Opinione scritta da Laura V.
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Sogni
Se fossi araba, Ahlam è uno di quei nomi che mi piacerebbe avere. Il suono, anzitutto, ha qualcosa di dolce e affascinante (h aspirata e accento sull’ultima sillaba) e il significato è molto bello: “sogni”. Non a caso, alla coprotagonista di questo romanzo, la quale si chiama per l’appunto così, i sogni non mancano: realizzarsi come donna e come artista, ma anche vedere il proprio Paese, la Tunisia, libero finalmente da qualsiasi dittatura, politica o religiosa.
È la prima volta, in verità, che mi capita di leggere una storia d’ambientazione tunisina. Un noto pittore francese si trasferisce alle isole Kerkennah, un incantevole arcipelago lungo la costa est; laggiù l’uomo stringe una sincera e duratura amicizia con un pescatore del posto e la sua famiglia. Sono ancora gli anni del regime di Ben Ali, destinato poi a cadere sotto i colpi della Rivoluzione dei Gelsomini tra il 2010 e il 2011, nell’ambito di quella Primavera araba rivelatasi, in ultima analisi, stagione deludente e fallimentare.
L’autore, il francese Marc Trévidic, parla di tutto ciò in questo suo romanzo d’esordio, ponendo in particolare l’accento, da bravo giudice dell’antiterrorismo, sul fenomeno del radicalismo islamico. Purtroppo, nemmeno la Tunisia, pur così vicina a noi e sempre allettante per via del suo turismo a buon mercato, si sottrae all’estremismo fanatico di gruppi affiliati dapprima alla vecchia al-Qa’ida e ora a Daesh. I fondamentalisti sono pieni di contraddizioni, anzitutto per il fatto che, come ben documenta il romanzo, pretendono d’instaurare una società islamica pari a quella dell’epoca del Profeta e, al tempo stesso, vivono attaccati a internet e a tutta la modernità tecnologica che nel VII secolo d.C. era impensabile. Proprio sul web, più che nelle moschee, avviene la radicalizzazione dei giovani che, per buona parte, non leggono il Corano (anche perché magari non hanno una preparazione culturale tale da riuscire a leggerlo e a capirlo), accontentandosi di “riassunti” e interpretazioni molto discutibili pubblicati su internet da altrettanto discutibili predicatori. Con il loro fare sviliscono la grandezza dell’Islam, dimenticandosi che esso invita a usare il cervello, non a buttarlo nel cesso, e si definiscono perfetti musulmani, ma in realtà si servono della religione per esercitare una violenza che non trova giustificazioni. Sono del parere che il Profeta Muhammad li decapiterebbe tutti quanti, e a ragione, poiché persone del genere, che non è possibile nemmeno definire animali per non offendere le bestie, non sono di alcuna utilità al mondo, ancor meno alle società islamiche a cui appartengono, le quali, come vediamo, piangono anch’esse abbondantemente i loro morti negli attentati terroristici.
Il libro, in questo senso, dà diversi spunti di riflessione e mi è piaciuto nel suo insieme, inclusa la storia d’amore tra l’artista francese e la giovane tunisina Ahlam. Tuttavia, il mio voto è di quattro stelle non piene: ho trovato troppo precipitoso il finale, quasi buttato lì in tutta fretta, e poi mi ha fatto storcere il naso la poca accuratezza nel riportare alcune parole ed espressioni in arabo; mi domando se gli errori di traduzione siano imputabili all’edizione italiana o dipendano invece da quella francese. Già in copertina, per esempio, si legge “Ahlam in arabo significa « i sogni»”: invece no, significa “sogni” e basta, senza l’articolo determinativo, altrimenti sarebbe stato al-Ahlam, e questo lo sa persino uno studente di arabo alle prime armi. Del resto, perché non lasciare questo bellissimo nome nell’indeterminatezza, anzitutto grammaticale, come per ampliarne gli orizzonti? Meglio che i sogni, almeno quelli, non abbiano limiti né confini.
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Tra sogno e realtà
Può l’amore essere talmente intenso da ingannare se stesso?
È la domanda sorta in me al termine della lettura del romanzo di Angela Freschi, che ci regala una storia molto coinvolgente e, sotto certi aspetti, originale.
Sullo sfondo di un’assolata Palermo di metà anni Ottanta la casualità fa incontrare Giuseppe, un giovane boss di Cosa Nostra, e Bianca, una ragazza di modesta condizione che lavora in un negozio di fiori: da uno sguardo fugace nasce un innamoramento che presto si tramuta per entrambi in imprevista passione; un amore istintivo e travolgente che, più che cieco, si rifiuta di vedere, fatto di mute attese e assordanti paure, ma anche di sorprendente desiderio di normalità.
La penna dell’autrice è stata molto abile nell’indagare i sentimenti dei due protagonisti, scavando nel profondo e descrivendo stati d’animo in cui non si fatica a ritrovarsi. Interessante l’intreccio con le vicende di mafia, ben inserite nella narrazione dove trovano così riscontro drammatiche realtà tutt’altro che di fantasia. Altrettanto ben riusciti risultano pure i personaggi secondari, ognuno dei quali si incastra perfettamente nella storia narrata. In particolare, ho molto apprezzato: la scrittura curata e stilisticamente notevole; i monologhi interiori di Bianca e Giuseppe, disseminati ad arte qua e là nel testo, che conferiscono a queste pagine un tocco in più di sensibilità; le descrizioni di un angolo di Sicilia ricco di colori, profumi, suoni che s’affacciano su un mare dal grande fascino. Il finale, poi, è a dir poco spiazzante, rivelandosi una vera sorpresa e quanto di più lontano il lettore possa immaginare.
A mio parere, un’ottima prova di esordio, questa di Angela Freschi: un romanzo sull’amore, sul senso dell’esistenza, chissà perché sempre così difficile da comprendere, sull’imprevedibilità del quotidiano vivere e lo struggente bisogno di felicità che, spesso, induce il nostro cuore a fare del sogno realtà.
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I talebani visti da vicino
Voleva soltanto “raccontare una guerra che il mondo sente lontana”. Per questo motivo Daniele Mastrogiacomo, inviato di Repubblica, partì per l’Afghanistan alla fine del febbraio del 2007.
Non era la prima volta che si recava in quello che lui definisce “un intero paese punteggiato dalla morte” per via delle mine antiuomo disseminate in gran numero in tutto il territorio, tragico risultato di decenni di guerre che hanno devastato una terra dai paesaggi mozzafiato e ferito nel profondo il popolo afghano. Devastazioni e ferite, come è tristemente noto, non sono mai cessate, malgrado la presenza militare delle forze internazionali che non riescono ad avere ragione della resistenza talebana tutt’altro che debole e disorganizzata. E proprio la possibilità di penetrare all’interno di quella resistenza, intervistando un non bene identificato comandante talebano, spinse Mastrogiacomo a far ritorno in Afghanistan, lontano dall’immaginare quale assurda vicenda l’avrebbe visto protagonista.
Da ciò prende le mosse il suo libro intitolato “I giorni della paura”, pubblicato dalla casa editrice Edizioni e/o. Il lettore vi troverà l’altra parte del rapimento del giornalista, quella vissuta in prima persona da Mastrogiacomo che racconta la sua esperienza di ostaggio con uno stile narrativo capace di trasmettere, attraverso un linguaggio semplice, angoscia, speranza, rassegnazione, rabbia, paura e quant’altro abbia segnato quelle due settimane di prigionia, lunghe e durissime per lui e per i suoi collaboratori; lo accompagnavano, infatti, due giovani afghani: Ajmal Naqshbandi, il suo amico interprete-giornalista che si era attivato per ottenere il colloquio con il capo militare grazie ai suoi contatti tra gli stessi studenti coranici, e Sayed Agha, l’autista che conosceva alla perfezione quei territori.
Un gruppo di talebani armati di kalašnikov li catturò nella provincia di Helmand, nel profondo sud del Paese, con l’accusa di essere spie. Più tardi apparve chiaro che qualcuno, all’interno della leadership del movimento, aveva “giocato con le nostre vite” e che l’intervista, in realtà, era stata solo una trappola con la quale attirarli. Tutto viene descritto con dovizia di dettagli: dai terribili istanti della cattura ai frequenti e scomodi spostamenti a bordo delle jeep tra deserto e villaggi di fango e paglia, dalle “frustate in nome di Allah” all’improvvisa decapitazione di Sayed, dai ritmi dei giorni, spesso interminabili, scanditi dalle cinque preghiere quotidiane alla rottura a colpi di pietra dei lucchetti delle catene alle caviglie il giorno dell’annunciata liberazione, l’ultimo in cui Daniele vide il suo interprete; quest’ultimo, dopo un finto rilascio, sarà di nuovo catturato e, dopo il tentativo di utilizzarlo ancora come merce di scambio, ucciso con il consueto macabro rituale.
Il ritratto dei talebani che emerge a poco a poco è assolutamente inedito, qualcosa che ha, come scrive Bernardo Valli nell’introduzione, “una autenticità rara, anzi rarissima”. Tutti molto giovani, i carcerieri “dividono con noi gioie e sofferenze, fame e cibo, sete e acqua. Non ci faranno mai mancare nulla. Si occuperanno di noi con un’attenzione che ci lascerà interdetti e che impareremo a temere, quando scopriremo la violenza di cui sono capaci”. La loro è una vita semplice e strana, fatta di ideali di martirio e sorprendenti partite di calcetto, di gesti delicati verso le armi che trattano come loro compagne e canzoni urlate a squarciagola in cui si racconta non solo di combattimenti, “ma anche di un mondo migliore, più giusto, dove tutti vivono in pace e al sicuro. Senza ladri, fedifraghi, assassini. Ma anche senza donne, progresso, cultura, libri, musica, balli, cinema, televisione. Un mondo ancorato al passato, fermo ai tempi di Maometto”. Durante quei quindici giorni Mastrogiacomo poté conoscere del movimento degli studenti coranici più di quanto avrebbe mai immaginato: “In fondo – come gli disse il mullah Dadullah, comparso poco prima della liberazione – avete ottenuto molto più di un’intervista. Avete visto come viviamo e cosa pensiamo”.
“I giorni della paura” è un libro che l’autore dedica, come si legge in apertura, a coloro che si adoperarono attivamente per riportarlo a casa e alle novantamila persone che, in tutto il mondo, sottoscrissero l’appello per la sua liberazione. Ma è stato scritto con il pensiero rivolto, in modo particolare e doveroso, ai suoi due collaboratori, Ajmal e Sayed, perché “loro avrebbero voluto che raccontassi al mondo questa nostra incredibile storia. Glielo dovevo. Dopo due anni ho mantenuto questa promessa”.
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Una bellissima storia, ma...
Anzitutto, per commentare questa lettura, occorre distinguere tra la vicenda umana dell'autore (filantropo americano che costruisce scuole in Asia centrale), straordinaria e senza dubbio ammirevole, e il libro così come è stato scritto, poco appassionante e in molti punti decisamente noioso nonostante un inizio molto promettente.
Anche qualche capitolo finale è stato interessante, in particolare dove si parla del Pakistan all'indomani dell'11 settembre, ma per il resto, mi spiace ammetterlo, stavo proprio contando le pagine per metterlo da parte. Segnalo una grossolana inesattezza che almeno chi ha controllato il manoscritto prima della pubblicazione avrebbe dovuto correggere: si afferma che i musulmani pregano rivolti verso la Mecca dove è sepolto il Profeta. In realtà, da morto, Maometto alla Mecca non si è mai visto dal momento che morì e venne sepolto a Medina. Inoltre, quando si parla del wahhabismo, l'ideologia di stato dell'Arabia Saudita, non si fa cenno a quelle che sono le sue origini storiche, riconducendo il tutto a una ingenua questione terminologica.
Comunque, ribadisco, quello di Greg Mortenson è uno straordinario esempio di impegno a favore della pace e del dialogo tra i popoli e, invece che esportare la democrazia in casa d'altri a suon di bombe, otterremmo molto di più diffondendo istruzione, l'unico vero strumento che con il tempo possa sconfiggere ignoranza, fanatismo ed estremismo, religioso o pseudoreligioso.
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Ali e radici: quando la prosa diventa poesia
Capita a molti, quando si è giovani, di desiderare di lasciare la terra in cui si è nati e cresciuti.
Partire, allargare i propri orizzonti, vedere un po’ di mondo… Non tutti però riescono a realizzare il sogno, forse per assenza di condizioni favorevoli o, semplicemente, per mancanza di coraggio; non sempre, infatti, le nostre ali si rivelano più forti e tenaci delle nostre radici. C’è poi anche chi, travolto dagli anni e da una vita diversa da quella sognata, dopo essere andato via finisce per ritornare al richiamo, in verità mai messo a tacere, di quelle stesse radici rimaste nel frattempo in attesa.
Sarà questo il destino della giovane Alma Tondelli, protagonista del romanzo: partire dal piccolo borgo che l’aveva cullata da bambina, per poi farvi ritorno se non dopo un lungo percorso costellato da esperienze ben lontane da quelle che la vita di campagna e l’anonimo lavoro in fabbrica le avrebbero offerto se fosse rimasta. Ma anche da tanto dolore.
«Andrai… […] girerai… ma non dimenticartelo, che la salvezza del cuore, spesso, è nel posto dal quale si parte», le aveva detto un lontano giorno d’infanzia la Delfina, la “strega” del paese, predicendole un futuro di luci e ombre.
Sullo sfondo dell’Emilia del dopoguerra prende così avvio la vicenda di una ragazza di provincia che fin dalle primissime pagine avvinghia il lettore attraverso il fascino di una prosa che sconfina armoniosamente in poesia. Scrittura fluida, quella di Emily Pigozzi, dal tocco lieve e spesso malinconico, talvolta parca di parole ma densa di sentimenti ed emozioni; sa trasmettere la sensualità dell’amore così come il casto rifugio di un abbraccio, fa sentire il sapore del sangue a causa delle botte inferte da un padre padrone e il vuoto ancor più lancinante dovuto alla perdita di un figlio mai nato, disvela con amarezza tutta la disincantata fragilità dell’esistenza.
Sognatrice dal cuore inquieto, Alma (il cui secondo nome, non a caso, è Libera, quasi a voler dare più significato all’ “anima” del primo) vola finalmente via, imparando a rialzarsi dopo ogni caduta e cercando sino alla fine di dare un senso a quell’amore che gli uomini della sua vita, a partire dal padre, le hanno concesso o negato.
“Erano passati, mi avevano presa e lasciata, consumata e travolta. Accarezzata con le mani e con il pensiero. Ferita, posseduta e poi abbandonata. Per morte, crudeltà, incapacità. Strano senso d’amore. Tutti. Tranne uno.”
Le sue ali la porteranno a Bologna e ancora più lontano, sulla scia della passione per il teatro, incatenandola nel contempo, a dispetto del suo nome, all’amore inconcludente di un uomo già sposato. In sottofondo, carico di promesse, il fermento degli anni Sessanta, mentre le parole della vecchia Delfina, come in perenne attesa di compimento, l’avrebbero seguita ovunque. Il ruolo della donna nella società dell’epoca emerge con decisione tra queste pagine, insieme ad altre tematiche, come l’omosessualità (in particolare, quella femminile), che l’autrice ha saputo trattare alla perfezione; ottima anche la caratterizzazione di tutti i personaggi, ciascuno portatore di qualcosa che contribuisce a rendere “Il posto del mio cuore” un vibrante intreccio di vicende umane tutt’altro che inverosimili.
