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68 Opinione inserita da 68    14 Settembre, 2020
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Giustizia privata

Frank Brill, ex giornalista a cui è stato diagnosticato un male incurabile, è un sessantenne con una aspettativa di vita di soli sei mesi, senza più una famiglia, tre mogli e due figli scomparsi tragicamente, nessun motivo per continuare a vivere, sperare, sentirsi amato.
Un uomo arrabbiato non a causa della propria malattia, consumato dal rimpianto per tutto quello che non è stato e che avrebbe potuto essere, felice di avere le ore contate.
Che cosa gli resta se non il proprio risentimento, un presente invivibile e un futuro impossibile tra scorci di azioni e reazioni, drammi esito di destino e superficialità pregresse?
In America i tempi sono definitivamente mutati, in un futuro prossimo, il 2026, Ivanka Trump è il nuovo presidente, meno ferocemente esposta e più liberal del famigerato padre, ritiratosi in una quiete dorata a godersi i privilegi acquisiti.
Quanto è complicato, per non dire impossibile, vivere in questa nazione, armi ovunque, portate ventiquattro ore al giorno, stragi ripetute di innocenti, l’ aborto illegale, la stampa severamente censurata, le manifestazioni anche, immagini che riprendono la violenza delle autorità poste sotto sequestro, l’ odio razziale e antimigratorio imperversa, decine di supermercati sull’orlo del fallimento riqualificati a centri di detenzione per migliaia di immigrati, un solido muro a separare dal Messico.
Un quotidiano intollerante e intollerabile, il trumpismo filosofia dominante, regno di un sovranismo ingiustificato, menti corrose e accecate da una delirante tirannia populista, una capovolta visione dei fatti che osteggia la diversità, gli oppositori accusati di qualunquismo e propaganda comunista.
Frank e’ stanco di vivere, porta con se’ una lista di cinque nomi, persone da eliminare per quello che hanno rappresentato, causa degli eventi funesti del proprio passato e male assoluto per la nazione. Una vendetta senza appello a titolo personale per un ex alcolista che non ha più nulla da perdere, e da nascondere, se non un piano costruito meticolosamente da una mente deragliata, eppure tremendamente lucida.
Un uomo solo inseguito dalle proprie ossessioni, che parla e non viene ascoltato, che riflette su come ciò sia potuto accadere, giorno dopo giorno, risvegliandosi una mattina in un luogo dove l’impensabile si è fatto possibile, fattibile, cieca routine.
È tardi per sottrarsi al peggio, la bomba è scoppiata, gli accadimenti declinano velocemente in fatti cruenti, inseguendo una giustizia privata, un cittadino onesto e mansueto trasformato in un famigerato e irrefrenabile killer, tormentato dal rimpianto di giorni che potevano essere altro, da rabbia e senso di colpa per avere contribuito al disastro del presente, oltre ogni incastro fortuito e personale manchevolezza, se solo anni prima avesse votato diversamente.
Una satira politico-sociale che devia in un thriller crudo e violento, travolto dalla propria efferatezza, piuttosto veloce nel suo compimento e privo di suspance, una caustica analisi del passato e del presente ( il nostro futuro prossimo ) laddove odio, indifferenza, egoismo e bestialità imperversano oltre solitudini abbandonate a se’ stesse.
Un racconto dai toni feroci, uno spaccato di reale che denuncia e rappresenta un futuro preventivato e preventivabile, alla luce di quello che stava accadendo. Niven nuova Cassandra o semplice cronista di fatti sotto gli occhi di tutti?
Di certo il protagonista si è convertito alla scelta peggiore, un’ idea di giustizia privata per un futuro che pare già scritto, con radici solide e lontane che riconosciamo anche altrove, circondati da un’ evidente e reiterata assenza politico-culturale, da un non essere nutrito di particolarismi e disumanità, da slogan efferati e odio a prescindere, da qualunquismo e pressapochismo eletti a quotidianità ...
Quale la soluzione, possibile e non tardiva?

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68 Opinione inserita da 68    10 Settembre, 2020
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Il volto tormentato della vita

Questo romanzo di Rosa Liksom ricostruisce un’ autobiografia immaginaria dando voce alla scrittrice lappone Anniki Kariniemi ( 1913-1984 ), una donna divisa tra l’ amore viscerale per un militare ( il colonnello ) e la passione politica per la propria terra, la Finlandia, ( indipendente dalla Russia dal 1917 ), contesa tra i potenti stati confinanti e scossa, nella prima metà del ‘900, da lotte intestine filogermaniche e anticomuniste.
Una voce che riconsegna la protagonista a se’ stessa dopo un viaggio turbolento, al limite del masochismo, rivissuto da una donna al tramonto, stanca, finalmente rappacificata.
Oggi e’ una scrittrice evasa da uno stato di immobilismo sentimentale, da una prigionia che ne ha pregiudicato il sapore dell’ esistenza, da un reale-ideale solo immaginato ma scosso da violenza, soprusi, da un amore impossibile, da tirannia e ricatti sentimentali rivolti all’ autoannientamento, smarrito ogni riferimento, estraniata da se’ e dagli altri.
Ci sarà un momento di rottura, doloroso e definitivo, un lutto imperdonabile calato in un limbo di attesa, nel cuore della Lapponia, circondata da una natura consolatoria, tra le braccia di un giovane che pare riprodurne il passato, devota alla scrittura e all’ insegnamento, immersa nella cura di parole e racconti.
Nella ricostruzione meticolosa del passato emerge una madre che l’ha cresciuta nella paura, con il desiderio di sfuggirne sguardo e regole, per contro un padre amorevole la cui scomparsa segnerà in lei un vuoto incolmabile e un indirizzo da seguire.
Saranno gli anni giovanili della passione politica, filogermanica e anticomunista, auspicando una figura forte al governo del paese, ma anche di un corpo violato, il desiderio di evadere dal passato sposando un uomo qualunque, un matrimonio finito sul nascere.
Un futuro idealizzato nel nazismo e nel Fuhrer, nell’ incontro con un uomo tutto d’ un pezzo, il colonnello, una passione senza nome e un lungo fidanzamento, nonostante la percezione dell’odio nei muscoli tirati del suo volto, nei suoi discorsi, nel rumore dei suoi passi, nel suo modo di sedersi e di camminare, nella sua irrequietezza, annebbiata dalla certezza di poterlo guarire con il proprio amore.
Un giorno ne sarà la moglie, con annessi e connessi, vivrà un ideale d’ amore, ignara di un avvertimento, una figlia della Finlandia Bianca trasformata in una nazista.
Per lui sarà disposta a morire, a esaudirne i desideri, anche sessuali, ignorando se’ stessa, plasmata e trasformata in quella che egli vuole che sia.
Poi la guerra, l’alleanza finlandese con la Germania, il timore e l’ odio nei confronti di russi ed ebrei, la sconfitta, finalmente il matrimonio, dopo anni di fidanzamento, una coppia che si costruisce il proprio rifugio, che accarezza le foglie, passeggia nei boschi di querce, lei così bella e desiderabile, una donna immatura di quarant’anni che crede ancora nella speranza e nella volontà, sicura della felicità.
Il colonnello sarà percosso da una rabbia indomabile, tormentato, insoddisfatto, deluso dalla guerra, dalla sconfitta, dall’ incubo di un tradimento, in preda a pulsioni inconcepibili, e continuerà ad accanirsi su di lei, vittima designata, coprendola di lividi, odiandone debolezza e sottomissione, fino a farla morire dentro.
E lei, ancora una volta, si immergerà nel mare del perdono ritenendo che, se l’ amore tornasse, e così il rispetto, tutto si sistemerebbe, pensando che lui l’ ami a suo modo e che un amore, pur malato, sia tutto ciò di cui si ha bisogno.
Gli anni la manterranno ancora tra i vivi fino a un momento di non ritorno, sommersa improvvisamente da dolore e depressione.
Il presente e’ cambiato, rigenerato, in parte dimenticato, e la protagonista non si vergogna più di se’ stessa, porta con fierezza il proprio vecchio corpo morente, ha una vita interiore arricchita dall’età, convive con i personaggi dei propri libri, con cani e gatti, così facili da capire.
Vive nel cuore della Lapponia, al sicuro come nella pancia di un luccio, un’ anima pacificata che ogni tanto piange senza motivo, in un estremo atto purificatorio.
“ La moglie del colonnello” è un romanzo toccante, nei temi e nei contenuti, ovattato da una scrittura piana e diretta ma completamente calato nella tormentata storia di uno stato nascente e nella passione inconcepibile di un amore mai nato, la raffigurazione di una vita al femminile così intensa nel proprio desiderio e così amaramente violata, per anni.
Il cuore degli accadimenti diviene il fulcro della propria storia, parti inscindibili, dolorose, un desiderio autopunitivo con radici lontane, e quando ogni cosa è perduta, per sempre, si pensi al frutto più grande di un amore, non c’è possibilità di perdono, di redenzione, di espiazione se non guardandosi dentro, nell’ isolamento, nel silenzio e nell’ascolto, il solo modo per sopravvivere al dolore più grande e ricominciare.




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68 Opinione inserita da 68    10 Settembre, 2020
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Crescere




Un sedicenne catapultato a Great Falls, nel Montana, una famiglia dove tutto pare reciso, bruciato dagli incendi che nell’estate del 1960 colpiscono i monti a ovest della città e da un legame matrimoniale irrimediabilmente dissolto.
Come può un adolescente guardare alla vita nella certezza che gli accadimenti devino dal proprio mondo, chiedendosi se vi sia un ordine e un disegno o se le cose accadono e basta, auspicando il perdono, il ricongiungimento famigliare, il ritorno alla quiete pregressa per un destino tutto da compiersi?
La verità, come spesso accade, insegue gli accadimenti, sta all’ interno del reale, e il proprio acerbo sentire, insieme a speranze svanite, ha l’amaro sapore della sconfitta.
Tutto oggi è come non dovrebbe, un padre che ha perso il lavoro e ben presto smette di cercarlo per scomparire una sera di settembre, diretto a spegnere un incendio sconfinato, una madre stanca della vita, intrappolata in se stessa, alla ricerca di un impiego e affamata di nuovi sentimenti, un senso di vuoto e di solitudine cucito addosso.
Dove è finita quella porzione di felicità che a Great Falls si pensava di raggiungere, quella sensazione che tutto potesse finire bene, e la propria quiete domestica?
Tutto riporta a una verità scritta in un recente passato, una famiglia che non si è mai curata molto di altro, impegnata a inseguire la felicità individuale.
Ma forse le cose semplicemente succedono in un mondo che sta cambiando rapidamente e il ragazzo è contento dell’ assenza del padre, sperando che tutto finisca prima che egli ritorni e scopra la dissolvenza famigliare.
Il figlio si sente una spia, un essere vuoto e non risoluto, incapace di fare succedere alcunché, per un attimo vorrebbe essere morto, anzi che lo fossero tutti e tre, con l’ impressione che la parte migliore della propria vita sia ormai passata e che un’altra fase sta per cominciare.

....” ci sono certe parole, parole importanti, che non si vogliono dire, parole che rendono conto di vite rovinate, parole che cercano di riaggiustare qualcosa che si è spezzato, qualcosa che non avrebbe dovuto spezzarsi e che comunque le parole non riescono a riaggiustare “...

Il ragazzo non sa cosa è giusto e cosa sbagliato, vive in un limbo alimentato dalle preoccupazioni altrui, ha deciso di fuggire dal presente ma si accorge che è impossibile, i genitori ancora uniti in un modo che non riuscirebbe a cambiare e lui è troppo giovane.
Great Falls è una città dove continuare a sentirsi estranei, non resta che riflettere su certe cose della propria vita, sul punto a cui sono arrivate, in un rimescolio rivolto al passato senza la volontà di migliorare il presente.
Investiti dalla sensazione che qualcosa sia morto per sempre, la vita di coppia riprenderà per molti anni a venire, in una solitudine condivisa, anche se incomprensibile, agli occhi di chi molto presto se ne andrà.
Un romanzo intriso di realismo, crudelmente esposto ai fatti, con una voce interiorizzata nella elaborazione personale di un lutto privato ( la disgregazione del nucleo famigliare ) visto con gli occhi di un adolescente che vorrebbe preservare il proprio diritto alla vita e alla felicità, circondato da un mondo adulto assente e precocemente disilluso, intriso di individualismo.
Il dialogo è aperto, la risoluzione lontana, sempre che di risoluzione si tratti, il soffio della vita riporta il treno sui binari di una routine condivisa, all’apparenza, o definitivamente lontana, accettando quello che inevitabilmente e’ e sarà, pur inseguendo altrove i propri desideri, come e’ giusto che sia.
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68 Opinione inserita da 68    17 Agosto, 2020
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Fuga dal tempo

Un breve romanzo dai forti tratti allegorici, tra la fiaba e il noir, con una chiusura che pare un corpo estraneo al lento sviluppo precedente, segna l’ esordio letterario di Jenny Erpenbeck (1999), scrittrice tedesca contemporanea.
Una scrittura piana, spoglia, apparentemente distaccata ma intensamente partecipativa, con forti connotazioni psicologiche e una delicatezza di sentimenti a contrastare una certa ruvidezza di contenuti.
Una ragazzina silente con un secchio vuoto in mano rinvenuta in una via piena di negozi e inutilmente interrogata dalla polizia, lei non ricorda nemmeno il suo nome, ne’ dove sia la sua casa, sa solo di avere quattordici anni. È grande e grossa, sgraziata, con un faccione chiazzato, le spalle larghe di una nuotatrice, i capelli di un colore indefinito e si muove lentamente, completamente avvolta nel nulla con qualcosa di imperscrutabile dentro.
Viene inviata in un orfanotrofio nella periferia cittadina, un luogo in cui non c’è neanche la possibilità di specchiarsi ed è assai improbabile che qualcuno la riporti nel mondo. A poco a poco in lei prevale il silenzio, solo cenni del capo, ascolta e non risponde, si mimetizza, sparisce per tornare a essere.
I compagni non la comprendono, per lo più la ignorano, lei d’altronde fa di tutto per essere invisibile, lascia scivolare via ogni parola e pensiero e sta seduta, sola, come una pagina bianca. La sua lentezza e stupidità elevano le qualità altrui, apprezza questa sensazione di inadeguatezza, di occupare senza sforzo e stabilmente l’ ultimo posto senza essere contesa, avvolta da inferiorità e colpevolezza, arrivando la’ dove gli altri sono in procinto di andarsene.
Del resto e’ talmente debole e incapace, un caso disperato, che non resta che lasciarla perdere, una ragazzina che manifesta una certa insicurezza verso i compagni ma in grado di indirizzare gli adulti dove meglio crede.
Tuttavia possiede un forte spirito di squadra che il suo corpo non riesce a supportare e si adegua benissimo alle scadenze che regolano la vita dell’istituto, la sua sottomissione interiore è perfetta e la sua obbedienza anticipatrice.
Un corpo così abbondante contrasta con una salute cagionevole, spesso la ragazzina si ammala, mentre il fatto che si parli e si sparli di lei e la si prenda di mira è un modo per esserci e uscire dal nulla.
Un giorno qualcosa cambia e la consegna alla consapevolezza altrui che ci si possa fidare di lei, della sua neutralità, finalmente riconosce i nomi dei compagni, partecipa ai loro giuochi, viene tollerata, nel mondo c’è un piccolo posto anche per lei, di tanto in tanto qualcuno le pone una domanda a cui risponde con un si’ o con un no.
Tutte le storie ricadono nella sua mente offuscata e lì riposano, senza mai essere restituite, come fa con il cibo, con la stessa voracità, ma quando gli altri le confessano qualcosa si limitano a esprimerlo ad alta voce.
E, oggi che è in grado di vedere meglio, si accorge di quanto varie siano le persone che le si muovono attorno e non riesce più a decidersi per la cosa giusta, non sapendo quale sia, una sensibilità che deve sopportare l’ inadeguatezza e indifferenza altrui.
Una caduta, la malattia, il progressivo isolamento, il silenzio e il distacco, delle lettere provenienti dal passato, il dimagrimento, un terribile segreto, la dimenticanza.
Dietro ogni storia sopravvive un passato, spesso di sofferenza, coperto da altro, dal desiderio, più o meno consapevole, di ovattare e dimenticare, semplicemente di vivere, o di sopravvivere, un passato che riemerge, forte, improvviso, scoperchiando una verità sorprendente agli occhi altrui o semplicemente la fine di un sogno, il proprio, la’ dove si era cercato inutilmente di fermare il tempo.

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68 Opinione inserita da 68    09 Agosto, 2020
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Tormento ed estasi

Una biografia, il racconto di un’ amicizia, la fuga da un reale insopportabile, in parte da se stessi, la gioia di vivere, il potere del talento, l’ indefinibile legame tra arte e vita.
Questi sono i tormenti del celebre pianista Youri Egorov narrati da Jan Brokken, per anni suo amico e vicino di casa, una storia romanzata che riesce nel proprio intento, rivivere il flusso inarrestabile di un talento musicale unico inseguito dalla propria fragilità, cittadino del mondo ed esiliato per sempre, in un tempo difficile per chi è nato in una terra retrograda che perseguita una inclinazione sessuale indichiarabile.
Youri morirà ancora giovane, malato di AIDS, sottoposto a eutanasia, abbandonato dagli amici più cari, omaggiato dai colleghi, perché se in nessun altro paese al mondo gli artisti vengono perseguitati sistematicamente come in URSS, in nessun altro luogo si sono uniti con tanta forza, elevando un fronte comune contro disprezzo e indifferenza.
Per Brokken sarà un’ attrazione fatale nata nel corso di una esibizione, un incontro con il talento, la progressiva conoscenza a rafforzare una simpatia immediata.
Youri è un uomo timido, che parla piano e non si da’ arie da divo, che non perde mai il sorriso e possiede impressionanti conoscenze musicali, un artista che non vuole sacrificare tutto alla carriera, innamorato della vita.
Amsterdam sembra un approdo sicuro, una citta’ che offre anarchia, libertà, benessere e apprezzamento, apparentemente un salto nel buio, ma egli vi approda in un periodo fecondo, la fine degli anni ‘70, agli albori di una primavera culturale, una fase in cui la città ha il suo teatro dell’ Opera e un flusso vitale divenuto un mix di profondità e di leggerezza come nella San Pietroburgo di fine ‘800.
Per Youri ragione e sentimento saranno indiscutibilmente legati, vivendo molte vite apparentemente disarmoniche, ma dopo otto anni non e’ ancora riuscito a ottenere la cittadinanza olandese e decide di trasferirsi a Montecarlo avendo considerato l’America un luogo raccapricciante e superficiale.
Tornato in Olanda gli mancherà la madrepatria, come a gran parte degli artisti russi, una terra in cui si ha la sensazione di poterci scomparire, un paese barbaro con un popolo barbaro perennemente in lotta con se stesso, un gigante con una intensità rara.
Eppure Jouri vivrà un rapporto faticoso con la Russia, un destino, un mistero, un legame non ancora chiarito al termine della vita, cittadino del mondo ed eterno straniero, mai una primadonna, con un palpabile senso di abbattimento e transitorietà.
Investito da una sublime espressione poetica, si farà’ reinventore di musica, artista in grado di restituire nuova linfa a note morte, di interagire con il pubblico per creare qualcosa di indimenticabile.
Per contro eleverà l’ozio ad arte, per anni bevendo troppo, fumando troppo, dormendo troppo poco, un privato in cui sentirsi terribilmente insicuro, bloccato dalla paura, tormentato dai sensi di colpa dopo il prematuro abbandono della famiglia, vicino a una donna che non potrà mai amare, con una gestione assai discutibile del proprio patrimonio da parte di terzi.
Jan Brokken ci restituisce la sublime, tormentata e breve storia di un uomo geniale, pervaso di inesplorabilita’ e abissi del profondo, un puzzle composito con un’aura di veridicità, una biografia romanzata ricostruita dall’ interno, accompagnandoci in una forte sensazione di sofferenza e unicità, di empatia e vicinanza sentimentale, i tormentati esiti di una genialità inespressa inciampata nella complessità incomprensibile della storia e della vita.








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68 Opinione inserita da 68    06 Agosto, 2020
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La difficolta’ di un senso semplificato

Quattro capitoli di una trama condivisa, un percorso psicologico e affettivo che pare irrimediabilmente dissolto ma non irrecuperabile.
Intrecci casuali, rimpianti, desideri, ritorni, nel mezzo una buona fetta di vita vissuta, sovente altrove, esenti dai propri desideri, momenti rubati alla giovinezza, la precisa volontà di scavare nel passato.
Un puzzle della memoria che pare azzerare ogni distanza, almeno nelle prime due parti, accomunate da un incontro, dal breve corteggiamento e dall’inizio di una relazione amorosa duratura o destinata a finire, tuttora ancorati ad un amore che fu.
L’oggi risponde alla magia di una nuova conoscenza, all’ impossibilità di avere chi si desidera, con l’eco di chi sostituisce qualcuno che si è perso, retaggio della propria adolescenza.
Ecco l’ incontro casuale su un treno tra un anziano professore universitario ( Samuel ) e una giovane fotografa ( Miranda ) che potrebbe esserne la figlia, con il sospetto che si invecchi e non si maturi, disillusi dalla speranza di ciò che sarebbe potuto accadere ma non è mai accaduto, perdendo di vista la direzione, ancora inchiodati all’ inizio.
Due anime alla deriva, così similari e complementari, perse l’una nell’altra, che hanno vissuto ben poco amore vero e intimità, lei bella e irraggiungibile , lui affranto dalla vita, un figlio pianista da raggiungere.
Emerge il tormento di un passato irrisolto, di anni di attesa, di un presente e di un futuro impossibili, c’è un trasporto amoroso che pare dissolversi, un fortissimo desiderio di ricominciare dopo una sosta durata decenni. Il vissuto preludio a questo momento di casualità, un’ attrazione inconsapevole, la vita in funzione del momento e di giorni che avranno un senso, sospinti dal coraggio di amare, accolti e rigenerati dall’altro.
C’è un’altra porzione di storia, un anziano avvocato e un giovane pianista ( Elio ), la musica contorno ed essenza, pochi segreti dopo solo quattro ore condivise, momenti di felice e raggiante intimità che sembrano riportare la vita a riprendere il proprio corso, dimenticando l’ infanzia e l’adolescenza trascorse in una antica dimora.
Un dialogo protratto con il ragazzino che ancora si ha dentro, cercando di cancellare una differenza inconciliabile, un destino che stuzzica in uno strano modo con schemi che sono rimandi a un significato residuo tutto da decifrare. Un padre, un altro padre, il pianoforte, un giovane uguale al proprio figlio ma diverso, un filo conduttore ebraico che corre in entrambi.
Poi un’ altra immagine, un uomo di quarantaquattro anni ( Oliver ) da molto tempo lontano, che si è costruito una famiglia e che oggi si accorge di come tutto è svanito, l’ indomabile fuoco, le risate, l’ entusiasmo per una vita ferma da vent’ anni dentro un legame apparentemente dissolto.
Attorno a se’, da sempre, una musica che non è altro che il suono dei propri rimpianti, trascurato o ingannato da una vita svuotata di senso.
È in questo momento che nasce l’ idea di un legame protratto, immutato, al di fuori dello spazio e del tempo, conservando un angolo di mondo in cui ripensare alla proprie vita, una vicendevole dimensione che non prevede la separazione in attesa del momento in cui cercarsi.
Un romanzo intenso, sovente eccessivo e ossessivamente ripetitivo, una ricerca psicologica e relazionale in un universo umano diviso tra destino e desiderio, un intreccio di trame e personaggi, tra passato e presente, con un doppio filo conduttore, la musica e l’amore, scavando in un percorso a metà’ tra radici famigliari e relazioni multiformi per raggiungere il completamento del cerchio, un senso semplificato, quella lontananza azzerata da un semplice gesto, la ricerca dell’altro.


