Opinione scritta da silvia71
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Erasmo secondo Zweig
Il saggio di Stefan Zweig sulla celeberrima figura di Erasmo da Rotterdam, si allontana dal tracciato biografico per giungere ad un'analisi del teologo e filosofo olandese del tutto personale.
Dopo qualche accenno ai natali ed alla formazione del giovane Erasmo, Zweig dirige la sua penna verso un approfondimento psicologico dell'uomo, elaborando un'opinione maturata dallo studio delle opere e delle lettere scritte dal teologo.
Il tema centrale dell'opera di Zweig è la netta antitesi tra Erasmo e Lutero; contemporanei, protagonisti dello scontro religioso e intellettuale del secolo XVI.
La penna di Zweig si accalora, freme, fatica a mantenersi neutrale durante la narrazione; egli prende a cuore le sorti e le vicende di Erasmo, figura da cui si sente attratto per vicinanza di formazione e di pensiero.
L'Erasmo rappresentato da Zweig è un uomo dalla mente vivace, studioso del mondo classico, latinista, letterato e filosofo, capace di riconoscere vizi e incongruenze della Chiesa.
Un uomo alle cui intense spinte intellettuali, non corrispondono altrettante azioni e prese di posizione; un uomo che rigetta il fanatismo a favore dell'opera di mediazione, sempre, fino ad essere tacciato di codardia.
Affiora prepotente tra le righe, la presenza di Zweig, che, tentando di comprendere le scelte ed il comportamento dell'uomo Erasmo e percependone una vicinanza, tuttavia ne riconosce la sconfitta e la debolezza, la mancanza di decisione nel perseguire le proprie idee.
Insomma appare la voce di uno Zweig che si spoglia dalle vesti neutrali di un saggista, per interrogarsi e interrogare il suo protagonista, per avviare un dialogo a posteriori col teologo, ricordandogli errori e mancanze.
Per fare ciò Zweig si avvale di numerosi stralci di lettere scritte da Erasmo, tra cui una interessante corrispondenza con Lutero, mettendo in risalto due animi contrapposti, vicini nel pensiero lontani nei mezzi con cui perseguirlo ed ottenere i risultati.
Un lavoro sui generis, questo saggio su Erasmo da Rotterdam , eppure interessante, vivace, un delizioso mix di elementi storici, di indagine psicologica, di passionalità narrativa.
Ancora una volta la penna dell'autore austriaco dimostra di oltrepassare il confine del saggio e di approdare sulle sponde di una terra a lui più congeniale, alla ricerca del volto umano dei personaggi da lui scelti.
E' una lettura di approfondimento, di cui è possibile goderne appieno se affrontata possedendo già delle nozioni sul protagonista o dopo aver letto qualche suo scritto.
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Il mare della fertilità- fine
Dopo aver scritto l'ultimo capitolo de “La decomposizione dell'angelo” la penna di Mishima si spense.
Si tratta dell'ultimo tassello della tetralogia, Il mare della fertilità, opera-testamento cui Mishima
affida tutto il suo pensiero.
I quattro romanzi che compongono la tetralogia sono necessari e concatenati, tanto che è consigliabile affrontarne una lettura sequenziale, per cogliere appieno il flusso ideologico.
E' un lungo percorso quello che ci impone l'autore giapponese, a tratti irto a tratti dolce, a tratti oscuro a tratti assolato; è un cammino ideologico e spirituale, impregnato di spunti filosofici e religiosi, un cammino che richiede una mente pronta ad ascoltare per entrare in un mondo lontano dai retaggi socio-culturali occidentali.
L'angelo della morte scende prepotente sulle pagine di questo quarto romanzo, contagiando con un'aura funesta uomini e natura, schiacciando la bellezza e colorando di grigio il cielo.
Il caro Honda, protagonista costante di ogni episodio della tetralogia, sta portando al termine la sua vita terrena; egli si avvicina agli ottanta anni e raccoglie i frutti di un'esistenza intera.
In quest'ultimo lavoro Mishima sembra fondersi in una comunione col suo protagonista, tirando le somme di un percorso di vita terreno, con la consapevolezza di avvicinarsi ad un mondo nuovo.
La bellezza e la vita lasciano il posto all'incipiente morte, la luce si affievolisce pagine dopo pagina, le nebbie che aleggiano sull'oceano sembrano avanzare, il vento tra le fronde degli alberi sembra sussurrare litanie tristi.
Il percorso di Mishima raggiunge il culmine e si svela, non senza un ultimo pizzico di difficoltà; è un romanzo di estrema compiutezza sul piano del contenuto, pregno di concetti filosofici appartenenti al mondo buddista e non solo, corroborato dal pensiero dell'autore in tema di nazionalismo e di economia.
Di gran valore i tratti in cui torna prepotente la penna lirica di Mishima, capace di donare un'anima al mare o ad una foresta, capace di ritrarre il silenzio o di fotografare il concetto di bellezza.
Con quest'ultimo romanzo cala il sipario su Il mare della fertilità, cala il sipario sulla vita di un uomo e di uno scrittore, lasciandoci tra le mani un'opera dalla struttura complessa, che riesce a donare e trasmettere tanto a chi avrà la voglia di mettersi in cammino, abbandonando preconcetti e pregiudizi.
Se qualche nube temporalesca coglierà il lettore per strada, sappia che al termine sarà ricompensato con un arcobaleno.
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2. Cavalli in fuga
3. Il tempio dell'alba
Il mistero di Silvestro II
Da pochi mesi Giulio Leoni, autore in prevalenza di thriller a sfondo storico, ha pubblicato il suo ultimo lavoro.
“Il testamento del papa” corre su un doppio binario temporale: anno 999 d.c e 1928, il luogo è lo stesso, ossia la città di Roma.
Due epoche lontanissime e protagonisti mutati, eppure il filo conduttore della storia è uno solo, una misteriosa statua donata a papa Silvestro II.
Leoni elabora la sua trama partendo da uno spunto genuino fornitogli dalla figura di un papa di cui i resoconti storici tramandano la passione per le scienze matematiche ed astronomiche, grande studioso, ma al tempo stesso tacciato da taluni contemporanei di stregoneria e culti demoniaci.
Una figura di spessore storico che ben si presta a divenire motore di una vicenda misteriosa ed intrigante che prende le mosse nel lontano anno Mille, carico di paure e superstizioni per giungere fino all'epoca moderna, in una Roma in pieno regime fascista.
Il romanzo di Leoni alterna ritmicamente le vicende dei due periodi storici, con maestria, con cura studiata, senza destabilizzare ed innervosire il lettore, anzi stuzzicando un crescendo di attenzione e di interesse. Si percepisce la capacità dell'autore di legare il lettore alla storia, di crearne una dipendenza fino allo svelarsi dei misteri e dei nessi tra gli eventi.
Se sul piano dell'azione e della spy story, il romanzo può dirsi riuscito, sul versante storico manca un affondo più concreto, una rappresentazione più incisiva delle due epoche che fanno da sfondo al racconto.
Elemento questo che avrebbe incontrato il plauso certo di quella parte di pubblico che non riesce a rinunciare ad un maggior dettaglio storico pur avendo tra le mani una buona storia avventurosa e misteriosa.
Nel complesso Giulio Leoni possiede un'ottima vena narrativa, la sua penna è limpida e avvolgente, sa dosare la suspense, sa caratterizzare i suoi personaggi.
Il suo racconto non eccede in truculenza, ma è percorso dal mistero, sfociando più che nel sangue, in una corsa per le strade di Roma, tra spie, ecclesiastici, reperti archeologici, gente comune e figure storiche note.
Una lettura gradevole, tra le cui pagine riesce a fare capolino una delicata vena ironica che addolcisce l'aria e smorza le tinte fosche del noir.
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L'Egitto di Mahfuz
Brulica di vita e di voci, notte e giorno, il Vicolo del Mortaio.
Con questo romanzo Mahfuz ci trasporta nel cuore de Il Cairo ai tempi dell'occupazione britannica durante la seconda guerra mondiale.
Il vicolo è un microcosmo, teatro di passioni, vendette, dissapori; una piccola città nella città regolata da ritmi, relazioni sociali ed interscambio.
La penna dell'autore egiziano riproduce una rappresentazione dai connotati realistici, trascinando il lettore a spasso tra botteghe di artigiani, caffè, abitazioni; sono palpabili gli aromi che aleggiano, dalle fragranze tipiche di quella terra agli odori più pungenti.
Tanti uomini e tante donne calcano la scena di questo romanzo, colti con uno sguardo venato di ironia e leggero, uno sguardo che non condanna e non giudica.
L'umanità ritratta da Mahfuz, combatte spesso con la miseria e col dolore, combatte contro il destino e la drammaticità della vita, ma lo fa con vigore, senza crogiolarsi in autocommiserazione.
E' un'umanità che fa delle scelte, vuoi mossa da egoismo vuoi mossa da generosità e passione.
Dalla lettura di quest'opera si evince tanto sull'autore; un pensiero aperto ad un confronto con le culture occidentali,la capacità di raccontare l'uomo senza giudicare, la voglia di parlare del proprio paese senza censure e senza veli.
Gli uomini di Mahfuz si raccontano in quanto uomini e non in base al loro credo religioso o alle convenzioni socio-culturali.
Da qui le potenzialità di un autore che partendo da una narrazione legata al localismo della propria terra, giunge ad una narrazione di carattere universale.
Una voce raffinata, che non si serve mai di toni accesi, che lascia dialogare i propri personaggi rimanendo dietro le quinte, facendo capolino di quando in quando per dare spazio alle dovute riflessioni.
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Amerigo
Il breve saggio “Amerigo” fa parte della produzione di Stefan Zweig catalogata in maniera alquanto semplicistica dalla critica come biografia.
Per chi conosce il filone saggistico dell'autore tedesco, sa che Zweig non scrisse biografie nel senso tecnico e letterale del termine, bensì si accinse ad approfondire alcuni aspetti della vita di personaggi da lui ammirati o personaggi del passato e contemporanei da cui veniva attratto per comunanza di interessi e di spirito.
Posta questa necessaria premessa, il saggio in questione nasce dall'intento di Zweig di riscattare dalle melme dei torti e delle maldicenze la figura del grande Amerigo Vespucci, uomo dalla fama eterna per aver prestato il nome al continente americano, eppure etichettato nei secoli da taluni come imbroglione e profittatore, usurpatore degli onori spettanti a Colombo.
Zweig non nutre dubbi sulla buona fede del navigatore e si schiera fin da subito dalla sua parte, fornendo le prove dell'esistenza di “un errore storico” madornale, di cui rimase vittima Vespucci.
La finalità del piccolo saggio è tutta volta alla dimostrazione di quanto siano deleterie le interpretazioni degli scritti e di come in passato i carteggi fossero soggetti a manipolazioni.
Leggendo queste pagine si percepisce il lavoro di ricerca effettuato dall'autore prima di maturare la sua idea e procedere alla stesura, tuttavia il costrutto si snoda senza eccessive citazioni, trasmettendo al lettore il messaggio cardine, ossia la colpevolezza degli “editori” dell'epoca.
In sostanza, l'Amerigo di Zweig è un libello curioso ed interessante, che non ambisce all'esaustività sull'intera vita del protagonista, ma ne analizza solamente alcuni momenti, non approfondisce l'esperienza come navigatore, anzi ricorda al pubblico il vero mestiere, il mercante.
Ciò che colpisce è tutta la passionalità impressa a queste pagine dall'autore, una voce accorata che si carica riga dopo riga in difesa di un uomo, a suo avviso, calunniato e accusato ingiustamente; comprendiamo come la figura di Vespucci, oltre ad essere analizzata in se stessa, divenga simbolo.
Traspare tutto l'animo dell'autore, la sua sensibilità, la sua attenzione a cogliere emozioni, il suo amore per la sincerità e la nobiltà di idee e sentimenti.
E' un lavoro che va interpretato con la giusta chiave di lettura, altrimenti potrebbe essere tacciato di incompletezza e superficialità contenutistica, oltre che di partigianeria.
Zweig si lega a doppio filo con i suoi personaggi, in una sorte di comunione spirituale e umana; questo il fine ultimo e l'essenza di un saggio dedicato prima che ad esimio personaggio della storia, ad un uomo.
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Zweig " Magellano"
Zweig "Erasmo da Rotterdam"
Il mondo di ieri
“Il mondo di ieri” è una lettura fondamentale e propedeutica per approcciare l'intera produzione letteraria di Zweig.
L'etichetta di autobiografia data all'opera da taluni critici non è corretta o almeno non del tutto, in quanto siamo di fronte ad un opera dai connotati saggistici di più ampio respiro, in cui la penna di Zweig riuscì a condensare tutto il proprio “io”, ossia la formazione, la vita letteraria e le vicissitudini, oltre ad offrire uno spaccato storico, sociale e politico dell'Europa a cavallo tra fine '800 e gli anni '40 del secolo scorso.
Splendida la galleria di immagini della Vienna asburgica e post, oltre che di Parigi e Londra, catturate dagli occhi di un uomo definitosi lui stesso cosmopolita, innamorato dei viaggi e dei soggiorni sia presso le grandi città europee sia oltreoceano e persino in oriente.
Una mente vivacissima quella di Zweig fin da giovane, amante dell'arte e della letteratura in tutte le loro forme, come attesta la sua infinita produzione, capace di spaziare dalla poesia alla drammaturgia, dalla lirica alla narrativa, dalle novelle alla saggistica.
Una mente aperta e fresca, pronta a confrontarsi con letterati e artisti a lui contemporanei, ed a collaborare per diversi progetti in campo lirico e teatrale.
“Il mondo di ieri” fu tra le ultime opere scritte da Zweig, segnando quindi l'intero arco temporale da lui vissuto, tuttavia, pur raccogliendo tutta l'amarezza per l'avvento delle guerre, per la salita al potere del nazismo, per la dissoluzione di un mondo pacifico, l'autore non scade mai nell'autocommiserazione. Anzi, l'impatto emotivo trasmesso dal racconto è forte e prorompente, coinvolgendo il lettore in un cammino nel passato insieme all'autore, ascoltando e percependo tutto il suo rammarico per un mondo che non c'è più, ma senza l'utilizzo di toni funesti e lacrimevoli.