Un romanzo d’una profondità rara e preziosa; per quanto mi riguarda, uno dei più belli e coinvolgenti che abbia letto nel corso di quest’anno. Personaggio indimenticabile, quello di Alma: una piccola grande storia al femminile nella quale ogni donna può forse ritrovare un frammento di sé. Perché chissà quante, almeno una malaugurata volta, hanno incontrato la vigliaccheria e l’egoismo di qualcuno che, spacciandolo per amore, ha dato loro il niente. Perché se è possibile che in molte esista la Mrs Bridge di Connell che si lascia scivolare gli anni addosso senza viverli fino in fondo, non è nemmeno improbabile che con essa conviva un’Alma che, con il suo fremente desiderio d’altrove, e pur nell’inevitabilità dell’errore, voglia fare sua per davvero la vita. Perché in ogni donna, nell’intimo del cuore, c’è sempre un’anima libera.
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Felicità mancate
“In realtà, nessuno si rende conto di vivere l’istante più felice della propria vita nell’attimo in cui lo sta vivendo”
Non ho contato quante volte compaia, ma ho il sospetto che la parola “felicità” sia quella che ricorra più spesso in questo romanzo.
Eppure Kemal, il protagonista, finisce per avere una vita tutt’altro che felice. Non che non l’abbia mai conosciuta, la felicità, solo che non ha saputo riconoscerla quando gli si è presentata. O forse, più semplicemente, non ha voluto vederla, preso com’era dalla sua vita di allora che credeva perfetta con il fidanzamento ufficiale alle porte, nell’ambito dell’alta società di Istanbul, e la travolgente passione erotica, clandestina e tutt’altro che da alta società, vissuta in parallelo.
Pamuk, abilmente, attraverso la vicenda di Kemal e Füsun, fa emergere le contraddizioni di una società, quella turca, che, come diceva sempre un mio vecchio professore, non può fare a meno di tenere la testa in Europa e il corpo in Asia, e non soltanto geograficamente; una società combattuta fra tradizione e innovazione, che ama dichiarasi “moderna ed europea”, ma dove, in effetti, la verginità di una ragazza continua ad avere il suo peso. Vero negli anni Settanta, quando inizia la storia narrata dall’autore, vero ancora oggi, altrimenti il Partito Islamico non sarebbe saldamente al potere da oltre un decennio e ciò la dice lunga sulla mentalità sempre in auge.
Bel romanzo, occasione di riflessione sul senso della tanto ricercata felicità, sullo sfondo di una Istanbul immortalata nei suoi viali, vecchie stradine, piazze e giardini, percorsa a piedi, o in un'auto che corre per non far tardi, e malinconicamente ammirata dai locali alla moda sul Bosforo.
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Un caso editoriale
“Un caso editoriale. Un libro che vi terrà svegli fino all’alba” (Ystads Allehanda)
Così si legge in copertina. Pensavo fossero le solite frasi ad effetto per vendere più copie, invece ho dovuto ricredermi: queste pagine mi hanno tenuta sveglia per davvero fino all’alba!
Peccato aver aspettato così a lungo prima di leggere “Uomini che odiano le donne” di Stieg Larsson, romanzo che, in verità, mi aveva molto incuriosita fin dal titolo già diversi anni fa, quando si faceva un gran parlare della trilogia “Millennium”. Un poliziesco (o thriller?) eccezionale, geniale, visceralmente emozionante, uno di quelli capaci di conquistare, come nel mio caso, anche i non appassionati del genere in questione!
Nonostante l’impressionante mole dell’opera, la narrazione è scorrevole, mai pesante, complici anzitutto una trama che, superata la prima cinquantina di pagine, prende a intricarsi in modo spettacolare e, perché no, persino l’ambientazione svedese di notevole fascino. A momenti, la lettura è stata talmente intensa e appassionante da avere come l’impressione di essermi trasferita tra Stoccolma e la freddissima Hedestad; per non parlare del coinvolgimento emotivo nelle indagini, e nella vita privata, di Mikael Blomkvist e Lisbeth Salander, la coppia bizzarramente assortita che si ritrova all’improvviso a scavare nel torbido di una ricchissima famiglia di industriali, sulle possibili tracce che, a distanza di più di trent’anni, possano condurre a spiegare, una volta per tutte, la scomparsa di una sedicenne, insoluto mistero dietro a cui si cela un mondo d’inimmaginabile violenza contro le donne. Si ricomporrà così un enorme puzzle, tassello per tassello, mentre nessuno sarà veramente al di sopra di ogni sospetto. Il colpo di scena conclusivo della faccenda sarà poi qualcosa di a dir poco sorprendente e insuperabile.
Tra i libri più venduti al mondo negli anni scorsi, questo romanzo getta una luce inquietante sulla ordinata e civile società svedese, dove – come si può facilmente scoprire facendo un breve giro in rete – esiste un’altissima percentuale di casi di violenza fisica e sessuale ai danni delle donne, sebbene in Svezia, così come nei paesi scandinavi in generale, l’emancipazione femminile sia tra le meglio riuscite al mondo. Per la serie, non è tutto oro quel che luccica, purtroppo.
Si dia un’occhiata a questo articolo: http://www.corriere.it/esteri/17_gennaio_24/svezia-arrestati-3-uomini-stupro-violenza-diretta-facebook-0e738520-e20e-11e6-90f6-27595f8990ae.shtml
Tornando al libro, dopo oltre seicento intensissime pagine, mi sono talmente affezionata ai due protagonisti da iniziare a pensare che ne sentirò la mancanza e, pertanto, non escludo di proseguire in futuro con gli altri due volumi, non meno corposi del primo, della trilogia. Non nascondo che, alla fine, mi sarebbe piaciuto che le cose tra Lisbeth e Mikael andassero tra loro in maniera diversa… Nel mondo nordico avranno pure una diversa concezione delle relazioni sentimentali ed erotiche, ma io, pazienza, resto inguaribilmente mediterranea…
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Ottanta giorni… meno uno !
Un titolo che non ha certo bisogno di presentazioni, questo di Jules Verne, reso ancor più popolare da famose trasposizioni cinematografiche e film d’animazione.
La storia è nota: un pacato gentleman inglese, il suo fido domestico francese, un caparbio ispettore di polizia, una scommessa da vincere, un viaggio in apparenza impossibile e monotono che si rivelerà, in realtà, decisamente fattibile e avventuroso.
A quasi 150 anni dalla sua pubblicazione, “Il giro del mondo in ottanta giorni”, così come tanti altri romanzi di Verne, ha tutte le carte in regola per appassionare anche i lettori d’oggi. E senza distinzione d’età. Credo, infatti, che la vecchia etichetta di letteratura per ragazzi non possa che andare stretta a un libro come questo, che ha l’indiscusso merito di far viaggiare chi legge pur tra le mura di casa, trasportandolo di colpo dalle ordinate strade di Londra a quelle più caotiche delle città dell’Estremo Oriente, dalla giungla indiana alle praterie americane calpestate da mandrie di bisonti, dal Canale di Suez alle agitate acque dell’Oceano Atlantico.
Trama davvero coinvolgente al punto che, con lo scorrere dei capitoli, mi sembrava di fare ormai parte del gruppetto di Phileas Fogg, mentre si sbarcava da un piroscafo per correre subito alla stazione ferroviaria a prendere il primo treno in partenza per la destinazione successiva; e si è andati non solo per mare e lungo le ferrovie del mondo, ma persino in groppa a un elefante e a bordo di una mongolfiera. Un modo di viaggiare, in verità, alquanto insolito e bislacco, sempre con l’assillo dei giorni contati; tuttavia, non meno avventuroso rispetto ad altri.
Da aggiungere che la lettura in lingua originale è stata di per sé un bellissimo viaggio: la prosa di Verne, a tratti addirittura piacevolmente spiritosa, si è rivelata di un fascino singolare, pur nella sua semplicità. Ho sottolineato alcuni passi in cui le parole riescono a dipingere immagini molto suggestive, come questo che riporto:
“La jeune femme, assise à l’arrière, se sentait émue en contemplant cet océan, assombri déjà par le crépuscule, qu’elle bravait sur une frêle embarcation. Au-dessus de sa tête se déployaient les voiles blanches, qui l'emportaient dans l'espace comme de grandes ailes. La goélette, soulevée par le vent, semblait voler dans l'air. La nuit vint. La lune entrait dans son premier quartier, et son insuffisante lumière devait s'éteindre bientôt dans les brumes de l'horizon. Des nuages chassaient de l'est et envahissaient déjà une partie du ciel.”
Non so se l’autore abbia effettivamente visitato i luoghi di cui parla. Nel caso non li avesse visti tutti con i propri occhi, considerata la dovizia di particolari e l’accuratezza di certe descrizioni, ciò che lui ha scritto sarebbe allora doppiamente straordinario.
Tra i personaggi, molto ben riuscito quello di Passepartout, atletico e scattante, talvolta un po’ pasticcione, davvero divertente poi con quel suo candido e inopportuno modo di fare nella scena conclusiva del romanzo; un bel personaggio anche quello di Fogg, capace, seppur in apparenza imperturbabile, di guizzi imprevedibili. Così come imprevedibile è il colpo di scena finale della storia, quando oramai la scommessa sembra perduta (e al quale si riferisce il titolo di questo mio commento)… Un grande classico, da leggere e rileggere, per i viaggiatori (e i sognatori) di ogni tempo!
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Eleonora de Fonseca e la Napoli di fine Settecento
“Tutta la vicenda sua, e l’universo, finiti con lei. Cosa poteva rimanerne? I versi? […]nulla in paragone a quelli di Metastasio, Rolli, Parini. Di costoro, forse, qualcosa resterà. Fra cent’anni, duecento […]! Ma di me? Nada de nada. Il resto di niente.”
No, Lenòr, non è vero che di te e della tua vicenda non sia rimasto niente.
I duecento anni sono trascorsi, tra gli inevitabili sobbalzi e scossoni della Storia, e a essi s’è aggiunto persino altro tempo, durante il quale il tuo ricordo non si è spento.
Di te, oggi, rimane tanto, più di quanto tu stessa avresti osato sperare: le tue parole, anzitutto, sopravvissute su carta, i tuoi pensieri, idee nuove per quei tempi ancor vecchi, i tuoi “meu Deus” un po’ da bambina, il tuo amore per la cultura e lo sconfinato desiderio di apprendere, conoscere, capire; “la bellezza rara dell’ingegno e dell’anima”, come forse ti avrà elogiata uno dei tanti amici che affollavano le stagioni della tua vita, di una donna che non faticava a trovare spazio in mezzo agli uomini proprio in virtù del suo cervello, il tuo saper guardare lontano, il coraggio nell’affrontare le conseguenze di ogni tua scelta, fino all’ultimo.
“Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo”, si dice tu abbia avuto la forza di pronunciare sul patibolo: non forse, bensì di sicuro è utile ricordare ciò che accadde a te e alla migliore intellighenzia di quella terra che fin d’allora avrebbe potuto avere la possibilità di seguire un percorso diverso da quello che invece l’ha condotta all’oggi.
Mi piace pensare che ancora si aggiri qualcosa di te, della tua essenza più profonda, tra i vicoli e le strade della tua Napoli tanto amata con tutte le sue contraddizioni, i suoi ordinati disordini, gli odori intensi, i suoni e i colori che si protendono verso lo spettacolo straordinario del golfo, all’ombra di quel vulcano “grande e indifferente” che riempì il tuo sguardo fin dal primo approdo.
Peccato che tu non abbia visto il nuovo secolo, a varcare la cui soglia ti mancò davvero poco… Chissà se ti sarebbe piaciuto così come poi è stato; probabilmente, in parte, l’Ottocento delle nuove tendenze culturali, di cui forse percepisti il sapore nella sinfonia del giovane Beethoven ascoltata poco prima della fine, non di certo quello della restaurazione politica dopo le disillusioni della Rivoluzione francese e l’ubriacatura delle gesta napoleoniche.
Ovunque, tuttora, ci sarebbe bisogno di donne come te, Lenòr: autentiche, straordinarie nella propria semplicità, tante cittadine Fonseca che potrebbero ridare significato ai giorni di un mondo troppo spesso disattento, superficiale e ingiusto che davanti a sé ha ancora innumerevoli battaglie da affrontare.
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“C’è qualcuno là fuori?”
Profondo è il senso di solitudine e d'impotenza dinanzi alla ineluttabilità del tempo che trasmette la storia di Mrs Bridge. Una storia, in verità, di ordinaria quotidianità, una come tante, ben lontana dai clamori e dai colpi di scena eclatanti. Senza infamia e senza lode, potremmo forse aggiungere.
Pubblicato negli Stati Uniti alla fine degli anni Cinquanta, il libro racconta, sullo sfondo dell’America dei decenni precedenti, la vicenda di una donna che da figlia diventa moglie e madre seguendo i normali e prevedibili percorsi della vita. Una grande casa, un marito avvocato per lo più assente e tre figli a cui consacrare, con amore e forte senso del dovere, ogni singolo istante delle proprie giornate sempre così piene, ma in realtà vuote di qualcosa difficile da spiegare. Così trascorrono gli anni, all’inizio lenti, poi via via sempre più impietosi, senza che lei riesca per davvero a trovare tempo per se stessa; non bastano i cocktail e feste varie, gli incontri con le amiche, le attività nel sociale a dare un senso al quotidiano vivere; e l’incosciente consapevolezza di appartenere a quella categoria di persone che esistono senza aver vissuto (“ignare fino all’ultimo della vita”) si rivelerà infine un peso decisamente opprimente da sopportare. È vero: di una donna come questa potremmo essere figli, così come in ogni giovane donna c’è una potenziale signora Bridge.
Quest’opera di Evan S. Connell è un buon romanzo dallo stile narrativo semplice e dal contenuto denso di significato. Il mio giudizio complessivo è di tre stelle e ½, poiché diversi capitoli risultano forse troppo lenti e poco coinvolgenti e la stessa Mrs Bridge, con quel suo modo di pensare d’altri tempi e – impossibile non notarli – quegli atteggiamenti un po’ razzisti e classisti (secondo i quali i neri si possono frequentare solo entro certi limiti e la porta sul retro deve essere riservata alle donne di servizio), a tratti non si rende troppo apprezzabile, tant’è vero che sono anzitutto i figli a mal sopportarla. La storia, nel suo complesso, genera però riflessioni e interrogativi che nessuno credo possa eludere e in questo consiste la forza del romanzo. La penna dell’autore è stata abile ad allargare, a piccole ma inesorabili dosi, il baratro del vuoto interiore in cui spesso si precipita, a far esplodere d’improvviso l’inquietudine di fronte a certi atteggiamenti incomprensibilmente estranei da parte di chi si crede di conoscere bene e invece non si conosce mai fino in fondo, a dipingere una sorta di grigiore che si nutre di noia, solitudine, insoddisfazione e infelicità mai confessate a cui la vita sembra rassegnarsi per inerzia, fino a quello sconsolato e sconsolante “C’è qualcuno là fuori?” della scena finale…
Veramente tremendo rendersi conto del fatto che, pur essendoci sempre stati per gli altri, anche a scapito di noi stessi, nessuno alla fine ci sarà per noi.
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Perle sconosciute
È una lettura fuori dall’ordinario, quella che regala la silloge di Cristina Sparagana.Tra le sue pagine palpita una poesia non sempre di facile comprensione, seducentemente criptica, meravigliosamente ricca d’immagini, colori, emozioni; una scrittura esigente che chiede di soffermarsi sulle parole, ma che a una rilettura più attenta dischiude infine generosa la sua essenza. Ed ecco, quindi, affiorare affetti e legami familiari, ricordi, quotidianità che intrecciano gioie, ansietà, pacate inquietudini dell’anima, silenzi cupi e solenni che, pur nascosti, non tacciono, mentre la lontananza, non sempre vissuta in termini soltanto geografici, si consuma a poco a poco in attese impazienti ma rassegnate che si dissolvono al calore di un ritorno.
