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siti Opinione inserita da siti    28 Dicembre, 2017
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AMARO, TROPPO AMARO

Una visione della vita sorretta da una certa predestinazione, un’esistenza fra le tante inutile e insensata, a corollario un intero universo emotivo che , sapientemente imbastito nei tempi dilatati della fanciullezza, si lacera nel tempo incompiuto di un’esistenza mai vissuta. Nique, povera Nique, così ti chiamano ancora i tuoi parenti lontani che a stento ti rintracciano a Parigi per annunciarti la morte di una zia. Dominique, sola, povera e bramosa di vita. Educata a stare da una parte, mesta e silenziosa, dopo la morte del padre che ha accudito per puro del senso del dovere, si ritrova schiacciata da un futuro senza alcuna prospettiva. È costretta ad elemosinare la permanenza nella casa che un tempo era sua e ad affittarne degli ambienti per poter sopravvivere. Entra in casa, una stanza separata da un salotto che funge da cerniera con il suo piccolo vano, una coppia di sposini, esuberanti, vitali, chiassosi e molto attivi sessualmente. L’udito si affina, la vista cerca validi pertugi, la mente rivaluta il proprio corpo maturo ma mai sfiorito, l’amore: una vana speranza soffiata da un destino crudele. Dominique si protende dunque verso la vita degli altri e la spia dalla finestra, in questo caso è un video senza il sonoro ma lei, in questo cinema muto, coglie tutti i particolari delle esistenze che si ritrova a spiare. Una coppia di anziani coniugi e la loro cameriera al piano di sopra, un piano più sotto il loro figlio malato e una nuora mai apprezzata. Proprio lei, Antoniette, diviene la sua ossessione: ha lasciato morire il marito non intervenendo a somministrargli il medicinale che avrebbe potuto ancora una volta salvarlo. È ora libera e vive ma Dominique che ha visto tutto la controlla, la spia, la pedina , la provoca, la invidia …
Il romanzo scorre veloce e inesorabile come la vita lasciando una sensazione di cupo pessimismo, a nulla valgono illusioni, speranze, lo strare cheti in un angolino a guardare o il vivere spasmodicamente alla ricerca di una durevole felicità, voraci di vita, ebbri di clamori, zeppi di denari se infine tutto si riduce a una desolata solitudine, quella insita nella stessa esistenza.
Amaro, troppo amaro.

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siti Opinione inserita da siti    24 Dicembre, 2017
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Caccia all'uomo

È sempre un piacere leggere il caro belga, si consolida la garanzia di ritrovare ambientazioni e temi ormai noti. Non si corre però il rischio di annoiarsi perché la materia è gestita con tale padronanza che non viene mai meno il piacere della scoperta e anche quando la trama non regala grandi soddisfazioni, ci si ritrova comunque paghi della lettura intrapresa. Nel caso specifico la memoria ha richiamato subito “La scala di ferro” e per il singolare mezzanino che funge da ambientazione e per il collegamento dell’appartamento ad un piano terra adibito ad uso commerciale. L’ambientazione appunto, è lì a farla da padrona la maestria dello scrittore. Un piccolo paese tutto affacciato ad una vera e propria corte mercantile- come ne “Il piccolo libraio di Archangelsk”- viene riprodotto dalla visuale annoiata e costretta di un bambino di sette anni, Jérôme, lontano da scuola più per volontà della famiglia che per la presunta epidemia di scarlattina che si adduce a scusante. Passa le sue giornate là, il piccolo, rispecchiandosi nel destino sbirciato, carpito, dedotto, di un altro bimbo che vive un isolamento simile al suo in compagnia della nonna. Tutto sarebbe ai limiti della normalità (?) se nella scena non irrompesse il classico elemento di rottura, fatto persona nella figura di una zia vecchia, adirata, invadente, resa ancora più temibile dal rancore che nutre in seguito alla perdita della sua casa promessa in eredità proprio al padre del piccolo, se mai riuscisse a riappropriarsene. Il suo arrivo si accompagna all’acuirsi di tensioni sociali di stampo anarchico coinvolgenti gli abitanti del paesino e in particolare un uomo che pare essersi rifugiato lì, nella casa materna. Piove sempre e la pioggia oltre a creare un atmosfera congeniale a certi dettagli stampatisi nella memoria del piccolo, tinge di nero la vicenda che poi si dissolve in modo prevedibile. Ad ogni modo la tensione è palpabile anche all’interno dell’angusto appartamento dove il bimbo combatte un duello all’ultimo colpo con la vecchia megera e noi ce lo godiamo tutto parteggiando ovviamente per l’infante sul quale, alcune pagine prima, invero pendeva un sinistro sospetto voluto dal suo padre putativo, il geniale Simenon appunto.

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siti Opinione inserita da siti    23 Dicembre, 2017
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Deludente

Caso internazionale nella neo editoria.
Il libro fu pubblicato da una piccola casa editrice in mille copie arrivando a conquistare i più importanti premi letterari per esordienti per poi toccare i principali mercati. A distanza di un decennio: che ne resta?
Parto da un’aspettativa molto alta: il libro è spesso antologizzato ad uso dei ragazzi della scuola media e implicitamente parrebbe veicolare l’amore per la lettura; mi ritrovo a conti fatti con un topolino disilluso dalla vita e dalla visione di essa , cupa e pessimista. Non mi è piaciuto affatto.
Come culla il “Finnegans Wake” di Joyce, “il capolavoro più non letto al mondo”, come nutrimento dapprima il latte addizionato all’alcool di una mamma ubriacona, come cibo per lo svezzamento le pagine ridotte a coriandoli dello stesso capolavoro joyciano, successivamente un’intera biblioteca, contenuta in un negozio di libri, la casa in realtà del tredicesimo di una fantasiosa cucciolata. Firmino è un topolino, non conosce il mondo e si nutre di libri. Il leggere compulsivo dettato dalla fame si traduce nella metafora della lettura come cibo della mente. Lettura come strumento di conoscenza: un tema che saputo sviluppare avrebbe impreziosito la piccola biografia del topolino. Firmino, in realtà, ripercorre la sua vita, è già vecchio e disilluso e purtroppo perde d’incanto. Sono lontani i tempi in cui, reso edotto dalle esplorazioni materne dell’ambiente esterno alla libreria, scelse , pur continuando a uscire e a conoscere la piazza di Boston dove essa era ubicata, di vivere là a stretto contatto con i libri e con Norman, il proprietario della libreria. Firmino lo osservava e ne captava le difficoltà: il quartiere smantellato per un rinnovo architettonico; la libreria che già perdeva clienti …
Il resto, un precipitare di eventi che non destano né interesse né emozione. Non lo consiglierei mai ad un preadolescente. E a voi? Si può trascurare, tranquillamente.

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siti Opinione inserita da siti    19 Dicembre, 2017
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CUSTODI DEL TEMPO

Il naufragio dei sacerdoti danzatori e il loro approdo a Magomadas aprono l’epopea del popolo sardo. Ne veniamo a conoscenza con atto scritto- il romanzo- che narra il tramandarsi , attraverso l’oralità, della storia dei Sardi. La custodiscono e la tramandano appunto i custodi del tempo e noi assistiamo all’ennesimo passaggio di testimone. Antonio Setzu nella sua casa a Morgongiori racconta a un bimbo di otto anni (Atzeni piccolo) una storia millenaria, lui fra trent’anni dovrà a sua volta tramandarla. Lo fa diventando il nostro narratore.
È l’ultimo romanzo dell’autore, terminato appena sei giorni prima di morire prematuramente il 6 settembre del 1995, inghiottito dai flutti traditori dell’isola di San Pietro. E pensare che il piccolo, investito del ruolo di custode del tempo nel romanzo, si preoccupa di un’eventuale morte prematura che potrebbe sottrarlo alla sua nuova responsabilità …
“Passavamo sulla terra leggeri come acqua …”
Contadini, pastori, re, oracoli, obbedienza, morte, rituali, danza. Mare, coste, terre pianeggianti, montagne, paludi , villaggi sparsi, sperduti, in lotta fra loro. Il monte Tiscali e la sua dolina, estremo rifugio. I bronzetti, le domus de janas, i nuraghi, tutto come per magia prende forma e consistenza, siamo dentro la storia, alle sue origini, millenni di isolamento e di felicità. Poche le azioni possibili, danzare, cantare, coltivare, mungere, intagliare, uccidere e morire. Le età della vita scandite: minores e maiores, i riti , le orge, le faide. “Chiamavamo noi stessi s’ard, che nell’antica lingua significa danzatori delle stelle”. Il mare porta nemici: fenici e con essi la prima città Karale. E con i dominatori le nuove lingue e con essi nuovi incontri e scontri. Romani, etruschi, liguri e punici. Su tutti i Romani: “mille anni di guerra” e la loro religione e Lucifero… La storia prosegue fino all’epoca giudicale in un susseguirsi di numerosi eventi e personaggi, vi si riconosce l’ordito originario, la trama è molto più fantasiosa, ricca, ci si perde a momenti. Rimane uno splendido affresco la cui peculiarità è l’estrema sintesi, quella che solo il linguaggio poetico è capace di donare.
Bellissima ricostruzione storica al sapor di epopea con il valore aggiunto della nitida prefazione della compianta e stimata Prof.ssa Giovanna Cerina.

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siti Opinione inserita da siti    19 Dicembre, 2017
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Dentro il Sertao

Non è semplice parlare di un libro che , datato 1956, si è imposto nella letteratura brasiliana divenendone una sua pietra miliare. Non lo conoscevo e devo la sua scoperta a una vivace comunità di lettori che dopo averlo scovato tramite la partecipazione di un nutrito numero di essi ad un sondaggio teso a scovare “perle nascoste” nella letteratura mondiale, ha fatto sì che con votazione divenisse l’eletto per un successivo gruppo di lettura. Ho partecipato dunque alla mia prima lettura collettiva e devo dire che l’esperienza è stata edificante perché i contributi degli altri hanno sostenuto un leggere non sempre piacevole e spesso difficoltoso rendendomi tra l’altro maggiormente accessibili alcuni passaggi. Resistenze innumerevoli hanno siglato la lettura e primariamente una prosa arricchita di un linguaggio ricalcante la vera natura del Sertão: Brasile centrosettentrionale, lande brulle in altitudine solcate da palme, piccoli fiumi, una fauna curiosa, variopinta, onnipresente, un esercito di solitari uccelli che scandiscono i ritmi di una natura bella e selvaggia. Una terra di nessuno o forse una terra di pochi, i fortunati possessori di isolate fazende che per proteggere le loro microeconomie hanno necessità di asservire i molti sfortunati i quali, armati, fanno valere una legge, quella del più forte, in un luogo dove la legge non arriva mai. Riobaldo, ormai vecchio, sposato, sistemato e protetto dai suoi banditi è anche lui divenuto uno di essi. È divenuto appunto giacché non fu in gioventù: persa prematuramente la madre, raggiunto un padrino, sottrattosi alla sua cura, si unisce ad una delle bande che percorrono il Sertão e questo luogo immenso, difficile, ostile e accogliente al tempo stesso lo ospita, lo fagocita e lo istruisce. La sua natura però pare rifuggire dalle leggi della sua nuova casa ma in essa lui dovrà faticosamente trovare un suo ruolo, una sua ragione, una sua identità. È sua la voce narrante che si rivolge ad un ospite di passaggio “Vossignoria”, uomo di certo istruito che viaggiando per quei luoghi capirà la sua parabola esistenziale se avrà la pazienza di ascoltare lo sfogo di un uomo che vive fondamentalmente di rimpianti, in realtà di un unico grande rimpianto. Il suo narrare è una mistura di ricordi e di considerazioni di carattere più generale che vanno a toccare le grandi verità di una terra intrisa di credenze, superstizioni, attribuzioni di caratteristiche soprannaturali anche al reale più tangibile, una terra che ha necessità di interrogarsi e di capire le grandi forze antitetiche che governano la vita umana: il bene e il male e le loro incarnazioni nelle idee di dio e del diavolo. Il ritmo narrativo discontinuo, squarciato da stupendi passaggi descrittivi che offrono bellissimi quadri d’insieme dove regnano sovrane la flora e la fauna del Sertão, zigzagato da continue analessi, inframmezzato da sequenze frenetiche al sapore di piombo, regala un’esperienza di lettura unica che mima l’episodicità della stessa esistenza: tempesta e risacca. Riobaldo si dipinge in tutta la sua umanità fatta di incertezze, paure, limiti ed errori anche nei momenti più alti del proprio percorso; un uomo solo come tutti d'altronde anche se riuniti in bande, con gli stessi ”valori” da condividere, con le stesse esperienze da raccontarsi, anche le più brutali. Un uomo che pur accettando tale sistema sempre nel suo profondo lo rinnega, se ne distanzia e insieme ne viene risucchiato ancora accertandosi tra sé e sé che “la vita della gente procede per errori, come resoconto senza piedi né testa, per mancanza di buon senso e di allegria”. E se solo l’avesse avuto un po’ di buonsenso il nostro Riobaldo oggi non sarebbe lì a ricordare e contemplare l’unica vera “nebbia” della sua vita: Diadorim. Qui ci vorrebbe proprio la “misericordia di una buona pallottola” a porre fine al suo narrare- rimuginare, ancora basiti per la sua rivelazione finale, riconciliandoci infine con lui e con la sua “traversia”.

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Scienze umane
 
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siti Opinione inserita da siti    10 Dicembre, 2017
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STULTITIAE LAUS/MORIAS ENKOMION

La Follia, resa da Erasmo come una dea, parla intessendo il suo elogio e rivolgendosi come in un’arringa alla folla che invita a constatare l’evidenza delle sue tesi, prima su tutte che essa, la Follia appunto, è componente costitutiva dell’uomo e dell’esistenza. Il saggio, datato 1511 e dedicato all’amico Tommaso Moro, è però un encomio in forma satirica che prendendo la follia come pretesto goliardico cela la sua vera identità di saggio dotto arricchito di fini allusioni classiche e di una sicura conoscenza della realtà del suo tempo che è qui oggetto di denuncia. Erasmo parla infatti dei governi mal gestiti del suo tempo e della corruzione della Chiesa, lui monaco schivo all’offerta del titolo di cardinale, lui fine umanista che anticipò riflessioni filosofiche dell’epoca contemporanea, lui certo intenditore e studioso della Patristica che non si schierò nemmeno col movimento riformatorio dello stesso Lutero. È un attacco sistematico a tutto il suo tempo con insito un intento pedagogico rivolto ad un ipotetico uomo politico, un re che sappia essere esempio di condotta morale e non mero detentore di un potere. Tutto lo scritto è infine teso a confermare un’estrema fiducia nella ragione umana affinché si realizzi un mondo migliore.
E dunque poiché parlare in modo razionale della follia non è possibile, non è conoscibile, perché ciò che lo è necessita di strutture concettuali che possano ingabbiare e spiegare, allora è meglio farla parlare. Follia è libertà dagli affanni, Follia è modesta, sincera, trasparente, ha una genealogia da far invidia, è presente in tutte le età della vita, è tra gli dei e sulla Terra, è nell’ amore e nell’amicizia. La vita stessa è dono della Follia, la società è Follia e la si può ritrovare tra grammatici, poeti, oratori, letterati, giuristi, filosofi, teologi (“i più matti di tutti”), monaci e religiosi, principi, sovrani, cardinali, papi, vescovi tedeschi, presso i classici e nelle Sacre Scritture. Anche la religione è una forma di follia, nondimeno l’aspirazione alla vita eterna. Ma alla fine cos’è la follia? È istinto, passione necessaria che integra la condizione umana la quale non può né essere compresa né vissuta senza la componente emotiva in una vita che non contempla la perfetta felicità.
Da leggere perché le tesi del filosofo godono di un’efficacia e di una brillantezza che le rende ancora oggi estremamente attuali.

