Opinione scritta da Mian88
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Fanghiglio Frondoso e Lanny
«Arrivò il suono di un canto,
Caldo di fiato creaturale,
E lui si è accoccolato contro di me,
Mi si è appollaiato in grembo,
Mi si è stretto al collo.»
“Lanny” di Max Porter, edito da Sellerio, è prima di tutto sperimentazione. Tanto narrativa quanto dal punto di vista del contenuto. Sin dalle prime pagine colpisce, scuote, disorienta per essere un esercizio di stile perfettamente riuscito, un gioco letterario e artistico, un tuffo pieno e completo nella creatività. Basti pensare a chi apre le danze della narrazione e più precisamente Fanghiglio Frondoso, albero secolare del villaggio, che tutto ascolta e tutto custodisce. Irriverente, malizioso e arguto nel suo narrare per mezzo di una parola che va fuori dagli schemi già solo per il suo proporsi. A seguirlo nel narrare Lanny, un bambino che a sua volta assorbe e fa proprio il pensiero altrui, un giovane puro che parla la lingua più antica, quella della natura, facendola sua, rendendola propria. Scoperte, novità, assenza di confini muovono Lanny a differenza degli adulti che non possono essere padroni delle proprie azioni e non possono salire sul parco della vita perché manovrati da schemi e da un burattinaio più grande che insieme al tempo che fugge e rifugge ne scandisce le azioni e ne delinea le scelte e conseguenze. Ma Lanny scompare. Cosa è successo e perché? Cosa ne è stato del piccolo? La ricerca ha inizio. Cosa ne sarà di lui?
«Siamo piccole scintille arroganti in uno schema grandioso.»
Avvicinarsi a un libro con queste caratteristiche, con queste capacità significa in primo luogo scegliere di mettersi alla prova e abbracciare un universo fatto di decostruzione in primis grafica. Quello che avviene è infatti un gioco decostruttivo di quella canonica forma grafica che non è però un qualcosa di fine a se stessa quanto un qualcosa di appartenente a un disegno più grande. E se in una prima parte del libro a stupire sono il narratore albero con le sue tante ramificazioni nodose e l’alienazione del giovane umano protagonista, nella seconda è il caos ad affastellare le pagine adesso prive dello spirito del bosco ma anche della purezza di Lanny. Il villaggio a sua volta è preda di voci che non hanno un io protagonista distinto e indiscusso quanto circolano sparsi tra voci che si sovrappongono.
Infine, la terza parte. Forse quella meno postmoderna, quella meno artistica nella struttura e nella prosa, ma comunque sempre estremamente visionaria. “Lanny” è un libro certamente ecologico, un libro che fa da inno alla simbiosi tra uomo e natura ma è anche un volume dalle tinte fiabesche che scuotono e restano, che nella sua frammentazione linguistica porta a una ricerca. Non solo dal punto di vista delle “sorti” del ragazzo quanto anche nella capacità e difficoltà di entrare in storie altrui con un ritmo costante che mai accelera ed immagini che sembrano acquarelli, che sembrano annacquate e diluite con troppa acqua. A far da padrona, la Natura. A concludere il quadro i sensi di colpa anche e non solo dei genitori.
Non è un libro semplice, “Lanny”. È uno scritto che solo in parte coinvolge ed entra in empatia, è un libro che in parte tiene a distanza, è un libro in cui si alterna anche una struttura narrativa teatrale, è un libro in cui a vincere è certamente la curiosità e la maestria dello scrittore nel riuscire a stimolare e a spronare a non fermarsi, a non limitarsi alle apparenze ma ad andare oltre. Perché alla fine un po’ tutti vorremmo riuscire a vivere con quella che è l’innocenza degli occhi di un bambino mixato alla capacità di credere davvero e senza dubbio nella forza delle idee. Uno scritto adatto a chi vuol sperimentare e mettersi alla prova.
«La memoria ondeggia come un timone difficoltoso, poi si solleva di schianto e prende il vento.»
Storie di vita
«C’era la vecchia cassiera di un negozio di alimentari che, quando Yale era adolescente, lo guardava come se fosse la cosa più triste del mondo […] E poi c’era il signor Irving, l’assistente all’orientamento, che fronte aggrottata, gli aveva chiesto con prudenza se non pensava di cercarsi un college dalla “sensibilità cosmopolita”. Il giudizio di quei due lo aveva segnato più di quello dei coetanei che lo chiamavano “frocio”, che gli attaccavano assorbenti interni all’armadietto. Perché capitava anche ad altri ragazzini. Chiunque poteva vedersi buttare le mutande in piscina, chiunque poteva essere costretto a usare, sera dopo sera, un manuale di chimica che era stato innaffiato di piscio. Ma solo i froci veri erano guardati con compassione dagli adulti.»
Quante volte nella nostra infanzia o nel passato abbiamo sentito parlare della “malattia dell’amore” per poi scoprire successivamente che quello di cui sentivamo parlare non era un mal d’amore quanto un qualcosa chiamato AIDS e che per anni e anni ancora è stato bollato e confinato negli anfratti del non nominabile. Una malattia silente che spesso si annidava – ed annida – nel corpo, che spesso è stata definita come la malattia degli omosessuali, che non era altro che una condanna perché non si palesava, perché non dava segnali di sé. Ed è questo il tema centrale de “I grandi sognatori” di Rebecca Makkai. Siamo nel 1985 a Chicago e la comunità appunto gay è piegata da questo fardello. Lo scandalo di quella malattia mixata a quel che la vergogna accompagna pullula tra bar e strade della realtà americana.
Conosciamo così Nico, lasciato a se stesso in un ospedale, perché considerato una vergogna dai genitori e sostenuto solo dalla sorella Fiona. Yale e Charlie sono i suoi più grandi amici e sono una coppia in cui l’HIV striscia silente. Eppure, nessun sintomo sembra palesarsi nel malato, nulla darebbe a pensare che il male sia in incubazione. Tuttavia pochi mesi, una polmonite, una febbre e non solo si è marchiati ma si è anche morti. Perché la malattia non perdona e in poco pochissimo tempo ti porta via con sé. Charlie e Yale si aggrappano l’uno all’altra, sperano, si spronano, auspicano una sentenza di grazia.
Passano trent’anni e ci spostiamo di scena. Fiona sta volando a Parigi, il fratello è nel cuore. È alla ricerca della figlia finita nelle macchinazioni di una setta e che riuscirà a ritrovare per mezzo di un vecchio legame del fratello Nico, Richard, di professione fotografo e artista.
Una trama sospesa, un ritratto schietto e privo di fronzoli, un romanzo forte e capace di evocare contenuti e riflessioni è “I grandi sognatori” di Rebecca Makkai. Uno scritto che ci narra di un tempo non così lontano, di un’epoca fatta di pregiudizi, di sentenze ingiuste, di timori che portano a vedere chi ci circonda come appestati, di silenzi e sguardi che giudicano.
L’opera della Makkai è uno scritto davvero evocativo, un romanzo avvalorato da una penna fluida, magnetica ma schietta e diretta. Nulla risparmia, nulla concede. Siamo nel quotidiano, siamo in un mix di dialoghi e una dimensione anche distorta del vivere che però è stata e che per questo segna e delinea il nostro essere.
I personaggi, ancora, sono dei perfetti ritratti. Tratteggiati con cura e dovizia, curati nelle loro luci ma anche nei loro demoni. Vivono tra rimpianti e proprie leggi, tra una morale che li accompagna ma che si scontra con quel mondo circostante che invece condanna.
Un libro che parla di difficoltà, di disagi, di fragilità di vivere. Un titolo pulsante e vivido, uno scritto onesto e che ci tiene per mano sino a riportarci all’oggi e capace di suscitare empatia anche dal punto di vista pandemico.
«La malattia ha amplificato tutti i nostri errori. Le stupidaggini che si commettono a diciannove anni, l’unica volta in cui non si sta attenti. E si scopre che è il giorno più importante della tua vita.»
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Una storia d'amore e di guerra
«Le pareva davvero che qualcosa fosse passato per sempre, portato via dal vento che soffiava nella piccola fotografia scompigliando i vestiti e i capelli.»
Probabilmente uno dei romanzi più travagliati e contestati di Carlo Cassola è “Fausto e Anna”, opera questa pubblicata per la prima volta nel 1952 – n. 8 della collezione dei “Gettoni” diretta da Elio Vittorini, grande talent scout – e da qui immediatamente contestata per quelle che furono interpretate come delle posizioni anti-partigiane e in particolar modo per quelle critiche poste in essere alla Resistenza che tra queste pagine viene presa in esame e analizzata non solo dal punto di vista esterno dell’osservatore ma anche interno del “chi ne ha fatto parte”. Innegabile è inoltre la componente autobiografica che segna queste pagine e che conduce chi legge alla scoperta di quella che è prima di tutto una storia d’amore. Soprattutto, questo, nella prima parte del componimento ove conosciamo i due protagonisti e in particolar modo il loro tormento d’amore. Ma chi è Fausto e chi è Anna?
La storia d’amore e di guerra che conosciamo si snoda nell’arco temporale di 15 anni e più precisamente va dal 1930 al 1945. Conosciamo in primo luogo Anna, la conosciamo in un contesto contadino e solo successivamente al suo ritorno in città (Volterra) riusciamo davvero a collocarla. È una giovane donna che ha dovuto interrompere gli studi magistrali, una donna che non si ritiene particolarmente istruita e che per questo non comprende l’interesse manifesto del giovane nei suoi confronti. Al contempo è ingenua ma scaltra, matura ma incosciente. Cambia umore, muta e mette alla prova la tempra dei suoi corteggiatori. Vi si sottrae, vi rifugge, vi cede. Fausto è invece un piccolo intellettuale borghese che vive a Roma insieme ai genitori, è un po’ alter ego di Cassola, e che viene a trovarsi in quel di Volterra. È in procinto di scegliere gli studi universitari con cui proseguire il suo percorso di studi, è combattuto tra il desiderio del padre che lo spinge a portare avanti il suo studio o ancora a frequentare una facoltà in ogni caso tra giurisprudenza e medicina, e il suo desiderio di iscriversi alla facoltà di lettere.
Ed è da qui che ha inizio l’attrazione. Per Anna il ragazzo rappresenta il mondo sconosciuto, per Fausto la giovane è freschezza, novità, espressione di un possibile venturo futuro. Ma “Fausto e Anna” non è solo questo. Suddiviso in due parti da cinque capitoli ciascuna, il romanzo soprattutto nella seconda parte lascia in parte le vicissitudini amorose, che restano ma si aggiungono come collocazione, su quelli che sono anche i fatti storici.
«A quella gente lì, gl’importa soltanto della gloria. Tutto per ambizione, l’ha fatto. Non mi raccontino storie.»