“Il tuo cupo silenzio, dolce tarlo che si/ rintana, sera dopo sera, nell’arco roseo del tuo sopracciglio./ Ti parlo, e sul tuo labbro esita un giglio/ che subito appassisce nella grande/ terracotta di un piccolo tramonto.” (da “Silenzio”)
Colpiscono gli splendidi azzardati accostamenti verbali, che danno vita a giochi trasognati di tenebra e luce, un intenso poetare che affastella sapientemente le parole. E stupisce l’assonanza che si annida ritmica e inaspettata tra i versi che, all’improvviso, sanno farsi volo di rondini, fulvo manto di volpi o solitario cuore di tartaruga.
“A volte sogno i tuoi capelli sparsi/ brulli come di noce, e vorrei entrare/ nel vento della tua scriminatura, […]” (da “Chicchi”)
“Verrà presto la notte e la sua insonnia,/ un prato bianco, balzo di cipressi/ che ha chiuso fra i guanciali i suoi colori.” (da “L’ora del lupo”)
“La grave tartaruga siciliana/ il suo guscio presbiotico, ampio, ovale,/ le liquide escrescenze delle zampe,/ è laggiù che ti aspetta, l’oltremare/ sull’enorme inudibile parola. […]” (da “Un viaggio”)
Un lavoro davvero di alto livello che aggiunge ulteriore lustro alla carriera della già affermata autrice e che altro ne conferisce alla stessa casa editrice che lo ha pubblicato, a riprova del fatto che anche i piccoli editori, seppur operando ai margini di un mercato dove l’attenzione da parte del grande pubblico viene spesso abbagliata da mere logiche commerciali, propongono opere di qualità e, come in questo caso, notevole spessore che meriterebbero una diffusione maggiore.
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“Siamo canne, e la sorte è il vento.”
Non so se “Canne al vento” possa essere considerato il capolavoro assoluto di Grazia Deledda - come la particolare fama di quest’opera induce facilmente a pensare - dal momento che, tra romanzi e novelle, finora ho letto purtroppo soltanto una minima parte della a dir poco vasta produzione letteraria della scrittrice nuorese. Obiettivamente, il romanzo non manca di nulla che gli neghi l’etichetta appunto di capolavoro né, mi sento di dire, sfigura tra le opere dei nostri più grandi autori di fine Ottocento e primo Novecento.
Se “La madre” mi aveva indignata per il finale con il quale si conclude, se “Cosima” mi aveva incantata per lo “strano senso di sogno” che a tratti lo pervade, “Canne al vento” mi lascia ora un senso di inquietudine e smarrimento difficile da spiegare. Eppure anche qui ci sarebbe da indignarsi (per il giovane e scapestrato Giacinto che, a causa del suo comportamento, si sarebbe meritato di essere rispedito dall’isola al continente a suon di calci nel sedere; per donna Noemi che, al fine di fuggire dai sentimenti e dalla rovina economica, si rassegna infine a sposare chi non avrebbe mai voluto), anche qui ci sarebbe da incantarsi (davanti alle immagini di terra e cielo che si fondono in poetiche cornici dell’anima)… Ma l’incanto e l’indignazione del lettore sono sopraffatti da un intenso pathos che non viene meno neppure nelle ultime pagine, dal peso del destino che appare ineluttabile e contro cui è impossibile lottare, dal fruscio del vento che serpeggia indifferente nel canneto.
Siamo canne, sentenzia la penna deleddiana per bocca del vecchio servo Efix, e la nostra sorte è il vento: è l’essenza del romanzo, il messaggio cardine attorno a cui si svolge la vicenda narrata. Mi ha riportato alla mente l’immagine del giunco di Blaise Pascal: “L’uomo non è che un giunco, il più debole della natura”, quindi soggetto a tutte le intemperie dell’esistenza, caduco per sua propria condizione. Solo che, aggiunge il filosofo francese, “è un giunco pensante” e ciò implica un margine di meriti (e demeriti) personali sulla strada sia pur segnata del nostro destino. Del resto, lo stesso Efix, quando decide di recarsi al mulino per parlare con Giacinto, non pensa e agisce di conseguenza per cercare di risolvere una situazione in apparenza già decretata dalla sorte? E, sempre lui, non sceglie forse di ritornare al paese dalle sue nobildonne decadute, sebbene il suo destino gravato dal fardello di un’antica colpa non l’abbia guidato nel frattempo sulla via della penitenza tramutandolo in un mendicante errabondo?
“Canne al vento” non si limita però a questo: pubblicato nel 1913, esso è anche un romanzo che, tra fatalismo e rassegnazione, tabù e colpe da espiare usque ad mortem, fotografa la realtà sociale dell’epoca attraverso i colori inquieti dell’incontro-scontro tra vecchio che ristagna e imputridisce e nuovo che erompe e avanza con energica vitalità, magari facendosi largo a gomitate. È la novella società dei poveri arricchiti, mercanti e usurai come il Milese e Kallina, mentre ciò che resta dell’antica nobiltà di sangue si gioca a carte la propria dignità o si arrocca sdegnoso in palazzi che cadono a pezzi di giorno in giorno, proprio come le dame Pintor ridotte ormai a praticare ignominioso commercio di verdure pressoché di nascosto; persino il matrimonio di un servo figlio di servi con un rampollo sia pur squattrinato della ex aristocrazia terriera è una palese rottura delle antiche e silenti consuetudini che imponevano a ciascuno di stare se non con i propri pari.
Una lettura che fa male e molto riflettere. E questo perché il senso della vita, che sia dentro o fuori delle pagine di un romanzo, continua a essere il più grande mistero che non ci è dato comprendere.
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Viva la Resistenza tedesca, e tutte le Resistenze!
Amo leggere libri di questo genere che sono una testimonianza diretta di chi allora c’era. Il tema della Resistenza tedesca, poi, m’interessa e mi appassiona in modo particolare: penso che essa riscatti l’immagine di un Paese e di un’intera nazione che avrebbe meritato ben altro. Personaggi come Claus von Stauffenberg e tutti i congiurati della celebre Operazione Valchiria, così come i ragazzi della Rosa Bianca (dico un nome per tutti: Sophie Scholl) e tanti altri che pagarono a caro prezzo l’opposizione al regime, rappresentano infatti l’altro volto, quello decisamente migliore, della Germania della poco gloriosa epoca nazionalsocialista. Non dimentichiamo – e di questo sono fermamente convinta – che la prima vittima del regime hitleriano fu proprio lo stesso popolo tedesco, dal momento che fu intenzionalmente programmata l’eliminazione fisica dei disabili e di tutti i “diversi”, mentre un’intera generazione di giovani, nata e cresciuta a partire dai primi anni Trenta, veniva snaturata e allevata soltanto al fine di odiare il prossimo e combattere all’insegna dei falsi e insani miti della Grande Germania e della purezza della razza. Uomini come Stauffenberg, Tresckow, Philipp von Boeselager, autore di questo libro, ma anche personaggi come il generale Rommel, appartenevano invece a un’altra generazione che aveva conservato onore e cuore: militari sì, ma non macellai e anche se qualcuno fra loro aveva inizialmente gridato “Heil Hitler” sulle ceneri della Repubblica di Weimar (andiamo a rivedere, per favore, le pesanti responsabilità del Trattato di Versailles del 1919 e pure del cosiddetto appeasement di Francia e Inghilterra poco prima del ’39…), si era presto reso conto dello schifo che il führer e tutta la feccia intorno a lui (Göring, Himmler, Goebbels, solo per citare illustre parte di quella merda) stavano compiendo ai danni del Paese. Un regime che, a dimostrazione di quanto tenesse al popolo tedesco, non cessò di innalzare forche ed eseguire sommariamente condanne a morte fino all’ultimo, con i russi ormai alle porte di Berlino.
Questo libro di Philipp von Boeselager, militare di professione insieme al fratello Georg e salvatosi solo perché qualcuno dei congiurati, pur sotto tortura, non fece il suo nome, mette in luce come buona parte della Wehrmacht, persino ad alti livelli, non fosse a conoscenza della reale portata dei crimini nazisti da parte delle unità paramilitari delle SS e se quel maledetto 20 luglio 1944 l’Operazione Valchiria avesse avuto fortuna, essa avrebbe anticipato, sia pur di nemmeno un anno rispetto a quel che poi fu, la fine della guerra salvando, a dir poco, milioni di vite umane.
A chi ancora oggi si permette di affermare che «per i tedeschi i campi di concentramento non ci sono stati» (e non faccio nomi), consiglio di andare a rivedere la storica foto di Willy Brandt (un altro perseguitato tedesco, non a caso, durante quegli anni tremendi) in ginocchio al ghetto di Varsavia e a chi abbia avuto la pazienza di leggere fino alla fine questo mio commento al libro in questione di guardare (o riguardare) le scene finali di un noto film dedicato all’Operazione Valchiria:
http://germanhistorydocs.ghi-dc.org/sub_image.cfm?image_id=161&language=german
https://www.youtube.com/watch?v=15r-CX992DU
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La Milano dei navigli
Diamine!, direbbe l’architetto Luigi Bellotti, protagonista del romanzo: l’ho proprio divorato, questo libro! Sarà per l’ambientazione molto particolare; o forse per il mistero intorno al quale è stata costruita la storia. Di certo, “Giallo Milano” di Giancarlo Bosini è un romanzo che si lascia leggere davvero con piacere.
Incorniciata nella Milano di fine anni Sessanta, la vicenda si svolge tra ambienti accademici, artistici e altri più popolari. Sullo sfondo, la contestazione studentesca, gli scioperi operai e quella strategia della tensione che di lì a breve avrebbe insanguinato il Paese. Con riferimenti a luoghi, fatti e personaggi, la Storia è tutt’altro che assente tra queste pagine in un sorprendente e ben dosato mix di realtà e fantasia, e non sempre quest’ultima supera la prima.
Un giallo che prende le mosse dal ritrovamento del corpo di una giovane collega del Bellotti nelle acque del Naviglio Grande, per poi giungere, attraverso i lavori di restauro dell’antica chiesa di Santa Maria Rossa di Crescenzago, addirittura a Leonardo da Vinci e a un’oscura e criminosa commistione fra Stato (e servizi segreti annessi) e ambienti ecclesiastici d’alto rango. Buona qualità di scrittura e stile narrativo che non tentenna da parte dell’autore, non alla sua prima pubblicazione; anche la caratterizzazione dei personaggi risulta ben rifinita per una lettura, nel complesso, molto scorrevole e per niente noiosa. Ottima e azzeccatissima, in chiusura, la trovata di dare allo scapestrato critico d’arte De Cristoforis (uno dei personaggi migliori, a mio parere) stabile sistemazione presso… un’enoteca parigina!
Ho trovato molto affascinanti le descrizioni della vecchia Milano, coi suoi monumenti storici, i cortili interni degli edifici, le case di ringhiera, l’ultima lavandaia che resiste disperatamente al tempo e al progresso e, soprattutto, le lente atmosfere invernali lungo i navigli solcati da caratteristici battellini, anche se questi in realtà non ci sono mai stati e i navigli stessi, come precisa l’autore in una nota finale, all’epoca dei fatti narrati non erano più navigabili essendo stati chiusi già dal 1929. In ogni caso, una scelta narrativa apprezzabile e suggestiva, così come l’immagine del protagonista che, per i suoi spostamenti urbani, ama viaggiare sui navigli.
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“[... ]finché non verrà Hitler a tirarci fuori.”
Naturalmente, Hitler non sarebbe mai andato a tirarli fuori da quel pantano che si rivelò Stalingrado nel 1942. Al Führer non importava niente della carne da macello né delle sofferenze di tutto il suo popolo. In verità, a nessuno di coloro che organizzano e guidano le guerre a tavolino sta a cuore la sorte di chi combatte.
Chi scrisse quelle parole rappresenta un’eccezione; la maggior parte dei soldati della 6^ Armata tedesca sapeva bene che la fine era segnata. E tale amarissima consapevolezza emerge in modo inequivocabile da queste lettere, partite con l’ultimo volo da Stalingrado assediata, sequestrate in patria dalla censura e raccolte infine in questo libro, così come da esse traspare tutta la disillusione nei confronti della cosiddetta Grande Germania. Sono le drammatiche voci dei vari Hans, Hermann e Franz che non fecero più ritorno a casa dai propri familiari; tutta gente che un tempo gridava “Heil Hitler!” ma che, in punto di morte, diede prova di aver compreso di aver commesso l’errore più grande della propria vita.
Trentanove lettere, trentanove vite stroncate nell’inferno dell’inverno russo. Un’unica corale testimonianza contro l’orrore e l’assurdità non solo di quella, ma di tutte le guerre.
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Straordinariamente attuale!
Un pugno nello stomaco: ecco che cosa sentivo a ogni pagina di questo lungo e intenso romanzo. Perché “Furore” è un libro che fa male, molto male. Induce a pensare, riflettere, interrogarsi. Per poi lasciare un misto di amarezza, disgusto e – manco a dirlo – rabbia.
Con un impressionante realismo, fin da quel “in principio fu la polvere” (con cui mi piace riassumere il primo capitolo), Steinbeck ci scaraventa in un pezzo d’America della Grande Depressione, dove le parole della Dichiarazione d’Indipendenza dell’ormai lontano 1776 riecheggiano come mera utopia e autentica beffa:
“[…] che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità […]”
Al seguito della famiglia Joad, tra le centinaia di migliaia di diseredati che all’epoca, con i loro vecchi catorci, inondavano la Route 66 alla volta della novella terra promessa della California, ci si rende conto che il cosiddetto “American dream” non è mica roba per tutti; di certo, non per i contadini cacciati dalla dura legge del profitto economico delle banche e dall’avanzare dei trattori, sospinti dalla fame e dai capricci del tempo, accampati ai margini dell’opulenza altrui, calpestati e sfruttati dal disprezzo. La vicenda narrata è nota, fortuna e vicissitudini dell’opera e del suo autore pure. Che cosa si può dire o scrivere di questo che, a ragione, è stato inserito tra i dieci migliori libri del XX secolo che ancora non sia già stato detto o scritto? Mi sento soltanto di sottolineare la straordinaria attualità che ho trovato nella lettura di queste pagine, a dispetto del tempo e dello spazio di ambientazione:
“Nell'Ovest si diffuse il panico di fronte al moltiplicarsi degli emigranti sulle strade. Uomini che avevano proprietà temettero per le loro proprietà. Uomini che non avevano mai conosciuto la fame videro gli occhi degli affamati. Uomini che non avevano mai desiderato niente videro la vampa del desiderio negli occhi degli emigranti. E gli uomini delle città e quelli dei ricchi sobborghi agrari si allearono per difendersi a vicenda; e si convinsero a vicenda che loro erano buoni e che gli invasori erano cattivi, come fa ogni uomo prima di andare a combatterne un altro. Dicevano: Quei maledetti Okie sono sporchi e ignoranti. Sono maniaci sessuali, sono degenerati. Quei maledetti Okie sono ladri. Rubano qualsiasi cosa. Non hanno il senso della proprietà. E su quest'ultima cosa avevano ragione, perché come può un uomo senza proprietà conoscere l'ansia della proprietà? E i difensori dissero: Sono sporchi, portano malattie. Non possiamo lasciarli entrare nelle scuole. Sono stranieri. Ti piacerebbe veder uscire tua sorella con uno di quelli?”
Sostituiamo “Okie”, termine con il quale i californiani chiamavano sprezzantemente i nuovi arrivati dall’Oklahoma, con africani, asiatici, siriani etc. o, più in generale, immigrati (a suo tempo, avrebbe reso bene anche la parola meridionali); la Route 66 con la rotta mediterranea o con le polverose strade lungo i Balcani: ecco che dagli Stati Uniti degli anni Trenta del secolo scorso ci ritroviamo di colpo nell’Europa dei giorni nostri, dinnanzi al dramma dell’emigrazione che abbiamo sotto gli occhi e a tutte le nostre paure. Paura perché loro hanno fame, paura perché sono tanti, troppi, “un’invasione”, giusto per riprendere un’espressione usata abitualmente; paura perché “quando una moltitudine di uomini ha fame e freddo, il necessario se lo prende con la forza”. Può accadere, se tale moltitudine vede e subisce torti e ingiustizie che calpestano la dignità degli esseri umani.