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68 Opinione inserita da 68    02 Agosto, 2020
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Confusa astrazione

2016, i tragici giorni dell’ insediamento del presidente, l’ innominabile, una nuova era o la fine di quella precedente vista e vissuta nel cuore di una famiglia ristretta, quella di Eva e Bruce, una ricca coppia liberal newyorkese senza figli, lontana dall’aristocrazia della città, che condivide le proprie case, l’ appartamento su Park Avenue e la dimora nella campagna del Connecticut, oltre a tre terrier Badlington.
Una coppia snobisticamente privilegiata, sulla via della discordia, con un’ idea di fuga a giustificare una certa insoddisfazione ( di lei ) nella turbolenta acquisizione di un appartamento a Venezia, o nella triste ammissione della propria insoddisfazione coniugale ( di lui ), rapito da una segretaria in difficoltà e da una relazione extraconiugale.
Per Eva, alquanto irritata, sono i giorni della fine della democrazia, il potere nelle mani di un terribile narcisista o semplicemente del diavolo, un uomo che odia per quello che rappresenta, giorni in cui legge l’ impossibilità di un presente e di un futuro in una nazione culla di un’idea libertaria oggi destituita, con il forte sospetto che la facciata di chi neppure è andato a votare nasconda una profonda crisi personale, relazionale, di coppia, o forse l’altra faccia della propria vulnerabilità.
Lei ama considerarsi un’ animatrice di salotti, circondarsi di cicisbei, organizzare cene, fine settimana ai quali invitare un’ accozzaglia di uomini gay, donne sole di mezza età, coppie sposate che hanno a che fare vagamente con l’arte, editori, agenti, curatori, qualche anziana signora, ma non artisti veri e propri che la spaventano.
Tutto ruota sempre attorno alla sua persona, anche in sua assenza si continua a parlare di lei chiedendosene il motivo e ricercandone le doti nascoste, quanto a Bruce, consulente patrimoniale, pare una persona accomodante a cui basta accodarsi a Eva, sottoporsi alla sua volontà limitandosi a pagare, nessuna traccia di amici, un uomo che invece di litigare esce a passeggio con i cani.
In una trama che cela una incomunicabilità di fatto scorrono porzioni di storie parallele, troncate sul nascere o nascoste, mentre la verità sottende tutt’ altro, sensibilità negate, porzioni di se’, desideri rarefatti o delegittimati, attimi impoveriti di intimità’ nella rappresentazione di una superficie di piccole cose, sovente nauseanti e insignificanti.
Gran parte del romanzo si fonda su lunghi dialoghi inconcludenti, tra il pettegolezzo e la banalità, un microcosmo autoreferenziale di privilegi con l’ impressione che ben poco si abbia da dire.
Si ritorna sui temi dei primi romanzi cari all’ autore, il mondo gay e l’ aids, le relazioni intrafamigliari, il tentativo di una analisi sociopolitica del presente, senza che emerga il vero senso della protagonista, una donna a metà, confusa, una progressista arroccata su privilegi acquisiti, che ricerca una parvenza di libertà limitante, senza una vera occupazione ( scrittrice ? ), a tratti una sognatrice romantica pervasa della propria inconcludenza, semplicemente una donna capricciosa e selettiva di cui tutti parlano e sparlano, rimarcandone la frigida isteria.
Il Leavitt degli esordi aveva un altro spessore, ( ripenso a “ Eguali amori “ ) questo pare ai titoli di coda, e anche il tema dominante, l’ elezione del presidente, non prevede un vero dibattito culturale e politico, limitandosi alla superficie, a battute sarcastiche e caustiche, a uno sterile cicaleccio da salotto, criticando un sistema alla deriva, un mondo editoriale piuttosto controverso, dei colleghi ( scrittori ) pessimi e inconcludenti, ma quale la reale motivazione?
Un romanzo deludente, le poche pagine da segnalare riguardano una certa intimità di sentimenti, veri e credibili, per il resto una sensazione di superficiale e spezzettata confusione stereotipata in cui l’autore, identificatosi con la protagonista, pare confusamente astratto e troppo pervaso di se’, per lo più assente e silente.

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68 Opinione inserita da 68    24 Luglio, 2020
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Passato e presente, quale destino?

Un percorso della memoria in un presente mutato nella propria essenza, un paese al nord della Germania, Brinkebull, in cui sopravvive ancora il basso tedesco, un’ antica terra morenica sottomessa ai cambiamenti del tempo che non ha bisogno di nessuno e ignora l’ inezia umana.
Qui fa ritorno Ingwer Feddersenn, un professore universitario che da molti anni ha abbandonato la terra natia, quindici ettari di terreno e una locanda, per disseppellire pietre e cocci rotti.
Se c’è una cosa che egli sa fare e’ attendere, starsene tranquillo nello stesso posto più a lungo della maggior parte della gente, ma le cose per lui sono andate gradualmente alla deriva e oggi non gli resta che prendersi un anno sabbatico e tornare a Brinkebull ricercando se stesso negli altri, prendendosi cura di coloro che da sempre hanno rappresentato la sua famiglia, Ella e Sonke, due novantenni al tramonto.
Entrambi vittime delle amnesie di una malattia degenerativa e del logorio inarrestabile degli anni, il presente riconsegna, ribaltata da necessità e desiderio, una dimensione che sin dal l’origine ha vissuto una relazione padre-madre-figlio.
Ma cosa determina e prevede questo ritorno? Un tempo fugace, forse un anno, e Ingwer, eterno studente, per una volta si concederà a semplici gesti, pulire, cucinare e stare al bancone, passeggiare per il paese con Ella, lavare Sonke finché avrà vita, saldare un debito con il passato.
Lo attende una comunità ristretta che fatica a riconoscere il diverso, che abbraccia eternamente i propri simili e presenta i volti mutati di singole storie, chi si è fermato per sempre e chi è partito alla ricerca di qualcosa che legittimasse le proprie speranze.
Il passato è un bambino abbandonato dalla devianza di una giovane madre inadatta ( Marrett ), a sua volta bambina, un po’ svitata ma non completamente pazza, che vede e prevede continuamente la fine del mondo, una persona molto sola dietro una parete di vetro, una reclusa che non ha commesso alcun crimine.
Oggi Ingwer e’ un uomo sempre presente e mai del tutto partecipe, che si è costruito una vita altrove, che si domanda quale sia il suo problema, la convivenza da venticinque anni con due inquilini scomodi, il figlio di un giudice e la figlia di un diplomatico, ancora oggi un muro invisibile a separarli, o semplicemente se stesso, il dottor Feddersenn, apparentemente semplice e disponibile ma che nasconde altre identita’, di scienziato e docente universitario?
Quale cammino ad attenderlo, il campo accademico o la locanda che avrebbe ereditato, i quindici ettari di terreno, la casa e la fattoria? Perché ha rinunciato a moglie e figli e a tutto quello che Sonke Feddersen voleva dargli per costruirsi una vita in solitudine e rendersi conto, tardivamente, di quanto essa sia sgangherata?
Il potere della memoria, parte della propria essenza, esperienze tuttora vivide vissute e riproposte, un destino in parte desiderato o solo accettato assecondando un desiderio di fuga per coltivare un talento auspicato e sospinto da un insegnante carismatico, la voglia di fermarsi, approfondire, capire, o solo la necessità di restituire il dovuto, un debito non quantificabile, un senso di colpa latente, un gesto di pietas che riabiliti la propria coscienza.
Un romanzo di sicuro interesse, che sovrappone origini e desideri, storia e memoria, cercando di ricostruire i cocci di una vita fiaccata nella sua stessa essenza, oggi flebile, stremata, spenta, riattivandola e riabilitandola .
Una commedia intelligente di una autrice che sa muoversi con le parole, un inno ai legami con le origini e a un mondo che va scomparendo, deviando una strada intrapresa da tempo e inserendo i personaggi, atemporali, in un contesto bucolico totalmente indifferente.
In sostanza un bel libro, consigliato, a dimostrazione di come una buona idea suffragata da un certo talento possano condurre lontano.


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68 Opinione inserita da 68    22 Luglio, 2020
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Quieta incertezza

Il quieto vivere di un uomo comune, pervaso da una sana e ripetuta quotidianità, un’ anestesia esistenziale consolidata che gli permette di non chiedersi troppo e di non pensare a quello che verrà, il grigio presente sua unica garanzia.
Micah Mortimer vive solo, è un tecnico informatico che si divide tra il computer e il condominio di Baltimora dove abita e arrotonda facendo il custode. Stessi orari, stesso lavoro, stessa corsa, stessi gesti, stessa relazione, vite separate, un uomo alto, ossuto, poco più che quarantenne, con le spalle un po’ curve, cordiale con gli inquilini, che non sembra condividere amicizie maschili.
Non si sofferma mai a pensare alla sua vita, quale il senso e lo scopo, nessuno sa se ha una famiglia. e ci si chiede che cosa pensi un uomo così limitato e chiuso in se stesso, senza sogni e aspettative, disilluso del presente.
Con Cass, maestra elementare, si frequenta da circa tre anni, oggi sono in una fase in cui le cose si sono più o meno assestate, tra compromessi, incompatibilità e stranezze ignorate, più semplicemente hanno elaborato un metodo di condivisione separata.
Per il momento detesta che la sua routine venga interrotta, che la compagna lo solleciti su questioni irrisolte, vive in un limbo di quieta indifferenza, in primis verso se stesso, è un uomo sopra i quarant’anni che si ritiene adulto e maturo, responsabile di una vita consolidata.
L’ improvvisa comparsa di Britney nel suo piccolo mondo, giovane studente universitario in crisi personale e famigliare, cambierà le carte in tavola, e non sarà una falsa paternità attribuitagli ne’ il proprio istinto benevolo a caratterizzare il racconto, quanto un percorso ondivago tra passato e presente, relazioni a tempo prematuramente scadute, riflettendo sulla precarietà di qualsiasi rapporto con l’ universo femminile, sommerso da un’ ancestrale idea di tradimento alla base dei suoi fallimenti sentimentali, immerso in viscerali radici domestiche all’apparenza rimosse e dimenticate.
Può un uomo siffatto rivedere e rivalutare se stesso, capire e correggere gli errori commessi, indirizzare altrove la propria esistenza, farsi più umano, consapevole, responsabile, altruista, aiutare gli altri per aiutare se stesso?
La tesi del romanzo parrebbe assentire restituendoci un nuovo Micah, definitivamente sottratto al personale limbo di indifferenza, pronto a tuffarsi nel presente per indirizzarsi al futuro, addentrandosi in un caos emozionale esente da qualsivoglia ansia da prestazione, definitivamente restituito alla vita.
Che il giovane Britney sia servito a fare luce su se stesso, che la strada percorsa sia stata un insieme di cuori infranti, che gli errori passati siano originati dalla paura di vivere, amare, non essere amati, laddove l’ unione di due solitudini possa finalmente condurre ad altro?
Una scrittura semplificata all’eccesso in una trama scarna che scorre lineare, uniforme, impalpabile, senza sussulti, come la vita di quel protagonista che fatichiamo a credere diversa, imbrattati da una flebile impressione di niente....

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68 Opinione inserita da 68    19 Luglio, 2020
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Un attimo di eternità

Quella vita che pare improvvisamente dissolta, inafferrabile, insopportabile, senza un perché, che si prende gioco degli uomini, riesce a sopravvivere e a rivivere nella forza dell’ amore e di un bacio.
Dopo un viaggio interminabile tra la vita e la morte per il ragazzo senza nome è bello tornare a casa, al villaggio, da Geirprudur, attraversato da alcuni fatti che spariscono senza lasciare traccia mentre altri riaffiorano, quel che è successo rimane dentro di lui, colorandone i giorni e trasformandone i sogni.
Sopravvissuto a una morte certa, senza Jens, si spinge oltre le vette e le montagne, atteso da Geirprudur, Helga e Kolbeinn, preoccupati dalla sua lunga assenza.
Quale direzione assumerà la sua vita non è dato saperlo, è troppo tardi per scusarsi, ritirare le parole offensive, dire le cose inespresse per rancore, stanchezza, mancanza di tempo.
E allora egli si chiede dove stia la felicità, la pienezza, se non nei libri, nella poesia, nella conoscenza, e forse il cuore dell’ uomo è diviso in due parti, felicità e disperazione. Di certo sono i piccoli eventi, quasi invisibili, a dividere il niente dal tutto.
Il ragazzo e Jens hanno attraversato e condiviso l’inferno e la fine del mondo, hanno visto la vita, confrontandosi con la morte, uniti da un legame indissolubile, annodati dal destino.
Il dolore per l’assenza dell’ amico, scontroso, taciturno, asociale, assurdo, insostituibile, riempie le vene del ragazzo che dimentica la delusione, ignorato dalla ragazza dagli occhi verdi.
Rimane il ricordo doloroso di chi e’ morto per una poesia, o forse perché qui il pesce è più importante della vita, il ragazzo continua a scrivere lettere, a tradurre parole, mentre c’è chi conosce perfettamente la distanza infinita tra pensare e vivere.
È possibile sapere più di qualsiasi altro, conoscere l’esistenza, saperla descrivere con parole efficaci, individuare la differenza tra cause ed effetti, eppure non avere alcuna idea di come condurre ogni giorno.
Ed e’ terribile non riuscire a fuggire da se stessi, conoscere tutte le note e non avere una melodia, rimanere fermi, costretti a sopportarsi.
Il ragazzo ama una giovane donna che ha visto solo due volte dal suo ritorno, in passato gli erano stati affibbiati epiteti offensivi, convincendolo del proprio fallimento, ora riceve solo dei complimenti.
Ma un giorno la vita diventerà solo ricordo, una carezza diventerà il dolore di una assenza mentre le parole, come sempre, non fanno che descrivere una intimità.
Il ragazzo vuole vivere, istruirsi, amare, sopraffatto dalla dolorosa assenza di chi non c’è più, ricordando le parole di sua madre ...” non lasciarti sopraffare dalla miseria, schiacciare dalle delusioni ”...
C’è chi non si e’ mai distratto ingrigendosi a poco a poco, andando incontro alla monotonia, lui stesso monotonia, sparito prima che la morte venisse a prenderselo, ignaro del potere dei sogni e della poesia.
Le nubi riflettono un po’ gli esseri umani, sradicate, effimere, mutevoli, mentre la vita è una alternanza di felicità e disperazione, ma esistono persone preziose nella loro quotidianità.
Ed allora un altro viaggio, un’altra lettera da consegnare, l’idea che la vita non sia finita e neppure cominciata, ma forse non si sa molto della vita stessa se non entrandoci e sapendo coglierla quando arriva.
Domande inevase, risposte possibili, abissi inesplorati, il senso dell’esistenza. Grandi
parole pronunciate da piccoli uomini, l’ inutilità di letteratura e conoscenza senza alcuna dignità, una felicità che può risorgere dalle tenebre, risiedere nel dolore, un mondo vivibile finché si ama.
Il ragazzo ha sempre creduto che i libri e la conoscenza rendessero felici, adesso sa che non è vero. La vita è complicata, più semplice della morte che priva di ogni possibilità ma va vissuta, risplendendo come le stelle, e chi non obbedisce al proprio cuore diventa un’ombra grigia perché ...” dove comincia la vita e dove finisce la morte se non in un bacio “...?
L’essenza della trilogia, un viaggio caleidoscopico tra presenze reali mutevoli e figure simboliche che riflettono i caratteri umani, riassunta nel potere di un amore, per quanto fugace, e nella semplicità di una parola, “ vita “, ossessiva presenza, dai confini inesplorati e inesplorabili, eppure viva e pulsante.
Una vita che racchiude ricordi, morte, dolore, felicità, parte di un tutto di cui gli esseri umani scrivono la storia, continuamente, grazie a gesti e parole, e in cui ciascun essere vivente contribuisce, in egual misura, a restituire un senso nella forza di un attimo, chiamato amore, e nella dignità di un gesto, semplicemente complesso, l’amore per la vita medesima.




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68 Opinione inserita da 68    03 Luglio, 2020
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Opposti e complementari

Parole, natura, viaggio, un trittico scandente l’essenza del romanzo, due protagonisti, il ragazzo senza nome, accolto e accudito nella dimora-locanda da due donne amorevoli che vorrebbero dargli un’ istruzione e Jens, un silenzioso postino corpulento che ha paura del mare e probabilmente è matto, inacidito dall’asprezza della vita, sempre in ritardo nelle consegne, in una terra in cui l’uomo convive con la ferocia della natura.
Un passato rivissuto nel ricordo introiettato di una morte improvvisa e accecante,( Bardur ) inaccettabile nella sostanza, laddove ci furono amicizia e poesia.
È difficile liberarsi dei ricordi, più forti della morte, il tempo si porta via ogni cosa, l’oggi rivive in alcune parole curative che restano, e hanno più colori di un arcobaleno.
Le parole sono l’unica cosa che il tempo non può calpestare ma ...” alcune sembrano possedere la capacità di opporsi al suo potere distruttivo, resistono e conservano in loro vite da lungo trascorse, il battito di cuori scomparsi, l’eco di una voce infantile, antichi baci “....
Nel cammino dell’esistenza ...” descriviamo le apparenze, non cerchiamo la verità, versi poetici inattesi, dissimuliamo la nostra impotenza e la nostra rassegnazione in una sequenza di fatti “....
L’ unione di due anime sole, il ragazzo e Jens, un viaggio condiviso per consegnare della posta al nord, dove l’ Islanda finisce e cede il passo a lande disadorne, un destino pericoloso, destinato all’ infelicita’, ma forse in qualche luogo la felicità esiste.
Un uomo acciecato dalla vita, un ragazzo che viene dal mondo dei sogni, silenzi protratti, fiumi di parole, rassegnazione , il potere di una voce, attorno a se’ la vastità del mondo.
E allora una comunanza fastidiosa, dialoghi obbligati, verità distillate, sgradevoli, necessarie, rabbia repressa, sfogata, il respiro della paura tra intermezzi di vita.
L’uomo non può sempre piangere e rimpiangere, a volte deve accontentarsi di vivere, una vita in cui sbattere il naso, allontanando la morte, comunque presente, e chi muore è vicino e lontano.
Nell’ inverno più rigido della brughiera uomini e animali convivono, resistono, avanzano con gran pena, cercano l’energia all’ interno di se’, una ragione per andare avanti, un senso dell’esistere.
Due figure erranti attraversano lunghi silenzi comunicanti con una visione opposta della vita e dei fatti per giungere a una comunanza insperata.
Jens si nutre di solitudine, lontano dall’esistenza, pensa che non è possibile stare con qualcuno che parla così tanto, il ragazzo lo guarda e cerca di capire qualcosa di questa vita infame, sente la sua forza, la sua sicurezza, e ripone in lui coraggio e speranza.
Lunghe riflessioni in un ...” cammino tortuoso attraverso un fiordo scontroso su una bagnarola con un compagno morto di paura, due brughiere alle spalle per perdersi in una nevicata accecante con un ghiacciaio empio dietro la tormenta “.... per aprirsi a una verità: il ragazzo stava bene nella nuova casa, ora ne sente la mancanza, e la morte dell’ amico Bardur, incredibilmente, gli ha offerto una possibile felicità.
In lui cresce la nostalgia di un luogo che lo ha sottratto dalla fuga, tre settimane in cui qualcosa è cambiato, una nuova vita, libri, conversazioni, istruzione, e solo ora se ne rende conto, in fondo gli bastano pochi versi per sparire nelle parole, versi che gli permettono di intravedere altri mondi oltre il potere dei sogni.
I due si troveranno nel pieno della tormenta, sommersi dalle lacrime degli angeli, dove non esiste più nulla se non neve e vento, sul loro cammino figure inattese, spezzoni di storie, attimi da condividere, una bara cui dare degna sepoltura e un pericolo silente, onnipresente, sempre in agguato, fino a ora scongiurato...
Dopo “ Paradiso e inferno “ ecco “ La tristezza degli angeli “, secondo capitolo di una trilogia, che ripropone la grandezza di un autore contemporaneo che pare avere assorbito e distillato il meglio della propria terra e dei suoi autori, in particolare Gunnar Gunnarson ereditandone la memoria e trasferendola all’oggi.
Una scrittura poetica che alterna tratti onirici e realismo estremo, graffiante, lunghe digressioni naturalistiche a dialoghi intensi intrisi di attesa e silenzio ma anche di umorismo, distillando, come sempre, parole e significati.
E scopriamo, dietro una durezza apparente, di toni e contenuti, di luoghi e uomini scolpiti dalla propria terra, un’ umanità invidiabile, tratti di dolcezza estrema, una attenta analisi interiore, cercando di scacciare l’ incubo onnipresente della morte in una dimensione talmente profonda da non sembrare vera.

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68 Opinione inserita da 68    30 Giugno, 2020
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Bellezza assoluta

In questi bellissimi racconti risuonano miti e leggende delle fiabe di una Svezia antica e rurale che la penna magistrale dell’ autrice restituisce in una combinazione mutevole tra natura vivida e umanità cangiante, vizi e virtù, passioni e desideri, sogno e realtà, amore e morte, una scrittura e lineare e musicale con intenti che spesso esulano dal lieto fine.
Intrecci coperti di simboli e immaginario ma estremante reali, che profumano di terra e riflettono il ritmo di una musica eterea, riflessioni, gesti e parole che trasformano pensiero e azione di protagonisti redenti riportandoli a verità lontane e capovolte.
Ci inoltriamo in una foresta spoglia che risplende di luce e colori ogni vigilia di Natale mentre lo spirito indomito e musicale di un ruscello redime l’arroganza di un suonatore di violino, un presunto forziere donato da una imperatrice riflette il potere della Provvidenza, l’ amore e la misericordia di una vecchia consolano anime erranti sugli eterni ghiacciai delle montagne.
E poi la musicalità delle corde di un violino respinge il disprezzo e l’ insipienza umana in un abbraccio di commozione condivisa e la nobiltà e la grandezza di un re vengono risvegliate dalla bellezza e dalla onestà della sua gente.
Splendido il racconto “ Vineta “, una narrazione nella narrazione che concede a una giovane donna e al potere dei sogni la capacità di riportare in vita l’ amato perduto in mare. Un reale insopportabile, una madre che vede svanire la ragione nella figlia, il rifugio nel dolore, il ricordo oltre la vana speranza, la forza dell’ immaginazione estremo rimedio al di fuori della follia, riportando in vita ciò che è morto e passato.
Senza dimenticarci, oltre ogni parvenza, che ... “ tutti i pensieri umani sono vanità “...

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68 Opinione inserita da 68    27 Giugno, 2020
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Il vero senso dell’esistenza

Un lungo viaggio liturgico che si rinnova da ventisette anni durante il periodo dell’Avvento nel bianco e grigio cielo invernale, tre compagni, Benedikt, Leo e Roccia, un uomo, un cane e un montone in cammino tra le fattorie fino alla brughiera alla ricerca delle pecore smarrite.
La semplicità di un gesto inserito in una narrazione scarna che sottende purezza e grandezza di dimensione umana, religiosa, simbolica in un contesto realistico, un intreccio di resilienza, fede, speranza, solitudine, amore, connotati di grandezza letteraria.
De “ Il pastore d’Islanda “ e del suo autore, Gunnar Gunnarsson ( 1889- 1975 ), uno dei massimi esponenti della letteratura islandese e scandinava che scrisse in lingua danese, terra che lo accolse per trent’ anni consegnandolo alla fama letteraria prima del ritorno in patria, è stato detto molto, ma quello che mi preme sottolineare, a lettura ultimata, è la sensazione di un viaggio esplorativo e curativo all’ interno dell’esistenza nel quale tutti gli elementi si fondono ed esprimono pura poesia.
C’è un uomo già’ anziano, accolto dalla propria dimensione umana, semplice, umile, un servo, metà ferroviere e metà contadino, senza una grande opinione di se’, che non sa esattamente cosa sia l’Avvento ma che ogni anno si incammina, tra attesa, speranza, preparazione. Teme la solitudine, condizione stessa della sua esistenza, libero e padrone di se’ solo in questo breve periodo, durante il viaggio in montagna.
Ci sono due fedeli compagni, un cane e un montone guida, che perdono la propria connotazione animale per essere semplici creature viventi, di pari forza e dignità e c’è qualcosa di sacro e inviolabile nel rapporto tra uomo e animali.
C’è un paesaggio invernale estremo, ghiaccio, neve, gelo e, oltre le fattorie abitate, una terra montuosa impervia, inaccessibile, pericolosa, senza la certezza del ritorno, se non nella speranza.
C’è un viaggio, metaforico e sostanziale, che diventa poesia, con rime e parole magnifiche che restano nel sangue.
È una porzione di mondo che Benedikt sente propria, parte di tutto quello che può abbracciare con lo sguardo e con le mani, con i pensieri e con i presentimenti.
C’è una dimensione sacra e umana, che pone Benedikt in un reiterato confronto con se stesso e con le profondità del proprio sentire. Teme continuamente che la vita gli possa sfuggire, estenuato dalla fatica, ha bisogno di solitudine e di riposo per ritrovare le forze e prepararsi alla solitudine completa, anche dentro di se’. Un tempo angosciato dalla morte e dalla vita, soprattutto dalla vita, ora è percorso da una grande quiete, tutto è estraneo e inaccessibile, eppure famigliare e inevitabile e questa e’ la sua vita, nel cammino del momento.
I tre viandanti procedono con uno scopo, pur modesto ( la ricerca delle pecore ), invisibili e quasi al di fuori del novero dei viventi. Escono dal giorno ed entrano nella notte, camminano, camminano, fino a quella buca, qualche piede sottoterra, dove Dio e gli uomini paiono avergli voltato le spalle.
Eppure la fine della speranza non è la fine del viaggio, arriva il Natale e un ritorno insperato, insieme a un’ amicizia improvvisa, un legame semplice, un nome da condividere, il giovane e il vecchio, un passaggio di consegne nella continuità ....