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Racconti di viaggio
 
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siti Opinione inserita da siti    13 Novembre, 2017
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UN VERO VIAGGIO

La bellezza del volume nasce dal fascino esercitato dal viaggio, elemento senza il quale queste storie non sarebbero state recuperate in egual misura, unito a quel sapore unico che solo le vicende umane sanno offrire, soprattutto se rese travagliate dalla Storia.
Jan Brokken, scrittore , giornalista, viaggiatore olandese , novello Chatwin, raccoglie infatti in questa antologia le sue impressioni di viaggio nelle Repubbliche baltiche, sapientemente dosate con la materia principale: il recupero di storie, di frammenti esistenziali, di affacci alla vita contraddistinti da un luogo di nascita, terra travagliata, di confine, di invasioni e di successive cessioni, perforato a ripetizione, come con la più brutale arma automatica, nella sua anima, nella sua identità. Si tratta in misura maggiore della ricostruzione di storie private di grandi nomi della cultura mondiale, da Sergej Ejzen?tejn a Romain Gary, da Kant a Hannan Arendt passando per Estonia , Lettonia e Lituania oramai definite in netti confini geopolitici ma dove echeggia ancora il sapore antico di toponimi scanditi in tutte le lingue dei dominatori. Non mancano però le vicende di sconosciuti che hanno in egual misura contribuito al grido di libertà e di indipendenza , levatosi dapprima con la gloriosa ondata successiva alla risoluzione del primo conflitto mondiale, successivamente con la Rivoluzione cantata nei primissimi anni novanta del secolo scorso.
Si rimane affascinati dal destino segnato di queste anime e dalla esistenza fatta di fughe, peregrinazioni, deportazioni, ricostruzioni di identità come nel caso del libraio di Riga Janis Roze, deportato in Siberia perché appartenente al ceto borghese o la storia taciuta dalle tv mondiali della giovane Loreta, morta da manifestante per la libertà durante l’attacco dei carri armati sovietici alla Torre della televisione di Vilnius nel 1991. Sappiamo oggi perché resiste, in queste terre, l’orgoglio . È con orgoglio che la figlia di Jakobson , sostenitore di illuminate riforme agrarie , scrittore, filosofo, nazionalista, fondatore del primo quotidiano in lingua estone, apre le porte della sua casa- museo. E “l’orgoglio non ha niente a che vedere con il nazionalismo, lo sciovinismo o l’arroganza. Essere orgogliosi del proprio paese significa credere in tutto ciò che lo rende speciale, diverso, unico. Significa avere fiducia nella propria lingua, nella propria cultura, nelle proprie capacità e nella propria originalità. Quest’orgoglio è la sola risposta adeguata alla violenza e all’oppressione”.
Bello e sincero questo libro che parte sempre da un frammento di storia e di identità per andare sapientemente e sul campo a ricostruire una visione più ampia facendoci conoscere così non solo vissuti genuini, certo dolorosi ma necessari affinché si capisca la Storia europea , ma anche architetture, librerie, strade, stazioni ferroviarie, boschi , passaggi segreti, confini segnati da una semplice soglia che permette la fuoriuscita subitanea dalla propria nazione. Un viaggio nella storia, inoltre, scandito da date ben precise che a fine lettura forniranno un quadro d’insieme più ampio e dettagliato della vera anima di una parte della nostra Europa, oggi entità politica la cui comprensione sfugge ai più, di fatto ancora coacervo di popoli, identità, lingue, tradizioni, etnie che faticano a sentirsi parte di un solo progetto probabilmente perché ancora non si conoscono.

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Romanzi storici
 
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siti Opinione inserita da siti    05 Novembre, 2017
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Fu vera follia?

Scritto nel 1978, quando ancora l’Estonia apparteneva all’Unione Sovietica, in una terra ricca di storia e ancora giocoforza ostile al potere centrale, questo romanzo storico, sorretto da rigorosa ricerca e analisi delle fonti, permette rianimando uomini e ideali di conoscere -attraverso il caso particolare e il luogo specifico- l’identità di un popolo oppresso e mal governato.
La Livonia, regione ora integrata nei territori della Lettonia, governata dallo zar Alessandro I, agli inizi dell’ Ottocento aveva recepito gli ideali del Nazionalismo e inizialmente lo stesso zar, il grande vittorioso su Napoleone, aveva manifestato intenti liberali successivamente oscurati dalla politica restauratrice e oppressiva. La prima risultanza concreta fu l’abolizione della servitù della gleba e il graduale passaggio a forme di contrattazione privata tra possidenti e contadini come in Curlandia già dal 1804.
In questo contesto si inserisce la reale vicenda umana di un aristocratico della Livonia, il barone Timo von Bock, amico dello zar, che dopo essere stato brillante colonnello dell’Impero russo, sposa una contadina, gli ideali liberali e una ostinata abnegazione che non gli permette di infrangere il patto sancito con lo stesso zar: quello di dirgli sempre la verità. E così scrive un memoriale denunciando l’oppressione zarista in seguito al quale sconta nove anni di prigionia in una terribile fortezza. Il lettore viene a conoscenza della sua vicenda attraverso il diario privato del cognato che segue il nobile e la sorella nelle loro vicissitudini strettamente connesse alla storia, in virtù di quel nuovo status sociale acquisito proprio per benevolenza dello stesso Timo. I due contadini infatti sono stati educati come dei nobili e la padronanza culturale che vanno acquisendo rende lampante l’assoluta idiozia insita nelle divisioni sociali, sovrastrutture intellettuali dei ceti alti utili a mantenere lo status quo. In particolare la superiorità dell’individuo sull’appartenenza al ceto di nascita viene edificata attraverso la moglie di Timo, Eeva, vera eroina romantica. Controversa invece la figura dello stesso Timo, rilasciato col certificato di pazzia, anche a causa dell’epilogo della vicenda ( consiglio dunque di non documentarvi in itinere perché facendo così si rischia di scoprire il suo destino, fatto che avrei voluto invece evincere solo dalla lettura del romanzo). La sua è una condizione in bilico che si svela lentamente e non certo per merito del punto di vista del cognato narratore quanto tramite gli stessi gesti e le decisioni che, seppur combattuto, prende, e le poche parole che proferisce. Al contempo godiamo anche degli sviluppi narrativi legati alla vicenda personale del cognato Jacob soprattutto in seguito al suo matrimonio, dopo averlo invero patito in fin dei conti come un sempliciotto non in grado di capire gli alti ideali che muovono l’agire di Timo. È quasi legittimo pensare che la sua coscienza politica nasca solo in seguito alle peripezie che gli capitano e che gradualmente essa vada a formarsi in un pensiero degno e allora benevolmente lo perdoniamo fino a stimarlo quando, ormai consapevole, ci congeda. Kross, con questo personaggio, mostra anche una divertente vena ironica che rende oltremodo gradevole una lettura già completa di per sé ; rimando alle pagine, in particolare, nelle quali il nostro Jacob tenta di indagare i labirinti e i sottili confini tra pazzia e normalità. Concludendo, la sintesi in questo caso traballa essendo il romanzo corposo e articolato ma allo stesso tempo di godibilissima lettura, si tratta di un romanzo necessario a ricordare sempre che “In verità il dominio dell’uomo sul bene e sul male è pressoché insignificante e, quale che sia il suo sforzo, quale che sia l’estremo a cui giunge, non sposterà di un capello il cammino del nostro vecchio pianeta. Grandi o piccoli, nello scorrere del tempo noi tutti spariremo e diverremo polvere. Polvere che non conosce né gioia né angoscia. Non ci sono principi al mondo più duraturi di questi: Amore, Verità, Dio”.

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siti Opinione inserita da siti    31 Ottobre, 2017
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Sempre caro mi fu...

Otto racconti uniti in raccolta nel 1973: La corona d’argento, Uomo nel cassetto, La lettera, A riposo, Il cappello di Rembrandt, Bigliettini di una signora a una cena, Mio figlio l’assassino, Cavallo parlante. Tutti di ambientazione americana tranne il secondo incorniciato in una splendida Russia stretta dalla morsa dello spionaggio internazionale.
Storie brevi, concise e compiute dall’epilogo evidente e dal messaggio illuminante; raccontano la piccolezza del vivere, l’ambiguità del sentire umano, l’incapacità del saper vivere e il senso di inadeguatezza e di fallimento o- al minimo - di profonda insoddisfazione che ne possono derivare. Alcuni vivono di un gradevole sconfinamento nella materia surreale (La corona d’argento), altri se ne nutrono profondamente (Il cavallo parlante); certi (Bigliettini di una signora a una cena, Il cappello di Rembrandt) ricordano per piccoli dettagli, per sentore, per reminiscenza pura i suoi romanzi: vi è l’ebreo, vi sono i professori, c’è una certa insoddisfazione coniugale e l’incomunicabilità regna sovrana.
La lettura sarebbe opportuna dopo aver incontrato la grande produzione romanzesca malamudiana perché i riferimenti intertestuali verrebbero naturali e gradevoli, concorrendo a migliorare la fruizione del suo universo narrativo fatto di storie completamente sacrificate all’impianto narrativo a discapito dell’esibizione stilistica. Eppure il buon caro Malamud impreziosisce anche queste pagine con fulminee incursioni stilistiche a rammentarci la sua cifra.
Tentativi di salvare il proprio padre, di far uscire un manoscritto dalla Russia, di far imbucare una lettera, di farsi notare da una donna, di ripristinare dei rapporti cordiali dopo uno scontro silente, o ancora di approcciare un uomo più giovane del proprio marito, o di comprendere il silenzio di un figlio e per finire quello di uscire dal corpo di un cavallo. Questa la materia narrata a voi scoprire chi e come vi riuscirà. Buona lettura.

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Classici
 
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siti Opinione inserita da siti    18 Ottobre, 2017
Top 50 Opinionisti  -  

PIACEVOLE RITORNO AL PASSATO

Romanzo di grande successo al suo primo apparire, apripista del genere storico, modello perfino del grande Manzoni, Ivanhoe rivela ancora oggi le ragioni della sua gradevolezza non potendo più, per ragioni cronologiche, essere annoverato fra i bestseller. È un romanzo corposo per mole, evanescente nella sommaria trama e gradevole per il tono umoristico dal quale è attraversato. Alla base del successo l’eterna lotta del Bene contro il Male, la netta contrapposizione fra eroi ed antieroi, i colpi di scena, gli smascheramenti, le trasfigurazioni, il riconoscere nella storia medievale le proprie origini di popolo attuale, la forte connotazione nazionalista nel binomio Sassoni –Normanni, Scozzesi-Inglesi. La trama è nota ai più viste anche le innumerevoli trasposizioni e non solo cinematografiche che gli sono state dedicate; si tratta in breve del rientro del re Riccardo dalla Terra santa intrecciato a quello del nostro prode cavaliere Ivanhoe che tende a giuste nozze con la protetta del padre Cedric, Rowena, tra mille peripezie, duelli, tornei, imboscate, tradimenti e la finale vittoria del Bene sul Male. Recluso fra i libri etichettati come letteratura per ragazzi, la sua giusta collocazione potrebbe essere più azzeccata nei paraggi di Dumas padre, ad ogni modo è lettura da farsi in età adulta quando si possiedono gusti letterari ben delineati, poco inclini ai facili entusiasmi e strumenti di conoscenza per darle giusta collocazione all’interno della storia della letteratura inglese; non è certo compito mio, esistono studi infiniti al proposito. A me resta solo da consigliare un libro vivace, seppur impegnativo per mole, abbastanza fluido , capace di richiamare tempi, ideali, costumi ormai tramontati ma pur sempre avvincenti in un piacevole ritorno al passato.

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Racconti
 
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siti Opinione inserita da siti    05 Ottobre, 2017
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AUTOBIOGRAFIA EPISODICA

Nell’estate del 2016, in vacanza nel suo monte Amiata, Camilleri quasi novantunenne, cieco, tiene in esercizio la sua memoria e ricorda consegnando sotto dettatura ventitré racconti, squarci di una vita lunga, incredibile e ricca di avvenimenti. L’esercizio di memoria non assume mai il tono memorialistico quanto piuttosto quello della giustapposizione di aneddoti che hanno il dono di immergerci in atmosfere del passato, nella vita culturale italiana e di rimando ci addentrano nella storia del Paese; Camilleri sempre lì, testimone e quasi indiretto protagonista di un segmento temporale scandito da grandi nomi e da grandi eventi che sono già entrati di diritto nella storia politica, sociale e culturale dell’Italia e dell’Europa, lui ancora vivente. Restio alla pubblicazione dei testi partoriti dal ricordo in un volume, lui autore prolifico la vivrebbe come una sovrabbondanza accessoria, si fa convincere dal prodotto editoriale che gli viene proposto. Il volume esce accompagnato da cinque illustrazioni inedite di Alessandro Gottardo, Gipi, Lorenzo Mattotti, Guido Scarabottolo e Olimpia Zagnoli; egli, dopo aver sentito la descrizione delle tavole prodotte, ispirate dai suoi testi, dopo averle minuziosamente ricreate nel suo universo visivo dipinto ormai di nero, recupera i colori, le forme, vede di nuovo e gode dell’arte. Basta questo: l’ennesimo esercizio di una mente eccelsa che non si arrende all’oblio, in nessuna forma.

La lettura è godibilissima, intrisa dello spirito del suo autore, mai una vena malinconica ma sempre una verve ironica e un grande sentimento di riconoscenza rispetto alla sua esperienza di vita; una bella occasione per tutti insomma leggere questa sorta di autobiografia episodica, non è necessario aver letto le sue opere o essere un suo estimatore, la curiosità nel neofita si accenderà automaticamente pur essendo presenti nel testo rari riferimenti alle sue opere o al suo Commissario: regna sovrana una modestia che non si nutre di falsi allori. Belle e sincere e scanzonate le pagine dedicate al serissimo mondo dei Premi Letterari… La goliardia è sempre nell’angolo, alleggerisce fatti di vita anche tragici, molte le pagine con lo sfondo animato dai bombardamenti della seconda guerra mondiale o dai soprusi dell’epoca fascista, eppure strappa sempre un sorriso. Alcuni aneddoti hanno poi dell’incredibile e ci si ritrova a pensare che la fantasia abbia preso il sopravvento ma non è così: la vita di Camilleri ha il dono della meraviglia, della veridicità, della levità e in alcuni casi anche dell’ubiquità. Semplicemente vera.

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TUTTO O NIENTE DI CAMILLERI
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Storia e biografie
 
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siti Opinione inserita da siti    01 Ottobre, 2017
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ANIMA TRAGICA

Matteo Collura eccelle con questo scritto nella restituzione al lettore contemporaneo di un grande autore, di un uomo complesso – in assoluto il meno ingabbiabile in qualsivoglia categoria- , frammentato e dilaniato. Lo fa, al suo solito, attingendo a piene mani dalla stessa produzione letteraria dell’artista di cui parla, dalle sue lettere private, e in questo caso le missive a Marta Abba hanno rappresentato fonte copiosa, nonché dai ricordi delle persone che gli furono vicine, poche in realtà. È ad ogni modo regina la sua produzione teatrale; in ogni dramma celato il suo dramma, in ogni battuta compendiato il suo pensiero; visibile sempre e comunque lo strappo. Stride il racconto della vita con la grandezza della pagina scritta; addolora conoscere il prezzo del successo avuto in vita, il pegno pagato all’arte in cambio della sua devozione totale. Emerge oltre al ritratto di un uomo solo, un uomo capace, secondo il suo sentire, di far del male indirettamente a chi gli sta vicino, un uomo con una mania di controllo che lo ingabbia fino al testamento ad un volere discutibile e ad una preoccupazione eccessiva. Un marito defraudato della moglie, un padre devoto ma dalla presenza troppo ingombrante per l’autonomia filiale, un uomo attempato condannato infine all’amore platonico. Un uomo solo, come tutti, ma schiacciato dalla sua stessa identità, non tanto quella che in vita sogliono attribuirgli i più svariati giudizi critici, da lui sempre mal sopportati, quanto quella stessa sfuggente materia di cui si sente fatto e che mal sopporta le infinite maschere a cui soggiace, un uomo che ha intravvisto la difficoltà del vivere rimanendo imbrigliato e affascinato dalla sua bellezza complessa, incompiuta , limitata ad uno sputo di vita.
Biografia vivamente consigliata anche per scoprire i segreti dell’attribuzione del Nobel, i veri rapporti col fascismo e col Duce, la natura dell’amore con la sua Musa, per una rilettura ragionata dei suoi drammi più importanti e della loro genesi dalla produzione novellistica, ma soprattutto per avvicinarsi ad un’anima tragica la cui condanna in vita fu l’arte tutta nutrita di infelicità.
Ho sempre amato Pirandello, l’autore, mi accosto ancor di più a lui e con rinnovato interesse pur rimanendo confusa e annientata da questa figura di uomo; plaudo a Collura che ancora una volta imprime ai suoi soggetti la giusta caratterizzazione siciliana che imprime l’anima alla nascita e la scolla dal resto dell’esistenza. Richiamo in ultimo la bella biografia di Sciascia, “Il maestro di Regalpetra. Vita di Leonardo Sciascia .” e invito alla lettura di entrambi i volumi.

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le opere di Pirandello
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Classici
 
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siti Opinione inserita da siti    20 Settembre, 2017
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Lombi e utero

Si arranca a leggere questo romanzo il cui difetto principale può essere ricercato nell’estrema ripetitività e discontinuità del flusso narrativo; questo a star dentro parametri di natura prettamente letteraria giacché a dover parlare di contenuto o ancor più di stile il solo pensare di dover far mente locale per riattivare il ricordo mi nausea alquanto. In estrema sintesi Connie e Clifford si sposano quando è ancora in atto la Grande Guerra, lui dopo un mese riparte per il fronte e torna invalido, nel 1920 divenuti lui baronetto lei Lady tornano a Wragby Hall, nell’antica residenza di famiglia. Siamo nelle cupe Midlands, bacino minerario di carbone e ferro. Lui si circonda di amici irrisolti, lei deve ascoltare le chiacchiere di questo cenacolo maschile, maschilista, puerile. Nel frattempo appare il guardiacaccia e prima di giungere alla rappresentazione del loro amplesso iniziale dei successivi più frequenti e- a detta loro- più soddisfacenti, ci rendiamo conto che la povera Connie oltre a vivere una dimensione fortemente maschilista , deve pure subire la grettezza del classismo più bieco che a lei non appartiene. Si è infatti affacciata alla sua mente la consapevolezza che gli uomini della sua generazione siano fondamentalmente degli inetti, meschini, pavidi e il machismo del guardacaccia rinforza la convinzione. Egli è pure il paladino della polemica contro il progresso tecnologico e la perdita di umanesimo, peccato che quanto afferma passi ridicolmente in secondo piano allo scadere dei toni ogni qual volta si tenti una rappresentazione della sfera sessuale, a mo’ d’esempio giusto il ridicolo che avrebbe il muoversi ritmico delle natiche dell’uomo quando penetra una donna! Mah … e questo è niente.