Una storia di profondo dolore, dove dire che la vita è dura è semplice eufemismo. È però, nel contempo, anche una storia di speranza in un futuro e una umanità migliori; e dalle parole di commiato di Tom Joad, seppur frammista a tanta amarezza, essa traspare tutta.
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Censura!
Era da lungo tempo che la mia curiosità desiderava leggere quest’opera teatrale di Vitaliano Brancati. Ne avevo sentito parlare come di un testo scandaloso per gli anni in cui fu scritto; in realtà, più che il testo scandaloso, erano i tempi a non essere ancora maturi per un lavoro di questo genere dal momento che, a leggerlo con la mentalità del nostro tempo, non vi si trova niente che sia stato riportato in modo sconveniente o indecente.
Correva l’anno 1952 quando Brancati diede alle stampe questa sua opera in tre atti che ebbe la prima rappresentazione soltanto nel 1966. Il tema trattato è uno di quelli che l’Italietta del dopoguerra, ufficialmente postfascista, ma ancora ostaggio in buona parte delle idee del ventennio, per giunta bigotta e in mano ai preti, non riusciva nemmeno a far finta di tollerare: l’omosessualità femminile. La censura non perdonò all’autore tanto ardire e così “La governante” non andò in scena se non quasi tre lustri dopo la sua stesura.
La vicenda, che si svolge a Roma presso una famiglia di origine siciliana, è semplice ma ben orchestrata; buoni i dialoghi, così come tutt’altro che mal riusciti risultano i personaggi, in particolare quello del vecchio Leopoldo, il padrone di casa, che alla fin fine mi è piaciuto molto di più di quello di Caterina, la governante: sarà proprio lui a dimostrare, malgrado la morale provinciale e le rigide convinzioni in fatto di onore e decoro familiare, che è possibile non solo compatire, ma anche accettare chi è diverso perché, in definitiva, quel che conta è ciò che le persone hanno nel cuore. Un finale tragico e inaspettato mostra tutta la maturità di un testo che fin dall’inizio avrebbe meritato un trattamento migliore.
Ma all’epoca, per quanto riguardava la censura, “La governante” si trovava in buona compagnia, se persino autori come Shakespeare ne uscivano con le ossa rotte. Come infatti racconta l’interessantissimo saggio “Ritorno alla censura”, scritto dalla penna avvelenata dello stesso Brancati e inserito in questa edizione, erano tante le opere bloccate o pesantemente menomate dai burocrati dell’apposito ufficio censorio. Si scoprono episodi assurdi che non pensavo accadessero, almeno non in questi termini, come la presenza costante della polizia a teatro, pronta a interrompere lo spettacolo e ad arrestare regista, sceneggiatori e attori in caso di qualche battuta giudicata azzardata e fuori posto! Ma – mi domando – non si era forse in democrazia e la libertà di espressione non aveva già trovato posto tra i diritti garantiti dall’allora giovane carta costituzionale?
In realtà, si era soltanto passati da un regime a un altro: “dopo il nero fascista il nero prete” scrisse un poeta di cui Brancati non riporta il nome. Paradossalmente, erano gli anni in cui le direttive democristiane facevano sì che di sesso si sentisse parlare più all’interno delle chiese, visti gli “interrogatori” che i preti erano soliti rivolgere alle penitenti in ginocchio nei confessionali, che non a teatro o al cinema. Insomma, questo breve saggio merita di per sé una lettura per comprendere ancora meglio come la nostra Repubblica sia nata male e abbia ribadito nel contempo un’arretratezza culturale di cui la società italiana paga ancora oggi le conseguenze.
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All’ombra de’ cipressi
Sono tante le storie racchiuse tra le pagine di questa celeberrima antologia. Storie di rimpianti, disillusioni, recriminazioni; alcune sono come pugni nello stomaco, altre malinconiche carezze di poesia.
Opera decisamente originale, questa di E.L. Masters, nella quale si dà voce a coloro che voce più non hanno, e che forse, a seconda dei casi, non l’ebbero mai. Davanti agli occhi del lettore sfila una umanità variegata, al di là di ogni tempo e luogo, poco importa che lo sfondo sia quello dell’America puritana tra Otto e Novecento: timorati di Dio e ministri del culto dediti all’alcool, idealisti e avidi di denaro, soldati caduti pro patria che avrebbero preferito finire i loro giorni lontano dal fronte, poeti e scrittori o aspiranti tali, vittime e carnefici, calpestati senza alcuna speranza di riscatto e derisi a cui arride la rivincita, chi non ha compreso niente della vita e chi, infine, tutto… come la buonanima che così sentenzia:
“Da giovane le mie ali erano forti e instancabili
ma non conoscevo le montagne.
Da vecchio conoscevo le montagne,
ma le mie ali stanche non potevano seguire la visione –
Il genio è saggezza e gioventù.”
E intanto “Tutti, tutti, dormono sulla collina”, mentre l’inarrestabile scorrere del fiume Spoon lungo il suo corso, superba metafora dell’esistenza, si porta via tutte quelle piccole storie di ordinario vivere (e morire) per consegnarle all’eternità.
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Senza parole
C’è tutto il dolore, l’incertezza, la speranza dell’emigrante nelle meravigliose pagine di questa graphic novel che si rivela un autentico gioiello. Graphic novel, appunto, nel senso letterale del termine, e non fumetto, poiché qui non sono sono stati riportati testi di alcun tipo: la potenza espressiva dell’immagine è sconvolgente e renderebbe superflua anche una sola parola. Si rimane incantati a “leggere” questa storia raccontata da Shaun Tan, scrittore e illustratore australiano, attraverso i suoi disegni, una vicenda d’ordinaria emigrazione ambientata in una sorta di passato futuristico, dove l’universalità delle emozioni e dei sentimenti è tutto ciò che conta. Uguale a quelle di chi, in ogni tempo e in ogni luogo, è costretto all’improvviso a lasciare la propria casa e gli affetti più cari per cercare lavoro in paesi lontani, la piccola storia del protagonista, fatta di amarezze e fatiche quotidiane, finisce per intrecciarsi ad altre piccole storie che restano impresse, anch’esse con il proprio fardello di sofferenze, come quella del reduce mutilato.
Ma, nonostante tutto, tra i colori malinconici di queste pagine trova spazio anche la speranza in una vita migliore e in un barlume di felicità che sono, in definitiva, l’approdo al quale noi tutti tendiamo. Un capolavoro commovente di grande coinvolgimento emotivo, dalla prima all’ultima tavola.
http://www.shauntan.net/books.html
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“So quello che c’è nel mio Corano”
Sarebbe bello se ognuno potesse conoscere ciò che c’è nel suo Corano. Anche se non si è musulmani né arabi. Perché il Corano di cui parla monsieur Ibrahim in questo racconto non è propriamente il libro sacro dell’Islam, ma - credo - il cuore, il profondo dell’anima che racchiude quel che siamo e sentiamo.
L’ho atteso a lungo, questo libro, sognato, desiderato. Ed è stato infine all’altezza delle aspettative; anzi, queste sono state addirittura superate. Mi aspettavo, in verità, una storia di amicizia tra i due protagonisti, l’anziano monsieur Ibrahim e il giovanissimo Mosè, ma al di là di essa, c’è molto di più tra queste splendide pagine: il rispetto e l’accettazione dell’altro, del diverso e della cultura che egli porta, la conoscenza di sé, che non può prescindere appunto dalla conoscenza dell’altro, la tolleranza verso l’affascinante mondo delle religioni - nessuna esclusa! - che non è fatto soltanto di dogmi indiscussi e prevaricazioni intolleranti, ma pure di spiritualità autentica che abbraccia valori universalmente condivisi; tra tutto questo, non manca nemmeno la speranza, ché, se non persistesse dai tempi di Pandora, saremmo davvero perduti, senza più orizzonti di futuro.
E così il ragazzino ebreo Mosè diventa Momo, diminutivo del nome arabo Mohammed, anzitutto per se stesso e poi per gli altri; impara all’improvviso a sorridere, lui che non sorrideva mai, e a guardare alla vita con occhi nuovi, senza per forza sentirsi diverso, ma scoprendo che “diverso avrebbe potuto essere il mondo”; da figlio di un ebreo privo di identità e punti di riferimento diventa figlio di un “arabo” che in realtà arabo non è, intendendo per arabo, in quell’intreccio di strade parigine, “bottega aperta la notte e la domenica”. E, soprattutto, monsieur Ibrahim, che sorride sempre e pare legga nel pensiero, è un musulmano, ma non un semplice musulmano, sunnita o sciita, forzatamente astemio e dalle cinque preghiere quotidiane: è un sufi, un mistico dell’Islam, uno che fa i conti prima di tutto con la propria interiorità.
Con i suoi lati leggeri e drammatici insieme, è una storia semplice che si legge d’un fiato e che sprizza saggezza, entusiasmo, voglia di vivere. Neppure la morte, che sopraggiunge inattesa (o forse no) nel finale, ormai al termine del viaggio alla volta della Mezzaluna d’Oro, favolosa terra natia del vecchio bottegaio, atterrisce o sconforta poiché essa è solo il modo per ricongiungersi con l’immenso di cui siamo parte.
Già, sarebbe bello conoscere, proprio come monsiuer Ibrahim, quello che c’è nel nostro Corano. Così come sarebbe bellissimo abbandonarsi alla danza dei dervisci che girano su se stessi con le loro lunghe gonne roteanti; lasciarsi trasportare dal ritmo dei tamburi d’un Vicino Oriente magico e girare, girare intorno al nostro cuore che, a poco a poco, si alleggerisce di tutti i sentimenti negativi e della vita stessa, che spesso ci maltratta, e si unisce in preghiera con i fremiti dell’universo.
È l’immagine più bella di tutto il libro, secondo me, quella della danza sufi nel monastero, profondamente emozionante!
https://www.youtube.com/watch?time_continue=10&v=WllqukhAPZY
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La cara morte
Del tutto nuovo, per me, questo Buzzati disegnatore! Dalla narrativa alla poesia, dal teatro al giornalismo, senza tralasciare musica e pittura, Dino Buzzati fu un autore tanto fecondo quanto poliedrico, propenso a sperimentare nuove strade e ad appassionarsi, come nel caso del fumetto, a ciò che ai più poteva apparire privo d’interesse letterario. Non a caso, come si scopre leggendo l’interessantissima introduzione al volume, l’autore di “Un amore” e “Il deserto dei Tartari” era un gran lettore di “comics”, si direbbe oggi: Diabolik, Paperino e Paperon de’ Paperoni lo affascinavano al pari dei personaggi dei capolavori della letteratura mondiale!
Pubblicato nel 1969 tra disorientamento, scandalo e imbarazzo (il più imbarazzato di tutti, al momento di recensirlo, sembrava essere Indro Montanelli), “Poema a fumetti” fu comunque un successo, dal momento che le prime edizioni andarono letteralmente a ruba. L’opera occupa un posto particolare nella produzione buzzatiana risultando, oltretutto, di difficile identificazione: raccolta di disegni o romanzo/racconto illustrato? Fumetto o libro d’arte? Niente di tutto questo. Semmai, come viene ben argomentato nella già citata introduzione, “Poema a fumetti”, con notevole anticipo sui tempi, è un libro che apre la strada alla Graphic Novel dai temi impegnati che tanta fortuna ha avuto da un certo momento in poi. A Buzzati va il merito di aver conferito dignità a un genere – quello delle nuvole parlanti, appunto – fino ad allora ritenuto privo di valore letterario; non per niente, da Casa Bonelli, tempio del fumetto popolare nostrano, gli giunse un sentito e riconoscente plauso.
È il mito classico di Orfeo e della sua discesa agli Inferi quello raccontato nelle oltre duecento tavole a colori che compongono l’opera, riproposto però in chiave moderna e originale. Orfi è infatti il nome del protagonista, Eura quello della ragazza amata da riportare nel mondo dei vivi; l’inferno è la stessa città di Milano perché, come qualcuno laggiù fa notare, si finisce per appartenere al proprio luogo anche da morti.
“Sai dove ti trovi? […] Perché non ti affacci alla finestra?”
“Ma siamo sempre a Milano. Non vedo nessuna differenza.”
“Per te, Orfi, è Milano, Milano essendo la tua vita, per un altro è Zagabria, Karlsruhe, Paranà.”
Insomma, un aldilà metropolitano e spersonalizzante, dove la vita continua libera (finalmente?) dal giogo dei sentimenti, dal tempo, dal dolore, dalla speranza (“il più malvagio dei supplizi”) e, soprattutto, dalla morte stessa; quest’ultima, ormai niente più che pensiero eterno e caro, diviene addirittura oggetto di rimpianto poiché, incredibilmente, si scopre che è ciò che dà senso all’esistenza (ecco perché, all’inizio, l’autore aveva scelto il titolo “La cara morte”). E in un siffatto mondo delle anime, al posto di cerberi e caronti, troviamo diavoli custodi inconsistenti che indossano giacche e avvenenti ragazze tutt’altro che spirituali. Ecco un altro punto: la carnalità e l’erotismo sono espliciti e prorompenti tra queste pagine, troppo per l’epoca in cui il libro fu dato alle stampe. Fumetti bondage, illustrazioni e foto osé sono state fonte di ispirazione e rielaborazione, ma le citazioni e i richiami artistici in generale sono innumerevoli e vanno da Caspar David Friedrich alla Pop Art, giusto per dare un’idea della ricchezza, e complessità, di un’opera come questa.
La rivisitazione del mito, lo stile poetico della scrittura che via via si fonde e diventa una cosa sola con le immagini e lo struggente rimpianto che tutto questo pervade rendono “Poema a fumetti” un capolavoro da leggere e rileggere. Un inno, più che alla morte, alla vita stessa.
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La pazienza vale oro
“La possibilità di rialzarsi dopo ogni caduta; una remota, ereditaria, intelligente, superiore pazienza. Arrotoliamo i secoli, i millenni, e forse ne troveremo l’origine nelle convulsioni del suolo, negli sbuffi di mortifero vapore che erompevano improvvisi, nelle onde che scavalcavano le colline, in tutti i pericoli che qui insidiavano la vita umana; è l’oro di Napoli questa pazienza.”
Che grande narratore, Giuseppe Marotta!
Penna estremamente prolifica e versatile, l’autore campano tardò inspiegabilmente a riscuotere credito nell’ambiente letterario e riconoscimento di pubblico, fino alla pubblicazione, nel 1947, della raccolta “L’oro di Napoli”, opera che se non è un capolavoro, poco ci manca. Capolavoro di contenuto e, ancor più, di stile.
È la prosa, infatti, che cattura il lettore fin dalle primissime pagine, con il suo linguaggio così arguto, ricco di sorprendenti accostamenti semantici e guizzi vivaci, intriso non meno di una certa malinconica poesia. Napoli, la città dell’infanzia e della giovinezza di Marotta, è la protagonista indiscussa di queste pagine: come un grande e sconclusionato palcoscenico, essa mette in scena una assai folta e variegata umanità, quella che popola i caratteristici “bassi”, dove la vita spesso fatica a vivere e deve pertanto ricorrere alla sopraffina arte dell’arrangiarsi per sbarcare il lunario; dove il titolo di “don” non si nega nemmeno a un povero ciabattino; dove la fame si riempie la pancia coi lupini o, se si è fortunati, con il pane condito con olio e sale.