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68 Opinione inserita da 68    24 Giugno, 2020
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Sospensioni e cambiamenti

A Jalna tutto accade lentamente, persino i tentativi di fermare il corso naturale degli eventi. Partenze, lontananze, sospensioni, ritorni, la ricerca del proprio angolo di mondo, il mistero di un’ eredità da indirizzare.
Il secondo volume della celeberrima saga canadese dei Whiteoak ritorna sui temi già noti spulciando il privato dei protagonisti, attesi da sviluppi imprevedibili.
Di certo si respira una netta separazione tra le nuove generazioni, che coltivano il sentimento dell’arte, ereditato dalla madre, incarnato in Finch e Eden, mai così vicini, ispirati da musica, poesia e bellezza, e i più vecchi, pensiamo al fascinoso Ronnie, indirizzati alla praticità della gestione aziendale e a una tradizione di stabilità.
Alayne farà ancora da tramite, tornata a Jalna per assistere l’ex marito malato che non ama più ma alle prese con sentimenti precocemente abbandonati.
Una donna del New England, dolce, attenta, incline al dialogo e all’ascolto, che ama ordine e decoro, così lontana dalla confusione e dal disordine dei Whiteoak, da quel premeditato riserbo che innalza un muro tra se’ e il resto del mondo.
E Jalna continua a essere una roccaforte inespugnabile, dai segreti intatti, quel senso di appartenenza che viola i sentimenti individuali, un attaccamento viscerale verso i propri figli a dispetto del tetto coniugale.
Finch, ancora in età scolare, sta crescendo, vive un periodo difficile, tra inclinazioni sospese e fluttuanti, in primis per la musica, inseguendo un pezzo di mondo, coltivando amicizie intriganti ritenute pericolose, acerbo di vita e sentimenti.
I Whiteoak non lo comprendono, lo isolano, detestano il suo atteggiarsi, lo spingono a desiderare un enigmatico e fallimentare piano di fuga, ma, al suo ritorno, ci sarà un momento in cui assisteremo a delle strane chiacchierate tra una centenaria sul punto di morte e un ragazzo di diciannove anni. Scopriremo una donna profonda, tenera e pungente, saggia e interessata alle inclinazioni del nipote, un’ intimità da negare agli occhi altrui. Adeline, in questo contesto inusuale, sveste gli abiti della vecchiaia e diventa una donna senza tempo.
Anche Eden ha sofferto di solitudine, dopo la sua fuga a New York, un poeta senza tempo che ha perso tutto, famiglia, amore, voglia di vivere, un presente di malattia per riscoprire se stesso e ripartire alla ricerca del proprio talento.
Nel frattempo Pheasant e Pierce si sono rappacificati nella condivisione di un figlio, Meg continua a vivere isolata dal mondo, Ernest e Nicholas cercano di giustificare la loro presenza, Wakefield, il piccolo di casa, sempre coccolato e irriverente.
Il corso della vita inevitabilmente scoperchierà gli eventi, Adeline lascerà il dolore dei figli e un unico erede con il rischio di scatenare una lotta intestina. Ma, ancora una volta, i buoni sentimenti e il senso di appartenenza pacificheranno la trama, tra partenze definitive, promesse di stabilità e viaggi chiarificatori, in attesa di sviluppi futuri.
Il secondo capitolo della saga di “ Jalna “, “ Il gioco della vita “, conserva i tratti del primo volume, una navigazione in superficie interessata agli aspetti intrafamigliari ma poco inserita nel mondo, ma riesce a penetrare nel cuore di alcuni personaggi aprendo un sistema relazionale con sorprendenti spunti di intimità, maggiore piacevolezza, un interessante confronto generazionale con profondità inaspettate e forse, oltre le apparenze, il muro invalicabile di Jalna sembra offrire i primi segni di cedimento.

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68 Opinione inserita da 68    23 Giugno, 2020
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Vite contaminate e in attesa di altro

Holt, Jack Burdette ricompare un sabato pomeriggio del 1985, dopo otto anni di assenza, quando tutti ormai paiono essersi dimenticati di lui e persino la polizia ha smesso di cercarlo. Al volante di una Cadillac rossa targata California sembra in attesa di qualcuno, è cambiato in peggio, obeso, sformato, eccessivo, calvo, lo scialbo ricordo del campione che fu, l’ idolo della comunità, un fenomenale giocatore di football destinato alla gloria.
Holt è un’ essenza ristretta che non dimentica vizi e virtù dei propri figli, chi ne disattende la fiducia e’ marchiato per sempre e Jack Burdette l’ha combinata grossa.
Pat Arbuckle, direttore dell’ Holt Mercury, il giornale locale, un fallimento matrimoniale e una tragedia famigliare alle spalle, suo amico dall’infanzia, riaccende nel presente il puzzle della memoria ricostruendone il passato, narrandone le gesta, protratti intrecci pericolosi, epilogo di un gioco all’eccesso.
E nella vicenda di Jack, come sempre, si specchia un pezzo di Holt e della propria storia, un nucleo famigliare spezzato, un giovane evaso dalle mura domestiche, indipendente, burlone, dannatamente competitivo, con la voglia di emergere e divertirsi, vinto da ambizione e noia.
Giochi infantili pericolosi, burle scolastiche, l’amore giovanile per Wanda Joe, indiscutibile bellezza locale, una relazione unilaterale degradante nata sui banchi di scuola che assume forme diverse.
Dopo la morte del padre, travolto da un treno in corsa, Jack si farà cupo e scontroso, un periodo culminato nella decisione di abbandonare la madre e di trasferirsi al Letizia Hotel.
È ritenuto il fenomeno della città, cosparso dall’eco della propria leggenda, con un’ aura di intoccabilità.
Nell’autunno del 1960 l’iscrizione all’università, l’ espulsione dopo una serie di furti, l’ arruolamento nell’esercito, l’addestramento, il ritorno a Holt.
Jack e’ un giovane grande e grosso, pieno di se’, con un aspetto piacevole e una natura dominante, sospinto da impeto e istinto, dotato di forza ed energia innate, un bar e un pubblico maschile il suo naturale elemento.
Un giorno, durante un convegno lavorativo, inaspettatamente prenderà moglie, la giovane e sconosciuta Jessie, che è ben diversa da come la gente di Holt se l’è immaginata. Piccola, scura, tranquilla e risoluta, indipendente e con un’aria distaccata, niente dell’ idea vistosa, molto californiana, di avvenenza femminile. Insomma, quale il motivo di questo matrimonio? La noia.
Un giorno Jack scomparirà senza lasciare traccia, con se’ un turpe segreto presto svelato e Jessie si apparterà non desiderando niente dalla contea di Holt, si ricostruirà’ una vita con i propri figli cercando di dimenticare, indosso una ferita da rimarginare.
Oggi Jack Burdette aspira a una personale resa dei conti al di fuori della giustizia, ha il volto trasfigurato e imperdonabile di una ignominia apparentemente dimenticata.
Oggi giorni e desideri sono mutati, l’amore è rinato, insieme a tante altre storie vissute e interrotte di cui questa è una e neanche la più importante.
E allora, superata la crudeltà e la rabbia del momento per una delirante insignificanza, tutto a Holt pare tornare alla normalità, le chiacchiere si sovrappongono, la gente parla di altro, il tempo scorre, i ricordi si affievoliscono, nuove vite prendono forma, alcune accuse ritornano, c’è chi scomparirà per sempre.
Qui la vita continua o così pare, mentre al di fuori, nel vasto mondo, qualcuno si spera abbia potuto trovare un piccolo angolo personale di salvezza e felicità.
Secondo romanzo di Kent Haruf (1990 ), a precedere la “ Trilogia della pianura “, “ La strada di casa “ possiede i tratti precipui della sua poetica. Holt protagonista, una giostra di personaggi ed accadimenti al suo cospetto, intrecci abbandonati e nascenti, una descrizione dettagliata di fatti e realtà all’ interno di una dimensione spirituale collante della comunità. Singole storie vissute e raccontate con veridicità, essenzialità, ineluttabilità, all’interno del tempo e delle stagioni.
Ciò che non si aggiusta mai lo farà, ciò che scompare non sarà rimpianto, tutto continua secondo una identità di modi e di luoghi, quello che accade al di fuori pare lontano.
È una poetica dell’ essenzialità, un canto della provincia fondato su poche certezze consolidate, un perfetto incastro che elude il superfluo per vestirsi di un’ armonia disarmante.

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68 Opinione inserita da 68    19 Giugno, 2020
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Omnia vincit amor

Il potere di un amore talmente profondo da condurre alla pazzia, la purezza e gratuità del quale superano i confini del vivibile, un amore le cui parole esprimono la propria essenza e al cui cospetto non rimane nulla da espiare.
“ L’Imperatore di Portugallia “, fiaba e realtà, ci accompagna in un mondo di simboli, tradizioni, follia, sogno, concretezza, un paesaggio che ogni volta si dissolve e ritorna.
È l’amore di un padre burbero, inaridito da una vita senza gioia, un cuore che improvvisamente ricomincia a battere di sentimenti, il cuore di un essere umano.
Una doppia nascita, Klara Gulla, figlia adorata e prediletta e il cuore di un uomo nuovo dal momento in cui la bambina gli e’ stata messa tra le braccia, finora ostile e amaro verso tutto, compreso se stesso, ora pervaso di beatitudine e dolcezza.
Il padre di una bambina così straordinaria non può essere solo un povero bracciante, ha ...” un tesoro da mostrare “.... e ..” un fiore di cui fregiarsi “...., è ...” ricco con i ricchi e potente con i potenti “.... , Jan e Klara Gulla, tagliati della stessa stoffa, speculari, sempre insieme, in grado di leggersi dentro.
Diciassette anni di vita, gioie, orgoglio, passione, fino a quando Klara desiderera’ andare altrove, nel vasto mondo, sospinta dal dovere figliale di estinguere un debito famigliare.
Da questo istante per Jan tutto cambia, la tristezza incombe, il senso della vita viene meno, un padre senza difese e senza riparo che accoglie dolore e struggimento in un cuore che ha ripreso a battere.
È allora che rincorre l’ attesa sperando in un ritorno ogni volta rimandato, respingendo voci malevole e immotivate, inventando e riproducendo un reale immaginario, un microcosmo personalizzato, un po’ magico e un po’ tragicomico, nel quale esiste una principessa di un regno ( di Portugallia ) senza fame e povertà, abitato dalla pace perpetua e dalla serenità. E il padre di un imperatrice siffatta, così riccamente vestita, non può che diventare imperatore, Johannes di Portugallia.
Il confine tra reale insostenibile e follia sentimentale genera curiosità, ostilità, incredulità, scherno, compassione, una mistura di epicita’ e rappresentazione di se’, indossando un berretto di cuoio e un bastone imperiale, un imperatore che la gente vuole onorare.
Il proprio sogno folle lo priverà del lavoro, un sovrano detronizzato con il dono della divinazione e l’idea di incontrare qualcuno che assecondi la sua pazzia chiamandolo imperatore per sentire raccontare le sue fantasie.
Tradito nella forza del proprio amore e nel desiderio di protezione, annientato dall’ indifferenza di una fuga non annunciata, azzerando dimensione umana e voglia di vivere, la pazzia svelerà l’ autenticità di un sentimento al cospetto del quale restituire un amore del tutto gratuito e speculare.
Selma Lagerlof, prima donna insignita del premio Nobel nel 1909, scrisse questo romanzo qualche anno dopo ( 1914 ) ambientandolo nella seconda metà dell’ 800 all’ interno della provincia del Varmland, un territorio spoglio e selvaggio da lei ben conosciuto in un clima di passaggio dalla civiltà agricola a quella industriale.
E il mondo contadino, suddiviso in classi distinte, è rappresentato nei propri caratteri definenti, un microcosmo fondato sulla consuetudine dei rapporti bracciante-proprietario, mentre i signori vivono separatamente. Ed e’ rilevante, in questo contesto, l’ aspetto religioso, raffigurato nella figura del pastore, un sistema spirituale ed educativo di importanza primaria per la comunità.
Il tema di fondo del racconto, omnia vincit amor, qui rappresentato dalla centralità di un sentimento paterno totalizzante, rivive anche nell’ inserimento di vicende e personaggi collaterali di assoluta rilevanza.
Una scrittura lineare, semplificata, a metà tra il reale e il fiabesco, il naturale e il soprannaturale, un’ alternanza di sogno e di particolari contingenti che restituiscono un’ armoniosa presenza in una ricchezza assoluta di forma e contenuti.

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68 Opinione inserita da 68    15 Giugno, 2020
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Libera essenza

“ Peter Holts “ è un romanzo picaresco e una parabola su senso di libertà e giustizia sociale che vede il protagonista, partendo da un senso profondo di autodeterminazione e cognizione di se’, indagare il circostante auspicando esiti globali gratificanti.
È un testo ben scritto, che affronta temi socio-politico-economici con satira e leggerezza, un mondo che pone profitto e potere al centro di un sistema distorto indirizzato all’ auto annientamento.
Germania dell’Est, primi anni ‘ 70, Peter, un ragazzino orfano di dodici anni che vive in un collegio, è un convinto assertore della dottrina comunista, un’ idea di eguaglianza sociale che prevede persone aperte, gioiose, istruite, generose, reciprocamente presenti e solidali, non per calcolo, ne’ per qualche vantaggio post mortem.
Ama la dialettica e la pace universale, sogna un futuro come soldato di carriera, le sue idee generano dubbi, astio e sconcerto ma anche seguaci, comprensione, coinvolgimento. Verrà adottato dai Grohmann, colpiti dalla sua onestà intellettuale e avrà una sorella, Olga.
Il futuro sarà impegno politico e conversione al cristianesimo, un Cristiano comunista, il suo motto: responsabilità, socialismo, rivoluzione mondiale e Gesù Cristo.
In un’epoca di cambiamenti che porterà alla caduta del muro Peter perseguirà un obiettivo primario, la giustizia nel proprio paese e nel mondo, auspicando un ampliamento dell’offerta che conservi un senso di identità e non imiti la politica dell’ ovest, semplici beni prodotti attraverso lo sfruttamento.
Eroe un po’ all’ antica e idealista utopico, giovane, lavoratore, con i piedi ben saldi nella chiesa, sempre pronto ad aiutare gli altri, un muratore privo di ambizioni, al servizio della collettività, uno a cui dei soldi non importa nulla, con l’idea di asservire le conquiste della rivoluzione a un progetto di unità nazionale.
A ciò si aggiunge il suo essere un giovane estremamente fortunato, trasforma in oro tutto quello che tocca.
Il nuovo avanza, tutto pare mutare e dissolversi, l’ idea di libertà e benessere spinge la gente a desiderare l’Ovest, è in atto la privatizzazione delle aziende, il passaggio al Marco occidentale, l’ adesione alla Nato, ai principi capitalisti , benessere e beni di consumo per tutti, un sistema economico fondato sul possesso privato dei mezzi di produzione e sfruttamento, un nuovo Occidente, democrazia, libertà, stato di diritto.
Per Peter un dopo imbrattato di presente, un incidente, lo stato di coma, le visite di amici e conoscenti, due genitori, un nome come ha sempre desiderato, anche se non saprà più cosa desiderare.
Ci sarà chi lo spingerà a pensare a se’ stesso sfruttando il momento, gustandosi le cose, trattandosi come un amico e non solo come un porta bandiere o uno ostaggio, è difficile trovare il proprio posto nella società in un’ epoca in cui le battaglie si svolgono in modo così confusamente contraddittorio.
La libertà economica precondizione per giungere alla libertà politica, un’ azione fondata sul principio degli affari, ribaltando le teorie Marxiste, partire dai bisogni delle persone, il denaro come produttore di giustizia, il grande motivatore, il contrario di quello che Il protagonista ha sempre pensato.
il nuovo Peter avanza, immobiliarista, gallerista, imprenditore di successo, accumulatore seriale di denaro, indirizzato verso una folle corsa al successo.
Ma comunismo e capitalismo non potranno coesistere in un sistema che poggia su fragili fondamenta e destinato al fallimento, il denaro genera altro denaro, gli investimenti sfruttano la povertà altrui, le relazioni personali si sgretolano.
Ed allora una nuova idea, folgorante e salvifica, la distruzione del denaro in eccesso, interessato solo ad auto riprodursi. Peter non desidera la denuncia ma la purificazione, l’auto purificazione del capitalismo.
L’ arte, in questo contesto, pare essenziale, non come produttrice di sterile ricchezza privata, ma vissuta dall’
interno, in uno spettacolo auto generato di distruzione del proprio denaro che generi purificazione e imitazione nel pubblico stesso, trasformandolo in attore protagonista.
Il futuro genererà il primo detenuto economico, per la società un “ folle “ pericoloso e inconcludente, valutato per le proprie parole e per gesti ritenuti “ malattia “, al di fuori della morale imperante, laddove non può subire una condanna penale, per alcuni un esempio da imitare, per qualcun altro un amore in cui riconoscersi, ai propri occhi un povero finalmente felice.

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68 Opinione inserita da 68    12 Giugno, 2020
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Legami dissolti

Legami misti indirizzano il romanzo a una disfatta personale e famigliare largamente annunciata, le premesse non sembrano portare a niente, gli esiti particolarmente nefasti, ... “ molti misteri, indagati da vicino, rivelano orrori “...
C’è una cerimonia ( di Alice ) infelice nella sua essenza, celebrata per abbandonare l’ ingombrante figura paterna, una donna, May, spentasi nella solitudine e nella stanchezza del secondo matrimonio ( con Herbert ), due figli adulti conviventi ( Elisabeth e Oliver ), opposti attratti reciprocamente affetti da comportamenti adolescenziali, un colonnello, Herbert, vedovo per due volte, gretto, tirchio, un vecchio scemo che si da’ un sacco d’arie, c’è una casa enorme, vecchia, brutta, anonima, situata nella campagna del Surrey.
Qui tutto ha inizio, separazioni volute e necessarie, vite destinate altrove e ad altro, in verità piuttosto evanescenti, prive di amore e condivisione, singolarità che vivono delle proprie manchevolezze e di legami monchi formalizzati, telefonate dovute e inconcludenti, sogni spesso irrealizzati, autodistruttivi o spezzati da un destino cieco.
Il romanzo è costruito attorno a queste pseudo esistenze, protratte strenuamente negli anni e nella sostanza, specchio dei propri protagonisti, nessuno sbocco se non in un immaginario precocemente dissolto da dubbi e certezze poco gratificanti.
Qualche legame affettivo effettivamente tale, protagoniste femminili per lo più sole e affrante, abbandonate a se stesse e ai propri sogni, affette da individualismo, dissolvenza, egoismo, senso di inferiorità, noia ( May, Alice, Elisabeth ), uomini spregiudicati, amorali, traditori ( Herbert ), tronfi e rigidamente anaffettivi ( Leslie ), destinati a grandi cose ma inconcludenti, parassiti, ( Oliver ) e chi pare salvarsi e salvare ( John ) sarà fermato dalla malasorte.
All’ interno di una trama che poco ha da svelare, vivacizzata nelle pagine finali da qualche colpo di scena, passioni e sentimenti sembrano spadroneggiare, insieme a un sistema relazionale intrafamigliare riccamente composito. Ma qui, a dispetto di quello a cui eravamo avvezzi, ripensando alla saga dei Cazalet, i contenuti sono piuttosto flebili, scialbi, le profondità abbandonate, pochi spunti degni di nota, tanti cliché fermi ad una analisi di superficie, pensieri astratti e formalmente scorretti ripetuti sino alla nausea, nessuna vivacità caratterizzante.
Alla fine, il romanzo si riduce a due eventi significativi, imprevedibili e destabilizzanti, velocemente metabolizzati e non particolarmente scuotenti ( per i protagonisti), un vicendevole scambio in attesa di altro, che forse mai arriverà.

...” si scambiarono il genere di occhiata che si scambiavano sempre quando uno dei due diceva qualcosa che all’altro sembrava una sciocchezza. Sapevano entrambi che era una vita affettuosa, ma nessuno dei due aveva l’ intenzione di raccoglierla “....

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68 Opinione inserita da 68    07 Giugno, 2020
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La ricerca di se’

...”Forse non era più la morte di mio padre a preoccuparmi, ma la mia”...

Il viaggio di una donna senza nome alla ricerca del padre scomparso, con lei il compagno e una coppia di amici, nessun indizio, solo una casa spoglia al centro di un lago nel Quebec, pochi ricordi e assenza di nostalgia, frammenti nebulosi di una infanzia lontana.
Per anni un padre ...“ intento a proteggere i figli e se’ stesso nel pieno della guerra in un paese povero, assorbito da illusioni di razionalità e ordine benigno “... e una madre che ...” collezionava le stagioni, il tempo e i visi dei suoi bambini per trascurare il resto, il dolore e l’ isolamento che la attanagliava “....
Un uomo che non c’è, sparito nel nulla, che se riapparisse e stesse bene lei non vorrebbe incontrare, due genitori che non l’ hanno mai perdonata, non ne hanno capito il divorzio, probabilmente neanche il matrimonio.
Un’ immersione nel passato, una casa con pochi indizi, la scomparsa del padre neppure il più importante, dentro di se’ il trauma pulsante di un abbandono coniugale e di un figlio precocemente dissolto, l’immagine velata di un fratello in procinto di annegare.
L’ oggi è un compagno che non ama, innamorato dell’ idea di se stesso, una bizzarra coppia di amici litigiosamente vicini e necessari alla sua permanenza, una vita cittadina noiosamente insignificante, un lavoro di illustratrice con fortune alterne.
L’ oggi e’ il ritorno nei luoghi della propria infanzia, sperando in una partenza immediata, una settimana per recuperare quella metà di se’ che pare la sola scomparsa, calandosi in una natura ormai contaminata ma ancora viva e pulsante nel suo percepito.
L’ oggi è un vuoto opprimente, aspirando a qualcosa in cui riconoscersi, la propria origine, pochi ricordi, sempre che siano propri, fissati in alcuni disegni e fotografie, un senso originario perduto il giorno in cui lei ha imboccato la strada sbagliata.
La ricerca del padre e’ divenuta ricerca di se’, origina da vecchie immagini congelate, ha subito la menomazione del divorzio, vive il desiderio di un approdo sicuro per chi non è mai arrivato a nulla.
Nel cuore della protagonista soffia un animo femminile e femminista incompreso, un corpo usato e abusato, una rabbiosa presenza che lotta con le poche armi di cui dispone contro un nemico acclarato, gli americani e quello che rappresentano, ..” teste vuote preservate da una corazza e da una placida ignoranza “..., o contro un certo modo di essere umani, uomini e donne.
In lei fuoriesce un’ idea sovrastante la morte, ogni cosa è viva e attende di diventare viva, il recupero di una storia che prevede l’ inizio di altro, una solitudine significante, una illogica libertà in compagnia di se stessa e del proprio pianto, immersa e sommersa da una natura parlante, impregnata di terra, urlando al silenzio, seguendo la luce e i suoi spostamenti, affamata, impaurita dall’ idea che qualcuno possa tornare.
“ Tornare a galla “ è uno dei primi romanzi della Atwood ( 1972 ), e ne presenta già i toni stilistici e i temi a venire. Una scrittura essenziale, asciutta, tronca, atmosfere che riportano a “ L’ ultimo degli uomini “ nell’ immedesimazione uomo-natura e a “ Occhi di gatto “ nel tormentato percorso interiore, oltre a sequenze claustrofobiche che ritroveremo nel ” Racconto dell’ ancella “.
Una sintesi talvolta eccedente all’ interno di un senso di rabbia opprimente che tutto pervade, immagini e sensazioni di forte impatto poetico, adattate a un reale minuziosamente oggettivato in una fisicità onnipresente.

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68 Opinione inserita da 68    04 Giugno, 2020
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Fede e ragione

New York, primi del Novecento, una giovane donna, Annie, con un figlio in grembo, improvvisamente e disperatamente sola. Il marito Jim, disperato dopo la perdita del lavoro, si è tolto la vita in un gesto estremo, un uomo tormentato non dalla mancanza di amore, ma dalla assoluta incapacità di andare avanti.
Questo tragico evento peserà sull’ intero romanzo, lasciando una famiglia amputata affidata alle cure di un convento, a suore amorevoli che stentano a parlare di se’, ma che hanno molto da dare e da raccontare, un rapporto con una figlia cresciuta tra fede e possibile vocazione religiosa, una mente a lungo sottomessa a quel gesto primario indicibile senza possibilità di salvezza e perdono.
Presente e futuro vivono del legame profondo madre-figlia, tra la lavanderia del convento e le mura domestiche, una famiglia ristretta e amputata che non si sente tale e impara a convivere con un’ assenza forzata
C’è un senso di rabbia iniziale per quell’ abbandono, Annie non sopporta disperazione e impotenza, per anni si porta dentro il ricordo di lui, l’ umore nero e gli scoppi d’ira che le hanno impedito di godere delle semplici gioie della vita, quel piccolo angolo di paradiso dopo tutte le miserie che si sono lasciati alle spalle: una città in continuo fermento, un buon lavoro, una casetta tutta per loro, un bimbo in arrivo l’estate successiva.
E c’è una vita che scorre, anni regolati da una quieta routine affettiva, una figlia ignara della verità, che cresce e si dibatte tra sospetta vocazione religiosa, possibile rapporto caritatevole con il mondo, e inclinazione per i propri reali desideri.
Annie, nel frattempo, cede alla tentazione, incontri clandestini con un uomo sposato, nessuna parola sulla sua vedovanza ne’ sulla moglie malata di lui, un’ altra colpa da portarsi dentro, mentre Sally in un lungo viaggio in treno scoprirà la verità sulla sporcizia del mondo.
Gli anni scorrono, inevitabilmente, una doppia verità che non può più essere nascosta, un crescente senso di colpa che porta a credere in una sola via salvifica, un piano che scambi la propria anima immortale con la felicità mortale di una madre.
Ci sono gesti estremi che nascondono amore, letti con gli occhi dell’ amore, accecati e accecanti, che indirizzano delle vite. C’è chi perderà il paradiso per un gesto d’ amicizia, non solo per odio, rassegnandosi per sempre. E ci sarà, per le ignare generazioni future, ovattate da un’ infanzia felice, un’onta nebulosa, una protratta e malinconica presenza, scongiurata da uno sguardo amorevole che molto sottende.
Un romanzo piacevole che privilegia gli scambi relazionali, una scrittura fluida che dosa le parole e mai eccessiva, talvolta poco espressiva, una prima parte che vive il contrasto, le incomprensioni, gli scambi tra vita conventuale e mondo esterno, fede e peccato, intrecciandone destini e diversità, una seconda parte improvvisamente votata all’ azione, dettata da una scelta obbligata, laddove la vita richiede risposte impellenti.