Provo un immenso senso di delusione e ritengo di essere stata vittima di quel, talvolta prezioso, circolo letterario che si attiva di lettura in lettura. Caro Malamud, con le tue “Vite di Dubin” e la curiosità che hai suscitato verso questo scrittore del quale il tuo personaggio si interessava assai, mi hai teso una trappola di una noia mortale. Devo riconoscere altresì che la tua maestria nel rappresentare le scene di sesso in quel tuo romanzo non ha rivali. Ti sei divertito?

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siti Opinione inserita da siti    12 Settembre, 2017
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SONO TORNATO: TUTTO È CAMBIATO, TUTTO È UGUALE

Pavese, uomo delle Langhe, racconta nel suo secondo romanzo, edito nel 1950, il ritorno di un uomo delle Langhe, il ritorno di un girovago bastardo che cerca ancora la sua identità. È la storia di Anguilla, nato e cresciuto nelle Langhe e io narrante di questo testo. La sua identità è costruita sul suo vissuto, lui sa solo di essere stato un bimbo senza famiglia, allevato poi da contadini in cambio di un sussidio, per proseguire la sua crescita, dopo la morte del padre adottivo, come garzone presso un’altra cascina. Ha dunque una storia e si è gradualmente creato un’identità, torna dall’America, deluso e amareggiato, sperando di ritrovare ciò che il suo ricordo ha cristallizzato. Ma la vita è fugace, pur essendo nelle Langhe tutto uguale, alla fine niente è uguale. Le persone, i luoghi, gli eventi sono altri. È terminata la guerra e la terra restituisce ancora i cadaveri dei tedeschi sepolti, su nelle colline. La lotta partigiana ha segnato territorio e persone, la fame ancora di più. Per alcuni lui non è più il bastardo da prendere in giro, qualcuno nemmeno si ricorda più di lui ed egli vive un senso di infinito sconforto nel mancato riallineamento del ricordo con la realtà. Lui ricorda tutto: la cascina Gaminella, la Mora, le sue tre padroncine delle quali narrerà l’infausto destino. Perfino Nuto, il suo caro amico, è diverso. Sparita l’aura mitica, è uomo fatto , non più il ragazzo grande mitizzato dal più piccolo. Tutto delude e incupisce nella terra della luna e dei falò, nei luoghi dove ancora le credenze popolari hanno diritto di esistere anche se qualcuno le taccia di superstizione. Avvicinandosi il momento di lasciare la probabile terra natia (neanche di questo ha in fondo certezza), Anguilla può solo rimettersi al suo destino, quello che per lo meno gli permette di aiutare Cinto, il piccolo nuovo Anguilla confinato nella disgrazia della sua misera vita. È un romanzo diretto, crudo, reale che riassume la poetica dell’autore: componimento di certa matrice autobiografica a esprimere angoscia esistenziale e il difficile “mestiere di vivere”.

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Il sentiero dei nidi di ragno
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siti Opinione inserita da siti    08 Settembre, 2017
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I limiti della verità

La materia mitologica si fa plasmare docile e mansueta dalle mani di un genio quale lo svizzero Dürrenmatt ne “La morte della Pizia”, in scena è il mito di Edipo, generato per assurdo dalla noia di una stizzita sacerdotessa di Delfi, Pannychis XI, che in un momento di incuria totale butta lì una profezia insensata oltre che inverosimile: Edipo ucciderà il padre e giacerà con la madre generando una progenie infelice. È vecchia la Pizia, si trascina stanca e disgustata: la società si nutre di “insulse leggende”, gli oracoli sono al servizio del potere e si fanno pagare profumatamente. Quando Edipo, da pallido giovanotto quale era, torna al suo cospetto ormai cieco e ramingo lei non lo ricorda, al sapere dell’avverarsi della profezia scoppia a ridere anche se si insinua in lei il sospetto che “non tutto ciò che era accaduto poteva essere considerato frutto del caso”… Intanto, davanti agli occhi chiusi della Pizia, tornano ad uno ad uno i personaggi che ruotano intorno a questo mito ed ognuno racconta la sua verità: Laio coi suoi dubbi di paternità, Edipo che conosce il nome dei suoi veri genitori, Giocasta che rivela chi è infine il vero padre di Edipo, Tiresia che spiega senza tanti pretesti la sua sete di denaro alimentata da puri bisogni materiali, non ha dubbi poi che “l’insensata fede negli dèi debba essere sfruttata in maniera ragionevole”. E proprio a Tiresia viene affidato il ruolo di rivelatore delle verità che lo svizzero veicola con questa trasposizione mitologica; parla chiaro infatti l’indovino: la gente si nutre di mezze verità le quali poi sono sempre approssimative. “Maledetta imprecisione!”Pensare che da essa può generarsi perfino uno stato totalitario. Una fognatura avrebbe risolto il problema delle pestilenze che si tenta di risolvere a suon di oracoli. Giunge infine la Sfinge che a lungo ha indagato sul perché gli uomini si lascino opprimere, giungendo alla conclusione che a molti piace il quieto vivere. Tiresia dopo alcuni scambi sigla il discorso con lei e con la Pizia affermando l’impossibilità di giungere ad una verità univoca, concetto che sta poi alla base della teoria dell’autore sui limiti della giustizia. Gradevole e imperdibile.

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Sofocle
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Arte e Spettacolo
 
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siti Opinione inserita da siti    06 Settembre, 2017
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IL DRAMMA DELL’IDENTITÀ NELLA SOLITUDINE

“Non dire felice uomo mortale, prima che abbia varcato il termine della vita senza aver patito dolore.”
L’uomo rappresentato da Sofocle nelle tragedie composte nella seconda metà del V secolo a.C. è essere umano di straordinaria modernità, intorno a lui , nell’accezione più ampia di essere appartenente al genere umano, uomo o donna dunque, gravitano destino, doti personali, valori etici, esercizio del potere. Mancano a noi contemporanei gli dei, gli oracoli ma non è forse vero che continuiamo a cercarli? Il dio denaro, il dio successo, il fanatismo religioso, l’ateismo più convinto, la fede o ancora le Pizie contemporanee che ognuno individua dove può. Ne servirebbe giusto una un po’ suonata come quella immaginata dal grande Dürrenmatt… ma soprattutto a farla da padrona, ieri come oggi, è l’estrema solitudine connessa all’esistenza individuale. “Edipo re” è appunto il dramma della solitudine misto al dramma dell’identità, altra piaga contemporanea di continua indagine e rappresentazione letteraria. È un personaggio schiacciato da un destino non voluto e non compreso che lo condanna all’isolamento sociale e alla perdita non solo degli affetti più cari ma anche della patria oltre che della vista, a siglare la verità che non bastano gli occhi per vedere ma che la lungimiranza sia prescindibile dal dono della vista. Come Creonte nell’”Antigone” Edipo è chiamato all’esercizio del potere e deve gestire a Tebe un periodo non felice, gli oracoli indicano il superamento della crisi nella giustizia all’assassinio di Laio, l’ultimo re. Edipo emette un editto che sancisce esilio perituro dalla razza umana per colui che verrà scoperto assassino del re, sappiamo tutti, tranne lui che sta condannando se stesso, figlio di Laio, omicida del padre, consorte della propria madre, generatore al contempo di figli e fratelli. La sua è la sconfitta delle doti personali di puro raziocinio, aveva lui risolto l’enigma della Sfinge con la sua intelligenza, nell’esercizio del potere, d’altronde lo stesso Sofocle nell’”Antigone” aveva affermato che la vera natura , in termini di anima, intelligenza e carattere, va a rivelarsi proprio nell’esercizio del potere. Mentre Creonte nell’ “Antigone” incarna un modello tirannico di gestione del potere che non lascia spazio all’etica, vuole impedire la sepoltura di uno dei figli di Edipo perché nemico della patria e punisce Antigone che, sfidando il divieto, gliela offre, o meglio si nutre di un’etica del potere al servizio della patria oltre ogni valore umano, Edipo è invece mosso da un’etica umana in ogni sua azione, fin da quando abbandona i presunti genitori per sfuggire all’orribile vaticinio che lui sarebbe stato omicida del padre e amante della madre. Lo stesso editto proclamato a Tebe nasce da un alto concetto di giustizia- Creonte invece reputa la gestione del potere in regime di ingiustizia che non può essere discussa altrimenti si rischierebbe l’anarchia- ma Edipo non sa di essere predestinato ad una vita di sventura nella quale la ragione nulla può. Consiglio vivamente la lettura di entrambe le tragedie; “Antigone” rappresenta senz’altro l’antidoto efficace alla futura campagna elettorale. Tenete deste le menti: i classici ci sono d’aiuto.

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Antigone
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Romanzi
 
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siti Opinione inserita da siti    03 Settembre, 2017
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Attenzione! Anticipazioni.

Edito da Feltrinelli è finalmente arrivato in Italia il libro tanto acclamato in America, “Lincoln nel Bardo” ad opera del più celebrato, al momento, autore di racconti , il texano George Saunders. In alcune interveste lo scrittore ha affermato di avere finalmente osato la forma romanzo poiché, voltandosi indietro ed esaminando la sua produzione, si sentiva comunque già soddisfatto, tanto da poter contemplare perfino un fallimento. E lui ha osato e parecchio. Chi si appresta alla lettura di quest’opera si prepari infatti ad accantonare qualsiasi tipologia romanzesca possa sovvenire alla propria memoria di lettore. È una giustapposizione di voci; ci si ritrova fin dall’incipit a familiarizzare con esse e a seguirle placidamente con un misto di curiosità e di sorpresa cercando di capire ciò che un latitante narratore mai ci narrerà. Si conoscono dapprima Hans Vollman e Roger Bevins III, il primo anticipa la sua storia personale e mentre il secondo lo ascolta giunge un fanciullo, “un semplice ragazzino”. Si annaspa inizialmente per tentare di capire dove si svolge l’azione e chi siano i due anche perché un’altra giustapposizione di voci ( sono simulazioni di fonti scritti del XIX secolo) concorre a ricostruire la storia di un ricevimento presidenziale che in quel lontano febbraio del 1862 forse non avrebbe dovuto aver luogo viste le condizioni di salute di Willie, uno dei due figli della coppia presidenziale , dilaniato dalle atroci sofferenze del tifo che lo porterà alla morte mentre il medico rassicura i genitori sulla stabilità delle sue condizioni. Il ricevimento è poco opportuno in tempo di guerra, una guerra civile che ora inizia a mietere vittime sempre più numerose. Lui è Abraham Lincoln, il presidente abolizionista della schiavitù, la guerra è quella di secessione americana. Willie muore, viene imbalsamato e successivamente tumulato, questo avviene in terra mentre nel Bardo è accolto da Hans Vollman e Roger Bevins cui si aggiunge il reverendo Everly Thomas. Il Bardo, così come descritto ne “Il libro tibetano dei morti” è un non luogo, è infatti uno stato della mente coincidente con la separazione della coscienza dal corpo. Durante lo stato mentale del Bardo si vivono allucinazioni ed esperienze, la vita nel Bardo è contraddistinta da sofferenza per la mancata accettazione della propria morte, per la difficoltà del distacco dai propri cari e anche dai beni materiali. Quest’opera mette in scena il distacco del Presidente dal suo figlio morto a undici anni, i giornali dell’epoca narrarono infatti l’episodio di Lincoln che aprì la bara del figlio già deposta nella cripta per poterlo riabbracciare un’ultima volta. È dunque la storia breve e allucinata di un estremo saluto. Il Bardo messo in scena da Saunders colpisce per efficacia descrittiva, parrebbe assimilabile alla nostra idea di Purgatorio con le scenografie da Inferno dantesco, ci si ritrovano anime trasfigurate, abbozzi di contrappasso, rappresentazione indiretta di un tempo che fu. Fa pensare inoltre che il nuovo stato ultraterreno mantenga intatte le caratteristiche e i comportamenti di coloro che un tempo furono. E poi, che saranno?
Complessivamente gradevole, scorrevole, interessante.

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siti Opinione inserita da siti    31 Agosto, 2017
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PERIPLO MEDITERRANEO

Conoscenza diretta di luoghi e culture traspare da questa raccolta di racconti, secondo lavoro editoriale della scrittrice sarda Laura Vargiu. Il primo di essi richiama subito Ibn Battouta , uno dei più grandi viaggiatori di tutti i tempi, marocchino del XIV secolo sconosciuto a chi ha studiato la storia in prospettiva eurocentrica e conosce a malapena Marco Polo; entrambi hanno lasciato le loro corrispondenze dall’estero. Così parlava di sé il viaggiatore di Tangeri: « Sono partito da solo, senza compagni con cui potessi vivere a stretto contatto, senza una carovana di cui potessi fare parte; era come se fossi spinto da un forte impulso dentro di me e dal desiderio nascosto nel mio cuore di visitare quegli illustri santuari. Quindi decisi di separami dai miei cari, donne e uomini, e abbandonai la mia casa come gli uccelli abbandonano i loro nidi. Mio padre e mia madre erano ancora vivi. Mi rassegnai a separarmi da loro, e questo fu per me come per loro causa di dolore. »
Il viaggio dunque al centro di queste brevi narrazioni, sintetiche ed efficaci come nel lavoro d’esordio della sarda. L’omonimo di Ibn Battouta in una Tangeri moderna , dilaniata dal profano orizzonte costellato di antenne televisive, sogna anch’egli la partenza, il riscatto chissà se il suo sogno sarà più forte delle sue radici, della sua appartenenza. Talvolta (“La partenza”) il partire è segnato da un destino di guerra non voluto né cercato, né bagagli né mete certe attendono i soldati destinati ai campi di prigionia dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia. Si passerà il mare, l’Africa attende. Andate e ritorni tra le sponde di uno storico e triste e melmoso bacino: oggi galleggiano altre esistenze, gaudenti in imbarcazioni di lusso, piangenti e moriture sbalzate da un misero legno sovraccarico. Bello anche il terzo racconto (“Frontiera”) nel quale la precarietà dell’esistenza è segnata da un passaggio di confine , estremamente regolamentato, sospetto, pericoloso laddove il desiderio di chi viaggia è solo viaggiare, conoscere, capire. Ma si può capire la guerra?
Altre volte la partenza può essere ostacolata da eventi imprevedibili che ingabbiano le persone permettendo loro però di conoscere meglio la realtà nella quale vivevano da stranieri, è il caso di “ Giovanni Azzolini, nativo di Felino, piccolo centro nel Parmense, inviò ai familiari l’ultima lettera dall’Algeria, dove era emigrato per lavoro, comunicando loro di essere in partenza per la Francia e promettendo di scrivere il prima possibile” ma di lui non si seppe più nulla; gli regala un destino di umana comprensione e accettazione mista a nostalgia per la patria il racconto alle sue vicende ispirato.
Tra i racconti spiccano anche delle epistole e non a caso: una richiama il viaggio infinito di chi è costretto a migrare e tenta di assimilare una cultura diversa dalla sua per permanere in un Paese ospitante che lo ripudia come cittadino e lo condanna all’eremitaggio perpetuo, viaggio infinito appunto alla ricerca di una convivenza che chi ospita non ha l’intelligenza di elaborare. Un’altra, molto interessante, è di un bambino egiziano che immigrato in Italia si rivolge ai suoi coetanei parlando loro del Natale, dimostrando di conoscere i riti cristiani perché già condivisi nel suo Paese natale con l’amico cristiano copto. Affida alla lettera una semplice richiesta: né telefoni cellulari, né giochi elettronici solo che sparisca la crisi economica che potrebbe togliere il lavoro al padre.
La dimensione del viaggio assume poi i contorni teneri quando sono i bambini ad agognarlo semplicemente per far ritorno ai loro Paesi d’origine anche se solo per le vacanze (“Emigranti”) o quando ancora diventa un modo per ritrovare se stessi e rimanere fedeli alla propria anima (“Il ciclista palombaro” , “Bosa”).
Le narrazioni si alternano in una piacevole lettura in passaggi temporali che permettono di ricordare episodi significativi e taciuti di infiniti drammi umani legati al secondo conflitto mondiale o ancora di riemergere nelle difficoltà del presente quando protagoniste sono giovani ragazze, acculturate ma disilluse da una precarietà esistenziale la cui cifra più alta si specchia nella precarietà lavorativa o in rapporti interpersonali difficoltosi.
A conclusione un’estrema partenza, quella di una nonna tanto amata.
Sto scoprendo una narratrice di talento, pochi tocchi capaci di toccare l’animo, se fossi in lei tenterei un romanzo di ambientazione contemporanea, ne sarebbe sicuramente capace, sulla scia di alcuni suoi racconti contenuti in questa raccolta; molti di essi sono stati premiati del resto …

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Il cane Comunista e altri racconti
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Romanzi
 
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siti Opinione inserita da siti    29 Agosto, 2017
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Che vita!