Trentasei racconti, trentasei piccole storie per un’opera corale di impeccabile neorealismo. Uno straordinario affresco di Napoli, e della sua gente dal multiforme ingegno, che prende le mosse dalle non felici vicende familiari dello scrittore stesso per poi aprirsi, pian piano, ai vicoli, alle piazze, ai quartieri della palpitante città partenopea, tra guappi, jettatori, nobili caduti in rovina, vetturini, mariti irreparabilmente in odore di corna, venditori di sberleffi e di saggezza.
Nel 1954 il grande Vittorio De Sica girò l’omonimo film a episodi tratto da questo libro: chi non ricorda il banchetto della pizzeria da asporto (“Mangiate oggi e pagate fra 8 giorni”) presso cui una giovane e ammaliante Sophia Loren era intenta a impastare pizze prima di accorgersi di non avere più al dito l’anello regalatole dal geloso marito?
“Donna Sofia trasalì, ripensando fulmineamente al marmo azzurro del comodino su cui la sera innanzi aveva dimenticato il gioiello.
«Mi sarà sfuggito mentre impastavo» disse a caso. «Ah Rosario, sarà in qualche pizza.»”
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Da Rebibbia a Kobane, passando per il cuore
Sorprendente nonché bellissima scoperta, questa di Zerocalcare: dopo avermi molto emozionata con “Dimentica il mio nome”, poco entusiasmata con “Dodici” (devo ammetterlo a rigor di cronaca), ora questo suo nuovo lavoro mi ha letteralmente conquistata!
Non saprei bene come definirlo, se un reportage o un diario di viaggio o altro; di certo, “Kobane calling” non è soltanto un fumetto: esso è anzitutto il racconto attento e coinvolgente di ciò che sta accadendo in un angolo di quell’Oriente a noi prossimo e del quale i media ufficiali, pronti a inseguire i clamori del momento, ci parlano ormai sempre meno. Eppure laggiù si consuma una guerra tra le più feroci del nostro tempo. Una guerra che, sebbene riguardi l’Europa forse più di altre cui essa in passato ha dato sostegno, lasciamo combattere al popolo curdo. Ecco, “Kobane calling” ha il merito di accendere i riflettori su quest’ultimo, tanto bistrattato dalla Storia e dall’ipocrisia della diplomazia internazionale, dal momento che alla fine del primo conflitto mondiale, con il crollo dell’Impero ottomano, i curdi non solo non si videro riconoscere un proprio stato, ma si ritrovarono per giunta divisi fra ben quattro Paesi: Turchia, Siria, Iraq e Iran. E per un popolo senza terra, si sa, non può esserci pace.
Da sempre disprezzati e disconosciuti come realtà etnica e linguistica, combattuti e repressi brutalmente sotto i regimi dittatoriali dell’area, i curdi stanno dando una grandissima lezione di civiltà dai monti di Qandil, al confine tra Iran e Iraq, dove ha base il PKK, fino a tutto il nord della Siria (il Rojava), de facto territorio autonomo e coraggioso laboratorio di una società basata su una democrazia che non suoni più come vuota parola. Intanto, combattono l’Isis o Daesh, come lì si chiama quel califfato, fuori dal tempo e dalla grazia di qualunque dio, i cui sanguinari tentacoli arrivano fin nelle nostre fragili città d’Europa. Un’esperienza che – per riprendere le parole dell’autore – “va aiutata, difesa, sostenuta. Perché se perdono loro, perdono tutti”.
Invece, da parte dei nostri governi che cosa è arrivato? Elogi, incoraggiamenti, discorsi ammirati: nient’altro che belle quanto inutili parole, ma nessun sostegno economico, mentre i curdi, uomini e donne insieme, armi alla mano, continuano a dare il proprio sangue quale unica moneta da versare. La città di Kobane è il simbolo di quella resistenza. Toccanti le tavole che la ritraggono con i suoi cumuli di macerie, gli edifici sventrati dalle bombe, l’odore di morte che serpeggia tra le sue strade per buona parte spettrali. Ho trovato in queste pagine profonda partecipazione emotiva da parte di Michele Rech, alias Zerocalcare; del resto, non potrebbe essere altrimenti quando si viaggia e si vedono con i propri occhi determinate realtà, si ascolta la gente del posto, si respira il dramma quotidiano senza filtri di sorta. Allora, d’un tratto, sai da che parte stare e tornare indietro in nome del politicamente corretto ti sembrerebbe come tradire te stesso e il tuo cuore che da quel momento apparterrà anche a quel luogo che pur si trova a chissà quanti chilometri di distanza da casa tua. Per quanto mi riguarda, anni fa mi è successo in Palestina, un’altra grande Kobane abbandonata anch’essa all’indifferenza del mondo.
“A me risulta difficile concepire un’appartenenza diversa dal mio quartiere. Forse però ci sono cose che trascendono la geografia e parlano ad altre corde, che manco sappiamo di avere.”
Zerocalcare dice di non essere un poeta e di non avere altro se non il “povero lessico” che la vita gli ha messo a disposizione per esprimersi, ma credo si sbagli poiché, infine, tocca per davvero le corde del cuore con la sua arte meravigliosa, nella quale immagini e parole diventano una cosa sola regalando al lettore più di un’emozione.
Oltre alla correttezza delle annotazioni storiche, sono presenti il rifiuto di stupide generalizzazioni (il voler, insomma, fare di tutta un’erba un fascio) e considerazioni su questioni culturali e religiose che personalmente condivido, per tacere della autentica pochezza di certe affermazioni sulla presunta (e presuntuosa) superiorità della cultura occidentale in bocca ai nostri politici. Soprattutto, questa lettura ha suscitato in me il desiderio di approfondire la conoscenza del popolo curdo che, nel corso degli studi fatti, ho sempre incontrato marginalmente, en passant, nonostante esso avesse il diritto di essere protagonista quanto gli altri nello scacchiere vicino-orientale.
Mi auguro che “Kobane calling” venga letto da più gente possibile, in particolare dai giovani, perché c’è bisogno di opere di denuncia come questa che smuovano le coscienze e facciano informazione; ne consiglio la lettura a chi voglia saperne di più sul Kurdistan, sulla guerra in corso a causa dell’Isis e sugli inquietanti retroscena turchi, adesso, se ci pensiamo, ancor più inquietanti dopo il fallito colpo di stato militaredello scorso anno e l’immediata repressione da parte del novello sultano Erdogan che sta mostrando il peggio del proprio regime.
Un libro, questo, per conoscere e riflettere, anche con il cuore.
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“Non ho mai visto un comico più triste di te..."
Ero piccola quando vidi per la prima volta “Il monello”, film davvero strappalacrime secondo la mia percezione di allora. Per me, Charlie Chaplin e il suo indimenticabile personaggio Charlot restano legati indissolubilmente proprio a quella splendida pagina del cinema muto.
Era un comico triste, Chaplin, ha ragione la Morte che, in questo bel romanzo di Fabio Stassi, si presenta all’attore ormai anziano alla vigilia di ogni Natale dal 1971 in poi; in cambio di una sonora risata, di volta in volta gli concede di vivere un anno in più, almeno fino al Natale del ’77, quando il Vagabondo si spense nella sua casa in Svizzera.
È stata una bella sorpresa questa lettura. La scrittura è scorrevolissima e la vita di Chaplin, qui presentata sotto forma di romanzo epistolare, si legge con piacere. Gli anni difficili della misera infanzia in Inghilterra, quelli del circo e dei primi spettacoli, l’emigrazione negli Stati Uniti, gli esordi nel cinema, i grandi successi e le altrettanto grandi amarezze, aneddoti del dietro le quinte e personaggi anche realmente entrati in contatto con lui (tra questi, Stan Laurel, il poi celebre Stanlio): c’è tantissimo in questo libro, tutto raccontato con semplice delicatezza e passione dall’autore che ci regala così il ritratto di un grandissimo artista; anzitutto di un comico, un comico triste.
In particolare, quasi alla fine, mi ha colpito un passo sulla comicità che riporto di seguito:
“Il trucco è sempre lo stesso: fare in modo che qualcosa vada storto e che il mondo appaia rovesciato, sottosopra. Il meccanismo della comicità è un meccanismo sovversivo. Se un gigante cerca in ogni modo di aprire una porta e non ci riesce, ma subito dopo la porta si apre a un gatto, a un bambino, a un povero vagabondo è tutto il contrario di quanto accade nella vita. […]La comicità è mancina come me […]. Irride i ricchi, rimette le cose a posto, ripara le ingiustizie. […] chiude le porte ai prepotenti e le fa aprire ai deboli e agli indifesi, anche se solo per il lampo di un sorriso. È quest’incredulità che ci riempie gli occhi di lacrime. Sin dall’inizio, […]suscitare il riso e le lacrime è stata la mia infantile protesta contro la miseria, la malattia e il disprezzo, e il mio rifiuto dell’odio e di tutte le forme sbagliate che finiscono per governare le relazioni umane. È stupefacente, a pensarci, quanto sia facile a contagiarsi l’allegria e quanto triste e malato sia invece il mondo.”
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“Partire, in un modo o nell’altro.”
È bella Tangeri, dolce e malinconica con la sua veste bianca incorniciata dal verde delle palme e dalle sfumature del mare. Quando anni fa la visitai, rimasi incantata dalle sue atmosfere e dalla vista struggente dello Stretto di Gibilterra dall’alto della medina. Ho ritrovato tutto ciò, e molto del Marocco che conoscevo un tempo, in questo coinvolgente romanzo di Tahar Ben Jelloun, famoso scrittore marocchino che, meglio di chiunque altro, può raccontare la città sullo Stretto e la vita, le speranze, le illusioni dei suoi abitanti.
I sogni di Azel, il protagonista, sono gli stessi di tanti giovani come lui: partire, lasciare per sempre il Paese e trovare lavoro in Europa. La Spagna, di cui a Tangeri si vedono le luci, è così vicina, ma allo stesso tempo terribilmente lontana! Entrarvi con un visto regolare resta pressoché una chimera e il braccio di mare che la separa da quell’angolo d’Africa è una tentazione troppo forte per i ragazzi maghrebini che agognano una vita altrove. Laureato disoccupato, Azel campa grazie a lavoretti di poco conto e conosce bene la realtà del posto, fatta di soprusi e corruzione che non fanno altro che rafforzare la sua voglia di andar via; si tiene lontano dagli islamisti, sempre a caccia dello scontento giovanile, non è un musulmano praticante e donne e alcool gli piacciono troppo per rinunciarvi. Nulla sembra cambiare, finché nella sua vita non compare Miguel, un ricco e appariscente spagnolo che fa avanti e indietro tra Barcellona e Tangeri; solo allora si profila la possibilità concreta di lasciare la città con le carte in regola. Ma partire avrà un prezzo, e Azel lo sa bene …
Senza reticenze né edulcorazioni di sorta, l'autore racconta il mondo dell’emigrazione là dove Mediterraneo e Atlantico s’abbracciano e confondono, lasciando intravedere barconi stracarichi e morti annegati e denunciando i retroscena di una società, quella marocchina, in cui omosessualità e prostituzione devono restare ipocritamente nascoste, mentre il denaro finisce per comprare tutto e tutti, persino il cuore dei più devoti uomini di religione.
Partire, dunque, a qualunque costo, per fuggire dalla miseria e dalle ingiustizie quotidiane; partire per avere un’occasione di rivincita su una vita troppo spesso cattiva e ingenerosa e, perché no, trovare almeno un barlume di quella felicità a cui tutti abbiamo diritto. Magari, chissà, partire per fare ritorno un giorno alla propria terra, dopo aver scoperto che nemmeno dall’altra parte del Mediterraneo le luci sono poi così brillanti e che forse si è sbagliato tutto. Già, partire e infine tornare. Vivi o morti.
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Blu speranza
Dopo il grigiore e il fango dei campi profughi dei Territori occupati della Cisgiordania e del Libano, la delicata scrittura di Susan Abulhawa ci conduce nel blu di Gaza. Nel blu del suo mare, del suo cielo, della sua speranza. Già, perché se questa ha un colore, laggiù si tinge proprio di blu: quello profondo e scintillante del Mediterraneo che accarezza le spiagge di una striscia di terra tra le più densamente popolate al mondo, promettendo crudelmente libertà e suscitando strazianti desideri d’altrove e normalità. A Gaza, infatti, non si è liberi né si vive in condizioni normali: è una prigione a cielo aperto, una dimensione d’esilio perenne, un limbo che ogni giorno precipita nell’inferno della sopravvivenza all’occupazione militare israeliana.
Ma il blu, quello tra il cielo e il mare che il titolo evoca, è anche quel luogo di silenzi dove la vita e la morte si confondono e passato e futuro s’incontrano, così come vi si ritrovano insieme uomini e spiriti. È proprio quest’elemento magico dal sapore dolcemente onirico a impreziosire il romanzo che, ancor più che nel precedente “Ogni mattina a Jenin”, ci racconta una storia pressoché al femminile: una storia di donne unite tra loro da indissolubili legami di sangue, terra e disperazione sullo sfondo della Nakba, l’immane e ininterrotta catastrofe che da quasi settant’anni vivono gli arabi della Palestina nel disinteresse del mondo (“fratelli” arabi compresi) e dell’ipocrisia della diplomazia internazionale. E così le vicende delle donne di una famiglia palestinese come tante, dalla matriarca forte come una roccia alla nipotina dall’infanzia stravolta dalla guerra, s’intrecciano a quelle inferte dalla Storia alla loro terra, fino ad avvenimenti non lontani nel tempo come i bombardamenti su Gaza tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009 o la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit da parte di Hamas nel 2011.
Grandi protagoniste del romanzo, la forza e la fragilità delle donne si alternano tra queste pagine, mentre dalle ormai croniche macerie di Gaza emergono non solo brandelli di vite spezzate e sogni recisi, ma anche tanta voglia di un nuovo inizio e, soprattutto, la speranza che si veste immancabilmente di blu.
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Alla corte del Principino
Cinque stelle e lode per una lettura consigliabile a tutti gli appassionati di Gabriele d’Annunzio!
Ho letto con estremo piacere ed entusiasmo questo libro di Giordano Bruno Guerri, autore d’eccezione per raccontare uno dei protagonisti più i più illustri e straordinari del panorama culturale nostrano e internazionale fino agli anni Trenta del secolo scorso.
Del resto, chi meglio del presidente della Fondazione Vittoriale degli Italiani può aiutarci a conoscere d’Annunzio che nel ritiro sul Lago di Garda prese stabile e non modesta dimora per oltre tre lustri? Chi più del Guerri, autorizzato quotidianamente ad aprire armadi e cassetti e ad aggirarsi tra gli ambienti in cui il Vate visse l’ultima parte della propria movimentata esistenza, persino tra quelli di più intimo e corporale raccoglimento, può guidarci alla scoperta delle passioni dannunziane?
Il libro, che si lascia apprezzare per la prosa scorrevole, dai toni quasi confidenziali e quindi tutt’altro che noiosa, è infatti una preziosa e ricchissima miniera di informazioni sul d’Annunzio soprattutto privato, privatissimo, a tratti segreto (ma non troppo); vizi e virtù, più i primi che i secondi, si susseguono tra queste pagine, amori travolgenti e bollenti e altri più blandi e tiepidi. Non più unicamente il raffinato poeta e romanziere, non più soltanto l’ardito comandante di Fiume o l’aviatore del mitico volo su Vienna durante la Grande Guerra: quel che affiora da lettere, biglietti e da tutto lo straordinario materiale cui il Guerri può attingere (in particolare, il diario di Amélie Mazoyer, alias Aélis, allo stipendiato servizio del Vate fin dagli anni trascorsi in Francia) è il ritratto di un uomo a trecentosessanta gradi.
