Opinione scritta da Bruno Elpis
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“In solitudine tutto è permesso”
Ne “I turbamenti del giovane Törless” Robert Musil rappresenta la carica oscura e per certi versi turpe che sostiene la crescita sentimentale ed emotiva in quella fase della vita – l’adolescenza – che è oggetto d’attenzione dei cosiddetti romanzi di formazione.
La storia si svolge in un prestigioso collegio asburgico, ove il protagonista vive il dramma della temporanea separazione dai genitori in balia dei tumulti interiori, emozionali e intellettuali, e sotto il giogo delle dinamiche collettive che si scatenano nella prima esperienza totalizzante di vita consortile (“La notte però la gelosia con cui sorvegliava Reiting e Beineberg non lo lasciava dormire”).
Nonostante la personalità complessa e cerebrale (“Considerava inevitabile che una persona con una vita intima ricca e variata avesse dei momenti di cui gli altri non dovevano saper nulla, e ricordi da tenere in ripostigli segreti”), il giovane Törless partecipa alle intemperanze dei compagni, dapprima con animo contrastato frequentando una prostituta(“Törless divorava Božena con gli occhi, e nello stesso tempo non poteva togliersi dalla mente sua madre”), poi soggiacendo alle sottili insidie che gli esemplari dominanti - Beineberg e Reiting- continuamente tendono ai danni del più debole Basini (“Basini non era che un sostituto, un oggetto provvisorio del suo desiderio”), vittima di ricatti crudeli e pericolosi.
In questo campo di forze contrapposte(“Nel dormitorio si udiva soltanto il respiro tranquillo e regolare dei ragazzi…”), l’adolescente si dibatte tra i problemi filosofici (“L’infinito… in quella parola v’era qualcosa di terribilmente inquietante… un concetto addomesticato… e adesso ad un tratto si era scatenato”) e matematici (“L’idea dell’irrazionale, dell’immaginario, le linee che sono parallele eppure s’incontrano nell’infinito, dunque s’incontrano, in qualche luogo, semplicemente mi sconvolge!”), sperimentando la potenza dell’irrazionale che esplode con la complicità del luogo (“Non per la seduzione a cui era soggiaciuto – negli istituti non è cosa tanto rara”) e delle situazioni (“Törless ascoltava il respiro dei dormienti. C’era quello di Beineberg, quello di Reiting, quello di Basini: ma come distinguerli?”). Nel segreto di un solaio si celebrano così le torbide sedute nelle quali le personalità in formazione sperimentano spietatamente il gusto del predominio (“E come pensi di fare a impadronirti della tua anima?”) portato all’eccesso nella sopraffazione (“Morire non ci è alieno come tu credi. Moriamo ogni giorno, nel sonno profondo, senza sogni”).
La parte più interessante del romanzo, insieme alla descrizione fenomenologica dei turbamenti, è la reazione che Törless oppone alle imposizioni del branco, contrapponendo il proprio spirito (“Era la tenerezza mista a malinconia che noi sentiamo verso un passato conchiuso, quando nell’ombra delicata e pallida che ne emerge, con le mani colme di fiori mortuari, riscopriamo dimenticate somiglianze con noi stessi”) alla violenza, fisica e psicologica, e individuando per autodeterminazione la strada da percorrere per transitare verso la vita critica.
Bruno Elpis
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C’era una volta un re, seduto sul sofà.
Ne “La Sposa giovane” Alessandro Baricco costruisce una storia circolare governata dall’ansia dell’evento incombente.
La Sposa giovane, divenuta maggiorenne, dall’Argentina raggiunge la famiglia del promesso sposo (il Figlio) dopo tre anni di attesa.
Viene accolta dal maggiordomo che le illustra le liturgie di un nucleo ove i personaggi sono designati con ruoli parentali (il Padre, la Madre, la Figlia, lo Zio) in parte fittizi, così come nominale è il rapporto coniugale tra i genitori: una Madre dalla bellezza leggendaria, un Padre che frequenta settimanalmente il bordello ove le mestieranti hanno il compito di “condurre il Padre all’ampio delta di un orgasmo compatibile con l’inesattezza del suo cuore”. Fatto salvo un precedente originario: “Si sentirono abbastanza forti da sfidare insieme le due paure che si erano abituati ad associare al sesso. Lui di morire, lei di uccidere. Si chiusero in una stanza e non ne uscirono prima di essere sicuri che se c’era un incantesimo, su di loro, l’avevano spezzato. Per questo esiste la Figlia, che in quelle notti è stata concepita…”
I riti familiari sono condizionati dalla paura della notte (“Qui, anche i bambini che nascono di notte nascono morti”): per questo, ogni risveglio viene celebrato con sontuose colazioni, per festeggiare il pericolo scampato.
Il Figlio è assente, la sua sparizione viene camuffata con falsi invii di oggetti che preannunciano un ritorno continuamente rimandato.
Quando viene il tempo della villeggiatura, la Sposa giovane convince il Padre e ottiene di non partire (“Il dubbio che se solo avesse permesso a quella ragazza di aspettarlo veramente, il Figlio sarebbe tornato”).
Poi qualcuno torna, finalmente. Sarà il Figlio?
Nossignori.
Il finale assomiglia a quello della filastrocca circolare: c’era una volta un re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: raccontami la storia, la serva incominciò: c’era una volta un re…
Scimmiottando le personificazioni dei “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello e lo schema del “Teorema” di Pasolini (anche lì l’ospite conosce sessualmente tutti i componenti della famiglia), “La Sposa giovane” è un componimento originale negli intenti narrativi, nell’impostazione erotica (“Aveva da dirmi che la trama di destini cui aveva lavorato da anni il telaio delle nostre famiglie era tessuta con un filo primitivo, animale. E che, per quanto ci affaticassimo a cercare spiegazioni più eleganti o artificiali, l’origine di tutti noi era scritta nei corpi, in caratteri incisi a fuoco…”) e nel rappresentare le principali angosce esistenziali del relativismo (“Vedere come gli oggetti non portano in sé nulla del senso che gli diamo”), della labilità (“Il nostro passo non lascia tracce. Forse siamo animali astuti, veloci, cattivi, ma incapaci di segnare la terra”) e del desiderio umano di superare questi limiti oggettivi (“Aveva imparato che il solo gesto esatto è la ripetizione…”).
Narrando la storia con un punto di vista mobile e ibrido, Barrico non rinuncia alle contaminazioni autoriali (“Paginette come queste parranno all’editor… del tutto inutili… Il fatto è che alcuni scrivono libri, altri li leggono: sa dio chi è nella posizione migliore per capirci qualcosa… si scrive così come si potrebbe fare l’amore con una donna, ma in una notte senza luce alcuna, nella tenebra più assoluta, e quindi senza vederla mai”) che accentuano il carattere sofisticato di metaracconto di quest’opera per molti versi sorprendente.
Bruno Elpis
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Per vedere cosa porta il mare
Fabio Genovesi ambienta “Chi manda le onde” nella Forte dei Marmi trasformata dalla crisi economica di un’Italia sconclusionata e spaventata dalla colonizzazione di personaggi avventizi, preferibilmente russi.
Serena ha generato due figli nel modo più improbabile, con un uomo (“Si chiama Stefano, ma tutti lo chiamano Ghigliottina per un tatuaggio che ha sul petto…”) che sembra predirle il futuro: “Chiamalo Luca”, “Chiamala Luna”. Due ragazzi così diversi: Luca è un surfista affascinante e sensibile, Luna è una bambina albina (“Io al sole non ci dovrei proprio stare, sennò mi brucio…”) dalla fantasia fervida, frequenta Zot, bimbo di Chernobyl che vive con uno stravagante vecchio in un sinistro casolare (“Zot abita proprio qua, nella Casa dei Fantasmi!”). Con lui si diverte a camminare sulla battigia (“Saranno dieci minuti che camminiamo sul bagnasciuga per vedere se le onde hanno portato qualcosa d’interessante…”), a raccattare gli oggetti che il mare restituisce e che sono fonte di fantasie ingenue e colorate (“Mi manda delle cose sulla riva del mare e io capisco cosa mi vuol dire”).
La storia della famiglia di Serena s’intreccia con le sorti di Sandro, Rambo e Marino: tre bamboccioni quarantenni, ancora alla ricerca di un’identità professionale, sessuale ed esistenziale.
Per assicurarsi l’incontro con Serena, la donna della quale Sandro è da sempre innamorato e che è stata colpita da una tragedia immane (“Tu vuoi capire come mai, quel giorno là, quel giorno maledetto…”), l’insegnante precario non esiterà a costruire espedienti approfittando dell’occupazione preferita dai bambini (“Sono delle sculture bellissime, fatte… tremila anni fa e anche più. Sono a Pontremoli…”).
Ne seguiranno una girandola di equivoci (“A parte la mamma di Marino secca e dura nel freezer”), situazioni paradossali (“Io nel freezer con la mamma di Marino non ce le metto”), occorrenze amare (“E in fondo che differenza c’è, fra stare sottoterra o nel freezer?”) e assurde (“Quel freezer là è sacro, lo dobbiamo pensare come una tomba…”), che conducono il lettore attraverso il crocevia di una narrazione triplice: quella condotta in prima persona dalla piccola Luna, quella rivolta in seconda persona a Serena, quella oggettiva del narratore onnisciente…
Se la tecnica è variata e movimentata, il linguaggio utilizzato mutua le sue espressioni direttamente dalla lingua parlata (“Le pianure e le gobbe e le pieghe sempre diverse e sbilenche di questa nazione incasinata”), attraverso una trama ora rocambolesca, ora realistica (“Questa crisi ci ha cambiato la vita, figurati se non ci cambia la morte”), in declinazione tragicomica (“La presenza di Dio che sta dentro ai polpi, ai castori, ai miracoli disseminati nella Natura”).
Bruno Elpis
P.S.: L'occasione è buona per pubblicare questo commento sul mio blog (come sempre avviene con i commenti di qlibri) con foto (di altri) che colleziono sulla chiavetta USB. Questo è il link pieno di onde: http://www.brunoelpis.it/recensioni/1210-chi-manda-le-onde-di-fabio-genovesi-qlibri
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Picciotti e dintorni
Bastaddi di Stefano Amato ambisce a ribaltare il corso degli eventi che negli anni Novanta hanno visto perire Falcone e Borsellino come vittime sacrificali di un nemico vigliacco e crudele. Per ottenere questo scopo, il romanzo si appropria dell’idea che fu alla base di “Bastardi senza gloria” di Tarantino: stipare gli avversari in un luogo chiuso e farli esplodere…
I Bastaddi del titolo sono un manipolo di giovani (“Non siamo poliziotti, e nemmeno carabinieri… Siamo nel campo dell’eliminazione dei mafiosi”), che covano rancore contro la mafia, sono disposti ad adottare ogni mezzo per combatterla e, capitanati dal tenente Ranieri (“Aldo Ranieri, che i mafiosi hanno soprannominato Aldo l’indiano… perché ha il vizio di fare lo scalpo a tutti i mafiosi che ammazza”), non esitano a utilizzare sistemi sbrigativi e atroci per combattere le cosche.
Negli anni Novanta la Mafia ha subito una battuta d’arresto soprattutto a causa del pentitismo (“Che poi io i pentiti non li capirò mai. Perché lo fanno secondo te? Per una questione di principio? Per paura? Per vendetta?”). Per questo, alcuni sinistri capoclan (“Certuni lo chiamano anche la Bestia”) e personaggi senza scrupoli (“L’uomo senza occhi gli rivolse uno dei suoi enigmatici sorrisi… e il dente d’oro fece capolino…”) pensano di rilanciare Cosa Nostra con una serata mafiosa (“Salvo vuole… organizzare la prima proiezione del suo film nel tuo cinema…”). Per l’evento viene scelta la sala cinematografica gestita dall’unica sopravvissuta a una faida (“I Randazzo sono qui vero?”) che ha sterminato un’intera famiglia (“I pagamenti erano in regola, e in più stava proiettando tutti i film che volevano… L’avevano scoperta? Sapevano che lei era Giovanna Randazzo…?”).
La sala gremita di padrini e picciotti si trasforma in una santabarbara per l’azione congiunta dei Bastaddi, infiltratisi tra gli invitati per condurre “l’operazione cinematografo”, e della bella Giovanna, proiezionista più intenta a realizzare la sua vendetta che a deliziare i malviventi con i film di loro gradimento.
Il romanzo ha il pregio di mostrare il vero volto della criminalità organizzata (“S’immaginavano i mafiosi come maestri del crimine o dei geni del male, quando di geniale non avevano niente…”), in una rappresentazione paradossale dietro la quale forse si nasconde il sogno dell’autore siciliano: quello di veder sgominato un nemico tanto invisibile quanto presente nella vita economica e sociale dell’isola, quello di vedere gli eroici magistrati ancora in vita e vittoriosi…
Bruno Elpis
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Un’altra recherche du temps perdu
Ne “L’erba delle notti”, Patrick Modiano ricorre a una narrazione cifrata per esprimere l’enigma del tempo: un’entità che sembra scorrere a ritroso e affiora in modo carsico, tra i particolari di una storia incomprensibile quando è stata vissuta in gioventù da Jean, scrittore ai tempi innamorato della bella Danny: un personaggio misterioso, dalle mille identità (“Perché aveva bisogno di documenti falsi?”), che riceve missive segrete tramite il fermoposta ed è snodo di personaggi equivoci che sembrano custodire un segreto inconfessabile.
Con queste premesse Jean affronta la sua “recherche du temps perdu”, ricorrendo alle annotazioni di un diario (“Ho tentato di ritrovare l’albergo. Sul taccuino nero non avevo segnato né il nome né l’indirizzo, così come si evita di annotare i dettagli troppo intimi della propria vita, per paura che una volta fissati sulla carta non ci appartengano più”), ripercorrendo i luoghi, cercando di attingere alla memoria e di collegare tra di loro particolari e indizi (“Sì, era come se avessi voluto lasciare, nero su bianco, indizi che in un futuro lontano mi avrebbero permesso di chiarire ciò che avevo vissuto sul momento senza capirlo del tutto”). In un clima ove i personaggi potrebbero essere tanto agenti segreti (“Sembrava che tenessero un consiglio di guerra”) quanto assassini (“Cosa diresti se io avessi ucciso qualcuno?”), tra apparizioni fantasmatiche (“Jacques! … e lui si è girato”) ed echi culturali (“Aveva composto una poesia intitolata Dannie”), tra i messaggi in codice di una realtà che agisce come un bancomat, perché ha bisogno del codice segreto…
In questa nuvola di dettagli, nomenclature e toponomastiche, tra retate e liste, il lettore s’identifica nello spaesamento esistenziale di Jean (“La stanchezza? Oppure quella strana sensazione di déjà vu che ti pervade, sempre per mancanza di sonno?”) e lo affianca in un’indagine volta a ricomporre le tessere di un mosaico astratto. Quando poi un fascicolo d’archivio (“Questo fascicolo per lei sarà un po’ come una bomba a scoppio ritardato…”) viene fornito da Langlais, poliziotto in pensione, al suo scrittore preferito, ci si accorge che la verità mantiene la sua caratteristica inafferrabilità.
Lo stile di Modiano è fascinoso, risuona di angosce spazio-temporali (“Avevo la mania di conoscere tutto ciò che era esistito, nel corso del tempo e per strati successivi, in una data zona di Parigi”), conduce per mano a verificare il paradosso del tempo con la t maiuscola: “Prima o poi troverò la via. Ma, ogni giorno, il tempo stringe e, ogni giorno, mi dico che sarà per un’altra volta”…
Bruno Elpis
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V.M. 18: sed pecunia non olet!
Nel tributare ad Anaïs Nin la corona di regina di un genere che oggi – come una nota rivista di enigmistica – vanta il maggior numero di imitazioni (io stesso mi sto cimentando in due racconti erotici e, anche per trarre qualche utile ispirazione, ho finalmente letto quest’opera della quale tanto si favoleggia), il mio commento a “Il delta di Venere” deve necessariamente partire dalla prefazione, decisamente interessante sia perché enuncia l’estetica della Nin, sia perché candidamente esplicita quale sia stata l’occasione creativa dei racconti: un sessuomane committente ha ingaggiato alcuni scrittori (“Gli omosessuali scrivevano come fossero state donne. I timidi si lanciavano in descrizioni di orge. I frigidi in appagamenti parossistici. I più poetici indulgevano nella bestialità, e i più puri nelle perversioni. Eravamo ossessionati dalle favole meravigliose che non potevamo raccontare”) e li ha incaricati di comporre racconti nei quali non ci si limitasse a pettinar le bambole, ma si indulgesse al sesso esplicito preferibilmente nell’intorno della pornografia. Nella prefazione si scorge dunque la ribellione di un’artista che non vuole rinunciare alla dimensione più poetica e femminile dell’eros.
Le storie si susseguono a ritmo incalzante, con personaggi –modelle (“Tutti gli studenti la guardavano attentamente da dietro i loro cavalletti… Poi prendeva delicatamente l’orlo del vestito e lo sollevava con lentezza sopra le spalle”), prostitute e artisti - che ricorrono e ritornano, a celebrare pratiche che non si limitano certamente a cunnilingi e fellatio , ma senza freni esplorano manie frastagliate (“Poi gli disse che era obbligato a mettergli una benda sugli occhi perché non doveva vedere…”) e tendenze proteiformi (“Era come se entrambi fossero stati assaliti da un desiderio famelico per il sapore di carne”), con protagonisti di ogni preferenza e genere (perfino il terzo!).
Nello sventagliare le svariate manifestazioni erotiche, per bocca dei suoi interpreti Anaïs non si astiene dal fornire assennati consigli (“Quando Linda perse il suo operaio, fu naturale per lei consultarsi con Michel, ed egli le consigliò di darsi alla prostituzione”), naturalmente ricorre a immagini floreali (“Il suo sesso era come un gigantesco fiore di serra, il più grande che il Barone avesse mai visto”) più o meno tenui (“Si inarcava come un pitone, scattava in tutte le direzioni come se l’avessero bruciata o morsa”), percorre tutti i sensi (“Fu a teatro che incontrai John e scoprii il potere di una voce. Mi scivolava addosso come le note di un organo, facendomi vibrare”), nessuno escluso (“Dai battiti violenti del cuore, dal cambiamento dei toni di voce, dalle contrazioni delle mie gambe, sapeva quanto piacere mi aveva dato”), e guarda al sesso da ogni angolatura (come la donna che si abbandona a fantasie inerenti l’esercito degli scozzesi, nudi sotto il kilt: “Maman si sarebbe trasformata volentieri in un ciottolo perché le camminassero sopra, purché le fosse concesso di guardare sotto le corte gonnelle per vedere la borsa nascosta, che dondolava a ogni passo”) e con ogni mezzo (“Non era saccarina quella che ti ho portato e che hai messo nel caffè. Era cantaride, un afrodisiaco”), anche culturale (“Le comprò dei libri erotici, che lessero insieme”).
I toni narrativi (“Volevo esser posseduta e conoscere gioie accecanti”) – al pari delle pratiche sessuali e degli organi coinvolti (“Le loro bocche si sciolsero l’una nell’altra, in cerca delle lingue guizzanti”) – spaziano da un estremo all’altro: si infiammano (“George le percorse con le mani tutto il corpo, quasi a infiammarne ogni singola parte col suo tocco…”), recedono, s’impennano (“Si comportavano come due animali in lotta, pronti a divorarsi a vicenda”), si colorano (“La donna aveva il sangue infuocato”), si esprimono, s’incanalano nel delta di Venere, ma anche nell’estuario di Adone e nell’ambiguità di Ermafrodito.