Un uomo di mezza età, scrittore di necrologi di personalità letterarie, affermatosi poi come biografo, vive una tranquilla esistenza in un piccolo centro agricolo dello stato di New York. William Dubin sarebbe rimasto scapolo se un giorno alla sua scrivania non fosse giunta una lettera di una giovane vedova con figlio, in cerca - tramite la testata - di una possibile frequentazione maschile a scopo di matrimonio. Così William si sposa, sposa Kitty ancora legata al fantasma del suo Nathaniel, mentre lui, William, nel frattempo matura un certo successo con le sue biografie; pubblica “Vite brevi” compendio di tragiche e premature dipartite oltre che di illuminanti esistenze, ha all’attivo una bella biografia su Lincoln e di recente ha riscosso un congruo successo con quella di Thoreau.
William Dubin si prospetta fin dalle prime pagine come un personaggio imperdibile, è incontenibile nello snocciolare aneddoti sulle vite altrui, per ogni occasione è lì ad associare un’illustre esistenza. Schubert morto a trentuno anni , Cechov malato di tubercolosi , D.H Lawrence condannato dalla stessa patologia. E quest’ultimo, lo scrittore scandaloso de “L’amante di Lady Chatterley”, è l’oggetto del suo ultimo studio, di lui scriverà una biografia grandiosa. In realtà mentre ormai è più vicino ai sessanta che ai cinquanta, diventato padre anche di Maud , ma allontanatisi entrambi i figli ormai grandi, attraversa una crisi esistenziale che va a coincidere con il suo essere fedifrago, il suo rapporto con la moglie diventa opprimente e tedioso mentre spunta come un bel fiore la giovanissima Fanny.
Ho letto con interesse le prime duecento pagine, protesa all’incompletezza di un uomo incapace di godere e di vivere la propria esistenza, saturo però delle vite altrui, di quegli uomini che in campo letterario avevano lasciato un segno. William vive ricostruendo i vissuti celebri mentre si perde correndo nella campagna, inseguendo una dieta, tentando di vivere il suo matrimonio, ripercorrendo però in maniera compulsiva le vite altrui. Anche la moglie, ben caratterizzata quanto lui, ha aumentato la curiosità col procedere della lettura che nel frattempo si è involuta nelle oltre cinquecento pagine in modo spesso triste e ripetitivo senza slanci narrativi interessanti nell’incedere ciclico delle stagioni. Nemmeno l’abilità, devo dire per me sorprendente rispetto all’idea più casta che mi ero fatta dell’autore, di rappresentare la sessualità all’interno del matrimonio e soprattutto fuori, ha mantenuto desta la mia attenzione pertanto ho faticato a portare a termine il romanzo trovandolo infine inconcludente e irrisolto come lo stesso Dubin, anche se efficace, riuscito e potente personaggio.

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la produzione di Malamud e ambisce a conoscerla tutta
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Romanzi storici
 
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siti Opinione inserita da siti    23 Agosto, 2017
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OLTRE IL CORPO, OLTRE L’ ANIMA

Il mistero dell'esistenza è il vero protagonista di questo magnifico romanzo dal tono esistenzialista e decadente. Adriano, l'imperatore narratore che in una lettera a Marco Aurelio dà voce ad una meditazione sulla scia dei ricordi per tentare quella conoscenza di sé alla quale non è ancora giunto, è semplicemente controfigura di tale mistero. Ognuno di noi, sembra dirci la Yourcenar, è controfigura di sé stesso, siamo tesi dal momento della nascita fino alla morte ad un processo di conoscenza del mondo, degli altri e di noi stessi. Nel cercare soprattutto la nostra intima essenza, nel tentativo di accettarci, sfuggendo l'ossessione di una vita mancata, viviamo consci già di essere soli nella variabilità umana, molteplici nella nostra individualità, battuti dall'esistenza per cui la vita si profila come una “sconfitta accettata”. Ad essa poi sono necessari una serie di mali che tutti vorremmo evitare: malattia, amore non corrisposto, mediocrità personale, incapacità di dare sostanza ai sogni, elementi tutti in realtà funzionali a far emergere le virtù migliori dell'uomo, indissolubile connubio di bene e male. Ripercorrere la biografia di Adriano permette dunque di godere di un'eccellente ricostruzione storica nutrita di fonti molteplici e al contempo di fruire di una straordinaria opera d’arte, trasfigurazione di un dato oggettivo in entità soggettiva. Si assiste ad una sorta di resurrezione dai meandri della storia di un suo personaggio restituito come persona nella sua umanità. Si percepisce a tal punto vicinanza con questo essere umano da piangerne la morte magistralmente siglata dopo le affascinanti pagine della sezione ultima ”Patientia”, tese alla riconciliazione dell'uomo col mondo, in poche efficaci pennellate arricchite dai bellissimi e noti versi di Adriano. Opera complessa, composita, stratificata ma di eccezionale fruibilità data la sua stessa essenza, simile alla vita.

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Romanzi
 
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siti Opinione inserita da siti    17 Agosto, 2017
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AZ IGAZI

“Az igazi (“quello giusto”con valore neutro) era intitolata la prima versione - apparsa in Ungheria nel 1941- di questo testo, e solo due erano le voci che narravano il triangolo amoroso attorno a cui ruota la vicenda. Per l’edizione tedesca del 1949 Márai aggiunse il terzo monologo che, rielaborato nel 1980, fu dato alle stampe insieme all’epilogo. ..”
L’edizione Adelphi presenta il romanzo nella sua integralità e la nota iniziale è doverosa onde evitare di tacciare il romanzo quale dispersivo, disorganico, prolisso, qualità invero che gli sono proprie ma che non lo connotano affatto. A mio parere occorre semplicemente tenere conto della genesi su riportata e della volontà dell’autore. È insomma un romanzo che vive di giustapposizioni ma che al contempo si nutre di una sua funzionale economia interna seppur con qualche criticità che lo scalza dal podio del capolavoro. Leggerlo è doveroso perché fonte inesauribile di riflessioni, non tutte condivisibili, a dirla tutta, la mia edizione è diventata un prototipo di libro orecchia, diciotto su quattrocentoquarantuno pagine, equamente distribuite nelle quattro sezioni. Si tratta in breve di diversi punti di vista su una medesima vicenda, ne veniamo a conoscenza mediante il racconto che i protagonisti fanno ai loro interlocutori in un dialogo che vira al monologo, uno degli interlocutori diviene poi a sua volta il narratore dell’epilogo.

Una prima moglie, un marito, una cameriera, un musicista; rispettivamente la storia di un matrimonio, di una passione sopita, di una scalata sociale, e del succo di tutta la storia.

Marika appartenente alla borghesia ungherese sposa Peter e si dedica a lui, brillante borghese amante della cultura e dei libri; si accorge che lui non le appartiene completamente nello spirito; scopre che vive una tensione irrisolta avendo pensato in gioventù di poter abdicare al suo ruolo sociale inseguendo la pulsione che lo spingeva verso la giovane cameriera proletaria giunta dalla fossa di famiglia dove era uso coltivare meloni. Marika tenta di salvare il suo matrimonio nonostante sia minato anche dalla perdita del loro figlioletto , senza riuscirci; ama il marito ma è condannata a non riuscire a vivere con lui: “Amare non è sufficiente”e non solo … non esiste nemmeno la persona giusta, tanto meno può esserla quella a cui noi tributiamo il nostro amore, ogni persona è bene e male, possiede un pizzico del giusto che andiamo a cercare, non esiste la persona che ci può dare quella felicità totale alla quale agognamo.
Peter è invece un uomo schiacciato dalla sua identità sociale; è ricco, ligio al dovere, irrisolto, tendenzialmente solitario, costretto alla vita sociale, imbrigliato e vigliacco. Prima del matrimonio è incapace di assecondare la passione per la giovane cameriera Judit Áldozó, : “all’epoca ignoravo tante cose, ad esempio che quando un essere umano obbedisce alla legge del proprio corpo e della propria anima non è mai ridicolo.”. Fallito il primo matrimonio finalmente la sposa ma lei si rivela altra persona, fallisce presto la loro unione. Lui matura una visione distruttiva dell’amore: “Amare significa semplicemente conoscere appieno la gioia e poi morire.”

Judit Áldozó è una giovane proletaria, a Budapest conosce un altro mondo fatto di pulizia, profumi, modi gentili, ossessioni e nevrosi incomprensibili, ricchezza materiale ed estrema povertà d’animo. Si spaventa, si difende ma progressivamente si fa fagocitare da quel mondo fino a divenire una signora anche lei pur non tradendo mai la sua vera essenza plasmata dall’ estrema povertà delle origini. Sposa Peter e lo annienta. Il suo monologo appare stridente e perfettamente contrapposto a quello della prima moglie: Marika ha vissuto l’amore, quello vero pur fallendo nel vincolo matrimoniale, Judit si rappresenta invece nel suo squallore umano, incapace di amare.

L’epilogo è affidato al musicista che entra in contatto con lei dopo il suo trasferimento a Roma e narra la sua storia a Peter stesso anch’egli fuoriuscito dall’inferno ungherese dopo l’assedio di Budapest e l’avvento del regime comunista. Questa sezione come parte del monologo di Judit dedicano ampio spazio alla rappresentazione dell’orrore della città assediata, i ponti divelti , Buda e Pest separate , il terrore del regime; appaiono dunque slegati dall’intimità dei primi due monologhi per tentare una sorta d ricognizione aerea sul destino dei singoli inquadrati in una Storia di più respiro, una tragedia infinita segnata dall’orrore della guerra posta lì come ad appianare ogni miseria umana.
Trasversale ad ogni pagina di questo bel libro l’amore per la lettura e la cultura:” … la cultura è quando una persona … o un popolo … sono pieni di gioia immensa!”
E il succo di tutta la storia? È il concetto di democrazia contenuto nella bellissima immagine finale, impossibile anticiparla.

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siti Opinione inserita da siti    16 Agosto, 2017
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La Maya desnuda

Sarebbe interessante rileggere la piccola vicenda della graziosa Else, signorina borghese, donna in erba, secondo un’ottica esterna, magari attraverso il punto di vista di un personaggio minore o meglio di una comparsa quale è nell’economia del racconto, ad esempio, il portiere dell’albergo di San Martino di Castrozza, dove l’intera vicenda è ambientata in una manciata di ore. Cosa avremmo letto in quel caso? Rappresentazione curiosa o annoiata della vita di facciata di un piccolo mondo perso tra le Alpi, piccolo specchio di una realtà corrispondente rimasta a valle o in città, là in Austria tra la casa in campagna o la capitale Vienna? Condanna di vizi perpetrati in scala ridotta anche all’ombra del Cimon? Adulteri, frodi fiscali, ricchezze apparenti sull’orlo del collasso, vacuità del vivere? O forse il narratore avrebbe catalizzato la sua attenzione proprio su lei , la giovane Else, in vacanza con la zia, ragazza perspicace che fiuta la tresca del cugino con una donna sposata, ragazza conscia della propria sensualità ma libera e aperta a tutta una vita davanti. Ne avrebbe percepito il disagio in quella piccola società ai piedi della montagna? Avrebbe sorriso del suo sguardo curioso e penetrante capace di scandagliare il perbenismo di facciata? Avremmo saputo se, dopo aver letto la lettera con l’infame richiesta della madre per salvare le sorti del marito, Else cambiò per caso atteggiamento, apparendo confusa, stranita, turbata se non perfino sconvolta o disvelata. Così la vuole il signor von Dorsday, senza veli, nuda prostrarsi a lui in cambio di quei soldi chiesti a favore del padre su pressione materna. E invece no, noi l’intera vicenda la leggiamo calati completamente nella mente della giovine che ci conduce, secondo la sua visuale, a conoscere una realtà triste e misera che va a incrociarsi e a scontrarsi con un meraviglioso immaginario femminile. Stupisce la capacità dell’austriaco di calarsi nella mente disinvolta di una giovane donna, nei suoi desideri e nelle sue delicate pulsioni per poi seguire il collasso parossistico di questo immaginario femminile franto contro il muro della buona società, misera, gretta, falsa. La sua femminilità è messa a nudo per tutta la durata del racconto ed è un piacere scoprirla, peccato combaci con l’atto stesso del denudarsi, tangibile, concreto e reale a siglare la fine del mistero quale è la mente di una ragazza quasi donna. Bel racconto, pare sia da leggere in parallelo al romanzo”Teresa: cronaca della vita di una donna”, dai critici ritenuto il capolavoro di Schnitzler.

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Estasi di libertà
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siti Opinione inserita da siti    10 Agosto, 2017
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Contesa

Romanzo difficile, affascinante, criptico e controverso come non mai. Le prime tre qualità sono caratteristiche congenite ad ogni scritto dell’americano naturalizzato inglese, la quarta deriva invece dalla delicata operazione di traduzione che può risultare inficiante rispetto alla lettura e alla stessa comprensione. Sono stata fortunata e mi sono imbattuta, senza sapere prima dei limiti di altre traduzioni in circolazione, nel lavoro di Ugo Tessitore per i tipi di Marsilio; in una breve e nascosta nota egli stesso giustifica alcune scelte di traduzione fatte per garantire una maggiore aderenza al contesto descritto da James ma soprattutto specifica l’utilizzo della maiuscola nei pronomi di terza persona presenti nei dialoghi per appianare ambiguità accessorie che genererebbero una fatica di lettura ancora più evidente in quella che è già prassi consolidata del divertito James. Ad ogni modo ancora una volta la lettura si è presentata impegnativa, sfumata, criptica, allusiva; occorre lasciarsi trasportare dalla prosa di James ed evitare la presunzione di seguire il suo gioco, non cadere nella tentazione di sciogliere qualsiasi perplessità, fumosità, dubbio o incomprensione visto che sono stimolati ad arte tra le righe del racconto a generare un’instabilità tipica del lettore jamesiano. Occorre sicuramente prestare la massima attenzione e non perdersi in una prosa mirabolante, contorta ma lucida, complessa ma necessaria per godere di una narrazione che per temi e implicazioni morali risulta straordinariamente moderna.
In breve questa è la storia di una bambina contesa da due ricchi genitori che ottengono dal tribunale un affidamento della stessa per sei mesi l’anno ciascuno. La piccola bimba, ritratta fra i sei e i nove anni, girerà come una trottola fra le esistenze di due genitori miseramente falliti e in preda solo al loro fallimento coniugale che innesca tremendi rancori e inutili ripicche ai danni della bimba stessa. Nel contempo la piccola verrà avviluppata dalle tresche amorose dei due i quali repentinamente si faranno accompagnare da amanti dal dubbio valore morale i quali fra l’altro, paradossalmente, diventeranno le proiezioni degli iniziali conflitti messi in atto dai genitori per accaparrarsi la piccola, sostituendosi di fatto alle figure genitoriali. Le persone che ruotano intorno a Maisie e che bramano di possederla sono ambigue così come tutte le relazioni che si innescano fra adulti e fra essi e la stessa piccola. James amplifica l’instabilità legata al destino di questa bimba con la scelta stilistica di assumere il punto di vista della bambina pertanto tutte le vicende narrate sono trasposte secondo la visuale limitata di una bimbetta precocemente esposta a volgarità, bassezze comportamentali, intrighi amorosi e preoccupazioni pecuniarie. Il motore che anima il comportamento adulto e che inevitabilmente implica ritorsioni nel suo vissuto è un misto delle più tremende passioni umane: rabbia, gelosia, superficialità, pulsioni erotiche, mire economiche e conseguente attaccamento al denaro, inadeguatezza al ruolo genitoriale. Soprattutto questo colpisce, visto che la stessa Maisie vivrà una sovrabbondanza di genitori, emblema stesso del suo abbandono. Maisie dunque cresce non tanto tentando di dare una lettura a questi eventi ma lasciandosi da essi trasportare con entusiasmo e con amore, si affida innocente e sprovveduta ad ogni adulto che si prende cura(?) di lei riuscendo con la sua ingenuità e con la sua innocenza a cogliere del positivo in tutti loro. Sono imperdibili i ritratti dei singoli personaggi secondo la sua ottica: oggettivi, reali e per questo spiazzanti. Il suo entusiasmo iniziale per le persone le permette di conquistarle, di fare in modo che loro vengano in un qualche modo legati a lei mentre agiscono tutti per un secondo fine che non è certo il suo benessere; spesso gli stessi adulti paiono farsi gioco dell’ingenuità della bimba che nel frattempo ha però acquisito un linguaggio adatto al contesto esperienziale al quale è sottoposta. Parla come un’adulta, le sue parole sono ambigue, instilla il dubbio che dietro una loquacità precoce non ci sia solo quell’ingenuità che fa scattare il sorriso dell’adulto navigato, Maisie forse sa e ha capito ma che cosa sa realmente? È questo l’enigma, Maisie non è forse solo una bambina che vive “in quell’intensa percezione del presente che è la mente infantile”?

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Giro di vite
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Storia e biografie
 
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siti Opinione inserita da siti    03 Agosto, 2017
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Ritratto di signore

Corposa e documentata biografia di un grande narratore, ideata e scritta come un romanzo, una biografia romanzata appunto che permette di fruire di una bella opera letteraria, data l’elevata cifra stilistica ma soprattutto considerata la simbiosi con lo stile del grande James. La prima metà della biografia riecheggia infatti le atmosfere narrate nei romanzi e nelle novelle dell’artista e si rimane colpiti da questa aderenza stilistica e piacevolmente catturati. Ci si sente quasi a casa, se si sono lette e apprezzate non di dico tutte ma molte delle sue opere. Il godimento del lettore raggiunge poi l’apice quando, a ritroso, dopo aver subito la sconfitta del debutto teatrale di James e aver cambiato casa con lui arrivando ad una sorta di buen retiro nelle coste britanniche della cittadina di Rye, si ripercorrono i fatti salienti della sua esistenza. Entrano in scena molti dei suoi famigliari e tante conoscenze, maschili e femminili, qualche buona amica ma fondamentalmente un grande solitario, un uomo forse irrisolto, e chi non lo è, dal grande fascino, dalla grande signorilità ed eleganza, che è riuscito faticosamente a vivere la sua intima frattura in seno alla sua famiglia, tra due continenti , a cavallo di due epoche così diverse e così complementari l’una all’altra. Si capisce ancora di più quella definizione di cerniera, di ponte che spesso gli viene data. Ci si affeziona pure all’uomo e si vorrebbe capirne tutti gli intimi segreti ma lo stesso Tóibín non osa tanto e allora gioca fra il non detto, alludendo, rimandando, permettendo al lettore di farsi la sua personale idea, non ha lasciato il nostro tracce tangibili della sua essenza più intima (prima di morire bruciò molta corrispondenza privata salvo poi dettare uno scritto dal letto di morte). O meglio non fonti dirette, benché abbia provveduto anche a scrivere una sua autobiografia, ma molto ha lasciato non detto, alluso, da percepire, interiorizzare e accettare … e chi l’ha detto che tutto debba essere esplicitato. Lo sanno bene i suoi lettori. La maestria di Tóibín è allora quella di regalarci un fedele e affascinante ritratto di signore, aiutandoci anche a capire quanto di se stesso in fondo egli abbia già detto, basta saper leggere tra le righe della sua importante bibliografia, lì si ritroveranno episodi significativi della sua esistenza, rielaborazioni artistiche di dissidi interiori, fascinazioni culturali e importanti anticipazioni stilistiche di tanta narrativa a venire. Imperdibile.