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68 Opinione inserita da 68    31 Mag, 2020
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L’eco dell’ innocenza violata

Norvegia, un ambiente famigliare all’ interno del quale tutto pare già definito, insinuando odio, dolore, sospetto. Se il presente ci mostra un’ eredità da suddividere in quattro, ingiustizia evidente e lotta intestina che ignora i sentimenti, la realtà vede Bergljot , la protagonista, recisi alcuni legami familiari, esporre la sua versione dei fatti e capovolgere un’ esistenza da anni votata all’ auto annientamento.
Due coppie di figli con comportamenti e trattamenti diversi, Bergljot e Bard, freddi e lontani, Astrid e Asa, affettuose e premurose, due genitori compromessi, ispirati da un certo narcisismo e da un’ ombra innominabile.
Il cuore del racconto, narrato in prima persona dalla protagonista, è un percorso di sofferenza a tratti incomprensibilmente caustico, ai limiti della sopportazione per ciò che sottende, un microcosmo accecante nella propria sequenza di ricatti emotivi.
Quale l’ oggettività e il punto di vista personale, dove sta la ragione, e gli sviluppi nel presente, quale futuro? In una dimensione confidenziale ricerchiamo una conferma che pare scontata, sempre che, guardandosi allo specchio, Bergljot non ...” veda una psicopatica “..., rigettando l’ accusa infamante.
Ecco frammenti di memoria, quando una bambina di cinque anni vide la propria vita distrutta. Aspetti caratteriali, relazioni sospette, inclinazioni personali, il presente un percorso psicanalitico con errori imperdonabili, violenze, menzogne, una coazione a ripetere e il tentativo di sfuggire al passato, rigettato e rigenerato, secondo meccanismi perfettamente oliati.
Di volta in volta le stesse sequenze, c’è chi che vorrebbe una riconciliazione con i genitori, c’è una madre invadente, vulnerabile, sofferente, ansiogena, due fratelli che non si parlano da vent’ anni, avvicinati da una rielaborazione condivisa, tre sorelle e un’ infanzia diversa, un padre amato di un amore di bambina e temuto da sempre, che evita i due figli più grandi, due amiche infelici innamorate di uomini sposati dai quali non riescono a staccarsi.
Bergljot ha un lavoro precario nel mondo letterario, tre figli, un marito buono e affabile da cui separarsi, nutre una grande passione per un professore sposato, conserva un’idea di ordine disordinato, una vita tenuta in piedi dalla routine fino all’ incontro brutale con la verità, dopo la morte del padre, che le lacera l’ esistenza.
Dall’esterno vediamo una famiglia armoniosa che riconosce solo due figli, un perdono impossibile senza l’ ammissione di colpa, due genitori vecchi, malati, vicini alla morte, vittime da compatire, e una figlia sana ma incredibilmente lontana, attanagliata dalla paura.
Forse il senso di normalita’ è una pazzia scaturita dalla disperazione, forse è giunto il momento di un nuovo equilibrio, di certo le vittime di abusi sovente li riproducono.
Nella solitudine condivisa con il proprio io e pochi altri si cerca di recuperare un senso di appartenenza, il pentimento altrui non può essere accolto se prima non vengono riconosciute la disperazione, il dolore e la rabbia della persona ferita.

...” non ero in grado di perdonare ne’ di gettare tutto nell’ oceano dell’ oblio. Perché non si trattava di episodi singoli, e neppure di un racconto finito, ma di una ricerca caparbia, uno scavo necessario pieno di cortocircuiti e tormenti involontari. E la presenza della mia infanzia perduta, l’eterno ritorno di quella perdita, era ciò che mi rendeva nitida e distinta a me stessa, una parte della mia esistenza che permeava persino il sentimento e la sensazione più piccoli che albergavano dentro di me “....

“ Eredità “ è un romanzo intimo, doloroso, crudo e crudele nella rappresentazione di una vita violata, un percorso di convivenza con un passato insaziabile che divora il presente e continua a parlare di se’.
Nel cuore di atmosfere nordiche caustiche ed essenziali, votate all’ indagine introspettiva , affrontiamo una resa dei conti inconciliabile, posizioni distorte, apparenze estenuanti che negano il dolore, accresciuto da un senso di perdita inestimabile ma oggi definente e parzialmente liberatorio, quando la propria cattiva coscienza sarà scomparsa per sempre.

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68 Opinione inserita da 68    30 Mag, 2020
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Cambiamento obbligato

“ Primavera “, terzo capitolo di una tetralogia dedicata alle stagioni, è un viaggio nel difficile, turbolento e indifferente reale con uno sguardo ( spesso nostalgico ) al passato privilegiando la dimensione umana.
Il romanzo parla di migrazione, razzismo, cambiamento politico e ascesa delle destre, di arte, musica e letteratura ( con riferimenti a Dickens e alla vita e produzione letteraria di Katherine Mansfield e Reiner Maria Rilke ), della forza indifferente della natura, di un sistema relazionale fondato sul potere delle parole e sull’ invenzione di storie.
I protagonisti divergono per età, origine, vissuto, Richard è un vecchio regista televisivo, Britt una giovane guardia impiegata in un centro di accoglienza, Florence una bambina di etnia mista, un destino personale in parte condiviso, il bisogno di occuparsi di un pezzo della storia altrui.
Tre parti ciascuna introdotta da un preambolo, un flusso di slogan eterogenei tratti dal linguaggio della contemporaneità ( mentre l’ incipit “ Ora, quello che non vogliamo sono i fatti “ è un omaggio a “ Tempi difficili “ di Charles Dickens con l’aggiunta della negazione ).
Nel presente Richard si trova in una stazione ferroviaria nel nord della Scozia, nutre idee suicidali dopo una vita piuttosto turbolenta e continua a dialogare con una figlia immaginaria ( quella reale lo ha lasciato da molti anni ).
Dovrebbe lavorare all’ adattamento cinematografico di uno scialbo bestseller ( “ Aprile “ ) che narra l’ incontro tra Katherine Mansfield e Reiner Maria Rilke sulle Alpi svizzere, ma è troppo affranto dalla morte di una cara amica, la geniale sceneggiatrice televisiva Patricia Heal ( Paddy ), uno spirito libero, dotato di vena artistica e intelligenza dissacrante, scomparsa dopo una lunga malattia e ancora vivida nella memoria di un’ epoca condivisa.
Britt e’ una giovane che vive una routine collosa ed estenuante, che saluta le piante all’ ingresso e all’ uscita dal lavoro, pagata per maltrattare, ignorare, guardare la superficialità dell’ evidenza, tenendo a bada dei disperati in fuga da una morte certa.
Florence è un soffio di giovinezza, una bambina perspicace che sa trattare con gli adulti, che nasconde una storia di violenza, dolore e segregazione ma pare uscita da una fiaba, che conosce il senso delle parole e non comprende alcuni atteggiamenti dei grandi, che vorrebbe si facesse qualcosa per depurare il pianeta da una fine certa, che cerca di salvare delle vite.
I tre si ritrovano seduti fianco a fianco su un pulmino diretto a nord, nel freddo paesaggio scozzese, ciascuno immerso nella propria storia, incespicato in quella degli altri, cercando delle spiegazioni in un mondo indifferente che si nutre di sola fattualita’.
“ Primavera “ è un romanzo complesso e dissacrante, con molteplici tracce, vissute, abbandonate, riprese, capovolte, un rimescolio di voci che accrescono il senso di smarrimento, inducendoci a riflessioni protratte. Anime pensanti, voci fuori dal coro, i personaggi della Smith che già conosciamo.
Scene spezzate, sovrapposte, sbalzi temporali, dialoghi monchi, umorismo, sarcasmo, lunghe digressioni sui mali della contemporaneità, e la Brexit non è il peggiore, si pensi al razzismo, legittimato, alle divisioni, legittimate, a tutti i demagoghi narcisisti che veleggiano nel presente, ...” ispirati dal Dio degli infiniti nuovi inizi che chiamiamo internet “...
Ma c’è la possibilità di dire basta, recuperando la speranza, di negare l’evidenza e guardare altrove, esistono confini in grado di unire e non di dividere.
Richard si chiede come sia finito in questa parte sconosciuta del paese, respirando un momento di felicità subito sopraffatto dal pensiero dell’amica morta, di una famiglia sfasciata, di un lavoro a pezzi, una vita che è un deserto d’ inverno, salvato e rinfrancato da una ragazzina che porta addosso il peso della sua storia.
Britt, rimossa la propria corazza anestetizzante, bloccata da un livello primario di osservazione e comprensione, si ritrova in un viaggio senza meta a dialogare con un’ estranea, quasi fosse in una favola, e si sente rinata, ascoltata, capita, di nuovo intelligente, spiritosa, simpatica.
Florence sembra ...” qualcuno o qualcosa uscito da una leggenda o da un racconto, quel tipo di storia che non parla della vita vera ma che è l’ unico modo possibile per capire la vita vera “...
Il senso profondo del racconto consiste nel recupero, possibile, di una dimensione umana oggi assente, attraverso la storia, la speranza, il potere delle parole, la comunicazione, il sogno, il cambiamento, le fiabe.

Perche’ ... “ le fiabe sono storie profonde e molto serie, parlano di trasformazione, di come certe cose ci cambiano o ci costringono a cambiare, a imparare come si cambia. Ed e’ proprio su questo che stiamo lavorando, sul cambiamento “....

Eccoci alla fine del viaggio, e’ aprile, il mese dell’ instabilità, del sacrificio e della giocosità, ma anche della rigenerazione e della fertilità, il mese del ritorno all’ origine, al seme, al germe di tutte le cose, il mese anarchico, finale, il grande tessuto connettivo della primavera.

È qui che ...” se passi vicino a un cespuglio o a un albero in fiore non puoi non sentirlo, il ronzio del motore, la nuova vita gia’ all’ opera, la fabbrica del tempo “...



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68 Opinione inserita da 68    21 Mag, 2020
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Nel cuore dell’esistenza

C’è chi ha detto che il più grande racconto scritto da Jack London sia la vita avventurosa da lui vissuta, di certo Martin Eden è il pioniere di un’ esistenza indurita e affamata d’ amore, un percorso esistenziale con un’ idea di conoscenza che definisca la bellezza, estraendone i tratti più veri.
Come può un rozzo marinaio avvolto dall’ ignoto, che vive secondo necessità, inabissato nei piaceri dell’ alcool, allargare i confini del proprio io ridefinendo il concetto se’, conscio della insufficienza del proprio linguaggio, esaudendo una sete di conoscenza che origina da un senso innato di piccolezza?
Sotto quel suo corpo muscoloso Martin e’ un ammasso di sensibilità vibrante, ricettivo e impressionabile, così desideroso di amare, un amore idealizzato nella ventiquattrenne Ruth Morse, studentessa di letteratura figlia di un ambiente strettamente borghese, una giovane donna che lo rende migliore, cristallizzazione pura e leggiadra della sua essenza divina.
È un mondo, quello dei Morse, dove tutto è spirituale, che usa un linguaggio sconosciuto, dei modi eleganti, assaporando il gusto dell’ intelletto, un luogo che Martin ignora ma che lo affascina immensamente, che promette di allontanarlo dalla miseria della materia per abbracciarlo in una estetica totalizzante, che lo pone di fronte a uno specchio, la propria coscienza, alla ricerca di un’ anima in quegli occhi di ghiaccio.
Ma è un mondo che gli incute paura, oppresso dall’ incubo della sua classe sociale e dall’ ossessione di diventare degno di Ruth.
Una terribile irrequietezza, simile alla fame, lo affligge, inizia il viaggio della conoscenza, tra i libri, innumerevoli giorni trascorsi dentro il sapere, un giovane avvezzo alle asperità del mondo ma che ancora ne ignora la bellezza più vera. Spazierà dalla filosofia alla scienza ma nella letteratura troverà la verità e nella scrittura l’ispirazione, un ideale che lo renderà libero, di amare, di sentire, di esprimere il più autentico se’.
L’ amore per Ruth, il suo desiderio di conoscenza, l’ aspirazione alla gloria letteraria, saranno un vincolo per accedere a lei, acquisire del denaro che lo renda libero, di scrivere, di pensare, di amare.
Ma quanto è difficile affrancarsi da una etichetta di povertà, ascendere la scala sociale, aspirare a profondita’ intellettuali da autodidatta, inseguire velleità letterarie prontamente respinte, c’è un reale da scongiurare, la fame e la miseria, ed una etichetta da rimuovere, la propria essenza di semplice e rozzo marinaio.
Una straordinaria forza di volontà, suffragata dai consigli dell’ amata e da qualche incontro fortunato realizzerà l’ impossibile, trasformando Martin in un intellettuale a tutto tondo, accogliendolo nelle profondità della conoscenza, esaltando la teoria individualista dei propri sogni d’ autore.
Da dotto scoprirà l’ irraggiungibilità della conoscenza assoluta e che il mistero della bellezza altro non è che il mistero della vita.
Realizzerà di essere superiore a coloro fra i quali si è arrampicato, inconsapevole del proprio insolito vigore intellettuale e constaterà quanto i Morse sono insensibili alla vera letteratura, alla vera pittura, alla vera musica oltre a ignorare il senso la vita.
La stessa Ruth, idealizzata, non ha alcuna esperienza di vita e di amore, conosce solo quello dei libri e il desiderio di rimodellare Martin, limitata dai confini del proprio orizzonte.
Ella non crede nella sua fortuna letteraria e si fa sempre più lontana, irraggiungibile, senza una chiara percezione dei propri sentimenti, lui ha continuato ad amarla ma è ormai solo, il solo a credere in se stesso.
Anni bui percuoteranno un corpo stremato, una mente affranta, stenti, fame, rifiuti letterari, poi, di colpo, quasi per caso, la sorte arride, e tutto ciò che si era scritto e pensato ritorna. È allora che, ricoperti d’ oro e di riconoscimenti, le porte si aprono, gli inviti fioccano, gli amori ritornano, ma è un riconoscimento tardivo e solo una macchinazione della mente altrui.
Ci sarebbe un unico desiderio, l’ essere apprezzati per quello che si è e per la propria opera, vera espressione di se’, oggi come ieri. La vita, in questa condizione distorta, di smarrimento inconsolabile e tragica verità, assume i contorni disgustosi di un dolore insopportabile.
“ Martin Eden “ è un romanzo splendido, un flusso vitale all’ interno dell’ esistenza, un viaggio indefinito nella mente e nel cuore di un uomo che scava dentro di se’ alla ricerca del vero se’.
Pregi e difetti della natura umana, un tentativo vano di definizione, una inarrivabile curiosità intellettiva, la commistione tra la miseria più nera e la luce più vera, una tensione irrefrenabile alla ricerca del mistero della vita stessa, che non può essere afferrata, compresa, assolta, solo vissuta, fino a quando si avrà fiato per reggere.

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68 Opinione inserita da 68    19 Mag, 2020
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Presente e futuro tragicomico

Questa novella di Ian McEwan non è rintracciabile nella sua produzione letteraria, non ne possiede le qualità caratterizzanti ( di trama e personaggi, profondità di indagine socio-politica, introspettivita’... ).
Scordiamoci i romanzi più noti e prendiamola per quello che e’, come ci dice l’autore nella postfazione, ...” un’ invenzione tragicomica necessaria nel momento in cui la disperazione incontra lo sberleffo “..., con riferimento a un evento e a un periodo nefasto e assai noto ( la Brexit ) della recente storia britannica, un omaggio al genio di Franz Kafka nella metamorfosi inversa uomo-insetto e nel nome del protagonista, una vicinanza ammirata e uno sguardo più profondo alla satira politica di Jonathan Swift che ha raggiunto la sua massima espressione nel pamphlet dal titolo “ Una modesta proposta “.
Questo quanto, il resto un racconto non particolarmente vivo, piuttosto piatto, una satira poco convincente, il confine tra uomo e scarafaggio superato da un’ uniformità indefinita a contorno di un eccesso di teoria economica poco includente e astrattamente persuasiva.
Ecco l’ invenzione letteraria, l’ Inversionismo, un neo indirizzo politico-finanziario fondato su populismo, demagogia, impraticabilità, odio, menzogna, sostenuto da un referendum indetto dai conservatori durante la campagna elettorale del 2015, che ha goduto del sostegno di poveri e anziani per ragioni evidenti, animata da un livello variabile di zelo nazionalista.
Il modello prevede un cambiamento di rotta del flusso finanziario, una purificazione dell’ intero sistema economico britannico a sovvertire le basi del reale, laddove si guadagna spendendo e si paga per avere un lavoro, una ruota populista che ben presto inizia a girare.
Jim Sams, un semplice scarafaggio, vissuto tra scarichi e canaline di scolo, nutrendosi di scarti di cibo e di escrementi, si sveglia suo malgrado nell’ immane corpo del primo ministro britannico, con un campo visivo ridotto, un testone ingestibile, quattro arti inamovibili, un pezzo di carne scivolosa in bocca e un colorito azzurrino smorto. Superato l’ iniziale disgusto riconosce l’ irriconoscibile, attingendo a quello spirito di adattamento insito nella propria specie, una coerenza lontana dagli irragionevoli desideri umani.
D’ improvviso pare ricordare, l’ accettazione del nuovo se’ per lui motivo d’ orgoglio, un unico scopo, l’ approvazione del disegno di legge inversionista osteggiato da frange di cronologisti, da dissidi interni, da teorie complottiste, dalle principali nazioni europee, ma non dal Presidente americano, unico alleato di riferimento.
Lo attorniano gli altri, una schiera di fratelli e sorelle, subito riconosciuti attraverso il velo della loro superficie umana.
Ma quanto di umano e quanto di scarafaggio in questa inversione e commistione tragicomica? Identici i principi ispiranti, ... “ uniti dallo stesso coraggio indomabile e dalla voglia di vincere, sostenuti da valori semplici e emozionanti come il sangue e il suolo, pronti ad abbracciare un ideale mistico di nazione con la certezza del periodo di lacrime e sangue che verrà, affrancando il paese da una detestabile schiavitu’, un destino collettivo forgiato in quel momento...”
Il primo ministro, in passato uomo affabile ed esitante, raggiunta una completa metamorfosi caratteriale, sguazza nel presente, recita con orgoglio, ordina, congiura, si commuove, mente, indotto dalla propria essenza blattoidea compiaciuta e compiacente e da un pizzico di irrefrenabile ambizione “ umana “, disponendo di ....” una logica equilibrata e perfetta che nel corso di inimmaginabili distese di tempo gli ha garantito una buona capacità di adattarsi all’arte di sopravvivere come individuo e come specie “....
Ed allora perché approvare il disegno di legge inversionista? ... “ Perché si’ “... e quale l’ essenza del proprio agire? Una totale acrasia.
La nuova politica economica, in un caos politico indecente e autoreferenziale, intriso di trabocchetti, ingiurie, falsità, inabissamenti morali, improvvisi cambiamenti di rotta, allontanamenti, totalitarismo, sara’ finalmente maggioranza, troppo tardi per una inversione di rotta.
Il paese, trascinato nella rovina, vivra’ un futuro incerto, nefasto, repellente, qualcuno, deposta la scomoda armatura umana, ritornerà alla propria natura in attesa di un banchetto a palazzo, i più ( a detta dell’ autore ), ...” sperando in un difficile ritorno alla ragione, potrebbero doversi affidare al conforto di una risata “ ...

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68 Opinione inserita da 68    13 Mag, 2020
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Confusione romanzata

Una doppia madre, forse una terza, nella mente apparentemente confusa di un bambino di tre anni, semplice illusione, dimensione onirica, ossessione protratta, inganno subito da parte di un mondo adulto invischiato nei propri affari loschi?
Una rapina con morti ammazzati ed un malloppo da recuperare, una banda da sgominare all’ interno di un thriller elaborato e corroborato da molteplici piste e piani di lettura, tutti divergenti.
Guti e’ un topo di peluche che racconta favole per bambini, Vasil Dragomnman uno psicologo dell’ infanzia che si dibatte tra il vero e il presunto, Marianne Augresse un commissario quarantenne all’ interno di un mondo maschile, Amanda e Dimitri Moulin una strana coppia di genitori, Angelique una giovane donna alla ricerca della felicità.
Tanti indizi tra il vero e il presunto, una vicenda ambientata a Le Havre, importante porto commerciale nel nord della Francia, tra gru, ciminiere, moli e container, nel soffio di veloci relazioni individuali, vissute intensamente, solo ipotizzate o bruscamente interrotte, che spesso nascondono altro, forse niente, se non solitudine e semplici giochi legittimanti una strategia pregressa.
Una prima parte lunga ed allungata che accoglie un universo infantile fragile e bisognoso d’ amore, che vive di sogni infranti, assorbe il contorno e lo ricorda perfettamente, riproducendo la realtà ed incanalandola in un personale e indecifrabile codice comunicativo, tra silenzi, visioni fantasiose e distorte, oscuri disegni, in un rapporto vicendevole con il proprio migliore amico, un topo di peluche al corrente dell’ unico modo per sbarazzarsi degli orchi.
Vasil Dragonman getterà l’esca, starà a Marianne Augresse raccoglierla e svilupparla, dibattendosi tra il vero e il presunto, in un mondo di adulti desolatamente crudo, con sogni di gloria e riscatto che nascondono un’ infanzia di niente, violenta, abusata, interrotta, precocemente ed inevitabilmente indirizzata a delinquere.
La seconda parte, con una velocità tardiva, si addentra nel cuore del thriller e nel tragico mondo dei “ grandi “, lasciando un’ impronta di bugie ricorrenti, intrise di romanticismo e sogni rubati, tra violenza, odio, crudeltà, intrecciando confusamente scampoli di vicende connesse.
L’ impressione generale, oltre una scrittura di genere prolissamente romanzata, tendente allo stereotipo ripetuto ed inconcludente ( il poliziotto bello e impossibile, il commissario duro dal cuore tenero, il riscatto sociale, una certa confusione sessuale e relazionale ), è di un thriller psicologico intriso di altro, parzialmente edulcorato, che cerca di fissare contorni eterogenei all’ interno di una trama poco consistente, con scarsa azione, pochi e tardivi colpi di scena, sommersi da un gravoso preambolo ( di centinaia di pagine ) divenuto il cuore del racconto, e questi, per un autore così acclamato, mi paiono difetti non da poco.

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68 Opinione inserita da 68    10 Mag, 2020
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Il cuore tormentato della vita

La vita di Asta era sbocciata nell’ amore ( Ast in islandese significa amore ), svanito il giorno in cui a soli sette mesi fu abbandonata dal desiderio di libertà della madre Helga, un padre ( Sigvaldi ) inadeguato, una balia amorevole, il futuro una quantità di relazioni senza volto e due grandi amori svaniti nel nulla.
Questa è la sua storia, flashback e sbalzi temporali, tra passato e presente, voci corali di parenti, amici, amori, conoscenti, un percorso adolescenziale tra Reykjavik e i fiordi occidentali, da adulta tra Vienna e la Norvegia.
Asta e’ assalita dalle responsabilità, dalle pretese dell’esistenza, da meschinità, delusioni, dalla ripetitività assassina che a volte accompagna il quotidiano, come se la vita l’ avesse trascinata alla fine del mondo, il più lontano possibile dalla sua balia.
Adolescente problematica, viene inviata nei Fiordi occidentali a trascorrere l’ estate e quelli saranno i momenti più belli, da quando la sua infanzia a soli quindici anni si è interotta bruscamente in un giorno d’autunno.
Ma può esservi per lei un posto accogliente, quale il senso dell’esistere, e perché non morire dopo l’ ennesimo fallimento ?
Asta ha paura, di tutto, in primis della vita, l’ esilio le consegnerà il primo amore, Joseph, nella durezza del lavoro nei campi e nella torbiera i due passeranno le giornate più belle, attimi che li avvicinano, il giovane della Bibbia e la ragazza uscita da un grande libro.
Insieme a loro Arni e Kristin, madre e figlio, scolpiti dalla fattoria, nella semplicità e ripetitività’ di gesti con una certa dose di follia su un’ isola che ha la forma di un animale estinto, la cui vita e’ sempre dipesa dalla quantità di fieno raccolto, forse da qualche pesce e da una manciata di poesie.
Anche Sigvaldi, ormai sessantenne, caduto da una scala e sdraiato su un marciapiede, la vita appesa ad un filo, ripercorre la propria esistenza, inseguito da un tempo che cancella ogni cosa, giorni che scorrono infiniti rimandando tutto al domani, un tempo inarrivabile da cui è impossibile evadere.
Vi sono uomini che si lanciano nelle tempeste del mondo per non affrontare se stessi e non guardare in faccia i sentimenti più intimi e complessi, Asta si allontanerà dal suo mondo cercando una casa, un senso di appartenenza, o semplicemente una via di fuga, avvolta nel rimorso. Studierà letteratura, sperando che l’aiuti a vivere meglio, il senso di perdita come soffio dell’ esistenza, e ci sarà un momento in cui si specchierà nella madre, un passato ingombrante ed una nuova vita, al primo posto sogni e bisogni personali, semplici pretesti, o forse peggio, ...” una donna che ha lasciato morire in solitudine la sua balia e ha permesso a quell’uomo “....
Un ritorno, un’ altra stagione, un figlio, un amore tragicamente perduto, un altro abbandonato, la necessità di ricostruirsi altrove, quando il caso o il destino la consegneranno ad un altro tempo.


“....Ci sono poche cose giuste in questo mondo, anzi, le verità del cuore non sempre si accordano a quelle del mondo. Per questo la vita è incomprensibile. È dolore. È tragedia. E’ la forza che ci fa risplendere....”