“Fausto e Anna” è stato più volte considerato come un “romanzetto d’appendice” e questo proprio per questa sua prima parte che non coinvolge, disincentiva la lettura, fatica a far appassionare essendo la narrazione scarna, poco empatica, molto schematica ma anche priva di fronzoli. Questo non favorisce nel coinvolgimento ma al contempo nemmeno nel trattenere. Tuttavia anche la seconda parte arriva e non arriva. Se ne comprende il senso, se ne comprende la ragione alla base ma è altrettanto percepibile un grande senso di squilibrio. “Fausto e Anna” è un romanzo pieno di vita e su questo non si discute, è un romanzo pieno di emozioni, ma è anche un titolo sbilanciato e questo gioca a suo sfavore in quella che poi va ad essere la valutazione finale, il vero e proprio lascito. Anche se la sfera più intimista lascia poi spazio a quello che è l’affresco storico, il lettore giunge sfiancato, quasi annoiato. Non manca la riflessione storica, la visione apologetica su quella che è stata la Resistenza vista nella sua integrità del “bene e del male”, del “giusto e dello sbagliato” e che poi nel complesso è il focus centrale dello scritto, la visione scettica e ipocrita relativa alla classe borghese ma non manca nemmeno quella sensazione di incompletezza e di qualcosa di sfuggente che ne permea le pagine. Un titolo da leggere per completezza personale ma non certo, purtroppo, il migliore di Cassola.
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Laide e Antonio
«Antonio ebbe un presentimento: come se quell’incontro avesse importanza nella sua vita, come se il coincidere rapidissimo degli sguardi avesse stabilito fra loro due un legame che non si sarebbe spezzato mai più, a loro stessa insaputa. Già in passato, più di una volta, aveva constatato l’incredibile potenza dell’amore, capace di riannodare, con infinita sagacia e pazienza, attraverso vertiginose catene di apparenti casi, due sottilissimi fili che si erano persi nella confusione della vita, da un capo all’altro del mondo.»
Febbraio 1960, Milano. È una mattinata apparentemente come tante ma non nel concreto per l’Architetto quarantanovenne Antonio Dorigo. Il desiderio, quell’istinto irrefrenabile si è preso gioco di lui, pulsa nelle viscere senza sosta e senza possibilità di interruzione. Lui che sa controllarlo benissimo, lui che delle donne ha un timore reverenziale vedendole come creature irraggiungibili, quando è colto da questi istinti non riesce a trattenersi e deve reagire, rispondere. La chiamata alla signora Ermelina, l’appuntamento per le 15 – come arrivare alle 15, come! –, l’incontro con lei, Laide, diminutivo di Adelaide, minorenne al tempo, ballerina alla Scala e non solo (anche al Due ma non solo e non solo ancora) con i suoi seni piccoli e appuntiti e le sue gambe magre e slanciate. Tonino da sempre ha un atteggiamento particolare verso le donne. Le vede come creature irraggiungibili ma anche in un certo senso come pesi da tenere a debita distanza onde evitare di poter essere “contagiato” da loro, da poterne in qualche modo diventare dipendente. Ancora, sono dal suo punto di vista in un certo senso creature “inferiori”, non al pari a livello di istruzione almeno e di acume ancor più dell’uomo. Creature inconcepibili a maggior ragione dal punto di vista di quel concedersi che ha sempre immaginato come qualcosa di esclusivo, prezioso, Tuttavia, Laide non è come le altre. Si presenta all’incontro con le ascelle non rasate (cosa inconcepibile e lui lo sa bene), indossa un abito non particolarmente atto a metterla in mostra, non sembra essere nemmeno particolarmente bella con quei suoi tratti e capelli ordinari. Eppure ella esercita su di lui un fascino irresistibile. Da un incontro ne sussegue un secondo e da qui un terzo. Lo stesso Dorigo è sorpreso di se stesso. Cos’ha alla fine questa ragazza di così diverso dalle altre da trascinarlo in questo vortice dal quale sembra non riuscire a staccarsi? Vi è anche un cambio di scena in quanto i due, piano piano, iniziano a vedersi fuori dalle stanze della signora Ermelina ma sempre con il previo Dio denaro a far da padrone. Per Antonio, però, le cose cambiano. Stranamente, inaspettatamente si accorge di essere innamorato. Lui, innamorato. A quarantanove anni. Lui innamorato e di una ragazza con così tanti anni meno. Lui innamorato e di una ragazza che fa il mestiere anche se non vuole ammetterlo. Lui innamorato, geloso e pure “preso per il naso” da una ragazza che si approfitta della sua ingenuità.
«[…] Disarmato e solo. Nulla esiste oltre alla malattia che lo divora, è qui se mai l’unico suo scampo, di riuscire a liberarsi, oppure di sopportarla almeno, di tenerla a bada, di resistere fino a che l’infezione col tempo esaurisca il suo furore. Ma dall’istante della rivelazione egli si sente trascinare giù verso un buio ma immaginato se non per gli altri e d’ora in ora va precipitando.»
Una gelosia senza freni, una gelosia che lo mangia dall’interno. Un sentimento che non sa gestire, un modo di vivere che in alcun modo avrebbe mai prospettato di dover affrontare. Com’è possibile gestire o un siffatto sentimento d’amore che è una malattia che ti pervade dentro e ti mangia senza sosta e senza remore? Inizia da qui la lunga epopea di Dorigo che della giovane è innamorato e che dalla stessa è schiacciato. Ma inizia anche il viaggio di Laide perché la giovane, a sua volta, è costretta a una vita che forse è dovuta e non voluta, che forse semplicemente è piegata da una società che senza troppi fronzoli e senza troppe remore condanna, vive di apparenze e sfarzi e non accetta compromessi per chi non fa parte di quel contesto previsto.
Da qui la riflessione su quel che è la borghesia e la classe borghese, su quel che è la classe anni ’60 ma anche su quel che è la consuetudine sociale, la maschera, l’ipocrisia. Nell’opera di Buzzati ritornano vari aspetti ricorrenti, dalla solitudine all’introspezione, ai volti che abitano la consuetudine del vivere. Dorigo è l’emblema di questa. Per mezzo di Laide scopre e si rende conto di quelle che erano le sue paure, di quelle che erano e sono i timori del vivere quotidiano. Laide vive nella parte più oscura, nella parte più “condannata” da dettami della consuetudine sociale ma riempie la vita di Antonio e da qui subentra la consapevolezza di una vita precedente vuota e senza veri obiettivi, fatta di paura ma priva di emozioni. Una consapevolezza sul vivere e l’esistere, sulla società che ancora oggi abbiamo accanto, sul nostro quotidiano e su un tempo che forse non è così lontano nei suoi usi, nei suoi mezzi, nelle sue consuetudini e anche nei suoi pregiudizi e nelle sue ombre.
«Perché lui era stato come pietra legata a una corda e fatta girare più svelto sempre più svelto e a farla girare e fatta girare più svelto era la bufera d’autunno era la disperazione, l’amore. E così follemente girando non si distingueva più che forma aveva, era diventato una specie di anello fluido e palpitante. […] Come aveva potuto dimenticare una cosa così importante, la più importante di tutte le cose? Adesso era là di nuovo si ergeva terribile e misteriosa come sempre, anzi sembrava alquanto più grande e più vicina. Sì l’amore gli aveva fatto completamente dimenticare che esisteva la morte. Per quasi due anni non ci aveva pensato neppure una volta, sembrava una favola, proprio lui che ne aveva sempre avuto l’ossessione nel sangue. Tanta era la forza dell’amore. E adesso all’improvviso gli era ricomparsa dinanzi, dominava lui la casa il quartiere la città il mondo con la sua ombra avanzava lentamente. Ma intanto lei, portata via dal sonno, inconsapevole del male che ha fatto e che farà, si libra sotto i tetti i lucernari le terrazze le guglie di Milano, è una cosa giovane piccolissima e nuda, è un tenero bianco granellino sospeso pulviscolo di carne, o di anima forse, con dentro un adorato e impossibile sogno. […]»
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Belfast, 1994
«Ecco cosa succede quando si mente. Se non ti credono ti vergogni di te, se lo fanno ti vergogni per loro.»
Anno 1994, Belfast. Due volti, Chuckie e Jake, protestante il primo e cattolico il secondo, sono profondamente amici e vivono in un contesto che si propone come un vero e proprio campo di battaglia. Sono due personalità, al contempo, molto diverse. Se Chuckie con la sua mole prorompente e il suo modo trasandato è molto bravo in imprese commerciali, Jake sogna un amore che gli sconvolga la vita. E in effetti, all’inizio dell’opera, è sempre più evidente quanto questo carattere lo determini e caratterizzi nel suo modo di vivere.
Ma di base il componimento si focalizza su una serie di elementi che fanno da scenario costante: il conflitto tra protestanti e cattolici, unionisti e repubblicani, derelitti e attentatori. Sì perché le strade di Belfast sono reduci e protagoniste di stragi e assassini di cui a far le spese sono ancora una volta i cittadini.
Ed ecco allora che ci ritroviamo per queste strade e che per voce di questi antieroi conosciamo quel che delinea i fatti di questi tempi. Tra relazioni finite male, disillusioni, lavori arrancati, morti e perdite, distruzione ma anche voglia di riscatto e di trovare un perché che possa dare adito, forma e sostanza a quel desiderio sempre più forte e concreto di ripartire.
«Un gesto stanco, ma cordiale a mano aperta. Non so, facendo quel lavoro avevo avuto a che fare con vecchi, donne, persino bambini, ma per quanto fosse strano, non mi era mai dispiaciuto così tanto quanto per quell’uomo che piangeva di nascosto e salutava chi gli stava portando via tutto quello che gli era rimasto della donna che lo aveva lasciato.»
Un romanzo intriso di stanchezza per quel che accade, di disillusione, di denuncia è “Eureka street”. Si tratta di un’opera all’interno della quale a far da padrona è una voce semplice, lineare, colloquiale. Anche troppo, alle volte. Il gergo usato, canzonatorio quanto comune, tende a disattendere e sfiancare il lettore che perde in parte di coinvolgimento nel leggere. È infatti questa la vera pecca dello scritto. Un contenuto capace di far riflettere con personaggi che arrivano ed entrano nelle corde del lettore riuscendo ancora a coadiuvare fatto storico con finzione narrativa a cui si aggiunge uno stile che talvolta si rende davvero faticoso nel suo scorrere. Nel complesso un titolo capace di solleticare la curiosità ma che, tuttavia, anche allontana e respinge.
«L’esplosione sfila via le scarpe alla gente come un genitore premuroso e la lasciva violenza dela deflagrazione sbottona le camicie agli uomini e solleva le gonne alle donne. Dopo l’esplosione i morti sono sparsi per terra come frutta marcia e, soprattutto, sono irrimediabilmente, impudicamente morti. Morti e basta.»
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Vero o non vero
«Abbiamo sempre manipolato la verità come se fosse un esercizio di stile, l’espressione piú completa della nostra identità. Talvolta ci accordiamo quantomeno il beneficio del dubbio rispetto ai nostri sabotaggi, conserviamo dentro di noi un piccolo spiraglio per ristabilire l’esattezza degli eventi, ma è molto più frequente il contrario: dimentichiamo la menzogna iniziale o il fatto stesso che si tratti di una menzogna.»
Avvicinarsi a un libro quale quello di Veronica Raimo significa in primo luogo accettare una sfida. Una sfida all’analisi e alla riflessione, una sfida volta a confondere e rivelare, una sfida al capire e non capire cosa sia vero e cosa no. A nostra difesa dobbiamo dire che la Raimo ci ha avvertiti, che la Raimo ha premesso che non c’era “Niente di vero” ma, eppure, quel mettersi a nudo, quel cercare risposte e desideri e quello scoprirsi in un non scoprirsi, sono costante di queste pagine intrise di ironia e sarcasmo ma caratterizzate anche da una narrazione non semplice perché tanto costruisce quanto distrugge, quanto disarticola e sfalda. Ma cosa vuol dire davvero mostrarsi? Cosa significa mettersi a nudo, cosa comporta davvero raccontare la nostra storia, la nostra immagine, il nostro volto spesso e sovente frastagliato e frammentato in un vortice di specchi infranti e a loro volta deformati?