Nonostante il carattere scherzoso di questo mio commento, sia ben chiara l’intonazione di fondo: sono dominato dalla simpatia per un’artista che sfida epoca e mentalità per esprimere senza freni la sua natura di donna (“Quando in una donna l’erotico e il tenero si mescolano, danno origine a un legame potente, quasi una fissazione”) libera ed esuberante (“Quale parte di te mi vuole questa notte?”)…
Bruno Elpis
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A bordo di un pullman Greyhound
Sogni di Bunker Hill è l'ultimo romanzo di John Fante ed è ambientato nella Hollywood degli anni trenta, ove Arturo Bandini ripara nella sua febbrile ricerca di fama, soldi e successo anche sentimentale (“Era una lettera di Ginger Britton, profumata di gardenia”).
A Hollywood, Arturo lavora prima come editor, poi come sceneggiatore per un produttore cinematografico (“Era Harry Schindler, il regista. Era un vecchio amico di Muller”), infine frequenta una estroversa, svampita celebrità (“Ogni millimetro delle pareti era zeppo di fotografie con gli autografi di stelle del cinema. La bella gente. Così belli, pieni di sorrisi allegri e denti splendenti e mani aggraziate e pelli morbide… una sorta di mausoleo…”).
Gli eventi e le relazioni si susseguono tra attività ludiche (“Bastardo, mi devi trentamila dollari”… “Mose Moss si sedette di fronte a me e cominciammo a giocare”…“Fummo portati in carcere in sei, allineati davanti alla scrivania del sergente e accusati di vagabondaggio”) e tentativi di seduzione (“Io seguii l’ondeggiare del boa constrictor nel vestito di velluto verde”), ma il fallimento di ogni iniziativa – creativa o erotica – incombe costantemente sul povero alter ego di John Fante.
Nel finale Bandini si abbandona a riflessioni regressive che lo riportano alle radici familiari (“Salii a bordo di un pullman Greyhound con due valigie”), in un epilogo potentemente drammatico che sconfina nella poesia.
La critica di Tondelli (“Tondelli osserva… che, scegliendo di tornare a scrivere di Bandini e del lavoro per l’industria del cinema nella Hollywood degli anni Trenta, Fante intende affrontare un nodo irrisolto della sua vita. Anche lui, come Bandini nel romanzo, ha voltato le spalle alla letteratura… scrivendo sceneggiature, frequentando produttori, oziando in attesa di un nuovo contratto”) sottolinea efficacemente come l’ultima tappa del ciclo di Arturo Bandini permetta all’autore di riflettere le proprie insoddisfazioni creative e inquietudini esistenziali attraverso la poetica pur ribelle, sarcastica e disincantata di John Fante.
Bruno Elpis
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Uno svitato? Sì, no… uno scrittore!
Ne “La strada per Los Angeles” di John Fante, Arturo Bandini è divenuto un diciottenne (“Io, a diciott’anni, e ancora mi succhiavo il pollice!”) mitomane, arrogante, blasfemo, onanista, razzista e… irresistibile.
Irresistibile perché incarna la figura dell’antieroe, interpretando le tendenze caratteriali che spesso nell’adolescenza trovano espressioni enfatiche, se non addirittura deliranti.
Arturo vive con la madre e la sorella, ossessionato dall’idea di scrivere un capolavoro e così diventare uno scrittore celebre. Dopo occupazioni alterne, trova impiego presso il conservificio della Soyo Company, un ambiente che è occasione per descrivere la realtà multietnica (dalla prefazione di Emanuele Trevi: “Tra operai messicani e filippini… vero mosaico etnologico e antropologico rappresentato dalle classi subalterne nella California degli anni Trenta”) nella quale Bandini si staglia con egocentrismo (“Ovvio che non sapevo come funziona un carrello. Ero uno scrittore”), anticonformismo, disprezzo per il capo e titolare (“Il roditore, il maiale, il topo di cantina, il topo di fondaco”), razzismo strisciante nei confronti dei colleghi filippini e messicani (“Ma guardati! Appartieni a una prosapia di schiavi. I tacchi delle classi dominanti ti schiacceranno le costole. Perché non fai l’uomo? Perché non scioperi?”), presunta superiorità praticata con sfoggio di linguaggio.
Arturo trascorre le sue giornate lavorando al conservificio, ingaggiando guerre immaginarie (“Sparai ai granchi per tutto quel pomeriggio”) e forsennate (“Quella carneficina finalmente si fermò allorché mi venne il mal di testa per aver troppo sforzato gli occhi”), frequentando la biblioteca e puntando la signorina Hopkins, bibliotecaria (“Osservavo. Ero come un falco. Nulla di ciò che faceva poteva sfuggirmi”), rifugiandosi nel parco per leggere i suoi libri preferiti (ma li capisce?), innamorandosi di ogni donna che vede passare…
Scritto con uno spirito paradossale (“Aveva le allucinazioni. Sogni di gloria delusi. Minacce contro la società. Seguiva le donne per strada. Faceva il pazzo con le mosche e se le mangiava. Tutto per via delle donne. Uccise pure un sacco di granchi… Proprio uno svitato. Il ragazzo più svitato della contea di Los Angeles…”), questo romanzo si incastona nella saga di Bandini imprimendo una svolta piuttosto brusca al percorso del ragazzo che in “Aspetta primavera, Bandini” abbiamo iniziato a conoscere, dilatando le premesse poste nel prequel con la forza del sarcasmo e dell’innovazione creativa.
Bruno Elpis
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Il giudizio universale. Avviene ogni giorno
“La caduta” di Albert Camus è un testo che trae dall’assurdità reale la propria linfa narrativa.
Jean-Baptiste Clamence è un avvocato parigino (“Alcuni anni fa ero avvocato a Parigi, un avvocato abbastanza noto…”) che ha esercitato la professione con magnanimità e dedizione (“Ne assumevo la difesa a una sola condizione: che fossero dei buoni assassini, nel senso in cui si parla del buon selvaggio”). Quando si rende conto che, sotto la scorza dell’esteriorità (“Per l’uomo moderno, basterà una frase: fornicava e leggeva giornali”), covano narcisismo (“Dopo la recita, gli inchini”), superbia, vanità, aggressività (“Invece ero impaziente di prendere la rivincita, di picchiare e di vincere”) e superficialità (“Avrei dato dieci colloqui con Einstein per un primo appuntamento con una comparsa carina”), la dilacerazione (“Mi pareva che la menzogna crescesse di pari passo, così smisurata che mai più avrei potuto mettermi in regola”) prende il sopravvento e l’uomo si abbandona ai piaceri più disparati (“Oltre alla sensualità, l’amore del gioco”) e a esperienze edonistiche (“Le donne infatti hanno una cosa in comune con Bonaparte: pensano sempre di riuscire dove gli altri sono falliti”).
La coscienza della contraddizione (“Per finirla con l’ambiguità, bisogna semplicemente finir di vivere”) si realizza in una Parigi surreale (“Ero felice di camminare, un po’ intorpidito, fisicamente calmo, col corpo irrigato da un sangue lento come la pioggia che cadeva”), nella quale Clamence realizza la propria resa quando assiste con indifferenza e vigliaccheria, senza intervenire, al suicidio di una donna che si butta nella Senna.
Con consapevolezza problematica, Clamence abbandona la professione e si trasferisce nel ghetto (“Io abito nel luogo d’uno dei maggiori delitti della storia”) di Amsterdam, città di incontri (“Le donne dietro quei vetri? I sogni, caro signore, sogni a buon mercato, il viaggio nelle Indie!... Lei entra, tirano le tendine e la navigazione incomincia”), ove predilige luoghi come la diga, deprimenti (“Fra i paesaggi negativi, è il più bello!”), ma non per questo meno struggenti (“Il mare color liscivia chiaro, il vasto cielo dove si riflettono le pallide acque. Un inferno soffice”). Ad Amsterdam, nel bar Mexico City (“A Mexico-City è a casa mia, sono particolarmente felice di averla mio ospite”) l’ex avvocato colloca un nuovo centro di attività locutoria (“Guai a voi, quando tutti diranno bene di voi”), intrattenendo gli avventori con monologhi che hanno lo scopo di estendere anche agli altri “la caduta”.
L’obiettivo di questa nuova fase (un predicatore? Un affabulatore? Un falso profeta?) è quello di smascherare le apparenze che soffocano l’individuo, nella parte del giudice-penitente (“Bisognava fare la strada in senso inverso, esercitare il mestiere di penitente per poter finire giudice”), per confessare al mondo le contraddizioni con una denuncia (“Il giudizio universale. Avviene ogni giorno”) che metta a nudo l’inferno delle ipocrisie personali (“Diciamo che compii l’opera il giorno in cui bevvi l’acqua di uno di noi che agonizzava”) e delle costruzioni sociali (“Proclamava la necessità di un altro papa che vivesse tra i miseri, invece di pregare su un trono…”).
Un testo drammatico, sospeso in modo doloroso (“Credono sempre che ci si uccida per un motivo. Invece se ne possono avere anche due”) all’impalcatura artistica di un autore che ha interpretato con grande effetto le angosce dell’esistenzialismo.
Bruno Elpis
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Noi, ragazzi dello zoo di Bristol
La “Storia d’amore e perdizione” raccontata da Melvin Burgess coinvolge David, detto Tar, e Gemma.
Hanno quattordici anni: Tar ha temperamento artistico (“In mezzo all’erba c’erano i denti-di-leone. Tar ci ha detto di quello che aveva dipinto…”), ma è figlio di genitori alcolizzati e violenti; Gemma è curiosa, vivace e irrequieta.
Quando Tar viene percosso ancora dal padre, perché cerca di difendere la mamma, non ci sono più esitazioni: fugge a Bristol, ove viene ospitato nella casa occupata da alcuni anarchici (Richard e Vonny) che, pur vivendo alla bohemienne, dimostrano di avere valori (“Avevo la sensazione che fosse importante rispedirla a casa prima che decollasse”) e obiettivi.
Lì lo raggiunge Gemma, per sfuggire alle imposizioni di genitori che intuiscono la sua propensione alla trasgressione (“Ti vogliamo bene, Gemma. So che abbiamo fatto degli errori… Ma era solo una trappola”).
La libertà della vita di strada trascende ben presto. Contro il parere degli amici anarchici, Tar e Gemma si stabiliscono in un altro covo presso due coetanei: l’eccentrica Lily e il compagno Rob, che già sono eroinomani e vivono di espedienti. Gemma si lascia attrarre dalla curiosità di provare un’esperienza nuova (“A volte, forse, hai bisogno di un’esperienza. Può essere una persona, o può essere una droga”), Tar – succube dell’innamorata – la segue a ruota. L’iniziale convinzione di onnipotenza (posso smettere quando voglio) viene naturalmente travolta dalla meccanica indotta dagli stupefacenti.
Le vicende successive sono le consuete tappe: l’intensificarsi delle dosi, l’assuefazione, il ricorso ad abietti metodi per procurarsi l’eroina, lo spaccio, la progressiva discesa verso l’inferno, che neppure l’arrivo di un figlio – quello di Lily – riesce a interrompere.
Mentre lo spettro della morte per overdose comincia ad aleggiare sul gruppo, ogni tentativo di “ripulirsi” è destinato al fallimento (“In un certo senso, ci contagiamo l’un l’altro”).
L’epilogo, dopo oltre tre anni di randagismo fuori legge, è variegato per i protagonisti (“Devi trovare un aiuto esterno. Non dev’essere per forza una persona, o un’organizzazione. Qualcosa di più profondo. Una forza esterna più forte di te, alla quale rivolgerti quando ti senti debole”) e la love story tra i protagonisti non ha uno sbocco univoco.
Ogni paragrafo viene narrato dai diversi personaggi, secondo un pdv mobile che consente di oggettivare la storia attraverso il racconto corale di più soggetti. Le citazioni di versi di punk band (The Only Ones, The Buzzocks…) contribuiscono a diffondere l’atmosfera culturale di sottofondo, recitata con espressioni che vorrebbero essere evocative (“Ecco cos’era, ero finita dritta in orbita”) e suggestive (“Tornando a casa, volava come un aquilone”).
Nihil sub sole novi, direbbero i latini. Nulla di nuovo, se non le ulteriori riflessioni che il lettore può ancora articolare su esperienze disperate che derivano dall’illusione di poter risolvere problemi personali e/o sociali attraverso paradisi artificiali che in realtà nascondono l’inferno della schiavitù e dell’annullamento di ogni volontà.
Bruno Elpis
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Il troppo stroppia o storpia?
Per me James Patterson è principalmente l’autore dei gialli truci che hanno per protagonista il profiler Alex Cross e dei rosa-legal che ruotano intorno alle donne del club omicidi. Con curiosità ho voluto fare un salto anche nella sua nuova serie fantasy-distopica, della quale “Il fuoco” costituisce la terza puntata.
La mia curiosità è stata castigata da un romanzo che non decolla: né originale, né accattivante, il libro non ha saputo coinvolgermi.
Troppo scontata nei cliché e nell’atmosfera distopica, la storia vive sui due personaggi dotati di poteri magici che cercano di contrastare il clima di terrore seminato da un despota malefico (“Con un colpetto del dito, l’Unico può incenerire ogni bimbo che vede”) e dai suoi gerarchi, impegnati a praticare l’arte della repressione violenta avvalendosi delle tecniche che già resero tristemente celebre l’Inquisizione (“I militari del regime del Nuovo Ordine continuano a brutalizzare la cittadinanza”).
Mentre la peste dilaga, Witch soccorre la sorella Wisty colpita dal morbo, cercando di ripristinare l’abilità che la caratterizza (“Wisty mi fa l’occhiolino… Quando si tratta di trasformare i corpi, i roditori sono la sua specialità”); i due fuggiaschi vengono aiutati da una famiglia (“I Neederman sembrano scomparsi e al loro posto c’è un branco di topi scatenati che si disperde in tutte le direzioni”) che appartiene alla Resistenza opposta al nuovo ordine.
L’unico valore aggiunto di questa lettura è un approfondimento che mi ha ispirato la scelta del titolo del presente commento, che ha per soggetto il presenzialismo parossistico degli scrittori “che vendono”: si dice “Il troppo stroppia o il troppo storpia?”.
L’Accademia della Crusca risponde: entrambi! “Il verbo stroppiare è la variante popolare di storpiare. Tutti i vocabolari dell’italiano contemporaneo, infatti, mettono a lemma la voce storpiare e segnalano stroppiare come variante popolare con metàtesi, che è il fenomeno fonetico per cui uno o più suoni possono cambiare posizione all’interno di una parola (particolarmente frequente in presenza di una laterale /l/ o di una vibrante /r/, come ad esempio frumento > furmento ecc.).”
E allora, forte di questa consapevolezza etimologica, dico a Patterson che il troppo stroppia o storpia, decida un po' lui!
Bruno Elpis
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Tanto gentile e tanto onesta pare
Come donna innamorata di Marco Santagata ha per protagonista Dante Alighieri e per soggetto l’amore che il divin poeta nutrì per la sua musa: Bice Portinari (“Chi sarebbe stato l’angelo da celebrare in versi, lui l’aveva già deciso… Non poteva che essere Bice Portinari, la dama dagli occhi di smeraldo, la signora triste…”), che nella visione angelicata della donna e nella poetica dell’esule fiorentino (“L’idea lievitava. Dire senza dire. Dire che non lo raccontava, e con ciò raccontarlo. Era felice… Felice nel giorno del pianto?”) assume il nome di Beatrice.
L’autore costruisce il suo romanzo storico con fulcro nella data dell’8 giugno 1290, giorno della prematura scomparsa della nobildonna (“Forse la sua Beatrice non sarebbe morta insieme a Bice”), sorella di quel Manetto Portinari che fu compagno di giochi dell’Alighieri.
La morte dell’amata rappresenta l’interruzione di ogni possibilità d’incontro, ma non per questo deve costituire la causa ostativa di un poetare che è vitale per Dante e che richiede di essere rifondato su nuovi presupposti: così che la bellezza (“Bice non era quel che si dice una bellezza. Molte giovani di Firenze la superavano in avvenenza. La fonte del suo fascino erano gli occhi: verdi, scintillanti, conferivano all’incarnato madreperlaceo una straordinaria luminosità”) sia celebrata nell’eternità e nella spiritualità. Sul piano letterario, questi impulsi si concretizzeranno nella Vita Nova e nella terza cantica della Commedia, quella dedicata al Paradiso.
Mentre Dante ragiona sulla poetica (“Una gioia paragonabile a quella di creare un oggetto di sublime armonia. Basta dunque… con i lamenti…”), scorrono i fatti della sua vita: la nascita in una famiglia di mercanti, che per lui sognava un futuro di commerciante (“Alighiero dava per scontato che il figlio, terminata la scuola elementare… avrebbe frequentato quella dell’abaco, dove si sarebbe impratichito dei cambi, avrebbe imparato a tenere i conti e a scrivere lettere commerciali”) e non di poeta (“… Si era messo in testa che il mestiere di poeta e filosofo consistesse nello scrivere in latino”), le lezioni di Brunetto Latini, l’amicizia con Guido Cavalcanti, le nozze con Gemma Donati, che asseconda il temperamento artistico del marito (“Tu sei un poeta, hai la testa fra le nuvole”), la nascita dei figli (“Almeno se ne stesse buono e ringraziasse quei bravi parenti che mantenevano lui e i suoi…”), gli incontri tanto magici quanto platonici con Beatrice, l’impegno politico, dal quale derivano la rottura dell’amicizia con Cavalcanti e l’esilio che lo costringe a riparare in Lunigiana.
L’opera, gradevole nella fruizione e supportata dai robusti studi specifici dell’autore, ha il pregio di riproporci una figura che molti di noi avranno abbandonato dai tempi della scuola, in ciò sollecitando riflessioni sull’importanza di sentimenti e passioni che nulla hanno di materiale…
Bruno Elpis
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Le rime della “Vita Nova”:
Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no la può chi no la prova:
e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira.
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L’unico dovere dell’uomo, essere felice
“La morte felice” è la prima opera di Albert Camus, pubblicata postuma, ed è un manufatto che getta le premesse delle opere successive. Si articola in due parti: la prima s’intitola “Morte naturale”, la seconda “Morte cosciente”.
Patrice Mersault abita nella misera camera della madre, morta dopo una lunga malattia. L’ha assistita fino all’ultimo, con lei ha respirato la povertà (“Tutta la sua vita era nella prospettiva ingiallita che gli rimandava quello specchio”), forse non ha saputo accettarne la morte e si è abbandonato a fragili relazioni sentimentali ed estetiche (“Anche il suo desiderio, il gusto profondo di tutta la sua carne nasceva forse da questo stupore iniziale nel possedere un corpo particolarmente bello, poterlo dominare e umiliare”).