Il messaggio che sembra voler affidare Zweig al suo ultimo scritto, è quello di una testimonianza indelebile per raccontare alle future generazioni la vita di un europeo, il clima socio-politico e l'intensa attività artistico-letteraria di fine Ottocento.
E' una lettura estremamente illuminante per coloro che si accingano a leggere gli scritti dell'autore.
Egli mette a nudo tra queste pagine il suo volto di letterato poliedrico, l'evoluzione del suo pensiero in merito all'arte e alla vita, ci narra della genesi dapprima interiore eppoi stilistica di numerose sue opere; tutto ciò esprimendosi con uno stile raffinato ed elegante, senza divenire pomposo.
Il calore della voce di Stefan Zweig è percepibile e avvolgente, raccontandosi in prima persona, ricucendo con penna ed inchiostro le infinite tessere di una vita piena, sia nel successo sia nell'avversità.
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Il primissimo Mahfuz
I primi scritti dell'egiziano Mahfuz risalgono agli anni trenta del secolo scorso.
Seguirà una lunghissima carriera letteraria che abbraccerà momenti stilistici differenti.
Cosa c'è di meglio che cominciare dagli albori letterari di un autore per iniziare a conoscerlo?
Per il lettore che volesse, come me, intraprendere questa strada, consiglio la lettura di una manciata di racconti brevissimi, riportati alla luce delle stampe da pochi decenni.
Gli esordi di Nagib Mahfuz sono strettamente legati alle radici storiche e culturali della propria terra; egli utilizza lo strumento del racconto per dare voce ad una cultura antichissima, senza tuttavia rinunciare ad inserire elementi simbolici per analizzare in parallelo passato e presente.
I racconti di Mahfuz parlano di faraoni e principesse, di regni lontani, di tradizioni legate ai tempi antichi; il linguaggio dell'autore è sobrio, tuttavia crea una atmosfera rarefatta e incantata, facendo scivolare la narrazione dal piano storico a quello fiabesco.
L'aria è magica, facendo percepire presto al lettore come lo spunto storico serva per delineare scenari di vita universali e collocabili in diverse epoche.
L'autore non si sottrae dall'analizzare l'essere umano, dai bisogni legati ad un vivere in una società lontana secoli come quella al tempo dei faraoni, agli usi e costumi di epoche storiche più vicine: scorrono all'interno dei racconti immagini di generosità, di egoismo, di ipocrisia, di ardore, di affetto, di saggezza.
Questi cinque racconti traghettano il lettore in un mondo lontano e contengono la duplice finalità di ricordare il glorioso passato del popolo egiziano e di offrire spunti di riflessione sull'uomo e sui diversi contesti sociali e politici in cui può trovarsi a vivere.
La brevità di queste prove di scrittura, mette in luce le potenzialità espressive dell'autore e la ricerca della miglior strada narrativa per raccontare il suo paese, al passato, al presente e al futuro.
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Spirito e corpo
Nel 1956 Yukio Mishima scrisse il romanzo “Il padiglione d'oro” traendo spunto da un fatto di cronaca di qualche anno precedente.
Il Kinkaku-Ji era uno splendido tempio di Kyoto emblema di bellezza e spiritualità, finché la mano di un monaco novizio decise di appiccare il fuoco, mandando in rovina il luogo sacro, testimone muto dello scorrere dei secoli.
Mishima incentra la sua narrazione sulla figura dell'imberbe monaco, tratteggiandolo nel profondo dell'animo, ripercorrendo la formazione spirituale, addentrandosi in una mente scossa da dubbi, tumulti e talora deliri.
E' un romanzo denso di elementi filosofici, che affiorano di continuo tra le pagine e necessitano di essere colti per comprendere il percorso del protagonista principale e degli altri splendidi personaggi secondari.
La penna lirica e poetica di Mishima incontra e abbraccia la spiritualità più profonda, dando vita ad un flusso narrativo delicato e incisivo, criptico e illuminante.
E' profusa in questo romanzo tutta la filosofia del concetto di bellezza e di spiritualità concepita dall'autore, senza tralasciare figure che divengono sinonimo di solitudine, di passione, di tensione eroica e disperata al sublime e al benessere.
Ritorna il Mishima che sa incantare con i colori di un'alba, con i colori ed i profumi di un bosco bagnato dalla rugiada, con le musiche notturne dei soffi di vento, con l'abbaglio provocato dal luccichio dell'oro e dei fregi di una pagoda.
Eppoi il Mishima che scruta l'animo e lo spirito umano, disegnando uomini emblematici, divisi tra spirito e corpo, colti in un contrasto dilaniante, protesi alla ricerca di se stessi, della luce, della vita.
Un romanzo figlio di una cultura e di una tradizione millenaria, quella orientale, di cui l'autore si fa portavoce, trasmettendo al pubblico tutto il suo amore e la sua dedizione.
Una lettura da approcciare con un pizzico di impegno, per entrare in punta di piedi in un mondo dai colori e profumi inebrianti, dai pensieri e dalle riflessioni profonde.
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Pian della Tortilla
“Pian della Tortilla” nasce dalla penna di un giovane Steinbeck, agli albori della sua attività letteraria.
Ad accoglierci una calda e umida California; sono i primi decenni del secolo scorso ed un manipolo di “paisanos”, uomini di sangue ispanico, anima il racconto.
Sono uomini perduti, devoti al “dio vino”, spiantati, senza denaro e senza legami familiari; l'autore mette in scena un'allegra e triste brigata, dai connotati picareschi, un piccolo mondo che ruota secondo le proprie leggi ed i propri costumi.
Pur essendo un romanzo dal sapore acerbo rispetto ad un “Uomini e topi” scritto successivamente, tuttavia contiene già i temi cari all'autore e le doti stilistiche che lo contraddistingueranno.
I protagonisti sono rappresentativi di uno spaccato sociale dilaniato dalla povertà, vuoi per la crisi economica del momento vuoi per i disagi sociali che toccano certi strati della popolazione.
L'umanità rappresentata in una sorta di quadro naif, è senza veli, è dominata dagli eccessi, è in piena caduta morale e spirituale.
Emblematici i nomi; Pirata, Pilon, Portoghese, Gesù Maria.
Uomini spettatori della vita, alla ricerca di espedienti per passare la giornata, scaltri e furfanti eppure comici e commoventi.
Quello di Steinbeck è un mondo di reietti, un mondo di esseri sofferenti che il pubblico ama e odia, un mondo in bilico tra cruda realtà e un pizzico di fantasia.
Insomma un mondo in cui il bene si fonde indelebilmente con il male, fino a fluire in un unicum inestricabile.
E' una lettura veloce e piacevole, che nasconde tra le sue pagine le riflessioni dell'autore e la visione della società a lui contemporanea, mettendo in luce valori come amicizia, solidarietà, solitudine.
E' un'analisi interessante quella di Steinbeck ed efficace la scelta espressiva operata, creando figure ben scolpite, ritratte in una quotidianità schietta e genuina, colte nella bassezza del comportamento o nell'attimo di slancio di generosità.
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Uomini e topi
Scoprire pensiero e cultura
Con una deliziosa immagine di copertina tratta da “Il libro degli uccelli” del pittore giapponese Kitagawa (1790), l'editore Feltrinelli pubblica sotto il titolo “Lezioni spirituali per giovani samurai” alcuni testi scritti da Mishima, emblematici per comprendere e approfondire la personalità complessa ed il percorso formativo dell'autore.
Quattro piccoli saggi illuminanti per un pubblico che abbia già intrapreso la lettura di alcuni romanzi dell'autore e che si interroghi sulla genesi dei contenuti letterari espressi da Mishima; di grande utilità anche per coloro che volessero fare chiarezza sulle reali idee politiche dell'autore, di cui tanto si è scritto e detto in passato, forse anche strumentalizzando le sue parole, estrapolandole dal reale contesto storico e sociologico in cui Mishima le partorì.
Nella brevità di questi scritti, Mishima condensa tutto il suo sentire, il suo pensare, il suo essere; pagine pregne di filosofia, talvolta non immediate eppure affascinanti.
Splendide le parole espresse sul concetto di arte, di bellezza, di piacere; più impegnative quelle sul concetto e valore di politica e sulla “filosofia dell'azione”, argomento tanto caro all'autore che lo accompagnerà per gran parte del suo percorso di vita e letterario.
Sicuramente questa lettura aiuta a comprendere le radici dello spirito nazionalista dell'autore e la sua avversione per la cultura occidentale, vista come causa di decadenza dei valori antichi del Giappone che fu.
In sostanza un volumetto di gran valore per addentrarsi nel clima filosofico nipponico, per avvicinare il nostro pensiero a concezioni diverse, a retaggi lontani come quelli derivanti dall'etica dei samurai.
Letture che aprono le porte e permettono di porci a confronto con culture e tradizioni ideologiche distanti; non rimane che ascoltare e osservare questo mondo, spogliandoci da idee preconcette, facendoci guidare da Mishima lungo i sentieri del suo pensare e del suo agire.
“....per noi giapponesi il samurai è l'immagine di un antenato. Per gli occidentali è la figura di un nobile selvaggio”
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Le stelle di Margherita
Nell'anno che sta volgendo al termine si è spenta una grande scienziata, una grande donna che ha scritto pagine importanti di storia e ricerca scientifica per il nostro paese; lei è Margherita Hack.
La Hack ha scritto un gran numero di opere di divulgazione, per rendere accessibili anche ai “non addetti ai lavori” la sua materia, l'astrofisica.
“L'amica delle stelle” è uno dei saggi di stampo autobiografico scritto da Margherita, dove sono raccolte memorie personali e familiari di una vita intera e dove sono ripercorsi in parallelo i momenti di crescita professionale, gli studi , le ricerche, il ruolo sempre più importante assunto nell'ambito della comunità scientifica internazionale.
Uno scritto dal sapore davvero genuino, dove non si avvertono manipolazioni giornalistiche o narrative per rendere più appetibile il flusso narrativo o lo stile espositivo.
Sembra quasi riecheggiare tra le pagine la voce dell'autrice, con la sua cadenza dolce e lenta; sembra di ascoltare una nonna dai capelli argentati che ci racconta con tono semplice e familiare la sua vita e il suo grande amore per l'astrofisica.
Come lei stessa ribadisce non fu una passione, ma un amore lungo una vita, foriero di gioie e soddisfazioni, oltre che di sacrifici e dedizione; il tutto condiviso con l'altrettanto amatissimo coniuge e compagno di una vita.
E' uno scritto interessante e a tratti anche impegnativo, perchè la Hack non rinuncia a qualche dissertazione specifica sui suoi studi, aprendoci le porte degli osservatori astronomici, dei telescopi, delle cefeidi, delle supernovae, mettendo in pista tanti concetti di fisica e di astronomia affascinanti ma talvolta sfuggenti per chi non è avvezzo a masticare la materia.
Eppure al termine della lettura, ci si sente appagati e commossi, grati a Margherita per aver condiviso col pubblico il suo passato e per aver cercato di raccontare a tutti che cosa è l'universo e da che cosa è composta quella coperta stellata che ci avvolge di sera.
Nel corso di un semestre abbiamo perso la Hack e la Montalcini, due grandi menti, due vite dedicate alla scienza e grazie agli scritti che ci hanno lasciato, possiamo ancora ascoltare la loro voce, ripercorrendo insieme a loro un pezzo importante di storia italiana.
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Brasile
L'ultima terra in cui dimorò Stefan Zweig, autore dai natali austriaci, fu il Brasile e proprio a questa terra egli dedicò un saggio dai connotati davvero interessanti.
Correva l'anno 1941 quando la penna dell'autore fissava in maniera precisa e poetica le immagini di un Brasile meta di immigrati che dal vecchio continente approdavano alla ricerca di un briciolo di fortuna.
L'opera inizia con una suggestiva ricostruzione della storia del Brasile dalla sua scoperta risalente al 1500; si succedono pagine ricche di nozioni storiche, politiche, antropologiche e culturali di grande interesse. Questa parte costituisce il corpo più propriamente saggistico dell'opera, accompagnando il lettore in una ricostruzione precisa ma mai tediosa, ripercorrendo tutte le fasi dei cicli produttivi succedutisi in terra carioca dalle origini al '900.
Molto ben narrate le varie epopee, dal legname pregiato, alla canna da zucchero, all'oro, alla gomma, al caffè, sviscerando cause ed effetti dell'evoluzione continua di questo paese dall'enorme vastità territoriale.
Dopo aver completato il quadro, Zweig esce dai binari imposti dal rigore saggistico, per incanalare il suo stupore e la sua approvazione per questo paese in un flusso narrativo caloroso e sentito; Zweig ha amato questa terra così lontana dall'Europa che lo ha accolto, egli ne rimase inebriato come testimoniano le pagine ricche di descrizioni e di sensazioni dedicate a Rio e a San Paolo.
Qua, la voce di Zweig è quella di un narratore, con una prosa delicata, elegante ma pervasiva, capace di arrivare alla vista, all'olfatto e al tatto di coloro che leggono.
Scorrono cartoline dal colore seppia su cui sono impresse immagini datate anni '40 del secolo scorso, testimoni mute di un Brasile dalle spiagge dorate battute dai profumi dell'oceano, vegetazioni ricche di frutti e colori, chiese dall'architettura coloniale.
Eppoi i volti, i costumi e le abitudini di un popolo dalle radici multi-etniche, dove le culture differenti si sono fuse e stratificate per condividere una convivenza sullo stesso territorio.