«I miei rari tentativi di essere sincera con lei non sono mai presi sul serio, bensì guardati con un misto di sospetto e compassione”, ci dice subito la protagonista, raccontando il rapporto con la madre. E ancora: “Nella mia famiglia ognuno ha il proprio modo di sabotare la memoria per tornaconto personale. Abbiamo sempre manipolato la verità come se fosse un esercizio di stile, l’espressione più completa della nostra identità.»
Ed ecco allora che apprendiamo. Apprendiamo di una famiglia, di una narratrice, di una vita fatta di tante cose ma anche di tante “imposture” e “contraddizioni” di volti che collidono, di verità che si alternano a menzogne o che forse sono semplicemente tali. Perché alle volte quella finzione è necessaria. Impellente. Dovuta. Per vivere, per sopravvivere, per convivere con quei muri eretti proprio da chi più ami e chi più dovrebbe amarti. Ecco allora che quelle pareti non sono solo simboliche ma anche tangibili con mano. Perché erette dal padre, da quell’ansia di mania del controllo che è propria della madre, da un fratello che occupa una scena più vasta del dovuto, da una famiglia che la vorrebbe in un determinato modo e da una società che vorrebbe vederla più canonica e dovuta a quelli che sono usi e consuetudini per il volto femminile, tra questi l’essere madre, ad esempio.
«La maggior parte dei ricordi ci abbandona senza che nemmeno ce ne accorgiamo; per quanto riguarda i restanti, siamo noi a rifilarli di nascosto, a spacciarli in giro, a promuoverli con zelo, venditori porta a porta, imbonitori in cerca di qualcuno da abbindolare che si abboni alla nostra storia. Scontata, a metà prezzo.»
Ed ecco allora che con voce semplice, anche spietata, la Raimo si spoglia e ci confonde e ci porta al confronto. Al tempo stesso ci trascina in un vortice di effetto cambio-scambio, frammento e verità. Il tutto in un perfetto gioco di specchi dove a essere protagonisti è prima di tutto il vivere. Una scrittura che trattiene e che al tempo stesso allontana, non sempre semplice, talvolta quasi un esercizio di stile, ma nel complesso una perfetta padronanza del tema e anche, nel paradosso, del gioco linguistico.
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Il vero cuore di pietra
«Forse è un bene – si disse il nostro personaggio – che la vita umana abbia un termine, e che, quando abbiamo inio di sognar tutti i nostri sogni, arrivi una mano pietosa a toglierci da un'epoca che non è più la nostra epoca.»
Sebastiano Vassalli è un autore noto al grande pubblico per il suo panorama letterario e in particolare per “La chimera” e “Le due chiese”, opere queste che ne hanno consacrato il successo. Con “Cuore di pietra” l’autore pone in essere in primo luogo un ritratto del nostro vivere, del nostro tempo, della nostra storia. Non manca poi quel pessimismo esistenziale che tende sempre a caratterizzare i suoi componimenti.
Tra queste pagine ciò che più ci viene offerto è un focus che va dall’unità d’Italia sino a quasi i giorni nostri. Tante sono le voci che si intersecano e uniscono tra loro in un canto corale. Tutto ha inizio da una casa, un palazzo signorile sito in una località che presumiamo essere del Piemonte e che facilmente tendiamo a ricondurre a Novara.
È questo il teatro dove si susseguono i vari proprietari e dove assistiamo allo snocciolarsi, per loro voce, degli eventi storici che ci appartengono.
Tanto i personaggi quanto i luoghi sono tutti ben delineati e caratterizzati. Ed è questa una delle caratteristiche che maggiormente coinvolgono il lettore che, per mezzo di questa doviziosa ricostruzione, riporta alla luce e nella mente emozioni ed analisi diverse.
È un titolo che scorre leggero, rapido, senza difficoltà. Avvalorato da una penna magnetica che non fa rimpiangere le opere più famose e che accarezza il conoscitore con semplicità. Si tratta di un viaggio nel tempo, nel cuore della Storia, di un viaggio fatto di elementi di causa ed effetto che tornano alla luce e che inducono alla riflessione di quella ciclicità che si ripete e dalla quale fin troppo spesso sembriamo proprio non voler imparare.
Letto in occasione di uno degli incontri del gruppo di lettura della mia cittadina, una lettura davvero gradevole.
«Le grandi opere sono prodotte dal talento, quelle grandissime dal talento e dai tempi.»
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Libri che ci rovinano ma in realtà salvano la vita
«Dopo aver letto Il demone meschino di Sologub, a tredici anni, presi della polvere dal Piccolo Chimico, uno dei miei giochi preferiti di bambina, la misi dentro un foglietto di carta velina piegato in quattro e me lo infilai nel portafoglio, per giocare alla droga. Mio padre la trovò qualche anno dopo e la fece analizzare. Distratto com’era, assente com’era, anziano com’era – sono nata che aveva quasi cinquant’anni – a suo modo cercava di tenermi d’occhio. Mia madre era così ansiosa che il solo pensiero che potessi cacciarmi nei guai la devastava, perciò lo rimuoveva. Mi proibiva tutto, che è come non proibire niente. Per lei – e quindi anche per me – non c’era scelta: dovevo essere irreprensibile e prudente, se no lei – come minimo – ne sarebbe morta. Diventai l’opposto.»
Conduttrice, scrittrice, giornalista. Daria Bignardi, personalità camaleontica, torna in libreria con un titolo che è prima di tutto un memoir e che si propone ai suoi lettori con la volontà di narrare in primis della potenza dei libri.
Ci sono infatti libri che salvano la nostra vita, altri che la rovinano almeno in senso metaforico. Libri che ci attendono e aspettano che giunga il loro momento per essere letti e amati, libri che al contrario ci allontanano e non amiamo perché non riescono a raggiungerci, a coinvolgerci. Libri che per questo non sentiamo nostri o ancora libri che per questo primo impatto negativo sopraggiungono poi con tutta la loro forza devastante ed empatica ma a distanza di tempo. Ancora sono libri che associamo a specifici momenti, che viviamo attendendo in silenzio di trovare una risposta.
In questo contesto Daria Bignardi ci racconta i suoi libri ma lo fa con una precisa e doviziosa attenzione: ci parla soltanto dei libri maledetti, dei libri che associa alla sofferenza. È un modo, un escamotage usato altresì per raccontare e raccontarsi, per aprire alla riflessione ma anche alla condivisione.
Ecco allora che tra memoir e romanzo autobiografico con “Libri che mi hanno rovinato la vita” ella ci destina di una lettura piacevole, leggera, che scorre senza troppe pretese e che seppur di rapida lettura riesce a ricordare al conoscitore l’amore per questo momento di condivisione con le parole. Senza troppe pretese, senza troppo impegno nella lettura dal lettore.
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Una promessa di ardua realizzazione
«Sì, di già. La scomparsa inizia subito e per certi versi non finisce mai»
Con le pagine de “La promessa” torniamo a scoprire di un paese a noi notoriamente lontano e sconosciuto, un luogo che generalmente rientra in una narrativa se vogliamo spesso di nicchia. Rilegata agli autori più noti ma in ogni caso prevalentemente focalizzata sull’Africa in generale che sul Sudafrica inteso come Stato e realtà economico-sociale-culturale. Ecco a maggior ragione perché tra queste pagine non manca la curiosità. Una curiosità che spicca e si protrae nella lettura e che consente di aprire gli occhi su dinamiche che possono risultare incomprensibili per un lettore esterno, occidentale.
Ad aprire le porte dell’opera vi è la famiglia Swart. Bianchi in quel di una terra di neri, questa è composta dai genitori e tre fratelli. La narrazione relativa a siffatta famiglia ha luogo in quattro grandi capitoli che suddividono dunque le decadi e che si focalizzano su un funerale diverso. Esatto, un funerale. Perché il funerale non è certo un momento allegro ma può comunque diventare e trasformarsi in un momento di ritrovo in cui i “superstiti” tornano a incontrarsi. A far da filo conduttore una promessa richiesta dalla signora Swart al marito affinché la casa di proprietà della famiglia al momento della morte sia donata alla governante di colore Salome. Un atto di riconoscimento, un piccolo grande gesto per riconoscere a questa figura l’impegno e l’aiuto dato. Ma come fare se è contro la legge. Come esaudire un qualcosa che per dettato normativo è impossibile.
Galgut, vincitore del Booker Prize 2021, unisce anche più periodi storici partendo dall’Apartheid e giungendo sino al nostro presente. In quest’ultimo senso un’ulteriore riflessione che colpisce il lettore in quanto, nonostante gli anni passati, ancora oggi è percepibile quello strato di razzismo che sembra non riuscire a liberarsi dei retaggi di un tempo trascorso. Da qui il peso di una promessa che si incastona in anni dove un semplice gesto di gratitudine, come anzidetto, era vietato dalla legge.
Cos’è alla fine “La promessa” se non un romanzo corale, una storia che per mezzo di una famiglia ci ricorda il volto di un Sudafrica che al mondo appare così lontano e spesso indecifrabile.
Uno scritto avvalorato ancora da uno stile narrativo mutevole che cambia voce narrante a seconda del racconto, che passa dalla terza alla seconda persona, che si rivolge anche direttamente ai propri personaggi. Certamente si tratta di una prova di grande padronanza della lingua scritta ma per il lettore ciò si traduce in battute d’arresto, ritmi altalenanti di lettura, perdita di interesse e soprattutto difficoltà ad entrare davvero in empatia con i protagonisti e le situazioni. A ciò si aggiunga anche la suddivisione della storia in quattro macrocapitoli che se sommati a una penna altalenante non facilitano la componente simbiotica.
Nel complesso resta un romanzo piacevole e da scoprire ma difetta di capacità coinvolgente.
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Daniele e il primo viaggio della sua vita
«I piani che costruiscono con tanta cura e fantasia sono fatti per essere stravolti dagli eventi. Basta pochissimo.»
Torna in libreria Daniele Mencarelli vincitore del Premio Strega giovani con “Tutto chiede salvezza”. “Sempre tornare” si somma al titolo eletto ma anche a “La casa degli sguardi” e completa quella che è la trilogia dedicata dallo scrittore al suo trascorso di vita. Si tratta di una trilogia chiaramente ideale e narrata in archi temporali diversi ma in ciascun titolo troviamo un tassello differente di quella esistenza travagliata del poeta. Se “In tutto chiede salvezza” questo è un ventenne sottoposto a TSO, in “La casa degli sguardi” lo ritroviamo inserviente venticinquenne in quel dell’Ospedale Bambino Gesù a causa dei suoi eccessi con alcol e i tentativi fallimentari di riprendersi e tornare sulla retta via. In “Sempre tornare” ci ritroviamo davanti a un Mencarelli adolescente, di anni diciassette e in procinto di dedicarsi a quella che è la sua prima vacanza da solo senza genitori.
«Io è come se c’avessi dentro un cane che s’è perso il padrone, con quella nostalgia, come se c’avesse vissuto insieme. E lo cerca ovunque. In certi momenti il profumo del padrone si fa più intenso, allora tutto diventa una presenza innamorata, ma sono lampi, bruciature di luce, in quegli istanti vedo la mano che ha piantato gli alberi.»