Poi Patrice conosce Zagreus, un invalido che, sulla sedia a rotelle, conduce una vita contemplativa che lo porta a ideare per mano del giovane adepto una fine simulata come fosse il suicidio di un uomo stremato dalla menomazione fisica. In cambio Mersault ottiene il denaro che gli consentirà di affrancarsi dalla povertà (“Aveva giocato a voler essere felice. Non lo aveva mai voluto con una volontà cosciente e deliberata. Mai fino al giorno… E da quel momento, a causa di un unico gesto calcolato in completa lucidità, la sua vita era cambiata, e la felicità gli sembrava possibile. Certo, lo aveva partorito nel dolore, questo essere nuovo”), abbandona la sua compagna Marthe, nel desiderio di tornare ad essere pietra e nullificare le contraddizioni esistenziali.
Consumato l’omicidio, Patrice imprime un nuovo corso alla sua vita (“… bisognava affidarsi al tempo, avere tempo era la più magnifica e insieme la più pericolosa delle esperienze”) e intraprende un viaggio alla ricerca della felicità, agevolato dalla prestanza fisica e dalle attenzioni che le donne gli riservano.
Parte per l’Europa – Praga (“il sortilegio maligno delle notti di Praga”), Vienna e Genova – per poi tornare con una ritrovata consapevolezza (“Come ogni opera d’arte, la vita esige che ci si rifletta. Mersault pensava alla sua vita e lasciava vagare la sua coscienza smarrita e la sua volontà di felicità in uno scompartimento che, in quei giorni, attraverso l’Europa, fu per lui come una di quelle celle in cui l’uomo impara a conoscere l’uomo attraverso ciò che lo sovrasta”) ad Algeri: “Allora Mersault si accorse che dopo Vienna non aveva più pensato neppure una volta a Zagreus come all’uomo che aveva ucciso con le sue mani. Si scoprì la facoltà di oblio che hanno solo i bambini, i geni e gli innocenti. Innocente, sconvolto dalla gioia, capì finalmente di essere fatto per la felicità.”
In un primo tempo Patrice convive con tre amiche (“La Casa davanti al Mondo, dicevano loro, non è una casa dove ci si diverte, ma una casa in cui si è felici. Patrice lo percepiva bene quando stavano tutti col viso rivolto verso la sera e si lasciavano penetrare, insieme con l’ultima brezza, dall’umana e pericolosa tentazione di non assomigliare a nulla”) in una fase domestica – ci sono perfino i gatti Gula e Calì (“Le loro piccole fauci da serpente lasciano vedere il rosa del palato, sogni lussureggianti e osceni li attraversano e mettono dei brividi nei loro fianchi”) - che forse è la più riuscita del breve romanzo. Ma poi Patrice si allontana anche da questo angolo di creatività sociale e si stabilisce in una nuova residenza (“Comprare una casetta tra il mare e la montagna, allo Chenoua, a pochi chilometri dalle rovine di Tipasa”), ove s’immerge nel contatto artistico con la natura (“… è più utile a un artista una certa ottusità che le più duttili risorse della chiaroveggenza”). L’irrequieto eroe ha così modo di sperimentare una felicità complessa (“Perché lui aveva fatto la sua parte, aveva compiuto l’unico dovere dell’uomo che è soltanto quello di essere felice”) per poi abbandonarsi alla malattia, all’agonia (“Avrebbe trovato una ragione di morire in ciò che aveva costituito tutta la sua ragione di vivere”) e alla morte felice (“Non si vive felici più o meno a lungo. Lo si è. Punto e basta. E la morte non conta, in questo caso è un incidente della felicità”).
Lo stile di Camus è originale fin da questa opera prima. Le descrizioni sono ricche di atmosfera (“I lampioni facevano luccicare il selciato viscido, e a intervalli regolari i tram accendevano riflessi su capelli lucidi, labbra umide, sorrisi o braccialetti d’argento”), dinamiche (“Il passaggio delle nuvole aveva lasciato come una promessa di pioggia che rendeva la strada più cupa”), trasudano sapori, sprigionano profumi (“Di tanto in tanto passavano dei tram; e sulla loro scia saliva nella stanza a grevi folate l’odore del quartiere, fatto d’anisetta e di carne arrosto”), emettono suoni (“Dall’interno della casa giungevano pianti di bambini picchiati, un miagolio, lo sbattere di una porta”), esprimono angosce (“Il tempo era scuro e, pur non sentendo il vento, Mersault vedeva gli alberi e le foglie che si contorcevano in silenzio nella valletta”) e sensazioni molto personali.
Bruno Elpis
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Dallo psicanalista bisogna togliersi le scarpe?
Il male oscuro è un’opera acclamata (premio Campiello e premio Viareggio nel 1964), nella quale con la tecnica del flusso di coscienza Giuseppe Berto analizza il conflitto edipico con il padre (“Niente riesce a togliermi dalla mente il pensiero del padre mio che sta prendendosi la sua legittima vendetta”): dopo la morte del genitore (“Proprio l’abbandono del padre in punto di morte avrebbe determinato il conflitto morale che mi ha condotto alla psiconevrosi”), compare una malattia difficilmente classificabile, che mina la vita del protagonista, uno sceneggiatore sempre assediato dalle necessità economiche (“Io sono povero non ce la farò mai a diventare ricco e neppure celebre”), procurate sia dal ricorso a costosi consulti e ricoveri, sia da una moglie (“Riesco a caricarle su una vettura letto del direttissimo per il Brennero o Brennero Express come propriamente si chiama”) che ha scarso senso dell’economia domestica (“Attraverso le spese particolarmente inutili lei manifesta una specie di volontà di potenza o qualche altra cosa di parimenti diabolico che a mio avviso potrebbe anche ravvicinarla a Stalin”).
La lotta contro l’insidioso morbo (“Questa malattia spaventosa che mi ha bloccato l’energia creativa insieme al gusto di fumare e al beneficio di andare di corpo senza angoscia…”) e le sue ramificazioni (“Non sono privo di una certa fisima chiamata agorafobia”) è alterna (“Quelle capsulette nuove che il medico mi aveva consigliato e si chiamavano psicoplegici”), a tratti spassosa (“l’Alpe di Siusi dove manicomi non ce ne sono”) perché ingenera situazioni grottesche (“Pare che io sia l’unico esemplare di analizzando che si fa analizzare senza le scarpe”), talvolta sofferta nella ricerca dell’evento o del peccato (“Se fossi morto sarei andato dritto ad arrostirmi nelle fiamme dell’inferno…”) scatenante una patologia che assume sempre più le sembianze della nevrosi da complesso edipico (“Ho l’impressione che il lavoro da fare sia togliermi di dosso per quanto è possibile il rimorso dei numerosi parricidi”), per la quale si rivelano determinanti le sedute psicanalitiche (“Pur non credendo nella psicoanalisi credo sconfinatamente in quest’uomo”).
In questo contesto, è naturale ripercorrere il passato, utilizzando una memoria vivacizzata da impulsi estemporanei (“Quando mi chiedevano che mestiere avrei fatto da grande avevo vergogna di rispondere che avrei fatto l’uomo del latte, rispondevo invece che avrei fatto il prete”).
L’esposizione ironica delle teorie freudiane – memorabili le pagine che descrivono la triade es/ego/superego (“Noi siamo composti di tre parti, una delle quali si chiama Es…”) e la classificazione in tipologie (“Il tipo coattivo, a differenza del tipo erotico dove prevale l’Es e del tipo narcisistico dove prevale l’Io…”) – fa di questo romanzo la naturale evoluzione de “La coscienza di Zeno”, in una narrazione che sfiora anche “Il malato immaginario” pur mantenendo un’originalità stilistica di grande impatto.
Lo stile (“Spoleto… festival dei Due Mondi ci sarà un concerto in piazza, ossia una Messa in non so che cosa di Frescobaldi.. stupenda piazza del Duomo con le rondini che girano stridendo da matte… è costruita in collina il che significa che è un po’ mossa e piuttosto carente di linee rette in tutti i sensi, sicché vado in giro mezzo stordito”) è lo stesso che ritroviamo in alcuni scrittori dei nostri giorni, quindi ha fatto scuola: la prosa non conosce segmentazione in periodi e rappresenta con efficacia il libero flusso dei pensieri, sino a un finale tragicomico, nel quale si frantumano i sogni di gloria inseguiti nell’inconcludenza creativa della pagina bianca (“Per non andare avanti col quarto capitolo verso la mia gloria…”), ove si è arenato il romanzo che il protagonista sta scrivendo. Quello che dovrebbe essere un capolavoro (“Una storia d’amore tra due ragazzi e in più senza fatti”) e che in realtà è soltanto motivo d’afflizione... Non così nella realtà, perché Giuseppe Berto il suo capolavoro è riuscito a scriverlo, proprio con “Il male oscuro”.
Bruno Elpis
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Cosa farò da grande?
“Il regno degli amici” è la tana, il covo, il punto di ritrovo nel quale Raul Montanari colloca le esperienze di quattro sedicenni, alle prese con i conflitti socio-interiori che deflagrano in una delle età più complicate del ciclo vitale: quell’adolescenza che è passata sotto la lente di scrittori in romanzi cosiddetti “di formazione” (“Ragazzo da parete” per citare uno degli ultimi da me commentati), e che nell’autore de “La perfezione” trova un esegeta affascinante e originale.
Nell’atmosfera urbana di un catapecchia abbandonata, che sorge sulla riva di un naviglio milanese, la creatività della comitiva mistifica la realtà del luogo fatiscente, che diviene teatro ove si consumano i riti trasgressivi della gioventù; per lo stesso sortilegio, la Martesana si trasforma in un paradiso acquatico ove fiorisce una ninfea (Valli, la ninfa pescatrice), la “gipsy” quattordicenne che materializza rivalità, sentimenti e pulsioni vivacizzate dalle tempeste ormonali.
Con sfumature nere, Raul Montanari rappresenta le dinamiche del branco, negli scontri tra bande rivali, delineando in rilievo le individualità di quattro protagonisti, a ciascuno dei quali dedica attenzioni creative e attribuisce spessore psicologico. Tra incontri ad alta gradazione alcolica e nelle alterazioni regalate da sostanze psicotrope, c’è spazio anche per i giochi. In uno di questi interludi, emergono sogni e prospettive: per il cerebrale Demo il giornalismo, per l’apollineo Fabiano l’officina meccanica, per l’analitico Ric Velardi l’investigazione, e per lo straniato e straniante Elia, detto il Profeta…
In questa girandola di aspettative, come non pensare alla saga di Arturo Bandini e a “La strada per Los Angeles”: “Tu leggi un sacco. Hai mai provato a scriverlo, un libro? Quello fu il momento. Decisi allora che volevo diventare uno scrittore”.
E come non pensare ai nostri sogni alterni di adolescenti?
Il registro narrativo del romanzo è ricco e movimentato: all’ondata dell’ironia segue il maroso drammatico. La risacca che ritma l’adolescenza sospinge il lettore verso l’epilogo retrospettivo, in una data transizionale potentemente simbolica: l’1 gennaio dell’anno 2000, la prova del nove per i dubbi esistenziali e le zone d’ombra proiettate sui ricordi de “Il regno degli amici”. A verificare come si è concretizzato il “cosa farò da grande” e a ricomporre i tasselli di una vicenda dolorosa del passato.
Con lo stile lucido e cristallino che lo contraddistingue (“Fabiano oggi era scintillante”), Raul Montanari appare, lui sì, proprio come Fabiano: scintillante.
Bruno Elpis
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Tanto maculato quanto invisibile
“L’occhio del leopardo” di Henning Mankell è un pendolo di carta, che oscilla tra due estremità: la Svezia e lo Zambia. Il movimento del pendolo mette in risalto le profonde divergenze che il protagonista, Hans Olofson sperimenta nel suo viaggio africano, originariamente concepito per raggiungere la missione di Mutshatsha, sogno dell’amante suicida (“L’incontro con la Donna senza naso rappresenta una svolta decisiva nella loro vita”), poi tramutatosi in permanenza ventennale nella terra del leopardo.
Forse per superare i traumi giovanili (l’abbandono dalla madre, l’etilismo del padre, la disgrazia che colpisce il migliore amico e il suicidio della “donna senza naso”), forse perché “viaggiare significa voler superare qualcosa”, forse catturato dal fascino del continente nero (“Spesso negli anni si chiederà cosa sia realmente accaduto, quali forze si siano sviluppate dentro di lui, avvinghiandolo e alla fine impedendogli di andarsene"), Hans supera il difficile impatto iniziale con la realtà africana, accetta l’offerta di collaborare nell’allevamento di galline ovaiole gestita dall’europea Judith Fillington, e infine ne rileva la fattoria, ove intende realizzare un nuovo modello di collaborazione con i lavoranti africani. Ma le diffidenze locali (“Vivono in un’epoca di esasperazione, di declino. I bianchi in Africa sono persone confuse e disorientate di cui nessuno vuole più sentire nulla”) e le divergenze culturali rispetto a una tradizione imparentata con stregoneria e riti magici ben presto innescano il terrore: le minoranze bianche (come i coniugi Masterton, i primi amici di Hans) vengono orrendamente trucidate e Hans non riesce a reggere la tensione, che lo costringe a vigilare, a stare sempre allerta, con la mano sempre armata per difendersi.
Sullo sfondo della storia, si staglia la sagoma affascinante e selvaggia del leopardo: animale notturno e schivo (“Pochi africani hanno visto un leopardo… all’alba, le sue impronte sono ben visibili in prossimità delle capanne”), che rappresenta una civiltà aggressiva, propensa a reagire ai torti subiti con il colonialismo.
“C’è una leggenda… quando il giorno del giudizio si sta avvicinando e gli esseri umani già non ci sono più, ha luogo l’ultima prova di forza fra un leopardo e un coccodrillo. Due animali che sono sopravvissuti grazie alla loro scaltrezza. La leggenda non ha un finale. S’interrompe nel momento in cui i due animali passano all’attacco. Nella fantasia degli africani, il leopardo e il coccodrillo portano avanti il loro duello all’infinito, fino al buio finale o a una rinascita”.
Il romanzo propone interessanti riflessioni sulle divergenze culturali (“I missionari sono come tutti gli altri bianchi… Esigono sottomissione”), sul fallimento dell’imperialismo europeo, sul fascino misterioso ed etnico di civiltà violentate dalle incursioni occidentali, sul potenziale esplosivo delle reazioni in atto…
Bruno Elpis
P.S. Nella sezione “recensioni” di www.brunoelpis.it il commento viene accompagnato con fotografie dell’invisibile deuteragonista del romanzo: il leopardo…
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Un po’ regine, anzi sultane
“Le sultane” di Marilù Oliva sono tre signore che, alle soglie della quarta età, affrontano l’ossimoro peggiore dell’esistenza: sentirsi ancora tanto vivi, ma essere percepiti dal prossimo nella feroce decadenza (“Non ho nemmeno fatto in tempo a indossare la dentiera e mi vergogno a esibire la mia parlata spoglia”) che il ciclo biologico riserva all’essere umano.
Il nomignolo di “sultane” (“In effetti un po’ regine siamo: regine dei poveri”) è stato appioppato a Wilma, Mafalda e Nunzia (tre grazie, tre parche, tre dolci vecchiette, tre streghe) da Melania, la figlia border-line di Wilma. Quest’ultima ha il ruolo di co-narratrice in capitoli che alternano la prima persona di Wilma alla terza persona della scrittrice.
Wilma ha una vita familiare infelice e, quando è sola, spesso si rifugia in una tenera interpretazione narcisistica: indossa una provocante guepière, costringe i propri piedi in scarpette à la page, da Cenerentola, e danza dinnanzi allo specchio sulle note della canzone più erotica della Tigre di Cremona.
Mafalda è spilorcia, per il denaro ucciderebbe… ma mi taccio, perché nel romanzo, il morto ci scappa, eccome se ci scappa.
Nunzia è bulimica, elefantiaca, bacchettona, vive con il fratello alcolizzato Casimiro e con la figlia che le nasconde i suoi intrallazzi sentimentali.
Le tre donne si frequentano, condividono il loro tempo (“È strano come noi Sultane giochiamo tre volte col tempo: ieri, oggi, domani”), si svagano con la scala quaranta, due di loro (“Ci guardiamo negli occhi come due gangstar che abbiano siglato l’ennesimo delitto”) si lasciano risucchiare nel vortice del delitto sul quale ho deciso di tacere, la terza (Nunzia) - cedendo ai tardivi richiami della carne (a proposito, la carne è protagonista indiscussa delle gesta comico-grottesche delle sultane) – si renderà complice delle scelleratezze già compiute dalle amiche…
Marilù Oliva approfitta della farsa noir (“Intanto avviamo un girotondo attorno al tavolo, io scappo, lui appresso”) per affrontare i temi che le stanno a cuore: la sorte degli anziani rifiutati, spesso schiacciati da responsabilità socio-familiari (“Se mi facesse salire in casa sarei un intralcio, una spettatrice inutile al rito della fasciatura; come suo marito viene imbottito di calmanti, sbendato e rigirato e di nuovo impacchettato perché se ne stia bello fermo sino al suo ritorno”) o soli nell’affrontare problemi più grandi di loro, molte volte annientati da fatiche fisiche che il loro corpo non vorrebbe più sostenere, sempre attratti – anche alle soglie della morte - dal barlume della speranza di una vita migliore (“Da quando è peccato sognare?”).
Bruno Elpis
Nella sezione “interviste” di www.brunoelpis.it potete leggere le risposte che Marilù Oliva ha fornito alle mie domande.
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Come “Amici miei”
Vauro Senesi, giornalista e vignettista, disegna con le parole i “Toscani innamorati”.
Per la verità gli amori descritti sono tutti a sfondo triste, pur rappresentati con la forza caricaturale di un lapis abituato a tratteggiare le linee dell’ironia.
Scorrono così le baruffe tra la Bombolina (“La Bombolina lo mandava all’ospedale rompendogli una bottiglia in testa”) e Remo, un ubriacone che nei deliri etilici vede la statua di Garibaldi soccorrerlo nei pestaggi dei fascisti, la relazione tra un conte destinato alla pazzia e una femme fatale, l’affetto che un gruppo male assortito di amici nutre per Assunta, la prostituta-confidente che è nel cuore di tutti.
La banda dei protagonisti è composta da scapoli ormai attempati (“Al solito gruppetto di Tubo, Bighe, Pucino e Saetta si è aggiunto il Minini. Il Minini è uscito di galera solo due giorni prima, entra ed esce di prigione a periodi alterni per furti o piccole truffe”) che danno vita a situazioni grottesche e surreali, animate dallo spirito guascone di una toscanità più stereotipata che reale.
Gli scalcinati giovanotti hanno nomignoli evocativi e si muovono alla garibaldina in un microcosmo popolano (“Ugo, detto il Sudicio per via del suo lavoro di netturbino”) e angusto.
Il linguaggio risente delle inflessioni toscane (nei dialoghi “non” è costantemente sostituito da “un”), le atmosfere sono un ibrido tra il picaresco, il retrò (“Una splendida Fiat berlinetta mille e cento Esse rossa fiammante”) e la commedia pop. Il risultato? Ci si diverte, ma la risata ha lo stesso sapore amaro che si trae dall’intrattenimento clownesco…
Bruno Elpis
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Nuova sindrome di Stoccolma: scrivere polizieschi
“Made in Sweden” è un altro albero (sacrificato, anche per numero di pagine) nella selva dei romanzi nordici a sfondo poliziesco.