In numerosi punti della narrazione, Zweig si espone nel lanciare pronostici sullo sviluppo futuro del Brasile, tenendo conto dei passi da gigante mossi dalla sua economia e delle enormi potenzialità offerte dal territorio; queste valutazioni, rilette oggi, quando oramai il Brasile risulta essere una delle potenze economiche mondiali, fanno dell'autore un lungimirante e, forse, hanno fatto scattare la molla per la riedizione del presente saggio, persosi per decenni nei vicoli oscuri dell'editoria.
Stefan Zweig fu un grande viaggiatore, il Brasile fu l'ultimo paese da lui visitato e in cui si spense tragicamente la sua vita.
Resta al pubblico in eredità un lavoro pregevole, che non pretende di assumere connotati di esaustività enciclopedica, ma rimane una buona fonte per scoprire il passato del paese sudamericano visto attraverso gli occhi di un europeo che visse a cavallo tra '800 e '900.
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Il sole dell'avvenire
Finalmente splende il sole sul romanzo storico italiano.
E' “Il sole dell'avvenire” di Valerio Evangelisti, pubblicato da pochi giorni da Mondadori.
Un romanzo storico puro, ben strutturato e dal contenuto documentato, lontano dai filoni storici recenti che debbono fare l'occhiolino al genere noir per catturare l'attenzione del pubblico.
Ci sono libri che richiedono al lettore una fase iniziale di riscaldamento prima di entrare in sintonia con il narrato; Evangelisti ha la capacità di far camminare il suo pubblico nel passato dopo poche pagine.
Si apre il sipario sulle terre romagnole, in un arco temporale di un ventennio a partire dal 1880 agli sgoccioli di inizio secolo.
Anni che vedono fronteggiarsi fazioni di pensiero e politiche avverse, internazionalisti, anarchici, repubblicani, monarchici, socialisti e rivoluzionari; anni di fervore, di rivolte, di arresti, di carcere, di repressione, di ideali, di passioni, di sogni
Da tanta bagarre socio-politica, dipinta dall'autore con una minuziosità fornita da fonti dell'epoca, fanno capolino loro, i veri protagonisti, uomini e donne, braccianti, mezzadri, operai, mondine, tessitrici, stallieri.
Un piccolo grande esercito colto con una maestria narrativa efficace e pervasiva; la penna di Evangelisti cesella dei personaggi indimenticabili, di un'umanità profonda, non stereotipati ma maledettamente genuini, pronti a rimboccarsi le maniche ogni giorno per sfamare se stessi ed i propri cari.
L'autore riesce a tenere le redini di un romanzo dalle tematiche variegate e animato da tanti personaggi, di fantasia e storici, elaborando un lavoro che non perde mai di fluidità anche quando si addentra nelle tematiche politiche del tempo. Evangelisti plasma un romanzo storico dagli equilibri perfetti, mescolando protagonisti della nostra storia come Andrea Costa, Turati, Cipriani, De Pretis, Crispi e tanti altri, a comuni famiglie di contadini e braccianti, che lottano contro le angherie dei padroni oppure contro la mancanza di lavoro stabile oppure contro la malaria e la pellagra.
La narrazione di Evangelisti apre una finestra sul passato e focalizza l'attenzione sulla forza e sulla caparbietà degli italiani di allora, delineando con sensibilità, sofferenze e drammi.
Anni di lotte politiche e di lotte per la sopravvivenza, di soprusi e nefandezze.
Una lettura appassionante e coinvolgente, ricca di dialoghi snelli e realistici, esaustiva sotto il profilo storico ed incisiva sul piano emotivo.
Spessore e commozione abilmente orchestrati dallo scrittore emiliano.
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Castigo
Se con opere come “Il ventre di Napoli” e “Il paese di cuccagna, la Serao si apprestava a scrivere pagine indelebili per raccontare presente e passato, cultura e tradizioni, della terra partenopea, con il romanzo “Castigo”, l'autrice percorre il solco tracciato dalle correnti romantiche di fine Ottocento, regalandoci tuttavia una narrazione dall'impronta personalissima.
La lettura di questo romanzo è affascinante, rendendo grande la mano di un'autrice che non necessità di una trama ricca e complicata per coinvolgere il pubblico, servendosi solamente di una maestria stilistica illuminante.
L'input narrativo sgorga da passioni tormentate, amori folli, sentimenti calpestati, rappresentando tempi in cui tradimenti ed onte si vendicavano con il duello.
Un tempo assai lontano per noi, lettori di oggi che ci avviciniamo a simili immagini con un accenno di sorriso sulle labbra e con un pizzico di freddo nelle ossa; eppure questo è lo spaccato socio-culturale dell'epoca.
L'amore, l'onore, il peccato, la morte si rincorrono senza tregua per l'intero excursus narrativo, sfociando in una rappresentazione a tinte fosche e forti, dell'intricata selva dei sentimenti umani.
I protagonisti gridano la loro sofferenza sia con le parole sia con i silenzi, colti nelle riflessioni più intime e nel rapportarsi con il prossimo secondo quanto dettato dai costumi e dalle convenienze.
Grazie alla capacità espositiva e linguistica della Serao, “Castigo” esce dai binari del romanzo cavalleresco e amoroso, per assurgere ad opera dotata di una profondità psicologica sull'uomo e inframmezzata da ridenti cammei che fotografano con minuzia le città di Firenze e Napoli.
Il solo tema passionale calza come un vestito troppo stretto per l'esuberante penna, tanto che in alcuni punti la narrazione sembra esplodere in un tripudio di immagini, suoni, colori, che spezzano il filo doloroso del racconto per innestare visioni stupende delle succitate città; paesaggi, monumenti, giardini, vicoli, strade, profumi, usi, tradizioni.
La mano di Matilde non ama il dialogo, ma eccelle nell'approfondimento sia esso ambientale, culturale, psicologico, inanellando pagine ricche e vivide.
Questa caratteristica peculiare ha senza dubbio contribuito a donare ai suoi scritti un valore letterario e documentale nel tempo, scattando immagini in bianco e nero del nostro passato e dei nostri luoghi.
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Fegato e cuore
Con “Fegato e cuore” Alessandro Marchi è già alla sua seconda pubblicazione narrativa.
Questa giovane penna bolognese propone una storia in cui le note dolci e quelle amare si mescolano dando vita ad flusso narrativo accattivante ed emozionale.
Fegato e cuore, due organi delicati, due pezzi di carne, due simboli.
Un cuore che pulsa ed uno che non pulsa più; una vita, due vite.
E' una storia questa che vuole parlare di gioventù, dalla vita spicciola ai sogni, dalle speranze infrante al confronto con la realtà sociale ed economica di oggi, passando attraverso temi importanti come quello dei trapianti, della dipendenza alcolica, della deriva della famiglia comunemente intesa per approdare ad altre forme allargate di famiglia.
Una storia in cui la voce dell'autore rimarca l'importanza degli affetti, del calore sia esso di un familiare, di un amico o di un conoscente.
Tanti gli spunti da cogliere tra le pagine del romanzo, per riflettere sul valore della vita, attraverso le immagini che scorrono; la vita di chi ha deciso di abbandonare le proprie radici alla ricerca di benessere economico e sociale, la vita di chi ha combattuto con la cattiva sorte, la vita che termina per qualcuno e si riaccende altrove, la vita scandita da impegni lavorativi talora non appaganti.
Questo autore ha la capacità non solo di raccontare una storia, ma di far entrare il lettore tra le pieghe più intime, facendone percepire appieno il flusso emotivo.
Leggere “Fegato e cuore” significa entrare nella vita dei suoi protagonisti, applaudendone il coraggio, non approvandone talune scelte, rimanendo in bilico tra una lacrima ed un sorriso.
La scrittura utilizza un linguaggio moderno e diretto, talvolta senza veli e censure, ma pronto a dare sostanza al narrato e privo di retoriche e falsi compatimenti, pronto a smorzare le negatività rappresentate con un filo sottile di ironia dosata ed intelligente.
Una lettura davvero godibile per contenuti, costrutto e fluidità espressiva; un ottimo segnale dal mondo degli autori di nuova generazione.
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Il tempio dell'alba
Dopo “Neve di primavera” e “Cavalli in fuga”, prosegue il cammino del protagonista della tetralogia di Mishima.
Il cammino di Honda in questa terza ed affascinante fase dell'opera, è un cammino spirituale, alla ricerca di conoscenza e completezza in materia filosofica e passionale.
Lui, uomo razionale, magistrato e avvocato di prestigio, oramai giunto a metà del suo percorso di vita terrena, si interroga su tematiche di natura spirituale, difficili da racchiudere entro schemi e ragionamenti.
La penna di Mishima fa intraprendere al suo protagonista, ed al lettore, un viaggio attraverso la terra del Siam e dell'India, alla ricerca delle radici del pensiero orientale; fluiscono all'interno della narrazione nozioni filosofiche sul buddismo e sull'induismo, accompagnate da suggestive immagini di templi, statue, raffigurazioni sacre, riti, odori e colori, dipingendo pagine ricche per la ricostruzione offerta e profonde per i concetti esposti.
Un tema corposo che attraversa argomenti cardine del pensiero, come reincarnazione, saggezza, amore, bellezza e passione.
Con questa terzo capitolo, le intenzioni dell'autore prendono forma, facendo in modo che il suo protagonista, volto indiscusso della ragione, entri in contatto col mondo della passionalità, dell'irrazionale, insinuando in lui quesiti e voglie di evasione dai cliché impostigli dalla società e dal costume.
Un romanzo questo in cui si percepiscono gli ideali politici dell'autore, in cui si rammentano riforme importanti per il Giappone, come fu quella agraria, in cui si citano taluni paralleli tra la cultura occidentale e quella orientale; tuttavia la preponderante parte della narrazione è volta all'approfondimento delle radici del pensiero filosofico, con citazioni tratte dai sutra, come quella del Grande Pavone d'oro.
Mishima richiede attenzione al lettore ma sa ricompensarlo con pagine dense di cultura, storia del pensiero, storia delle religioni, dando forma al dualismo corpo e anima, cuore e mente, ragione e passione, calcolo e sentimento, bellezza e spirito.
E' consigliabile leggere in maniera sequenziale i romanzi, per poter cogliere nella sua interezza il messaggio affidato dall'autore giapponese alla sua ultima opera.
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Cavalli in fuga
Vacillante costrutto storico
E' stato dato alle stampe da pochissime settimane il terzo romanzo dello spagnolo Falcones, dopo le precedenti prove de “La cattedrale del mare” e “La mano di Fatima”.
Falcones continua a percorrere la strada del romanzo storico o meglio a sfondo storico, proponendo una ricostruzione delle vicissitudini del popolo Gitano insediatosi in Andalusia nel XVIII secolo.
La scelta del tema intorno al quale porre le fondamenta per una narrazione romanzata è valida, poiché la storia antropologica e culturale dell'etnia gitana è poco conosciuta o almeno lo è in maniera talvolta superficiale.
Falcones partorisce un'idea buona, aprendo il sipario sulla città di Siviglia, ospitante uno degli insediamenti gitani più popolosi del regno spagnolo verso la metà del Settecento.
Come spesso accade gli ingredienti di per sé sono solamente una base di partenza, ma senza la mano di un cuoco esperto, il composto rischia di perdere consistenza.
La penna di Falcones usa e abusa il dialogo, a scapito di descrizioni e parti narrate, perdendosi in vortici lunghissimi e ripetitivi; questa caratteristica produce un effetto deleterio sulla costruzione di uno spaccato storico.
La vera assente di questo romanzo è proprio lei, la ricostruzione storica; dopo averci stuzzicato l'appetito con le prime pagine, catapultandoci in un tempo lontano, a calpestare il suolo spagnolo, tra contrabbandieri di tabacco, lotte tra payos ( sedentari) e gitani, vicoli bui e affollati, donne avvolte in lunghe gonne colorate, uomini pronti a sfidarsi con le lame di affilati coltelli per difendere l'onore, ecco che tutto si intiepidisce, sfumando in un dialogare continuo tra i protagonisti.
L'attenzione peculiare sulle donne, sulla loro condizione all'epoca, siano esse gitane o meno, è encomiabile e si percepisce quanto l'autore abbia voluto dare priorità all'argomento, riportando usanze familiari e sociali, non risparmiandoci scene abiette e crude, vessazioni e violenze; nell'excursus dell'intero romanzo, il tema femminile è sicuramente il più presente ed il più sentito, sul quale la penna dell'autore si esprime passionale ed incisiva.
Rimane un vero peccato che all'interno delle settecento pagine che compongono il grande corpo di questo romanzo, non abbia trovato spazio qualche dissertazione sulle persecuzioni contro il popolo gitano durante il regno di Ferdinando VI di Spagna, qualche nozione specifica sulle tradizioni ataviche di un'etnia dalle origini lontane, qualche approfondimento sull'utilizzo della musica e dei balli di origine gitana all'interno dei salotti e delle corti dell'epoca.
“La regina scalza” è un lavoro dalla mole abbondante, tuttavia non sempre la ricchezza delle pagine corrisponde a quella del contenuto; qualche sforbiciata avrebbe sicuramente contribuito ad una lettura più agile per il pubblico, concentrando il filo conduttore della storia e dando risalto ad alcune belle immagini delle città spagnole e dei loro quartieri, brulicanti di antichi mestieri, di vita, di miseria, di suoni e di colori.
Il romanzo storico è un genere complicato, dove tante sono le componenti e le variabili per una buona riuscita; l'ultimo lavoro di Ildefonso Falcones è apprezzabile ma ancora vacillante il costrutto storico e poco adatto lo stile di scrittura al genere trattato.
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Il paese di cuccagna
Il romanzo “Il paese di cuccagna” venne pubblicato a puntate a partire dal 1890 sul quotidiano “Il Mattino”.
Se già con “Il ventre di Napoli” la Serao aveva prestato la sua voce per raccontare e portare alla luce la situazione sociale, ambientale, culturale della città partenopea, con questo romanzo ritorna sul tema del gioco del lotto e delle conseguenze deleterie su qualsiasi ceto sociale.