Come spesso accade, però, non tutto va come vorremmo. Daniele è assetato di risposte per tutte quelle domande che lo accompagnano nel quotidiano vivere. Torna indietro in queste pagine anche per cercarle, queste. È irrequieto, sente che alcune cose a lui sfuggono e che quei contorni non riesce a capirli, a farli suoi. Tuttavia, ben presto, si separa dagli amici e a causa di “una brutta figura” occorsa nella notte precedente che lo cataloga ancora una volta come diverso, come fuori luogo. Ecco allora che con la sua valigia verde pisello e il suo bagaglio personale di dubbi, si ritrova a fare l’autostop in direzione Roma conscio e consapevole di aver lasciato a quegli amici da cui si è staccato non solo i propri documenti ma anche il denaro in suo possesso.
Da qui ha inizio un romanzo che è fatto di strade, di incontri, di percorsi, di disillusioni e sogni, di sentimenti anche scomodi che spesso bussano alla porta del cuore chiedendo di uscire con forza inesorabile. È un percorso fatto di dolore e di ricerca, una meta continua cercata e ricercata che viene a comporsi qui di un altro tassello che poi si sommerà ai successivi presenti nei titoli di cui sopra. Daniele osserva con sguardo acuto chiunque incontra, osserva, scruta, memorizza e ascolta. Cerca una verità, interpella anche Dio al fine di trovarla. Procede piano piano in quella continua ricerca che però è sempre più chiaro che arriverà in un modo diverso rispetto a quel che vorremmo o che semplicemente auspichiamo.
Dal punto di vista stilistico non mancano quelle pillole poetiche che sono proprie della sua penna. Forse un poco meno coinvolgente ed empatico ma per chi già conosce l’autore, un ritorno “a casa”. Per chi invece non lo conoscesse “Sempre tornare” è un ottimo trampolino di lancio per avvicinarsi a uno scrittore la cui capacità evocativa e coinvolgente è innegabile.
«Non so cosa, ma le parole e la realtà hanno qualcosa in comune, come un filo rosso, come se attraversasse lo stesso sangue.»
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Quella strada che solca l'America...
«Ma a volte sono le circostanze a scegliere il momento al posto tuo, come quando una nuvola di polvere a un miglio di distanza sulla strada annunciò l’arrivo di sua figlia.»
Siamo nel 1954 in Nebraska. Le pagine si aprono con un viaggio in macchina con destinazione quel luogo chiamato casa e a bordo un giovane, Emmet Watson, accompagnato all’uscita dal riformatorio dal direttore Williams di questo per auspicare all’inizio di una nuova vita. Emmet ha ucciso involontariamente un coetaneo e ha scontato la sua pena seppur con le dovute circostanze attenuanti che lo hanno portato a uscire prima dal carcere. Ad attenderlo vi è Billy, il fratellino, e i resti di una casa che il padre, giunto in Nebraska da Boston nel 1933 con la nuova moglie e il sogno di lavorare la terra, non ha finito di pagare e che quindi è stata pignorata. Lui che nei due decenni successivi al suo arrivo aveva provato a coltivare mais, soia e perfino alfalfa e ogni volta si era ritrovato con i progetti andati in fumo. Lui che quando il figlio maggiore di quindici anni gli aveva comunicato di aver trovato lavoro presso il signor Schulte per imparare il lavoro di carpentiere non si era opposto perché consapevole che in quella terra non vi era futuro. Nulla trattiene più i due giovani in città, oltretutto a maggior ragione considerando che non sono ben visti dopo quanto accaduto. Le strade che i due fratelli vorrebbero percorrere sono però diverse. Il fratellino Billy vorrebbe infatti raggiungere San Francisco perché dopo aver trovato alcune lettere è convinto che la madre che li ha abbandonati da tempo si trovi lì.
«Ma a volte la sfortuna diventa troppa perché un uomo riesca a superarla, a prescindere da quanto tempo gli si conceda.»
Emmet è in possesso di un unico grande bene: una quattroporte decappottabile celeste pagata con quanto ottenuto dal precedente lavoro presso il signor Schulte prima di finire in prigione. Si tratta di una Studebaker Land Cruiser classe 1948. È con questa che egli vuole mettersi in viaggio con Billy. Tuttavia non sempre tutto va come vorremmo o come avremmo pensato potesse andare, dalla partenza, ai compagni di viaggio, agli stessi intoppi del cammino. E poi vi è lei, la Lincoln Highway, ideata nel 1912 e che ha preso il nome da Abraham Lincoln, e che è stata la prima strada ad attraversare l’America da una parte all’altra. Un altro sogno, un luogo da percorrere alla ricerca di quel futuro così agognato.
Un romanzo che nelle sue pagine contiene tutto quello che è il sogno americano. È un titolo, infatti, che delinea quel tratto comune alla mentalità del luogo atta e finalizzata alla ricerca di un futuro migliore e possibile, di un futuro che è raggiungibile e che per questo deve essere inseguito senza mai cedere al dubbio o alla paura di non farcela.
Una storia raccontata a più voci che è intrisa di malinconia, speranza, illusione, quasi come se un fato fosse già stato scritto e per questo fosse immutabile. Lo stile è un po’ altalenante con il suo accelerare e rallentare ma ben accompagna il lettore. Una lettura che riesce a far riflettere sul sogno americano e quel continente così lontano eppure così vicino nei sogni dei più.
«Se in guerra ho imparato qualcosa, è che il momento di totale abbandono, il momento in cui ti rendi conto che nessuno verrà in tuo aiuto, nemmeno il tuo Creatore, è proprio il momento in cui puoi scoprire in te la forza che ti serve per andare avanti. Dio non ti richiama in piedi con gli inni dei cherubini e Gabriele che soffia sul suo corno. Ti richiama in piedi facendoti sentire solo e dimenticato. Perché solo capendo di essere davvero abbandonato, accetterà il fatto che ciò che accadrà dipende da te e da te soltanto.»
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Sisi
Edito da Voland Edizioni è “La cercatrice di funghi” opera a firma Viktorie Hanišová, autrice tra le più annoverate nel panorama letterario ceco contemporaneo. La Hanišová non è nuova a tematiche dure e dolorose, a scritti che catapultano il lettore in una dimensione di grande dolore e introspezione. Nel suo bagaglio ad oggi annoveriamo altri due titoli, uno dedicato al tematica della maternità, tema in parte ricorrente anche ne “La cercatrice di funghi”, e una raccolta di racconti legati questa volta alla problematica dell’esistenza e in particolare al suicidio.
Protagonista di queste pagine è Sàra Tycha, detta Sisi, di anni 25 all’inizio del racconto. Sara stessa è la narratrice della vicenda ma attenzione perché quella che viene narrata non è una storia come tante altre. È una storia che viene ricostruita pagina dopo pagina nella mente, in primo luogo, di Sisi e per mezzo delle sue ossessioni e maniacalità. Ogni mattina Sisi si alza, lascia il suo capanno e si dirige nel bosco dove segue in modo estremamente preciso e metodico gli stessi sentieri. Indossa sempre i soliti scarponi appartenuti al padre e come sempre si dedica alla ricerca dei funghi, funghi che vengono scelti con cura e precisione perché ella sa, conosce ogni nome, ogni posizione, ogni uso. Da qui li consegna poi al ristorante del paese, “Ovolaccio”, in quanto questi rappresentano la sua unica forma di sostentamento. Non ha amici Sara, non ha legami. All’inizio dello scritto sappiamo che ha appena perso la madre e da qui che ha un rapporto controverso con i fratelli. Tutto in lei denota sin dal principio un carattere con connotato patologico e non ci stupisce, dunque, quella conseguenza psichiatrica che va a rendersi ancora più concreta e certa nel momento in cui scopriamo sempre più del suo passato.
La conoscenza dei funghi in modo maniacale e scientifico non è casuale. È una passione radicata nell’infanzia, che risale ai tempi in cui accompagnava il padre a cercarli nella Selva Boema. Ancora, è proprio il padre una delle figure che assumerà maggior valore nello sviluppo dell’elaborato. E se tanto è complesso e problematico il rapporto con il padre altrettanto lo è quello con la madre.
«Avevo bisogno di garantirmi in qualche modo quella solitudine, fuori dal mio spazio chiuso provavo angoscia.»
Nulla tra queste pagine è casuale. Tutto lo sviluppo si concentra e sostanzia sul recuperare un passato, frammentato e doloroso, per comprendere il presente e potersi avvicinare a un futuro. È proprio la struttura l’elemento cardine e peculiare dello scritto. La narrazione è multilivello, alterna il passato al presente, fa leva sugli specchi della mente che spesso offuscano e celano avvenimenti traumatici radicati proprio nell’adolescenza e nella dimensione di quella famiglia di cui resta il dubbio. Chi sapeva? Quanto sapeva? Perché sapeva, se sapeva, e non ha fatto?
Recuperare il passato diventa vitale per quella svolta che denota la stessa conclusione de “La cercatrice di funghi”. Un finale che lascia aperto, doverosamente. Ecco perché il componimento ha anche una funzione terapeutica e psicologica, ecco perché affrontando anche temi quali il passaggio dall’età infantile a quella adulta si prefigge di scandagliare l’animo della protagonista, ecco perché ogni dettaglio è fondamentale tra queste pagine. Che siano legate ai funghi che siano legate all’amico autistico, che siano legate alle incertezze, o al silenzio del non vedere e del non sentire. Il consiglio è quello di non arrendersi alle prime 40/50 pagine dove le descrizioni dedicate alle specie dei funghi sono molto meticolose e accurate, c’è un perché e sopraggiunge nel proseguire ed è necessario, ancora, proprio per la caratterizzazione del personaggio.
Un romanzo intimistico, malinconico, profondo, psicologico.
«Anche per questo nelle mie escursioni punto con sacra riverenza lo sguardo al suolo. Non ci tengo a guardare in faccia i casuali passanti. Ma, soprattutto, non voglio che qualcuno veda me. Preferisco essere un’ombra che si trascina nel bosco.»
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Maddi & Esteban, gioco di specchi
Torna in libreria Michel Bussi autore prolifico e giunto alla ribalta del grande pubblico con il suo “Ninfee nere” e vi torna con uno scritto molto particolare intitolato “Nulla ti cancella”. Anche questa volta le tinte e le trame descritte trasportano in lettore pagina dopo pagina in un mese di giugno del 2010 macchiato da una scomparsa misteriosa che vede quale vittima un bambino.