Anders Roslunf e Stefan Thunberg romanzano le imprese delittuose di tre fratelli che negli anni ‘90 imperversarono nella cronaca nera. Leo, Felix e Vincent - così si chiamano i protagonisti dell’opera - sono figli di un immigrato slavo (“È mezzo serbo e mezzo croato. E la mamma è svedese. E io… sono per un terzo svedese”), che li educa alla difesa e all’offesa con metodi sommari contro il parere della moglie (“Possiamo parlare coi loro genitori. Parlare, Ivan. Risolvere questa storia”), prima vittima dell’aggressività dell’uomo.
Con l’amico Jasper, personalità soggiogata alla leadership di Leo, i tre fratelli s’impadroniscono di un arsenale militare (“Sistemi di comunicazione. Imbracature militari. Armi automatiche”), assaltano un portavalori in modo clamoroso (“Ma in TV hanno detto che avete rubato un milione.” “E ne abbiamo persi nove”), rapinano banche…
I narratori si sforzano di ricercare – nell’ambiente sociale e nel nucleo familiare - le cause dei comportamenti devianti e ricorrono spesso a un’immagine: “Colpire dritto sul muso e danzare attorno all’orso, prevedere e aspettare che l’avversario abbia paura, raggiungere il punto in cui si crede invincibile e dove dunque è più debole, dove il caos travolge l’ordine e basta un mirato atto di violenza per sradicare ogni certezza e sostituirla con la più totale confusione. In quella fessura della realtà, lui agiva.”
Del caso si occupa John Broncks, un commissario che ha dimestichezza con i casi di violenza familiare e che ha la prontezza di leggere nei pochi elementi a sua disposizione utili indizi (“Chi infonde terrore in questa maniera? Chi usa la paura in questo modo? Qualcuno che a sua volta ne è stato vittima”) che consentano di smascherare i malviventi, impegnati a mettere a segno i loro colpi con tanto di “trucco e parrucco” (“Arabi?”).
Al di là della mole, o forse anche per la mole del libro, in me ha predominato una netta percezione di déjà vu… Ma quanti polizieschi scrivono questi svedesi? Oramai è un getto continuo! E pensare che la Svezia ha dato i natali ad autori come Strindberg e a registi come Bergman!
Bruno Elpis
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- sì
- no
Un figlio non è un giocattolo!
“Allegra – La figlia di Byron” è la triste biografia che Iris Origo redige per Allegra, figlioletta illegittima che il poeta ebbe da Claire, la sorellastra della moglie di Shelley.
Dopo un viaggio in Europa, con famosa tappa sul lago di Ginevra (“Quando… gli Shelley si trasferirono in un cottage sulla sponda meridionale del lago, Byron li seguì alla Villa Diodati…”), ove il gruppo si trastulla in modo congeniale ai letterati (“A Villa Diodati fecero le ore piccole raccontandosi storie di fantasmi o leggendo ad alta voce, o sentendo Byron recitare Christabel”), Byron ripara in Italia e ripudia l’amante. Da lei pretende l’affidamento della piccola Allegra, bambina graziosissima che blandisce l’ego di Lord Byron (“Essere un conforto per Lord Byron – tale, dunque, doveva essere il desino di Allegra…”) e lo raggiunge in Italia (“E così Allegra, a quindici mesi di età, fu mandata da Papà a Venezia”). Troppo preso dalle amanti (a Venezia, la Fornarina), il poeta preferisce affidare ad altri la cura dell’innocente strappata alla madre, progettando per lei un futuro da religiosa in linea con la mentalità dell’epoca.
Dopo Venezia, Byron si trasferisce a Ravenna e Allegra viene confinata “in una scuola conventuale distante una dozzina di miglia, a Bagnacavallo…”
La mamma intanto si ravvede e vorrebbe ancora con sé la sua bambina (“Piani fantastici per rapire Allegra cominciarono a occupare la fantasia di Claire”), ma si scontra con la pertinace volontà del poeta, che non vuole rinunciare al suo giocattolo vivente.
All’età di soli cinque anni, Allegra si ammala e spira, imitando il triste destino dei suoi compagni di giochi, figli di Shelley (“Dei due bambini che giocavano in quel giardino nessuno sarebbe vissuto fino a vedere il proprio sesto compleanno”). Le dispute dei genitori non avranno fine neppure con la morte della sfortunata figlioletta (“Così la lotta che la povera piccola Allegra aveva suscitato col semplice fatto della sua esistenza continuò anche dopo la sua morte”).
Forse non era questa l’intenzione dell’autrice, ma lord Byron risulta insopportabile al lettore, che – costernato dal trattamento riservato a una creatura - segue le peripezie di un megalomane accecato dall’egotismo.
Bruno Elpis
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Love story veneziana
Anonimo Veneziano è una musica, una sceneggiatura in due atti (alla quale il presente commento si riferisce) poi divenuta romanzo di Giuseppe Berto, un film interpretato da Florinda Bolkan e Tony Musante all’epoca di “Love story”.
La sceneggiatura è essenziale, i due protagonisti non hanno nome, sono qualificati da pronomi: Lui e Lei. Nell’atto primo ripercorrono una Venezia sfocata nella nebbia, ma tanto vivida quanto minacciata dalla morte per dissolvenza (“Nel silenzio, si ha l’impressione di sentire che affonda”). L’atto secondo si svolge in una casa adattata a sala prove.
LUI è un artista (“oboista alla Fenice”) intemperante e sconclusionato (“Sono un cialtrone”), ha rinunciato ai sogni di successo: per inconcludenza e per disordine progettuale (“Ti ricordi quando sognavo di diventare un grande direttore d’orchestra?”). Nei primi momenti dell’incontro LUI si propone con la consueta maschera (“Lui… sempre con lo stesso tono ironico e aggressivo, ma in sostanza cercando dolorosamente un contatto che lei rifiuta”).
LEI è una donna ferita nel sentimento, ha scelto di allontanarsi con il figlio Giorgio e si è rifugiata a Milano tra le braccia di un uomo facoltoso.
“Perché mi hai telefonato di venire? Dopo otto anni”
La domanda insinua un dubbio terribile, in un’epoca – il 1971 - in cui il divorzio non è contemplato dal sistema giuridico: “Voglio tenermi Giorgio perché tu non hai nessun diritto su di lui” è soltanto una provocazione. L’ennesima.
La tentazione della donna è quella di ripartire subito con il primo treno per Milano, ma le corse sfilano via, una dopo l’altra, senza di lei: via con i fotogrammi lagunari che nell’atto primo vengono proiettati sulla scena.
“Se non è per Giorgio, perché m’hai fatta venire a Venezia?”
La risposta è definitiva, immutabile, melodrammatica. Di fronte alla morte si può gridare che l’amore è ancora vivo e travolgente, ma può finire anche senza una ragione: per una maledizione strutturale (“Il nostro amore è stato una lunga lotta per la sopraffazione”), per semplice incompatibilità con la linearità dei comportamenti, per vocazione distruttiva.
Resta un’idea disperata di continuità (“Ma questo concerto per oboe che sto facendo deve venir bene”), l’ultima, insieme al desiderio di ribadire i principi misteriosi dell’esistenza (“Le cose troppo grandi non sono di questo mondo”).
L’opera celebra lo strenuo desiderio di sopravvivere grazie a un sortilegio artistico: si chiami musica, atmosfera unica di una città serenissima nello sprofondare, o potenza tragica dell’amore…
Bruno Elpis
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Il cigno nero è monogamo e fedele
“Sei come sei” di Melania Mazzucco è un romanzo che, per il tema trattato, è destinato a far discutere. Perché coinvolge principi etici, scelte fondamentali, concezioni basilari. Perché l’argomento, in fondo, è soltanto e semplicemente la vita…
Eva, adolescente figlia di due padri, ha trascorso l’infanzia con due genitori di sesso maschile, che l’hanno desiderata e amata, in ciò pienamente ricambiati dalla figlia, nonostante Christian e Giose siano così diversi tra di loro per estrazione familiare (“Non era mai riuscita a capire come suo figlio, tanto delicato, colto e cerebrale, si fosse potuto innamorare – e definitivamente – di un uomo come Giose, così grezzo, istintivo e spudoratamente sessuato”) e per carattere (“Ma lui era diverso. Giose non si vergognava di lasciarsi guardare dentro. Non aveva mai considerato disdicevole esporre al mondo le sue viscere, i suoi impulsi, le sue piaghe, le sue gioie”).
Quando Christian muore in un incidente con la moto, il sistema giuridico italiano scatta a tenaglia e interferisce con l’equilibrio della famiglia non tradizionale, strappando Eva al genitore superstite. L’adolescente è costretta a vivere a Milano con gli zii, ma ben presto si ribella alla derisione dei compagni di scuola (“Lui però deve farsi spiegare perché ha spinto un suo compagno di classe sotto la metropolitana”) e affronta un viaggio attraverso l’Italia: destinazione Giose, che vive isolato sull’Appennino abruzzese, squattrinato, con un passato fallimentare di cantante, ormai quasi rassegnato alla perdita della figlia.
Di fronte alla determinazione di Eva, anche Giose reagisce al sistema e, pur nell’alveo delle regole istituzionali e con il vincolo di non nuocere alla figlia, la riaccompagna a Milano, ben disposto a combattere per riaverla con sé.
Gli interrogativi che il romanzo pone sono davvero tanti.
L’amore ha un genere (“Io l’ho sposato per sempre, il mio Giose, anche se nessun documento lo registrerà mai”)?
Il desiderio di paternità può prevalere sulle leggi naturali (“Il cigno nero è monogamo e fedele, ma sessualmente indeciso, e può scegliersi come compagno anche un maschio. Ciò non gli impedisce di avere una prole…”)?
Il sistema giuridico italiano è attagliato alle complessità reali?
Esiste la felicità e tutti la possono ottenere (“Impossibile è solo ciò che non accade”)?
Queste sono soltanto alcune delle domande, alle quali ciascuno liberamente risponde secondo coscienza, ideologia, sensibilità personale e formazione culturale. L’importante, forse, è che la risposta non sia condizionata dal pregiudizio.
Il finale del romanzo di Melania Mazzucco è sottilmente aperto, ma lascia intravedere quali siano le simpatie dell’autrice...
Bruno Elpis
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Esagerato!
Sarà che i Lars Kepler, in realtà, sono due persone (i coniugi Ahndoril), sarà che “Nella mente dell’ipnotista” si agita troppo inconscio… ma il ritorno dell’ipnotista avviene sotto il segno dell’eccesso.
Al di là della mole monumentale del romanzo, la mia critica si rivolge all’enfasi azionistica che rende esagerato un romanzo peraltro complessivamente divertente e coinvolgente.
PARTIAMO DAL PROTAGONISTA. Erik Maria Bark è un super eroe per abilità intellettuali (“è medico, psichiatra e psicoterapeuta, è specializzato in psicotraumatologia e psicologia delle catastrofi”), per doti umane (“ha lavorato in Uganda per la Croce Rossa”) e per il fascino inconsapevole che lo rende non soltanto involontario donnaiolo, ma anche ghiotta vittima di stalking. Erik è dotato di poteri speciali e li esercita sui pazienti attraverso l’ipnosi (“Rocky è entrato in una trance così profonda che l’attività cerebrale è minore di quella della fase REM e la respirazione è simile a quella di un animale in letargo”), che utilizza con tecnica più acquatica (“Si avvicina alla fase d’induzione… Cammini sul bagnasciuga verso la lingua di terra… l’acqua diventa più scura via via che scende più a fondo”) che clinica. Nonostante tutti questi impegni, il nostro ipnotista trova anche tempo e voglia di prendere lezioni di piano da un’affascinante insegnante non vedente (“Nel buio il cieco è sovrano”). Inguaiandola (ma non in quel senso!). E per non lasciarsi mancare nulla ed essere sufficientemente dannato (il ruolo lo richiede), ingurgita pasticche (“Estrae un Mogadon dal blister e inghiotte la compressa senz’acqua”) e divora Stilnox come fossero noccioline.
PROSEGUIAMO CON L’ASSASSINO (“Emerge un’aggressività teatrale dell’assassino: sono i preparativi a essere ben ponderati… mentre l’aggressione è istintiva”). Avvisa la polizia con filmati che ritraggono le vittime ignare, maneggia con disinvoltura il coltello come fosse una penna (“Un serial killer che perseguita le sue vittime”), spia le donne nelle loro case, si avventa sulle stesse, ne deturpa i visi, semina indizi a bizzeffe (“statuette di porcellana capovolte”), si appropria di macabri trofei (“A Katryna sono state sottratte le unghie finte di entrambe le mani”) e spariglia le prove (“Un pezzo di capriolo di porcellana”). Tanto indisciplinato nell’esecuzione, quanto abile nel mentire le proprie spoglie di serial killer, si nasconde sotto il profilo di un predicatore (“Lo chiama predicatore imbrattato”) che indossa una cerata gialla come divisa.
I personaggi sono numerosi, serve la bussola per orientarsi. Il mio preferito? Nestor, il paziente balbuziente che fa indovinelli con la stessa abilità enigmatica della Sfinge a Tebe.
Le situazioni sono tutte estreme: orge vip (“Li chiamano saturnali… Un gioco di ruolo?... No, è un’orgia”), droga à gogo (“Cocaina ed ecstasy… Ma poi hanno cominciato a girare spice, monkey dust, cantaride…”), preti dediti più ai vizi che alle funzioni religiose, stabili abbandonati e interrati da incubo, locali equivoci (“Ricordo solo stranissime stanze dai colori psichedelici”), sinistri cimiteri degli animali, case-labirinto, cantine con gabbie da circo.
Il finale è incandescente (viene appiccato un rogo), funambolico (il cielo è pieno di elicotteri), risolutivo (a Margot, l’investigatore capo dell’indagine, si rompono le acque. Auguro al nascituro che la mamma, nel partorire, sia più abile di quanto non dimostri nell’indagare!).
Bruno Elpis
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Licenza di uccidere?
“Agente Kasper” di Luigi Carletti è un personaggio dal passato controverso, dal presente problematico, dal futuro non garantito.
Kasper è l’agente segreto che ha combattuto il narcotraffico e che oggi, sotto mentite spoglie, viene inviato in Cambogia per far luce su loschi traffici internazionali: “Un agente operativo in grado di pilotare qualsiasi tipo di velivolo, che sa paracadutarsi ovunque, campione di tiro tattico e di tiro dinamico che può usare ogni tipo di arma e di esplosivo, esperto di arti marziali e delle diverse tecniche di combattimento ravvicinato”.
Mentre tenta di tornare in Italia, lo 007 viene sequestrato al confine con la Thailandia e, dal momento dell’arresto, subisce ogni sorta di violenza per mano di aguzzini cambogiani che fanno dell’estorsione la principale fonte di reddito.
Attraverso le sofferenze delle carceri e dei campi di concentramento, crudele retaggio del regime di Pol Pot e dei suoi successori (“Hun Sen… un padrone assoluto, un polifemo asiatico”), Kasper rivela a un diplomatico francese – con il quale concerta la fuga – quale sia l’origine di tanto accanimento nei suoi confronti: accanimento reso possibile dal disinteresse degli Affari Esteri italiani (“Lo hanno imprigionato, torturato, i suoi familiari stanno pagando un riscatto. Ma che altro deve accadere affinché l’Italia si faccia carico di questa situazione?”)…
La causa è finanziaria (“Quella frase di Giovanni Falcone… Segui i soldi”) e si chiama “supernotes”: i dollari stampati nel sud est asiatico (“Le zecche americane … non sono due ma tre. La terza… non si trova sul territorio statunitense bensì in Corea del Nord. Il Paese del dittatore pazzo che gioca con l’atomica. Delle esecuzioni di massa. Delle minacce e della censura. Stato canaglia nemico degli USA”) per foraggiare sia gli acquisti di armi dei paesi sovversivi (“La Cambogia funziona così. È considerato un paese liquido”), sia i servizi segreti americani.
Le rivelazioni sono sconvolgenti (“È questa la vera guerra del terzo millennio. Né bombe, né cannoni. Montagne di valuta clandestina”) e destinati a tener desto l’interesse di chi ama le spy story e le imprese alla James Bond, con un occhio puntato sulla precarietà degli assetti politici internazionali degli anni duemila.
Bruno Elpis
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Il precariato in un mondo che si contrae
“Se la vita che salvi è la tua” di Fabio Geda analizza – attraverso la storia di Andrea Luna – il disagio di un giovane precario insegnante d’arte, che si ritrova a fare i conti con l’insoddisfazione derivante dall’essere sempre stato come gli altri l’hanno voluto, piuttosto che se stesso (“Tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci restituisca ciò che abbiamo perso”).
Il dramma di Andrea esplode con un fatto doloroso: la moglie abortisce nelle prime settimane di una gravidanza desiderata (“Avrebbe voluto stringere le ginocchia al petto, ricomporre la sensazione del feto che le era stato sottratto…”). È questa la parte più interessante del romanzo, che rivela le doti speculative dello scrittore nell’interpretare la genesi di una depressione montante e progressiva (“Andrea spese il giorno successivo eliminando la gravidanza dall’appartamento”).
La moglie Agnese si rifugia nel proprio successo professionale, Andrea patisce la difficoltà di realizzarsi sia nella vita privata, sia nel lavoro. Decide allora di partire per New York: dovrebbe essere un viaggio di una settimana, ma il viaggio di ritorno viene continuamente rimandato.
E durante il suo soggiorno americano cosa fa Andrea? Niente, assolutamente niente, se non passare le giornate al Metropolitan Museum, dinnanzi al quadro del figliol prodigo di Rembrandt.
Andrea ha ormai imboccato una via senza ritorno: getta via il cellulare (“Il canto aspro di Billie Holiday diffuse Summertime dalla sua tasca”), dorme sulle panchine del parco, conduce una vita randagia, si ammala, rischia di morire in un capannone abbandonato. Viene salvato dalla famiglia Patterson: Ary, Benjamin e Allison. Con loro ritrova una nuova dimensione e finalmente matura la decisione di tornare in Italia dalla moglie: “Un uomo che non riesce a tornare a casa e chiede a Walter di immaginare l’impossibilità di quell’uomo di riprendere la propria vita, di immaginare la vita di strada in cui sprofonda, l’incontro con una famiglia che lo soccorre e la sensazione che ora quell’uomo ha di ingannarla, quella famiglia, nonostante abbia trovato un lavoro, perché quell’uomo è qui illegalmente e non potrà certo restarci per sempre”. Per scoprire – in Italia - che il suo futuro, forse, è con i Patterson. Ma negli States, Andrea può tornare soltanto da clandestino, varcando la frontiera messicana con una banda di disperati…
Ho trovato un po’ forzata la seconda parte del romanzo, mentre nella prima si possono leggere interessanti riflessioni, che tuttavia agiscono nel senso di mettere a dura prova chi è particolarmente sensibile alle inquietudini esistenziali (“Dov’è la scaturigine dell’esistenza?”) e alle incertezze che minacciano il futuro della generazione costretta al precariato stabile (“Non vede riflesso solo se stesso, in lui, ma tutti quei figli illusi da genitori che per anni hanno detto che seguire il loro esempio era la cosa migliore perché l’universo era in espansione”)…
Bruno Elpis
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Accettare questo appuntamento è stata una pazzia
“L’appuntamento” di Piergiorgio Pulixi si svolge in un ristorante come tanti. Ma la dinamica dell’appuntamento è insolita (“Mi dica, cosa si aspetta da quest’appuntamento?”), imprevedibile (“Questo è il mio primo appuntamento. Non sapevo a cosa stessi andando incontro”), perché la matrice dell’incontro non risiede in una relazione d’amore o d’amicizia. Nossignori, l’appuntamento è preordinato all’estorsione dei sentimenti prima ancora che del denaro.