Il Lotto, dipinto a tinte forti come avido mostro, causa di disgrazie, rovine, causa di miserie economiche ed umane, violentatore delle coscienze, fomentatore del vizio.
Il lettore conosce i numerosi volti del gioco del lotto attraverso le vicende dei protagonisti; una galleria variopinta di uomini, donne, bambini, la cui vita quotidiana deve fare i conti con la passione viziosa e sfrenata per il gioco.
Cabalisti, assistiti, usurai, sembrano personaggi partoriti dal dio lotto; avidi, immorali, sfruttatori, opportunisti.
Eppoi famiglie in lotta per un piatto di minestra, professionisti infangati nella reputazione, figli vittime della follia dei padri.
La Serao calca la mano sulle conseguenze del gioco, perché esso appaia come piaga sociale da combattere con ogni mezzo.
La penna dell'autrice, percorre i vicoli e le strade della città, capta i rumori, trasmette gli odori, ritrae tutti i colori, trascinando il pubblico in una girandola di sensazioni forti e pervasive.
Tuttavia“Il paese di cuccagna” non è solamente una denuncia del gioco del lotto, non è solamente storia di rovina materiale e morale, non è solo lacrime e misfatti, è anche bellezza virtuosa di una voce che dedica pagine dense alla descrizione di eventi simbolo per la città come il miracolo di San Gennaro ed il Carnevale.
Descrizioni minuziose, al limite di un gusto barocco, per raccontare con realismo uno spaccato sociale complesso, solidificatosi con anni di storia, pronto ad assumere il valore di documento.
Pagine ricche e pregne di informazioni che fotografano in maniera sublime la tradizione e la cultura partenopea di ieri; immagini che grazie al talento letterario della Serao si sono cristallizzate per sempre, rimanendo indelebili.
“Il paese di cuccagna” è una lettura imperdibile, forse dimenticata, eppure dotata di una carica narrativa prorompente, sia per il messaggio dell'autrice qui racchiuso sia per lo stile di scrittura, a tutto tondo, abbondante ma non superfluo, incisivo nel delineare i tratti psicologici umani.
Un pezzo di storia della nostra letteratura da riportare alla luce.
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Guerra e pace
Recensire un colosso come “Guerra e pace” è un'impresa titanica, quasi quanto la sua lettura; dico quindi che esprimerò un giudizio complessivo sul perché reputo esso meriti di essere conosciuto, con la consapevolezza tuttavia che la strada sarà lunga e a tratti ardua per il lettore, prima di poter godere di una splendida visione d'insieme.
Le mani ed il genio di Tolstoj diedero alla luce nel 1869 “Guerra e pace”, cui qualsivoglia tipo di definizione calza davvero stretta.
L'impianto narrativo è strutturalmente complesso, capace di racchiudere sullo sfondo del periodo della campagna napoleonica in terra russa (1805-1815), scene minuziose di battaglie, analisi storiche, riflessioni filosofiche, senza tralasciare una disamina accurata dell'uomo.
Un contenuto abbondante e rigoglioso, che la penna dell'autore riesce ad amalgamare con maestria, utilizzando eventi e personaggi storici reali insieme ad una galleria di uomini e donne di pura creazione, ma figli dell'epoca e della società russa del tempo.
Tolstoj profonde un impegno poderoso nel riportare sulle sue pagine l'aria di guerra che ha stravolto il popolo russo per anni, narrando fedelmente vittorie e sconfitte, strategie adottate dai generali, errori e mancanze; egli non si limita ad analisi puramente tecniche ma si spinge ad analizzare sempre la componente umana di ogni accadimento, giungendo a scrivere pagine intense in cui si ferma a riflettere sul rapporto tra l'azione dell'uomo ed il caso, portando il suo scritto ad astrarre dai singoli eventi narrati per disquisire più in generale sulla Storia.
Sono pagine dal contenuto altissimo, destinate a rimanere documento letterario, latrici di significati ancora validi ai giorni nostri.
La componente umana è sempre presente, resa fulcro dall'autore di ogni evento, in pace ed in guerra; minuziose le descrizioni della vita sociale, degli usi e dei costumi, dell'economia, dei rapporti familiari ed interpersonali, fotografando un mondo scandito da ritmi e consuetudini ataviche, dominato da una cultura di stampo antico ma che sta facendo l'occhiolino all'occidente.
I personaggi sono cesellati in ogni particolare, rappresentando ogni sfumatura dell'animo umano, egoismo, bontà, arroganza, generosità. Uomini e donne di cui l'autore segue l'evoluzione nell'arco dell'intera narrazione, caricandoli di una buona dose di empatia, seguendone le sorti morali e materiali.
Nel panorama letterario mondiale, “Guerra e pace” rimane una montagna alta da scalare, vuoi per la mole vuoi per i contenuti vuoi per lo stile espositivo dell'autore, elegante e raffinato eppure a tratti rigoglioso e impegnativo, un linguaggio perfettamente forgiato per affrontare i temi via via trattati.
Giunti all'epilogo è impossibile non rimanere stupefatti da un simile lavoro, testimonianza di un periodo storico e del pensiero di un autore; la voce di Tolstoj fora l'oggettività delle cronache, per lasciare nero su bianco riflessioni e interrogativi, di natura storiografica, filosofica, culturale, sociale e umana.
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Napoleone Bonaparte
Dopo “Adolf Hitler, il dittatore”, Antonella Di Martino prosegue il suo cammino nell'ambito storico-saggistico proponendo una breve biografia di Napoleone.
L'autrice da vita ad una ricostruzione brillante e accattivante della vita del grande personaggio, utilizzando un registro narrativo che fa sì che ogni figura venuta in contatto con Napoleone, racconti in prima persona fatti, aneddoti, eventi politici e privati di cui l'imperatore si rese protagonista.
Una maniera frizzante per raccontare le gesta di un personaggio che ha fatto la storia, senza appesantire il lettore, una maniera raffinata e intelligente per coinvolgere il grande pubblico ad avvicinarsi alla riscoperta del passato e dei grandi nomi che quel passato hanno contribuito a segnarlo, nel bene o nel male.
Un gran lavoro di ricerca è sotteso alla nascita di questa opera, per selezionare e trasmettere i punti salienti della vita e della carriera di Napoleone e per scegliere familiari, amici, colleghi, nemici, a cui affidare il ruolo di narratori.
Dalle parole di questa schiera di conoscitori del Bonaparte, il lettore segue con grande fluidità e chiarezza la parabola di ascesa e discesa di uno degli uomini più celebri della storia.
In questo momento letterario in cui il campo biografico sembra desueto e abbandonato, è lodevole trovare autori che abbiano la voglia e la capacità di imboccare questa strada, riscoprendo un genere impegnativo senza dubbio, ma di pregio.
Antonella Di Martino affida alle sue pagine una narrazione costruttiva, proponendosi di rendere accessibile a tutti la figura di Napoleone, senza tediare con descrizioni minuziose e cavilli saggistici, ma regalando al lettore una mirabile sintesi che tocca tutti gli eventi principali.
Un libriccino prezioso per qualsiasi genere di lettore: una rampa di lancio verso l'approfondimento per l'amante della storia e una biografia esaustiva per chi si avvicinasse al genere per la prima volta.
Per l'autrice l'affondo nel mondo storico è stato fortunato, ci auguriamo voglia proseguire, coinvolgendoci in altri viaggi nel tempo.
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Galeotto fu il quadro
“Il tunnel” è la prima esperienza letteraria di Ernesto Sabato, fisico, figlio di immigrati italiani in terra argentina.
E' il 1948.
Già dalla prima riga del racconto, tutto è svelato con una dichiarazione della voce narrante.
Niente suspense, niente giallo, bensì si apre il sipario su un monologo lento, preciso e cadenzato con cui il pittore protagonista rende spiegazione della sua vita passata.
Storia di una passione, di un disagio mentale; storia di una vittima e di un carnefice; storia di un incontro e storia di follia.
Molteplici i contenuti dell'opera, che l'autore affida alla voce del suo protagonista, affrontando un viaggio introspettivo e psicologico..
Conosciamo Juan Pablo esclusivamente per quanto svela la sua confessione, seguendone una sorta di autoanalisi, lo conosciamo dall'interno della sua mente, catturati dai suoi ragionamenti, dai suoi convincimenti, dai suoi errori, dai suoi deliri; conosciamo Maria dai ricordi del suo amante Juan Pablo, che con pochi tratti ce ne abbozza la figura di donna.
Come la maggior parte dei lavori che parlano delle infinite sfaccettature della mente umana, è un romanzo dominato da un ritmo non veloce, dove la profondità di certe riflessioni si scontra con alcuni dialoghi piuttosto semplici di contenuto, riuscendo tuttavia a tenere sempre acceso il fuoco della curiosità nel lettore; la curiosità o meglio il desiderio di comprendere l'enigmatico pittore, di capire se in lui possa albergare qualche sentimento verace e sincero, oppure se nei suoi pensieri trovino casa solamente dei demoni.
E' un romanzo interessante ed ancora attuale, capace di parlare al pubblico, evidenziando le buone doti di narratore di un Ernesto Sabato agli albori della carriera da letterato.
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A clockwork orange
Burgess scrisse “A clockwork orange” nel lontano 1961, traendo spunto per la scelta del titolo da una frase captata casualmente in un pub londinese.
E' un romanzo tutt'altro che superficiale, carico di contenuti e piacevolmente originale per lo stile di scrittura.
Il contatto con la voce diretta di Alex, senza filtri da parte di un narratore, produce senza dubbio un effetto travolgente per chi legge, obbligando il lettore ad accompagnare il protagonista mentre ricorda la sua esperienza di vita.
I ricordi di Alex scorrono con immagini e dialoghi crudi, reali e deliranti al tempo stesso, impietosi, sinceri; un profluvio di ricordi per parlare di una scelta di vita ben precisa che si chiama “violenza”.
Violenza per scelta personale, non imposta da ambienti sociali o familiari, violenza come sinonimo di normalità, senza ombra di pentimento o scrupolo.
Il monologo di Alex è disarmante a tal punto da richiedere una pausa di riflessione per il pubblico e chiedersi quale sia il significato del personaggio, quale il messaggio affidato dallo scrittore ad un giovane criminale.
Siamo di fronte ad una mente malata o in fondo a tanta malvagità c'è una chiave di lettura?
Le tenebre e la confusione si sciolgono strada facendo, quando appare una figura pronta a contrastare il cattivo, imponendosi sull'uomo con altrettanta violenza.
E' lo Stato, il potere assoluto sull'uomo, che col suo pugno di ferro tutto può piegare, tutto può decidere, adottando qualsiasi mezzo per condizionare le coscienze ed inculcare i propri principi.
Ecco che allora il dualismo messo in scena da Burgess si manifesta nella sua interezza, disegnando un mondo quasi orwelliano.
Serpeggia e si rafforza tra le pagine una critica aspra a qualsiasi tipo di oppressione, di condizionamento, di vincolo; la voce di Burgess sembra gridare il diritto dell'essere umano alla scelta nel bene e nel male e all'autodeterminazione di se stessi.
L'idea sottesa alla narrazione è incisiva e studiatamente costruita con toni sopra le righe, cavalcando con abilità il confine tra finzione e realtà, assurdo e probabile, lecito e illecito, il tutto accompagnato da un linguaggio creato ad hoc, capace di rompere anch'esso gli schemi della normalità.
Nessun dubbio sul fatto che Alex sia una figura pienamente riuscita, non solo personificazione della violenza, ma uomo dotato di una propria individualità, i bilico tra essere carnefice e vittima sullo sfondo di un mondo privo di colori.
Leggere questo lavoro di Burgess significa imbarcarsi per un viaggio complesso che attraversa la mente di un uomo e la mente di una entità superiore ad esso, e che lo si possa condividere o meno è indubbio il messaggio affidato a queste pagine.
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Novelle
Verga fu autore di svariate raccolte di Novelle, le più emblematiche e rappresentative dell'evolversi della sua poetica sono “Vita dei campi”, “Novelle Rusticane” e “Per le vie”.
La prima raccolta di otto novelle, “Vita dei campi” vede la luce intorno al 1880 e costituisce il primo segnale di cambiamento nell'autore, allontanandolo dai temi romantici e borghesi trattati fino ad allora, segnando l'inizio di una ricerca di contenuti nuovi.
Gli scenari divengono rurali, evidenziando disparità sociali, solitudini e lotte per la sopravvivenza; in questa prima raccolta, gli accenni ai temi passionali non sono del tutto sopiti ma si intrecciano con quelli dell'egoismo e della ricerca di mezzi economici.
Con la rappresentazione di personaggi indimenticabili come Rosso Malpelo, Jeli il pastore e La lupa, la penna dell'autore comincia ad assumere un registro stilistico diverso, fatto di termini gergali e imbevuti di realismo. Una penna che si piega a ritrarre uomini e parole come un pennello, senza belletti e cambiamenti.
Sono racconti che si leggono con facilità e che nella brevità delle loro pagine fotografano l'intera parabola di un personaggio, partendo sempre dalla quotidianità, seguendo desideri, aspirazioni, disagi degli uomini, portando in scena la vita campestre le cui immagini si consolidano nella raccolta successiva.
La raccolta“ Novelle rusticane” afferma la nascita e la crescita della penna verista dell'autore.
Qua il linguaggio si fa ancora più aspro, perdendo definitivamente gli accenni romantici; è la lingua dei derelitti, dei braccianti, dei contadini, di una fetta di umanità che il destino ha inchiodato in un'eterna lotta per la vita.
La malaria , la fame, le malattie sono le protagoniste dei racconti, unitamente al richiamo di accumulo per la “roba”. Senza la roba si vive malamente, si muore soli, non c'è pane sotto i denti.
E' forte e predominante in questa raccolta la tensione umana alla ricerca dei mezzi economici, per garantire la sopravvivenza propria e della famiglia.
La vita è una lotta e solo i più tenaci ne escono vincenti.