Maddi Libérì è una donna benestante. Dottoressa, quarantenne e indipendente ma anche madre single, ella vive esercitando la sua professione di medico in quel di Saint-Jean-de-Luz insieme al figlio Esteban. La celebre località balneare della costa basca è nota e amata dai più e accoglie ogni mattina il rituale familiare dei due: prima dell’inizio della giornata lavorativa per lei e di studio/scuola per lui, i due si vestono in qualche modo e vanno in spiaggia per poi fare il bagno già appena la primavera fa capolino. Tuttavia, quel 21 giugno 2010, con un mare arrabbiato e pieno di cavalloni, la madre disincentiva quella pratica perché il mare è troppo mosso ed è pericoloso. È vero, è il compleanno del bambino, il suo decimo compleanno, ma il rischio è sinceramente troppo alto. Fatto ciò, la madre dà al bambino un euro affinché compri da solo una baguette mentre lei lo aspetterà a casa, dopo la doccia, con quel regalo nascosto come da consuetudine nel mobiletto del bagno situato sotto al lavandino. Il tempo passa ma del ragazzo non c’è traccia. L’attesa si protrae, diventa sempre più strana e sempre più sinonimo di preoccupazione per quella donna sola che lo sta crescendo. Un sesto senso o forse una consapevolezza atavica ma sta di fatto che Esteban quella mattina non fa ritorno a casa né per festeggiare il suo compleanno né per aprire quel bramato dono. Di Esteban si perde semplicemente ogni traccia. Nessuno in quel di Saint-Jean-de-Luz ha visto o sentito di un ragazzo di dieci anni con indosso un costume blu indico con una piccola balena bianca ricamata sulla gamba sinistra. E come nessuno ha visto o sentito, nemmeno Maddi può accettare quella scomparsa. Cosa ne è stato di suo figlio non lo sa ma non riesce ad accettare quanto accaduto.
Passano dieci anni, esattamente dieci anni. Maddi in quel giugno 2020 è alle prese con quel tentativo di ricostruire la propria vita. Trasferitasi dopo i fatti a Ètrat in Normandia è adesso nuovamente madre di Gabriel. Non ha mai metabolizzato la perdita di Esteban ma non può non tentare di ripartire. Decide di tornare nei Paesi Baschi e qui assiste a un fatto davvero singolare: sulla spiaggia, la stessa spiaggia, un bambino biondo con lo stesso costume blu indaco e la stessa balena è sdraiato sulla spiaggia. Stessa altezza, stessa fisionomia del corpo. Ma non può essere Esteban, suo figlio oggi sarebbe un ventenne. Allora chi è? Deve saperlo, deve scoprirlo e vi riesce. Il piccolo si chiama Tom Fontaine, ha proprio dieci anni e vive a Murol e cioè in un villaggio montano all’Alvernia.
Maddi Libéri ha una vita ben costruita, adesso. È solida, lavorativamente affermata, affettivamente concreta. Gabriel è molto diverso da Esteban, è bravissimo con il web, rappresenta la sua colonna, è coraggioso e la ama con tutto se stesso. Ma lei non riesce a togliersi dalla testa di quel sosia visto sulla spiaggia. Non ascolta i consigli dello psichiatra, non si cura delle conseguenze proprio su Gabriel che è il suo faro, si trasferisce nella località montana e qui si insedia come medico. Tutto per seguire Tom e constatare che, dopo aver vinto le reticenze e le durezze di quelle persone dall’indole dura quali i montanari, le somiglianze e le assonanze sono più di quel che ella stessa pensava. Ivi compresa quella voglia che caratterizzava suo figlio. Cosa ne sarà di Maddi e Gabriel? Riuscirà la donna a venire al capo della matassa? Riuscirà a risolvere l’intrigo e a scoprire cosa è davvero successo a Esteban e a chi è Tom?
Come sempre Michel Bussi dona ai suoi lettori un romanzo che sin dalle prime battute si dimostra essere avvincente e ben strutturato. Non manca quella canonica forma temporale che porta ad oscillare tra presente e passato, una struttura che per chi già ha letto l’autore non è cosa nuova quanto certezza e consuetudine del ritrovarsi a casa, nuovamente.
A tratti l’opera, per costruzione e gioco di specchi, ricorda “Central Park” di Guillame Musso ma al contempo se ne distanzia. Bussi dona ai lettori un romanzo solido, dalle ambientazioni ben delineate e la cui forza è l’imperfezione dei propri personaggi che sopraggiungono a chi legge con tutta la loro più semplice autenticità. Il ritmo è rapido, ben cadenzato e conduce senza difficoltà sino a quell’epilogo che sul mistero fa luce. Uno scritto come sempre estremamente logico, con una trama che fonde la razionalità alla soprannaturalità ma anche all’emozione atavica e naturale che si scava nell’interno. Tra somiglianze, giochi di specchi, paradossi e un unico vero e grande filo conduttore. Una storia machiavellica anche per quanto crudele.
Archy
«Ma come in quel momento mi sentii più perduto, e debole, e invisibile.»
Archy è una faina. Una faina figlia di una madre anaffettiva e priva di amore verso i propri figli e fratello di altre faine che da quella stessa madre sono odiate e ritenute inutili. Perché deboli, perché obblighi, perché nati quasi per rubare ossigeno ed energie. Il padre di questi fratelli è assente e la madre non esita a sbarazzarsi di chi nasce inutile o nel tempo lo diventa. Questa è la stessa sorte di Archy, Archy che tra queste pagine racconta la sua storia ma narra anche di quelle sorti che lo portano ad essere allontanato proprio da quella madre. Una madre che non esita a venderlo alla volpe, Solomon, per qualche provvista e per togliersi il peso di quel figlio ormai zoppo. Perché Archy cade nel tentativo di dare la caccia a un nido, cade proprio da quel nido posto ad alte altezze e da quel momento resta menomato. La sua zoppia lo accompagnerà a vita. Da questo momento ha inizio il suo percorso con Solomon e Gioele, il cane della volpe. Usuraia e furba è la volpe che introduce la faina alla parola di Dio.
«Il prima e il dopo non si erano mescolati, uno aveva soffocato l’altro annullando la differenza.»
Da questi brevi assunti ha inizio la crescita e lo sviluppo del libro ma anche la sua stessa evoluzione. La storia narrata dalla faina prenderà una sua forma e una sua connotazione, ma procederà passo passo tra perdite, riflessioni, analisi e tematiche forti ivi comprese quelle relative alla religione, alla famiglia.
«Il loro sonno, così tranquillo, mi impressionò. Non capivo se quella vita fosse orribile o meno, se essere confinati in un recinto confortasse o avvilisse. Da dove li stavo guardando io, ne avevo pietà, così come gli altri; eppure quei musi suggerivano che loro ne avessero di noi.»
È possibile accettare se stessi per come si è? È possibile far della propria esistenza una ragione essenziale del vivere e per vivere? È possibile che l’esistenza non sia soltanto qualcosa di fine a se stesso? Per Zannoni Archy non è altro che un pretesto, un artificio consolidato da sempre, un artificio narrativo per porsi e porre al prossimo domande sull’esistenza. Zannoni fonde instintualità e ragione, fonde il vivere con il sopravvivere, i legami affettivi, l’anaffettività, la responsabilità e la morte. Cosa allontana e/o avvicina l’uomo alla bestia?
Bernardo Zannoni, tra filosofia e riflessione, narra della tensione interiore che tiene perennemente Archy in bilico. Lo porta ad elevarsi alla dimensione umana tanto che giunge anche a domandarsi chi è Dio. Archy finisce con il sentirsi quasi più umano che bestia, sente perfino il senso di colpa per questo suo lato più bestiale e istintivo. Si tortura perfino per alcuni suoni comportamenti che altro non sono che insiti alla sua natura.
«Anche io mi sento così, disse.
Mi girai verso di lui.
Così come?
Desolato. Abbandonato»
Tante le strade che percorrerà Archy nel suo vivere. Strade che lo porteranno a perdere amori, la sua famiglia, che lo porteranno a imparare a leggere e scrivere, a scoprire dell’amicizia, a instaurare determinati rapporti, a cadere e a rialzarsi. Tra presente e passato. Tra altri animali del presente e del passato. Tra maestri di vita e perdite. Legami sfilacciati e cadute.
«Questo è il mio ultimo stupido intento: scappare, come tutti dall’inevitabile. Semmai Klaus tornerà che dia il mio corpo alla terra, o al fiume.»
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Miriam & Andrea
«A quanto pare finiscono così, gli uragani. A un certo punto il tempo cambia, e niente, basta, l’uragano sparisce. Esce il sole, e tutto il resto. Dev’essere una cosa bella, quando un uragano finisce così, senza che te l’aspetti. E insomma. Magari pure con te, con ‘sta cosa che ti è successa, può succedere così. No? Nel senso, che all’improvviso ti svegli, esce il sole, e tutto il resto.»
Amore e perdita. Amore e impotenza. Amore e dolore. Gallipoli, una Gallipoli ben diversa da quella che vediamo nelle copertine e che visitiamo, se siamo fortunati, d’estate. Una Gallipoli con molte ombre e tante oscurità, un luogo che è semplicemente odiato dai protagonisti, giovani anime che vivono questo come una gabbia. Forse perché consapevoli sin da subito che talvolta il dove nasci può condizionare tutta la tua vita e il tuo divenire. Forse semplicemente perché non sempre quel luogo può davvero essere il tuo luogo anche se rappresenta le tue radici. Un’oscurità, quella presente in quelle pagine, che seppur in modo diverso era già presente in “Io sono la bestia”, prima opera dell’autore, molto fortunata sul piano del riscontro del pubblico e sempre edita, come in questa seconda fatica a firma del medesimo, da NN editore. E se come ci insegna Pirandello molteplici sono le facce che l’uomo indossa, altrettanto vero è che non sempre quel che ci circonda ne ha una univoca e plasmata a immagine e somiglia immutabile, anzi, anche in questo caso molteplici sono le forme come anche le sembianze.
«Mai, con nessuno. Nemmeno con me stesso. Perché quando uno muore come è morto lui succede che tutti quelli che lo conoscevano bene iniziano a vivere come superstiti.»
Da queste brevi premesse conosciamo Miriam e Andrea, due ragazzi che si conoscono da poco, un poco che è stato sufficiente a far scoccare la breccia dell’amore. Lui innamorato perdutamente di lei, lui che mente perché in imbarazzo, per vergogna, per ansia, per timore di non essere abbastanza. Tuttavia, Miriam a causa di un incidente si ritrova in stato di coma. Noi la conosciamo così, già in questo stato, con Andrea che a lei parla perché i medici hanno consigliato di farle ascoltare le voci delle persone care. Questo potrebbe aiutarla a tornare indietro, a vincere quello stato di profondità in cui si trova, a uscire da quel pozzo in cui è stata calata. Miriam, a sua volta, sembra rispondere ad Andrea. Sembra rivivere dei giorni che ha vissuto, delle esperienze che ha percepito e ai fini narrativi il cambio di voce viene a essere evidenziato con un corsivo che rappresenta la voce di lei e che si alterna a quello dell’io narrante principale.
A queste prime voci si aggiunge Nanni, papa Nanni, una sorta di santone che si sente emissario quanto profeta con il suo tamburello che suona. Personaggio molto particolare che si sfugge, non si riesce a inquadrare.
Sette i giorni che sviluppano la vicenda e che portano a ricostruire il passato di giovani del nostro tempo. Con le loro problematiche, le loro cadute, i loro incubi, i loro tentativi di fuga, le loro incomprensioni, rabbie e dolori. Ma anche con le loro difficoltà del quotidiano e quei problemi che spesso sembrano insormontabili e/o invalicabili.
Tuttavia, se in “Io sono la bestia” la storia scorreva tutto sommato con un ritmo abbastanza cadenzato e riusciva a trattenere il lettore per curiosità e potenzialità (seppur non particolare originalità) e stile narrativo con “Lei che non tocca mai terra” le difficoltà nella lettura, a tratti farraginosa, lenta, altalenante, non mancano e sono molteplici. Cosa ancora più difficoltosa da affrontare è proprio lo stile adottato che non coinvolge bensì allontana. Che non convince. Che pone come un filtro tra chi legge e chi narra, come se fossero due dimensioni completamente distinte e considerando il tema di cui si parla, non è plausibile che ciò si manifesti. Come quasi se fosse autoreferenziale. Quel che si prova quando una persona cara è in uno stato di coma non permette divisioni di alcun genere. Si tocca con mano quella che è la quasi morte, anche solo osservando, si fa leva su un qualcosa che per sua natura porta all’emotività del coinvolgimento, alla consapevolezza che potrebbe davvero essere l’unica volta.