E dalla gran mole di carte private ecco, dunque, apparire il d’Annunzio ghiotto di uova e frutta, quello ecologista e animalista, lo sportivo, il profumiere, il geniale pubblicitario, il padre non amorevole, quello triste e malinconico, il dispregiatore del fascismo (“camicie sordide”, le chiamava), lo spendaccione (nel suo caso, puro eufemismo!), il munifico, il debitore cronico, il cocainomane, l’innamorato dell’amore e l’amante del sesso nella sua più orgiastica dimensione…
Già, le donne… Nel suo letto al Vittoriale se ne adagiò un numero difficilmente quantificabile, a partire dalle stesse dipendenti della casa (solo la cuoca Albina non godette delle premure sessuali del Vate perché, a quanto pare, più che in soprappeso: lui detestava il grasso, su se stesso e nelle donne in particolare). Sarà stato pure un esimio donnaiolo, ma della donna in generale aveva un gran rispetto e una visione che non era certo misogina né corrispondente a quella caldeggiata poi dal fascismo (casalinga florida e dai fianchi larghi, pronta a scodellare copiosamente figlioli per la patria).
Degna corte di un principe (e d’Annunzio, che di nobili natali non era, aveva ottenuto l’artificioso titolo di principe di Montenevoso), il Vittoriale vide il passaggio non solo di intriganti gonnelle (tutte, beninteso, più che maggiorenni e smaniosamente consenzienti), ma anche di noti personaggi dell’epoca, come piloti, ciclisti, giornalisti, editori, persino “quell’imbecille” - poetiche parole dannunziane! - del “compagno” Benito, costretto a fare lunga anticamera prima di essere ricevuto dal padrone di casa.
Meglio rinunciare a esprimere qualsiasi giudizio morale; Gabriele d’Annunzio era quel che era: prendere o lasciare. Al di là di tutto, restano anzitutto la figura di un artista che, in un incessante anelito verso il bello, fece della sua stessa vita un’opera d’arte e poi un eccezionale monumento, il Vittoriale appunto, prezioso “Libro di pietre vive” del quale d’Annunzio volle fare dono agli italiani fin dal 1923 (e lui sarebbe morto nel ’38).
Infine, una precisazione: il “Principino” cui faccio riferimento nel titolo di questa mia recensione non è d’Annunzio di per sé, già principe di Montenevoso; “Principino” è il nome con cui il poeta in persona aveva ribattezzato, senza modestia né volgarità, la parte più attiva del suo corpo subito dopo il cervello artefice di tanta e raffinata produzione letteraria… Non c’era amante che potesse ignorare quale fosse…
http://www.vittoriale.it
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Donne svelate
Pubblicare un libro dedicato alla poesia è sempre un atto di grande coraggio. Ancor più grande se a prendere tale iniziativa è un piccolo editore. Complimenti, pertanto, a Fusibilia, attiva casa editrice e associazione culturale della provincia di Viterbo, la quale, seppur in un contesto editoriale sconfortante e ormai dominato da monopoli spesso votati più alla quantità che alla qualità, ha pubblicato un’opera originale e senza eguali qui in Italia.
Il personaggio di Wallada, principessa arabo-andalusa dalle lontane radici damascene, non è tra i più noti e la sua storia, autentica e piacevole sorpresa, ci trasporta d’un tratto nella Spagna califfale di mille anni fa. Un viaggio affascinante, alla scoperta di un mondo per noi in buona parte ancora sconosciuto; una vicenda dispersa e nascosta tra le ombrose pieghe di quella grande Storia in cui, inevitabilmente, si smarriscono le piccole storie degli uomini. Figurarsi poi quelle delle donne, tanto nell’ambito della cultura cristiana, islamica o pagana!
Ma quella di Wallada, figlia del califfo ommayyade di Cordova al-Mustakfi, vissuta per circa novant’anni sin quasi alla fine dell’XI secolo, non è una storia di poco conto: “poeta della spiritualità della carne e cantatrice della corporeità dello spirito”, come la definisce Antonio Veneziani nel suo suggestivo saggio che chiude questo libro, Wallada è giunta a noi attraverso una manciata di versi, frammenti preziosi di una produzione letteraria ben più vasta e, all’epoca, molto celebrata. Sullo sfondo di crisi e lotte politiche che porteranno il Califfato di Cordova alla disgregazione in tanti staterelli locali, la nostra poetessa conduceva una vita secondo alcuni scandalosa, secondo altri tutto sommato virtuosa; senza dubbio, libera e indipendente da qualsiasi “tutela” maschile, nonché votata alla cultura. Il suo salotto letterario apriva le porte ad artisti, letterati, intellettuali, probabile non mancassero nemmeno i teologi, divenendo presto un punto di riferimento importante – non è difficile intuire – per tutta la regione; lei stessa vi accoglieva pure ragazze di umili e umilissime origini che provvedeva a sfamare e istruire e con alcune delle quali, stando al dibattito sempre aperto sul tema, avrebbe intrattenuto rapporti di dubbia natura. I suoi amori ufficiali, quelli eterosessuali, sono stati intensi e appassionati e ciò che sopravvive delle sue poesie lo testimonia in modo diretto. E talvolta dal suo calamo deluso e furente sgorgarono versi talmente invettivi da far cadere in disgrazia il malcapitato ex amante. Definita la Saffo andalusa, a differenza della poetessa di Lesbo Wallada non si sposò mai né risulta, a dispetto del suo nome (in lingua araba, “prolifica, feconda”, da una radice che rimanda al generare e al nascere), che avesse avuto figli, lasciando che a partorire fosse sempre e solo il proprio intelletto. Incurante del suo rango, se ne andava in giro senza indossare il velo e sulle vesti faceva ricamare i suoi versi. Era araba e musulmana per natali, ma rivendicava comunque la propria individualità femminile, perfettamente in grado di pensare, scegliere, decidere in autonomia, se così scriveva:
“Sono stata creata da Dio per la sua gloria,
ma cammino orgogliosa per la mia strada.”
Da tutto ciò, piccoli tasselli di un mosaico ricostruito con pazienza per quanto ci consente il macero del tempo, emerge il ritratto di una donna straordinariamente moderna, una femminista ante litteram, come sottolinea Claudio Marrucci, curatore del volume e traduttore dallo spagnolo dei testi (sia di Wallada sia di altre poetesse arabo/berbero-andaluse a lei contemporanee) inseriti in questa raccolta. Ecco riemergere, dunque, nomi finora ignoti di donne istruite, colte, raffinatamente talentuose al punto da trovare posto con i propri scritti, al pari dei poeti uomini, all’interno di prestigiose raccolte antologiche dell’epoca. E con le varie Muhya, Hafsa, Nazhum e le altre finalmente svelate al grande pubblico riemerge anche un angolo della vasta “dar al-Islam” (letteralmente, “dimora dell’Islam”) trapiantato in Europa, dove vivevano non soltanto musulmani, ma pure ebrei, cristiani e forse addirittura laici all’eccesso; dove, con l’Islam predominante, tolleranza e rispetto nei confronti di etnie e religioni in minoranza erano la norma; dove l’omosessualità maschile e femminile, seppur non legalizzata, era tutt’altro che un mormorio sommesso, dal momento che certe poetesse la mettevano in versi e più di un sovrano disponeva di harem affollati di uomini prestanti; dove arte e letteratura erano di altissimo livello e prosperarono a lungo; dove le donne scrivevano, filosofeggiavano e ricoprivano ruoli attivi nella società, senza che la cosa disturbasse o destasse scandalo bigotto. Tale era lo splendore andaluso fino all’arrivo prima dell’integralismo delle dinastie berbere del Maghreb e poi della cattolicissima Reconquista, sotto i cui colpi nel 1492 Granada esalò l’ultimo suo respiro. Un bellissimo capitolo in termini di civiltà, quello rappresentato da al-Andalus, della storia islamica e di quella europea nel contempo, sebbene troppo spesso si tenda a perderne memoria tanto su questa che sull’altra sponda del Mediterraneo.
Si auspica che questa brillante pubblicazione possa essere d’incentivo e un punto di partenza per intraprendere nuovi e approfonditi studi su quel mondo ormai lontano e i suoi protagonisti, Wallada bint al-Mustakfi in testa; soprattutto in un momento in cui la barbarie dilaga a suon di bombe e raffiche di kalashnikov, così tra le strade di Parigi come tra quelle del Cairo, Tunisi o Aleppo e, in un clima di avvelenamento generale, sembra essere più facile (e comodo) trovare sempre ciò che divide invece di ciò che unisce. Un momento, infine, nel quale abbiamo tutti bisogno della pura, impalpabile, misteriosa bellezza della poesia che, riprendendo ancora una volta le parole di Antonio Veneziani, appare come “un sentiero scosceso sullo splendore dello strapiombo che conduce al cielo, a quel poco cielo che ancora rimane”.
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Il tesoro più prezioso
Sullo sfondo di una Torino che si veste delle sue atmosfere più affascinanti si svolge la vicenda di Anna, giovane vedova che vive di ricordi e di apatia. Gestisce una libreria di testi antichi, attività in fallimento ormai da tempo. I giorni si trascinano lenti, riempiti del solito vuoto di sempre, finché nella vita della protagonista non compaiono all’improvviso due uomini, di cui uno si rivelerà interessato soltanto a un misterioso “tesoro” sepolto nell’oblio della Storia. Chi sarà quello che vorrà invece scoprire il vero tesoro custodito nel cuore di Anna? Un romanzo capace di tenere altissima l’attenzione del lettore, una storia travolgente!
Secondo libro che leggo di Elena Genero Santoro, già molto apprezzata ne “Gli angeli del bar di fronte”; una scrittrice a pieno titolo che definire semplicemente di talento è ben poca cosa. Scrittura fresca e vivace, la sua, versatile e ricca di quella profondità d’animo che nella penna di chi scrive non dovrebbe mai mancare. Ottimamente costruiti trama e personaggi, da quelli principali a quelli secondari; anche gli “assenti” trovano la propria giusta collocazione in un ben dosato intreccio di narrazione al presente e flashback del passato. Oltre a quello della giovane donna protagonista, spiccano pure i personaggi di Sylvia, drogata di social network (che, a tal proposito, dovrebbe indurre a una seria riflessione), e di Amanda che, con la sua schizofrenia a livello patologico fuori controllo, ci conduce nei luoghi più bui dell’anima, dandoci così occasione di fare un ulteriore plauso all’autrice per aver trattato con particolare sensibilità - e chiari riferimenti a Franco Basaglia - anche il tema della malattia mentale.
E poi c’è lei, Torino, invidiabile location ma, nel contempo, anche prima donna dall’inconfondibile, quasi magico, fascino barocco: da Piazza Castello, sovrastata dalla maestosità della facciata di Palazzo Madama, ai portici di via Po, dalla Mole Antonelliana, sede del Museo del Cinema, a Piazza San Carlo, dalle vie e i locali del centro al Parco del Valentino, la città sabauda si anima di vita propria e, un po’ ombrosa e un po’ solare, tra queste pagine incanta. Per chi, come la sottoscritta, ama Torino, un motivo in più per leggere questo bellissimo romanzo che, attraverso una piccola storia magistralmente narrata, esorta a non lasciare inaridire il cuore, ricordandoci che la nostra capacità d’amare è il tesoro più prezioso in ognuno di noi.
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I mille e un Oriente
Vincitore nel 2015 del prestigioso premio letterario francese Goncourt, “Bussola” non è un romanzo di facile recensione. Che cosa racconta?
Una storia d’amore, anzi due storie d’amore: prima di tutto, quella tra una donna e un uomo, due orientalisti che per anni s’incontrano, fuggono e s’inseguono tra Europa, Turchia, Siria e Iran; sullo sfondo, superba e affascinante cornice, la seconda storia d’amore che per gran parte del libro sembra offuscare la prima: quella tra Occidente e Oriente (in particolare, quello più prossimo), inquieta e ancestrale passione, raccontata attraverso le tantissime piccole grandi storie di coloro che di essa, in passato così come in tempi più recenti, fecero una ragione di vita. Scrittori e studiosi a vario titolo, viaggiatori, avventurieri e sognatori… È lunga la lista degli occidentali irrimediabilmente stregati dall’Oriente: tra queste oltre quattrocento densissime pagine si susseguono nomi europei ben noti legati, in un modo o nell’altro, al mondo orientale. E si scoprono cose curiose e interessanti. Non sapevo, per esempio, che Flaubert avesse tenuto un diario egiziano né che Goethe si fosse dilettato a scrivere esercizi di lingua araba. Nel nostro vecchio continente c’è molto più Oriente di quanto si creda; e in Oriente, paradossalmente, esiste molto dell’Oriente stesso rielaborato dall’Occidente.
“[…] lampade fornite di genio, tappeti volanti e pantofole miracolose; dimostrerebbe come questi oggetti sono il risultato di sforzi successivi comuni, e come ciò che consideriamo puramente “orientale” è in realtà molto spesso la ripresa di un elemento “occidentale” che a sua volta modifica un elemento “orientale” precedente, e così di seguito; ne trarrebbe la conclusione che Oriente e Occidente non appaiono mai separatamente, e sono sempre fusi, presenti uno nell’altro […]”
Un’opera straordinaria e monumentale che racchiude storia, letteratura, musica, nonché esotismo ed erotismo davvero raffinati: un’erudizione sconfinata in materia di Oriente e orientalismo, che sono viaggio, esplorazione continua, forse pure perdizione. Considerati gli specifici riferimenti geografici, letterari e linguistici ad arabo e persiano, purtroppo non si tratta di una lettura per tutti, semmai per appassionati del settore, altrimenti essa rischia di annoiare o, peggio, di non essere capita.
E a me, indegna appassionata di questioni orientali, che cosa ha lasciato questo libro?
Moltissimo, più di quanto potessi immaginare. Anzitutto, una bella lista di nomi dei quali approfondire la conoscenza (in testa, quelli dell’avventuriera francese Marga d'Andurain, della scrittrice e fotografa svizzera Annemarie Schwarzenbach e dello scrittore iraniano Sadeq Hedayat); poi, il promemoria relativo a una lettura di Edward Sa’id che avevo interrotto quand’ero più giovane; infine, oltre a quello per i miei ormai lontani giorni d’Oriente, anche il rimpianto di non essermi recata in Siria quando, per diverso tempo, mi trovavo a un tiro di schioppo dalla frontiera e gli schioppi, quelli veri, ancora tacevano.
Énard dipinge splendide descrizioni di Aleppo, di Palmira e del deserto siriano sospeso tra la notte stellata e lo sbocciar dell’aurora. Uno strazio profondo al pensiero di ciò che il Paese è diventato dopo ormai sei anni di guerra: un cumulo insanguinato di macerie e morte, perenne monumento alla stupidità e crudeltà umane.
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"Carpe diem" in salsa orientale
Apprezzato scienziato e filosofo, nonché poeta estremamente colto e a tratti irriverente, ’Omar Khayyam (XI-XII secolo d.C.) è una delle personalità più illustri non solo della Persia e, più in generale, del mondo islamico, ma anche del panorama culturale universale.
È celebre per le sue Quartine (Rob?yy?t), giunte fino a noi in discreto numero e tradotte per la prima volta in Occidente intorno alla metà dell’Ottocento con grande successo di pubblico: versi, i suoi, dove metrica, saggezza e spiritualità si uniscono in un mix poetico dal superbo fascino destinato ad attraversare i secoli e a superare così l’oblio del tempo.
Le continue esortazioni a riempire la coppa e a bere (vino, non acqua – curioso “topos” in una società musulmana come quella persiana in cui viveva l’autore), a pensare al presente, a vivere l’attimo che fugge inesorabile, così come l’estrema fragilità dell’umana esistenza e l’incombenza della morte sono i temi ricorrenti della poesia di ’Omar Khayyam, temi che non si discostano da quelli della grande poesia classica senza tempo a partire addirittura dai lirici greci.