La raccolta meno conosciuta intitolata “Per la vie” abbandona lo scenario prestato dalla terra siciliana, per approdare lungo le strade ben più trafficate di una Milano agli albori della sua industrializzazione; una città grigia, dove alla rappresentazione di diverse classi sociali fa da costante la mancanza di solidarietà e la miseria sia morale che materiale.
Ad accogliere il lettore una galleria di personaggi diversi da quelli ritratti in Sicilia, eppure accomunati dalla ricerca del denaro e del benessere come fine ultimo della vita, siano essi borghesi, operai, disoccupati o prostitute.
La lettura delle “Novelle” consente al lettore di avvicinarsi e addentrarsi a piccoli passi alla poetica dell'autore, seguendone l'excursus di pensiero e di forme, oltre a ritrovare abbozzate figure che diventeranno personaggi a tutto tondo nei romanzi di stampo verista.
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Storia di una capinera
La capinera ritratta da Verga nel 1869 è la giovane Maria, costretta ad una monacazione forzata per volere della famiglia.
Una consuetudine aberrante che ha attraversato secoli per arrivare anche a tempi molto vicini a noi.
Proprio in considerazione di questa “pratica” detestabile e foriera di mali, è possibile pensare che l'autore, nell'elaborare il lavoro, abbia voluto fondere un messaggio dal valore sociale e morale alla pienezza introspettiva e di sentimenti dettata da una netta influenza romantica.
La narrazione in forma epistolare, sfocia in un monologo di un'intensità stupefacente, dove la voce della sventurata Maria si racconta, si illumina, si infiamma, si smorza.
Le parole della protagonista rispecchiano fedelmente la sua anima, sono dapprima sussurri di speranza, poi diventano grida di dolore.
Quello che la penna dell'autore riesce a rappresentare è il supplizio di una donna,
raggiungendo un grado di immedesimazione e realismo graffiante; la componente romantica presente in questo romanzo, contribuisce a caricare di passione e di struggimento queste pagine, culminando nelle fasi di smarrimento e di annientamento della giovane.
Anche Maria al pari di protagonisti posteriori del Verga può essere considerata una “vinta”; schiacciata dalla vita e da un destino crudele, chiusa in una gabbia scelta da altri ad osservare il mondo attraverso le sbarre, un'anima repressa, svuotata dai sentimenti, privata della luce di un sorriso e di un abbraccio.
“Storia di una capinera” è un romanzo pienamente riuscito che ancora oggi, trasmette emozioni forti e nette, provocando una sensazione di soffocamento nel lettore di pari passo con il consolidarsi della clausura della piccola capinera e dell'affievolirsi della sua voce.
Una lettura lontana dalle caratteristiche stilistiche del Verga verista, eppure meritevole d'essere conosciuta e assaporata.
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Una peccatrice
Tra le pagine del romanzo breve “Una peccatrice” incontriamo un giovanissimo Verga, romantico e passionale, fortemente influenzato dalle correnti letterarie e filosofiche del tempo.
Verga, partendo da una vicenda autobiografica, confeziona una storia struggente, che ribolle di amore e sentimenti; amore convulso e irrefrenabile, amore che percorre la strada dell'esaltazione del cuore e della mente sfociando in passioni insane e distruttive.
Anche se considerato da sempre dalla critica un romanzo minore, tuttavia è una piccola perla del Romanticismo ottocentesco italiano, di facile lettura nella sua suddivisione tra una parte narrata ed una parte epistolare. E' un crescendo di toni, dalla gioia pura dell'innamoramento alla tensione emotiva scaturita da una relazione tra un giovane studente ed una donna matura, avvenente e spregiudicata.
E' una febbre che sale infiammando i cuori dei protagonisti e destando pathos e curiosità nel pubblico; a distanza di tanti anni da allora, pensiamo che la pubblicazione risale al 1866, è un racconto emozionante che ci catapulta in un passato lontano dove amore significava corteggiamenti, sguardi indiscreti, profferte amorose, missive, convenzioni sociali, ma anche tradimenti, disillusioni e inganni. Verga convoglia con maestria tutti gli ingredienti in un flusso narrativo rapido, impetuoso e denso.
La giovane penna del Verga ha firmato un lavoro con cui immortalare le frenesie dettate dalla passione amorosa, vagheggiando rapimento, estasi, disperazione e furia.
E' una testimonianza letteraria pregevole per approfondire la conoscenza di un autore che, oltre ad essere ricordato come esponente del Verismo, ha dapprima percorso la strada del filone romantico, maturando un'ottima capacità di mettere a nudo l'animo dei suoi personaggi.
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Chiara di Assisi
Una Chiara ventenne di oggi e Chiara di Assisi nata nel lontano 1193.
Inizia così, su questo duplice binario temporale, la narrazione di Dacia Maraini, ammaliando il lettore fin dalle prime battute.
Difficile porre una definizione univoca e calzante al nuovo lavoro dell'autrice; non è solo una biografia romanzata, non è solo un'analisi socio-storica del periodo medievale, non è solo un confronto tra passato e presente, non è solo strumento di studio della figura femminile nel corso dei secoli dal mille ad oggi.
Il romanzo dedicato alla figura di Chiara di Assisi vuole essere tutto questo perfettamente fuso in una narrazione appetibile, ricca di riferimenti storici-religiosi-culturali.
Con maestria l'autrice appronta una ricostruzione di Chiara d'Assisi, donandole uno spessore storico netto, grazie alle numerose citazioni di testi dell'epoca e alle raccolte di testimonianze delle consorelle utilizzate durante il processo di canonizzazione, fino a renderla viva tra queste pagine.
Di una intensità e bellezza commovente le immagini di Chiara colta nella quotidianità di una vita trascorsa tra le mura di un monastero per scelta, abbandonando una vita di agi, facendo i conti con la povertà, con la fame e con la malattia.
La Maraini col supporto di tanta documentazione storica ci parla di una ragazza prima e di una donna poi, dotata di una forza di volontà estrema, impegnata a combattere società e clero in nome dei propri ideali di vita e religiosi.
Chiara come voce della disobbedienza, pronta ad infrangere regole consolidate che relegavano la donna a determinati ruoli, anche e soprattutto all'interno della Chiesa.
Chiara logorata dalle inquietudini, dai tormenti, dai pensieri.
Scorrono sotto gli occhi del lettore numerose citazioni tratte da testi medievali, che aiutano a comprendere il periodo di cui visse Chiara; la mano dell'autrice riesce ad amalgamare i riferimenti tra passato e presente senza appesantire il percorso narrativo, anzi inserendo approfondimenti e stimolando riflessioni.
Questo nuovo lavoro della Maraini è un saggio ibrido, interessante e vivace per coloro che amano la storia, ben lontano dall'impersonalità della mano di un saggista; la voce della Maraini è inconfondibile e non si astiene dal sussurrare tra le righe il suo stupore per la figura della santa, il suo grido di dolore per talune ingiustizie sulle donne perpetrate in tutti i tempi, la sua partecipazione alla sofferenza, confermando la sua capacità di fusione spirituale e psicologica col personaggio.
Un lavoro riuscito, che senza ambire alla completezza biografica, apre una finestra sul lontano medioevo e cerca di illuminare il volto di una donna: Chiara di Assisi.
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Il percorso di Lorenzo
Lorenzo era un giovane pressapoco ventenne quando la vita decise di metterlo alla prova nell'arco di poche ore.
Un momento stai sciando spensierato tra le nevi candide ed un attimo dopo ti risvegli fratturato e mieloleso.
Lorenzo Amurri racchiude in poco più di 200 pagine la sua storia, il suo passaggio da una condizione di “normalità” ad una situazione di disabilità.
Cosa succede quando la routine della quotidianità viene spezzata, obbligandoti a fare i conti con una maniera di vivere sconosciuta, dove tutto è mutato, è difficile, è doloroso, è inconcepibile?
Quale meccanismo scatta nella mente e nel cuore di un uomo?
Lorenzo inizia a raccontare, con un ritmo serrato, inanellando immagini, situazioni e pensieri, costringendo il lettore ad affrontare una vera e propria apnea fino all'ultima riga da lui scritta.
E' una narrazione che procede spedita, senza tregua, senza soste da dedicare a sfoghi di rabbia e senza pietismo.
Il racconto in prima persona ed al tempo presente, vibra di una forza lacerante, caricando un fardello di dolore anche sulle spalle di chi legge.
Ci si chiede spesso quali ruoli e funzioni possa assumere la letteratura, e una volta esclusa una finalità lucrosa, non possiamo non apprezzare il valore umano di un simile scritto.
La penna di Amurri è riuscita a catturare sensazioni intime, pensieri profondi, interrogativi, paure.
Nella sostanza è un racconto dedicato alla vita, ai suoi cambiamenti, alle gioie e alle spine, percorrendone le strade più irte.
Ringraziamo Lorenzo, per aver ripercorso la sua storia di vita, fermandola su queste pagine, cui noi lettori possiamo attingere per entrare in un mondo reale ma talora poco conosciuto o guardato con timore e disinteresse.
Un mondo maledettamente reale in cui tante persone vivono e di cui Amurri riesce a testimoniarne la sostanza, il rifiuto e l'accettazione, condividendo col pubblico il proprio percorso.
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I Burgess
Lo stato del Maine e la città di New York scorrono e si intrecciano vorticosamente nello scorrere delle pagine.
La quiete, le routine e le consuetudini consolidate di una minuscola cittadina americana si incontrano con la diversità e le problematiche dell'immigrazione, così come il rumore, la frenesia ed il benessere della grande mela si scontrano con la correttezza, la moralità e la felicità dei protagonisti.
Al di là degli eventi narrati, la Strout è un'autrice che costruisce il suo personaggio pezzo dopo pezzo, mettendo sempre in luce l'impossibilità della perfezione, smascherando certi meccanismi sociali ipocriti e meschini.
Gli uomini e le donne della Strout, sono peccatori, talora apatici e opportunisti, attratti per lungo tempo dalla strada più semplice per la serenità ed il successo personale, eppure non sono esenti dai colpi di coda del destino, costretti a tirare le somme del loro operato sia sociale che familiare.
A fianco alla tematica dell'integrazione e dell'accettazione delle differenze culturali e religiose , è forte anche in questo romanzo il tema della famiglia; dell'importanza delle origini, dell'impronta sull'individuo, dei rapporti tra fratelli, tra genitori e figli, tra coniugi.
Quelle raccontate dall'autrice sono storie di equilibri precari, di mancanze, di errori, di solitudini.
In quest'ultimo romanzo dell'autrice americana alberga tanta realtà odierna e le capacità espressive sono indiscutibili, tuttavia tra le ansie, le tensioni e le schiarite di queste pagine, non si ravvisa la brillantezza profusa in “Olive Kitteridge”.
All'appello manca un pizzico di magia nella narrazione e a tratti il racconto sembra patire un rallentamento; il tema immigrazione e le immagini che ne scaturiscono suonano talora stereotipate, seppure ottimi spunti per riflettere su situazioni sociali attuali.
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Le scelte di Marina
Dopo avere esordito con “Acciaio” nel 2010, Silvia Avallone è alla sua seconda prova con il romanzo di recente pubblicazione “Marina Bellezza”.
Anche questo è un romanzo dedicato ai giovani, evidenziando l'intento dell'autrice di fotografare la generazione dei ventenni e trentenni di oggi.
Marina è la giovane protagonista del racconto, fragile e forte, determinata e insicura, figlia di una situazione familiare complessa, attratta come una falena dallo sfavillante mondo dello spettacolo.
Marina sembra essere il paradigma di tutte le contraddizioni; sembra anelare ad un affetto profondo e saldo, sembra essere mossa talora da sentimenti sinceri, sembra voler credere nell'amore e nell'amicizia, ma quando giunge il momento della scelta e dell'affidabilità, crollano le certezze e prevale la fuga dagli impegni e dalle responsabilità.
In antitesi alla figura della protagonista, l'autrice propone due giovani capaci di scegliere la propria strada con dedizione ed impegno, forse due sognatori, attaccati alla propria terra natale, tanto da progettare un ritorno ad antichi mestieri, ripopolando territori abbandonati a favore degli assembramenti urbani.
Le figure che popolano il romanzo sono ben delineate nei loro ruoli e vivaci sotto il profilo psicologico, donando all'autrice una discreta dote nella costruzione del personaggio.
Sull'elaborazione del contenuto proposto, l'autrice scivola su temi già sviscerati in letteratura nell'ultimo decennio, rappresentando l'idea del mitico e vagheggiato ambito televisivo, mondo che calamita l'attenzione delle ragazzine come un “El Dorado” cui bramare per ottenere fama, denaro e successo. Sicuramente si tratta di una realtà sociale che si è consolidata negli ultimi tempi, creando falsi miti e sconvolgendo i valori e la morale, ma la narrazione pecca di originalità e di spunti genuini che riescano ad evadere da rappresentazioni ovvie.
Silvia Avallone è una penna ancora giovane, cui concediamo la possibilità di crescere sotto il profilo contenutistico e stilistico, affinando le sue doti e limando certe incompletezze e nebulosità, lavorando su un registro linguistico che possa associare modernità a bellezza e forza espressiva.
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The sound and the fury
Correva il lontano 1929 quando Faulkner pubblicava “L'urlo ed il furore”.
E' un romanzo di cui tanto si è scritto, è un romanzo da approcciare consapevoli della complessità stilistica di cui è espressione.
E' consigliabile abbandonare la calde coperte cui ci ha abituato tante parte della letteratura e assaporare pagina dopo pagina la voce dell'autore, provando un lungo brivido iniziale ed un freddo disorientante.
Questo è William Faulkner. Egli percorre nuove strade espressive, utilizzando la tecnica del “flusso di coscienza”, catapultando il lettore in un meandro di pensieri, di immagini, di ricordi che sfociano in irrefrenabili monologhi interiori, sconvolgendo i piani temporali presente e passato, lavorando sull'essenzialità delle parole e caricandole di significato.