Ho letto diversi titoli con questa tematica alla base, ho letto anche il precedente Donaera ma resta quella sensazione di incompletezza e di freddezza che non convince. La sensazione, inoltre, è che lo stesso narratore si perda nei suoi intenti nel narrare come se nel volere ricostruire passo passo quel che è stato perda di vista quel che è. Come se la storia gli sfuggisse dalle mani, non riuscisse a trattenerla. Per non parlare, infine, dello sviluppo che porta a un epilogo che a sua volta induce a chiedersi il perché.
«Mentre attorno a noi tutto si riempie di ombre, di mani che ci toccano, di braccia che ci afferrano. Un corpo si stringe attorno a noi, una voce che sa di infanzia e di estate, un abbraccio fortissimo, un pianto che potrebbe non finire mai. Un silenzio immenso, l’udito perso. Sembra essere l’ultima cosa del mondo, sembra essere un uragano pesante come tutto il peso della Terra, sembra essere il buio più luminoso e impossibile che ci sia. L’esplosione ci brucia le punte dei capelli. Sembra durare per sempre.»
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- sì
- no
Le forme dell'addio
«Le cose belle non potevano essere sbagliate.»
Tradotto da Susanne Kolb, “I colori dell’addio” edito da Neri Pozza e scritto da Bernhard Schling è una raccolta di racconti costruita su quello che può essere definito un fermo immagine. Ciascun racconto ha un suo corpo, una sua identità e un suo sviluppo autonomo con una matrice – ancora – autonoma e al contempo una penna che muta a seconda del narrato.
Racconto dopo racconto ogni esistenza e ogni personaggio prende forma e corpo. Il tutto tra un velo di nascosto e celato, una menzogna che si fonde alla verità e al mistero che costella ogni vita. In una dimensione di sospensione e comprensione, una dimensione fatta di addio. È questo il tema principale dell’opera, della raccolta. Ma è un addio che viene analizzato nel suo paradosso, nel suo contrario e cioè nella consapevolezza del suo esistere e nella dimensione costante e fiera del suo bisogno di trattenere e restare. Perché tra individui si crea un legame forte e indissolubile e in qualche modo questo si trattiene anche solo per mezzo del ricordo.
Basti pensare a “Intelligenza artificiale”, racconto in cui a essere protagonista è la memoria legata al tradimento e al terrore perché il poter essere scoperti è una costante sostanziale. Ancora fortemente presente è l’aspettativa di noi e dell’altro.
Alla base dei racconti vi è una vera e propria analisi dell’essere umano in tutte quelle che sono le sue dinamiche e oscurità. Certamente ciò è anche impronta del lavoro di Schling che di professione psicologo è avvezzo all’ascoltare, al far proprie quelle voci che abbisognano di trovare ascolto, di essere nutrite, perdonate, coccolate, custodite.
A far da contorno il dato storico focalizzato su quella Germania divisa in due dal muro di Berlino.
Nel complesso una raccolta molto interessante, caratterizzata anche da una vena poetica ma soprattutto dal forte carattere introspettivo.
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Una regina rossa da scoprire
«Antonia Scott si concede di pensare al suicidio soltanto tre minuti al giorno. Per altre persone, tre minuti possono essere un lasso di tempo risibile. Non per Antonia. Potremmo dire che la sua mente ha molti cavalli sotto il cofano, ma la testa di Antonia non è come il motore di una macchina sportiva. Potremmo dire che è capace di molti cicli di elaborazione, ma la mente di Antonia non è come un computer. La mente di Antonia Scott è piuttosto come una giungla, una giungla piena di scimmie che saltano a tutta velocità da una liana all’altra portando cose. Molte cose e molte scimmie, che si incrociano in aria e si mostrano i denti. […] I tre minuti in cui pensa a come ammazzarsi sono i suoi tre minuti. Sono sacri. Sono ciò che la mantiene sana di mente. Perciò non le piace per niente, per niente, quando dei passi sconosciuti, tre piani più sotto, interrompono il rituale. Non è uno dei vicini, ne riconoscerebbe il modo di salire le scale. Non è nemmeno un fattorino, è domenica. Chiunque sia, Antonia è sicura che venga a cercare lei. E questo le piace ancora meno.»
Ecco perché Antonia Scott è speciale. Perché in soli tre minuti il suo cervello può calcolare la velocità con cui il proprio corpo si schianterebbe a terra se saltasse da una finestra, perché il suo cervello in soli tre minuti può calcolare quanto Propofol dovrebbe ingurgitare per concedersi il sonno eterno, perché in soli tre minuti è in grado di calcolare il tempo e la temperatura a cui dovrebbe rimanere immersa in un lago gelato affinché l’ipotermia le arrestasse definitivamente i battiti del cuore. Ella è altresì in grado di procurarsi una sostanza controllata come il Propofol e di scoprire dove si trova il lago più vicino in quel determinato periodo dell’anno. Perché non è una poliziotta ma non è nemmeno una criminologa. E ancora non ha mai impugnato un’arma e ancor meno indossato un distintivo. Com’è possibile, allora, che abbia risolto dozzine di casi prima di rinchiudersi nella sua soffitta a Lavapiés? E perché, ancora, dovrebbe continuare a vivere? Ciò che davvero contava per lei è perduto irreversibilmente.
Il suo nome è Jon Gutiérrez e odia le scale. Non perché siano vecchie o nuove, buie o illuminate, Jon odia doverle salire. Profondamente. L’ispettore Jon Gutiérrez ha quarantatré anni, è omosessuale, ha qualche chilo in più ed esercita le sue funzioni a Bilbao ma si è anche messo in un gran bel guaio: su internet quel video che circola e che lo vede aiutare una giovane prostituta introducendo nell’auto del protettore una dose di eroina è il suo biglietto di sola andata per la gattabuia. Ecco perché ora deve salire quei sei piani di scale in quel palazzo antico, perché tra le accuse di inquinamento delle prove, falsità materiale e scorrettezza professionale, grava sulle spalle una condanna di almeno sei anni di carcere, anche dieci se il PM è di pessimo umore. Alla fine, lui voleva solo aiutare Desi, salvarla dalla strada e dalle botte. Mai avrebbe immaginato che lei stessa lo avrebbe ripreso e che quel video sarebbe stato venduto al canale La Sexta per trecento euro perché lei, si era dispiaciuta per il suo “pappone”, nel mentre arrestato per narcotraffico.
«Passano cinque ore, anche se a Jon sembrano cinquanta. Non è mai stato bravo a starsene tranquillo in un posto, per cui il futuro dietro le sbarre gli pare impossibile. Non pensa ad ammazzarsi, perché Jon ama la vita sopra ogni altra cosa ed è un ottimista irredento. Di quelli che Dio se la ride ancora più di gusto quando gli fa cadere una tonnellata di mattoni addosso. Ma non riesce nemmeno a trovare un modo per liberarsi dalla corda che lui stesso si è messo al collo.»
A farli incontrare è Mentor, una figura misteriosa a capo dell’unità spagnola di Regina Rossa, un programma segreto volto alla cattura di criminali di alto profilo in Europa e unico in grado di tirar fuori dai guai Jon. Ma per salvarsi quest’ultimo dovrà fare qualcosa per lui: trovare Antonia e poi indagare insieme a lei sul caso della morte di Álvaro Trueba il figlio della presidentessa della banca più grande d’Europa che è stato rinvenuto privo di vita con un calice pieno di sangue in mano. Durante la stessa notte anche Carla Ortiz, figlia di uno dei più ricchi imprenditori del pianeta, scompare. Sia la famiglia Ortiz che Treuba ricevono una telefonata da uno sconosciuto che millanta di chiamarsi Ezequiel e che tanto è criptico quanto è chiaro nelle sue richieste.
Una corsa contro il tempo, quella di Jon e Antonia, che li porterà a indagare tra false piste, trappole, intrighi, falsità in una Madrid oscura e affabulatrice.
Con “Regina Rossa” Juan Gomez-Jurado giunge in libreria con un romanzo d’esordio che ben apre le porte per quelli che saranno i due capitoli successivi. Sia Jon che Antonia sono due personaggi dai buoni tratti caratteristici. Ciascuno con le proprie originalità, ciascuno con le proprie criticità e pecche. La loro forza risiede proprio in questo; sono percepiti quali veritieri proprio perché imperfetti.
“Regina Rossa” ben si propone al suo pubblico anche se non brilla per originalità nella trama. Molti i colpi di scena e abbastanza fluida la penna anche se non sempre il ritmo è ben mantenuto. Questo anche a causa dei continui cambi di registri e soprattutto dell’alternarsi dei POV. Il lettore è incuriosito dall’intrigo, è curioso di sapere cosa si celerà dietro a questo. Nel complesso un buon esordio anche se non certo indimenticabile. Buona lettura!
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Casalinghe e vampiri disperati
«I vampiri sono i primi serial killer, privi di tutto ciò che ci rende umani: non hanno amici né famiglia, radici o figli. L’unica cosa che hanno è la fame. Mangiano e mangiano, ma non sono mai sazi. Con questo libro ho voluto mettere a confronto un uomo emancipato da ogni responsabilità, tranne i propri appetiti, e le donne le cui vite sono plasmate da una serie infinita di responsabilità. Ho voluto contrapporre Dracula a mia madre. Come avrete modo di vedere, non è una lotta ad armi pari.»
O si ama, o si odia. Non ci sono tante vie di mezzo per questa opera a firma Grady Hendrix che già dal suo titolo è decisamente fuorviante e le cui parole sono già dalla nota autore chiaramente significative. Sin dalle prime pagine siamo trasportati in una America del Sud bigotta e fatta di qualunquismi. Conosciamo Patricia Campbell che vive una vita tra un marito troppo impegnato con la carriera per ricordarsi che esiste, dei figli ciascuno con una propria età e forza caratteriale critica e una suocera in costante bisogno di aiuto. Nel complesso Patricia è sempre in ritardo e fa parte di un gruppo di lettura per casalinghe che si concentra sul giallo e il true crime. Gruppo di lettura a cui giunge dopo un esperimento fallimentare presso un altro team completamente impostato sulle scelte dell’organizzatrice. Un giorno come un altro Patricia subisce una aggressione nel giardino di casa, una sera in cui altro non stava facendo che espletare le canoniche funzioni domestiche post cena. Sembra quasi un sogno questa parte del racconto all’interno del quale ella viene letteralmente azzannata dalla vicina che non sopravvive a quella malattia che sembra averla portata alla pazzia. Patricia si sente tuttavia in dovere con il nipote della donna, James Harris, sopraggiunto da poco in città e che conosce in circostanze altrettanto improbabili (sussegue, essendo la protagonista, ex infermiera una gag o presunta tale in cui al primo incontro cerca di rianimare l’uomo credendolo passato a miglior vita). Da qui ha inizio una forte attrazione verso questo. Un magnetismo esercitato dai suoi modi ma che è al contempo avvalorato da tutta una serie di misteri che ruotano attorno alla sua figura. E sia chiaro, chi è il cattivo in questa storia è più che evidente sin dalle prime battute. Il sopraggiungere poi della sua presenza si concilia con misteriose sparizioni che hanno luogo all’interno della cittadina e che riguardano persone di colore ma anche con altrettante situazioni che toccano da vicino la famiglia della Campbell. Donna che con il tempo finirà con l’essere additata come folle, malata mentale, persona squilibrata. Tanto che nemmeno il marito le crederà o difenderà dai sospetti, dal vociferare, dal tutto quello che per effetto diretto o indiretto la vedrà coinvolta.