L’ ultimo romanzo di Stefanssonn abbandona un certo lirismo estetico conservando una forte matrice autoctona, riconosce elementi autobiografici, la bellezza poetica di un passato interiorizzato, ma ci parla anche dei cambiamenti di una Islanda contaminata, denuncia le storture di un mondo male indirizzato, affronta temi di intimità schiacciati dal presente, riflette su tempo, destino, ricordi, amore, felicità, disperazione con una protagonista, Asta, ...” inseguita da due cani fedeli, la mancanza e la solitudine “....
Lo scrittore, entrato nella narrazione, alloggiato in un faro per scrivere e pensare, importunato da un vicino a scopi venali, sembra invitarci, oggi più che mai, in questo periodo di solitudine imposta, a fermarci, ascoltare, riflettere, concedendoci una sosta, ricordando brani di poesie che custodiscono i nostri sentimenti, cercando di aprire i silenzi, abbandonandoci alla sostanza dei giorni.


...” sono entrato nel faro. Carico di libri, di musica e di ricordi, entro nella luce che rende la notte”..





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68 Opinione inserita da 68    08 Mag, 2020
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Destino ineluttabile

Nella” Metamorfosi “ Franz Kafka mostra e riflette il crudele e immodificabile destino di un uomo rimasto solo, appiedato da una spaventosa mutazione fisica che vede affievolirsi sogni e desideri nel cuore di una essenza del tutto umana, sconfitto dal proprio confronto con una società ed un tempo ostili, indifferenti, percorso da un dolore individuale e da una sofferenza che lo ritraggono in una accettazione inderogabile di un destino e di un sacrificio necessari.
Un racconto che sintetizza e mette a nudo temi complessi, il senso dell’ assurdo che riempie ogni cosa, la marginazione ed esclusione propria del mondo ebraico, il conflitto edipico, un profondo senso di disagio che ha la voce interiore di Gregor Samsa, un commesso viaggiatore che vede il futuro e scopre la disumana indifferenza del presente.
Un incipit incredibile, improvviso, inaspettato, tanto disumano nella forma e tanto umano nella essenza, chiedendosi che cosa sia potuto accadere, riferendosi ad un istinto di sopravvivenza quantomai vivido. C’è una parvenza di normalità, un senso di dignità, una possibile malattia dietro la quale nascondersi, assentarsi, ma le proprie fattezze sono del tutto mutate e di umano si conserva un animo in grado di provare sensazioni e sentimenti con un filo di voce che va dissolvendosi.
I propri affetti più cari, quella famiglia in difficoltà amata e sostenuta economicamente, sembrano preoccuparsi della assenza di Gregor, attenderne un cenno, percepire e giustificare il suo stato di prostrazione, ma dura poco, la scoperta della verità cambia le carte in tavola, nega, evita, allontana, sguardi posati su altro, accentuando il proprio senso di lontananza in un paesaggio desolato irrealmente reale.
La claustrofobica permanenza in una stanza spogliata e dissolta, nascondendosi, cercando di conservare qualche ricordo, la progressiva dipartita della sorella Grete, che pareva accettare e comprendere, lo sguardo dei genitori, la paura ed il disprezzo nei loro occhi, le violenze subite, tutto pare indirizzato a incomprensione e indifferenza, e allora, oppresso e logorato dai sensi di colpa, indebolito e ferito nel corpo e nell’ animo, Gregor continua a strisciare e a nascondersi.
Nonostante il suo attuale aspetto misero e disgustoso non è un nemico, ma chi può occuparsi di lui oltre lo stretto necessario in una famiglia logorata dalla disperazione e dall’ idea di essere vittima di una disgrazia senza uguali?
Una ferita che riprende a dolere quando la madre dice “ chiudi quella porta, Grete, “ ed egli si ritrova di nuovo al buio, immerso in una sporcizia non rimossa.
Sarà l’indifferenza, una quiete domestica ristabilita in sua assenza, la sua cancellazione di fatto ad indirizzarne il lento cammino in una statica assenza definitiva.
Gregor Samsa e’ costretto a rimpicciolire, denigrarsi, dissolversi, insieme alle proprie parole ormai incomprensibili in un tempo che lo ha escluso, incontrando un destino segnato ed accettato, in cui per lui e per l’ insetto che e’ non esiste alcuna forma esprimente.

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68 Opinione inserita da 68    02 Mag, 2020
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Desiderio inconcludente

Che cosa è il danno, oltre quello subito che trasforma il danneggiato in un soggetto pericoloso con la certezza di potere sopravvivere? E perché un giorno, d’ improvviso, un uomo politico cinquantenne, distinto, accurato, competente, affidabile, un buon padre, un buon marito ed un buon figlio, dovrebbe cedere ad una passione che sente inarrestabile, inevitabile, inarrivabile, ad un uragano sensoriale di dipendenza, destinato alla tragedia, ad una sparizione da quel mondo che ci si era creato, ad una agonia di solitudine e sofferenza?
Certo, ci si potrebbe appellare all’ inevitabile, vittime di una vita privilegiata e noiosa, di una normale passività, dell’ abile arte della dissimulazione, semplicemente dell’incalcolabile potere del desiderio, o presunto tale, di un obnubilamento protratto, dell’ imprevedibilità di una passione da sempre sopita in una vita costruita sull’ apparenza.
Ed i propri affetti, il senso della famiglia, la coscienza di se’, la forza dei sentimenti, che cosa sospinge e distrugge tutto il resto in un vortice di amore e morte? E chi è Anna, una musa ispiratrice, una donna danneggiata, una vittima, un’ abile manipolatrice, colei che insegue i propri istinti abbandonandosi a flussi emozionali, un semplice oggetto del desiderio?
Nessuna risposta tra le pagine del romanzo, molteplici dubbi, quesiti inevasi, protagonisti estrapolati ed estraniati dalla realtà, svuotati di passato e presente, indotti e condotti verso un futuro inevitabilmente già scritto.
Ed allora l’idea iniziale ci parla di paesaggio interiore e geografia dell’ anima, domandandosi quale vita si sta vivendo e a chi effettivamente appartiene, chi sono i nostri figli, la proiezione dei nostri desideri o un semplice gioco d’ azzardo, a nostra volta figli assoggettati alla volontà’ di un padre burbero, ignari di quella passione che accompagna la vita e l’arte.
Anna e’ lo specchio di se’, un viaggio cosciente e programmato verso la propria ed altrui distruzione, l’ unica verità che conta davvero. Con lei non si parla di futuro e nemmeno di presente, è sospensione o solo cupa dissolvenza, ed il senso e’ racchiuso in quel mentre, in un’ unica dimensione.
Il dopo ci rammenta che si ama la vita più dell’amore più sacro, avvolti nella propria crudeltà e nel desiderio di sopravvivere e che è impossibile raggiungere la verità di una esistenza.
Nuovi matrimoni, nuove vite, nuovi amori allontaneranno dall’ accaduto ma ancora ci intrappoleranno nel problema inevaso, irrimediabilmente feriti, affranti da un dolore che lentamente si stanca e si addormenta, ma che non muore mai.
Un romanzo claustrofobico e senza sbocco, se non nella riflessione di una vita abortita e nell’ amara constatazione di una distruzione famigliare. Due opposti complementari, una donna danneggiata e perciò pericolosa, un uomo quietamente infelice, ciascuno possiede ciò che l’ altro non ha, in un duplice viaggio estremizzato di ragione ( poca ) e sentimento ( molto ), desiderio e volontà, destino e morte, una tempesta dei sensi senza possibilità di ritorno.

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68 Opinione inserita da 68    01 Mag, 2020
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Dissolvenza

Una famiglia americana degli anni’ 80 in cui tutto pare terribilmente difficile, complicato, indifferente, una famiglia che propone segreti che poi ritratta, genitori e figli appartenenti a generazioni diverse, con una diversa idea di peccato e vite distanti.
Il matrimonio di Nat e Louise non funziona da tempo, sfumato nell’ indifferenza di un amore al capolinea, vissuto come una dittatura, invischiato nella certezza acquisita del tradimento di lui, sfibrato dall’ idea di malattia che dopo vent’ anni continua ad occupare la psiche ed il corpo di lei.
Ed allora quale il senso di una sorte siffatta, adagiandosi sulla polvere di un tempo trascorso nella stessa casa che di anno in anno sembra diventare sempre più sfuggente ed una parte della loro storia.
Cosa non ha funzionato, incompatibilità caratteriali, egoismi protratti, cecità assoluta, opposte visioni del mondo?
Di certo Danny e April sono stati due figli complicati, accomunati da una omosessualità dichiarata, tollerata ma mai appoggiata. I due considerano individualmente la propria affettività, Danny vive con Walter, due avvocati arricchiti e socialmente inseriti che all’ interno della propria stabilità relazionale nascondono lo squallore di un tradimento virtuale a distanza, April è una cantante acclamata investita dai cocci relazionali, una femminista plasmata dalla durezza caratteriale e profondamente sola, una giovane donna che si sente poco amata.
I due fratelli si cercano, si lasciano, si riprendono, accomunati da un passato a tratti condiviso e da una essenza di fondo.
L’ inizio di questa dissolvenza e’ ristretto all’ ambito famigliare e sembra possedere un nome, Louise, una madre ed una donna con segreti celati, immersa nel desiderio di una altra vita e che da vent’anni convive con l’ illusoria e paralizzante idea del cancro, una malattia trasferitasi in casa loro, che vive con loro, siede con loro, e che si è fatta ordinaria, instillando una linea divisoria, un prima e un dopo.
Anche Nat ha la sua dose di colpa, un uomo solo senza grandi qualità oltre la propria materia d’ insegnamento ( l’ informatica ), che possiede un’ anima da guardiano ed un’ amante, di fatto occupato e preoccupato nel mantenere la propria routine.
Ci sarà un poi di nuovo calato in una malattia, questa volta vera, una resa dei conti che pare aprire ai veri sentimenti, quando un altro giorno di vita sarà qualcosa di cui essere felici, con il dubbio di un’ ansia da quietare dietro rassicurazioni apparenti.
Si affronteranno argomenti e verità sconosciute, o sottaciute, si accuserà l’ insensibilità altrui o solo la propria assenza, sprovvisti di qualcosa, senza un passato condiviso e lontani da una intimità vera, un improvviso e nuovo apparato famigliare a compensare il vuoto di una perdita, un equilibrio non sgradevole ne’ strano, solo più facile.
Ecco il primo Leavitt, quello di “ Ballo di famiglia “, che affronta temi a lui cari con indubbia qualità e profondità, di ragione e sentimento, personaggi veri, reali, credibili, molto ben delineati ( in particolare la figura di Louise ) che esprimono il proprio tempo, quell’ universo relazionale in grado di sorreggere e legittimare l’ intero impianto narrativo.
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68 Opinione inserita da 68    27 Aprile, 2020
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Verità cangiante

Il “ Corpo di Jonah Boyd “ ( 2004 ) e’ un romanzo di David Leavitt ( 1961 ), giovane autore elogiato da critica e pubblico all’ inizio degli anni ‘80 grazie ai racconti “ Ballo di famiglia “ e ai primi romanzi classificati in un filone post-minimalista che vede la disgregazione dei valori della famiglia tradizionale all’ interno di una “ Generazione perduta “ nello smarrimento e inconcludenza della edonistica america reaganiana.
La sua opera fa riferimento, agli esordi, a temi forti riguardanti malattia, cancro, aids e più specificamente di identità individuale quale l’ accettazione ed il riconoscimento della propria omosessualità.
Due decenni dopo l’ autore pubblicherà lavori con una definizione più romanzata, tempi e temi saranno cambiati.
Questo romanzo espone intrighi personali e famigliari all’ interno di un mondo accademico piuttosto vago ed autoreferenziale, rifugiatosi nel mantenimento di privilegi acquisiti, scoperchiando un ambito famigliare nebuloso, artificioso, dissolto in un thriller psicologico che prende forma dopo la misteriosa morte dello scrittore Jonah Boyd in seguito allo smarrimento dei manoscritti del suo futuro romanzo.
La voce narrante e’ quella di Judith Denham, segretaria dello psicologo e professore universitario Ernest Wright, una donna amorale che per anni si è’ barcamenata in una serie di ruoli apparentemente incompatibili, segretaria efficiente, amante disponibile, migliore amica della moglie. Judith, enigmatica e perspicace, ha vissuto all’ interno della famiglia assecondandone stranezze e peculiarita’, immischiata in una lotta intestina per il mantenimento e la riacquisizione della dimora di Florizona Avenue, la casa di famiglia, soggetta ad un passaggio di proprietà secondo un discutibile diritto di successione universitaria .
I Wright sembrano mantenere una parvenza di unione domestica per assecondare la mondanità di ricevimenti a forte tasso alcolico ma sono unità distinte, in tutt’altro affaccendate, inseguendo gratificazione personale ( Nancy ) o con fobie alimentari ingiustificate ( Ben ), di sicuro i figli ignorano la storia famigliare.
Il romanzo si divide in due parti, una introduttiva e propriamente relazionale, con riferimento alla festa del Ringraziamento del 1969, quando nella dimora della famiglia Wright saranno ospitati il romanziere Jonah Boyd e la moglie Anna, ed una più intima e strettamente narrativa, inseguendo per trent’ anni il mistero della scomparsa dello stesso Boyd ed il destino di casa Wright.
La sua morte e la dimora di Florizona Avenue diverranno l’ epicentro del racconto, a contorno un universo relazionale descritto mirabilmente e composto da tante unità collegate e distinte.
Un incidente, la scomparsa e l’ appropriazione di un manoscritto, un romanzo verità, la fama letteraria, la misteriosa ricompera di una casa che ricrei la propria infanzia, un amore tradito, una congiura, un accordo sottaciuto, verità e menzogna in attesa di un finale a sorpresa.
Resta la capacità di immergersi e raccontare un sistema complesso, la definizione e vivacità intellettiva di alcuni personaggi, la sottile e sarcastica illustrazione di un microcosmo di intrighi famigliari perversamente normalizzato, la versione personale di una verità cangiante.
La trama, invece, si presenta piuttosto debole, fiacca, scarna, scontata, ed il mistero non propriamente tale per un Leavitt che in questo romanzo ( ma anche nel successivo “ Il matematico indiano “ ) non risplende e pare avere esaurito verve e peculiarità degli esordi.


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68 Opinione inserita da 68    22 Aprile, 2020
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Ispirazione lirica emancipante

Moonstone, Colorado, Il destino di Thea Kronborg, figlia di un pastore metodista svedese, pare indirizzato da subito inseguendo un talento musicale al quale sottoporsi e sacrificarsi.
Thea e’ una ragazza diversa, coltiva strane amicizie con messicani e peccatori, è uno spirito onirico, a soli quindici anni insegnante di musica in un angolo dell’ ovest che vive di opinioni, maniere ed abiti standardizzati.
Al suo cospetto ammiratori e corteggiatori, il dottor Archie, amico e mentore, affascinante ed elegantemente compassato, e Ray, un giovanotto sfortunato che un giorno la vorrebbe sposare, qualcuno con il quale sentirsi al sicuro nella certezza di non essere scoperta.
La sua cerchia famigliare e’ poco comprensiva ma ne riconosce l’ unicità, la madre la considera simile a se’, la zia Tillie adora il suo talento, il padre vorrebbe che cantasse in chiesa, ma Thea è uno spirito libero, combattuta tra il restare ed il partire, convinta che il mondo sia un luogo accogliente, sensazione che presto la abbandonerà.
Sa di essere speciale, sa che la vita viene da dentro e che alla sua età dovrebbe studiare, salirà su un treno diretto a Chicago inseguendo il proprio destino, un grande talento lirico da costruire.
L’ impatto con una città rumorosa e congestionata, la brutalità della violenza e dei flussi che percorrono le strade, la nostalgia per il piccolo mondo rurale in cui è nata scuoteranno i sentimenti di una fanciulla che desidera tornare all’ origine, alle amicizie ristoratrici, a un paese ingenuo e generoso che le dona una forza gioiosa.
Respirerà l’ angoscia del fallimento, due anni a Chicago in cui non è riuscita in niente, una vita lasciata alle spalle, il sospetto di essere costretta a insegnare musica in una cittadina per una vita intera.
Fortunatamente ci sarà altro, un giovane ottimista e innamorato che crederà in lei, un amico sempre pronto ad aiutarla, e sentirà il bisogno di fermarsi, stare sola, riflettere, ritrovarsi, prendersi del tempo cullandosi in concetti piacevoli e incompleti, convertendo la sua capacità di pensare in una sensazione protratta, quella voce amica proveniente dal passato. E un giorno si sentirà pronta a ricominciare, inseguendo il proprio desiderio artistico, combattendo una vita alla mercé della cieca sorte e non di una benefica provvidenza.
Dieci anni dopo, chi la rivedrà sul palcoscenico del successo ( da famoso soprano ) scoprirà una donna diversa, pervasa di una bellezza aggraziata e completamente estranea, e applaudirà il nuovo e meraviglioso, lei stessa riconoscerà la gelosia, la delusione e,il disprezzo della sua nuova dimensione, salvata e percorsa dalle vecchie cose, la luce, il colore, l’ emozione, quella emozione che provava sin da bambina quando era già un’ artista.
La vita di Thea e’ un inno al perseguimento di una eccezionalità da subito indirizzata, tra astio e sospetto, dubbi e tormenti, in una cittadina di provincia dell’ ovest, in un ruolo di donna già definito, in un contesto prosaico lontano dalla bellezza artistica.
Eppure c’è chi, da subito, ne ha riconosciuto il talento, indirizzandola, sospingendola, amandola, anteponendola a se’, pur nelle difficoltà dei cambiamenti e nelle rinunce a venire. Una vita indirizzata al canto, un percorso necessario e doloroso per definirsi nel caos di un presente che sovente finisce con il premiare la mediocrità.
Il raggiungimento del risultato, l’ agognato successo, sarà l’ epilogo naturale di un viaggio obbligato, l’ unico.
E quando un giorno la perfezione della sua voce e dei suoi gesti catturerà l’ attenzione di un pubblico estasiato e silente, in primis delle persone a lei vicine, il dado è tratto; ciò a cui l’ arte mira è talmente distante, profondo e bello che in quei momenti si vive la sensazione di non avere più niente da dire.
Il corposo romanzo “ Il canto dell’ allodola “ ( 1915 ) fa parte di una trilogia con ambientazioni e personaggi diversi sita nelle grandi pianure americane dell’ ovest che vede la recente immigrazione di minoranze etniche ( svedesi e e ciechi ) al centro del proprio narrato.
La vita e l’ ascesa di Thea Kronborg ripercorre la storia del soprano Olive Fremstad ed e’ in parte autobiografica ( nei contenuti ). I temi di fondo, che riguarderanno l’ intera opera letteraria di Willa Cather ( 1873-1947 ), un impianto realistico all’ interno della vita delle grandi praterie, l’ emancipazione femminile, la capacità di rendere il parlato della gente comune, sono alimentati da un lato da un forte legame con la terra natia, dall’ altro dall’ esigenza di inseguire altrove la propria vocazione emancipante, sottolineando l’ antitesi tra un’ origine pura ed onesta e la meschinità ed avidità del dopo.




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68 Opinione inserita da 68    17 Aprile, 2020
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Una vita

Francia, secolo scorso, inizia l’ Odissea di un ragazzo senza nome che un giorno qualcuno chiamerà Felix, completamente solo dopo la scomparsa della donna che l’ha concepito.
Il ragazzo non conosce il significato della parola madre perché mai, nel corso della sua esistenza, lei gli ha narrato una filastrocca e lo ha cullato, eppure oggi ne avverte l’ assenza.
Muto, ignora l’ esistenza di altri uomini, pochissimi i suoi contatti con la civiltà, senza la minima cognizione di anima, eppure in lui qualcosa si schiude, qualcosa che lo interroga e lo disarma.
Un giorno, poco dopo l’ inizio del viaggio, incontrerà degli umani, è allora che vorrà vedere, sapere, conoscere, seguire altre vite, frequentare i suoi simili, divenire uno di loro.
Si donerà, gratuitamente, alimentato da una grande sete di apprendimento e di riconoscimento, ma verrà sfruttato, deriso, allontanato, considerato altro, costretto a fuggire senza una colpa evidente.
Conoscerà il vero senso dell’esistenza, devastazione in quantità e qualche incontro, fino al crepuscolo della vita quando riterrà opportuno separarsene, aspirando nuovamente alla solitudine.
Pochi intimi tracceranno i suoi giorni, Brabek, l’ orco dei Carpazi, un lottatore deforme dal grande cuore che gli parla di lotta e amore e quella che diventerà la sua famiglia, Gustavo ed Emma, padre e figlia. Lui un pomologo belga amante dell’ arte che vive nel doloroso ricordo dell’ adorata moglie Laurie, lei una affascinante e romantica primadonna, insegnante di pianoforte ed aspirante scrittrice; ne diverra’ figlio, amico, fratello, l’ amore di una vita.
Emma non vuole falsare e snaturare la personalità del ragazzo, affascinata dalla singolarità del suo mondo e da una mente che desidera salvaguardare e che vorrebbe continuasse a vivere fuori dai precetti e dalle regole.
I due saranno liberi di gustare l’ essenziale, l’ amore, l’ arte e Parigi, lei dona, lui prende, finiranno con l’ amarsi, perché il loro è certamente amore.
Il ragazzo assapora parole e frasi che risuonano e restano nella sua memoria, le ripete e le riformula a modo suo, muto, incerto: un ...” misero mimo approssimativo “.... Gli manca la parola, parla da solo e senza emettere alcun suono.
Lei è la vita, la sua sola speranza, ed allora Felix vorrebbe che il loro amore durasse per sempre, atteso da quattro anni di pace e felicità, un principio di identità, scalando la montagna della civiltà per raggiungerne la vetta prima della discesa agli inferi.
D’ improvviso la guerra, terrore, solitudine, paura, rimorso, il ragazzo trasformatosi in un Angelo della Morte che uccide all’ arma bianca, mentre il suo mutismo va coprendosi di mistero. Li’, nelle trincee e nei luoghi della battaglia, si sprigionano la violenza più devastante ed il coraggio più vero.
Un giorno, quando tutto sarà finito, imbrattato dalle ferite del corpo e dell’ anima, per riprendere a vivere ci vorranno tempo, pazienza, perseveranza e dolcezza, ma niente sarà come prima, Emma lo specchio sublime, lui un riflesso infame, insieme guarderanno la vita che cambia, il mondo che si trasforma, e si interrogheranno.
I ricordi arrivano e si cancellano, tutto evapora e si dissolve, la moltitudine, l’ umanità intera, la propria umanità, la vita, e per un istante ritornerà la percezione dell’ odore materno mentre ci si rivolge al cielo, di nuovo completamente soli.
Un lungo racconto dalle molte facce quello di Marcus Malte, celebre autore di polizieschi al primo componimento letterario, una prosa elaborata, sovente spezzettata, una trama intessuta da elenchi di fatti storici coevi.
Un incipit che riporta alle atmosfere disperanti di “ Sulla strada “ di Cormac McCarthy per lasciare spazio a connotazioni devianti in romanticismo decadente ed in classiche atmosfere ottocentesche, in particolare nelle relazioni. Senza dimenticare il profondo e crudo realismo bellico pervaso, come tutto il romanzo, da una scrittura tronca, che pare sottrarsi e identificarsi nel prolungato silenzio del ragazzo senza nome.
Una lettura che abbraccia i sentimenti di una vita in una sperimentazione che riporta all’origine, quella solitudine meditata, profondamente diversa dal passato ma ancora condivisa.
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68 Opinione inserita da 68    14 Aprile, 2020
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Il cuore dell’esistenza








Un viaggio a ritroso nella propria infanzia e la constatazione, reale ed amara, che i ricordi e le sensazioni di oggi non sono più quelle di un tempo, ne contengono solamente il guscio, sottratti al proprio stato interiore, scenari diversi scavati nella memoria.
Nel cuore di una Cina trasformista, che vive il profondo contrasto città-campagna, il protagonista tratteggia la propria crescita in due archi temporali ed in due famiglie, allontanato per cinque anni dal nucleo d’ origine.
Un iter temporale scandito dai ritmi interiori e della natura ( “ nacqui nella stagione in cui si taglia il riso “ ), la consapevolezza di non vivere sulla terra, ma in un tempo che sospinge avanti o riporta indietro trasformando il proprio aspetto.
La vita è un fiume pulsante che scorre imperturbabile ingoiando il presente, amici, parenti, compagni di scuola, conoscenti accompagnano una ridda di sentimenti, una educazione sentimentale che ha forgiato sensazioni indelebili, visi, profumi, immagini che un tempo parevano insipide ed oggi prevedono una lettura diversa, sensazioni uniche sospese nell’io più profondo.
Ecco susseguirsi, in un tempo dilatato che segue la logica del ricordo, amicizie vere e presunte, la bellezza crudelmente esposta, appassita, caduta e dispersa, l’ importanza di fantasia e speranza, il senso del tempo, vita e morte, gli incomprensibili comportamenti degli adulti, il giocoso ed immaginifico universo infantile preventivamente sottratto alla proprio destino o ad esso irrimediabilmente indirizzato, il ritorno all’ infanzia alle soglie della vecchiaia accompagnati da un senso di pacificazione.
C’è una lentezza, costante, inesorabile, onnipresente, l’ arrestarsi di immagini tra gli avvenimenti, una concezione temporale diversa, oggi, la constatazione del protagonista di essere stato poco amato se non in alcuni momenti, ma anche che ciascuno ha lasciato delle gocce indelebili nella memoria.
C’è una vita semplice nel proprio manifestarsi e crudelmente esposta al ciclo stagionale della campagna, a fame e carestia, dettata da ritmi e tradizioni secolari, strani accadimenti, superstizioni obsolete, ma anche la vivacità ed istintualità di un piccolo mondo infantile rarefatto, nel quale i gesti assumono contorni e forma .
C’è una vita che non ha altro significato se non il continuare a viverla ed un destino comune, parte di un tutto, nelle lacrime di un bufalo che sta per essere sgozzato e che cadono sul fango come gocce di pioggia durante un temporale.