Forte e prorompente è anche il contenuto del romanzo; un'immagine indelebile della decadenza umana, animi esacerbati, menti malate, famiglie alla deriva, cui fa da sfondo il grande sud americano, terra di contrasti e testimone di un'integrazione razziale difficile.
I componenti della famiglia Compson, sono voci, urla, disperazione, annientamento; attraverso i lori pensieri è possibile ricostruire una storia dolorosa, fatta di assenze, rancori, violenze, sconfitte.
Sono gli anni della grande crisi americana ed essi si riflettono sulla società, di cui il romanzo ci racconta una sorta caduta agli inferi.
Coloro che vorranno dedicare un pizzico di impegno per leggere il romanzo, si troveranno ripagati dalla conoscenza di personaggi che si mettono a nudo, senza ipocrisie, uomini e donne perduti, condannati dalle colpe proprie e altrui, lontani dalla strada della redenzione, ritratti in maniera sublime da una penna poderosa che riesce a catturare e rappresentare tutta la tragicità della vita.
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Ancora Lila e Lenù
Prosegue la storia di Lenù e Lila iniziata nel precedente romanzo “L'amica geniale”, di cui si rende necessaria la lettura.
Se nel primo volume le protagoniste erano due bambine che si affacciavano all'adolescenza, ora sono due giovani donne che camminano verso l'età adulta.
Un'età in cui le responsabilità ed i carichi familiari e personali aumentano e richiedono scelte e sacrifici, un'età in cui la personalità di un individuo si è formata e consolidata mettendo in evidenza le proprie peculiarità.
Se l'infanzia delle due giovani, splendidamente ritratta in precedenza dall'autrice, è stata un groviglio di accadimenti, di sogni infranti, di errori, di fratture, gli anni successivi saranno gravidi di lacrime e di cambiamenti, animati da una voglia di evasione dalla gabbia entro cui la vita le ha rinchiuse.
Questo romanzo raggiunge momenti di intensità nettamente superiore alla prima parte, vuoi per la durezza degli eventi narrati vuoi per il consolidarsi di due personalità forti e ottimamente caratterizzate come Lila e Lenù; due giovani donne di cui il lettore riesce a percepire i pensieri, i desideri e le sofferenze.
Le due donne sembrano rappresentare le due facce di una medaglia, speculari eppure diverse, legate da un filo trasparente anche quando la vita le fa marciare su strade parallele; due riuscitissime rappresentazioni della vita e della forza umana, quella forza che esige di trovare una luce ed una buona riuscita alla propria esistenza.
La peculiarità della penna della Ferrante è la corposità e l'abbondanza, capace di travolgere il lettore come un fiume in piena, a tratti quasi disorientante.
Come già riscontrabile nel precedente volume, è grande la capacità di tenere le redini di una narrazione brulicante di personaggi minori, ma che contribuiscono tutti a realizzare il complicato e colorato mosaico che è culla della storia.
E' un' ottima lettura che ci obbliga ad attendere il terzo capitolo per poter chiudere la parabola di vita e di amicizia di Lila e Lenù.
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Canne al vento
Leggere le opere di Grazie Deledda significa farsi trasportare in luoghi e tempi oggi lontani.
E' la terra sarda, con la sua natura aspra e incontaminata, i suoi odori, i frutti della terra, bene prezioso e vitale, i fiori profumati, gli alberi mossi dalle voci del vento.
E' la terra sarda e le sue genti; una terra avvolta da un misticismo misterioso e cupo, segnata dall'osservanza delle tradizioni e dei culti locali.
I personaggi che animano le pagine di questo romanzo sono uomini e donne schiacciati dalla vita e dal loro destino; la bontà si mescola al rancore e all'egoismo, la malvagità si fonde con la ricerca del bene;insomma la mano invisibile del fato sembra competere con il libero arbitrio dell'uomo.
La mano dell'autrice oltre a cogliere l'essenza della sua terra, si propone sempre un'indagine sull'uomo, sui suoi volti, sui suoi errori.
L'uomo della Deledda è un essere corroso da rimorsi, da dubbi, è un uomo talora in balia di un destino avverso e deve scegliere la strada, rapportandosi col prossimo.
Canne al vento è un racconto intenso, a tratti lirico a tratti duramente realistico, mosso da un flusso narrativo liquido e denso al tempo stesso, dove la tensione accumulata si scioglie solo alla fine.
Una grande voce della nostra letteratura, che ci ha lasciato una sua personale rappresentazione della vita; una vita in cui il bene incontra spesso la strada del male, una vita dove il dolce svanisce nell'amaro.
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Amicizie
Elena e Raffaella per il piccolo mondo in cui vivono sono Lenù e Lila.
Due nomi, due vite che si intrecciano saldamente fin dall'infanzia.
La culla del racconto è un rione partenopeo dal secondo dopoguerra in poi, animato da un brulichio talvolta frastornante di personaggi; i buoni ed i cattivi, gli audaci ed i timorosi, i ricchi ed i poveri, incrociano le loro strade ed i lori destini in una danza allegra e triste.
La Ferrante ricostruisce uno spaccato davvero genuino, tenendosi alla larga da immagini stereotipate della città e dell'humus sociale.
Si percepisce forte l'appartenenza dell'autrice alla storia narrata, per come riesce a cogliere atmosfere, situazioni e consuetudini; la narrazione in prima persona è corroborante per imprimere calore e passione alla trama.
E' palese la capacità dell'autrice di abbandonarsi ad una scrittura corposa, abbondante, rigogliosa; questa dote le ha permesso di elaborare un romanzo avvolgente per il flusso narrativo e per la straordinaria caratterizzazione dei personaggi.
Lenù e Lila sono figure complete e dotate di un profilo psicologico notevole; i sentimenti e gli stati emotivi che le animano sono palpabili, sfociando in una rappresentazione di un legame di amicizia forte e controverso.
Nel romanzo della Ferrante c'è desiderio di raccontare la vita, seppur contestualizzata in ambiente ben determinato; la vita quotidiana, la vita agognata, la vita accettata, la vita ereditata.
Il finale del tutto aperto lascia il pubblico, dopo tanto cammino, ad un bivio senza una mappa, implicando inevitabilmente la lettura del secondo volume per trovare la via.
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Spirito nipponico
Con “Cavalli in fuga” Mishima ufficializza la seconda parte della sua tetralogia “Il mare della fertilità”.
Inutile dire che prima di approcciarsi a questa lettura è consigliabile aver incontrato la voce dell'autore in “Neve di primavera”.
Se il primo volume della tetralogia brillava per la levità e la poeticità della scrittura unitamente ad un tessuto narrativo godibile e scorrevole, qua il “gioco” si fa più duro e la lettura richiede impegno.
A questo secondo volume, Mishima affida il suo credo, tutta la sua ideologia nazionalista, patriottica e nostalgica.
Ad attenderci è uno spaccato socio-politico nipponico a cavallo tra '800 e '900; l'avvento del capitalismo, il collasso dell'economia, la devozione per la figura dell'Imperatore.
Tanta parte della narrazione è dedicata alla ricostruzione di eventi storici, con citazioni di antichi testi nazional popolari, vere e proprie fonti ispiratrici per lo sviluppo del pensiero e della tradizione giapponese.
Questo è un romanzo in cui il tessuto narrativo si avviluppa a pagine dense di storia politica di un paese rimasto sempre un po' avvolto da un alone fumoso, un paese in cui la corsa all'occidentalizzazione si è sempre scontrata con i fortissimi retaggi culturali ancorati ad un passato colmo di tradizioni.
La penna di Mishima si adatta a ciò che richiede il contenuto, assumendo connotati più didascalici, rimanendo tuttavia nitida e profonda quando coglie gli stati d'animo ed accarezza i pensieri dei suoi personaggi.
Nel complesso è un lavoro di cui è impossibile non apprezzarne l'ampiezza del contenuto e la forza dapprima velata eppoi più scoperta del pensiero dell'autore, abilmente trasfusa nel corso dell'intera narrazione.
Una lettura dall'intenso sapore di testamento ideologico che assorbe tanta attenzione da parte del pubblico, ma che lo ricompensa con un epilogo in cui tutti i fili del pensiero convergono e danno forma e sostanza al romanzo.
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Un viaggio difficile
Yucatan è un titolo da cui ci sia aspetta di essere catapultati tra le splendide rovine Maia situate nell'omonima regione messicana, senza perdersi un assaggio di sole e mare delizioso.
Ebbene nulla di tutto ciò.
“Yucatan” è il romanzo più occulto, complesso e fuorviante che abbia scritto la mano di De Carlo.
Esso vide la luce nel 1986 in seguito ad un'esperienza prettamente personale vissuta dall'autore, ossia l'aver accettato l'invito del grande Federico Fellini ad accompagnarlo negli Stati Uniti ad un incontro con lo scrittore Carlos Castaneda, autore mistico, celebre per i suoi libri su stregoni, maghi e sciamani messicani.
De Carlo tesse una trama narrativa mescolando il vissuto con elementi frutto di invenzione, creando un guazzabuglio davvero surreale e alquanto ostico per il lettore.
Senza dubbio l'esperienza di viaggio deve avere colpito l'autore avvicinandolo ad un mondo tenebroso e misterioso, se vogliamo lontano da una cultura di stampo razionale; ma il risultato prodotto è nebuloso e manca di un filo narrativo maggiormente strutturato.
Se sulle prime la curiosità instillata nel lettore lievita pagina dopo pagina, successivamente l'interesse muta in incomprensione e noia.
Il senso di attesa e di ricerca dell'intero romanzo sfuma e scolora.
E' una lettura non consigliabile a coloro che si approcciassero per la prima volta con questo autore; invece per coloro che conoscono e amano De Carlo ne conferma la capacità di scrittura anche se non supportata da un buon impianto narrativo e da una una trama convincente.
Peccato che gli occhi rimangano a digiuno delle immagini di una terra affascinante come lo Yucatan.
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Riflessi del passato sul presente
Ne “Le colpe dei padri” i protagonisti sono il passato ed il presente.
Uno spaccato solido del passato e del presente economico-industriale italiano viene colto dall'autore con tocco estremamente veritiero, analizzandone gli inevitabili riflessi sulla società.
Perissinotto cuce con maestria una trama dal sottofondo avvincente, svelando con cautela le carte e catalizzando in tal modo l'attenzione del lettore fino all'epilogo.
Le pagine tristi e cupe che hanno segnato la storia italiana degli anni '60-'70 scorrono palpabili sotto gli occhi del lettore, riaprendo le ferite inferte dal terrorismo e dalla storia industriale di casa nostra, proiettandone gli effetti sulla società del tempo.
Su queste immagini si innestano parallelismi con il presente che sta vivendo il nostro paese; efficace la mano e la creatività dell'autore nel porre passato e presente a confronto, evidenziandone similitudini e divergenze.
Passato e presente significa scorrere del tempo, evoluzione dei costumi e del vivere sociale, significa confronto generazionale padri-figli, significa tempo di bilanci.
Perissinotto mette scena tanta quotidianità, mette scena le scelte che uomini e donne reputano giuste ma che solamente il futuro potrà giudicare.
Un romanzo per rispolverare la memoria di un passato recente, un romanzo per interrogarsi a posteriori sulla correttezza delle strade percorse, un romanzo che fa male e che obbliga a riflettere.
Un lavoro riuscito, carico di sensazioni e sentimenti; una galleria di personaggi ben definiti in parte frutto del loro passato in parte artefici del loro presente.
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Una figura misteriosa
Giuseppe Balsamo nasce a Palermo nel lontano 1743.
E' una delle figure più controverse e discusse della storia: mago, alchimista, guaritore, massone.
I documenti e gli scritti su Cagliostro abbondano e ci tramandano di un uomo un po' santo ed un po' peccatore.
Roberto Gervaso pubblica questa biografia negli anni '70, dopo un lavoro minuzioso di raccolta documentale delle molteplici fonti, considerando che il famoso conte fu un viaggiatore indefesso, attraversò l'intera Europa, alloggiando presso le più famose corti dell'epoca, entrando in contatto con re, regine, cardinali, alti funzionari, papi, scrittori e filosofi.
La ricostruzione adoperata da Gervaso è dettagliata come richiede il tipo di opera, tuttavia godibile e ricca di riferimenti storici e culturali che accompagnano il lettore in un viaggio interessante attraverso il secolo XVIII.
Per chi già conosce la lucidità di giudizio e l'oggettività dell'autore, avrà il piacere di riscontrare anche in questa biografia datata queste qualità; Gervaso dà voce agli eventi riportando tutte le loro sfaccettature e le diverse interpretazioni scaturite nel tempo, lasciando al lettore la libertà di costruirsi la propria idea.
Anche a proposito di Cagliostro, Gervaso ci illumina sulla sua vita rocambolesca, sui contrasti , sulle accuse, sui rapporti con il popolo e con i potenti, proponendoci una galleria variopinta di vizi e virtù attribuiti al conte.
Se già il contenuto del saggio biografico è ottimo e veramente arricchente, ulteriore motivo per leggere Gervaso è la capacità di utilizzare la lingua italiana, come pochi sanno fare.
La lingua di questo autore è sublime nella ricerca del termine più appropriato, rispolverando parole ed epiteti che oramai si sono perduti nella quotidianità del nostro linguaggio.
Consigliato a tutti coloro che si domandano: “chi fu il conte di Cagliostro?”
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Nerone
Cedri, aceri e violette
Leggere Kawabata significa immergersi nel silenzio deliziando gli occhi dei colori e dei sussulti della natura.
Le immagini della bellezza, dell'eleganza, della solitudine della natura scorrono tra le pagine, scandendo il ritmo di una narrazione povera di eventi e ricca di sensazioni.
I ciliegi, i cedri, i cinnamomo, gli aceri, le violette sono vita, sono emozioni, sono una galleria di fotogrammi poetici. Così come la lavorazione certosina di un obi o di un kimono.
