve fare quella strada, dunque, se vuole diventare Uomo.
Bellissimo quando Andrew racconta della sua esperienza alla casa bianca. Della sua verticale ginnica davanti al presidente e ai suoi uomini. Di come solo diventando un pazzo, un pazzo santo, si è sentito per la prima volta uomo, Andrew.
Cos’altro potevo essere se il mio vecchio compagno di stanza (Bush) era l’Impostore? Perché questo indubitabilmente era. E mai più io sarei stato un’altra persona a seconda delle circostanze. Sentivo il mio cervello che diventava me, eravamo compiuti, risolti in una sola cosa. Mentre venivo accompagnato alla porta, mi girai e dissi quello che avrebbe detto un Pazzo santo: Tu sei solo il peggio fino a ora, c’è ben di peggio a venire. Forse non domani. Forse non l’anno venturo, ma tu ci hai mostrato il sentiero per la Selva Oscura. Immagino che stessi interpretando Dante in quel momento. Al mio compagno di stanza non piacque sentire quelle parole. Eddai Androide, disse ad alta voce, rilassati. Mi stava chiedendo di ritrattare? Si aspettava la mia benedizione? Ma come avrei potuto? Ciò che rende santo un Pazzo è che piange per la sorte del proprio paese. Tenni la schiena dritta, rivolsi un cenno del capo alle guardie e loro mi portarono via.
Sembra che la condizione di Pazzo Santo non sia particolarmente felice: porta all'isolamento, alla reclusione, alla riflessione, allo specchiarsi impietoso di chi ha esaurito gli specchi di auto alienazione di Wittgetstein, al deludere gli amici per dire una verità che si sente vera, al trovarsi soli a tu per tu con quello psicologo esigente e intelligente cui non si può mai sfuggire che è la proprio coscienza.
Però non pensate a un libro dogmatico o peggio didascalico. E’ un libro semplicemente geniale.
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Il coraGGIO DEL CAPITANO nEMO
Questo libro mi è sembrato molto poco americano, quasi di gusto europeo per l'attenzione ai particolari e una certa ricerca di raffinatezza nello stile. E' un libro bello in cui la bellezza allontana un po' dal contenuto raffreddando la lettura benchè alcuni personaggi come Werner e la piccola Marie Laure sembrano fatti per entrare nel cuore del lettore.
Comunque alcune idee sono belle per esempio il paragone implicito con il capitano Nemo con la sua lotta coraggiosa di Davide contro Golia con i mostri marini che assomiglia alla lotta di Marie Laure e famiglia contro il mostro storico del nazismo.
Certamente il fatto che la ragazzina sia cieca rende il lettore molto più vicino a lei. Anche Werner, il bambino sedicenne mandato in guerra o il suo amico sono belle figure. L'idea di dare la colpa al diamante delle sfortune della ragazza/nazione non è male.
Però fondamentalmente l'ho trovato un testo un po' troppo bello e letterario e distante dalla storia che racconta. Più sensibile alla bellezza che al destino dei personaggi con l'eccezione di alcune pagine su Marie Laure.
"Quando torno leggiamo. Lo finiamo insieme."
Lei cerca di imporre alla mente di riposare, di imporre al respiro di rallentare. Cerca di non pensare alla casetta che adesso sta sotto il suo cuscino e all'enorme peso che contiene.
"Etienne" sussurra, "ti ha mai dato fastidio il fatto che siamo venuti qui? Che mi hanno mollata a te e tu e madame Manec mi avete dovuta accudire? Ti è capitato di pensare che io avessi portato un meledizione nella tua vita?
"Marie Laure" risponde lui senza esitare. Le stringe una mano con entrambe le sue. "Sei la cosa più bella che sia mai entrata nella mia vita."
Sembra che nel silenzio si stia accumulando qualcosa, una marea, un frangente che drizza la cresta. Ma Etienne si limita a dire per la seconda volta:"Riposa e quando ti sveglierai sarò tornato" e lei conta i passi che scendono le scale.
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