... “ la vita, di fronte al proprio annientamento, appare piuttosto restia ad abbandonare il passato, l’ espressione del bufalo non era soltanto di dolore, era una sorta di disperazione, i suoi occhi si erano arrossati, quel suo rinunciare con umiltà alla vita, morendo senza opporre alcuna resistenza, palesava ai miei occhi una inquietante visione frantumata “...

Questo il mondo di Yu Hua, un microcosmo di sensazioni vivide scandite da un moto perpetuo, armoniosa presenza in un caos apparente che coglie e fissa sensazioni che furono trasformandole in sentimenti, attimi eterni di un’ esistenza pulsante.

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68 Opinione inserita da 68    10 Aprile, 2020
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Sintesi personale ed artistica

Sadek Hedayat (1903-1951), figlio d una famiglia aristocratica e morto suicida a Parigi, è stato uno dei massimi intellettuali iraniani del secolo scorso, scrittore, poeta, saggista, traduttore, amante e conoscitore della cultura persiana ma anche della letteratura occidentale ( Dostoievskji , Kafka, il simbolismo ed esistenzialismo francese ) oltre che dell’ India alla quale si avvicinerà grazie alla cultura buddhista.
“ La civetta cieca “ ( un testo pubblicato in India nel 1936 e censurato in patria ), pietra miliare della letteratura persiana moderna, per la prima volta tradotto in lingua italiana dal persiano, e’ una sintesi del suo pensiero, un viaggio agli inferi di una mente sofferente, ma assai lucida, sottratta a se’, in uno stato di sospensione tra la vita e la morte, un animo rivolto ad una lettura interiorizzata ( secondo precisi influssi buddistici ), che allontana dogmi e precetti religiosi fuorvianti, ma che ama profondamente la cultura più alta, la storia e che cerca di recuperare le tradizioni secolari e le leggende della sua terra natia.
Ma e’ anche un viaggio carnale e passionale nella rappresentazione di un mondo che ritrae la meschinità umana ed i suoi vizi, rivolgendosi ad una idea di modernità che superi oltranzismo religioso e dogmi imperanti in patria spingendosi oltre le ideologie totalizzanti nascenti in Europa per aprirsi ad una contaminazione culturale che svela l ’ambivalenza esistenziale.
Di certo Hedayat, definito il Kafka persiano, è uno scrittore assai peculiare e contaminato, con una prosa dirompente, lirica, tratti surrealistici e gotici, un esistenzialista con toni di romanticismo decadente, di certo la sua lettura è complessa e non lascia indifferenti, un viaggio in un mondo di forti contrapposizioni, tra oriente ed Occidente, un tentativo di sintesi di culture diverse, onirico e carnale, trasfigurato e tenebroso, di difficile definizione e collocazione.
Il protagonista del racconto è un miniaturista rinchiuso nella propria stanza, lontano dal volgo, intento a dipingere astucci di portapenne, imbevuto di oppio ed alcool allo scopo di stordirsi e passare il tempo, pervaso dall’ apparizione e dalla morte ( di cui si sente responsabile ) di una creatura soave ed evanescente di nero vestita.
È l’ inizio di un altro viaggio, interiore, tormentato, dolente, lontano dall’ affannarsi vago della gente comune, per non confondere realtà ed immaginazione, impegnato a spiegare tutto alla propria ombra proiettata sul muro che è la sola a conoscerlo e a comprenderlo.
Sente l’ esigenza di scrivere e raccontare la sua storia ma non sa da dove cominciare, spezzato ogni legame coi vivi, passato, presente, futuro, ore, giorni, mesi, anni, tutto è uguale.
Ecco ll’ identificazione e la trasfigurazione protagonista-scrittore, in una rappresentazione autobiografica, una vita che ha conosciuto solo la stagione fredda e buia, un corpo che ha sempre bruciato di una fiamma che lo consuma, un cammino usurante che riprende il suo corso, la paura della morte che non lo abbandona, la constatazione che religione, fede e credo risultino deboli ed infantili di fronte alla morte.
Non riesce a percepirsi, privo di legami con il mondo dei vivi e senza trarre giovamento dall’ oblio e dalla quiete del mondo dei morti.
Una morte che lo chiama dal profondo della vita e l’ attira a se’, quella vita fredda ed incurante che un giorno svela la sua maschera, una o tante che siano.
I giorni gli appaiono innaturali, incerti, inesplicabili come i personaggi sul portapenne, i suoi pensieri sconnessi, voci mescolate ad altre, ridendo della follia generale.
Numerosi volti circostanti, il macellaio, il rigattiere, la tata, la sgualdrina, gli unici suoi legami con il mondo esterno, costretto a letto da una malattia, innamorato di una moglie che non ha mai posseduto, che si concede a tutti tranne che a lui, volti esistenti ma che non gli appartengono.
Vagherà in una città piena di volti e senza volto per ritrovarsi nella propria stanza, ancora una volta, rimuginando su solitudine e sofferenza, verità e menzogna, sospeso tra la vita e la morte, il se’ e la percezione di se’, in un inevitabile ed inesplicabile processo di decomposizione fisica e mentale.

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68 Opinione inserita da 68    08 Aprile, 2020
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Passato inquietante, presente incerto, quale futur


Una storia dalle molte altre storie ha inizio in un giornata di ottobre del 1999, a Roma, poche parole...” mi dispiace dirglielo, dottor Carrera, ma il suo matrimonio è finito da un pezzo “...
È la storia di Marco Carrera, il colibrì, piccolo, aggraziato, da sempre fermo nello stesso luogo mentre gli avvenimenti gli piombano addosso, una vita indubbiamente fatta di sofferenza e di una indecifrabile resilienza.
Pare la fine e l’ inizio di un flusso di coscienza affannoso ed ansiogeno che stenta a ricomporre i cocci di una vita contorta, imbevuta di un ambiente borghese egocentrico, indifferente ed autocelebrativo, anaffettivo , imbrattato di psicanalisi e di insensatezza.
Una vita a lungo implosa, poi esplosa, costruita su carriera e solidità economica, in cui non ci si è accorti di nulla, di due genitori che non si sono mai amati, della indicibile sofferenza di una sorella, del proprio immobilismo silente e delle colpe indebitamente attribuite al fratello Giacomo, di un amore a distanza più volte perso e ritrovato, imbrattato di un ideale giovanile, di desiderio o semplicemente di gelosia, di un matrimonio ( il proprio), costruito sulla menzogna con strascichi di sofferenza, dell’ amore di una figlia prematuramente scomparsa, di tradimenti o presunti tali, di amicizie devianti e pericolose, di viaggi tortuosi, di tutto quello che non è stato.
Ecco la rappresentazione di sessant’anni anni di vita, si direbbe, l’ inseguimento di un senso all’ interno di una catastrofe annunciata, uno status quo che pare irrimediabile, indirizzato dal caso, dalla famiglia, dalla propria noncuranza.
Ormai, tra lettere, tracce significative, sedute di psicanalisi, delusioni, distacchi, lutti, partenze definitive, non resta che una ricerca per legittimare la propria vita e permettere a Marco, riconosciuto ed estirpato il passato, di vedere il futuro e di acquisire un senso.
Il futuro ha un volto preciso, è un condensato di passato e presente, è Miraijin ( in giapponese uomo del futuro ), sua nipote, superstite a lui affidata, che ha ereditato le esperienze del passato sintetizzandole in un futuro radioso, concentrato di grazia esteriore e bellezza interiore, di forza e perseveranza, di umanità e concretezza, filosofica presenza.
Da sempre Marco ha impersonato il colibrì, perlomeno così definito da altri, concentrando la propria energia nell’ immobilità e nel rimanere dove già e’, ma oggi non è più così.
Ora ha una missione da compiere, allevare l’ uomo nuovo, Miraijin, la sua vita uno scopo come tutte le dolorose vicissitudini che l’ hanno segnata, nulla gli e’ capitato per caso.
Il suo corpo, esploso così rapidamente, ha saltato l’ adolescenza dimostrando una plasticità ed una resilienza che in futuro l’ avrebbero aiutato a sopravvivere.
Marco ha trattenuto un piccolo mondo fragile che senza di lui si sarebbe dissolto, una vita che ha sempre continuato a stare ferma per anni mentre quelle degli altri andavano avanti, per essere improvvisamente sbalzata da un evento eccezionale in un altrove nuovo e sconosciuto.
Tutto, all’ improvviso, diventa chiaro, il dolore ha forgiato il nuovo mondo, i ricordi, il passato, il futuro, e lei, Miraijin, il nuovo, cui affidarsi ed abbandonarsi per sempre, liberato da una sofferenza fisica e morale.
Il romanzo di Sandro Veronesi è un turbine vorticoso di accadimenti, emozioni, sensazioni, citazioni letterarie e musicali, il protagonista un sopravvissuto ad un mondo borghese catastrofico e catastrofista paralizzato da paura, snobismo, cattiveria, vizio, noia, malattie incurabili, disgrazie, giuoco d’azzardo, incanalato in un inevitabile giogo psicoanalitico prevalentemente al femminile che impregna pagine e pagine e coinvolge tutti i protagonisti, chi più e chi meno, terrorizzando il lettore con le ripetute comparse del dottor Carradori, psicologo onnisciente che ha lasciato la professione e da un destino particolarmente iellato e sconfortante che parrebbe condurre all’ autodistruzione.
Ecco però una luce in fondo al tunnel, Miraijin, l’ uomo nuovo, creatura fantascientifica, un po’ Manga, onnicomprensiva, bellissima, una carta assorbente con poteri extrasensoriali, a dissolvere il catastrofismo imperante indirizzando la vita ad un futuro di speranza, radioso, profondamente umano, ribaltando e contravvenendo le innumerevoli storie e spezzoni di storie narrate, e ponendo il lettore di fronte ad un oggettivo dubbio: quale il senso?

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68 Opinione inserita da 68    04 Aprile, 2020
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Piccole donne crescono





“ Le piccole donne “ di Marcela Serrano nascono e crescono nel Cile degli anni ‘50 e ‘60, ma forse le norme a cui hanno dovuto sottostare non sono così diverse da quelle che hanno condizionato le sorelle March nella seconda metà dell’800 a Concord.
Nives, Ada, Lola, Luz, cugine con un destino che le ha trasformate quasi in sorelle, ciascuna concepita per essere e vivere in solitudine, una saga famigliare costruita attorno alla casa del Pueblo, dove sono cresciute, ed alla segheria custodita dalla zia Casilda, motore, riparo, collante, sostegno delle loro vite.
Anni dopo sono disperse in giro per il mondo, all’ inseguimento di un ideale, alla ricerca di se’, per sfuggire ad un passato doloroso o per motivi strettamente politici, dopo la stretta dell’11 settembre 1973, un giorno che ha cambiato le loro vite e quelle del paese.
Una data spartiacque tra passato e futuro, niente più come prima, anche nel privato, e l’ estate del ‘73 sarebbe stata l’ ultima condivisa al Pueblo, il cugino Oliverio nelle mani dei militari, Ada emigrata all’ estero, Lola impegnata giorno e notte per potere studiare, Luz partita per l’ Africa, per Nives il matrimonio come unico raggio di sole.
Tre continenti a separarle, rapporti apparentemente flebili, sullo sfondo sempre l’ amato cugino Oliverio, avvocato di successo trasferitosi in America, e la speranza un giorno di un ritorno nella idealizzata località del Pueblo, dove tutto ebbe inizio e si fermò, parecchi anni prima.
L’11 settembre segnera’ momenti decisivi per vicende patriottiche, internazionali e personali, avvenimenti traumatici scanditi dal ritmo di anni difformi.
Un’ unica storia, quattro storie, un filo comune, impercettibile, vite altrove connesse dal flusso della memoria, da questioni fondamentali irrisolte, dal dolore della perdita, da ferite insanabili, dal mistero di una violenza, di un tradimento, da vendette personali.
Nessuna resa dei conti, fino alla fine, per tanti anni, un solo senso di appartenenza, in un luogo, in un tempo, nel respiro della giovinezza, quegli anni ‘ 60 e ‘ 70 in cui sentirsi padrone del mondo, un mondo che credevano sarebbe stato infinito.
Nives, la più grande, sposata con quattro figli, innamorata dell’ idea della maternità, ha svolto un ruolo da intermediaria con le cugine senza possedere talenti, meno intelligente di loro e con un senso di inferiorità. Il matrimonio l’ ha estromessa dalla tribù, oggi dubita di una vita sacrificata, che ha anteposto gli altri a se’.
Ada, nubile, molto poco femminile, così’ lontana dal concetto di vanità delle cugine, la preferita della zia Casilda, un presente poco significante, ha girovagato per il mondo, sopravvissuta a relazioni fragili ed inconcludenti, vittima di violenza fisica, della vendetta di Lola, per rifugiarsi in un mondo letterario cura e riparo da una realtà invivibile che non le appartiene, apolide ma con un forte desiderio di casa, ed il terrore, un giorno, di diventare una scrittrice.
Lola, bellissima, spavalda, illimitata, pittrice mancata, oggi è ricca, ha fatto i soldi nel mondo della finanza, inseguita dalla fragilità dei propri sentimenti e dal desiderio di un amore. Sarà un avvenimento improvviso, scioccante, a trascinarla in un baratro di riflessione sul valore dell’ esistenza. Un ex marito, figli, un amante, tutto oggi pare rimesso in discussione, un passato che comincia a turbarla, i valori che l’ hanno accarezzata scomparsi all’ interno di un mondo autoreferenziale che si è limitato ad accumulare possedimenti, ma il futuro può indirizzarsi diversamente.
Luz, la più piccola, estranea ai tratti effimeri delle cugine, bellezza, talento, amore, ha scelto la bontà, curandosi in una missione umanitaria nel cuore più povero del continente africano per spezzare quella paura della povertà che aveva ereditato nella brevità di una vita segnata dalla propria essenza.
Queste le “ Piccole donne “ di Marcela Serrano, accorse in una stretta finale dai risvolti imprevedibili, la nostalgia elevata a potenza poetica, tra testimonianze di un tempo irreversibile in cui tutte vivevano in uno stato di grazia mentre la sera si acquieta nella fiducia delle sostanze vive.
Un romanzo di relazioni e sentimenti, intensamente femminile, che racconta di intimità violate e sogni indomiti, di forza resiliente, fragilità nascoste, allontanamenti obbligati, di un desiderio di amare ed essere amate, con sottili venature psicologiche, sullo sfondo un paese alle strette, che porterà per sempre il dolore dei morti ammazzati, ma che pare lontano, sopraffatto dal turbinio personale e relazionale delle protagoniste, che inscenano spezzoni di vite romanzate.
Le voci del passato si affievoliscono in un reale immaginato che non possiede la forza espressiva di narrare e trasmettere una storia tanto vivida e crudelmente esposta, privilegiando i temi personali e famigliari di crescita e maturazione propri del celebre romanzo di Louisa May Alcott.

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68 Opinione inserita da 68    31 Marzo, 2020
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Il labirinto linguistico

In “ Potere alle parole “ l’ autrice Vera Gheno ( sociolinguista, collaboratrice dell’ Accademia della Crusca ed ottima traduttrice ) considera la lingua italiana scritta e parlata come una creatura viva e pulsante, tra passato e presente, intrisa di labirintiche inflessioni grammaticali e sintattiche, dialetti, neologismi, influssi letterari, contaminazioni esterofile, latinismi, grecismi, acronimi, etimologie, una materia complessa trattata con acuta leggerezza .
L’ incipit e l’ epilogo convergono nel definire la conquista delle parole, e quindi della padronanza linguistica, un grande dono ed un atto di libertà, una maggiore consapevolezza di se’ e del mondo circostante.
Le funzioni basilari della lingua, definire se’ stessi, descrivere il mondo, comunicare con gli altri, ci ricordano quanto le parole scelte parlino di noi, della nostra essenza, quanto la realtà influenzi la costruzione di una lingua e la lingua determini la realtà ed esprima la condizione della socialità umana.
Ma che cos’è una lingua se non un codice condiviso soggetto ad una norma linguistica, un insieme di convenzioni e regole?
Esistono due approcci alla norma linguistica, prescrittivo ( che prescrive un comportamento basandosi sulla storia della lingua, l’ etimologia delle parole, le radici, ) e descrittivo che funziona al contrario ( la descrizione della lingua come viene usata ), una norma complessa e mutevole, che corrisponde a ciò che viene percepito come giusto in uno specifico momento storico e sociale.
La lingua è aperta, lontana da qualsiasi espressione autarchica ( pensiamo al fascismo con le sue legiferazioni ), in questo senso l’Accademia della Crusca si pone come garante della stessa, osserva, studia, registra, consiglia ma non impone.
La storia della Lingua italiana cammina con la storia del paese e delle sue contaminazioni, nacque con Dante e conobbe settecento anni di stasi, ( ricordiamoci che lo stesso Manzoni con i suoi amici intellettuali si esprimeva in francese ), dopo l’ unità d’Italia divenne una vera e propria lingua da insegnare, con innumerevoli forme dialettali non espressioni collaterali, ma lingue vere e proprie con precisa circoscrizione geografica anche se molto lontane dall’ italiano. Nel dopoguerra l’ uso di una lingua comune determinerà una sua semplificazione ( pensiamo all’ uso dei verbi e dei congiuntivi ) e la televisione sarà un vero e proprio veicolo di diffusione linguistica.
Ai giorni nostri sembra essersi impoverita, soggetta a contaminazioni, inglesismi, acronimi, ad un linguaggio social veloce, scarno, senza punteggiatura, quasi che il parlato e lo scritto siano parificati.
Di certo una lingua esprime ed e’ calata nella realtà, ha una sua utilità, è espressione del proprio tempo, descrive il presente, ha una funzione sociale, comunicativa, ed i neologismi ne sono parte integrante ed imprescindibile per mantenerla in vita.
Ma essa è anche altro,va al di là della semplice comunicazione, è ciò che dà coscienza individuale, è lo strumento che sedimenta la cultura in cui ci siamo formati, la lingua è potere.
Come scrisse Antonio Gramsci nel 1916:

.. “ cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di se’ e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri “..

Una corretta comunicazione è simbiosi tra forma e contenuto, curiosità per le parole e le loro minime variazioni, per il senso etimologico, e’ amore per le lingue, mondi e visioni diversi, non solo suoni e segni diversi.
Per accedere a questo mondo è imprescindibile amare la lettura in tutte le sue declinazioni, anche se faticosa, soggetta a tempo e silenzio.
E scrivere diventa una necessità, per sospendere i pensieri, razionalizzare le percezioni, esprimerci diversamente dal semplice pensiero “ pensato “. Persa la capacità di scrivere, perderemmo anche la possibilità di pensare meglio.
L’ autrice propone l’ adozione di tre parole chiave che ci accompagnino nel cammino della vita ( e quindi della parola e di ogni forma comunicativa ): dubbio, riflessione e silenzio. Probabilmente dovremmo chiederci se queste siano solo l’ inizio o l’ esito di un processo conoscitivo.



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68 Opinione inserita da 68    28 Marzo, 2020
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Discesa agli inferi

Un enorme grattacielo nel cuore metropolitano a simboleggiare una piccola città, duemila abitanti incastonati nel cielo, tre classi sociali distinte secondo uno sviluppo verticale, un’ organizzazione vitale che insegue lo spazio, la luce ed i piaceri connessi ad una sfumata, sottile, forma di anonimato.
Il grattacielo è un’immensa macchina non collettiva ma individuale, un punto di arrivo per sfuggire ad ogni genere di rapporto.
I suoi abitanti rappresentano il nuovo modello esistenziale di fine secolo, caratterizzato dal rapido avvicendarsi delle conoscenze, dallo scarso coinvolgimento degli altri, dalla totale autosufficienza di una vita che, non avendo bisogno di nulla, non può patire delusioni.
Più’ la vita, li’ dentro, si fa arida ed anaffettiva, maggiori sono le possibilità offerte, a rappresentare il perfetto modello d una tecnologia espressione di una psicopatologia autenticamente libera.
Vivere qui richiede un comportamento acquiescente, controllato, forse anche un po’ folle, nel grattacielo uno psicotico si troverebbe a suo agio.
Vi risiedono un insieme apparentemente omogeneo di professionisti ad alto reddito strutturati in tre aree disunite ed ostili, con una distinzione sociale classica, qui potere, capitale, egoismo sono di casa.
Che cosa accadrebbe se un giorno, improvvisamente, questo status quo venisse azzerato e capovolto, se un blackout di alcune aree condominiali annullasse distinzioni e privilegi, se anarchia ed autarchia prendessero il sopravvento, in un realismo fatiscente e spudorato?
Nuovi equilibri, un caos organizzato, il tentativo di preservare la “ specie “ e una lotta senza confini per la sopravvivenza, scalando il grattacielo, difendendo i diritti acquisiti, scoperchiando tutto il marcio da sempre presente. Feste di ubriachi, risse, saccheggi negli appartamenti vuoti ed aggressione agli inquilini isolati.
Il blackout andrà espandendosi, rendendo la vita impossibile, un’ erosione lenta e costante, una valanga psicologica verso il basso, coinvolgendo direttamente gli inquilini dei piani alti, in un sovvertimento dove abbondano torture, atrocità, anarchia, una guerra di una civiltà dissolta, isolati dal mondo esterno divenuto un’oasi di pace, mentre qui imperano violenze notturne, pareti coperte di slogan, oscenità e liste di appartamenti da devastare.
La separazione del grattacielo dall’ esterno segnerà una nuova era, senza alcuna struttura sociale, con la dissoluzione dei clan, inscenando piccoli gruppi di assassini e cacciatori solitari.
Esso conserva un assetto immodificato, da’ ancora protezione e sicurezza, i suoi inquilini continuano a produrre grandi quantità di rifiuti, ma va affermandosi un nuovo ordine e tre ossessioni: sicurezza, cibo, sesso.
La sera il condominio si chiude in se stesso, buio e silenzioso, come se tutti oltrepassassero una zona di confine, la notte per sfuggire al terrore ci si rifugia nel proprio appartamento.
Si potrebbe affermare che qui la vita comincia ad assomigliare a quella del mondo esterno: le stesse crudeltà e violenze celate entro una serie di cortesi convenzioni e, paradossalmente, nella dissoluzione più estrema, la meta finale è la costituzione di un regno in cui gli impulsi devianti siano finalmente liberi di manifestarsi.
“ Il condominio “ presenta una visione dissolta e distopica di una società corrotta, marcia, amorale, un luogo costruito per l’ assenza dell’ uomo in sua presenza, esito della volontà onnipotente di colonizzare il cielo, mentre il bieco e maligno pettegolezzo demonizza gli inquilini dei piani superiori ed una nuova organizzazione individuale considera affetti, emozioni, preoccupazioni come mostri di insensibilità ed indifferenza.
In verità tutto e’ già presente nella premessa, un modello di socialità asociale pronta a rendere possibile l’ impossibile, a trasformarsi in un incubo, tratteggiando protagonisti diversamente uguali, scene paradossali e tragicomiche, un eccesso che ne è’ il limite estremo.