I personaggi sono tratteggiati dagli stessi dialoghi secchi e brevi di cui si rendono protagonisti, facendo emergere tradizioni millenarie, lontane dalla cultura di stampo occidentale.
Usi e costumi della città di Kioto si materializzano tra le pagine in maniera semplice ma avvolti in un'aura elegante e misteriosa al tempo stesso.
La penna di Kawabata è lirica, delicata, a tratti “introversa” quando sembra seguire i pensieri dell'autore a scapito della fluidità narrativa.
E' una lettura totalizzante perchè ti trasporta in un altro mondo richiedendo attenzione e comprensione; comprensione per un mondo retto da tradizioni ataviche che regolano i principi posti a base della famiglia, della società, del lavoro, dell'amore.
“Koto” è un romanzo breve eppure intenso e illuminante per coloro che volessero avvicinarsi alla letteratura nipponica e ad uno stile espressivo originale, che nella semplicità linguistica e nella fusione spirituale con gli elementi naturali trova la propria foce per raggiungere il mare sconfinato dell'essenza dell'uomo e dell'io.
Per chi riuscirà ad entrare nella penna e nella mente di Kawabata si manifesterà un mondo magico e reale, solitario e passionale.
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Gli artigli dell'amore
L'ultima fatica letteraria di Ugo Riccarelli racconta uno spaccato tutto italiano.
Uno spaccato sociale del nostro paese dagli albori della seconda guerra fino agli anni settanta.
Riccarelli è un autore che racconta la storia attraverso i suoi personaggi, uomini e donne colti con intensità e rappresentati con naturalezza, impegnati nei ruoli assegnati loro dal destino.
I personaggi che incontriamo tra le pagine di questo romanzo sono “veri”, sono dapprima il ritratto di una Italia che si prepara all'entrata in guerra, tempi in cui i ruoli familiari sono ancora nettamente distinti tra l'uomo e la donna, poi il dopoguerra con stenti, sacrifici, dove occorre rimboccarsi le maniche per il sostentamento proprio e dei cari.
L'autore porta in scena la vita, quella di tutti i giorni, quella delle classi lavoratrici; una vita in salita, fatta di lacrime salate, ma anche allietata dalla scoperta e dalla ricerca dell'amore.
Ebbene sì, l'amore, quello che colora il mondo e la vita, quello che lascia in bocca un sapore zuccherino, quello che fa sognare, quello a cui ci si aggrappa per evadere da un presente complicato.
Anche Signorina, la protagonista, cerca il suo amore. Vuole una famiglia tutta sua, vuole realizzare i sogni che l'accompagnano da una vita.
La scoperta dei volti dell'amore è uno dei messaggi più vibranti che Riccarelli dona al suo racconto;
l'amore dolce e passionale, l'amore per un figlio, l'amore per la vita.
Un'analisi matura e meditata sul concetto di amore e sui suoi fardelli, talora amara e venata di tristezza.
E' una lettura che dietro la semplicità espressiva, cela profondità e trasmette emozioni, narrando la quotidianità, narrando l'esistenza di una donna resa simbolo dei “graffi dell'amore”.
Sta al lettore scoprire e comprendere il graffiare dell'amore.
Con “L'amore graffia il mondo”, Riccarelli si congeda dal suo pubblico, lasciandoci prematuramente.
Una voce davvero interessante che con i suoi personaggi ha raccontato l'Italia, dolori, sogni e speranze.
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C'era una volta la Cina
C'era una volta la Cina di Mo Yan, rappresentata in una fusione di realtà e magia, collocata tra mito, leggenda e tanta parte di storia del paese.
C'erano una volta sterminati campi di sorgo rosso; il sorgo, un cereale che diviene personificazione della culla, del sostentamento, della tomba di un'intera popolazione, spettatore muto ma partecipe dell'evoluzione socio-politica cinese.
La Cina raccontata dalla penna di Mo Yan è un crocevia di banditi, soldati, invasori, vittime ed eroi; una galleria portentosa di personaggi che lottano, sognano, soccombono ogni giorno.
Uomini e donne dipinti con i colori vividi del dolore, della morte e della passione; la forza degli eventi e la potenza della narrazione non prevedono tinte sbiadite e linee poco definite, ma tutto assume la definizione del rosso del sangue, del nero della terra, della luce dei tramonti sui campi sterminati di sorgo.
La forza narrativa delle immagini e delle emozioni è indiscutibile, trascinando il lettore a calpestare il suolo martoriato dalla guerra cino-giapponese del secolo scorso e dalle innumerevoli lotte interne, avvicinandolo ad una sorta di comunione coi personaggi. Sebbene la narrazione sia scandita da continui flashback, da tuffi nel passato e nel presente, tuttavia il filo conduttore sotteso all'opera non viene mai meno, anzi aumenta di intensità con lo scorrere degli eventi.
E' un romanzo pregevole, la cui lettura richiede impegno, ricompensando con pagine intrise di umanità, di valori, di sogni, di ricordi.
A tratti incalzante a tratti ridondante, eppure nessuna parola risulta superflua.
Si percepisce il cuore dell'autore ed il desiderio di dare un volto al passato della propria terra, rievocando immagini della tradizione popolare e di un mondo epico, dove eroi e sognatori si scontrano con le dure leggi del mondo reale, quello della guerra, della fame, della morte, senza dimenticare l'amore passionale e quello per i figli.
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Nella mente di Spider
Dennis e Spider, i due volti di un uomo.
Spider e Dennis, due anime fuse in un solo corpo.
Mc Grath disegna con la sua penna clinica, una figura indimenticabile, destinata a lasciare segni indelebili nella sensibilità del lettore.
Incredibilmente forte e suggestiva la narrazione in prima persona del protagonista, a tal punto da manipolare e ipnotizzare il pubblico lungo tutto l'excursus del racconto.
Un racconto dal ritmo lento, dominato da immagini e da visioni, da un alternarsi di sogno e realtà, di follia e lucidità, fino a portare il lettore ad annaspare nei meandri della mente di un uomo e a cercarne la via d'uscita.
L'autore utilizza le confessioni di Spider per ricostruire la sua personalità, pezzo per pezzo come un artigiano dell'arte del mosaico.
Chi sei tu Spider? Una vittima o un carnefice?
Una domanda martellante e vischiosa su cui Mc Grath fa poggiare le basi del suo ottimo lavoro.
Le diverse stratificazioni presenti nell'animo di Spider sono opera di una mano che associa doti letterarie a conoscenze specifiche in materia psichiatrica, trasformandole in emozioni per chi legge.
Il personaggio di Spider è una vera chicca, una maschera commovente e rivoltante, a tratti innocuo a tratti detestabile, un uomo da indagare e da comprendere osservandone le oscure sfaccettature.
Uno dei romanzi meglio riusciti dell'autore, una storia cruda per raccontare le infinite deviazioni della mente viaggiando all'interno di essa; nascono proprio da questo percorso interno e sotterraneo la bellezza, lo stupore, l'angoscia provocate dalla narrazione.
E' una lettura avvolgente che fa sprofondare in una terra buia dove la luce lascia spazio solo ad ombre.
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Betty: chi sei?
Betty, che strana creatura.
Una giovane donna alla deriva, già logorata dalla vita o meglio da se stessa, dalla propria insoddisfazione, da un istinto che la spinge a percorrere strade proibite e detestabili.
Il richiamo del vizio che si infrange contro il solido scoglio del “viver normale”: una famiglia da accudire, una buona reputazione sociale, un tetto sicuro.
Betty è un animo indomabile e nel corso della narrazione talvolta sembra alla ricerca spasmodica di uno scopo, talaltra sembra averlo già raggiunto.
Ancora una volta Simenon manipola e descrive la psiche umana come pochi scrittori sono in grado di fare; se da un lato in questo romanzo mancano pennellate di colore e odori del mondo esterno, dall'altro l'introspezione del personaggio è minuziosa, incisiva, cesellata alla perfezione.
Nulla è lasciato al caso; gesti, sguardi, parole.
E' una lettura da assaporare senza fretta, assecondandone il ritmo lento della narrazione per cogliere le sfumature più nascoste.
Con questo romanzo la penna di Simenon ha disegnato un altro personaggio memorabile, scavando nel cuore di una donna e portandone alla luce tutte le zone d'ombra, coinvolgendo il pubblico in una girandola di sensazioni, dalla riprovazione alla tristezza, dalla rabbia alla comprensione.
L'autore è un maestro nel tenere il lettore sul filo del rasoio del dubbio, costringendolo inoltre ad una continua tensione verso l'esito del racconto.
Chi è veramente Betty? Una donna perduta o ritrovata?
Una domanda che serpeggia fin dalle prime pagine e da cui è impossibile non rimanere ammaliati.
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Lacrime e sorrisi
E' una scelta coraggiosa e talora pericolosa, quella di dare come protagonista al proprio romanzo un personaggio illustre.
Ma la scelta di Fabio Stassi è stata premiata.
Questa non è un'opera che nasce solamente dalla creazione e dall'inventiva narrativa, ma si percepisce un enorme lavoro di preparazione sotteso per potere dare forma ad un uomo come fu Chaplin.
E' magnifica e prorompente la figura dell'attore che la penna di Stassi ricrea, agganciando l'attenzione del lettore e coinvolgendolo in un viaggio nel tempo.
Sono gli albori del XX secolo quando Charles approda in America alla ricerca di fortuna; ad aspettarlo tanta gavetta, vita di strada e incontri con variopinti personaggi.
Una vita in salita per un uomo nato da una famiglia allo sbando, un giovane avvezzo ad una vita raminga, senza radici, attratto dalla vita da artista, perché è l'unica ad aver conosciuto fin dalla nascita.
E' la stessa voce di Chaplin, oramai al capolinea terreno, a narrare in prima persona spaccati di vita, ricordi preziosi come l'oro, a ricordare volti di uomini e donne che il destino ha posto sul suo cammino.
Charles non è solamente un artista di fama mondiale, ma è anche un uomo ed un padre che rievocando la propria lunga e travagliata esistenza, può raccontare cosa sia il dolore, il sacrificio, l'amore, l'amicizia, il successo e la sconfitta.
E' accattivante ciò che riesce a fare Stassi con la voce di Chaplin; giunge a sviscerare l'anima di un uomo illustre con perizia e credibilità, facendo di lui simbolo di un vagabondo in cerca di fortuna, di un uomo oppresso dalla solitudine, personificazione della voglia di lottare e sperare.
“L'ultimo ballo di Charlot” è un romanzo originale, curato e genuino che non ambisce a divenire racconto biografico o saggio. E' un lavoro denso di contenuti e di introspezione psicologica del personaggio, che fluisce in un costrutto narrativo elegante, in cui la prosa si adatta ad accogliere tra le proprie trame episodi realmente accaduti e nomi conosciuti della storia del cinema.
Fabio Stassi ha dato prova di grande maturità stilistica, confezionando un lavoro interessante e carico di calore umano, togliendo la maschera di Charlot al grande Chaplin per provare a catturarne il vero volto.
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Il poeta e la pittrice
Beatrice Masini, nota autrice di letteratura per ragazzi, ha scritto il suo primo romanzo dedicato agli adulti, giungendo finalista al Premio Campiello 2013.
“Tentativi di botanica degli affetti” è un titolo forte e curioso pronto a destare l'interesse del pubblico, il quale si addentra tra le pagine interrogandosi già sull'affinità possibile tra la scienza che studia i vegetali e quella che studia l'affettività umana.
L'autrice confeziona un racconto ambientato agli albori dell'800, prendendo in prestito collocazioni ambientali e personaggi realmente esistiti, rielaborandone volti e situazioni.
L'ambientazione nella florida compagna milanese, la descrizione della classe borghese dell'epoca, la figura enigmatica di un poeta famoso ed eccentrico, una costellazione di personaggi minori, riportano la mente ad immagini manzoniane, anzi riconosciamo come lo spunto narrativo sia giunto proprio da Alessandro Manzoni, uso trascorrere i periodi estivi nella dimora di Brusuglio assieme alla madre Giulia Beccaria.
L'abilità della Masini è innegabile nella cura dedicata ai personaggi, capace di collocare sulla scena una coralità di voci, tratteggiandone con precisione e raffinatezza i contorni, facendoli muovere con naturalezza e secondo i costumi sociali del periodo descritto.
Carico di emotività è il personaggio di Bianca, la giovane pittrice protagonista del romanzo; una vita familiare precaria, la ricerca di affetti solidi, un amore innato per la natura studiandone le specie vegetali e dipingendole con maestria quasi a cogliere l'anima di piante e fiori.
Intenso il momento narrativo del trapasso dall'interesse per la botanica a quello per l'essere umano; la mano dell''autrice si solleva dalle descrizioni sulla bellezza ed i colori della natura per indagare i misteri e le zone d'ombra del cuore.
I dubbi, le domande, le incertezze, le supposizioni di Bianca sull'animo umano prendono sostanza infondendo al racconto una natura intimistica, un'analisi profonda dei personaggi, della loro moralità e dello loro inclinazioni.
Il risultato raggiunto dalla Masini è buono, mettendo in luce il punto di forza di una scrittura elegante ed evocativa, portata maggiormente per la caratterizzazione del personaggio.
Lo sfondo storico e sociale dell'epoca è discreto, mette in evidenza la posizione ed il ruolo femminile, le problematiche legate agli abbandoni presso la ruota di neonati indesiderati, le dinamiche familiari, tuttavia senza ambizioni di approfondimento.
Sicuramente non era nelle intenzioni dell'autrice di dare alla luce un romanzo storico, bensì un romanzo che innestasse su una base storica una storia che indagasse sulla difficoltà di catalogare i sentimenti e di interpretare il cuore degli uomini.
Gli affetti sfuggono ad un'analisi di tipo scientifico ieri come oggi e Beatrice Masini lo racconta ai suoi lettori con una penna seducente.
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Giovani di ieri
Una buona prova di scrittura quella che ci offre il giovane Paolo Di Paolo con il suo ultimo romanzo.