La cena si svolge al ritmo incalzante di minacce (“Qualcosa nei miei occhi le fece capire che era meglio obbedire”) e violenze – verbali e corporali – che gettano la donna nel baratro dell’ansia e della paura.
Qual è il motore di questo comportamento perfido?
L’istinto sadico (“Lei non sa nemmeno cosa sia un sadico, cosa si provi ad avere il controllo totale su una persona. Paola mi servirà a dimostrarglielo”)?
Il desiderio di spettacolarizzare le pulsioni più torbide?
La noia (“La noia. Sono una persona che purtroppo si annoia facilmente. È per questo che sono entrato nel giro degli appuntamenti. Per noia. Per il brivido del proibito. Per il sapore esaltante del potere…”)?
Laura Durante non sta al gioco. Tenta di opporsi all’oppressione esercitata dal suo aguzzino e, mentre le ore scorrono sulle pagine del racconto come nel display dell’orologio, la donna riesce a rivoluzionare il corso del corrosivo scontro a proprio vantaggio.
Ma il narratore è vendicativo e non accetta supinamente la rivincita di Laura. Attua la sua vendetta (“In un mondo dove l’apparenza è tutto, basta un attimo per rovinarsi. Basta una foto, un video, uno status su Facebook…”), che deflagra con la potenza distruttiva di un esplosivo, travolgendo affetti e strutture della vita quotidiana.
Gli effetti catastrofici della vendetta pongono inquietanti interrogativi sulla precarietà della sfera privata (“E i segreti, di nuovo, sono la moneta più preziosa attualmente in corso”), sempre più dominata dalle incursioni e dalle intromissioni di chi sa controllare i meccanismi di una società che ha spostato il proprio asse portante dalla realtà alla virtualità.
La storia è cinica, piena di capovolgimenti di fronte scanditi dall’inesorabilità del tempo e dei dialoghi. Lo stile è incalzante, ritmato dalle forze oscure che si agitano nel nostro mondo e gettano nello sgomento…
Bruno Elpis
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Sei un uomo in gamba, papà
Aspetta primavera, Bandini è l’ammonimento che John Fante rivolge al suo alter ego nell’opera che rappresenta l’esordio della saga di Arturo Bandini.
In questo primo romanzo assistiamo al rapporto che l’adolescente ha con la propria famiglia d’origine, nella quale riveste un ruolo centrale il padre Svevo (“Arturo temeva il padre, aveva una fifa matta di lui. In vita sua lo aveva picchiato solo tre volte… ma erano state violente, terrificanti, indimenticabili”): immigrato di origini abruzzesi, si stanzia nel Colorado (“Questo Colorado, l’ultimo lembo creato da Dio, sempre ghiacciato, il posto peggiore per un muratore italiano; ah, che vita maledetta!”) con la moglie e i tre figli.
La moglie è una pia donna (“Un giorno August avrebbe preso i voti”), probabilmente responsabile dei contrasti intimi (“Peccati veniali? Peccati mortali? Quella classificazione lo turbava”) che in Arturo – sospeso tra paure indotte dalla religione e propensione all’ateismo - trovano un campo fertile che produce riflessioni comiche e volubili.
Durante le visite della suocera, mal sopportate dal genero (“Ogni lettera di Donna Toscana lo accecava”), Svevo si assenta da casa e, in una di queste fughe, il muratore ha occasione di conoscere la donna più ricca del paese (“Chi non la conosceva a Rocklin? Una città di diecimila abitanti, e una donna che possiede la maggior parte del terreno, chi poteva fare a meno di conoscerla?”). La tragedia familiare esploderà alla vigilia di Natale, quando la moglie – accecata dalla gelosia – reagirà scacciando Svevo (“Il padre aveva il viso straziato dalle unghiate di sua madre e in quel momento sua madre pregava, i suoi fratelli piangevano, e le ceneri nella stufa del soggiorno una volta erano state cento dollari. Buon Natale, Arturo!”) e sprofondando progressivamente in una depressione di fronte alla quale i tre figli si sentono impotenti.
“La parentesi in terza persona di Aspetta Primavera” costituisce un’eccezione rispetto alle altre tre puntate successive del ciclo ed è stata considerata un limite (Emanuele Trevi: “Questa sovrapposizione di prospettive ci fa conoscere molti più elementi della trama… ma ci impedisce di vedere Svevo con gli occhi di Arturo”) rispetto alla narrazione in prima persona che consente a John Fante una perfetta identificazione nel personaggio di Arturo: immedesimazione così idonea a rappresentare i sentimenti, le manie di gloria e la fenomenologia evolutiva di uno degli eroi della letteratura contemporanea.
Bruno Elpis
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Cowboy dal cuore d’oro
“Il volo di Natale” di Craig Johnson è una storia che combina umorismo, buoni sentimenti e avventura in una formula che tiene adeguatamente a bada il rischio di sconfinare nelle lacrime grazie alla figura dell’ex sceriffo Lucian, personaggio rude e primitivo, ma essenziale e generoso.
Alla vigilia di Natale nell’ufficio dello sceriffo Walter Longmire (“Anche tutti gli altri sceriffi del Wyoming sono dichiaratamente pazzi?”) si presenta una giovane donna giapponese, che chiede di essere accompagnata da Lucian, nei confronti del quale la sconosciuta ha un debito di riconoscenza.
L’ex sceriffo è ormai a riposo e conduce il tempo tra alcol, gioco delle carte e stranezze varie.
Riaffiora così la storia di un Natale passato, quando Lucian – veterano di guerra, già amputato di una gamba (“Il nome indiano che avevano dato a Lucian, Nedon Nes Stigo: colui che ha perso la gamba”) – fu raccattato completamente ubriaco da Walter e convinto a pilotare un vecchio aereo (“Questo è un vecchio VB-25J, all’epoca dello sbarco in Normandia lo usarono come aereo personale di Eisenhower”) per salvare la vita a una bambina giapponese (“Il nome Amaterasu significa colei che splende nel paradiso”), l’unica superstite di un terribile incidente d’auto. L’equipaggio improvvisato (formato da sceriffo, ex sceriffo, l’inesperta Julie – chiamata bambola o angelo, come nella migliore tradizione western – in qualità di secondo pilota, il vecchio medico tedesco Isaac, la bambina in fin di vita e la sua nonna) affronta un volo nella tempesta di neve, tra mille pericoli (“Il problema del carburante è più grave di quanto pensassimo; ne abbiamo perso un sacco, con quelle maledette porte aperte”), cavalcando un reperto che ha un passato alterno (“Lo comprò una ditta di Tucson per spruzzare disinfestanti contro le cavallette…”) e vario (“per sganciare schiuma antincendio sui boschi in fiamme”) e sfidando la fortuna che sibila insieme ai venti di tempesta.
La parte centrale soffre di eccessivi tecnicismi aeronautici e medici, ma la trama è efficace (“Sai qual è la differenza tra ansia e paura?”) e il finale è semiserio (“I piloti videro la stella che portavo in petto e mi consegnarono la gamba…”): la genuinità dei personaggi scongiura il rischio di precipitare, insieme al pericolante velivolo, nella classica storia melensa di Natale. Il lieto fine è agrodolce, scosso dai sussulti della veracità di Lucien, che sa cavalcare la sua storia proprio come un cowboy in un rodeo (“Lo sa perché si chiamava Steamboat?... Era un cavallo da rodeo, una bestia indomita di fama leggendaria… nei primi anni di vita si ruppe il naso e da quel giorno in poi fischiava a ogni respiro, proprio come uno steamboat, un battello a vapore”).
Bruno Elpis
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La posta del cuore
Avrò cura di te è figlio di Massimo Gramellini e Chiara Gamberale, qui impegnati in un improbabile duetto: quello composto da Gioconda, trentaseienne vittima di una cocente delusione amorosa, e da Filemone, un angelo (“Lo confesso: nella mia ultima vita terrena sono stato un maschio”) che la confusa regia cosmica dell’arcangelo Rapha-el assegna alla donna come guida per un’educazione sentimentale tanto provvidenziale per lei quanto deludente per noi lettori (“L’ultima volta che sono nato ero… falegname e violinista”). Infatti, dopo un attacco pretenzioso e mistico, scopriamo che il matrimonio di Gioconda con Leonardo (!) prosaicamente è naufragato, udite udite… per un tradimento!
Il difficile recupero della fedifraga è condotto dall’essere alato in modo paternalistico, attraverso ragionamenti scolastici (“Il pronome della testa è Io, il pronome del cuore è Noi”) che non disdegnano gli schemi più accademici (“L’anima affine… le anime complementari… infine, le prescelte”). Tra pensieri non brillanti (“E non sarà certo tornando indietro che riavrai quanto hai perduto”) come la natura soprannaturale del protagonista presupporrebbe, sbigottiti percorriamo un repertorio al quale i cioccolatini potranno ampiamente attingere (“Trovarsi rimane una magia, ma non perdersi è la vera favola”). Alcune – presunte astute? - immagini (“Non dare retta a chi tesse l’elogio delle vite pianeggianti. Le salite sono trampolini. E a te è sempre piaciuto tuffarti, vero?”) non riescono a riscattare una trama esile (“Impareremo ad accettare la morte del tuo grande amore. Ed è questa, credimi, l’unica possibilità di farlo risorgere”), che neppure qualche timida allusione al sesso (“L’anima dell’uomo risiede dentro a un corpo e non può fare nulla se non attraverso il corpo”) e la tecnica del dittico riescono a fortificare.
Le vicende collaterali che confluiscono in quella principale sono sorrette da personaggi che hanno un ruolo talmente di comparsa da non meritare neppure di essere chiamati per nome: l’amante (il padre di un allievo di Gioconda) è il “Grande Sbaglio”, la nuova fidanzata di Leonardo è la “Cosa Così”, Leonardo è “l’Innominabile” (così adesso la letteratura può vantare – oltre all’Innominato di manzoniana memoria – anche l’Innominabile).
Il romanzo – merito più di un viaggio nell’isola di Pasqua che della creatura angelica - scorre verso un epilogo ampiamente annunciato, sul quale spiccano il volo ben due cicogne, e le pagine finali sono il trionfo di massime che rapinano a piene mani negli archivi della posta del cuore dei rotocalchi (“Ogni tradimento è il tentativo di colmare un vuoto che soltanto voi potete riempire”).
Bruno Elpis
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Attenti al lupo, oh oh oh …
Possiamo immaginare “Un finale perfetto” della fiaba di Cappuccetto Rosso? Sì, secondo John Katzenbach, che in questo romanzo ipotizza un epilogo incruento anche per il Lupo. Sempre ammesso che una punizione psicologica sia preferibile a un bel taglio nella pancia, come narrato dai fratelli Grimm che – in una delle loro più celebri fiabe - sacrificano un animale selvatico e premiano la leggerezza di una bambina che si avventura per il bosco come un’autentica oca giuliva!
In questo psicodramma noir, il Grosso Lupo Cattivo è uno sciagurato scrittore di thriller (“Lui è mio marito. E’ un romanziere”): ingordo come non mai, perseguita la bellezza di tre “Cappuccetto Rosso” (“Un medico con una vita segreta da cabarettista in un mondo dove non c’era più niente di comico, una vedova smarrita in un dolore inestinguibile, un’adolescente intrappolata dalle circostanze e dal fallimento”) che versano in solitudine, tra drammi biografici (“Vigile del fuoco con figlia di tre anni uccisi in un incidente”) o personali (“… per andare nella biblioteca della scuola e scovare i fratelli Grimm. Si stava facendo bocciare in quasi tutte le materie…”)
Il serial killer proclama claris verbis le sue intenzioni delittuose e terrorizza le Cappuccetto con lettere minatorie, appostamenti, inseguimenti, fotografie e con tutti gli altri mezzi che imparentano le finalità delinquenziali con le tecniche dello stalker.
Le perseguitate sono tre donne rosso-crinite, che inizialmente non si capacitano e non comprendono il motivo della loro sventura, ma poi si conoscono, si alleano, reagiscono (“E’ una vera antagonista, pensava”), si armano (“Una fredda Colt Python.375 magnum nera”) e decidono di sovvertire la strategia opprimente del loro folle aguzzino (“Io so come rovinargli la festa… Una di noi deve morire…”).
Se alcune tematiche del romanzo (“Le stesse regole dell’omicidio valgono per la scrittura”: sarà poi vero?) hanno catturato il mio interesse sia per la conduzione essenzialmente psicologica del plot (“Perseguitare e uccidere tre estranee che per caso hanno tutte i capelli rossi, perché hai una specie di ossessione favolistica, ha senso?”), sia per l’interpretazione che forniscono della favola, ho ravvisato una lungaggine eccessiva nello sviluppo della storia. Per contro, è apprezzabile la moderazione nella descrizione di scene violente: a conti fatti, rimangono sul campo (senza che la loro fine venga descritta) due poveri gattini…
Bruno Elpis
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La sostenibile leggerezza di Will al quadrato
Ho scelto “Will ti presento Will” come lettura di evasione da alternare a testi più impegnativi (dai quali peraltro traggo un piacere non certamente inferiore a quello che regalano le letture “leggere”, come il cosiddetto young adult, genere nel quale rientra l’opera di John Green & David Levithan).
Sono a pagina 7 e un linguaggio troppo imparentato con lo slang (“Mi piace un casino”) e troppo ordinario per i miei gusti (“Ed è una fig@t@ pazzesca”) mi respinge e, se assecondo l’istinto, son tentato di abbandonare la lettura seduta stante. Ma cerco di sedare l’istinto, ripetendomi che ogni apriorismo si fonda sul pregiudizio.
Sono in treno: nel tempo di una tratta del mio quotidiano viaggio pendolare normalmente leggo (è un’equivalenza!) venti-trenta pagine di Mishima o Kawabata, o quaranta-cinquanta pagine di buona narrativa italiana… o ottanta pagine di “Will ti presento Will”! Non sarà un segnale che la lettura “young adult” mi sta prendendo? E l’espressione “prendendo” in luogo di “appassionando” non sarà un indizio che lo stile della premiata ditta John Green & David Levithan mi contagia? Meglio tener alte le difese: altrimenti, che ne sarà della mia autostima di lettore pseudo-impegnato???
Piano piano mi accorgo che il viaggio in treno sta diventando l’appuntamento compiaciuto e scanzonato con i due Will. In questo romanzo sono davvero poche le frasi memorabili da citare, ne sono convinto: ma la curiosità, la leggerezza della trama e i capitoli alternati del Will dell’Illinois e del Will dell’Ohio (o forse dell’Iowa, non l’ho capito) hanno un potere seduttivo che è complessivo, distensivo, rilassante, a tratti comico. Che sia una specie capricciosa di mantra?
In quattro viaggi (due andata-ritorno) ho terminato il libro ed è già tempo di valutarlo. Se l’affezione è un metro di giudizio e se il dispiacere di chiudere l’ultima pagina è una cartina di tornasole per riprova, allora devo concludere che questo romanzo mi è piaciuto: per la lievità irrealistica con cui descrive l’outing di uno dei Will (”Però è grandioso che Will lo abbia detto a tutti quanti”), per la rappresentazione dell’adolescenza come età della ricerca, per la freschezza dei dialoghi destrutturati (“io: lo sai qual è la cosa schifosa dell’amore? - a.w.g.: quale? - io: che è così legato alla verità”), per l’evidenza cristallina di alcuni pensieri (“Le cose in cui speri di più sono quelle che alla fine ti distruggono”), per la giocosità fru-fru di alcune trovate (“Deve voler dire qualcosa il fatto che un Will Grayson ne incontri un altro in un sexy shop in cui nessuno dei due aveva intenzione di entrare”)…
Morale della favola: anche nella lettura, mai lasciarsi risucchiare dai pregiudizi!
Bruno Elpis
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We are the champions
Da oggi, 10 febbraio 2015, nella collana “Einaudi ragazzi” è disponibile “In piedi nella neve” di Nicoletta Bortolotti.
L’opera romanza il celebre incontro-scontro di football, disputato nel 1942 da ufficiali tedeschi e calciatori ucraini per lo più campioni della Dinamo Kiev.
Nel 1942 l’Ucraina è dilaniata tra il totalitarismo di Stalin (“Nazismo o comunismo a me non importa niente, sbotta papà. Io voglio solo giocare a calcio”) e l’occupazione nazista (“La borsa nera, invece, fa affari d’oro: per il latte e il burro bisogna pagare lo stesso prezzo di una bicicletta”). I campioni del calcio vengono impiegati come prigionieri di guerra nel panificio diretto da Kordik (“Un po’ farabutto, perché pur di stare a galla fa l’amico dei nazisti…”) e sono selezionati nello Start, il team che affronta la squadra nemica una prima volta nel luglio del 1942 (5-1), poi nella rivincita passata alla storia come “partita della morte” (5-3).
Nonostante le minacce subite, un arbitro di parte e la prospettiva della deportazione, i giocatori dello Start diedero una dimostrazione di orgoglio e dignità, battendosi per la vittoria dopo un attimo di esitazione che consentì ai tedeschi di agguantare un temporaneo pareggio, intervenuto dopo che un ufficiale tedesco - nella pausa tra primo e secondo tempo - raggiunse gli ucraini nello spogliatoio e intimò loro di perdere. Molto famoso è l’episodio che umiliò i tedeschi nel secondo tempo: l’attaccante Klymenko scartò tutti gli avversari, portiere compreso, e anziché insaccare la palla per la sesta volta nella rete, si fermò sulla linea di porta e calciò il pallone verso il centro del campo. Questa prestazione sportiva segnò la sorte dei campioni: furono deportati, torturati e, quasi tutti, uccisi per rappresaglia…
In qualità di narratrice, Nicoletta Bortolotti veste i panni di Sasha, la figlia del portiere (“Mi sento come… Come mio padre, adesso che non può più giocare a calcio”), e attraverso gli occhi ora atterriti, ora increduli della quattordicenne, immagina la vicenda dal punto di vista di una ragazzina che - con gli amici Maksym, figlio di un terzino, e Ania, figlia di una soprano ebrea vittima delle persecuzioni razziali – sperimenta sulla propria pelle gli orrori, le miserie (“Una gustosissima zuppa cucinata con le ortiche che ho raccolto dietro il muretto lungo il lato esterno della panetteria”) e l’odio della guerra.
Questa prospettiva adolescenziale (“Quanto tempo è ‘prima di quanto tu pensi’? Esiste un orologio abbastanza grande per misurarlo?”) consente di affrontare in modo credibile ed emotivamente coinvolgente i drammi personali (“Vorrei essere la figlia che desiderava lei: generosa, gentile, femminile, e invece le è toccata una ladra, invidiosa, ribelle, che si diverte coi giochi da maschi”), familiari (“Le chiamano tessere dei sogni. O della fame. Ci scrivono la quantità di viveri cui ognuno ha diritto… Mia madre custodisce le nostre tessere come una sacerdotessa”) e storici (“Io non sono quelli della razza ariana… ma sicuramente appartengo a una razza superiore alla tua!”) che i ragazzi sono costretti a vivere: Sasha è femmina, ma ama il calcio (“Sasha, tu non devi più giocare a calcio”); Maksym è maschio, ma ama la danza (“Lui se ne va lontano dall’area a provare i passi di quel ballerino americano che batte sempre i tacchi e si chiama Fred Astaire”); Ania sembra vivere all’ombra del ricordo della madre, il cui fantasma ancora si aggira in una Kiev inquietante e occupata, mentre sulle rive del Dnper i giochi infantili (“Abbiamo nascosto un tesoro lungo le sponde del Dnepr, fra le canne piumate e i gechi di palude”) cedono il passo alle prime delicate e accennate esperienze sentimentali.