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Le opere di H. James in particolare bastano" Ritratto di signora" e "Giro di vite" ma si allude anche ad altri scritti che consiglio comunque di leggere quali "Washington Square" e "Daisy Miller" e non solo questi.
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siti Opinione inserita da siti    29 Luglio, 2017
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La follia del vivere

Primo romanzo di Conrad, discontinuo nello stile, ricco di aggettivi e di una certa prolissità descrittiva ma efficace e originale nella struttura narrativa affatto lineare e affidata a complessi flashback. Vive le sue pagine più belle nel finale quando è in scena la definitiva caduta di Almayer, unico bianco a vivere nelle coste del Borneo; in realtà tutto il romanzo è teso a rappresentarne la disfatta, lenta e inesorabile, inevitabile in terra straniera, vinto egli prima dalla natura selvaggia, poi dai falliti vincoli umani, ma in sostanza dai suoi sogni di ricchezza o forse solo di affermazione umana. È una figura tragica la sua, olandese di genia, incontra ancora giovane un cercatore di tesori che instilla in lui la follia della ricchezza: ci sarebbe un fiume nella giungla più profonda che garantirebbe l’agognato successo. In realtà Lingard altro non fa che imbrigliarlo in una relazione amorosa impossibile, concedendogli in sposa la sua figlia adottiva di origine malese, scampata a morte certa in uno scontro con i conquistatori stranieri. È altra figura complessa e tragica la sua, folle, costretta a vincoli impossibili, sanguigna, in eterna ribellione. I due hanno una figlia, Nina, è del suo avvenire preoccupato il padre, è l’emblema della disfatta dell’unione dei due mondi; è una affascinante meticcia, educata al pensiero bianco, in balia di due universi opposti l’un l’altro, anch’ella schiacciata da due realtà e da esse non pienamente accettata. Il suo amore per Dain, oppositore del dominio olandese, le apre la via per una affermazione personale e per una felicità possibile anche se monca perché deturpata, abbruttita, limitata dall’opposizione paterna. Un padre che ama follemente la sua bambina, che ancora ambisce al tesoro, che fa costruire addirittura nuovi locali a ridosso della sua banchina desolata sperando in nuovi pionieri anglosassoni, è la sua follia, quella di cui tutti parlano, ciò che lo ha reso popolare nei discorsi tra marinai, è lì che ha attinto il giovane Conrad per elevarlo a icona della tragicità del vivere umano. Il romanzo, seppur interessato da evidenti e contraddittori limiti ideologici, è altro ancora a dimostrazione della sua complessità, riflette non solo una visione personale della vita ma anche uno stile in divenire fatto di compassionevole narrare la miseria umana e specchio di un tempo di conquista, di ferocia, di sopraffazione.

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Racconti
 
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siti Opinione inserita da siti    29 Luglio, 2017
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Voci di Sardegna

“Non solo oggi. E non solo in terre e tra genti lontane. Anche gli angoli più remoti del nostro passato raccontano storie di umana disperazione. Vi siete mai fermati ad ascoltarle? Ancora le esala il sottosuolo col suo respiro umido e profondo che spezza il silenzio del tempo. O le urla la voce del mare che sferza con rabbia le scogliere scoscese. Hanno la durezza della pietra che le racchiude e l’evanescenza del vento che le disperde nell’aria a inseguire l’irraggiungibile fugacità delle nuvole. Le porta il volo di un gabbiano che plana leggero o il bianco di una vela all’orizzonte …”
Opera prima dell’esordiente Laura Vargiu , anno 2012.
La raccolta è aperta dal simpatico racconto che dà il titolo a tutto il lavoro, un testo semplice e delizioso come la spontaneità di un gesto immediato ma efficace. Senza inutili fronzoli e con una prosa pulita e lineare in poche battute l’abile narratrice permette di entrare dentro una comunità e la Storia: la famiglia di un cantoniere, restio alle miniere, una notte accoglie la richiesta di un giovane militante comunista che sentendosi braccato lascia in custodia un piccolo meticcio senza nome … quando lo avrà riecheggerà ironico sulla bocca di tutti …
Si dipana lentamente la storia di questo nucleo famigliare originario dell’oristanese e giunto nel Sulcis : sono piccole e grame esistenze che necessitano, per i capricci della storia, di essere azzerate , resettate se un conflitto costringe il capofamiglia a lasciare gli affetti in balìa di un gramo sussidio assistenziale che obbliga la moglie a divenire cernitrice e i figli a crescere soli, aspettandone il rientro dalla miniera assurti a status di orfani di guerra finché il reduce, inaspettatamente, non torna. Bellissime pagine narrano il loro incontrarsi: la scrittura è efficace e , immediata, giunge al cuore. Spesso la narrazione ci avvicina ad Angelina, la prima delle figlie femmine, e quando è voce narrante e quando la sua determinazione la spinge fuori casa per mero capriccio. Preferisce fare “sa srebidora”, ovvero la donna di servizio, per assecondare i suoi vezzi da ragazzina piuttosto che stare in casa ad accudire ai fratelli più piccoli. La sua indipendenza è però eccessiva nel contesto sociale in cui vive e nel quale viene confinata. A lei spetta solo registrare le incongruenze della vita al soldo di un povero arricchito e accettare il volere paterno che preclude a priori ciò che è sentito come deviante e pericoloso. Procede intanto la Storia e si entra nel ventennio fascista per approdare poi al secondo conflitto mondiale.
Il cambio di ambientazione è necessario quando vengono richiamati i fatti storici dell’eccidio di Buggerru che portò poi alla proclamazione del primo sciopero generale, si seguono in questo caso le tristi sorti di Barbara, giovane cernitrice. Gli ultimi racconti in realtà spostano l’attenzione dai primi protagonisti rappresentati ma ci si ritrova subito … ”La venditrice ambulante” e “L’ultima corsa” narrano le piccole storie di un paese e i suoi possibili attraversamenti: la donna che seguendo la linea ferroviaria porta le sue merci e la “littorina” ovvero il convoglio ferroviario che solca ,a scartamento ridotto, percorsi destinati all’oblio.
Mi ha fatto enorme piacere leggere questa bella raccolta di racconti dalla scrittura limpida, intanto perché è ben scritta e in seconda battuta perché ha il merito di amplificare le voci dei nostri genitori e per chi ha la fortuna, in questa terra di longevi, dei nostri nonni, piccoli fatti che aiutano a capire la nostra storia, la nostra economia, il nostro territorio e le nostre piccole esistenze attraversate dalla Storia. Il paesaggio poi reca nell’animo trafitto i segni della sua peculiarità, solo chi si affaccia ai balconi sul mare e vede specchiate le laverie nel blu cristallino può capire o chi, viceversa, abbandonando gli itinerari più consueti, ha l’ardire di scovare una casa cantoniera, una traccia di binari divelti, una tradizione popolare ancora sentita e cercare il contatto con chi, fermo a guardare sul ciglio della strada, i camper passare, ha ancora tanto da raccontare …
Laura, complimenti

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siti Opinione inserita da siti    26 Luglio, 2017
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Un piccolo fuocherello ardente

Romanzo di ispirazione autobiografica pubblicato nel 1816, riporta in maniera indiretta tormenti e afflizioni di un giovane uomo che sperimenta l’amore e ne rimane indubbiamente battuto. L’autore, padre del liberalismo moderno, noto più come saggista, filosofo e uomo politico, ebbe una vita cadenzata da importanti avvenimenti storici, ancora giovanissimo visse la Rivoluzione francese e il periodo del Terrore per poi vedere trionfare il giovane Napoleone e senza rimanerne affascinato- come tanti- si fece portatore nell’età della Restaurazione di una nuova riflessione politica, una dottrina costituzionale basata sulla divisione tra potere legislativo e potere esecutivo. Negli anni della sua giovinezza visse una importante e tormentata storia d’amore e allo stesso tempo una relazione intellettuale con la celebre Madame de Sta?l in un noto connubio antinapoleonico.
La trama della novella è abbastanza lineare, Adolphe è un giovane pieno di sé e alla ricerca di conferme che i successi amorosi possono aiutare a costruire. Va dunque fiero di essere riuscito senza troppe resistenze a godere dell’amore di una avvenente donna che, compagna di un conte e madre di alcuni bimbi, dopo essere riuscita faticosamente a farsi accettare da un ambiente chiuso e conservatore, lei di origine russa, non maritata, dalla moralità dubbia ma dal forte ascendente, lascia tutto per concedersi totalmente al suo spasimante. Ellénore non conosce dubbio in amore mentre l’intrepido Adolphe si rivela uno sciocco, non regge lo scontro con le richieste sociali, il padre lo allontana a più riprese dalla donna, non regge la diversità dell’ambiente al quale la relazione lo porta, non regge infine l’amore stesso: è una spira troppo avviluppante per l’avveduto giocatore d’azzardo. Sì perché lui gioca con il cuore della donna, riconosce di non amarla ma non la lascia e non riesce neanche a starle accanto. La vicenda si conclude con toni da melodramma, forte la donna , debole e misero il giovincello, con una piccola lezione di vita che tende a sigillare la verità che tutto il male che c’è attorno a noi è in prima misura dentro noi stessi, possono cambiare i luoghi , i tempi, le situazioni ma quel piccolo fuocherello ardente di misera passione e limite umano ci segnerà ovunque noi saremo. Lo scritto è il risultato della trasposizione letteraria di un manoscritto ritrovato fortuitamente dal primo narratore, egli pertanto compare solo nella cornice e alla fine in una lettera all’editore che ha acconsentito a pubblicare una storia da lui indirettamente vissuta - conosceva e frequentava Ellénore - e che ai protagonisti non può più nuocere.
La lettura è gradevole e sorprendente la modernità dello stile e del contenuto, altrimenti non poteva essere visto il cenacolo letterario dal quale l’opera si è generata e si è nutrita e in ottica emotiva e in ottica culturale.

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siti Opinione inserita da siti    25 Luglio, 2017
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Banalmente affascinante

Romanzo appartenente alla prima fase della narrativa jamesiana, pubblicato per la prima volta in Inghilterra nel 1880, se si sono già letti i suoi romanzi brevi più belli “Giro di vite” (1898), “La bestia nella giungla” (1903) o il romanzo lungo “Le ali della colomba”(1902) o ancora il più noto “Ritratto di signora - coevo a Washington Square - si rimarrà inizialmente sorpresi dalla narrazione fluida, dalla trama spicciola, da un romanzo che apparentemente sembra abbastanza sempliciotto. Eppure non nego che mi è piaciuto e come al solito sono stata in balia dei capricci jamesiani. Si legge, il lieve romanzo, ancora una volta sulla scia di una lunga prospettiva chiedendosi che cosa accadrà mai, quale sarà il punto di volta, dove lo si troverà inaspettatamente, e ancora quali sviluppi conosceranno i personaggi, quali evoluzioni, perché sì un punto di volta ci dovrà pur essere. Ed eccoci di nuovo caduti nell’inganno! Nessuna evoluzione, nessun importante smottamento, nessuna rivoluzione, nessuna!! Eppure si arriva alla fine piacevolmente intrattenuti da una banalità che ha il fascino di suscitare quei grandi interrogativi che portano ad andare un po’ sopra le righe per chiedersi semplicemente: come viviamo, che significato attribuiamo agli eventi che ci capitano, come reputiamo di essere in grado di essere noi medesimi gli artefici del nostro destino, e ancora come viviamo il nostro temperamento personale, ne abbiamo uno effettivamente marcato e marcante?
Il romanzo è ambientato in America, New York, in una abitazione borghese sita in Washington Square, il fulcro di tutti gli eventi, la metafora dell’immobilismo più assoluto della povera protagonista Catherine. È la figlia poco apprezzata del Dottor Sloper, noto negli ambienti per rigore, onestà e fine intelletto, quello che lamenta mancare alla figlia, l’unica rimastogli dopo la morte prematura di un figlio e della moglie, emblematico il fatto che lui così capace non sia riuscito a strapparli dalla morte. Salvo due brevi digressioni, funzionali all’impianto narrativo e caratteristiche della prosa jamesiana, ambientante in Europa, la scena è fissa su Catherine e sulla dimora dove tutto accade, anche quando lei non è presente perché momentaneamente in viaggio col padre. La casa è luogo di incontro con un suo pretendente il quale si rivela fin da subito per i suoi intenti meschini anelanti al miraggio del soldo facile, quello che il matrimonio con quella giovane bruttina e insignificante potrebbe garantirgli. L’accorto Dottor Sloper fiuta immediatamente il pericolo e intralcia le possibili nozze. La dimora è inoltre il luogo dove l’antagonista Morris si troverà a casa proprio in assenza del padrone grazie alla benevolenza della sorella, si appropria degli ambienti a lui più cari, tenta la sostituzione, attende il rientro e cerca di convincere la giovane Catherine del suo amore... Insomma tutta la narrazione è un tira e molla fra padre e figlia e pretendente, mai uno scontro aperto, mai una parola di più, tutto è giocato sul filo della psicologia più fine con una ragazza che riuscirà a giocare la sua partita senza perdere un colpo seppur perdendola.
Consigliato perché piacevole, interessante, suscitatore di interrogativi e insolitamente jamesiano.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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siti Opinione inserita da siti    20 Luglio, 2017
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Nell'ordine delle cose

Il povero signor Falcone è uno straniero nella campagna francese, ancora parla l’italiano con il fratello che, come lui, è riuscito a farsi strada nella vita nonostante le difficoltà legate all’origine e alla nascita. Tony, il protagonista ha messo su famiglia, ha lasciato il suo primo lavoro e si è messo in proprio, possiede una casa di proprietà e sta ora estendendo il suo raggio di affari nella provincia. Il fratello possiede invece un albergo, è sposato anche lui e, come possono, stanno entrambi vicini al padre che vive una tragica vedovanza e preferisce vivere isolato nel suo dolore. Tutto sarebbe nell’ordine delle cose se alla base di questi rapporti interpersonali ma soprattutto alla base del vincolo matrimoniale non ci fosse quel disturbante senso di tranquillità, quella accomodante sicurezza che un piccolo uomo cerca quando va a maritarsi: una moglie in casa, una cucina linda e perfetta, una mamma per i propri figli. E l’amore? Forse c’è anche quello ma non è animato dalla passione, tutto fluisce per un naturale succedersi degli eventi, ci si sposa, si hanno dei figli, si fanno dei sacrifici, si va in vacanza se è possibile, si pensa alla vecchiaia che trascorrerà serena, sistemata la prole. Ma gli uomini nella sicurezza ricercata ci stanno stretti, è uso avere qualche scappatella, tutti hanno delle amanti, occasionali al più, non tali da minare l’ordine delle cose, oserei dire che esse stesse, le fugaci amanti, rappresentano l’ordine delle cose, quello che è stato e sempre sarà. Ma per Tony no, sì lui è tale e quale agli altri, fin quando sulla sua strada non si frappone una sua ex compagna di classe che lui non ha mai considerato interessante, è maritata con un uomo ricco ma seriamente malato e segnato da un verdetto di probabile morte prematura, non hanno figli e gravitano all’ombra della madre di lui. Quando Andrée incontra Tony una sera per la strada lo fa suo e da allora al segnale convenuto si incontrano nella camera azzurra dell’albergo del fratello di Tony, nessuno sospetta, alte le precauzioni, solo i parenti di Tony sanno ma sono accondiscendenti. La narrazione si avvia proprio nella famosa camera dopo un amplesso focoso, il dialogo è uno scambio di brevi battute, Tony risponde distratto alle domande dell’amante e ora in carcere quelle poche parole scandiscono il suo tempo insieme alla serrate domande del magistrato...
Ottimo romanzo dal ritmo serrato, come sempre generatore di dubbi esistenziali, si legge in poco tempo semplicemente perché è ottimamente orchestrato, non si tratta qui tanto di chiedersi quali sono i capi di accusa , pazientante fino alle ultime pagine, è a mio parere molto più inquietante scoprire come una vita tranquilla possa essere miseramente distrutta dalla volontà e dalla tenacia di una sorta di mantide religiosa per riflettere poi su come sia facile annientare un essere umano o forse più di uno...