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68 Opinione inserita da 68    26 Marzo, 2020
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Poesia terrestre

Nella terra d’ Islanda il mare è freddo e tetro, un mostro gigantesco che non riposa mai, ma anche azzurro e di grande bellezza, il suolo non del tutto innevato, una lastra di ghiaccio, la luce in grado di entrarti dentro e trasformarti in un poeta, i monti alti e scoscesi richiamano la pioggia e cancellano interi villaggi ma possono essere accoglienti, una mano protettiva che abbraccia le barche avanzanti nel fiordo.
In questo paesaggio crudo ed essenziale, in un giorno ed in un tempo indefiniti, forse la seconda metà dell’ 800, due amici, un ragazzo senza nome ed un uomo con un libro sottobraccio ( il “ Paradiso perduto “ di Milton ) salgono a bordo di un peschereccio, uniti dalla propria amicizia e dall’ amore per libri e parole.
Il ragazzo segue lo sguardo dell’ amico, vuole realizzare qualcosa in questa vita, imparare le lingue, vedere il mondo, leggere mille libri, arrivare all’ essenza delle cose, qualunque essa sia.
Ma solo le preghiere ed il buon senso sono in grado di proteggere uomini che si spingono al largo e, nonostante il potere delle parole possa cambiare il mondo, consolarci ed asciugare le nostre anime, esse da sole non bastano.
La forza della tempesta e del mare in burrasca si riprende quello che ci ha donato ed una banale dimenticanza, inseguendo parole necessarie per vivere, strappa una vita gettandoci nella disperazione più nera.
Ed allora la lettura di una poesia può portare all’ assideramento, un semplice indumento mancante, una cerata, diviene il confine tra la vita e la morte, mentre si pronuncia un semplice verso: “ nulla mi delizia più di te “.
Ecco la disperante necessità di un nuovo viaggio, a ritroso, attraversando la valle e la notte nera, un libro da restituire, il ricordo vivido dell’ amico caduto, l’ unico amico, desiderando stare lontano da una campagna che custodisce la maggior parte della propria infanzia, sogni inevasi e rimpianti di una vita consumata lontano da un mare fulcro dell’ esistenza, dimora dei ritmi mortali.
Che cosa rende i giorni degni di essere vissuti, gioia, felicità, amore appassionato, una triade che ci rende uomini giustificando l’esistenza e rendendola più vera.
Consegnato il libro il ragazzo deve decidere se vivere o morire, morire sarebbe molto più facile, vivere decisamente più complicato. Ciò che aveva condotto alla morte può rinascere nella memoria e spingere ad un desiderio di vita, inspiegabile, toccante, consolatorio.
Le parole accompagnano e rappresentano il ragazzo senza nome, sono tutto e niente, una esistenza, il suo ricordo, ma sono l’unica cosa che possiede, in una terra che è una lotta continua per tenere il freddo a distanza.
L’ esistenza è talmente complessa, un tempo le cose erano molto più semplici, oggi a volte gli sembra di trovarsi all’ interno di un romanzo, mentre in una locanda, salvato da due donne vivaci e lungimiranti, che lo ascoltano e che sovente non comprende, narra la propria storia ad un capitano cieco che ha perso tutto se non l’ amore per il mare e la poesia e che possiede una libreria di 400 libri che qualcuno gli leggerà, in attesa di rispondere a domande che riguardano il vero senso della vita, domandandosi che cosa essa sia, una risposta implicita nella domanda, nello stupore che essa cela in se’.
Un romanzo di un autore contemporaneo, nato come poeta, figlio della propria terra, a metà tra la tragedia ed il romanzo di formazione, con una voce esterna narrante, bellissimo per poetica, forza espressiva, crudeltà e profondità dei sentimenti, in una fusione di elementi, il mare e la poesia, mai così contrapposti e complementari, e mai così vivi, tratti epici e mitologici, vibranti e fragili, senza risposte evidenti, espressione di una caducità che respira la misteriosa essenza del vivere.
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Romanzi storici
 
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68 Opinione inserita da 68    22 Marzo, 2020
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Scuola di vita

Nella postfazione di Abigail ( 1970 ), destinato ad essere tra i romanzi più amati d’ Ungheria, divenuto anche un film per la televisione, Magda Szabo ci dice che l’ opera e’ una dimostrazione che non esiste una comunità che non venga toccata dalla guerra e solo secondariamente la vicenda di una scuola confessionale femminile al tempo di Hitler. Allo stesso tempo in ....” Abigail ho scritto tutto quello che io, che ero stata testimone e coeva, avrei dovuto fare, ed invece ero rimasta solo una osservatrice con un senso di colpa...”
Parole indispensabili per comprendere l’ essenza del racconto, laddove parrebbe un romanzo autobiografico di formazione all’ interno di vicende intrafamiliari e collegiali.
Autunno 1943, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale la quindicenne Georgina Vitay, appartenente all’ alta società di Budapest, orfana di madre, figlia di un generale della esercito ungherese, viene improvvisamente allontanata da casa alla volta di un collegio religioso, Il Matula, lei che ha sempre frequentato una scuola statale. Viene privata di tutto, della sua vita, degli affetti più cari, l’ amata istitutrice francese Marcelle, la zia Mimo’, il tenente Ferì Kunts, di cui è innamorata, ma soprattutto del padre, un uomo che le assomiglia come una goccia d’ acqua, con cui ha un legame appassionato e vicendevole.
Perché’ una educazione migliore? Offesa ed abbattuta dietro il suo educato silenzio, poche parole, un minuto per i saluti, una destinazione sconosciuta, senza un tempo stabilito, un perché, la promessa di badare a se stessa come se fosse già adulta, forse l’ amore del padre per un’ altra donna.
Il passato è cancellato, perdendo anche gli ultimi ricordi della sua vita, trasformata in uno spaventapasseri, ignara del mondo esterno, abbandonata in un muro quadrato, l’ istituto più severo di tutto il globo terrestre, il Matula.
Qui esistono regole infrangibili, una educazione rigorosa, non c’è tempo per l’ ozio, per pensare a se’ ed alle proprie disgrazie, il nemico e’ l’ ignoranza, i contatti con l’ esterno distillati, il collegio l’ ombelico del mondo, immerso in colori uniformi, il bianco ed il nero.
Il proprio padre, alle prese con problemi di rilevanza nazionale in una vita assai difficile, non va disturbato, ma bisogna pregare anche per i soldati al fronte.
Ai suoi occhi, in quel mondo tozzo e severo, dove ci sono solo oggetti di prima necessità, letto tavolo, sedia, manca la bellezza, la abituale armonia.
Attorno a lei, istitutori, insegnanti, alunni, molteplici storie, tutte racchiuse li’ dentro, in quel fortino murato, ignari di quello che fuori succede. Zsuzsanna, Konig, Kalmar, Mici Horn, Mari Kis, Gedeon Torma, Banki, e poi Abigail, una bella opera neoclassica della fine del diciottesimo secolo, una statua simbolo che sorride, compie dei miracoli, il cui segreto va mantenuto ed a cui rivolgersi nei momento del bisogno.
In questa situazione, non potendo chiedere aiuto a suo padre, ne’ essere accettata in alcun modo dalle compagne, in un isolamento protratto, a Georgina pare impossibile sopravvivere e non le resta che il desiderio di fuga.
In suo aiuto una verità necessaria, sottaciuta, distante ma tremendamente vicina e così importante da cambiare il senso di una vita che pare sacrificata, sigillata nella propria plumbea, impotente tristezza.
Ed allora la prigione diviene rifugio, non ci si sente più sole, c’ è un segreto da mantenere, qualcuno che veglia e si prende cura di noi, che ci trae in salvo, anche se non lo glielo si chiede e si dubita di lei. E c’è chi ha potuto accomiatarsi dalla vita nella certezza che la nostra è al sicuro.
Tante volte, anni dopo, Georgina avrebbe pensato alle esperienze ed ai momenti che le avevano regalato quell’ inverno e quella primavera, la vita all’ interno del fortino, ad Abigail, che l’ aveva resa partecipe della risoluzione di sorti umane, più importante delle regole, ed al generale, che le aveva indicato una prospettiva più ampia di quella che una ragazzina allora quindicenne, che non era personalmente in pericolo, notava, o poteva notare.
La guerra, di cui li’ dentro non si poteva parlare, era presente nel profondo del proprio inconscio, non c’ era ragazza che non avesse qualcuno al fronte, ma tra le matuline non c’ era alcuna che si interrogasse sulla sua origine e fine, mentre Gina sentiva il peso di avere una visione limpida della situazione.
In verità
...” gli avvenimenti più importanti della vita di una persona accadono nella maniera più strana ed inaspettata “.... e
....” abbiamo già perso la guerra, appena e’ cominciata, è cominciata con un fine sbagliato, con mezzi sbagliati, una guerra che non avrà caduti eroici, ma solo vittime “...

Magda Szabo racconta ...” Abigail divenne un successo nazionale. Nemmeno per un attimo credetti che fosse merito mio personale. Semplicemente l’ Ungheria, con la maniera in cui l’ aveva accolto, aveva votato contro Hitler, contro la guerra e il fascismo, e a favore di coloro che avevano anche fatto qualcosa, non erano solo rimasti ad osservare, terrorizzati e schifati, come una scrittrice molto giovane, che scrittrice ancora non poteva definirsi, la quale aveva immagazzinato il materiale grezzo da costruzione: i ricordi.
Non solo un individuo, ma anche un paese può avere una reazione ritardata “....

Un racconto vivo, potente, essenziale, con tratti enigmatici ed una trama avvincente, immersa in quel immenso dolore che da personale diviene più grande, desolatamente nazionale e mondiale, oltre i limitati confini della vita e della scuola di vita di un semplice istituto.



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68 Opinione inserita da 68    21 Marzo, 2020
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Viaggio verso casa

L’ epilogo dell’ enciclopedica opera di Karl Ove Knausgard, ultimo capitolo in tre parti de “ La mia battaglia “, “ Fine “, sembra ricondurci all’ inizio, così tanto di irrisolto ed ancora da raccontare.
I primi volumi stanno per essere pubblicati, migliaia di pagine in cui l’ autore espone una vita calata nell’ asprezza dei fatti, riportando i nomi reali della propria famiglia, manoscritti inviati a parenti ed amici e da alcuni rigettati al mittente, in primis dallo zio paterno Gunnar che minaccia le vie legali e disconosce la versione di “ La morte del padre “, accusando il nipote di menzogna, plagiato dall’ odio materno verso la famiglia Knausgaard.
E poi c’è la moglie Linda, madre dei suoi tre figli, una scrittrice evanescente, tanto profonda e sublime quanto tormentata e umorale, schiacciata della propria inclinazione maniaco-depressiva ( con ricoveri annessi ) che annulla ogni suo desiderio destituendola dal ruolo di madre.
Come reagirà al tradimento narrato da Karl Ove e al suo spietato giudizio su di lei ( assente, incostante, irresponsabile, di nessun aiuto domestico )?
Restano i dubbi su se stesso ed il proprio passato, sulle verità rivelate, forse distopiche, su maturità e valore umano, su retaggi infantili protratti, sulla paura degli altri, su un privato complesso e da definire connivente con una fragilità evidente.
Ma oggi Karl Ove ( perché mentre sta scrivendo quest’ ultimo volume i primi sono già stati pubblicati ) vive la consapevolezza di essere uno scrittore quarantenne di valore e fama che ha raggiunto il proprio sogno adolescenziale.
E poi c’è un presente di padre che lotta nel quotidiano manifestarsi di esigenze affettive ed essenziali, occuparsi a tempo pieno dei propri figli, stare vicino a Linda, sovente a corto di denaro, con un desiderio di protezione famigliare, di avere una casa ed essere felice.
Tutto scorre e si arresta, bloccato da un rimuginio protratto, e gli sbalzi temporali rivisitano sospensioni, mentre il flusso quotidiano percorre strade difformi, viaggi lampo che inseguono promozioni editoriali, interviste, reading, email minacciose, vecchie amicizie abbandonate e trascurate, obblighi famigliari, imprevisti, nel mezzo il bisogno e la necessità di scrivere, per se stessi, di se stessi, dei propri cari, degli altri, per vivere, amare e chiarire, per l’ irrefrenabile desiderio di farlo, per adempiere al ruolo di scrittore, per esporre la propria versione dei fatti.
Il corposo volume “ La Fine “ riflette e corrobora l’ enorme flusso dell’ opera ma è qualcosa di diverso, perché il tempo passa, si invecchia, la realtà cambia ed i ricordi non sono più gli stessi.
Ma la memoria “ ... lascia tracce modelli, bordi, pareti, fondi ed abissi, ci rinchiude, ci lega, ci carica, trasforma le nostre vite in destini, e conduce a due soluzioni, la morte o la pazzia..”.
In fondo Karl Ove non ha scritto dei suoi genitori, ma dei ricordi che aveva di loro, e non ha considerato che essi potessero esistere in maniera a se’ stante.
C’è una sfera emotiva che esula dalla ragione e che lo ha accompagnato sin dall’ infanzia, un mondo esterno coercitivo contrapposto ad una libertà interiore con il pericolo di cadere nella involuta intimità paterna.
L’ autore deciderà di non nominare mai il padre, nel romanzo infatti non sono presenti ne’ il suo nome ne’ il suo cognome, anche se “ il nome “ racchiude il senso della realtà, e’ una chiave di accesso alla vita, essenza, verità.
C’è un altro Karl Ove, il fine letterato ed intellettuale che ha studiato letteratura ed arte e che vive di queste nella propria essenza più vera. Lui stesso e’ un artista, gli capita di imbattersi in altri scrittori ( Dag Solstadt tra i tanti ) anche se le sue conoscenze sovente soggiacciono al turbinio di domande e pettegolezzi sulla propria famiglia, su una vita privata non sempre all’ altezza, scaraventandolo in una bolgia mediatica che poco lo riguarda, se non nel quotidiano mostrarsi.
Intanto continua l’ incessante flusso narrativo, un moto perpetuo intriso di dettagli all’eccesso e sensibilità solipsistica, intervallato da lunghe ed eccessive dissertazioni teoriche su letteratura, arte, filosofia ( alcune piuttosto interessanti ), il suo vero campo di azione.
La seconda parte del volume e’ un lungo saggio sul “ Mein Kampf “, di Adolf Hitler, ( ricordiamoci che il titolo originario di “ La mia battaglia ‘ in norvegese è “ Min Kamp “ ) che un giorno l’ autore acquista e legge, tra le pagine del quale la cosa più importante non è la vita, ma l’ ideale a cui e’ sottoposta. Non è chiaro il nesso con il resto dell’ opera se non per spiegare la perdita di significato del nome proprio e due adolescenze ( la propria e quella di Hitler ) con punti di convergenza ( affettivo-relazionali ) ma così diverse nel dopo.
Hitler e’ un asociale, desidera essere un artista ma non ci riesce, ha un rapporto conflittuale con il padre, origini piccolo borghesi, manca di contatto con la realtà, ha sviluppato una paura per la intimità e per il sesso, ossessionato dalla pulizia e dalla cura esteriore, limitato nel pensiero, pieno di pregiudizi e saperi parziali, mezze verità, ha vissuto il dramma ed il trauma della Prima Guerra Mondiale, si è fatto un utopista rivoluzionario ed un fanatico nazista, un uomo all’ oscuro dei propri sentimenti che diviene il sovrano dei sentimenti del popolo tedesco.
Di certo ha fondato la propria propaganda su un’ onda sentimentale più forte di qualsiasi argomentazione, che punta ai sentimenti e non all’ intelletto, in cui domina la parola orale, l’ emotivita’, delegittimando la parola scritta legata a pensiero e ragione.
La forza enorme del “ Noi “ aveva riempito il popolo tedesco di un potere grande spingendolo alla guerra secondo la cieca utopia dell’ uno, un odio antisemita irragionevole fondato su ideologia e purezza razziale che annulla ogni senso di vita, tramutando i nomi in semplici numeri.
Nella terza parte dell’ opera, quando la vita lo pone di fronte a difficoltà insormontabili e scelte inderogabili, Karl Ove ricerca il coraggio in ciò che ha dentro, la sua vera vita, nella moglie Linda, nei figli Vania, Heidi e John, rendendosi conto di che cosa sono per lui, una famiglia che non vuole perdere, che e’ tutto quello che ha e lo mantiene vivo.
Di questo ha sentito la mancanza in tutta la sua vita: provenire da un luogo, appartenervi, poterlo chiamare “ casa mia “.
I sei volumi de” La mia battaglia “, un’ opera monumentale sulla vita di un uomo, di un padre, di uno scrittore, rappresentata così come è, nel dettaglio di fatti e luoghi che esprimono sensazioni cercando un senso d’ insieme, una maratona letteraria inserita in un flusso atemporale, il proprio io, un perfetto incastro di istanti.
Un testo indubbiamente originale, unico nel suo genere, un esperimento letterario, un autore dotato di indubbia capacità narrativa, con pagine toccanti di poesia e profondità, o solo una geniale costruzione pubblicitaria laddove il privato sconfina nel pubblico a metà tra il reality e la fiction ( 1 norvegese su 10 ha acquistato l’ opera ), ossessivamente ripetitivo, ridondante, autoreferenziale, manifesto di un ego smisurato e di un autore che in fondo poco ha da dire?
Questi dubbi si fanno strada tra le 3600 pagine dei sei volumi dell’ opera ( scritta tra il 2009 ed il 2011 ), più volte anche l’ autore ricerca un senso, una reale motivazione e necessità per tanta sofferenza inferta ( a se stesso ed ai famigliari ) imboccando una strada senza ritorno ( la fama letteraria ) con un futuro assai incerto ( nel privato ) ed un pensiero nella testa ( sul proprio essere ancora uno scrittore ), di certo questa maratona letteraria e di vita in lui ha lasciato il segno...

“ ....Adesso sono le 7.07 e il romanzo e’ finalmente terminato. Tra due ore Linda verrà qui,l’ abbraccerò e le dirò che ho finito e che non farò mai più nulla di simile contro di lei e i bambini. Poi prenderemo il treno per il Louisiana. Mi intervisteranno sul palco e poi intervisteranno lei, perché il suo libro è stato pubblicato e scintilla e crepita come un cielo stellato nell’ oscurità. Dopo prenderemo il treno per Malmo, ci metteremo in macchina e andremo a casa, la nostra casa, e durante tutto il tragitto mi godrò, mi godrò davvero, il pensiero che non sono più uno scrittore....”




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68 Opinione inserita da 68    14 Febbraio, 2020
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Intrigo famigliare

Jalna ( 1927 ) è il primo capitolo di una celeberrima saga famigliare ambientata in Canada che tanta fama letteraria ha concesso alla sua autrice, Mazo De La Roche ( 1879-1961 ), per contro coperta dal mistero del proprio vissuto.
Questo non è un semplice luogo, è una dimora, e’ memoria, passato e presente, rappresentazione di una famiglia allargata, i Whiteoak, carica della propria storia, chiusa e racchiusa nella definizione di se’, in cui tutto appare già deciso, costretta dagli accadimenti a rivedere e modificare il proprio destino.
Qui il tempo sembra essersi fermato e la famiglia ruotare attorno alla figura della matriarca Adeline, giunta alla soglia dei cent’ anni ma ancora dotata della forza inusitata della propria personalità, che considera i propri figli dei ragazzi ma che lontana da Jalna morirebbe.
I Whiteoak sentono ed agiscono con una intensità vittoriana, paiono una tribù che decide di comune accordo, eppure si muovono come unità distinte.
Pears è l’ unico a sapere che cosa sia il vero amore, Eden un giovane poeta in divenire, Finch un incapace , Wakefield un vivace e bugiardo perdi giorno , Renny, il capofamiglia, un seduttore impenitente dal quale tutti dipendono, tranne la nonna.
In una calma apparente laddove Jalna traspare come un frutto maturo nella luce dorata, circondata da prati appena rasati, il presente cambia con l’ irruzione di due giovani donne, Alayne e Pheasant, unite in matrimonio a Eden e Pears, accolte sotto lo stesso tetto secondo stereotipi antitetici, la ricca e la povera, la figlia legittima ed il frutto del peccato.
Alayne, cittadina borghese ricca di personalità, amante dell’ arte e della letteratura, crede di vivere in un sogno, le stanze, l’ arredamento, le persone, tutto qui e’ così diverso ed anche il marito Eden, nella stranezza di ciò che la circonda, le pare distante.
Il tempo non sarà suo alleato, difficile abituarsi ad una famiglia i cui membri non considererà mai come parenti, rapita da un senso oppressivo, ignara se attribuibile a Jalna o a persone così inaspettatamente estranee e diverse.
In assenza di Eden ha potuto immergersi appieno nelle dinamiche famigliari ed esplorare le profondità delle loro intenzioni, lei che e’ cresciuta in una casa culla di pace, in un nido di colombe, oggi scaraventata in un luogo dove la discordia assume toni feroci e lo scherno sconfina nello schiamazzo.
In giorni scanditi da una noia protratta, abbandonate a se stesse, non resta che lasciarsi andare a passioni irrefrenabili ma che non possono continuare e persino l’ infelice Pleasant, trascurata da Pears, cadra’ in tentazione.
La frequentazione smaschera il marcato egocentrismo e la noia dei Whiteoak, in un luogo dove si rischia di impazzire, vittime di chi basta a se stesso, illividite nell’ animo, rapite da quella strana bellezza che emana da tutti loro.
Questo è “ Jalna “, il racconto di vicende sentimentali scandite da sguardi giuocosi, intrighi, tradimenti, perfidia, tradizione, desiderio, buone maniere, tutti i connotati di una classica saga famigliare che scorre placidamente in superficie, sicuramente apprezzata dagli amanti del genere, ma poco seducente per il lettore appassionato ed attento al respiro ed alla profondità di una buona letteratura d’ autore.

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68 Opinione inserita da 68    13 Febbraio, 2020
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Eros e Thanatos

“ Lo amo perché lui è me, più di quanto lo sia io. Le nostre anime sono uguali. Io sono Heathcliff.”

L’ unico romanzo di Emily Brontë ( 1847 ), intriso di realismo, passione, misticismo, elementi psicologici, individualismo all’ interno di atmosfere gotiche, ma anche espressione e capovolgimento dei classici ideali romantici, in questa ottima nuova traduzione di Monica Pareschi, svela significati enigmatici e rivoluzionari all’ interno di un’ essenza cangiante, creatura viva e pulsante, che scruta e restituisce i recessi della condizione umana tra abissi di malvagità e portentosi slanci amorosi, essenze atemporali ove spazio e carne divengono respiro, vita, sentimento.
Una grande storia d’ amore quella tra Heathcliff e Catherine, sconfinata nella vendetta più cieca per legittimare un desiderio inevaso che supera il contingente per farsi archetipo e simbolo, materia di un senso estremizzato.
Più voci, cambi di rotta, un’ alternanza di luoghi, inalterati, connessi, speculari, ( Wuthering Heights e Thrushcross Grange ), sbalzi temporali, personaggi che si rincorrono, persi, ritrovati, esitanti, estinti, sopravvissuti a rabbia e violenza, anche alla memoria e da esse calati in un racconto che vive di passato, presente e futuro, frammezzato e nebuloso.
La signora Dean racconta, Mr Lockwood ascolta, riflette, si assenta, ritorna, vive di solitudine, afferrato da una storia che stenta a capire e cerca di ricostruire, che gli stessi protagonisti inscenano, restituiscono e paiono rigettare e trasfondere, o meglio porzioni di storie rappresentate laddove il presente nasce da lontano.
Catherine da sempre ha nutrito un esagerato amore per Heathcliff, sin dall’ infanzia è stata un fiume in piena, una monellaccia scatenata, una piccola tiranna, manesca, spadroneggiante, crescendo Heathcliff si è fatto alto, atletico, ben fatto, con tratti decisi, un viso intelligente e modi cerimoniosi con una ferocia primitiva sopita solo a metà dall’ educazione.
Questo diavolo adirato con il mondo vivrà d’ ira e per lei non sarà più il giovane appartenutole, che continuerà ad amare ed a portare con se’, nella sua anima.
Catherine lo avrebbe tanto voluto per se’ in qualunque forma, senza essere abbandonata nell’ abisso di un non luogo, privata della sua vita e della sua anima, ma e’ preferibile esserne odiati che amati.
C’è chi ha scelto la disperazione ( Hindley ), chi vive come un eremita ma si concederà alla speranza ( Edgar ), chi compie gli anni il giorno della morte della propria madre ( Cathy ), e chi ritorna dal padre, unico parente rimastogli ( Hareton ), ciascuno all’ inseguimento del proprio destino.
Di certo c’è la scelleratezza di un animo capace di coltivare in segreto la vendetta e mettere freddamente in atto i propri disegni senza l’ ombra di un rimorso ( Heathcliff ).
Indubbiamente un animo non amato, e l’ infelicita’ delle sue vittime sarà vendicata dal pensiero di una crudelta’ nata da un’ infelicita’ più grande, la propria, un uomo solo ed invidioso come il demonio, la cui morte non sarà compianta ne’ la vita invidiata.
Heathcliff si confronterà con un’ intimità cresciuta rapidamente ( Hareton e Cathy ) che mira allo stesso scopo, due anime che amano e vogliono essere amate, facce animate dall’ entusiasmo dei bambini, un equilibrio ed una crescita sfociate in un’ unione faticosamente raggiunta.
E scoprirà che il mondo intero è una terribile raccolta di testimonianze di un’ esistenza perduta ( Catherine ), che tutto si lega a lei, e c’è chi sembra l’ esatta personificazione della propria giovinezza ( Hareton ), ovunque circondati dalla sua immagine mentre le facce più insignificanti, persino la propria, continuano ad assumere i suoi tratti.
Il mondo intero è una terribile raccolta di testimonianze che lei è esistita e che la si è perduta, che per tanti anni si è stati sue vittime inconsapevoli, senza tregua e rimorso, e ci si specchia in Hareton, spettro del proprio amore immortale, degli sforzi disperati per affermare il proprio diritto, degrado, orgoglio, felicità, angoscia finendo con il riconoscere, senza speranza alcuna, che l’ odio e’ lo specchio di se’, che la vendetta continuerà ad inseguire i fantasmi del proprio passato e che niente restituirà un amore fino al ricongiungimento definitivo con esso, in una vita ormai insopportabile e senza senso imbrattata di solitudine.