Tante le quartine su cui riflettere; eccone una tra le più belle e significative dell’intera raccolta:
“Non ricordare il giorno trascorso
E non perderti in lacrime sul domani che viene:
Su passato e futuro non far fondamento
Vivi dell'oggi e non perdere al vento la vita.”
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“L’amore nel mondo arabo è prigioniero..."
“L’amore nel mondo arabo è prigioniero e io voglio liberarlo.” (Nizar Qabbani)
Versi appassionati e appassionanti, espliciti e carnali, impudichi e, a seconda dei giudizi, forse addirittura sconci: è la poesia di Nizar Qabbani, uno tra i più grandi e osannati poeti arabi contemporanei. Siriano di Damasco, Qabbani è morto nel 1998 a Londra, dopo una vita trascorsa in giro per il mondo, divisa tra carriera diplomatica e attività poetica. Le sue parole riecheggiano ancora oggi nelle canzoni di diversi artisti, da Umm Kulthum fino alla musica pop del momento. Io stessa, dopo che una mia conoscenza libanese me ne aveva parlato per la prima volta, ho iniziato a scoprire questo poeta attraverso Kadhem al-Sahir, raffinato cantante iracheno che amo molto.
Ma i versi di Qabbani continuano a risuonare pure per le strade di Beirut, del Cairo e di altre città dell’Oriente ormai perduto e ferito, nelle aspirazioni frustrate delle masse, nel disagio femminile che attraversa come una frattura profonda le società arabe, nelle lettere degli amanti… Perché lui ha dato speranza a chi si nutriva di amarezza, voce a chi non l’aveva e, come si era proposto, ha liberato quell’amore inteso come intreccio indissolubile di sentimento ed erotismo per nulla sconosciuto al mondo arabo. Nei suoi testi si sono rispecchiate intere generazioni di giovani ingabbiate nella bigotta rigidità delle diverse realtà islamiche, anche di quelle in apparenza più aperte.
“L’amore non è un romanzo orientale
dove gli eroi si sposano… alla fine.
L’amore è salpare senza una nave
e sentire che non esiste approdo.
L’amore è un fremito che rimane sulle dita,
una domanda sulle labbra sigillate.
L’amore è il fiume di nostalgia nel nostro profondo
dove crescono vigneti e grano.
[…]
L’amore è il nostro ribellarci per piccole e insignificanti
cose,
è la nostra disperazione, il nostro dubbio assassino.
L’amore è questa mano… che mentre ci uccide…
noi baciamo.”
(da “A una alunna”)
Le donne, in particolare, sono al centro della sua poesia. A loro, creature pressoché invisibili e confinate al tormentato grigiore dello spazio domestico, dà la parola in modo giudicato eversivo, trattando per primo in poesia temi tabù quali aborto e prostituzione. Ma la penna di Qabbani va oltre, sbirciando attraverso la porta socchiusa di un’alcova dove si consuma un rapporto omosessuale femminile; e lo fa con una schiettezza e naturalezza disarmanti “perché” – lui scrive – “per l’amore non c’è spiegazione”:
“La stanza è in disordine,
gioielli sparsi, seta che si leva,
e un bottone che pigramente lascia l’occhiello.
La notte è l’alba di una lupa che allatta la sua lupa.
La mano che fruga… e invade,
il lenzuolo che fugge,
l’una lo avvicina, e l’altra riposa.
È una conversazione tra quattro seni,
un bisbiglio… […]”
(da “Poesia maligna”)
Un grato plauso ai traduttori e alla casa editrice milanese Jouvence per aver fatto conoscere in Italia questa splendida raccolta che lo stesso Nizar Qabbani predispose all’inizio degli anni Settanta, inserendovi appunto le sue “poesie più belle, quei testi-chiave che fino ad allora, in molti casi, la critica aveva spesso e volentieri bollato come sconci e provocatori. Sfidare le convenzioni e il perbenismo ipocrita era evidentemente una sfida troppo appagante a cui il poeta non poteva né voleva rinunciare, mentre i giovani lo leggevano di nascosto o pubblicamente in barba a ogni possibile imbarazzo sociale.
“Sii il mio mare e il mio porto, la mia patria è il mio esilio,
sii siccità e diluvio,
sii la dolcezza e la durezza.
Amami in mille modi,
[…]
Amami… e dimmelo!
Detesto essere amato senza voce,
detesto seppellire l’amore in una tomba di silenzio.
Amami…
Lontano dalla terra della repressione,
lontano dalla nostra città sazia di morte,
[…]
perché l’amore non la visita da quando esiste,
e Dio lì non è più tornato.
Spogliati…
e lascia cadere la pioggia sulla mia sete.
Consumati come cera nella mia bocca
e impastati con ogni mia parte…”
(da “Poesia selvaggia”)
Ci si emoziona perdendosi non soltanto tra i versi d’amore spudoratamente fisico, ma anche tra quelli ben più casti di “Cinque lettere a mia madre”, “Se tu fossi stata a Madrid” e “Granada”, poesia, quest’ultima, in cui negli occhi profondi di una donna di araba ascendenza (ricordiamoci dell’Andalusia arabo-islamica, ben sette secoli di Storia!) ancora si scorge la grandezza di una civiltà passata. Ne “Il pane, l’hashish e la luna”, con cui si conclude la silloge, il poeta esprime invece una dura condanna dei popoli musulmani assuefatti alla religione come a una droga:
“Essi stendono preziosi tappeti,
si consolano con l’oppio
che noi chiamiamo
destino e fato…
[…]
Nelle notti d’Oriente,
quando sorge la luna piena,
l’Oriente si spoglia di tutto il suo onore
e della sua voglia di combattere…
Quei milioni che corrono scalzi,
che credono alle quattro mogli
e nel giorno del giudizio,
quei milioni
che non vedono il pane… se non nei sogni,
[…]”
(da “Il pane, l’hashish e la luna”)
Parole scritte decenni fa, tuttavia sempre valide se si pensa al mondo arabo odierno e al suo fatalismo, a quell’ “in sha’ Allah” (“se Dio vuole”) che masse di diseredati continuano a ripetere come una vecchia nenia stonata che talvolta fa davvero arrabbiare, confidando ingenuamente nell’intervento misericordioso di un Dio che dovrebbe vedere e provvedere in ogni caso, anche quando non si smette di sfornare figli uno dopo l’altro pur non avendo di che sfamarsi… E intanto quella stessa entità superiore, che potremmo chiamare anche destino, li ha abbandonati a regimi corrotti e a tagliagole nostalgici di improbabili califfati, nonché al martirio di guerre interminabili.
C’è tanto, tantissimo in queste intense bellissime pagine di Nizar Qabbani, non ultima la struggente tristezza del poeta. Nessuna meraviglia: del resto, non scriveva forse Jibran Khalil Jibran, altro grande autore arabo, nel suo racconto “Le ali spezzate”, che “[…] i poeti sono persone infelici poiché, per quanto il loro spirito si elevi, saranno sempre racchiusi in un involucro di lacrime”?
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Per noi bambine di ogni età
Davvero una gran bella idea quella di raccogliere in un volume le storie di vita di cento donne di tutti i tempi e proporle come storie della buonanotte rivolte anzitutto ai più piccoli.
Alle bambine, in particolare, meglio far conoscere le vicende di Malala Yousafzai, Marie Curie, Aung San Suu Kyi e di molte altre figure femminili di ieri e di oggi invece che continuare a propinare loro le trite e ritrite favolette di belle imbambolate che stanno in docile e rassegnata attesa di un buzzurro qualunque vestito d’azzurro.
Da Cleopatra alle sorelle Brontë, da Miriam Makeba a Tamara de Lempicka, da Margherita Hack a Zaha Hadid: sono tanti i nomi che si susseguono tra queste pagine che, attraverso le minibiografie di regine, attiviste, scienziate e artiste a vario titolo, finiscono per toccare tutti i continenti e tutte le epoche, offrendo validissimi esempi di tenacia e coraggio da prendere a modello perché, nonostante le piccole grandi conquiste ottenute, non è facile per le donne farsi strada in un mondo ancora in buona parte maschiocentrico; inaspettatamente, poi, misoginia e discriminazioni di genere si annidano molto spesso pure nelle progredite società occidentali, senza dover puntare il dito soltanto contro culture diverse dalla nostra. Un ottimo progetto editoriale, questo libro, che ha visto la luce grazie, non a caso, a due donne, Elena Favilli e Francesca Cavallo, che vivono e lavorano negli Stati Uniti (l’ennesimo esempio di imprenditorialità e talento italiani che hanno fatto le valigie per l’estero, ahinoi…).
Accanto a personaggi molto famosi, ne vengono proposti in gran numero altri meno noti che sono stati, per me, una vera scoperta, come la guerriera apache Lozen, la ciclista italiana Alfonsina Strada, la poetessa e pasticcera brasiliana Cora Coralina e l’attivista messicana Eufrosina Cruz, giusto per citare solo alcuni nomi. Decisamente accattivanti le illustrazioni, a firma di una sessantina di artiste di tutto il mondo; essenziali ed efficaci i testi, anche se, a mio parere, sarebbe stato meglio non omettere la tragica fine che fecero alcune donne del passato, come nel caso di Ipazia o, in tempi più recenti, delle sorelle Mirabal: del resto, se vogliamo crescere bambine ribelli caparbie e determinate a lottare per i propri sogni, valori e ideali, non dobbiamo temere di edulcorare troppo ai loro occhi quella che, in fin dei conti, è la vita. Senza dubbio, se spulciamo la Storia, troveremo altri nomi che avrebbero avuto diritto a una pagina all’interno del volume; a me viene in mente quello di Sophie Scholl, la quale, poco più che ventenne, pagò cara la sua opposizione al regime nazista. Comunque, nel complesso, cento ritratti femminili tutti da leggere e su cui riflettere, per ricordare soprattutto a noi bambine di ogni età che non è mai troppo tardi per inseguire i nostri sogni!
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“[…] I migliori piani dei topi e degli uomini"...
“[…] I migliori piani dei topi e degli uomini, / Van spesso di traverso, / E non ci lascian che dolore e pena, / Invece della gioia promessa!” (Robert Burns)
Dopo l’appassionante lettura di “Furore” di qualche tempo fa, torno a Steinbeck con questo romanzo breve che affronta i temi sociali tanto cari all’autore: la crisi economica, l’emigrazione verso Ovest, lo sfruttamento, le ingiustizie e le sofferenze che ne derivano.
Sullo sfondo di tutto ciò si muovono i due protagonisti, George e Lennie, in rappresentanza di un’umanità derelitta perennemente in cammino e in cerca, dinnanzi alle asperità della vita, soltanto di una casa e un pezzetto di terra dove mettere finalmente radici e assaporare, se non proprio la felicità, almeno la sua illusione. Intorno a loro tanti altri personaggi molto ben delineati, dal garzone Crooks, vittima del pregiudizio razziale in quanto nero, alla giovane moglie di Curley, tutti sprofondati nell’immobilità di una solitudine da cui appare vano ogni tentativo di fuga.
Un dramma intenso e commovente, dove i sogni, le speranze, le illusioni di ognuno s’infrangono miseramente contro l’imperscrutabilità di un destino purtroppo già scritto. Un piccolo capolavoro del quale consiglio la lettura!
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L’amore, che tutto può…
Può l’amore resistere al tempo e a ogni logica dell’esistenza?
Antonio, il protagonista di questo struggente romanzo, ci crede e aspetta.
Impara a guardare il mare e aspetta. Non conta più gli anni e aspetta.
Aspetta Lucia, la ragazza dalla treccia nera e gli occhi castani screziati d’oro conosciuta in un lontano giorno di marzo del 1943, da cui la guerra l’aveva separato all’improvviso.
La guerra era poi finita e tanti avvenimenti si erano succeduti nella vita del giovane, solo che lui non ci fa caso e continua a guardare il mare dal suo balconcino sul golfo di Napoli; e così, giorno dopo giorno, anno dopo anno, abbracciando con lo sguardo quell’orizzonte nel quale mare e cielo diventano tutt’uno, comprende la vita meglio di coloro che nel vicinato lo additano come pazzo.
“Tutto è distinto e nello stesso tempo congiunto, e ogni cosa dipende dall’altra, proprio come il cielo e il mare che certe volte, a forza di guardarli, sembrano un corpo solo.”
Infine, Lucia ritorna, con la stessa treccia nera che le ricadeva sul petto e gli stessi occhi castani screziati d’oro dell’epoca in cui s’erano conosciuti e innamorati. E tutto riprende da dove si era interrotto, a dispetto del tempo, dei pregiudizi e delle maldicenze della gente…
Un libro sulla forza dell’amore, oltre ogni ragionevole follia, e sul senso della fragilissima esistenza umana, sempre tanto difficile da cogliere. Ma, forse, sono soltanto i sentimenti a dare vero significato ai nostri giorni, colmandoli, come accade ai due amanti di questa storia, di tutto ciò di cui si ha essenzialmente bisogno per vivere: il rifugio d’un abbraccio, la consolazione di un bacio o di una carezza, un saldo e delicato tenersi per mano affinché non ci si senta più fragili e soli…
Già, perché l’amore sarà pure “la più grande fra le tristezze umane”, come scriveva Gabriele d’Annunzio, dato lo sforzo che esso comporta per tentare di fuggire dalla solitudine, ma, nel contempo, è anche la nostra più grande ricchezza che, a differenza di quelle materiali, non ci possiede bensì ci appartiene e che, se autentica, riempie immensamente la vita donandoci per di più un’illusione di eternità.
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Magnificamente Grazia
Una splendida lettura, l’omaggio da parte di un grande scrittore di oggi a una grandissima autrice di ieri, la cui opera non sembra destinata a tramontare!Marcello Fois, nuorese come Grazia Deledda, ci regala una pièce teatrale incentrata sulla sulla figura della nostra scrittrice Premio Nobel di cui dovremmo (specie qui in Sardegna) essere più fieri.
Tre atti che portano in scena altrettanti momenti, tutti cruciali, della vita della Deledda: la partenza dal paese natio nel 1900, le ore precedenti la consegna del Nobel a Stoccolma nel 1926 e, infine, l’inappellabile sentenza di morte pronunciata presso uno studio radiologico romano quasi dieci anni dopo. Ne emerge un verosimile ritratto della scrittrice e della donna, anche in relazione agli affetti più cari, in particolare il marito e l’anziana madre. Mi hanno profondamente colpita proprio i dialoghi con quest’ultima, dove si riscontra, come spesso accade nei rapporti tra genitori e figli, un intreccio di amore inespresso e forte incomprensione destinato, purtroppo, a rendere soltanto più amara la vita; inevitabilmente, queste pagine finiscono per toccare anche il tema del ruolo femminile, dal momento che, all’epoca della giovane Grazia, per una donna non era impresa facile né dedicarsi alla scrittura né lasciare la casa d’origine, soprattutto in un ambiente come quello isolano di fine Ottocento-inizi Novecento.
Una figura, dunque, forte, coraggiosa e indipendente alla quale la penna abile e attenta di Fois rende il dovuto riconoscimento. Un libro che consiglio a chi ama Fois, così come a chi già conosce l’autrice di “Canne al vento”, “Cosima” e tanti altri romanzi indimenticabili o volesse iniziare ad avvicinarsi all’opera deleddiana.
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Meravigliosa Scandinavia!
Alzi la mano chi, almeno una volta nella vita, anche solo per mezzo secondo, non abbia mai pensato di mollare tutto, lavoro, famiglia, obblighi e responsabilità, e scappare via di punto in bianco. Del resto, un momento di (sana) follia può capitare a tutti.
A Vatanen, giornalista quarantenne, accade in una fase cruciale della propria esistenza, quando si sente deluso, amareggiato, stanco di tutto ciò che ha, matrimonio incluso, e coglie al balzo l’occasione di “perdersi” nel bosco al seguito di un leprotto ferito. Prendono così avvio le vicende narrate ne “L’anno della lepre”, sullo sfondo di splendidi, incontaminati e spesso innevati paesaggi finlandesi, fino all’estremo nord lappone.