Con grazia compositiva Nicoletta Bortolotti dosa passaggi psicologici, colloqui e pensieri, intercalando ai dialoghi gli eventi storici e interpolando la trama con una fantasia (“Io e Maksym abbiamo deposto il tesoro in un bauletto di legno, poi lo abbiamo seppellito ai piedi di un carpino”) degna dell’età dei protagonisti.
Ritengo l’opera particolarmente indicata a mantenere viva la memoria e l’attenzione su eventi che hanno macchiato la coscienza dell’uomo; l’interesse calcistico si rivela strumento privilegiato per catturare l’attenzione delle nuovissime generazioni e costituisce per gli adulti un nuovo spunto per rivivere i racconti di genitori e nonni che hanno vissuto direttamente il secondo conflitto mondiale.
Bruno Elpis
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Spoiler: l’assassino è il maggiordomo!!!
Patrick McGrath con “Grottesco” sfodera un’opera dall’architettura gotica, eretta nell’atmosfera livida della tenuta-casa Usher dei Coal, che si affaccia sui miasmi di una palude e tra lugubri sinfonie (“Dal grammofono salivano le note di una canzonetta”).
Il sarcasmo noir è il tessuto connettivo di una vicenda grottesca, nella quale Sir Hugo Coal assiste con rabbia impotente all’ingresso nella sua proprietà (“Per la prima volta notai lo sguardo del maggiordomo su di me: da sotto le palpebre socchiuse brillava un’inconfondibile ostilità”) della coppia di servitori coniugi, Fledge e Doris (“Così si presentavano, lo sciacallo e la cornacchia”), alla progressiva ascesa del maggiordomo nelle grazie della moglie Harriet (“L’unico mio proponimento è narrare quel che ho sofferto per mano di un servo infido e di una moglie fedifraga”), alla decadenza etilica di Doris (“Notai che i movimenti della donna avevano qualcosa di inconfondibilmente furtivo”), alla follia strisciante della figlia Cleo….
Sir Hugo è paleontologo, elabora una spericolata tesi secondo la quale i dinosauri altro non sarebbero che uccelli, ama rifugiarsi nel fienile (“Quello era ormai a tutti gli effetti un laboratorio di ricerca”) che ha allestito a proprio studio con tanto di ricostruzione dello scheletro del Phlegmosaurus.
Rabbiosamente assiste al morboso rapporto che Fledge instaura prima con Sidney, il fidanzato di Cleo, poi con Harriet… Non può che essere lui, l’assassino di Sidney… il maggiordomo!
SPOILERISSIMO
Il grottesco della storia sta nel fatto che essa viene raccontata facendo leva sull’inversione (“Mi ha voltato la sedia a rotelle contro il muro”): tra apparenza e realtà, tra punto di vista del narratore ed elemento narrato, tra ricattatore e ricattato, tra i ruoli dei diversi personaggi (“Credo che per Fledge io rappresenti una specie di trofeo, più o meno come la testa di cervo appesa nell’atrio davanti all’orologio”).
McGrath è abilissimo nell’instillare un dubbio: e se la storia narrata fosse soltanto un gioco di specchi (“Nei suoi occhi corvini divampò il terrore”)? In tal caso, Sir Hugo trasferirebbe in Fledge – che prende il suo posto nella casa, nel letto, negli abiti - le proprie perversioni: sessuali (una prova di ciò: Sir Hugo confessa di avere un matrimonio bianco con Harriet) e perfino omicide, ribaltando sul giardiniere George Lecky ogni responsabilità e condannandolo alla forca.
Lo ammetto, sono stato contagiato e, nel mio piccolo, ho operato l’inversione tra il titolo (l’assassino è il maggiordomo!) e l’interpretazione del romanzo (l’assassino è chi trasfigura il maggiordomo, proiettando se stesso in lui!).
Bruno Elpis
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Tocca il fuso (Malefica)
“La casa delle belle addormentate” di Yasunari Kawabata è un’opera tanto più sorprendente quanto più anestetizzata dalla letargia degli improbabili protagonisti: le belle addormentate (“No, non si trattava di un balocco: per quei vecchi era forse la vita stessa”), vergini prezzolate (“una prostituta vergine, e di quell’età!”) che – immerse nel regno di Morfeo – a occhi chiusi intrattengono anziani clienti (“L’ardente desiderio di sogni irrealizzati dei poveri vecchi, il rimpianto dei giorni perduti, non era tutto racchiuso nei peccati di quella casa dei segreti?”) ormai deprivati, per età, dell’attività erotica.
Invitato da uno di questi vegliardi frequentatori, anche Eguchi (“Alla sua età, Eguchi non voleva aggiungere un altro squallido incontro”), pur sessualmente ancora attivo e quindi potenzialmente pericoloso (“E se in rappresentanza di tutti i vecchi che vengono qui a essere umiliati, per vendetta infrangessi il tabù di questa casa?”), si accosta alle gioie della stravagante casa di tolleranza (“Quanto più strana era la regola, tanto più rigorosamente la doveva osservare”) e in cinque incontri (“Non è la stessa dell’altra volta, allora?”), sempre più ravvicinati nel tempo (“Anche Eguchi a poco a poco era stato preso dalla forza magica delle ragazze costrette al sonno”), conosce le straordinarie interpreti di una modalità erotica insolita (“Non aveva mai trascorso con una donna una notte altrettanto innocente”) e carica di implicazioni.
Gli incontri si svolgono nell’ambientazione magica del luogo, nella luce rossa diffusa dalle tende di velluto, e procedono nella visione della fanciulla che di volta in volta viene assegnata, tra memorie (“Le parole dormire come morto riportarono alla mente di Eguchi il ricordo di una donna”) e ricordi (una geisha che l’aveva rifiutato, l’amante degli arcobaleni, la figlia terzogenita contesa da due pretendenti) suscitati da particolari (“Che abbia dovuto correggersi un labbro leporino?”) e aromi, nel piacere sinora sconosciuto di una sessualità non consumata alle modalità canoniche, attraversare immagini, fantasie e sogni (la donna con quattro gambe; il parto mostruoso della figlia). La prima ragazza ha il sapore di latte, la seconda è la ragazza esperta, la terza quella inesperta, la quarta è la ragazza calda. Nell’ultimo appuntamento il piacere si duplica (“Oggi ci sono due ragazze”): la ragazza bianca e la ragazza bruna, in contemporanea…
Kawabata incanta con una rappresentazione eccentrica dell’eros, blandisce con immagini e parole (“Pensare in un luogo simile a mia madre come alla mia prima donna!”), sorprende con una conclusione che è un colpo di coda tinto di noir (“Chissà per quanto tempo, dopo che il vecchio era morto, la ragazza addormentata aveva continuato a starsene calda accanto al freddo cadavere di lui”) ove amore e morte si combinano tra i profumi dei fiori e nel fragore della risacca. Con gli ideogrammi di quest’opera il Maestro giapponese trasforma – moltiplicandola in un gioco di specchi - la bella addormentata di Perrault nelle riproduzioni delle inconsapevoli, narcotizzate e complici bellezze dagli occhi a mandorla.
Bruno Elpis
Segnalo, a questo link, una rassegna fotografica della mostra che espone circa duecento xilografie erotiche intagliate da maestri come Utamaro, Hirosige o Kokusai:
http://style.corriere.it/persone/lart-de-lamour-au-temps-des-geishas/?ref=26948#gallery
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Astenersi ipocondriaci
“Il corpo segreto” di Vittorino Andreoli è un’opera eterogenea che tratta distintamente tre momenti.
LA SCOPERTA
Il narratore si accinge a tenere una conferenza sul corpo malato (“Malato è un aggettivo drammatico, ha come radice male e si riferisce a un corpo che ne viene invaso. E male si contrappone a bene”): un argomento che è sinistro presagio del dramma incombente (“Rimane strano che, durante una conferenza sul corpo malato, io non solo mi fossi ammalato, ma avessi addirittura rischiato di lasciarci le penne”). Dopo una notte trascorsa nella prestigiosa suite Raffaello della Residenza Paolo VI, dopo lo svolgimento della concione all’ Ara Pacis Augustae e il successo mietuto tra il pubblico, quando giunge il momento della cena di rappresentanza, la malattia si manifesta inaspettata e improvvisa: “Si tratta di una gigantesca emorragia”…
LA DEGENZA
Nella seconda parte, l’autore affronta sofferenze, ansie e patemi esternando con garbo pensieri umoristici (“Non potevo muovermi perché ero come il Cristo del Mantegna…”) e paradossali (“A questa tortura da Inquisizione fui sottoposto durante un’ecografia della prostata. La liturgia demoniaca incominciò…”), insofferenze (“Un’altra asta, da inserire sempre nello stesso posto”) e timori (“Nella mia mente mi aveva ricordato la trivellazione nel Mare del Nord alla ricerca dell’oro nero”), alternati a considerazioni serie sui rapporti di amicizia, sugli affetti familiari (“Ho dato a Silvia l’inimmaginabile, ma è come se a lei non fosse arrivato nulla, anzi come l’avessi privata di qualcosa”), sulla precarietà della vita umana. Nella meravigliata attestazione che la malattia può colpire una parte da sempre ignorata e vilipesa “nella coerenza di una lontana educazione che considerava sconcia l’area in cui si collocava la mia malattia”.
LA CONVALESCENZA
La terza parte del romanzo è dedicata alla convalescenza. Arriva il momento della rinuncia alla vacanza scozzese a Inverkirkaig, nella casa tanto amata sul mare, a contatto con la natura selvaggia, con la dorata solitudine di luoghi impervi e di relazioni essenziali. Ma dall’impossibilità di coronare il proprio sogno di vacanza nascono nuovi stimoli e la scoperta di una località altrettanto affascinante, più a portata di mano: sul lago di Garda, a Punta San Virgilio presso il conte Agostino Guarienti di Brenzone.
Bruno Elpis
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Tom & Jerry
“Smith & Wesson” (di nome sono Tom & Jerry!) sono gli originali interpreti di quest’opera di Alessandro Baricco.
Wesson vive in prossimità delle cascate del Niagara (“Ho un chiosco, giù, alle cascate… souvenir”), conosce il fiume (“Guardo i colori e guardo come si muove il fiume, quanto è alto, quanto è veloce…”) e ivi pratica un’attività inconsueta (“Lei negli ultimi ventiquattro anni ha ripescato 127 corpi dal fiume…”).
Smith giunge lì per sfuggire a un passato truffaldino (“Sta di fatto che è ricercato per debiti in quattro stati dell’Unione”).
Ai due strani tipi si associa “Rachel Green… inviata del San Francisco Chronicle”.
La ragazza è alla ricerca di un’affermazione come giornalista e scrittrice (“Allora la notizia la creo io”) ed è disposta a tutto pur di emergere. Emergere nel vero senso della parola, visto che i tre squattrinati (“Bene, coi miei fanno in totale circa diciannove dollari”) insieme concepiscono un’impresa folle: Rachel tenterà un salto dalle cascate in una botte di birra (“Bisogna infilare quella ragazza in qualcosa che galleggi…”) e verrà ripescata da Wesson (“C’ho la mappa in testa. La mappa del fiume. Me la sono costruita a forza di provare…”).
All’inventiva di Smith viene invece affidata la messa a punto dei dettagli tecnici del grande salto (“Le ho applicato alla parete della botte un carillon, quando parte lei tira la cordicella, lui inizia a suonare. La carica dura tre minuti e dodici secondi: è il tempo che lei ha prima che finisca l’aria”).
Sullo scenario delle “Tre sorelle” (le isolette nel fiume), di Tower Rock e di Great Falls (“Per lui quelle non erano cascate, erano un palcoscenico”) si scatena un finale apoplettico (“Sono cinquanta metri che finiscono all’inferno, Wesson!”): mentre il teatro si trasforma in botte, gli spettatori puntano i loro occhi atterriti sulla sorte di Rachel e Smith & Wesson si trasferiscono in Messico (“Smith & Wesson, spara con noi”)...
La storia è piuttosto coinvolgente: inscena le paure (“Non ho mai sofferto di vertigini, giuro”) e il dramma umano della ricerca della fama e del successo attraverso la spettacolarizzazione delle proprie abilità (“Seminiamo immaginazione, e follia e talento”) e dei propri istinti naturali di affermazione.
Bruno Elpis
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Giornata della memoria
“Dora Bruder” è una ragazza ebrea; Patrick Modiano è il recente premio Nobel per la letteratura. In quest’opera Modiano tenta di portare alla luce una storia per la quale un annuncio di giornale (“Al Collegio del Sacro Cuore di Maria, da dove Dora Bruder sarebbe scappata una sera di dicembre in cui forse su Parigi era caduta la neve”) è la punta di un iceberg.
Nata nel 1926 (“Nel reparto di maternità di questo ospedale sono nati, nello stesso periodo di Dora, molti bambini di famiglie ebree povere che erano appena immigrate in Francia”) e figlia di ebrei immigrati a Parigi, viene ospitata in un collegio (“… giugno 1940, le allieve e le suore lasciano Parigi e si rifugiano nel Maine-et Loire””) dal quale fugge proprio quando la persecuzione nazista si propaga a macchia d’olio nell’Europa occupata dalla violenza di Hitler.
La famiglia Bruder sembra non aver radici (“(“Sono persone che si lasciano dietro poche tracce. Quasi anonime”) e cerca di proteggere la figlia (“Non ha dichiarato la figlia”): lo scrittore si aggira per Parigi (“E in mezzo a tutte quelle luci e quell’agitazione stento a credere di essere nella stessa città in cui si trovavano Dora Bruder e i suoi genitori…”) immaginandola ai tempi della storia che desidera estrarre dalle macerie dell’oblio e dal determinismo nichilista del fluire del tempo (“Cammino per strade vuote. Per me restano tali anche la sera, nell’ora di punta…”).
Cosa si nasconde dietro alla fuga (“La fuga… è una richiesta di aiuto e in certi casi una forma di suicidio”) di un’adolescente (“Sembra però che ciò che ci spinge a fuggire d’improvviso sia un giorno di grigiore e di freddo che ci fa provare una solitudine ancora più acuta e la sensazione di una morsa che si chiude”) che si aggira nel suo mistero, forse incurante del precipitare degli eventi (“Era in febbraio, pensavo, che loro dovevano averla presa nelle loro reti”) che coinvolgono la sua famiglia, la sua gente (“Hanno seguito il lungo corteo di profughi sulle strade che scendevano verso la Loira”) e l’umanità intera?
Tra le tracce rinvenibili negli archivi (“Il 13 agosto 1942 le trecento donne ebree che erano ancora internate alle Tourelles furono trasferite al campo Drancy”) e raccogliendo qualche testimonianza, Modiano lascia che le emozioni di scrittore prevalgano sulla fredda sequenza dei dati e dei risultati della ricerca storiografica (“Le Tourelles erano soltanto una stazione di smistamento dove ogni giorno si rischiava di partire per una destinazione ignota”). Dopo essersi affannato a interpolare i vuoti (“Ho provato una sensazione di assenza e di vuoto ogni volta che mi sono trovato in un posto in cui avevano vissuto”) sepolti da enigmi e oblio, l’artista fa un passo indietro, per assicurare, alla sua eroina che ha il volto tramandato da poche fotografie, il sacrosanto diritto di esistere in una libertà soltanto ipotetica, storicamente travolta dalla follia omicida dell’umanità: “Ignorerò per sempre come passava le giornate, dove si nascondeva, in compagnia di chi si trovava durante l’inverno della sua prima fuga e nelle poche settimana di quella primavera in cui scappò di nuovo. E’ il suo segreto. Povero e prezioso oggetto che i carnefici, le ordinanze, le autorità cosiddette d’occupazione, il deposito, le caserme, i campi, la Storia, il tempo – tutto ciò che insozza e distrugge – non sono riusciti a rubarle.”
Bruno Elpis
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Rude scontro con il lettore
Giuseppe Culicchia – in “Ma in seguito a rudi scontri” – rappresenta una vicenda che suscita lo sdegno del lettore. Né il sospetto che si tratti di una provocazione finalizzata a indurre rifiuto consente di assolvere un testo atroce sia per le situazioni descritte, sia per il linguaggio adottato.
È il “1 aprile 1945… oggi poi che è Pasqua sembra di stare in una città fantasma”. A Torino, si incontrano il fascista Ermanno Zazzi - “sottotenente paracadutista della Folgore” – e un ufficiale delle SS, Franz Hrubesch: costui è mutilato di guerra (“senza un braccio e con un piede artificiale”), soffre della sindrome dell’arto fantasma (“Stamattina gli fa male anche il braccio sinistro, malgrado sia rimasto in Russia”) e ha perduto figlioletti e moglie (“Che mi resta?... La guerra”) nel bombardamento di Dresda (“Tempesta di fuoco. E Dresda l’hanno scelta proprio perché sapevano che… era… piena zeppa di civili e prigionieri e profughi dall’Est”): è praticamente un uomo finito, nonostante la sua divisa incuta ancora terrore (“l’aquila con tanto di svastica tra gli artigli”). Ermanno Zazzi, tifoso della peggior specie del Torino, lo convince a farsi accompagnare allo stadio, ove la squadra del cuore incontra l’odiata Juventus in un derby che è una guerra in miniatura tra calciatori, tra tifoserie. Ma prima della partita, i due fanno tappa al postribolo (“Tariffario prestazioni della casa: semplice lire 1,50 doppietta lire 2,50…”)…
Tra le rievocazioni delle atrocità del conflitto (“A Marzabotto i tuoi camerati hanno ammazzato anche i neonati. Mi è stato detto che li lanciavano in aria e gli sparavano, come al tiro a segno”) e l’odio sportivo, mentre la seconda guerra mondiale sta per concludersi con la disfatta nazista, il lettore patisce una narrazione – a tratti surreale, come quando si susseguono le visioni dei futuri scandali che coinvolgeranno il calcio - nella quale riesce a detestare e respingere protagonisti, situazioni, oppio dei popoli e uno sport che è ricettacolo di corruzione, frustrazioni e qualunquismo…
Bruno Elpis
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Sentirsi “sbagliato”
“Ragazzo da parete” di Stephen Chbosky (edito nel 2012 con il nuovo titolo "Noi siamo infinito") è un romanzo epistolare formato dalle lettere (“…meglio di un diario, perché creano una sorta di relazione, e perché il diario potrebbe sempre essere trovato”) che il quindicenne Charlie spedisce a un destinatario non ben identificato nell’arco temporale corrispondente al primo anno del liceo.
Charlie sperimenta sulla propria pelle un senso di anomalia (“Ho davvero qualcosa che non va. E non so di che cosa si tratti”) e di incongruenza (“Lo psichiatra, che mi spiega il significato dell’espressione passivo aggressivo”), mentre nella fase adolescenziale affiorano – combinate secondo le regole della complessità vitale dell’età – le pulsioni sociali, sentimentali e psicologiche tipiche di chi è alla ricerca (“Vorrei soltanto che Dio, i miei genitori, Sam, mia sorella o qualcun altro mi dicessero che cosa c’è che non va in me”): della propria identità personale, familiare, relazionale. Con un debito di consapevolezza nei confronti del passato che – nonostante non siano trascorsi troppi anni – giace sepolto, travolto dalle rimozioni infantili.