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68 Opinione inserita da 68    30 Gennaio, 2020
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Voci eterogenee e cangianti

Ritroviamo Faye, dopo “ Resoconto “ e “ Transiti “, in questo terzo romanzo dal titolo “ Onori “, a bordo di un aereo alla volta di una calda città senza nome per partecipare ad un convegno di veri scrittori, accompagnata, come in “ Resoconto “, da un coro di voci difformi che tessono le fila di vite smarrite nel proprio senso incompiuto.
Lei stessa vi ci si specchia, riconoscendo volti immutati e stravolti, segnati dal tempo e dalle esperienze, lei stessa possiede il volto di una scrittrice riconosciuta ed affermata in un privato collassato, un ex marito e due figli lontani che sente telefonicamente.
Uomini d’ affari, lettori, scrittori, giornalisti, traduttori, semplici accompagnatori, studenti, madri, padri, spezzoni di umanità narranti pezzi di storie tra vita, relazioni, cultura. Soliloqui emorragici che si esplorano dentro, scissi tra il se’ e la necessità di recitare una parte, convalidando tesi bugiarde, continuando ad entrare ed uscire da una scena già’ imbandita ed a tempo.
È questa la tesi del romanzo, puzzle di singolarità, di incontri veloci e difformi, cammino spezzettato di intimità distanti, tra domande e risposte inevase, a rappresentare la frammentarietà e l’ inquietudine del presente, solitudini, fragilità esposte ad un bisogno d’ amore condiviso.
Vite che vanno e ritornano, ritrovandosi ogni volta esattamente a quel punto, cercando di accertare la conformità di una condizione umana complessa con il tentativo eluso di dominarla, e pare impossibile riprendersi dalle grandiosità e crudeltà della vita, o dalla combinazione delle due.
Ecco il mondo di Faye, che ben conosce e la riguarda, quell’ ambiente letterario elitario che disquisisce sul nulla e pare avere risposte su tutto, nascosto a se’ ed al mondo e che vive della propria inconcludenza. Un mondo che non gode di buona salute, scisso tra commercio e letteratura, immalinconito e rabbioso con una dialettica persa in partenza.
Ma gli scrittori chi sono e cosa vogliono? Forse il loro e’ un lavoro come un altro, anch’esso provvisorio e soggetto a noia e frivolezza, con il solo potere concesso dalla possibilità di essere letti.
E dunque quali le proprie radici, inseriti in una storia che tutto polverizza, senza identità, mentre una gioventù senza guerre e memoria dimentica tutto così facilmente, come se nulla fosse importante, in una vita senza bellezza tra diversità acclarate, conseguenza di una scarsa empatia che svelerebbe un senso di uguaglianza, apolidi, con l’ idea di vivere una seconda vita, di ricominciare, in realtà è la natura individuale di ciascuno a creare il proprio ambiente.
Volti e voci si susseguono e si lasciano, in un tempo contratto e scaduto, Faye ascolta, assorbe, tace, talvolta argomenta, per ritornare idealmente e praticamente al proprio vissuto, al presente, ai figli, all’ intimità ed unicità di una storia che non puo’ essere raccontata a tutti, ma forse ad una persona soltanto, un’ unicità in cui è incluso il segreto della propria essenza.
Molte assonanze con il primo romanzo, più’ atrocemente caustico e spensieratamente crudele, talvolta con eccessi teoretici noiosi e poco includenti, una scrittura lenta, meticolosa, dosata, costruita sulle parole che conferma la fragilità della storia e l’ importanza dei singoli frammenti di storie a delinearne l’ insieme, un senso incompiuto, e Faye, completamente spoglia, si sente imbrattata da occhi intrisi di malevolo divertimento e da uno sguardo pervaso di allegra crudelta’, in attesa che smetta...

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68 Opinione inserita da 68    25 Gennaio, 2020
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Verità oltre l’apparenza

Dylis Hughes, agente di commercio in viaggio nel cuore dello Yorkshire, sola e sul far della sera, e’ appiedata da una tempesta violenta. Per sua fortuna viene soccorsa da Inigo Brown, dotato di naturale simpatia e di una certa noncuranza, diretto al capezzale di un vecchio zio malato, un uomo amorevole o semplicemente un galantuomo che la invita a seguirlo ed a trascorrere la notte nella dimora secolare del parente in attesa.
Ad accoglierli una giovane ed avvenente sposa che pare uscita da un film, Theresa, un misterioso amico silente, da subito in altro affaccendato, due strani domestici, prima che altri ospiti si aggiungano causa maltempo e ci si appresti ad apparecchiare la scena del delitto, tra figure scomparse, inaspettati ritorni, un intrigo tessuto e vissuto tra le mura di Wintry Wold, vecchia e trasandata dimora dal fascino immutato.
Di certo Mr Brown non pare così malato, sua moglie Theresa sembra avere qualcosa da nascondere, c’è chi sparisce, danneggia auto e si intrufola nelle camere altrui, un’ enigmatica lettera nasconde significati sottesi, una morte naturale pare esprimere altro, flebili sospetti farsi certezze, aprendosi ad un delitto che ricerca il volto ed il nome di un’ identità sconosciuta.
Nel mezzo una narrazione scorrevole, piacevole, costruita su pochi essenziali dettagli all’ interno della levita’ di un’ atmosfera alla Agatha Christie, ma più romanzata, laddove nasce e si rafforza un intrigo sentimentale condito da dialoghi sferzanti, situazioni paradossali, continui cambi di rotta.
Suspance, la costruzione di una scena del crimine, la ricostruzione particolareggiata di una trama semplicemente complessa, un’ evidenza che sembra mostrare, come sempre, una vicenda parallela e deviante, indirizzandosi altrove, in un reiterato tentativo, per motivi diversi, di lasciare la dimora riaffacciandosi alle proprie vite.
Un giallo rivelatosi una piacevole scoperta anche per chi, come me, non è abituale frequentatore ed amante del genere, un ottimo intreccio narrativo, personaggi ben costruiti e delineati per un’ autrice, Lorna Nicholl Morgan, cosparsa del mistero delle sue poche opere ( quattro scritte tra il 1944 ed il 1947 ) e di una vita da cui ben poco affiora, se non nel proprio valore letterario, considerata una delle penne più apprezzate della Golden Age della crime fiction britannica.

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68 Opinione inserita da 68    23 Gennaio, 2020
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Senso insensato

Questo romanzo delude, e parecchio, per motivi che esulano da un significato letterario a sua volta piuttosto flebile e poco esprimente.
Tre generazioni a confronto, un arco temporale che attraversa la seconda metà del novecento, un’ integrazione razziale aspra e lontana, conflitti intrafamigliari espressione della società’ stessa e ricondotti al presente, desideri di intimità negati, speranze disilluse, amori che si vorrebbero eterni nel cuore delle difficoltà della vita, tra intemperanze giovanili, caratteriali e sociali con la vana speranza di redimersi, amare ed essere amati.
Il testo, che aspira a possedere il flusso della storia, nel cuore di vicende strettamente private, si rivela piuttosto piatto, uniforme nella non espressione di anime e volti ne’ riesce a vivere e trasferire cambiamenti epocali, ingabbiato in una trama a singhiozzo ancorata al particolarismo del se’.
La linearità dello stile, gradevole e nulla più, è insufficiente a giustificare il non resto, finendo per ovattare ogni possibile scelta, confondendo voci e personaggi, costringendo il lettore ad una faticosa ricostruzione e ad una lettura di senso imbrattata di fragilità onnicomprensiva.
Inutile soffermarsi sull’ intreccio narrativo, su un’ idea di libertà ed uguaglianza negate a priori, frutto della storia ed in parte espressione di noi.
Ed allora tutto converge in un romanzo di buoni e cattivi sentimenti, di fragilità e desideri inevasi, mentre i cambiamenti epocali rimangono flebili tracce in un caotico microcosmo di tragicità famigliari.
Ecco la storia d’amore tra Evelyn e Renard, iniziata negli anni ‘40, subito contrastata da diversità di ceto e dallo scoppio della guerra, e poi, volati negli anni’80, la loro figlia Jackie, madre single alle prese con il figlio T.C ed il ritorno del marito Terry, tossicodipendente redento a cui concedere un’altra dubbia possibilità. Ancora un salto temporale, questa volta nel 2010, mentre lo stesso T.C, uscito di prigione, novello padre di Malik che niente conosce di lui, rimugina sui propri errori imbrattato di un amore disperato e sincero e si immagina, di nuovo rinchiuso in una cella, come un buon padre.
Questo quanto, piuttosto poco e confuso, anche il tema razziale da cui tutto ha origine e che rimane l’ essenza dell’ idea romanzata viene via via tralasciato e sommerso, di certo non incluso nel cuore di singole vicende poco profonde, correlate, includenti.

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68 Opinione inserita da 68    17 Gennaio, 2020
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Le difficoltà di un amore incondizionato






Premessa. “ Madri che feriscono “ non è un testo che scredita e demonizza la figura materna ma una ricostruzione analitica fondata su ricerca, testimonianze, storie personali, clinica, con l’ obiettivo di riassumere e trasmettere senso e complessità dell’ essere madri focalizzando gli esiti sulle vite dei propri figli.
Ha il pregio di interrogarsi su cause ed effetti, comportamenti deviati e devianti, di cercare di leggersi dentro, riflettere sul proprio vissuto, anche se ben sappiamo quanto il male ed il dolore delle ferite inferte o subite, da tempo introiettato e compagno di viaggio, sia difficile da comprendere, accettare, elaborare, rimuovere.
E’ raro individuare una cattiva madre da un solo aspetto, negligente, mortifera, immatura, narcisista, tirannica, sovente più caratteristiche convergono in una, l’esito sempre e comunque distruttivo per i figli.
Le cosiddette madri “ tossiche “ ricercano una perfezione ossessiva manipolando pensieri ed azioni, la madre perfetta prevede, anticipa, garantisce, rassicura, controlla, valuta, è sempre attenta e preoccupata e rende i propri figli debitori a vita.
La narcisista vede e considera il figlio in funzione di se’, la possessiva lo imprigiona, per la negligente non esiste mentre la tirannica instaura rapporti di forza senza amore ed empatia, esprime la sua rabbia parlando.
Ma quali cause spiegano i comportamenti violenti di una madre? La colpevolezza a volte trascende l’essere madre e dipende dal passato, dal contesto sociale, naturale e storico del proprio essere donna.
L’amore materno è un sentimento incerto, fragile, imperfetto e, contrariamente al pensiero comune, non profondamente inserito nella natura femminile, sorretto dall’ ambivalenza odio-amore, da depressione post partum, burnout, da uno stato di stanchezza mentale ed emotiva trascinato per anni con conseguenze suicide o violente nei confronti dei propri figli.
L’ essere umano che precede l’ essere madre ha credenze, contraddizioni, principi, limiti che derivano da una serie di ingiunzioni secondo cui agire e contro cui combattere, personali ( madre ideale ), famigliari ( culturali ), sociali ( società, internet ), segreti e fantasmi famigliari.
Madri che sanno ascoltare, che chiedono perdono, figli che capiscono anche se non perdonano, madri che continuano a non ascoltare, bambini che crescono nella convinzione di non essere ascoltati, feriti, l’ inutilità della parola in un enorme deserto affettivo.
Un bambino che cresce in mancanza di se’ non ha accesso alla costruzione di identità personale che sfocerà un giorno in un adulto equilibrato, riconoscendosi esclusivamente nello sguardo di colui al quale si affeziona morbosamente e dal quale esige tutto, e senza quello sguardo non possiede il sentimento di esistere.
Egli desidera l’ amore materno ad ogni costo, da adulto non identifica le aggressioni, i rifiuti, le prevaricazioni, vive le situazioni come echi e repliche di ciò che ha sperimentato con la madre, riproducendone gli atteggiamenti ed i sentimenti infantili, reiterando le lezioni apprese al suo fianco.
Il bambino adultizzato prova per lei pena ed amore, è pronto al sacrificio, salva l’ apparenza della brava mamma, è più grande nella testa e vive un’ infanzia rubata.
In ogni famiglia disfunzionale vi è sempre un capro espiatorio, un “ paziente designato “, sminuito, colpevolizzato, “ malato “, portatore di una differenza che partecipa al mantenimento del sistema ( famiglia ) e che può cercare di isolarsi per non sentirsi oggetto di beffe ed umiliazioni.
Di certo ogni violenza subita, fisica e psicologica, è di difficile individuazione, a sua volta la vittima si trasformerà in carnefice, riproducendo ciò che ha vissuto.
A qualsiasi età accada un trauma è sempre devastante, soprattutto se associato ad una figura di attaccamento con conseguenze fisiche, psichiche, emotive, perché una madre non può essere incapace di amare.
Vi sono poi comportamenti sintomatici, figli che non chiedono aiuto convinti di disturbare, che temono il conflitto, che non hanno alcun filtro emozionale, c’è chi valuta il proprio dolore minimizzandolo, proteggendo la propria madre fino ad un clic che rende possibile altro, ci sono scelte professionali sbagliate, scarso rendimento professionale.
Il desiderio di rottura si scontra con due tabù, l’ affermare che la propria madre è cattiva e il non volere più vederla ne’ parlare con lei, condizionati dai comportamenti obbligati legati all’amore, al dovere ed all’ obbligatorietà figliale.
La rottura è un lutto da elaborare, è dura, dolorosa, reca con se’ il passato, per la madre che si era idealizzata e per la relazione stessa, fatta di violenze e maltrattamenti, ma che deve morire per permettere al bambino di vivere. Un lutto non si fa, si vive, e la sua traversata permette di ricostruire.
È mai possibile perdonare? Il perdono è positivo per se stessi, elimina il restante dolore e l’ amarezza, in esso l’ adulto finalmente ritrova il suo se’, è libero di vivere. Ogni bambino un giorno dovrà lasciare sua madre, tappa fondamentale della costruzione di se’.
E quali sono allora i presupposti di una buona madre? Dovrebbe possedere uno sguardo volto all’ interezza del proprio figlio, adattarsi alle sue esigenze, permettendogli di evolversi, sperimentare e rendersi indipendente, essere una donna rassicurante, protettiva, decisa, imperfetta, in grado di creare una relazione equa che renda libero il figlio.
In altro modo crescerà un bambino ferito di una ferita fisica, psicologica, pervasiva, debilitante, mentre è indispensabile collocare al centro il se’ e, di conseguenza, la relazione con l’altro.
C’è chi riterrà questi temi, già’ ampiamente trattati e sotto gli occhi di tutti, scontati, banali, eccessivi, ripetuti, prolissi, stereotipati fino alla noia, ma l’ ovvio, sovente, finisce con l’ essere tralasciato, ignorato e dimenticato.
Appare opportuna, pertanto, questa semplice affermazione:

“.... È quanto mai vero e necessario che nessuno può reclamare ed esercitare il potere di decidere al posto nostro riguardo ai nostri sogni “ ...

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68 Opinione inserita da 68    15 Gennaio, 2020
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Diario al femminile



“....Dicembre 1918, subito dopo l’ armistizio una giovane donna giunge a Londra. E’ inesperta, povera, ambiziosa e sfiduciata, questa è la sua storia “...

Hervey Russell viene dalloYorkshire, è un’ aspirante scrittrice che si guadagna da vivere come autrice per la pubblicità, ha lasciato Richard, l’amato figlio di tre anni, ed il marito Penn, ufficiale di terra della Air Force, ancora arruolato dopo la fine del conflitto, per realizzare i propri sogni.
Londra è un cumulo rumoroso di macerie, sicuramente non un luogo di gioia, ma in procinto di rinascere.
Hervey, posseduta dal demone di ambizione ed energia, non prende le persone sul serio, vivrà in un mondo culturalmente effervescente, tra riviste letterarie, case editrici, giornalisti, scrittori, critici, imprenditori che scruta con occhi instancabili, ma ancora non sa di essere ingabbiata dai suoi giovani pensieri e dal suo stesso corpo e che non tornerà indietro.
È troppo insoddisfatta e sopraffatta da un desiderio di ricchezza che dia al figlio Richard una esistenza agiata, presto capirà che il mondo circostante è prevalentemente maschile e maschilista, di quanto il suo lavoro e’ inutile, il suo primo romanzo un fallimento e la voglia di tornare a casa grande.
Nessuno la conosce ne’ Hervey si trova a suo agio con gli altri, spesso, sola, pensa a Richard ed a Penn, un uomo indecente, superficiale e senza un vero senso della famiglia. Lo fa con impazienza e tenerezza, come si pensa ...” a qualcuno che non dovrebbe piacerci ma a cui non possiamo smettere di volere bene “....
Ma chi è realmente Hervey, un’ eroina ondivaga, brillantemente scriteriata, una romantica anticipatrice dei tempi, una femminista renitente, una giovane sognatrice o semplicemente un’egoista?
Di sicuro possiede una metà appassionata, avventata, avida di esperienze, inaffidabile, trasgressiva, cinica, perspicace, forse la più autentica, ed un’altra metà da giovane avveduta e tradizionalista, che la osserva, la tiene a bada e fa quel che può per guadagnare soldi e conquistarsi una vita stabile.
È una donna che ha lasciato casa, marito e figlio, con un amante che non ha voluto sposare, un americano violento ed incivile, incolto e complicato, Hervey detesta la letteratura d’ evasione ma scrive slogan pubblicitari e darebbe qualsiasi cosa per fare uscire il marito dalla propria vita. Sfortunatamente sono troppe le cose irrisolte e non ha la forza di lasciarlo, lui incarna la sua prima giovinezza, è legato a lei da tutte le emozioni di quel periodo, mentre il solo pensiero della solitudine la impaurisce enormemente.
In lei vive un altro pezzo di storia, l’ immenso amore per una madre tuttora epicentro della sua vita in cui annegano amarezza e sofferenza mentre il fantasma della nonna Mary Hervey continua a volteggiare sulla propria inadeguatezza, una donna solida e concreta che aveva fatto i soldi con i cantieri navali.
Nella sua memoria prevale uno stato di quiete, sempre in bilico tra sconcerto, delusione e menzogna, in un’ agonia mentale che crede più facile da sopportare di quella fisica.
Gli anni scorrono, la nuova era si accompagnerà alla irragionevolezza, alimentata dalla violenza e spazzerà via le persone ragionevoli.
Hervey scriverà il suo terzo romanzo, assaporerà un certo successo, pur non stimandosi come scrittrice, e dopo tre anni ritornerà nel luogo natio.
Li’, pur sentendosi sepolta viva, ignara di tutto, comunque ritornerà, richiamatavi da un che di imprecisato.
Nel frattempo, continuando a ripetersi che farà fortuna, scopre che il suo cuore è ancora in trepida attesa, ma di cosa esattamente?....
Primo capitolo della “ Trilogia “ Lo specchio nel buio “ della scrittrice e giornalista inglese Margaret Storm James, “ Company Parade “ ( 1934 ) è considerato un manifesto del femminismo in un’ epoca di radicali mutamenti dopo la prima guerra mondiale.
L’ autrice tratteggia un mondo politico, sociale, antropologico e culturale visto con gli occhi di una giovane donna ambiziosa ed insoddisfatta, recalcitrante agli stereotipi in uso, che lotta per diritti da conquistare e sviscera desideri sedati, in primis il conseguimento di una certa libertà identitaria e di genere.
Alcune scelte di Hervey paiono confuse, discutibili e contraddittorie ( l ‘allontanamento dall’ amato Richard, il tira e molla inconcludente ed impropriamente giustificato con Penn ), forse dettate dalla giovane età, dal desiderio di essere, dal ruolo-simbolo che ha nel racconto.
Come in Rebecca West il mondo femminile descrittovi, partendo dal privato tenta di ricostruire un’ epoca di cambiamenti, riuscendovi solo in parte, e ritengo la profondità e vivacità intellettiva dei personaggi della West decisamente più intrigante, insuperabilmente musicale, come la prosa, qui, per il momento, siamo fermi a linearità ( in taluni personaggi ) e ad una certa confusione di pensieri ed accadimenti, in grado di suscitare un gradevole assenso ma nessun moto di particolare sorpresa ed ammirazione.

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68 Opinione inserita da 68    12 Gennaio, 2020
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Età e sguardo sul mondo







Un’ anziana donna sulla via del tramonto si muove parsimoniosa in un’ ordinata routine, la maggior parte del tempo trascorso alla finestra, doppia dimensione e sguardo sul mondo, abitando l’ antica lingua d’ Islanda, parlando spesso con la radio, esclusa da un reale che le pare del tutto nuovo ma che le sta a cuore, una età in cui crede di essere arrivata a discernere il futile dall’ essenza delle cose.
Lei, a differenza di molti suoi coetanei, non ha ancora perso l ‘autonomia e non ha voglia di tornare giovane, di certo non le manca nulla, in un’ epoca senza amore rifugiatasi nel romanticismo, alla deriva della coscienza, distrutta dalla menzogna.
In fondo non è che una vecchia scarmigliata chiusa dentro un tempo che l’ ha logorata, scolpita dall’ esperienza, piena di ferite disinfettate e lasciate coperte per farsi cicatrici, una vecchiaia organizzata prima di compiere i settant’anni.
Spesso le sembra di essere spettatrice dei propri pensieri, una spettatrice pensante chiusa dentro il proprio tempo, e la cosa strana è che, pur connessa via cavo con ogni angolo del mondo, ha bisogno di tranquillità per trovare la concentrazione e cogliere l’ essenza delle cose.
Essere innamorati alla sua età sarebbe un penoso canto del cigno e non può certo esporsi ad una pena d’amore, ma .. “ la vecchiaia non deve bruciare tra le fiamme, semmai tenere vive le braci, prendersene cura, badare alla continuità “...
E’ così brava a farsi scalfire dal tempo, tra momenti in cui è brutto non sentire se si è vivi e giorni che passano prendendo tempo. Ha dedicato tutta la vita a Gudjon, il marito prematuramente scomparso ed ai ragazzi, immersa in giornate in cui ...” rendere fertile ogni momento, riempire la vita di significati e canzoni, tenendo a bada lo sconforto ed il terrore, respirando tutto ciò che ha intorno “... Poi è sopraggiunto l’affanno ed ha finito per morire a se stessa, senza dirlo a nessuno e senza che alcuno l’abbia notato.
Sverrir le pare diverso da quelli che l’hanno attratta in passato, un uomo ordinario, che non finge di essere quello che non è, di serbare ancora il vigore di un tempo. Insieme ... “ si tengono per mano e spazzano via granelli di polvere immaginari, lievi e continui contatti che creano un velo protettivo dalle variazioni climatiche esterne “....
A volte ridacchiano di un decadimento fisico assodato, immaginandosi altrove, per un momento, ma è qui che lei vuole restare.
Il tempo e le stagioni della vita scorrono, fotogrammi di un’ esistenza che ogni volta fa luce su immagini impercettibili. Una vecchiaia logorata nel fisico asciutto, usurato, dolente, una mente scossa dai fantasmi di ricordi svaniti, che richiama la forza di un tempo e ritrova gesti e momenti lontani.
La morte si mostra ed afferra i vicini e le loro storie, ad uno ad uno, gli affetti di un tempo, il dialogo con i morti continua, il reale un insieme confuso di accadimenti, qualcuno deciderà per noi, la vita si fa calma protratta, serenità onnipresente, sguardo pacificato, su se’ e sul mondo.
Ecco allora che

... “ Il doppio vetro della finestra del soggiorno si scompone in molecole davanti ai suoi occhi. L’ esperienza non le arriva più di riverbero, è lei l’ esperienza. Si fonde con il mondo che sta fuori. Diventa il mondo che sta fuori. Diventa i movimenti goffi del bambino, la sabbia, la paletta. Diventa ogni altra cosa nello stesso momento. E. E’ compiuta “....

Halldora Thoroddsen, scrittrice e poetessa islandese, in “ Doppio vetro “, suo primo romanzo tradotto in Italia, cadenza un mondo di immagini che ripercorrono una vita che inizia e finisce negli anni della protagonista, un’età esclusa da un reale finalistico iperproduttivo e di forte impatto fisico per nutrirsi altrove, all’ interno di un se’, connubio di esperienza e forza sognante, che è rimasto lo stesso.
Il proprio sguardo e quello altrui, sovente diversi, a volte coesi in un’ essenza condivisa, posseggono il gusto lento di una lingua scarna, essenziale, dosata, poetica, che cerca di penetrare e gustare i misteri insondabili dell’ esistenza.



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68 Opinione inserita da 68    11 Gennaio, 2020
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Amore incondizionato

Creature insondabili, fascinose, caratteriali, esotiche, vicine, amabili, amorevoli, protettive, perspicaci, sensibili, attente, ma anche irascibili, permalose, solitarie, devastatrici, improvvisamente assenti e lontane.
Molteplici declinazioni a caratterizzare l’ adorato mondo dei gatti, misteriosamente complesso, tra stima adorante ed accuse reiterate, comunanza e repulsione, nessuna via di mezzo.
L’ incertezza nell’ attribuire tratti peculiari a creature per taluni con proprietà sensitive e divinatorie rivela un approccio molto umano e poco felino ed un percorso addomesticante e curativo che risponde ad esigenze personali in fieri e condivisione della vita insieme a queste piccole creature parte della nostra quotidianità, stupefacenti, insondabili, tra richieste di attenzioni ed affetto restituito.
Questo scritto, a metà tra il racconto ed il diario di viaggio, oltre al proprio valore intrinseco, un testo gradevole, umoristico, a tratti paradossale, mai banale, ha il pregio di indurci alla riflessione e di sviscerare e svelare un caleidoscopico viaggio parallelo vissuto dall’ autrice durante i propri spostamenti ( tra Israele ed il Giappone ), rituali e comportamenti apparentemente inspiegabili ma, per chi li vive da sempre, veri.
Entriamo nel microcosmo della protagonista e dei sui gatti adorati, un misto di abitudini, esplorazioni, desiderio di vicinanza, percezione illuminata, follia giocosa, un non sense sensato, semplicemente l’ inspiegabile e poliedrico universo gattesco.
Ecco la profondita’ di una relazione affettiva a tutto tondo, una simbiosi ambivalente ed ondivaga, l’ impagabile certezza di calore e presenza incondizionati, tra dispetti di lontananza per un affetto tradito da assenze ingiustificate ed una sensibilità percettiva che diviene medicina e cura.
Dei gatti conosciamo quasi tutto il visibile, la magnificenza e l’ eleganza dell’ aspetto, la flessuosità dei gesti, lo sguardo fiero, l’ amore per oggetti ed odori particolari ( scarpe e stringhe in primis ), ma resta il mistero di occhi che danno la sensazione di vedere e leggerci dentro, di richieste inevase, sovente incomprese, di attimi di follia nel cuore di tenerezze infinite.
Ed ogni volta ritorna e si rinnova un rituale consolatorio, sospensione temporale ( per noi e per i gatti), vera e propria zona di comfort, ed uno sguardo pacificato ed adorante si posa su quella palla di pelo dormiente, arrotolata e riversa sulle nostre ginocchia, talmente scomoda da stupirci della sua rilassatezza, più semplicemente appagata da comunione e vicinanza ed in grado di rimandarci il calore della semplicità e l’ unicità di una presenza nel proprio senso più vero.

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