Con la sua scrittura leggera e garbatamente ironica, è stato davvero una bella scoperta Arto Paasilinna che, attraverso la storia del protagonista, ci invita a una fuga dalla deludente e deleteria quotidianità che ci opprime, a riprenderci il nostro tempo e ad assaporare lentamente i ritmi pazienti della natura: una fuga, già, ma anche un viaggio dentro se stessi verso una insperata rinascita!
Molto carina e tenerissima la lepre, alla quale manca soltanto la parola e a cui – ci ho riflettuto a fine lettura – non è stato dato un nome, metafora forse della natura stessa che, seppur indomita, se trattata con rispetto e amore può dare tantissimo all’uomo.
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“Non sono che una donna, ma possiedo la ragione.”
Mi sono sempre domandata che cosa sarebbe accaduto se il governo del mondo, fin dagli albori dell’umanità, fosse stato nelle mani delle donne invece che in quelle degli uomini. I popoli si sarebbero scannati vicendevolmente così come si è verificato nel corso della storia? Le guerre avrebbero scandito in modo altrettanto inevitabile le vicende del genere umano? È difficile rispondere perché, anzitutto, sii deve riconoscere che se da un lato ci sono mancate fin dall’inizio la forza fisica e una dose in più di testosterone, dall’altro non sono mai state sconosciute neppure a noi donne qualità eccelse come la crudeltà, l’avidità e la sete di potere che condividiamo senza complessi d’inferiorità con l’altro sesso. Esiste però anche una terza considerazione di cui tener conto: la donna è madre e vedere i propri figli – e in generale i propri uomini – partire con in mano una lancia o un kalashnikov, lasciandoli immolare sull’altare di quei miti (patria e impero, gloria e onore) strumentalizzati dai governanti guerrafondai di ogni tempo e luogo, ritengo non sia stata la massima aspirazione di nessuna donna. Insomma, inutile interrogarsi su tale questione: forse avremmo dichiarato e organizzato guerre peggio degli uomini o forse ci saremmo adoperate per stringere il mondo in una sorta di abbraccio d’amore universale… Di certo, non lo sapremo mai.
Le donne che porta in scena quel genio poetico di Aristofane non lasciano e non hanno dubbi: la pace è l’unica via da percorrere. La scelgono, la vogliono, la impongono. E ci riescono facendo ricorso a un valido argomento, rispetto al quale nessun uomo (in verità, neanche una donna, ma a quanto pare sull’altra categoria ha maggior presa) può restare del tutto indifferente: il sesso. Ben consapevoli del potere insito nel proprio corpo quale strumento di ricatto, le donne ateniesi e quelle di altre poleis greche, capeggiate da Lisistrata, promotrice della bella pensata e portatrice già nel nome della sua missione (“colei che scioglie gli eserciti”), occupano l’acropoli sullo sfondo di un’Atene del V secolo a.C. ormai sfinita dal lungo conflitto del Peloponneso, dopo aver giurato di negarsi carnalmente a mariti e amanti fino alla rinuncia incondizionata da parte di questi ultimi a combattere sui vari fronti che li tengono lontani da casa per diverso tempo. È una decisione non facile da prendere, come si evince dai tentennamenti iniziali e da qualche successivo tentativo di defezione da parte di alcune, presa davvero a malincuore. “Eppure bisogna farlo; abbiamo troppo bisogno di pace” (v. 144), conclude la spartana Lampitò. E gli uomini? Come prevedibile, non prendono bene lo sciopero sessuale attuato senza pietà dalle loro donne, sciopero che vedono, oltre che come un intollerabile venir meno dei doveri coniugali, pure come qualcosa di assolutamente insensato: “Mi fai star male e soffri anche tu” (vv. 892-893), dirà un marito alla moglie; prenderle con la forza significherebbe poi penare per nulla poiché, come sostiene Lisistrata, se non piace a lei non può piacere neanche a lui. Alla fine, piegati dall’astinenza forzata più che dall’assennatezza e dalla bontà delle intenzioni dell’altra parte (“È una pena; andiamo per la città tutti curvi, come se reggessimo delle lanterne”, vv. 1002-1003), gli uomini accettano, ma non ci fanno comunque una bella figura: ottusi, indecisi sul da farsi fino all’ultimo, vorrebbero una cosa senza dover necessariamente rinunciare all’altra. E non si fanno amare: “Io gli voglio bene, certo; ma è lui che non vuole lasciarsene volere” (vv. 870-871), dice sconsolata del proprio consorte una delle occupanti dell’acropoli. Non sono dunque alte motivazioni a spingerli a tradire la vocazione militaresca: sic et simpliciter, piuttosto che rinunciare al sesso, meglio invece rinunciare a fare la guerra, almeno per il momento; del resto, riprendendo Catullo, anche ciò che dice un uomo può essere scritto nel vento e nell’acqua che rapida passa.
Decisamente attuale, questa commedia, dal momento che la guerra, ahinoi, risulta tema sempre in voga, pur a distanza di ben oltre due millenni dalla stesura dell’opera. Fortissimo il personaggio della non più giovane Cleonice con le sue spudorate battute a doppio senso; delizioso quello di Mirrina, protagonista di un logorante giochetto di seduzione ai danni del marito Cinesia; semplicemente meraviglioso quello di Lisistrata che pone – e impone – finalmente la donna al centro della scena di un lavoro teatrale. Non la protagonista femminile passiva e rassegnata al fato, lamentosa e patetica sperimentata fino ad allora da un certo tipo di tragedia tacciata di misoginia, come ad esempio la Medea di Euripide, bensì un personaggio che lotta per ciò in cui crede, che ha voglia di fare e di farsi soggetto attivo anche in un mondo governato dagli uomini, dinnanzi ai quali non ha timore di parlare a testa alta mentre loro si ostinano a guardare il suo corpo e a non ascoltare il suo cervello. Aristofane è stato bravissimo a mettere nero su bianco tutto ciò: ecco perché mi piace molto questa commedia, un vero capolavoro del teatro antico!
Un testo, a tratti, forse spinto e irriverente, ma senz’altro carico di coraggio; lo stesso coraggio che servirebbe al mondo ancora oggi per scegliere la pace, la sola via che tutti dovremmo percorrere, donne e uomini insieme.
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Inquietante
Un gran bel romanzone, un thriller molto coinvolgente, uno di quei libri che più vai avanti, più ti catturano e non ti danno pace fino a che non ne hai terminato la lettura!Mai letto niente di Donato Carrisi, prima d’ora; in effetti, mi stavo stavo perdendo qualcosa.
Scorrevole e accattivante lo stile narrativo, magistrale la trama, ben caratterizzati i personaggi. Tra questi, ho apprezzato in modo particolare quello del coprotagonista Simon Berish, il reietto del dipartimento, l’esperto d’interrogatori, l’uomo a cui tutti vogliono confessare i propri crimini, per il quale ho provato una speciale empatia (anche se non ho crimini da confessare, solo peccatucci veniali).
Al di la della “fiction”, ho trovato attuale e interessante il tema intorno a cui ruota tutta la vicenda: la sparizione di persone di cui, all’improvviso, si perde ogni traccia. Come scrive l’autore stesso in una nota finale, “tutti abbiamo provato, almeno una volta nella vita, il desiderio di scomparire.”
Cancellare la propria attuale esistenza per crearne una nuova, abbandonare affetti, lavoro, la propria identità e lasciarsi inghiottire dal buio più assoluto per ricominciare chissà dove e chissà con chi… Una forte tentazione che si può sperimentare in momenti cruciali dell’esistenza; e non si tratta di una scomparsa bonaria alla Arto Paasilinna come ne “L’anno della lepre”, ma di qualcosa di più inquietante. Se ci si vuole fare anche solo una vaga idea del fenomeno, basta fare un giro su internet. Fredde e puntuali, le statistiche ci consegnano numeri impressionanti: a livello mondiale, della gente che sparisce misteriosamente si perde ormai il conto; in Italia si tratta di un esercito di 35 mila persone (dati aggiornati al 2016), almeno un migliaio ogni anno e in costante aumento; nella maggior parte dei casi si tratta di allontanamenti volontari (tra questi non vengono quindi conteggiate le scomparse dei minori). Dati che fanno davvero riflettere e rabbrividire.
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Quando il giallo si tinge d’azzurro
Chissà, forse il colore della passione, quando questa diventa ossessione, è l’azzurro. Un azzurro intenso, sensuale, paradossalmente “caldo”, che insegue sogni e libertà. Come l’azzurro della camera d’albergo che, con cadenza mensile, sile, funge da alcova alla relazione erotica dei due amanti protagonisti di questo romanzo. Solo sesso per uno, anche amore per l’altro; probabilmente una tra le storie più comuni e insulse diffuse nella vita quotidiana, ma che Simenon sa raccontare magistralmente, anzitutto attraverso una dimensione temporale che intreccia presente e passato in modo incalzante fino alle concitate battute conclusive di tutta la vicenda. Per non parlare poi della superba introspezione psicologica dei personaggi, a tratti addirittura inquietante.
Un giallo che va oltre il giallo, dove ogni parola ha un peso e, come si comprenderà strada facendo, niente viene detto per caso.
«Ti piacerebbe passare con me il resto della tua vita?»
Pagine, infine, da cui emerge tutta l’insoddisfazione, l’ansia, l'amarezza nei confronti di un’esistenza che, chissà perché, finisce sempre per sfuggire di mano.
Il mio primo Simenon; un romanzo duro e spietato, proprio come la vita del resto, ma comunque bellissimo e indimenticabile.
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Preferivo gli aquiloni
È una storia drammatica, quella della piccola Pari che, seppur con profondo dolore, viene venduta dal padre a una ricca coppia di Kabul senza figli. Una storia di miseria, legami familiari spezzati ed egoismo sullo sfondo di un Afghanistan non ancora martoriato dalle guerre, ma ormai non lontano dal baratro della violenza; una storia attorno alla quale finiscono per ruotare, anche al di fuori del paese asiatico e in epoche successive, tante altre vicende… forse troppe, stavolta.
Il libro si lascia leggere bene e Hosseini si riconferma un grande affabulatore, non c’è dubbio; tuttavia, tra queste pagine non ho ritrovato le atmosfere di quell’altro Afghanistan, con la magia degli aquiloni e dei mille splendidi soli, a cui l’autore ci aveva abituati. La narrazione si disperde poi per altri continenti, lasciando oltretutto il dubbio sulla reale necessità di almeno un paio di storie che, allontanandosi da quella principale, è forse servito soltanto ad allungare inutilmente il romanzo. Peccato, coinvolgimento ridotto al minimo sindacale. Tre stelle al merito di una pur sempre buona scrittura e di un epilogo che sembra ricordare che non è mai troppo tardi per recuperare le proprie radici.
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C’era una volta...
Bellissimo ed emozionante! Un romanzo indimenticabile che resterà nel mio cuore!
Scritto dall’iraniano Kader Abdolah, esule in Olanda, “La casa della moschea” racconta un pezzo di storia recente della Persia attraverso le vicende, ora liete liete ora drammatiche, di una grande e rispettata famiglia, custode da generazioni di un’antica moschea in una cittadina della regione centrale del paese. Dalla fine degli anni Sessanta con lo sbarco sulla luna fino alla guerra contro l’Iraq, passando per le tumultuose vicende legate alla caduta dello scià Reza Pahlavi e all’avvento della Repubblica islamica di Khomeyni, il lettore si ritrova immerso nell’atmosfera della grande casa addossata al muro della moschea, dove la vita dei suoi abitanti segue il proprio corso tra ordinaria quotidianità e rispetto delle tradizioni, senza che manchino eventi bizzarri, tresche e amori più o meno leciti.
Fra tutti, spicca il personaggio di Aga Jan, il ricco mercante di tappeti a capo del bazar cittadino, colonna portante della casa, anche quando in tanti, troppi, dispersi dal vento inquieto del destino, l’avranno ormai abbandonata; una figura carica di saggezza, profonda umanità e dignità, commovente e indimenticabile allorché, “pater dolorosus”, va alla ricerca di una caritatevole sepoltura per il figlio giustiziato dal regime degli ayatollah. Molto bello anche il personaggio del nipote Shahbal, nel quale s’intravede l’alter ego dello stesso scrittore, così come risultano impagabili quelli delle nonne e altri solo in apparenza minori. Tutt’intorno una natura incantata, altamente poetica e tutt’altro che inanimata, che fa da giusta cornice alle vicende narrate: il giardino con al centro la vasca esagonale piena di pesci, il vecchio corvo dall’età indefinita, forse addirittura centenario, le cicogne che fanno il nido su uno dei minareti della moschea, il vento che scende dalle montagne, il fiume che si porta via le lacrime silenziose di Aga Jan…
Un’opera straordinaria che racchiude in sé tutto il fascino e la magia dei racconti d’Oriente, nonché la nostalgia di chi è costretto all’esilio; pagine intense in cui passato e presente s’intrecciano con leggerezza, mentre l’Islam, quello autentico, ha il sapore delle feste di primavera e il volto umano di qualsiasi religione di pace. Cinque stelle e lode, da leggere!
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La chiave della felicità
Mi piacciono le storie raccontate da Nicola Lecca, così colme di amore per la vita, ottimismo, speranza, e con la concreta possibilità per i protagonisti, dopo tante traversie e sofferenze, di raggiungere la felicità.
«Il destino non esiste. Non c'è. È un'invenzione. Il destino sei tu. È ciò che vuoi: ciò che desideri.»: già l’inverno scorso queste parole, in accompagnamento al libro fresco di stampa in bella mostra nella vetrina di una libreria, mi colpirono e diedero molto da pensare. È vero: il destino è un’invenzione, e forse anche una scusa dietro la quale si trincerano spesso le nostre indecisioni e mancanza di coraggio. Finisce per comprenderlo pure Silke, la giovane protagonista del romanzo, quando si decide a riprendere in mano le redini della propria vita; una vita che, come lei scopre, può essere persino improvvisazione e costruttiva disobbedienza, a dispetto delle rigide e asettiche regole di una famiglia per cui l’apparire è tutto.
Ed ecco, dunque, che una città come Marsiglia, con le sue atmosfere magicamente mediterranee e crocevia di colori, suoni e sapori tra Europa e Africa, può diventare il luogo per puro caso ideale da cui provare a ricominciare.
Un bellissimo romanzo sul significato dell’esistenza, purtroppo sempre così sfuggente se non incomprensibile, e sulla ricerca di quella felicità cui tutti aspiriamo, spesso affannandoci inutilmente senza renderci conto che all’improvviso basta appena allungare una mano per afferrarne la chiave. Così, quando ci appaiono vicinissime tutte le piccole cose che fanno grande la vita, capiamo infine che la vita stessa “molto toglie: ma anche molto dà. Dà in forme spesso difficili da catalogare. Dà tutto insieme: quando, ormai, avevamo smesso di sperare: vinti dalle delusioni e decisi a smettere di cercare. Dà quando non chiedevamo più e stavamo per abbandonare il campo da gioco. Dà e basta. Senza pretendere niente in cambio. Dà: per compensare in segreto tutto il male che abbiamo subito. Lo fa in maniera inattesa quando – in realtà – noi ci saremmo accontentati di molto meno. Dà attraverso persone che a lungo avevamo evitato a causa dei nostri pregiudizi. Dà inspiegabilmente e in abbondanza: come se le migliaia di volte in cui abbiamo desiderato fossero state depositate in una banca svizzera e avessero fruttato gli interessi. Dà mentre il destino a tutti gli altri, spietatamente, toglie. Dà, non tanto perché lo meritiamo, ma perché nel caos del mondo è finalmente arrivato il nostro turno.”
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