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siti Opinione inserita da siti    06 Luglio, 2017
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IL DESIDERIO, LA PAURA

Il romanzo datato 1862 apre la fase più importante della produzione dell’autore russo e segue il successo della raccolta di racconti “Memorie di un cacciatore”(1852), all’epoca fu accolto da notevoli e prolungate polemiche e da giudizi contrastanti. Fu letto infatti in chiave sociale rappresentando la società russa nel momento in cui la recente riforma voluta dallo zar Alessandro II poneva fine alla servitù della gleba restituendo la libertà ai contadini e frazionando le terre dei grandi proprietari. Dalla lettura del romanzo si evince il quadro sociale e ci si accorge di essere di fronte ad una realtà in divenire, in parte ancorata ai vecchi modelli sociali , culturali ed economici, in parte invece tesa ad un timido cambiamento di cui pochi paiono avere netta percezione e questo trasversalmente nelle due grandi categorie ivi rappresentate: i vecchi e i giovani. Il merito di Turgenev è appunto quello di offrirci uno spaccato reale, equilibrato, sincero di tali contraddizioni rappresentate dall’atavico generazionale passaggio di consegne.
I giovani Arkàdij e Bazàrov rientrano presso le loro famiglie terminati gli studi. La loro è un’amicizia recente, il primo pare quasi rapito dall’originalità del secondo che offre una visione della vita complessa, disturbante, nichilista andando a colpire tutte le certezze costruite dalla generazione precedente. Soggiornano dapprima presso la famiglia di Arkàdij la quale viene rappresentata nella sua composita complessità fatta di tante sfaccettature esistenziali e sociali. Bazàrov vi si insinua come una spina velenosa aprendo pericolose brecce e sovvertendo il presunto ordine. È un perfetto elemento disturbante che troverà un appetibile antagonista nel signorotto di campagna, zio dell’amico, residente nella stessa casa. Proseguono il loro tour nella steppa sconfinata andando presso la residenza di una gentile signora per poi dirottarsi verso la casa di Bazàrov dove accoglienti aspettano i suoi mesti genitori. In realtà il modulo del viaggio a tappe non è poi così lineare, eventi non anticipabili porteranno a separate partenze, a insperati ritorni e a definitivi congedi.
Con una prosa limpida, efficace, a tratti poeticamente descrittiva, l’occhio di Turgenev esplora gli animi umani e ne coglie le più fallaci contraddizioni rendendo umani anche i più invisi, avvicinandoli al nostro cuore e facendoceli capire nella loro finitezza. La sua penna si affina anche col più modesto, col meno appetibile, perfino col contadino al quale restituisce lo sguardo lucido che il più acuto dei personaggi vanta di avere. Ogni personaggio è persona a tutto tondo. Nikolàj, il proprietario illuminato, percepisce tristemente il solco del tempo tra sé e il figlio, l’ingenuo Vasìlij ne intuisce pure la distanza ma la colma di paterno affetto: sono i padri. Loro, i figli , sono complementari l’uno all’altro e opposti nel loro percorso di crescita, più tradizionalista Arkàdij , più coerente Bazaròv. Personaggio potente, riuscitissimo, amato da me per la sua aura da vinto. Il suo essere disturbante cela un dissidio interiore profondissimo che la penna di Turgenev rende indimenticabile: ”Io invece penso: eccomi qui, sdraiato all’ombra di questo mucchio di fieno … il posto che occupo è infinitamente piccolo se lo si paragona a tutto lo spazio dove io non sono e non sarò mai … E la porzione di tempo in cui mi è dato vivere è così insignificante rispetto all’eternità in cui non ho vissuto e non vivrò mai. E in questo atomo, in questo punto matematico, circola il sangue, lavora il cervello, nascono dei desideri … Che orrore! Che assurdità!”.

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Diario di un uomo superfluo
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siti Opinione inserita da siti    02 Luglio, 2017
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DELUDENTE


Primo Simenon ad andare in libreria nel 1932 con il vero nome dell’autore che, a partire dall’anno precedente, aveva già firmato diciassette inchieste di Maigret. Mi metto comoda, salgo sul mercantile in partenza dal porto di Amburgo e fiuto l’aria di malocchio già annusata dal navigato capitano Petersen, in mia compagnia pochi altri passeggeri: non sarà un viaggetto di piacere. E in effetti ho faticato parecchio a godermi questa traversata, eppure il mio capitano è sempre lui, il caro belga, solo che qui, rispetto alle poche - se paragonate a tutte quelle da lui scritte - opere da me lette, prevale il modulo del giallo e io non amo la sfida intellettuale che quel modulo narrativo richiede: attenzione ai nomi dei personaggi, alle loro descrizioni, ai fatti sapientemente intrecciati alla ricerca di una possibile soluzione. Che cosa c’è da scoprire? Intanto viene compiuto un delitto a bordo, si sospetta di tutti e manca fin da subito un passeggero che non è la vittima. Un’unica conturbante presenza femminile agita le acque e devia le attenzioni mentre l’incedere della nave viene ostacolato da avverse condizioni meteorologiche. La lettura a tratti ha vagamente richiamato “La linea d’ombra”, l’epilogo mi ha confermato di aver subodorato bene il succo della storia ma ahimè siamo in questo caso ben lontani dalla maestria di Conrad benché Simenon sia stato ugualmente abile nelle descrizioni delle avversità marine ma non paragonabili a quelle de “Il tifone”, e mancano in genere quei sapienti brevi inserti che in maniera sintetica portano il lettore oltre la superficie.
Deludente.

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La linea d'ombra, nettamente superiore
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siti Opinione inserita da siti    30 Giugno, 2017
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Libertà


Il racconto, suddiviso in quattro capitoli, estremamente conosciuto all’epoca della sua pubblicazione presso Harper a soli 25 centesimi la copia, con tiratura settimanale di ventimila copie, divenne una sorta di novella molto popolare, nota negli ambienti degli americani trapiantati in Europa, anche perché originata da un caso realmente accaduto.
Si descrive in sostanza il comportamento di una ragazza, il suo nome concorse poi a definire, per un certo periodo, addirittura il cliché della civetta, della scostumata perfino. È Daisy Miller. Da lì parte Henry James con l’intento di giocare nuovamente al tema suo prediletto: l’ambiguità. Tutta la novella è tesa a rappresentare il comportamento di Daisy secondo il filtro del perbenismo e della morale condivisa, lei attraversa il palcoscenico, recita la sua parte e non sente i fischi raggiungerla da una platea condizionata dal ben pensare. Il coprotagonista, l’americano Winterbourne, grazioso connazionale allevato nella calvinista Ginevra, le fa da spalla. È un uomo ammaliato, affascinato, rapito dalla bellezza di Daisy ma gira come una trottola in balia del suo sentire, del veto della zia che non ama i nuovi e sguaiati ricchi americani, un’onta trapiantata nel caro Vecchio Continente, a sporcare quasi l’immagine del vero ricco. È vittima inoltre, lo sciocco, anche degli ambienti romani dove si sposta successivamente l’azione e infine anche dei suoi pregiudizi.
Il sipario cala sulla protagonista che tiene scena fino all’ultimo, mentre Wintheborne appare a fine spettacolo in un fuori scena imbarazzante a chiedersi che ne è stato della rappresentazione, se è finita davvero e che fine ha avuto.
Oltre l’incantevole ambientazione svizzera della prima parte, il lago di Ginevra e il castello di Chillon, il resto mi ha annoiata senza conturbarmi più di tanto, la lettura scorre veloce ma non si imprime.

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siti Opinione inserita da siti    28 Giugno, 2017
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Don Chisciotte nella tana del lupo

Fine giallo psicologico tra l’onirico e il surreale, degna continuazione delle vicende del commissario Bärlach reduce dall’estenuante duello celebrato ne “Il giudice e il suo boia”. È tempo per il nostro, dunque, di dedicarsi a se stesso e di affrontare le cure che gli prolungheranno l’esistenza di un anno. Non più indagini, né elucubrazioni sulla giustizia, né tediosi raffronti con la moderna criminologia, colpevole di spianare la via alla risoluzione dei casi laddove basterebbe un innato fiuto per le indagini. Un sospetto è decisamente meglio perché in un lasso di tempo impercettibile pone in connessione eventi, persone, situazioni, determina sviluppi inenarrabili e tendenti alla conferma , la più bella , quella siglata dall’ennesimo “caso chiuso”.
Bärlach è ospite del suo medico Samuel Hungertobel da novembre e, a ridosso degli ultimi giorni di quel 1948 , dopo aver rischiato di morire per ben due volte, nella clinica dove lo hanno operato gli capita tra le mani la rivista “Life”,annata 1945. È pubblicata una fotografia unica nel suo genere, quella del Dottor Nehle che nel campo di concentramento di Stutthof opera un paziente senza narcosi. Il fatto in sé, di un sadismo tremendo, passerebbe solo commentato se lo stesso dottor Hungertobel non ravvedesse una certa somiglianza con il dottor Emmenberger, chirurgo in una prestigiosa casa di cura di Zurigo.
Si insinua così il sospetto e il commissario destinato al pensionamento si butta nel suo ultimo caso.
Chi ha scattato la fotografia? Ma davvero il sadico chirurgo è morto suicida? Che cosa cela la somiglianza intravista dall’amico medico? Si fa trasferire a Zurigo per essere ricoverato nella clinica sospetta. Che cosa avviene là dentro? Come è esercitata la professione medica? E soprattutto, è ora di sentire l’eminente dottor Emmenberger: si prepara per lui un interrogatorio infernale.
A questo punto le parti si invertono e Bärlach, paladino imperterrito della giustizia, vivrà dei brutti momenti scanditi dal ticchettio dell’orologio che segna le sue ultime ore di vita.
Ad accompagnare l’insolita indagine una serie di teatranti di tutto rispetto: un gigante ebreo avvolto nel suo caffetano sprona e consiglia a forza di vodka, uno scrittore fallito aiuta l’impresa, un’ ambigua dottoressa tradita dal comunismo rinnega la validità di qualsivoglia legge e si arrende alla perfidia umana, perfino un nano dà il suo funzionale contributo. Bärlach è ormai trasfigurato in cavaliere, “tutti dobbiamo essere dei Don Chisciotte, se appena abbiamo un briciolo di cuore e un po’di cervello nella zucca. Ma non dobbiamo combattere contro i mulini a vento … È questo il nostro compito, quello di combattere la disumanità sotto tutte le forme e in tutte le circostanze.” Infine, confinato nella camera del Reparto 3, dal quale nessuno esce vivo, in compagnia dell’incisione di Dürer “Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo”affronta il suo ultimo duello …
Bipartito in maniera perfetta, la seconda parte offre in particolare un condensato di notevoli spunti di riflessione riguardanti i temi più cari allo scrittore elvetico: l’uomo, la vita, la giustizia, in un crescendo di tensione da lasciare senza fiato. Ancora una volta giocando sul modulo narrativo del giallo, questa volta gustosamente tinto di noir, Dürrenmatt celebra l’impossibilità di una giustizia perfetta che al bisogno può essere coadiuvata anche da un pizzico di surreale.

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Simenon
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siti Opinione inserita da siti    26 Giugno, 2017
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Un padre

Un padre morituro scrive al figlio che non vedrà crescere oltre, con l’intento di lasciargli una più marcata conoscenza di sé, quella che la vita avrebbe potuto concedere se non ci fosse stato il divario anagrafico a separarli. John Ames ha 76 anni, il figlio appena sette. Il suo testamento letterario si trasforma in un bilancio della propria esistenza fatta di storia familiare, di rapporti interpersonali, in un ripercorrere eventi, emozioni, limiti individuali tendenti quasi a ridimensionare la memoria che la sua morte invece consegnerà al figlio con la complicità della comunità di Gilead della quale egli è il pastore.
Gli preme pertanto evidenziare le delicatezza dei rapporti in seno alla famiglia, raccontare del suo rapporto con il padre e ricordare il nonno, figura rasente quasi il mito, le difficoltà attraversate a causa delle lacerazioni apparentemente create da figli dissidenti, e non solo per motivi religiosi, e fomentate dalla rigidità dei padri in un eterno scontro generazionale. Fratture che portano a partenze e a ritorni ma anche a prematuri e necessari abbandoni. Parla al figlio del suo primo matrimonio e del duplice lutto che lo colpì, morte moglie e figlioletta in seguito al parto, della conoscenza della sua Lila , la sua mamma appunto, e della sua prima esperienza di genitorialità vissuta in modo indiretto con il figliolo ribelle del suo più caro amico consegnatogli come figlioccio.
Tutto lo scritto è scandito da pause narrative coincidenti con il sonno, riaprono la narrazione la descrizione del risveglio e del riposo stesso , faticoso e disturbato nell’anziano, dando modo di prendere coscienza quotidianamente della difficoltà del risveglio stesso mentre la mente sta, nel tempo dilatato di questo limitare di vita, concedendosi alla rivalutazione del proprio vissuto, riappropriandosi di una lettura più lucida e coerente del proprio vissuto, quella che non è concessa mentre si vive.
I genitori, l’amicizia, la religione, i luoghi della vita, la luce negli occhi di chi sa vedere, la lettura del mondo, le delusioni, i limiti personali, la possibilità di sperimentare amore si sono impressi nella mia memoria a sintesi di questa lettura densa di riflessioni personali. È stata anche un’occasione conciliante una più serena e proficua rivalutazione della mia esperienza religiosa molto limitata e purtroppo limitante ogni qual volta si scontra con sovrastrutture che fatico ad accettare. Il messaggio evangelico mi appartiene e questo libro me lo ha ricordato insieme alla grande sfida che esso contiene: essere disponibile all’amore. Mi è piaciuto perché infonde speranza all’insegna della grazia e della gratitudine assolvendo il limite che non necessariamente coincide con la cattiveria.

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Le cure domestiche
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siti Opinione inserita da siti    21 Giugno, 2017
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El diablo

Il volume raccoglie quattro racconti che coprono un arco temporale compreso tra il 1877 e il 1903: “Quattro incontri” (1877), “L’allievo”(1891), “Greville Fane”(1892) e il più famoso “La bestia nella giungla”(1903). Sono dunque rappresentate le varie fasi nelle quali si è soliti suddividere la produzione di James, la prima che ci consegnò tra gli altri Il romanzo “Ritratto di signora”, la seconda caratterizzata dal disinteresse del pubblico e dall’insuccesso delle opere teatrali e poi la major phase che ha regalato al lettore gioielli veri e propri come “Giro di vite” e “Le ali della colomba”.
Un unico filo conduttore, macabro, nero , intesse i quattro racconti: la morte accompagnata sempre dall’ambiguità, non che essa sia destinata al momento del trapasso ma, come ben sa il lettore di James, all’esistenza ,tanto da esserne il suo sigillo primario. Può trattarsi del sogno europeo- rievocato a morte avvenuta- della maestrina americana Caroline, e abortito per un raggiro che la congela in un’esistenza altra da quella sognata; può essere ancora l’ambiguo rapporto tra precettore e allievo condannato da malattia e famiglia; o ancora il rimembrare la sfacciata fortuna letteraria di certi personaggi indegni, madre e figlio, che diabolicamente si compensano l’un l’altro e infine, una bestia in agguato come il colombre buzzatiano, temibile, da paresi esistenziale e null’altro che un paletto mentale inficiante e rovinoso.
Tante le tematiche care al nostro James in questa breve galleria: il sogno europeo con le ambientazioni riconducibili al vecchio continente secondo l’occhio americano, il magico connubio tra americani in Europa, l’evanescenza di fugaci incontri e di inaspettati ritrovamenti, l’amore alla James, impossibile e dannato, o monco e mai estremizzato in idillio, e ancora l’ambiguità nelle relazioni umane, il precettore , l’allievo oltre tutto il disappunto per l’industria del libro e il mestiere dello scrivere, un inno alla moralità e all’intransigenza formale che invece dovrebbe accompagnare l’esigenza di esplicitare i propri moti dell’animo.
Bel volume che permette la fruizione del famoso “La bestia nella giungla” a compenso della rinnovata fatica che si fa a inseguire la prosa di James, persi tra fiumi di parole che si arricciano e si dilatano e si amplificano e confondono, turbano, talvolta fanno perdere il filo e arrovellano e stuzzicano per lasciarti sempre con una soluzione aperta, la tua personale chiave di lettura alla vita.
Si lascia la lettura dopo il bellissimo racconto finale quasi trasfigurati in personaggio consapevole che certo non si farà battere dalla bestia della sua personale giungla..ah ah ah … diabolico James!

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Giro di vite
Il carteggio Aspern
Ritratto di signora
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siti Opinione inserita da siti    17 Giugno, 2017
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Se...