Charlie ha un rapporto preferenziale con un giovane insegnante (“Bill mi assegna dei libri speciali da leggere quando non sono a scuola”). E ha segreti che lo legano al padre (“Si è messo a piangere durante l’ultima puntata di M*A*S*H*, e mi ha confidato il suo segreto, e mi ha tenuto sulle ginocchia, e mi ha chiamato campione”), alla sorella incautamente incinta di un compagno con il quale ha instaurato un rapporto burrascoso e manesco, con Patrick, l’amico dell’ultimo anno che vive sulla propria pelle i pregiudizi scatenati dall’omosessualità.
Della sorella di Patrick, Sam è segretamente innamorato. Per lei non accetta la prima relazione con Mary Elizabeth (“Mary Elizabeth… credo sia iniziato tutto quando la stavo aiutando a graffettare l’ultimo numero di Punk Rock, venerdì, prima di andare a vedere il Rocky Horror Picture Show”), che sente non autentica (“Ho restituito il libro che mi aveva comprato Mary Elizabeth”) e trova un modo plateale per dichiararsi (“Patrick ha proposto di giocare a obbligo o verità: adora farlo, dopo essersi scolato una bottiglia”).
Il sentirsi eccentrico e inappropriato si combina all’anelito verso l’infinito e nel desiderio di appartenenza (“Fuori tutto tace. Lo so. E prima ho guidato fino al Big Boy. E ho visto Sam e Patrick. Ed erano con Brad e Craig. E la cosa mi ha reso triste, perché volevo restare da solo con loro”), che si manifesta nell’intensità di legami viscerali, Charlie sperimenta il dolore per il suicidio di un amico, le prime sigarette, le avventure lisergiche, le feste comandate, gli appuntamenti di una gioventù danzante, teatrale e immersa negli esperimenti culturali (“Quando sono andato al Rocky Horror Picture Show, quella sera, c’era molta tensione”), per approdare alla scoperta del proprio trauma e a una nuova consapevolezza di sé: “Perché ero in piedi, nel tunnel. Ed ero presente, davvero. E questo mi è bastato a farmi provare quella sensazione di infinito.”
Bruno Elpis
P.S.: Le letture che l’insegnante Bill propone a Charlie ben potrebbero rappresentare un interessante percorso di lettura:
- Il buio oltre la siepe di Harper Lee
- Di qua dal paradiso di F.S.Fitzgerald
- Pace separata di John Knowles
- Peter e Wendy di J.M. Barrie
- Il grande Gatsby di F.S.Fitzgerald
- Il giovane Holden di J.D.Salinger
- Sulla strada di Jack Kerouac
- Il pasto nudo di William S. Burroughs
- Walden ovvero Vita nei boschi di Henry David Thoreau
- Amleto di William Shakespeare
- Lo straniero di Albert Camus
- La fonte meravigliosa di Ayn Rand
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Blu, rosso e verde
In “Tabù” di Ferdinand von Schirach, la storia di Sebastian Eschburg scorre dall’infanzia alla maturità attraverso le pagine di un romanzo coinvolgente nelle premesse, ma che spiazza nel finale.
Sebastian è un bambino molto legato al padre, un uomo problematico (“Il padre puzzava di alcol, aveva l’aria stanca”), che ha una relazione clandestina in Austria, ove si reca per cacciare. Il piccolo adora la sua casa “tra Monaco di Baviera e Salisburgo… la casa in riva al lago”, ma proprio lì è testimone di un suicidio che mina per sempre la sua vita (“Non distingueva tra storie e realtà”). Studia in collegio e, nelle vacanze, assiste alla nuova relazione che la madre instaura con l’amante, chiamato Artefice (“Quando Sebastian ebbe compiuto sedici anni, sua madre gli presentò il suo nuovo compagno”). Dalla madre si allontana (“Ebbe l’impressione che tra lui e sua madre si fosse alzato un muro”), anche perché rimane profondamente turbato dalla vendita della casa di famiglia (“Un uomo senza la sua casa è perduto”): un’esperienza traumatica che si aggiunge al vissuto già compromesso. Inutile tornare sul luogo dell’infanzia, la casa non esiste più (“Riservato ai soci del golf club”).
Gli anni passano e Sebastian diventa un fotografo di nudi di successo (“… forse è da lì che è nata l’opera Gli uomini di Maja”), ma incontra numerose difficoltà relazionali (“Capì che non c’era più niente da dire, perché era passato troppo tempo e perché non c’erano più la casa sul lago e i giorni pieni di luce”).
Quando il fotografo viene incolpato di un omicidio atroce, dimostra totale indifferenza per l’accusa che gli viene rivolta (“Eschburg era accusato di avere sequestrato e ucciso la sorellastra, il cui cadavere non era stato ritrovato”) e rilascia una confessione sottoposto alle pressioni fisiche della polizia.
S’interessa di lui uno strambo avvocato, Konrad Biegler, (“Trovo interessante il suo caso, ma non per il presunto cadavere scomparso e tantomeno perché lei è un artista famoso. A me del suo caso interessa solo la questione della tortura”), che dimostrerà l’innocenza del suo assistito in tribunale, con una rappresentazione che lascia tutti a bocca aperta (“Ma perché tutta questa messa in scena? ...Non tollerava più nulla tra sé e il quadro. Tiziano dipingeva con il suo stesso corpo”)…
Il romanzo assume il cromatismo (“Lui pensava per immagini e colori, non con le parole”) e l’arte di Goya (“… Mi ricorda Goya. Anche lui aveva fatto la stessa cosa, aveva dipinto i suoi incubi sulle pareti della sua casa di campagna, le cosiddette Pitture nere: ce n’è una in cui saturno divora i suoi figli”) come registri narrativi; la vicenda è molto metaforica nel contestare la violenza di accuse costruite con metodi rozzi e disumani, che pretendono di estorcere la verità (“La bellezza non è la verità… La verità è brutta, puzza di sangue…”) a partire da indizi apparenti (“La verità e la realtà sono due cose completamente diverse”). Lo scopo è apprezzabile, ma forse disorienta il lettore con un eccesso di simbolismo (Senja Finks… “Sfinks, sfinge… una figura femminile con corpo di leone alato che divora chi non risolve i suoi enigmi”).
Bruno Elpis
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Catturare la volpe bianca per la coda
La “Musica” composta da Yukio Mishima è misteriosa, elaborata, scritta sulla partitura di un animo sfaccettato e multiforme.
In “Musica” viene messa la storia di Reiko, bellissima ventenne (“Reiko era fredda e trasparente come l’acqua”) che si rivolge al dottor Shioni, professione psicanalista, per affrontare la frigidità che l’affligge. E che si manifesta con un sintomo anomalo: “Dottore, perché non sento la musica?”
L’operato del terapeuta è ostacolato dall’indole complicata della paziente (“Un fascio di nervi tesi, un’aggrovigliata matassa psichica”) e dalle feroci resistenze che la donna oppone; la terapia viene costantemente alimentata dall’interesse che il dottore nutre per la paziente nel classico meccanismo di un transfert (“La chiara testimonianza del fallimento della mia terapia, invece di procurarmi un senso di scoraggiamento, mi faceva provare quasi la gioia di una vittoria”) che minaccia di lasciar prevalere il sentimento amoroso (“Noi due soli in una camera chiusa a chiave, isolati da tutto il resto del mondo”).
Le cause apparenti e dichiarate dalla donna emergono in un circuito tormentato da relazioni complicate: il promesso sposo, imposto dalla famiglia, che poi si ammala e muore (“Diventerò una donna che può ascoltare la musica solo,,, davanti a un uomo in fin di vita”); un affascinante atleta, con il quale la donna non conosce le gioie del piacere sessuale (“Ho pensato di fingere di provare piacere”); un giovane impotente e afflitto da manie suicide ( come l’Armance di Stendhal: “Più tardi lessi Armance e scoprii che Octave era un impotente che alla fine con un gesto eroico si suicidava”) conosciuto durante un viaggio (“Una rupe che fronteggia il mare dell’estremità meridionale della penisola di Izu”) e con il quale (“La sua immagine sulla roccia, simile a un cormorano”) Reiko instaura un sofferto legame di compensazione (“Tu sei un vero uomo. Perché gli uomini non hanno la tua stessa eleganza e dignità? Qualsiasi uomo… è reso ridicolo dal desiderio sessuale”).
L’interpretazione del simbolo ricorrente delle forbici (“Devono essere di sicuro femmina, perché per quante volte le aprissi e guardassi fra le lame, non c’era niente”) e l’impostazione freudiana tradizionale (“La paura e la tensione che nascevano dal desiderio di tagliare e dalla proibizione di tagliare rappresentavano il tabù dell’incesto”) sembrano insufficienti a risolvere il caso e richiedono uno stacco (“Alla fine di un’analisi, il terapeuta ha sempre bisogno dell’aiuto di un fatto reale… una realtà che agisca come un elettroshock”). Grazie al quale il dottor Shioni individua la causa profonda del disagio: che risiede nell’infanzia di Reiko, in un sentimento di amore e gelosia che richiede una spedizione nella zona di San’ya, quartiere malfamato di Tokyo, a riesumare una pulsione sotterrata nel profondo dell’anima (“La causa della sua frigidità era … nella preoccupazione di partorire il bambino di un altro uomo e non di…”).
Nel romanzo Mishima condensa attrazione e idiosincrasia per una disciplina occidentale che lo incuriosisce come strumento di analisi e, al tempo stesso, minaccia di tradire la matrice spirituale di stampo orientale alla quale lo scrittore non vuole rinunciare (“La pura sacralità e la totale oscenità si somigliano molto”) nello stile che rende Mishima un autore unico (“Forse stava per arrivare l’attimo che aspettavo, forse nella luce del crepuscolo sarei riuscito finalmente ad afferrare la coda della bellissima volpe bianca”) e indimenticabile (“Nel mondo del sesso non c’è un’unica felicità per tutti”).
Bruno Elpis
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Commento interattivo con l'autrice
Quella che pubblico oggi è la terza puntata di un esperimento: il commento interattivo, ossia la recensione scritta con lo zampino dell’autore recensito, che viene chiamato in causa a più riprese… Le precedenti puntate le trovate in www.brunoelpis.it
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Anche il secondo racconto delle “Novelle col morto” di Gaia Conventi è ambientato ad Arginario Po, ne “La locanda del Giallo”, ove alloggiano quattro scrittori che lì trascorrono la notte prima del decadente festival dedicato al giallo: la rappresentante del giallo classico che ormai vive di memorie, il piacione-farfallone sulla via del tramonto, la velina incarnazione vivente dell’erotic thriller, l’esordiente con il capolavoro ben annidato nella memoria del pc…
Fuori la verità, dietro a ciascuna tipologia di scrittore tu hai un nome e un cognome… oppure Iduccia, il bel Giuffré, la provocante Ludmilla e Mariolino Millusi sono per te quello che per Platone era “la cavallinità”, cioè soltanto un’idea astratta?
Gaia: “Ecco, dai, tiriamo dentro anche Platone! No, su, non facciamola così difficile: ci sono nomi e cognomi, ma sono mixati per bene. Nessun personaggio è mai una persona, una e una soltanto. Lì c'è il sunto di chi ho conosciuto nell'ambiente, di chi ho schivato, di chi ho voluto conoscere per cavarmi una sana risata e dirmi che l'acquario editoriale è un mondo di pazzi. E io coi pazzi mi diverto sempre, soprattutto quando pensano d'essere sani di mente.”
Ma è proprio vero che gli scrittori sono una “Strana razza”? E come strana razza, sono più narcisi (“Fingere falsa modestia rientra tra i compiti sociali di ogni romanziere”) o – per dirla con il locandiere – sono piuttosto persone dalle modeste capacità (“quattro cialtroni… sembravano soltanto quattro zucconi”)?
Gaia: “C'è scrittore e scrittore. Tra i tanti, qualcuno lo salvo. Qualcuno che fa lo scrittore e sa che è un mestiere, il più bello, ma per farlo bene devi rinunciare a molto altro. Io, tanto per dire, mi definisco sempre un blogger: così non mi nego niente. E poi sì, noi che imbrattiamo carta siamo tutti dei narcisi, non potrebbe essere altrimenti: mettiamo le nostre idee in piazza, vogliamo che la gente le conosca. Mi pare sia pretendere parecchio! Siamo strani, ma il più è saperlo. A ogni autore occorre fare la tara: tolta la tutina da super-scrittore resta l'essere umano. A volte vale la pena assistere allo spogliarello. Ma solo a volte.”
E tu, come scrittrice, in quale tipologia ti identifichi (vietato trincerarsi dietro allo slogan di “Giramenti”, il blog di Gaia Conventi, ossia “smetto quando voglio”)?
Gaia: “Però è così, giuro! Un giorno troverò un hobby più divertente di questo, magari mi metterò a fare presine con la rafia, chi può dirlo. Io scrivo quando ho qualcosa da dire, qualcosa che mi diverte comunicare e che penso possa far passare degnamente il tempo a chi mi legge. Se cala il divertimento – mio e altrui –, ciao a tutti e mi metto a impagliare sedie. Nessuno noterebbe la mia scomparsa, tranne il tale a cui avrò soffiato le sedie.”
Poi nella “Locanda del giallo”, la notte prima dell’evento letterario, ci scappa il morto… Intendevi dire che gli scrittori sono disposti a tutto pur di agguantare un attimo di celebrità (“Il festival stava andando a rotoli e quel delitto era una manna dal cielo”)?
Gaia: “Ah, ci puoi giurare! Ho visto cose che voi umani... ma se le racconto – senza la scusa dell'alcool – mi menano. Diciamo che l'attimo di celebrità piace a tutti, anche al vicino di casa che il tg intervista a salma ancora calda, ma agli scrittori piace un pochino di più. Non dico che la salma la procurerebbero appositamente, ma quasi.”
E adesso la rivelazione che ogni scrittore nega, quasi fosse un genitore al quale viene chiesto di riconoscere che tra i figli ha una preferenza. Tra le due “Novelle con il morto, Gaia Conventi ha un debole per…
Gaia: “La seconda, senza alcun dubbio. Spazio ai dialoghi e tutti cattivissimi. Insomma, il mio pane!”
Accidenti Gaia, mi ero dimenticato che qui, a qlibri.it, bisogna anche dare i voti all’opera commentata (dall’1 al 5, come nelle scuole di certi paesi esteri). E adesso come facciamo in una recensione interattiva? Va be’, per questa volta i voti li do io e chi ci leggerà comprenderà che li esprimo nell’assoluta convinzione di essermi divertito a tutto spiano, sia leggendoti, sia scrivendo con te…
Gaia: “Mi è andata bene! Temevo di dovermi dire brava da sola...”
Gaia Conventi e Bruno Elpis
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Parenti serpenti da Nobel
Le Nœud de vipères di François Charles Mauriac è la confessione epistolare di Luigi, un uomo di sessantotto anni che vede tutta la sua famiglia – moglie, figli e nipoti – ronzare intorno a lui nell’attesa di ereditare il patrimonio che egli ha accumulato anche grazie all’avarizia. Nutre pertanto la prospettiva di una vendetta che consiste nel diseredare i ”parenti serpenti”. Ma la moglie muore prima di lui e la sua visione delle cose cambia profondamente, soprattutto nell’imminenza della fine dei suoi giorni.
Nella sua lettera, Luigi parla della sua storia con la moglie Isa, dell’amore soffocante di sua madre, delle sue crisi di gelosia. Analizza il suo rancore e i rapporti familiari, fondati sull’interesse economico, e progressivamente matura la “conversione”. Luigi non potrà terminare la sua lunga lettera perché muore nel corso della scrittura. L’ultima parola sarà « ador… ».
Il tema del denaro, del senso della vita, l’idea di Dio e del sentimento religioso si intrecciano in un groviglio che ha la stessa potenza immaginifica del “nodo di vipere” evocato dal titolo e che allude sia ai “parenti serpenti” sia all’intreccio di sentimenti e meccanismi negativi - odio, rancore, invidia, gelosia, ripicche, vendette – che affollano il cuore e lo comprimono.
L'ateo convinto, che aveva sempre accusato moglie e i figli di praticare la religione con ritualità abitudinaria e superficialità, riesce a cambiare e a perdonare, mentre i figli, neppure dopo aver letto il suo diario, riescono a perdonarlo o a capire che le loro colpe non sono inferiori a quelle del padre.
Mauriac, premio Nobel per la letteratura nel 1953, ha scritto un’opera spietata, poco indulgente, spigolosa, che tuttavia ha la profondità della verità e la schiettezza di chi non conosce le mezze misure.
Bruno Elpis
Post scriptum sul Nœud de vipères
La natura fornisce spunti continui sia al linguaggio di tutti i giorni, sia all’immaginazione artistica che nella natura stessa ravvisa occasioni per metafore e trasposizioni.
Nel caso dei rettili, sembra che uno spettacolo da brivido venga offerto da una strategia comportamentale: per conseguire risparmio di calore, le serpi attuano il cosiddetto svernamento di gruppo; numerosi individui (addirittura centinaia!) realizzano uno stretto contatto che permette il mantenimento di temperature più elevate negli ibernacoli. Sono stati osservati anche casi di svernamento di specie diverse nelle stesse cavità, talvolta anche di prede e predatori in contemporanea: coesistenza possibile in quanto nei periodi freddi i rettili non si alimentano.
Quando escono dall’ibernazione in primavera, le serpi offrono uno spettacolo impressionante formando enormi grovigli di maschi che cercano di accoppiarsi con le femmine.
A queste immagini spesso si ispira l’uomo nel suo linguaggio, quando utilizza il fenomeno naturale sopra illustrato per rappresentare in senso spregiativo una situazione di intrighi o un intrico di personaggi infidi.
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Tre pettini
“Atti di adorazione” è una raccolta di sette racconti, nei quali Yukio Mishima si riconferma autore complicato, dalle mille sfaccettature. I racconti non esauriscono infatti il loro significato nella storia, che spesso è sprovvista di azione, ma costituiscono occasione per riproporre culti, luoghi, idee e rappresentazioni.
Il primo racconto dà il nome alla raccolta e s’intitola “Atto di adorazione”.
Il protagonista è Fujimiya, un vecchio professore-poeta sessantenne (“Non c’era persona più solitaria e distaccata di lui”), fisicamente poco avvenente (“L’occhio cieco del professore era il sinistro”), stravagante nei modi di fare (“Lo avevano soprannominato dottor Strambo”), idolatrato dagli allievi (“Attorno al professore si era raccolta una schiera di seguaci, che lo consideravano un dio e si sorvegliavano gelosamente a vicenda nel timore di vedersi usurpare il favore presso il maestro”), spesso ermetico (“L’unico desiderio del professore… era che l’oscurità cavernosa della sua stanza migliore si riempisse del soffio della gioventù”), afflitto da misofobia, che manifesta nel disporre sempre di “un tampone imbevuto d’alcol”.