«Un lettore vive di tante vite. Chi non legge ne vive solo una. Ma se ti accontenti di fare ciò che ti viene detto e di leggere quello che altri pensano tu debba leggere, allora non sta a me impedirtelo. È solo che lo trovo triste.»
Fin qui tutto potrebbe sembrare alla fine dei conti “quasi regolare”. Un titolo fuorviante, per un volume con un inizio volto a dimostrare una realtà americana bigotta e retrograda, un mistero da risolvere e l’idea di un possibile vampiro a fare da retroscena. Ingredienti, questi, non nuovi alla narrazione contemporanea. Tuttavia, “Guida al trattamento dei vampiri per casalinghe” non si limita a questo e dopo circa duecento pagine buone di tira e tira, che portano anche il lettore a perdere in parte di interesse, abbandona completamente i panni del romanzo giallo dalle possibili tinte fantasy per abbracciare una versione letteraria dello splatter. Con scene crude alla King, con scene macabre descritte con dovizia certosina che portano il conoscitore a domandarsi anche il perché di tutto ciò. Non tanto e solo per l’entità di quanto accade ma proprio per il perché di ciò. A questo punto subentra anche la curiosità del capire dove Grady Hendrix voglia andare a parare e da qui l’unica vera ragione che spinge a concludere questa corposa lettura di 445 pagine. Che non sarebbero nemmeno tante se prospettate ad altri titoli ma che possono diventare infinite se queste casalinghe non fanno breccia nel cuore.
Assistiamo anche a un salto temporale che ci porta a “tre anni dopo” l’inizio delle vicende e a un epilogo che lascia soltanto tanta tanta amarezza. Come dicevo, o si ama o si odia. Certamente degno di nota il messaggio di fondo volto a descrivere una società contemporanea americana molto retrograda, basata sulle apparenze, consuetudini e discriminazioni e difficilmente, allo stato degli atti, modificabile. Tolta però la riflessione relativa alla condizione femminile, sociale, razziale, alla violenza maschile e a quello che può essere definito un fascino oscuro verso il crimine, restano molti dubbi. Dubbi a cui si aggiunge una prolissità non indifferente ma non necessaria. Il risultato sarebbe stato certamente più incisivo e piacevole sfoltendo e tagliando soprattutto su capitoli di secondo piano e che rallentano all’inizio la partenza, nella parte centrale lo sviluppo e nell’epilogo le sorti di quello che è un finale tutto sommato aperto.
«D’altro canto, mi sono trasferito qui perché siete tutti così stupidi. Vi fidate di qualcuno purché sia bianco e abbia i soldi.»
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La forza nella perdita
«Quando ci siamo coricati tra le lenzuola nere del letto da adolescente di Benjamin, ricordo di aver provato una pace profonda e inedita. Si è addormentato con una mano sulla mia nuca, e io ho pregato che non cambiasse niente, di poter continuare a far parte della loro tavolata, io e tutti i bambini che avremmo avuto. Avevo scoperto il senso della parola famiglia.»
Ma cosa succede se da un giorno all’altro quel senso di famiglia, quel legame profondo, quella parola e quel senso appena scoperti vengono a sgretolarsi come un castello di sabbia che investito dall’onda del mare torna al suo stato originario? Cosa ne è di quelle ceneri che restano al posto di quei legami ormai definitivamente spezzati? Come andare avanti quando hai la consapevolezza che non potrai più avere quel che avevi o che speravi un domani di poter avere? Questo è quello che succede ad Amande Luzine, trentenne che a seguito di quella notte del 21 giugno vive aspettando. Aspettando che il tempo passi, aspettando che la morte se la prenda. Perché proprio in quella notte tutto quello che aveva è scomparso per sempre. Da quella sera inizia ad affrontare un percorso di dolore che la porta ai calendari di Madame Hugues in quella che è la proprietaria della casa lontana dalla città in cui si trasferisce a vivere. È reduce da un doppio lutto, Amande. Dal compagno amato e dalla figlia prematuramente perduta a seguito dallo shock per la notizia della perdita del primo. Da qui, piano piano, Amande inizia un percorso di crescita, un percorso volto a ricominciare a vivere. Inizia il suo cammino per tornare a conoscersi e amarsi ma anche per darsi quell’occasione per poter voltare pagina con un nuovo inizio. Perché ancora non è giunto il momento di scrivere quella parola chiamata fine.
«Se un chicco di grano non fosse impermanente, non potrebbe trasformarsi in stelo di grano, se lo stelo di grano non fosse impermanente non potrebbe dare la spiga che mangiamo.»
Con “I quaderni botanici di Madame Lucie” Melissa Da Cosa torna in libreria con un secondo lavoro che segue a “Tout le bleu du ciel” e che ha il coraggio di trattare temi non semplici e di rivolgere ai suoi lettori un inno alla speranza. Ella affronta anche le tematiche del lutto, della perdita, della sofferenza di chi resta e deve ricominciare. Vi riesce per mezzo di una penna non troppo erudita ma fluida che invita a non mollare, a darsi una seconda occasione, a credere nel domani anche quando pensiamo di non averlo un domani.
Ed è proprio lo stile la sbavatura di questo romanzo: a tematiche importanti e riflessive che invitano all’introspezione fa da contrappeso una penna fin troppo semplice e basilare, che finisce talvolta con l’essere ridondante e/o perdere nel ritmo narrativo tanto da non riuscire a reggere l’impatto di quelle che sono le problematiche affrontate.
«Non servono cerimonie per creare per creare solennità e bellezza. È il mio terzo pensiero, mentre contemplo il fuoco sacro che anima le nostre ombre sul tronco del salice. La mia ombra, alta e deformata. Quella del gatto grigio, piccola e misteriosa. […] Ho un salice piangente che ha il nome di un defunto, un gatto che mi ha adottato e delle candele che ho modellato con le mie mani. Ho la luna piena e anche la brezza, perché senza di lei le candele non danzerebbero… E nemmeno le nostre ombre.»
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Argia
“Mi sforzo di sorridere, di dare ragione a Nicola, quando mi ripete che devo imparare a lasciare andare, che il passato non è l’unica strada.”
Ci sono momenti nella vita in cui siamo chiamati ad affrontare il nostro passato. Anche quando questo è dolore, perdita o ancora il residuo di cicatrici che mai sono guariti. Ci è chiesto di iniziare un viaggio che prima di tutto è un viaggio nella nostra memoria, un viaggio di espiazione, di consapevolezza.
Carmela Scotti è nota al grande pubblico per il suo esordio con “L’imperfetta”, finalista al Premio Calvino 2014 e con “Chiedi al cielo” 2018. Torna in libreria con un titolo che vede quale protagonista Argia. Argia e il figlio Lucio, entrambi traghettati dall’ex compagno di classe, ora impresario delle pompe funebri, Nicola. Questi intraprendono un viaggio in Italia dalla Lombardia alla Sicilia per deporre le ceneri della sorella di lei, ovvero di Dervia, al fianco dei resti della madre e della nonna.
Argia ha avuto un rapporto molto particolare con la sorella. È una donna, ancora, molto dura e che non concede sconti. A nessuno, ancor meno a se stessa. Questo anche perché non ha mai conosciuto l’amore, non ne ha mai ricevuto davvero. Ha visto sconvolgere il suo universo proprio con la nascita della sorella che ha significato nel suo percorso la perdita completa di quelle attenzioni universali che in precedenza la genitrice le rivolgeva. Dervia ha inoltre caratteristiche sottratte dalla natura alla nostra protagonista quali ad esempio la bellezza o la fragilità dell’empatia. Al tutto si somma un evento scatenante che toccherà irreversibilmente la loro vita e quella della famiglia. Lo stesso padre fatica a restare nel proprio ruolo tanto che si separa dalle stesse figlie. Le conseguenze sulle due ragazze saranno devastanti.
“Mi sembra che la terra sotto i piedi si sgretoli senza un appiglio a cui aggrapparsi, e per la prima volta so chi sono davvero: la più cattiva, la “senza cuore”, quella che ha tutto da perdonare e da farsi perdonare”.
Ma Argia riuscirà a vivere ritrovare una sua dimensione? A rinascere dalle ceneri, a buttarsi alle spalle quel passato fatto di rancore, dolore, sofferenza? Riuscirà a trovare il suo nuovo inizio? A maturare dalla situazione?
Un titolo dal forte carattere introspettivo che conduce per mano chi legge in una dimensione interiore e che da qui si sposta alla ricerca di una seconda possibilità e di una occasione che possa davvero riportare al vivere sereno e a una nuova rinascita.
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La storia di una vita lunga quasi un secolo
«Sono venuta al mondo un venerdì di tempesta del 1920, l’anno del flagello. La sera della mia nascita era saltata la corrente, come spesso succedeva durante i temporali, ed erano state accese le candele e i lumi a petrolio, sempre a portata di mano per le situazioni di emergenza. Marìa Gracia, mia madre, sentì le contrazioni, che ormai riconosceva facilmente dopo aver già partorito cinque figli e, rassegnata all’arrivo di un altro maschio, si abbandonò al dolore aiutata dalle due sorelle che, avendola assistita in quel frangente diverse volte, riuscivano a mantenersi lucide.»
Eppure, questa volta, a nascere non è un maschio quanto una bambina subito caduta di testa in quel mondo non sempre ospitale ma venuto ad accoglierla in modo un po’ rudimentale perché scivolata proprio dalle mani della donna che avrebbe dovuto rappresentare il ponte di passaggio tra il grembo materno e il nuovo vivere. Una bambina il cui nome non poteva che essere Violeta.
«È l’illustre nome della bisnonna di mia madre, che ricamò lo stemma della prima bandiera dell’Indipendenza all’inizio dell’Ottocento.»
E Violeta nasce in un periodo molto particolare, in un secolo fatto di sconvolgimenti. In primo luogo proprio innanzi a quella pandemia che aveva colto la famiglia stessa di sorpresa. Quella influenza spagnola, detta solo “la spagnola”, che sino ad allora li aveva risparmiati per questioni di “isolamento geografico” di quel Cile così lontano ma che alla fine, seppur con ritardo, era sopraggiunta. Ancora, sulle retrovie, il ricordo fantasma di quella Grande guerra che era giunta al suo concludersi lasciando i popoli piegati su se stessi. Violeta cresce in un ambiente tutto sommato favorevole, anche a livello economico. Questo, in particolare, grazie al padre che previdente riesce a garantirle una vita serena e fatta di benessere. Ciò almeno sino alla Grande depressione che quella vita elegante compromette al punto dal tutto far loro perdere. Sconvolgendo gli equilibri, costringendo allo spostarsi, obbligando a reinventarsi. Violeta in tutti questi sconvolgimenti è anche vittima di una violenza fatta di un atto vile dettato dalla brutalità ma è anche una donna che scopre di un amore mai provato prima. Un amore di una forza e di una entità tale da non avere eguali, un legame indissolubile che viene raccontato con estrema lucidità, così come vengono raccontati quei giorni di cambiamento sociale e politico di un Paese non sempre semplice da decifrare nei suoi meccanismi e altrettanto complesso da delineare in quell’alternarsi di povertà e ricchezza che perennemente lo hanno caratterizzato. Tra gioie e dolori, lutti e nuove speranze. Il tutto sino all’inevitabile epilogo.