C’è tanta vita in questo romanzo, c’è tanta biografia fra queste righe, c’è infine tanto disincanto. Non solo quello dell’uomo, il giudice protagonista, che pragmaticamente consegna la sua esistenza al reale, al tangibile, trascurando il sogno, ma anche quello di un autore e di un grande artista che è riuscito a calare il suo dissidio interiore, strettamente correlato al suo essere ungherese ma prima ancora austroungarico per divenire poi un esule senza patria.
Quando nel ’35 scrive questo romanzo Marai , nato piccolo nobile per concessione feudale da parte di Leopoldo II, figlio di un notaio reale, maggiore di quattro figli, è già stato giornalista gravitando per studi e per affetti a Berlino e poi per lavoro a Parigi ma patendo disagi economici legati al primo dopoguerra. Tornato nella sua terra nel 1928, a ventotto anni non ha più la patria: si stabilisce a Budapest per essere paradossalmente esule in casa: la sua Košice, alta Ungheria , era al’interno di quei territori persi col Trattato di Versailles. Scrive tra il ’28 e il ’48 e si impone nella vita letteraria ungherese, vive grandi soddisfazioni fino a quando la Storia non lo schiaffeggia di nuovo e allora propende per un volontario esilio che risolve solo la caduta del muro di Berlino quando ormai lui si è già tolto la vita.
Kristof Komives, giovane giudice è alle prese con l’ennesima pratica di divorzio, il giorno dopo ancora una volta separerà il legame indissolubile sancito da Dio, tra mille dubbi stavolta amplificati dalla conoscenza dei due coniugi: lui un ex compagno di scuola, lei una fugace meteora nell’universo emotivo del giovane Kristof.
Komives rappresenta la vecchia nobiltà magiara e benché non abbia ancora quarant’anni è rinomato per la sua rettitudine, la sua moralità ma in generale per una serietà che non gli permette di cavalcare i nuovi tempi, una società nevrotica, immatura, incapace del sacrificio della vita vista come “un dovere che dobbiamo adempiere; certo un dovere gravoso e complesso , per il quale a volte è necessario sopportare sacrifici”. È la volontà che lo anima e che può aiutarlo a reggere l’insostenibile, ma la vita è davvero insostenibile o occorre solo una necessaria probità? Svolge il suo ruolo con chiaro intento pedagogico contro una civiltà motorizzata, gaudente, immorale quasi. Lui sa quale è stato il prezzo, non è forse morto suo padre che credeva alla Patria “espressione più alta del concetto di famiglia” , l’animo lacerato per la sua disgregazione e l’intermezzo comunista?
È sposato Kristof, una moglie , due figli, vive e lavora a Budapest e una notte dal passato ritorna il suo ex compagno di studi, il povero diventato medico, il giovane che ha sposato Anna e che ora da lei si sta separando. Viene durante una lunga notte a dire che domani l’udienza non avrà luogo … va via dopo un colloquio anticipatore di quel famoso rincontrarsi che sarà rappresentato in “Le braci”, vuole solo ottenere una risposta …
Bello questo romanzo che permette di avvicinare la biografia dell’autore - è necessario a questo punto leggere “Terra!...Terra!...Ricordi” - e che è permeato di storia e ancora che è capace di avvincere il lettore avviluppandolo in interrogativi le cui risposte potrebbero insinuare il dubbio, il sentimento del se e del ma, inutile e doloroso.

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Le braci
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siti Opinione inserita da siti    14 Giugno, 2017
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Supererò le correnti gravitazionali...

Il concetto di cura è l’anima di questo romanzo che racconta di lutti, di suicidi, di abbandoni e di partenze. Due bambine, Ruth,la voce narrante ormai adulta e Lucille sua sorella, vengono riportate al luogo di origine, la casa materna, dalla loro madre e lì lasciate prima del suo suicidio. Si prendono appunto cura di loro dapprima la nonna, poi le due cognate della stessa e infine la zia Sylvie. È lei che se ne cura ma lo fa secondo dei parametri poco ortodossi suscitando l’attenzione della comunità che si arroga il diritto stesso di cura per preservare probabilmente una parvenza di normalità. Ma cosa c’è di normale a Fingerbone, “posto inverosimile” sospeso tra le acque di un lago traditore e un cielo che soffia afflati misteriosi e potenti capaci di scuotere e scardinare e uccidere quanto l’elemento liquido se si tramuta in piena alluvionale? Qui è stata edificata la casa della nonna, custode del tempo che fu, destinata a resistere agli elementi, ai lutti, ai passaggi delle piccole entità umane che di volta in volta ospita; è una costruzione anomala, pare ergersi su un colle, galleggiare quasi, farsi attraversare dall’aria. È l’ordine nell’apparente disordine fin quando l’economia domestica di Sylvie non sovverte le parti, il caos entra in casa in accumulazione compulsiva, in disfacimento decadente, in catastrofe sociale e l’ordine delle cose va ricercato altrove, fuori, al buio, su un ponte sospeso sopra le acque del lago, nei ruderi di abitazioni sventrate da altre alluvioni o forse semplicemente in se stessi senza orpelli, senza sovrastrutture, senza convenzioni, senza apparenze e perfino senza la stessa abitazione.
Romanzo d’esordio di una delle voci più acclamate della letteratura americana, considerato dal Guardian uno fra i cento migliori romanzi di tutti i tempi, dietro una storia di abbandono e di attesa consegna al lettore il sentimento della disgregazione delle famiglie, la potenza delle scelte individuali, le ferite della vita, il sentimento dell’assenza e dell’attesa che lo accompagna.
Da leggere assolutamente.

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siti Opinione inserita da siti    10 Giugno, 2017
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Come la neve a Bolzano

Noir ambientato a Bolzano, protagonista un’indagine sulla misteriosa sparizione di un bambino alla quale si intrecciano i vissuti presenti e quelli passati, carichi di fantasmi e di tensioni latenti, dei principali personaggi. L’epicentro risiede nella complessità irrisolta del commissario Striggio, gay incapace di affermare la sua identità sessuale apertamente, bolognese trapiantato in una provincia statica, in relazione con un maestro di scuola primaria. Leo, il compagno è tratteggiato all’opposto come un maschio bello e sicuro. A questa diade si contrappone la coppia di genitori, Gea e Nicola, complessa perché maturata all’interno di una famiglia affidataria e per questo vissuta come incestuosa dai genitori di Nicola. Gea ha una terribile storia famigliare, un fratello gemello abusato e scomparso, una mamma già morta e un padre-orco suicida. Michele è l’ unico figlio di questa coppia e mentre il loro matrimonio è in crisi per la promiscuità di Nicola, lui sparisce. Scattano le indagini ma non assurgono mai al ruolo di protagonista, come ci si aspetterebbe. Gradualmente vengono ricostruite le storie personali di Sergio e Gea mentre arriva da Bologna l’anziano padre di Sergio del quale si ricostruisce la storia personale per intrecciarla a quella del suo complesso figliolo. Il ritratto restituito di Sergio bambino fa da contraltare a quello del piccolo scomparso, entrambi geniali per certi aspetti ma fallimentari in altri. Assente del tutto è la rappresentazione del dolore dei genitori, tutto è focalizzato verso questo noiosissimo surrogato di commissario che ha tradito se stesso fino in fondo scegliendo, fra le tante possibilità che si offrivano alla sua mente geniale , di fare lo stesso mestiere del padre. L’ultima vicinanza con il genitore malato terminale gli offre la possibilità di riscattare una relazione mal vissuta e di prepararsi al congedo da lui in modo sano e umano e soprattutto sereno perché nel dirsi addio l’importante è appunto come lo si dice. Il succo di tutta la storia è questa, il giallo risolto alla fine, l’insieme noioso e pesante non riesce neanche stavolta a farmi apprezzare le doti narrative di Fois così unanimemente riconosciute. Molto più gradevole il suo “L’importanza dei luoghi comuni” che riusciva meglio a sviscerare quel tema che tanto gli è caro dei rapporti parentali.

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siti Opinione inserita da siti    06 Giugno, 2017
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TUNDA, CARO TUNDA

Un fatalismo distruttivo anima le righe di questo romanzo, gli uomini visti intenti ad agitarsi, ad affannarsi, dimentichi dei passi del destino al di sopra di loro. Tutto stride agli occhi di Tunda , Franz Tunda, ex tenente dell’esercito austriaco, inghiottito dopo la fine delle ostilità dalla taiga siberiana, ufficialmente disperso, fantasma redivivo poi. Infatti torna Tunda, riemerge da un quadro della storia, spaventato dalla Rivoluzione Russa, reintegrato in vecchi legami sociali: trova pure una moglie ma è ufficialmente ancora fidanzato. Che fa Tunda? Chiude quella finestra temporale e riaggancia la sua, quella lasciata irrisolta dalla Grande Guerra. Va a riprendersi il proprio nome, la propria patria, la propria donna e finisce in fuga, purtroppo da se stesso, dai suoi legami famigliari, dalla sua patria. Non ritrova più niente: la società è incapace di reintegrare il reduce, la vita ha annullato vecchi legami amorosi, la città è contraffatta da altra cultura, è globalizzata, ha perso la sua identità. Gli scomparsi non possono tornare, disturbano il flusso della storia, ricordano le premesse dell’involuzione, annoiano pure…
Tunda, caro Tunda, sei tu un’anima ferita come altre di nostra memoria o la tua esistenza è solo la metafora dello smarrimento?
Lettura dall’impatto immediato meno efficace dei grandi scritti del nostro, vive però di un senso di delusione che gli è connaturato e lo caratterizza , perfettamente in linea con il messaggio veicolato. Se si supera l’atteggiamento da lettore egocentrico alla fine lo si apprezza proprio per la perfetta simbiosi tra stile e contenuto.

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la marcia di Radetzky
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siti Opinione inserita da siti    03 Giugno, 2017
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L'unico diritto umano

Scritta nel 1922 questa bella novella dal sapore esotico è ambientata nel 1912 sulla nave Oceania, la quale , proveniente da Calcutta , fra il suo carico umano variegato fa emergere i due coprotagonisti della vicenda. L’uno è il narratore che in seguito ai fatti accaduti durante l’ormeggio al porto di Napoli rievoca il viaggio stesso, l’altro è il medico tedesco da lui incontrato sul ponte della nave per ben due notti di seguito e a cui consegna la sua vicenda personale.
La nave stracarica, tutta stantuffi e gemiti, l’accozzaglia umana, la calca, il caldo, l’orizzonte monotono segnato dalla navigazione, l’oscurità della notte che, unica sul ponte, concede degno refrigerio ai sensi urtati da eccessiva umanità, restituiscono alla memoria altre belle pagine di Zweig pur anticipandole cronologicamente. Sono quelle della memorabile transoceanica partita a scacchi affidata all’ ultima novella scritta dall’austriaco prima del suicidio. Il tema del suicidio poi è accarezzato dalle parole del medico tedesco al servizio del governo olandese, al rientro in patria, depauperato di tutta la sua esistenza : né pensione, né averi personali, in fuga, condannato dall’amok , una sorta di idrofobia accompagnata da follia omicida che colpisce gli indigeni indonesiani e che lo ha ostacolato nella sua missione di medico nell’incontro fortuito con una donna che avrebbe potuto aiutare se solo non …
Ora ne parla al nostro passeggero ma è un condannato come quello buzzatiano che attende lo scontro finale con il colombre dopo che gli ha impresso il sigillo di morte certa. Non c’è la possibilità dell’aiuto umano, è destinato a stramazzare al suolo , prima però compirà il gesto di redenzione, l’atto salvifico e al tempo stesso di congedo : “la prego, non si disturbi … l’unico diritto umano che alla fine ti rimane è quello di crepare come credi … senza essere scocciato dall’aiuto altrui”.
L’ambientazione coloniale richiamata dall’evocazione dei fatti accaduti prima dell’imbarco, il potere di un mondo di fagocitarti l’animo, il sovvertimento dei sensi, la solitudine voluta e ricercata, l’amore e la morte rendono indimenticabile la narrazione che incede tumultuosa fra i meandri dell’animo umano in pagine febbrili, deliranti, rapitrici quanto l’amok. Degna prova del miglior Zweig.

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Novella degli scacchi
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siti Opinione inserita da siti    26 Mag, 2017
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L'ultimo Zweig

Nel primo dopoguerra la buona società vive con atteggiamento orribilmente godereccio, eccessiva è l’allegria, vergognosa l’amnesia dell’orrore appena superato, pochi gli uomini risentiti per l’egoismo insito nelle scelte del singolo e delle Nazioni. L’Austria poi, ora Repubblica, ha da arrancare- ingabbiata in spazi ancora fastosamente richiamanti la grandezza dell’Impero- per mostrare a se stessa la superiorità dell’entità statale. Il povero se ne avvede ma ancor più il cittadino tradito dalla Storia, forse al povero rimane solo un tempo sempre uguale che lo schiaccia e lo immobilizza ancora di più, nel suo ruolo, nella sua miseria, nella sua disperata e inutile vita. Così è Christine Hoflehner, impiegata delle poste in un piccolo paese a due ore da Vienna. Vive con la madre malata in una piccola stanza, mai uno svago, mai una vacanza, fortunata più di altri per via dell’impiego statale riconosciutole più per intervento dello zio paterno che per riconoscimento dello Stato al sacrificio della sua famiglia: morti in tempo guerra padre e fratello. Un telegramma inaspettato inviato da Pontresina, in Svizzera, la catapulta in un albergo lussuoso ospite della zia materna e del marito, spinta dalle insistenze della vecchia mamma malata. Vi giunge del tutto inconsapevole e impreparata, il divario sociale è inimmaginabile, a priori non la sfiora il sospetto di essere del tutto inadeguata con le trecce, la borsa di paglia, il cambio ridotto al minimo, l’incedere modesto e insicuro: tutto tradisce povertà. È abile Christine ad adeguarsi al nuovo mondo, a dimenticare la sua origine, è giovane e riesce in un tempo brevissimo a diventare un’altra, scoprendosi finalmente bella e libera. Gli agi dell’albergo, ripetutamente rappresentato come un microcosmo alienato e fine a se stesso, il lusso, la gioia superficiale della ricchezza, le riempiono la vita e la inebriano di estasi di libertà. Tutta la prima parte del romanzo, davvero gradevole e tale da chiedersi se l’abbia scritta il nostro caro, disilluso e risentito Zweig, rappresenta questa metamorfosi, un sogno pari a quello vissuto da Cenerentola. Con la seconda parte si assiste invece allo scoppio della bolla di felicità ma soprattutto di libertà, essa è per tutto lo scritto associata solo alla serenità finanziaria, a quella condizione che ti permette di vivere senza essere schiacciato dall’esistenza stessa che reclama pane dove c’è fame , abiti quando c’è freddo. Christine viene presto espulsa dal bel mondo che non le appartiene per tornare al suo punto di origine che , prima della guerra, non era affatto mortificante. La sua vita è nuovamente immobile, impossibile qualsiasi avanzamento di status sociale, rancorosa e arrabbiata, le è impossibile vivere oltre in quella miseria umana, ha ora una consapevolezza pericolosa che meglio che il povero non abbia. Nella seconda parte l’incontro con Ferdinand Farrner aprirà nuovi scenari … non anticipo oltre perché la chiave di lettura è proprio in questa sezione. Qui la penna si fa matura, graffiante, amara facendo emergere una visione disincantata, un vero atto di accusa contro l’Austria e al contempo contro ogni entità statale; come non mai un personaggio riflette il sentire del suo creatore, proietta le sue amarezze, le sue prospettive , le sue illusioni. Lo scritto risente sicuramente della sua pubblicazione postuma, del suo assemblaggio posticcio, della sua mancata revisione benché sia stato rivisto per renderlo pubblicabile come uno scritto compiuto, eppure è bello, e prezioso perché restituisce Zweig già pellegrino del mondo, senza patria, senza speranza, già condannato dalla sua insofferenza.

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Il mondo di ieri
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siti Opinione inserita da siti    17 Mag, 2017
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Una lettera da avvocato?

A trentasei anni cosa si può dire al proprio padre? Perché un uomo sente l’urgenza di scrivergli una lettera e al contempo di tenergliela nascosta? O perché ancora questa missiva diventa scrittura pubblica quando, decisa poi la consegna tramite la madre , lei nel delicato ruolo di paciere la rimanda al mittente?
Insomma documento privato o testo letterario?
Il dubbio della critica potrebbe divenire lo sconcerto del lettore, o meglio così è stato nel mio caso. Ho letto l’intero scritto appunto come una lettera privata, sentendomi pure privilegiata nel poter sbirciare nell’intimità dei rapporti interpersonali avvelenati da una profonda incomprensione, ho gioito e mi sono emozionata ogni qual volta il figlio ha avuto un moto di comprensione per il padre del quale ha rappresentato nel frattempo ogni umana debolezza, ogni limite, ogni sfumatura della sua incapacità di conoscenza e accettazione del proprio figliolo. Sono rimasta allibita quando, poco prima della chiusura , ha siglato la sua lettera con un artificio letterario che ,dando la parola al padre, anticipa le possibili obiezioni che lui gli avrebbe potuto muovere. L’ho trovato uno sconcertante atto di vigliaccheria. Perché non ti sei limitato Franz? Aldilà delle tue paure, delle tue insicurezze, della tua spietata analisi? Perché non sei riuscito a chiudere la lettera meglio? Salvo poi replicare ancora come un vero avvocato, così la siglasti tu stesso la missiva “una lettera da avvocato”, in poche, ultime, efficaci righe che restituiscono il senso di tutto: del vostro rapporto, della vostra reciproca diffidenza, delle vostre paure, del vostro dolore e dunque del vostro amore condizionato. Non rivelo cosa dice il complicato figliuolo ma solo che le sue ultime parole lo riabilitano completamente ai miei occhi. E bando alle ciance!Guai a chi mi parla della cattiveria del padre, non lo assolvo, non lo condanno, non sono giudice né avvocato, sono genitore e figlia e la relazione è sempre complessa, delicata, fatta esclusivamente di quei due esseri che la instaurano, a volte nel peggiore dei modi in una concomitanza di fattori disturbanti e pericolosi ma se c’è amore…

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Kafka
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siti Opinione inserita da siti    11 Mag, 2017
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NON FA PER ME

Congedo le ultime pagine del romanzo con un senso di profonda delusione . La fortuna letteraria dello scritto amplificata dalla trasposizione teatrale e poi operistica non è , a mio avviso, garanzia di qualità letteraria , anzi l’esito stilistico del romanzo è alquanto banale e sempliciotto, infarcito del disturbante, per me, leit-motiv, dello spessore umano presente anche nella cortigiana. Dumas figlio, vittima fra tanti della nota Marie Duplessis, mantenuta particolarmente abile a dilapidare patrimoni di giovani rampolli altolocati, ha avuto forse il merito di sbirciare nelle ipocrisie dell’epoca da lui vissuta e di rappresentare in modo gradevole lo scenario parigino, di creare una sorta di mito al femminile, di edificare e nobilitare il sentimento da lui provato ma nulla più. Mancano ad un impianto narrativo basato su una lunga analessi gli inserti necessari per arricchire l’animo del lettore oltre l’ovvietà, la stessa tensione narrativa è discontinua e la scrittura è stata scarsamente incisiva a livello emotivo. Buona la capacità espressiva nel descrivere il dato oggettivo: un cadavere ( la pagina più bella del romanzo), un viso, un ambiente, fumosa la rappresentazione degli stati dell’animo, le corde del cuore han vibrato solo negli scambi epistolari finali. Peccato!