Quando parte per un pellegrinaggio (“Il loro triplice pellegrinaggio ai templi di Kumano”), chiede alla governante Tsuneko (“Talvolta ella si considerava addirittura la vestale del tempio di una sorta di comunità segreta, nata intorno alla figura del professore”), vedova quarantacinquenne che è anche aspirante poetessa, di accompagnarlo tra le ambiguità (“Ella aveva sognato un reciproco rispetto esaltato non da un amore comune, ma dall’amore sublime che dimora all’ombra dei cedri antichi, nel profondo delle montagne. Non avrebbe avuto nulla a che vedere con le solite banalità dell’amore tra uomini e donne ordinari, e nemmeno con l’esaltazione della reciproca bellezza che talvolta passa per amore”) e le complicanze (“La donna si accorgeva di essersi abbandonata ai pensieri più proibiti”) del loro rapporto.
Tsuneko è convinta che l’anziano professore nasconda un segreto (“Tsuneko si era convinta che, se soltanto fosse riuscita a comprendere il segreto che permetteva al professore di spremere una tristezza tanto raffinata da una vita così prosaica, lei sarebbe stata in grado di scrivere poesie degne del suo maestro”). Ne avrà la certezza quando assisterà, presso ogni tempio visitato, al rito dell’interramento di tre pettini (“Il professore continuava a tacere sui pettini ornamentali”), ciascuno dei quali reca un ideogramma che compone un nome di donna: Kajoko. Di tutto ciò la donna fornirà la propria personale interpretazione, anche alla luce del concetto dell’arte poetica come nascondimento (“Con il risultato che queste poesie descrittive, così emozionalmente trattenute, hanno una sottile capacità di destare sentimenti”).
Come spesso avviene in Mishima, la storia è anche occasione per celebrare luoghi e tradizioni. In particolare l’abilità descrittiva si abbatte sulla “cascata di Nachi… uno dei luoghi sacri”, oggetto di credenze mitologiche (“La convinzione che il luogo fosse l’accesso al regno dei morti”) e dall’aspetto simbolico (“Non aveva più niente della ninfa, era anzi un’immensa divinità maschile dall’aspetto feroce”).
Tra gli altri racconti, segnalo “La sigaretta”, che affronta il tema dell’adolescenza come epoca di scontro tra interiorità ed esteriorità, mutamenti fisici e turbamenti psicologici, emozioni e trasgressioni, individualismo e istinto gregario.
In “Pane all’uva”, invece, ritroviamo un Mishima straordinariamente inquietante sia nella raffigurazione di un giovanile rito collettivo (una specie di rave: “Poco dopo un giovane in perizoma di pelle di leopardo comparve brandendo in una mano una scimitarra e nell’altra un pollo bianco, vivo, ciondolante a testa in giù”), sia nell’affresco del protagonista scampato a un tentativo di suicidio (“E a poco a poco, era divenuto trasparente…”), sia nell’abbozzo di una violenza forse incomprensibile ai nostri occhi…
Bruno Elpis
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Ipotesi, tesi e corollari
Pier Paolo Pasolini dimostra un inquietante “Teorema” in quest’opera (anche cinematografica) che nel 1968 fu considerata oscena.
L’equilibrio di una famiglia della piccola borghesia (“Si tratta di una famiglia piccolo borghese: piccolo borghese in senso ideologico, non in senso economico… persone molto ricche, che abitano a Milano”) viene minato dalla presenza di un ospite: un affascinante giovane, che seduce i quattro componenti della famiglia – il padre Paolo, la madre Lucia, il figlio Pietro e la figlia Odetta – e la collaboratrice domestica, Emilia. Con ciascuno di loro (“Benché nascondano un segreto non condiviso, gli sguardi che Lucia, Pietro e l’Emilia non hanno che per l’ospite, sono pieni di trepidazione e di purezza”) l’ospite ha un accondiscendente rapporto di complicità, comprensione e protezione, quasi paterno (“Come se fosse tornato, no, non nel grembo della madre, ma nel grembo del padre”).
Quando il giovane riparte, ciascun individuo ha reazioni eclatanti e amplificate, attraverso le quali manifesta la sofferenza dell’abbandono e l’insofferenza per il precedente, fragile sistema di vita.
L’analisi-dimostrazione di Pasolini penetra gli schemi esistenziali (“Non mi piacciono gli uomini, è detta con protervia ed elegante umorismo… nasconde una verità”), fisici (“la camera… è arredata, cioè, col gusto che le madri attribuiscono ai propri figli”) e psico-sociali (“il pudore e la vergogna – che la sua classe sociale vive in lei…”) della famiglia borghese.
Particolarmente tragica la crisi che investe il padre (“Infatti, come un padre, il deserto lo guardava da ogni punto del suo orizzonte sconfinatamente aperto”), fulcro di un patriarcato che crolla nell’impalcatura: “Così quando il sole rinasceva in un punto dell’orizzonte non contrassegnato da nulla, ecco che, come se nulla di reale fosse accaduto, il deserto era intorno, col disegno e la luce del giorno prima, e con l’ardore terribile del sole che si tornava a identificare col pericolo e con la morte”.
L’opera è un misto di prosa e poesia. Nell’appendice alla parte prima, ciascun protagonista declina in versi il proprio dramma (il fratello “Sete di morte”, la sorella “Identificazione dell’incesto con la realtà”, Lucia “La perdita dell’esistenza”, Paolo “La distruzione dell’idea di sé”. Soltanto il dramma di Emilia viene articolato dall’ospite in “Complicità tra sottoproletariato e Dio”, a significare una visione classista della storica contrapposizione proletariato-borghesia).
Nella poesia “Sì, certo, cosa fanno i giovani…”, si rintracciano passaggi che consacrano Pasolini come indiscusso protagonista intellettuale e originale interprete dei movimenti culturali dell’epoca:
“Di cosa parlano i giovani del 1968 – coi capelli
barbarici e i vestiti edoardiani, di gusto
vagamente militare, e che coprono membri infelici come il mio,
se non di letteratura e di pittura? E questo
che cosa significa se non evocare dal fondo
più oscuro della piccola borghesia il Dio
sterminatore, che la colpisca ancora una volta
per colpe ancora maggiori di quelle maturate nel ’38?”
Bruno Elpis
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Matrimonio morganatico
“Guanti bianchi” di Edgarda Ferri è un romanzo storico che narra dell’attentato di Serajevo: l’evento ebbe come vittima l’erede al trono degli Asburgo (“Francesco Ferdinando, che si firmava e si faceva chiamare da tutti Archidux…”) e diede il via alla guerra mondiale.
Delineando il profilo dell’arciduca, l’autrice si sofferma sul rapporto d’amore che lo univa alla moglie sposata con matrimonio morganatico (“Non è un matrimonio tra uguali, bensì un matrimonio morganatico, onde per necessaria conseguenza né alla nostra consorte né ai figli … spetteranno onori, diritti, titoli, blasoni…”) e sul conseguente trattamento che la donna – anche lei vittima - ricevette (“Ogni volta che si accennava alla povera morta, era tutto un incespicare e arrabattarsi fra i termini moglie, contessa, principessa, duchessa, arciduchessa… una donna sposata morganaticamente e morta ammazzata accanto al marito e successore alla corona d’Austria e Ungheria”).
Sullo sfondo dell’opera campeggiano la figura dell’ottuagenario Francesco Giuseppe e l’atmosfera della Vienna crogiolo di cultura (“Sigmund Freud, il dottore che cura le anime, apre la sua casa agli allievi e assistenti per capire i motivi che spingono al suicidio molti giovani appartenenti all’Impero”) ed arti (la “vedova di Gustav Mahler esibisce il suo leggendario decolleté come se fosse un balcone avvolto in una nuvola d’organza…”) in uno strano, contradditorio connubio (“Tutta questa gente scettica e colta, che considera Vienna un laboratorio sperimentale alla fine del mondo…”).
La narrazione, piuttosto lenta, è consigliata a chi abbia uno specifico interesse per l’argomento trattato.
Bruno Elpis
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- sì
- no
Migrazioni
Il libro “I cavalieri della grande laguna” di Fulco Pratesi è stato pubblicato nel 1979 ed è una storia nata sulla scia dell’entusiasmo dell’autore per un fatto di grande portata ecologica: il ritorno del cavaliere d’Italia, elegante trampoliere, nella laguna di Orbetello (“Un’emozione difficile da descriversi. Dopo cento anni il cavaliere era tornato”).
“In questo libro ho voluto raccontare, in forma romanzata ma basata su più di un decennio di osservazioni dal vero, l’epopea del primo stormo di cavalieri, seguendolo dalla partenza dalla Spagna fino all’arrivo nel grande lago centrafricano ove questi uccelli trascorrono l’inverno.”
L’avventura della squadriglia, che ha Durante come capobranco, si svolge - nello spazio - tra Spagna, Italia e Africa e - nel tempo - attraverso le stagioni della cova, della nascita dei piccoli e della migrazione.
I protagonisti hanno nomi propri (“Vista… il suo nome, nella complicata etimologia dei cavalieri, era un’abbreviazione del lungo vista-la-volpe-diede-l’allarme-al-gruppo”) che li definiscono (“Quando, quando-piove-è-tutto-contento”) per un particolare fisico (“Zampa, un maschio nato con una zampa sola”) o caratteriale (“Salina, una femmina che sosteneva che nelle saline si poteva benissimo nidificare, malgrado il parere di tutti”), possiedono un forte senso della coppia (“Durante e Sette, Coccodrillo, Pittima e Piuttosto, Quando e Salina, Vongola e Stecco…”) e della comunità (“Ma certo esisteva un legame occulto e potente tra i componenti dello stormo in volo di migrazione”), interagiscono con le altre specie di volatili ( che siano “pernici di mare, pettegole, corrieri piccoli, fratini” o stormi “dei piovanelli, dei gambecchi e dei combattenti”), partecipano ai concerti della natura (“Tutta la notte in cielo erano risuonati i richiami dei chiurli e delle pivieresse, la luna aveva fatto da sfondo alle sagome rapide e compatte dei germani, dei fischioni, delle marzaiole”), ragionano secondo schemi antropomorfi, ma sempre dal punto di vista dell’animale: così i fucili sono “bastoni di tuono”, i proiettili sono “semi di morte”, la stagione della caccia è “la grande strage”, le case sono le “tane degli uomini”, le barche “i tronchi vuoti” e il mezzogiorno è “ombra corta”.
L’uomo è sempre visto con terrore, anche quando compie azioni innocue come infilare gli anelli di riconoscimento sulle zampette degli uccelli. Il bipede che maneggia strumenti di morte è infatti più temuto della volpe, dei ratti, dei falchi , di tutti i predatori (“la terribile albanella minore, un grande falco dei canneti… Il rapace in caccia planava ad ali aperte sfiorando i culmi delle canne…”) che agiscono per la “Grande Legge”: un ordinamento spesso crudele, al quale tuttavia i cavalieri obbediscono riconoscendo la portata universale e sostanzialmente benefica della mano invisibile della Natura sull’evoluzione della specie.
Un libro da leggere, gustando la libertà e la bellezza dei cavalieri d’Italia (“I trampolieri avevano dormito, la testa sotto l’ala, una zampa bloccata in posizione verticale…”) e parteggiando per le loro sorti, contro le azioni esecrande dell’uomo…
Bruno Elpis
Come sempre, il commento viene riportato tra le recensioni di www.brunoelpis.it con alcune foto di cavalieri d’Italia e aironi, i miei biglietti augurali ai q-amici: per un 2015 ricco di felicità e libertà. Questo commento è dedicato a Marina, l’amica che mi ha regalato il libro, spigolando sulle bancarelle di Milano…
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Alea iacta est, il dado è tratto!
Con “Giulio Cesare, il primo dei Cesari”, la “nostra” Antonella Di Martino allunga di un’importante unità la serie degli e-book intitolati ai “Signori della guerra”.
Dopo aver sostenuto – nelle precedente opera - il gravoso compito di inquadrare e descrivere la figura di Hitler, questa volta Antonella – azionando con sapienza le leve di una macchina del tempo della quale è esperta ammiraglia - ci trasporta nell’antica Roma, a inseguire le traiettorie politico-militari del primo degli imperatori.
Nello scandire vittorie e successi travolgenti, l’autrice non si accontenta di descrivere i fatti, che abbiamo in parte appreso sui libri di storia, o le gesta del “De bello gallico” che abbiamo tradotto ai tempi del liceo (magari imprecando contro Vercingetorige e soffrendo più per i paradigmi cercati sul Castiglioni-Mariotti che per la lunghezza dell’assedio di Alesia). Nossignori, la “nostra” unisce alla cronaca storiografica sia la dimensione psicologica di un personaggio volitivo (“Alessandro alla mia età regnava già su molti popoli, e io invece non ho ancora combinato niente di buono. Non è terribile?”), determinato (“Preferirei essere il primo qui che il secondo a Roma”) e colto, sia la sfera erotico-sessuale di un amante esuberante, versatile ("Il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti: omnium mulierum virum et omnium virorum mulierem"), disinibito e appassionato (il rapporto d’amore che Cesare ebbe con Cleopatra, così simile a lui - regina, colta, mezza divina - era straordinario per la sua simmetria).
Riporto l’incipit dell’opera, che ritengo essere un’efficace sinossi in quanto contiene in embrione tutti i passaggi che l’autrice sviluppa con la biografia intensa e torrentizia di Giulio Cesare.
“Cesare è stato il primo della stirpe dei Cesari.
Politico, letterato, condottiero, capo carismatico, dittatore.
Geniale e determinato.
Corruttore senza rimorsi.
Grande oratore, amatore ancora più grande.
Uomo d’azione e di pensiero, di crudeltà e di perdono.
Un autentico conquistatore, ambizioso oltre ogni misura.
Amato e temuto. Odiato.
Non amava i limiti, di nessun genere.
Ha voluto, fortissimamente, essere il Primo.
Lo è diventato, grazie alla sua intelligenza, alla sua determinazione e, soprattutto, al suo coraggio. Al suo fascino, talvolta. Alla sua spregiudicatezza, non di rado.
Senza dimenticare la Fortuna, dea che rispettava e onorava.
I suoi assassini l’hanno reso immortale.”
Bruno Elpis
P.S.: per chi volesse conoscere qualche “retroscena” di Cesare, ne ho amabilmente parlato con Antonella a questo link: http://www.brunoelpis.it/le-interviste/1076-intervista-ad-antonella-di-martino-autrice-di-giulio-cesare-il-primo-dei-cesari
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Un insolito biglietto d'auguri
Le “Luci di Natale” di Graphe.it si accendono su due racconti natalizi molto diversi per genere e per epoca: “Il dono di Natale” di Grazia Deledda e “A.D. 2953”.
“Il dono di Natale” di Grazia Deledda è delizioso nel descrivere l’atmosfera natalizia di una famiglia di pastori sardi: i quattro fratelli festeggiano il fidanzamento della sorella, nel tradizionale veglione che combina impazienza, tradizioni (“Tutto era bello, tutto era luce e gioia… il sangue di Cristo, morto poi per la felicità degli uomini, pioveva sui cespugli e faceva sbocciare le rose; pioveva sugli alberi per far maturare i frutti. Così la madre aveva insegnato a Felle e così era”) e canti. Il clima dell’attesa è filtrato dagli occhi del più piccolo dei fratelli (“Felle, un bel ragazzo di undici anni”), particolarmente incuriosito dal mistero che aleggia sulla famiglia di pastorelle che abita di fronte.
“A.D. 2953” di Daniele Mencarelli è un racconto distopico, che propone il tema del senso della vita e della speranza in una società nella quale l’uomo ha conquistato l’immortalità (“Tom è stato il primo uomo a sottoporsi alla rigenerazione cerebrale, ultimo e decisivo passo verso l’immortalità del genere umano”) e può restituire la vita grazie alla “macchina di Lazzaro”. Al nuovo ordine si oppongono alcuni dissidenti, che rifiutano l’immortalità e continuano a credere in Dio, anche a fronte di una persecuzione che li obbliga a vivere nella clandestinità, proprio come i martiri del protocristianesimo…
Potrebbe essere l’idea per un insolito biglietto augurale, sicuramente è l’occasione per assaporare il nitore della prosa di Grazia Deledda e per riflettere sul nostro futuro grazie alla distopia di Daniele Mencarelli.
Bruno Elpis
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I topi nel muro non sono soltanto quelli di Lovecr
“Animali (topi gatti cani e mia sorella)” di Ugo Cornia è un monologo ironico suddiviso in tre capitoli, dedicati rispettivamente a topi, gatti e cani.
Quanto ai TOPI, essi pullulano a Guzzano, nella casa di vacanza sull’Appennino, in ogni forgia e dimensione – topolini di campagna, toporagni, arvicole, ratti, pantegane (“Era sicuro che fosse un ratto perché era molto grande, mentre mia sorella sosteneva che era un topo di campagna, come genere, anche se molto cresciuto”) – e imperversano, attratti dalla relativa tranquillità della casa poco abitata e dall’abbondanza di granaglie.
Mentre “questi topi… rosicchiano, e rosicchiano…”, l’autore spesso impegnato nella disinfestazione sembra attratto dalla dimensione sociale dei roditori (“Io in un certo senso li trovo degli animali ammirevoli, e anche molto simili a noi, e su questo discorso magari ci torniamo più avanti…”).
Quanto a reminiscenze, la mente corre un po’ ai “Ratti nel muro” di Lovecraft (“Si sentivano degli strani rumori di grattugiamenti in qualche zona della casa, allora mia madre diceva che magari c’era un nido dentro al muro…”), un po’ a “Il pozzo e il pendolo” di Poe (“Dove stavano i suoi quattro piedi incollati all’asse adesso c’erano rimasti quattro buchi”): ma qui il registro è completamente diverso, sospeso tra il sarcasmo e la libera associazione dei pensieri (“Due allocchi hanno già abitato dentro al granaio per tutto un inverno, cosa che riempiva di contentezza sia mia madre che mio padre… sia per la bellezza del fatto di riuscire ogni tanto a sbirciarli… sia proprio perché questi allocchi mangiavano i topi…”).
I GATTI appartengono alla dinastia di una micia matriarca, votata a generare figli che se la vedono brutta a causa di un’antica pratica di crudele selezione (“Aveva già partorito tre volte, due volte affogati tutti e una volta tutti salvati”).
I CANI sono indegnamente rappresentati da Tobi-Tobia, un meticcio colossale, prima vittima della malasorte (“Mia sorella… aveva le sue manie sull’infanzia disgraziata di quel cane”), poi oggetto delle discutibili, invasive attenzioni della sorella del narratore (“Che Tobi fosse una spugna impregnata dell’inconscio di mia sorella”). Il protagonista ne patisce l’ingombrante presenza, con lui rivaleggia per l’egemonia domestica, grazie a Tobi matura una folgorante convinzione: “Che gli animali si facciano le loro cose, in totale libertà in prati, cielo, boschi, paludi e acquitrini, case e giardini, che io mi farò le mie cose in casa mia”.
Anche per effetto di uno stile narrativo volutamente naïf (mi ha decisamente ricordato i “Grandi ustionati” di Paolo Nori), la lettura è divertente anche quando rasenta il nonsense (“I gatti la natura li ha fatti così, cioè fatti a modo loro, e fatti per esempio diversissimamente dai cani, cioè fatti da gatti”) e anche quando sfida l’animalismo – latente o manifesto – del lettore.
Bruno Elpis
A questo link potete trovare l’intervista all’autore:
http://www.brunoelpis.it/le-interviste/1054-intervista-a-ugo-cornia-autore-di-animali-topi-gatti-cani-e-mia-sorella
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