Originale la scelta adoperata da Di Paolo per parlare di gioventù e di storia del secolo scorso, affidando il ruolo di protagonista del suo racconto al giovane Piero Gobetti.
Gobetti è una figura di cui, forse, pochi conoscono la vita e l'impegno sociale, culturale e politico prestato negli anni Venti; una vita brevissima ma intensa, una mente brillante, un uomo che col suo impegno editoriale e giornalistico lottava per i propri ideali onestamente e con vigore fino al sacrificio. Un uomo scomodo al regime dell'epoca, un elemento pericoloso da isolare e mettere a tacere.
L'autore ripercorre i momenti salienti dei venticinque anni di vita del protagonista, eleggendolo simbolo di vitalità della gioventù; infatti Piero oltre agli impegni sociali è un ragazzo innamorato, un ragazzo che crede nel futuro e vuole un futuro per sé e per la propria famiglia.
Si snocciola tra queste pagine una serie di immagini in bianco nero che fotografano volti, usi e situazioni del passato; si respira un'aria rarefatta che porta con sé sentori di amore, di tragedia, di rivolta, di speranza.
Questo non vuole essere un romanzo storico, ma un lavoro che parte da uno spunto storico per rielaborarlo e trasmettere al pubblico emozioni e sentimenti; qua non ci sono date e cronologie di eventi ma c'è il cuore, la passione, la vita.
La piena riuscita del romanzo è dovuta all'estrema maturità stilistica dimostrata dalla penna di Di Paolo; la sua capacità narrativa si innesta su una vena lirica onnipresente, donando leggerezza e profondità, mettendo in luce gli stati d'animo dei suoi personaggi come priorità assoluta.
La lettura coinvolge e obbliga alla riflessione a tal punto che qualche pagina in più avrebbe conferito maggior completezza al lavoro, tuttavia è impossibile non fare tifare per il giovane Piero e domandarsi se la gioventù di ieri e di oggi possano ancora avere punti di comunione.
Un autore promettente da cui ci attendiamo molto altro.
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La caduta
Con il suo “La caduta” Giovanni Cocco esordisce nel campo letterario col genere del romanzo.
Un romanzo dalla struttura sui generis, diviso in storie a sé stanti che l'autore con abile mano convoglia in un unico filone narrativo denso di significati.
Quelle disegnate dalla penna di Cocco sono storie che prendono le mosse dal vissuto, dal quotidiano, dal volto del mondo odierno; storie amare, dolorose e crudeli.
Sono le storie ed i volti che la cronaca degli ultimi anni ci ha proposto, sono le immagini delle cadute dell'uomo agli inferi; adolescenti corrosi dai veleni familiari e sociali, la dannazione del terrorismo, il degrado delle periferie del mondo, gli affetti strangolati dall'indifferenza.
A questa Babilonia globale, sembra rispondere la natura, emettendo lei stessa il suo grido di ribellione sotto forma di disastri ambientali e geologici.
Un susseguirsi di eventi forti, di drammi, di sconfitte, di scelte talora volontarie talora subite, di capovolgimenti senza ritorno.
Un'aria funesta tesse la tela di questo grande e variopinto affresco dell'umanità, dove nulla risulta immobile per sempre ma in evoluzione costante in base alle mosse dell'uomo e del destino; in nessuna pagina si respira vittimismo, bensì accettazione o voglia di redenzione.
Si avverte con decisione un moto evolutivo, una spinta a guardare l'orizzonte; inutile volgere lo sguardo al passato e alle perdite.
E' brillante e originale lo stile di scrittura di Cocco; pur partendo da contenuti già largamente utilizzati in letteratura, riesce a rielaborare uno scritto audace e tagliente, fotografando le situazioni con un obiettivo personale, facendo vibrare i suoi protagonisti, delineando con tratti rapidi l'esplodere dei sentimenti oppure la vacuità degli stessi.
Il romanzo di Cocco è un mosaico dove ogni tessera fa parte di un unico disegno, catturando l'attenzione del lettore pagina dopo pagina nell'attesa dell'epilogo.
E' una lettura che mette in luce le doti di un autore agli albori le cui capacità gli consentiranno di continuare a solcare gli affollati mari della letteratura, mosso da venti di freschezza.
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Premio Strega 2013
Dalla lettura dell'ultimo lavoro di Siti, comprendiamo presto il messaggio duro affidato dall'autore al suo racconto.
Ad accoglierci tra queste pagine una rappresentazione cruda e impietosa dei meccanismi sottesi all'economia moderna, vista come una selva buia piena di insidie, la personificazione del male del mondo. Da ciò prende vita un groviglio di nefandezze e di immoralità, un dilagare di malvagità spalmata su tutti i livelli sociali.
E' da riconoscere all'autore un notevole lavoro di preparazione sotteso alla ricostruzione tecnica e dettagliata delle manovre operate nel campo economico; tuttavia il confine tra destare interesse nel lettore e provocare tedio e caduta di concentrazione è sottile.
Le parti del romanzo intrise di tecnicismi e rocambolesche incursioni e speculazioni finanziarie si rivelano davvero troppo elaborate, snaturando l'impianto narrativo per avvicinarlo ad uno saggistico.
I personaggi che popolano il romanzo sono delineati con vigore psicologicamente e socialmente, contribuendo a consolidare l'idea pessimistica dell'autore; uomini arrivisti, sordi agli affetti, frustrati e vuoti, divisi tra denaro e sesso.
L'onda di fango che fotografa Siti sembra inarrestabile e implacabile, tanto che resisterle non serve a niente.
Alla fine della lettura, si matura l'impressione di una costruzione eccessivamente catastrofica e sensazionalista, che può essere stimolo per riflettere sull'epoca in cui viviamo e sui valori della società attuale, tuttavia appare ridondante nelle situazione fotografate, queste ultime abbastanza stereotipate.
Il congedo dal romanzo è carico di amarezza, di desolazione, di annientamento, un viaggio in un mondo glaciale dove non riesce a filtrare neppure un debole raggio di sole.
Ci auguriamo che resistere ad un mondo simile possa servire e che gli uomini continuino a farlo.
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Geologia di un padre
Interessante ed emblematico il titolo scelto da Magrelli per battezzare la sua opera.
Impossibile non interrogarsi sul significato di “geologia di un padre”; al quesito risponde l'autore con i suoi 83 brevi capitoli, ciascuno dedicato ad una anno di vita del padre.
Fulcro del lavoro dell'autore è la figura del padre, un uomo da scoprire e riscoprire.
La penna di Magrelli compone un collage intenso e delicato al tempo stesso, cucendo immagini, ricordi, pensieri provenienti dal proprio bagaglio familiare, con l'intento di scrutare a fondo l'anima del genitore.
Un genitore dalla personalità particolare e l'autore solo oggi, da adulto, sente la necessità di fare luce su talune zone oscure, facendo riemergere dettagli del passato e reinterpretandoli sotto punti di vista diversi, grazie alla maturità raggiunta e all'esperienza.
Ne nasce uno scambio di visioni lucido, a tratti ironico a tratti serio, di un padre e di un figlio.
Il lavoro di Magrelli possiede quell'afflato intimo tipico di un diario, l'eleganza apportata da riflessioni filosofiche, la tenerezza ed il trasporto emotivo trasmesso dalla liricità; un lavoro di natura ibrida difficile da racchiudere entro la rigidità di un genere letterario.
In poche pagine l'autore riesce a scandagliare la stratificazione d'animo del genitore, quasi fosse un terreno sconosciuto da studiare con cura; si alternano le sensazioni di durezza e morbidezza, di fragilità, di elasticità, di mancanza di duttilità.
La densità di taluni sentimenti si alterna ad una trasparenza cristallina, trascendendo dalla narrazione e toccando la poesia.
Fluiscono con eleganza situazioni personali e familiari sedimentate col trascorrere del tempo, eppure ancora vive nella memoria; istantanee di vita di tutti i giorni, di sorrisi e lacrime, di sofferenze e di gioie.
Un'opera estremamente delicata ma profonda, che mette a nudo tanta parte dell'animo umano partendo da esperienze private ed elevandole a riflessioni che possono divenire universali.
Una prova di scrittura sui generis, ben riuscita e dedicata ad un pubblico pronto ad assaporare un stile narrativo originale.
Magrelli con il suo “Geologia di un padre” è uno dei finalisti del Premio Campiello 2013.
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Il Rinascimento di Campailla
“Divorati dal dragone” di Sergio Campailla dà forma e sostanza alla storia del rinascimento italiano.
Il periodo rappresentato è compreso in un arco temporale che va dal 1491 al 1512, anni di transizione verso il nuovo secolo, di cui l'autore immagina e ricostruisce con fedeltà il fermento sociale e politico, attenendosi scrupolosamente agli eventi dell'epoca.
Le ambientazioni primarie sono date da Firenze e Roma, luoghi in cui prospera l'intensa attività dei più potenti, dai papi ai signori, dagli artisti ai letterati.
Tra le splendide pagine ricche che imprimono a dovizia lo spaccato storico, emergono prorompenti le figure di papa Borgia, del figlio Cesare, del Savonarola e dei due grandi artisti dell'epoca, Leonardo e Michelangelo, oltre ad una folta schiera di personaggi minori.
La nitidezza della rappresentazione e la rigorosità storica utilizzata dall'autore, elevano la caratura dei personaggi ad un livello eccellente, permettendo di affermare che a tratti la definizione di romanzo storico calzi davvero stretta al lavoro.
Interessanti e dettagliate sia le informazioni politiche che ritraggono un periodo infestato da faide, odi, congiure sia le nozioni artistiche sulla vita e le opere dei più grandi uomini d'arte del nostro paese.
La capacità di Campailla di innestare e fondere diversi generi porta alla creazione di un'opera di contenuto e di approfondimento, senza tralasciare di coltivare tra le sue pagine qualche nota di mistero per catturare l'attenzione del pubblico, tuttavia senza sconfinare mai in un genere noir.
Infatti, se lo spunto iniziale della narrazione è dato dal misterioso codice di Calima, una sorta di libro delle rivelazioni che raccoglie premonizioni funeste, il prosieguo del racconto catapulta il pubblico tra le strade fiorentine e romane oppure all'interno delle corti papali e signorili, respirandone gli odori, osservandone i costumi, percependone il clima.
Una caratterizzazione del rinascimento verace, cruda, pronta a cogliere i lati oscuri della politica, della chiesa e dell'economia del tempo, vogliosa di squarciare le nebbie che talora avvolgono la storia.
L'ulteriore elemento che contribuisce alla piena riuscita del romanzo è la forza e la raffinatezza stilistica della penna del Campailla. Un flusso narrativo elegante ed impegnativo dona appetibilità alla lettura e concede una giusta collocazione al racconto, ammantandolo di un'aura dal sapore antico. E' una narrazione lontana dagli echi di modernità, tanto più intensa quanto più diviene ostica.
Campailla ridona luce e credibilità al romanzo storico, un genere letterario impegnativo per chi scrive e per coloro che leggono; un genere il cui valore primario è dato dall'aderenza ai fatti evitando scivolate e sbavature che ne possano compromettere l'intero impianto.
Una lettura consigliabile ai cultori del filone storico, ricca di nozioni preziose, di immagini efficaci, di riflessioni interessanti su di un'epoca oramai lontana.
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Il sogno di volare
Dopo “Almost blu” ed “Un giorno dopo l'altro”, torna in azione la detective Grazia Negro, per fermare la furia omicida di un nuovo killer seriale che funesta le strade di Bologna.
Bologna, tranquilla città di provincia poco avvezza a problematiche criminali, è oramai lontana dalla città rappresentata tra queste pagine. Lucarelli scatta una fotografia vivida e attuale del capoluogo emiliano, evidenziando il notevole flusso migratorio che abbraccia saldamente tutto il tessuto cittadino causando talvolta tensioni sociali, zone di degrado, sfruttamento. E poi la lenta e progressiva infiltrazione delle organizzazioni criminali con cui l'amministrazione locale deve convivere e combattere, sicuramente non ad armi pari.
Una città mutata, grigia e stanca, che ha perso lo smalto e la vivacità intellettuale e sociale di un tempo, in cui visi di tutti i colori si incontrano per le strade ogni giorno, in cui aleggia una sensazione di solitudine, di mancanza di aggregazione, di insoddisfazione, di rabbia.
Il volto emiliano è uno dei tanti volti dell'Italia di oggi, scelto dall'autore per raccontare una storia a tinte fosche, una storia che parla di crimine senza perdere mai di vista gli uomini siano essi cittadini o appartenenti alle forze dell'ordine.
Il racconto proposto da Lucarelli si accompagna ai versi della canzone “Il sogno di volare” del cantautore Andrea Buffa, cogliendo da essa spunti di riflessione sulle più frequenti piaghe sociali, come lo sfruttamento di manodopera in nero, le morti sul lavoro, i disagi degli immigrati.
Un richiamo importante che consolida nel lettore la sensazione che l'autore in questo romanzo abbia voluto fondere elementi noir a tematiche sociali di attualità; quasi a ricercare le scintille dell'odio in una trasformazione generalizzata che ha investito gli uomini.
E' questa la chiave di lettura con cui affrontare la storia, perchè questo romanzo di Lucarelli sembra
privilegiare la denuncia sociale alla ricerca della suspense e dell'azione, talora scivolando in situazioni poliziesche poco credibili.
Buona ed interessante la caratura psicologica femminile operata dall'autore nel disegnare la figura della poliziotta protagonista, dando prova di sapere addentrarsi nell'animo di una donna diviso tra una carriera impegnativa e il desiderio di realizzare i propri sogni.
In definitiva il sogno di volare raccontato da Lucarelli è il sogno di tanti uomini e donne, corrosi da una vita difficile, stretta, disagiata; è un sogno di evasione, di giustizia, di affetto, di realizzazione.
Molto spesso questo sogno passa attraverso canali sbagliati e l'autore ce ne racconta un esempio.
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