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siti Opinione inserita da siti    08 Mag, 2017
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Officina letteraria

Il volume curato da Anne Margaret Daniel, autrice di numerose monografie sull’autore e insegnante di letteratura presso la New School di New York, raccoglie gli ultimi racconti inediti dello scrittore. Si tratta prevalentemente di brevi storie e di alcuni soggetti per il cinema resi efficaci da uno stile di scrittura indubbiamente contaminato dagli interessi prevalenti all’epoca, da un vissuto problematico, ma soprattutto da uno sforzo creativo oscillante tra il pragmatico desiderio di vendere a riviste per garantire cure psichiatriche adeguate alla sua Zelda e quello più nobile di assecondare una scrittura matura capace di rivelare un’identità altra rispetto a quella congelata dai suoi più noti romanzi.
La ragione del loro essere inediti è tutta qui: il mercato editoriale non era pronto per il nuovo Fitzgerald, morì prematuramente derubato della sua nuova maturità artistica. Tacciati come scritti “insoddisfacenti”, rimandati al mittente per essere rimaneggiati ad uso e consumo del vasto pubblico, furono degne vittime di un mercato editoriale spietato incapace di andare oltre il cliché preconfezionato che si voleva attribuire all’icona degli Anni Ruggenti.
Il volume è estremamente curato e ogni racconto è preceduto da una nota introduttiva che permette di contestualizzare la genesi di ognuno di essi consentendo al contempo, grazie anche ad vasto repertorio fotografico, di ripercorrere gli ultimi anni di vita di Fitzgerald. Al lettore che conosce i suoi romanzi questi scritti consegnano una degna pietra di paragone e un tassello conoscitivo imprescindibile anche se spesso appaiono irrisolti, frammentari e a tratti involuti per cui ci si ritrova a chiedersi cosa avrebbe potuto ancora regalarci se la sua penna avesse potuto esprimersi oltre il tempo concessogli.
Alcuni racconti riflettono il senso di delusione verso il mercato editoriale e verso l’industria cinematografica, altri affrontano la malattia mentale ( da solo “Incubo – fantasia in nero- ” , ambientato in una clinica psichiatrica, vale l’intero volume), altri sono ispirati alla povertà conseguente la Grande Depressione, al razzismo, ai diritti civili.
È quasi paradossale constatare insieme allo scrittore l’assurdità insita nel mercato che lo osannava negli anni Venti come meritevole scrittore di racconti e lo pagava profumatamente mentre lui si definiva “imbrattacarte” e sorrideva del “ciarpame” che il Post pubblicava.
In sintesi : un volume per appassionati e cultori o anche per lettori curiosi.

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i romanzi dello stesso
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siti Opinione inserita da siti    02 Mag, 2017
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Il senso di una vita

A quasi ottanta anni dalla scomparsa del fisico Majorana ancora si fanno ipotesi sulla sua dipartita mentre l’avanzare del tempo e la sua ormai sicura morte, avrebbe centoundici anni, pongono in un qualche modo la parola fine. Eppure il mistero sussiste e l’anno scorso dopo le rivelazioni rilasciate da un italiano emigrato in Venezuela nel 2008 e il successivo interessamento della trasmissione RAI “Chi l’ha visto?” è apparso per i tipi Chiarelettere il volume “La seconda vita di Majorana” , un’indagine condotta da Giuseppe Borello, Lorenzo Giroffi e Andrea Sceresini. Non ho avuto modo di leggerlo e in realtà non mi sono approcciata neanche al testo di Sciascia, il quale tra l’altro offre un’ipotesi sulla sua fine diversa da quelle più recenti, con l’intento di sciogliere un mistero o avvicinarmi alla sua soluzione, benché per indole sia molto attratta dalle biografie delle persone scomparse rimanendone sempre affascinata.
E appunto in questo bellissimo testo ho soddisfatto il gusto per la biografia, perché questo ci offre Sciascia: una rilettura della vita del grande Majorana alla luce della sua stessa esistenza e non della sua morte. Si scopre allora una persona che viene tratteggiata attraverso il ricordo di chi gli sopravvisse, il fratello Salvatore che lo cerca tramite l’aiuto dei senatori, la madre che lo ritrae in maniera onestissima e toccante in una lettera al Duce allegando l’evidenza di un impossibile intento suicida nel figlio, a detta sua “vittima della scienza”, lo stesso Enrico Fermi che lo ritiene un genio. Numerose sono le testimonianze di cui si avvale Sciascia e scarsi i documenti che sigillano con l’esiguo numero l’impronta data fin da subito alle indagini: un evidente caso di suicidio, reso tangibile dalle stesse lettere lasciate dal fisico. In aggiunta a quanto detto, senza nulla svelare al lettore di questa breve e intensa e particolare esistenza, sia chiaro che il tutto è reso magnifico dall’acume di Sciascia, dal suo rigore intellettuale, dal suo profondo senso di giustizia, dal suo essere siciliano, dal sentimento umano che permette di avvicinare una figura enigmatica restituendogli un’identità umana, vera, viva e vicina nel suo essere eccezionale e nelle sue debolezze. Il ritratto offerto al lettore rimane impresso nella mente e offusca il mistero della scomparsa per restituire il senso di un’esistenza e insieme il ritratto di un’epoca complessa fatta di poteri forti e pericolosi, di menti eccelse e di altre sovraeccitate e malate, di un mondo della scienza onnipotente e senza limiti. Il volume è arricchito dal saggio “Uno strappo nel cielo di carta” di Lea Ritter Santini che amplia i riferimenti bibliografici citati dall’autore a sostegno della sua trattazione: “Vita di Galileo” di B. Brecht, i romanzi pirandelliani sulla frantumazione dell’Io , la citazione di una frase di Camus, l’episodio dell’ Ulisse dantesco e altri ancora. Il saggio aiuta inoltre a capire gli sviluppi vertiginosi della fisica che portarono all’uso sconsiderato della facoltà umana del capire collassata nella forza distruttrice della bomba atomica. Lo consiglio quindi anche a tutti gli appassionati di fisica che sapranno già circostanziare l’esistenza dello scomparso nel contesto scientifico a lui coevo, ponendolo quale anticipatore , premonitore e geniale studioso.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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siti Opinione inserita da siti    28 Aprile, 2017
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SCACCO MATTO

Due individui hanno intrecciato indissolubilmente il loro destino durante la giovinezza per via di una scommessa avente per oggetto il diritto di esistenza del delitto perfetto. Accettandone i termini si macchiano entrambi di una colpa che li lega nel peggiore dei modi. La scelta di Gastmann è quella di compiere il delitto perfetto, quella di Bärlach di provare la colpa di costui. Non riuscendovi, trascorre l’esistenza a seguire e tentare di incastrare il vecchio amico ormai diventato il suo peggior nemico. È giunto ora il momento per il vecchio Bärlach, una vita da commissario, di giocare la sua ultima mossa …
Impossibile svelare oltre onde evitare inutili e dannose anticipazioni, il libro si gusta perché si rivela progressivamente regalando scorci paesaggistici elvetici e una non troppo velata polemica al sistema amministrativo e politico della Svizzera tendente a offuscare il classico rigore e l’efficienza che le si è soliti attribuire. Il romanzo adottando e insieme rigettando la tradizione del genere giallo e del poliziesco si fa portatore di una precisa visione dell’esistenza e con essa della giustizia. La vita è caos, la giustizia invano può porvi rimedio, la ricerca della verità raramente coincide con la giustizia. In questo romanzo quarant’anni non bastano per giungere ad una giustizia che purtroppo pare rivelarsi solo alla fine ma in modo imperfetto e arbitrario, creando a sua volta altra colpa, altra ingiustizia. Su tutti pare trionfare solo la morte come nell’incisione di Dürer “Il cavaliere, la morte e il diavolo”.

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Sciascia
Simenon
e a chi ha visto "Delitto perfetto"
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siti Opinione inserita da siti    25 Aprile, 2017
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Odore d'argento

“Non amare mai una creatura selvatica … non si può dare il proprio cuore a una creatura selvatica; più le si vuol bene più forte diventa. Finché diventa abbastanza forte da scappare nei boschi. O da volare su un albero. Poi su un albero più alto . Poi in cielo …”
Holly Golightly , indubbia protagonista di questo effervescente e fresco romanzo, è la grande assente dalla scena, è già volata per altri lidi quando il misconosciuto narratore di cui sappiamo solo che è uno scrittore in erba ce ne racconta la vicenda. Eppure lei è la forza motrice della narrazione e sapere dapprima chi sia, che cosa fa, quali sia stata la sua infanzia , rileggere insomma il suo vissuto newyorkese sulla scia di queste informazioni è ciò su cui fa leva Truman Capote. E lo fa con grazia pur restituendoci un personaggio assai discutibile sotto il punto di vista etico ma di una bellezza come solo le cose fuggevoli sanno donare. Holly è giovanissima ma navigata, in perenne transito e incapace di instaurare legami durevoli, spicca per savoir- faire ed è invischiata in losche e mafiose faccende. Sa sparire al momento giusto, dosa tempi e sentimenti. Quando crolla, perché il peso del suo vissuto è realmente eccessivo e oltremisura, lei sa come placcare il suo tormento interiore: “ Mi sono accorta che per sentirmi meglio mi basta prendere un taxi e farmi portare da Tiffany. È una cosa che mi calma subito, quel silenzio e quell’aria superba: non ci può capitare niente di brutto là dentro, non con quei signori vestiti così bene, con quel simpatico odore d’argento e di portafogli di coccodrillo.” È impossibile non rimanere incantati da questo personaggio femminile o meglio dalla capacità rappresentativa dell’autore che ha saputo tratteggiare un vissuto, un’indole, una possibilità. Lo consiglio vivamente.

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siti Opinione inserita da siti    24 Aprile, 2017
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ACCESSORIO

Nove racconti e un dramma pubblicati nel 1958, vivono di modernità e di tradizione. Il campo prevalente di indagine è il rapporto d’amore, molto spesso incrinato all’ interno del matrimonio; sono legami che si svelano o si rilevano per la prima volta o si ritrovano in maniera inaspettata. Approcciandomi a questi brevi bozzetti sono rimasta sorpresa, con il primo “Paesi del mondo” si legge uno spaccato di vita quotidiana nipponica : ordinaria storia di una donna alla ricerca della propria identità e maturità sessuale che va a coincidere con il tradimento reale con un ragazzo e ideale con il vicino di casa. A tratti la narrazione mi è sembrata ingenua nella trama ma piacevole negli esiti, qui più vicini al registro dell’ilarità. Ho proseguito incuriosita con il secondo “ Un filare di alberi” e oltre a qualche suggestione legata alle immagini impresse dal nostro , poco mi è rimasto. Ho arrancato faticosamente tra altri due brevi testi per giungere poi ad una sorta di dissertazione sugli stupa che ha destato interesse risvegliando in me una certa curiosità e sono poi giunta all’apice della raccolta , indubbiamente rappresentato dal racconto che dà il titolo alla stessa. Bello, suggestivo, malinconico. Il resto mi ha decisamente annoiato. Lo consiglierei solo ai cultori del premio Nobel e ai curiosi.

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Racconti di viaggio
 
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siti Opinione inserita da siti    20 Aprile, 2017
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Italia, mon amour

Chi ha avuto il piacere di leggere James sa che la sua produzione e la sua vita furono interessate anche dal fascino che su di lui esercitava la penisola italiana e soprattutto , fra tutte le nostre belle città, Venezia. Chi insomma è già stato affascinato dalle vivide rappresentazioni della stupenda città lagunare che il nostro ha consegnato nei suoi romanzi, non potrà esimersi dal leggere questa raccolta di impressioni di viaggio che pur toccando vari luoghi dell’Italia lascia il posto d’onore a Venezia “ scrigno di consolazione” con le prime esaltanti cento pagine. Cosa mi rende così entusiasta? Intanto leggere la percezione del nostro, conosciuto per la sua arguzia e la sua ironia, circa il viaggio, il viaggiare, l’essere turista, l’osservare gli altri turisti, storture incredibili di ciò che non dovrebbe essere il viaggiare. Incredibilmente vive e moderne le considerazioni che accompagnano il nostro, dalla preoccupazione per gli sforzi economici tesi al risanamento del patrimonio artistico compiuto dall’ Italia postunitaria, agli eccessi e alle brutture prodotte da certi restauratori, dallo sguardo affascinato del singolo che è ammaliato dalla bellezza del sito ma perfettamente consapevole della fascinazione subita grazie alla profonda conoscenza dello stesso, alla sempre attuale considerazione che “ per quanto ci possono essere cose sgradevoli a Venezia, nessuno lo è più dei turisti”. Se non bastasse, l’americano ci offre itinerari artistici e culturali ancora validissimi che solo un esperto potrebbe suggerire rendendoli preziosi con note di costume a lui contemporanee: basti pensare al palazzo Alvisi e al salotto letterario della Signora Bronson. Non posso andare oltre, vi deruberei di un enorme piacere. La parte successiva è dedicata ad altri luoghi, James però con Torino e Milano, pur esaltandone sempre le ricchezze pittoriche a quelle architettoniche, si mostra meno generoso anche se non ci risparmia note di colore e curiosità come quella relativa allo spettacolo impressionante dell’esposizione della salma del buon San Carlo Borromeo. Gli scritti a più riprese suggellano impressioni raccolte tra il 1872 e il 1909 e così capita spesso, nel loro giustapporsi, che lo stesso James senta la necessità di rivedere le proprie posizioni e di sorridere di certe sue acerbe impressioni; il lettore d’altro canto, in particolare quello italiano, non ha che da sedersi in poltrona ed assistere al repentino mutamento dello scenario politico, sociale ed economico ( più di una volta ci si sofferma sull’Italia preoccupata per il suo bilancio) registrato negli anni postunitari. Lo sguardo al presente è però accompagnato da tristi considerazioni sulla mediocrità artistica contemporanea e sull’esaltazione dell’arte pittorica passata, sullo scisma tra il vecchio e il nuovo ordine in termini prettamente politici, sul disincanto circa le prospettive di crescita della giovane Italia. Una buona parte della raccolta interessa Roma e i suoi dintorni, anche qui i ripetuti soggiorni permettono di testimoniare un’evoluzione poco gradita e spesso il sentimento che accompagna lo scritto è quello di un abbandono nostalgico per il passato del tutto simile a quello che ci coglie quando si visita un luogo per la seconda volta e a distanza di tempo, quando insomma la nostra memoria lo ha cristallizzato e altro non ci rimane che constatarne ingenuamente il cambiamento come se non avessimo contemplato l’incedere triste e impietoso del tempo e i mutamenti che esso porta con sé. Ampio spazio infine è dedicato all’Umbria e alla Toscana con una debole incursione al sud fino a Capri.
Nel complesso un testo gradevole e curioso, imperdibile per le sue prime cento pagine.

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i romanzi di James
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Classici
 
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siti Opinione inserita da siti    13 Aprile, 2017
Top 50 Opinionisti  -  

XXX

Un uomo in un luogo difficile da localizzare e in un tempo al pari determinato e indeterminato, ultimi giorni della sua vita compresi tra il venti marzo e il primo aprile del 18.., scrive un diario a compendio dei suoi scarsi trent’anni. Racconta una brutta infanzia, è il suo inizio, l’epilogo lo anticipa subito: è destinato a morte imminente. Le prime pagine avvolgono il lettore, ci si predispone subito alla condivisione di una breve esistenza, la cifra stilistica è alta e piacevole. I richiami al mondo naturale, alla variabilità climatica, il ricadere in un gelido inverno, accompagnano gli stati d’animo del morente che non tenta nemmeno di raccontare la sua vita: è simile a quella di tanti altri. Progressivamente il carattere episodico che ci si potrebbe aspettare da queste premesse cede il passo al vero intento dell’autore: descrivere il carattere del suo protagonista ascrivibile alla categoria del superfluo. “ A questo mondo sono stato un uomo del tutto superfluo o , se si vuole di un genere del tutto superfluo”. A sostenere la sua tesi il protagonista utilizza la narrazione del suo innamoramento per Liza e la mancata corrispondenza che suggella il suo stato di incomodo, di inutile, di superfluo appunto.
Il mio interesse per il testo è venuto meno proprio qui, l’ho terminato ma con scarso piacere, ho cercato di contestualizzarlo approfondendo la conoscenza dell’autore e della sua produzione, ho capito che si tratta di uno scritto che trova una precisa collocazione all’interno della letteratura russa perché ricco di richiami intertestuali ma non essendo una grande devota dei russi mi limito a segnarlo a chi più competente o interessato.

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