«È arrivata la fine. Sono qui ad aspettarla in compagnia di Etelvina, della mia gatta Frida, dei cani della fattoria che non hanno padroni e che ogni tanto vengono a sdraiarsi ai miei piedi, e dei fantasmi che mi circondano. Torito è il più assiduo, perché questa casa è sua e io sono sua ospite. Non è cambiato, i morti non cambiano […]»
Ma chi è Violeta? Chi è questa donna il cui volto ci ha accompagnato per quasi un secolo in questo ultimo lavoro a firma Isabel Allende? Violeta altro non è che Francisca Llona Barros, detta “Panchita”, scomparsa tre anni fa all’età di 98 anni e di fatto madre della scrittrice. Isabel Allende sin dai primi mesi della scomparsa, mesi vissuti in isolamento a seguito della pandemia da coronavirus, sente che questa storia deve scriverla. Ma per farlo ha bisogno di tempo. Perché questa storia nasce a distanza di un secolo esatto dalla nascita della madre e proprio in tempo di epidemia spagnola (ieri) da Covid (oggi). Un circolo, come da lei definito, “poetico” che aveva necessità di prendere forma e campo anche se questo avrebbe necessitato di un tempo maggiore perché certi legami nel sangue restano anche se la vita li distanzia a livello fisico e dunque proprio per questo serve maturazione e maturità dall’evento anche solo per riviverlo e tornarci sopra. Una vita che si apre con una pandemia e che, per paradosso delle circostanze, si chiude con una epidemia. Tuttavia, sempre di un trauma e di una perdita si tratta. Ecco allora che Violeta inizia il racconto, un racconto suddiviso in sezioni (dal 1920 al 1940, dal 1940 al 1960, dal 1960 al 1983, dal 1983 al 2020) e che prende in considerazione eventi diversi in blocchi diversi e che al contempo vede quale destinatario Camilo. Tra lettere, passioni, emozioni e ricordo. Perché la memoria non vada perduta.
La Allende dona ai suoi lettori uno scritto che è prima di tutto destinato a se stessa perché catarsi, perché necessario alla stessa elaborazione del lutto e della perdita. Non è la prima volta che la narratrice usa lo strumento della scrittura per esorcizzare ed eviscerare un dolore, non è la prima volta che la parola diventa il suo – ma anche nostro – angolo di pace in un mondo di non pace. Non è nemmeno l’unica scrittrice, la stessa Serrano, ma anche molti altri ancora, hanno usato, ed usano, la penna per affrontare quei dolori dell’obbligato esistere che ci piegano e talvolta tentano di spezzarci. In molti, d’altra parte, concordano nel riconoscere che le storie sono prima di tutto vita vera che trova forma e coraggio nella parola scritta e che da qui insegna. Da Dacia Maraini a Daniele Mencarelli ci viene ricordato e insegnato che non c’è storia più potente di quella dell’esistenza concreta perché capace di suscitare e risvegliare emozioni autentiche. Ed ancora, la stessa Maraini, insegna e consiglia agli aspiranti scrittori di scrivere tutti i giorni un poco e di narrare prima di tutto quella che è la loro esperienza di vita, una vita vissuta e non solo bramata, perché come disse Hemingway “Per poter scrivere della vita, prima devi viverla”.
E questo la Allende fa. Scrive di una vita che ha vissuto al fianco della madre e che per mezzo di lei e dei suoi lasciti ha rivissuto. Ha scritto, ha dedicato alla donna, ha lasciato nella memoria.
«Dopo aver vissuto un secolo, mi sembra che il tempo mi sia scivolato tra le dita. Dove sono finiti questi cento anni? […] Le anime senza peccato fluttuano leggere verso lo spazio siderale e si trasformano in polvere di stelle. Addio, Camilo, Nieves è venuta a prendermi. Il cielo è bellissimo…»
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Tra vivere e sopravvivere
Con “Yoga” Emmanuel Carrère propone ai suoi lettori uno scritto focalizzato su quattro anni di vita che lo vedono quale protagonista. Lo scrittore, eterogeneo e pungente, torna a parlare di un tema che lo ha coinvolto personalmente: la depressione. Una melanconia sopraggiunta ma tale da trasportarlo in una dimensione di depressione generica di poi confluita in un “episodio depressivo maggiore, caratterizzato da elementi di malinconia e idee suicidarie in un quadro di disturbo bipolare di tipo II”. Da qui lo scritto vira inevitabilmente su quella che è una autobiografia all’interno della quale lo yoga, disciplina da sempre praticata dal narratore narciso, si rivela essere lo strumento con cui avviene e si manifesta la ricerca dell’io interiore. A ciò si aggiungono discipline quali il tai chi e ancora la meditazione.
Ed è proprio da quest’ultima che ha inizio l’opera. Lo scritto, infatti, prende forma e campo, dopo rapidi passaggi, dall’auto-internamento all’interno nel programma Vipassana per la durata di dieci giorni. Durante questo il soggetto protagonista si dedica interamente alla meditazione, al silenzio e stacca la propria vita da ogni legame e relazione con il mondo esterno. Il fascino è immediato, la scrittura fluida e curiosa. Al momento del rientro nella vita canonica, il ritorno del malessere. Dopo un siffatto periodo di estraneità dal tutto, non è semplice tornare al caos, all’evidenza di un mondo che sembra piegarsi su se stesso. Un malessere che sopravviene e che è dettato dal reinserirsi dopo un siffatto percorso nel vivere quotidiano, nel costante e comune rievocare tra attualità, sofferenza, insofferenza e costanza. In uno scenario del vivere quotidiano che viene qui descritto e delineato con forza ripercorrendo, oltre all’esistenza del romanziere, anche quella del nostro vivere.
Tuttavia, anche se l’opera ha un carattere arguto e una struttura piacevole, tende un poco a perdersi nel suo evolversi e per questo anche a perdere di quell’empatia e di quella capacità evocativa e tale da incuriosire che si riscontra al contrario al suo inizio. Il risultato è quello di un titolo piacevole e interessante ma non indimenticabile. Ancora una volta un Carrère che divide.
«Si può dire che abbiamo incominciato a fare l'amore facendo yoga, e che abbiamo continuato a fare yoga facendo l'amore [...] restavo sospeso sull'orlo, entrambi facevamo durare questo momento il più a lungo possibile, poi mi rituffavo dentro di lei, sempre più lentamente, sempre più profondamente, proprio come quando, meditando, la respirazione diventa sempre più lenta e profonda, più lunga l'inspirazione, più lunga l'espirazione, e più lunghe le pause fra l'una e l'altra, più dilatati anche i momenti in cui viene da pensare che il movimento è ormai terminato, che è arrivato a fine corsa, che sta per ripartire nell'altro senso, e invece no, si prolunga ancora, si intensifica, si affina, mentre tutte le sensazioni sono concentrare in un unico punto.»
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Hakodate e la sua caffetteria
Torna in libreria Toshikazu Kawaguchi con “Il primo caffè della giornata”, seguito naturale de “Finché il caffè è caldo”, classe 2020 ed esordio del narratore e “Basta un caffè per essere felici”, classe 2021. Torniamo dunque in uno spin-off della caffetteria che per le sue peculiarità ha decretato il successo editoriale delle pubblicazioni. Una caffetteria in cui può aver luogo un determinato viaggio nel passato ma soltanto in virtù di alcune regole ben precise e delineate. Si tratta infatti della possibilità di avere una seconda occasione anche se, appunto, in quel viaggio nel passato nulla può e deve modificare il presente e in alcun modo il viaggiatore deve alzarsi dalla sedia sulla quale si trova. Ancora, il medesimo deve attendere che la sedia sia libera e le uniche persone che si possono incontrare sono quelle che nel passato sono entrate in quel caffè. Il viaggio ha inoltre inizio nel momento in cui viene versato il caffè e dura soltanto sino a quando il caffè resta caldo.
Altresì è ancora tassativamente vietato attendere oltre; una volta concluso il viaggio è pericoloso tentare di mantenere il proprio posto, circostanza che può comportare gravissime conseguenze. In questo libro pertanto a essere protagonista non è la caffetteria di Tokyo, ma quella di Hakodate con le medesime caratteristiche.
«Nella caffetteria di Hakodate, come in quella di Tokyo, c’era una sedia dove i clienti potevano viaggiare nel tempo. Qui la sedia si trovava vicino all’ingresso del locale ed era occupata da un signore anziano in abito scuro.»
Ecco allora che l’attenzione del lettore si sposta e focalizza su questo luogo, teatro delle vicende ideate da Kawaguchi. Ancora una volta i personaggi che incontriamo sono alla ricerca di una seconda occasione, di una seconda opportunità. Quattro grandi racconti (La figlia, Il comico, La sorella minore, L’uomo che non sapeva dire “ti amo”) in cui è racchiusa tutta l’essenza dell’opera che trova voce per mezzo dei tanti personaggi. Da Yoyoi che privata dell’affetto dei genitori quando era molto piccola teme di non riuscire a vivere e ad affrontare la vita con un sorriso, a Todoroki la cui carriera sfavillante e di successo ha offuscato una vera felicità sempre avuta a portata di mano, ed ancora Reiko che è schiacciata dal senso di colpa per non aver saputo chiedere scusa alla sorella perduta e Reji che ancora non riesce a pronunciare quel “ti amo”, ostacolo invalicabile.
Tuttavia, talvolta, quel che davvero può fare la differenza è la chiave di lettura, la prospettiva con la quale ci avviciniamo e approcciamo ai problemi. Questo, insieme alla consapevolezza delle vite potenziali e concrete e ai sentimenti che costellano il nostro vivere con i pregi e difetti, porta il lettore a cogliere l’essenza del titolo e a riflettervi.
Lo scritto è avvalorato da una penna semplice, poco erudita, finalizzata a dar vita a una canonica miniatura giapponese e non sempre è scorrevole o capace di coinvolgere il lettore. Ciò anche a causa di una frammentarietà che ne caratterizza le pagine e alla naturale formula del racconto prescelta. Altrettanto ancora cade nei classici cliché a cui siamo abituati o tende a confinarsi nel classico déjà-vu. In conclusione, “Il primo caffè della giornata” è un titolo finalizzato a dare e trasmettere leggerezza. Si amerà se si è alla ricerca di questo e cioè di uno scritto che solletichi con delicatezza l’animo o comunque non si caratterizzi per essere una lettura troppo impegnativa, si faticherà ad apprezzarlo se invece si è alla ricerca di titoli più di sostanza e più corposi e meno facenti parte di un format.
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Ritrovarsi e ritrovare
«Dicono che ci sia un posto nel mondo per ciascuno di noi e a quello tendiamo senza sosta, anche se non si sa dove sia, anche se non abbiamo le coordinate per raggiungerlo e non ci sono mappe a indicarcelo.»
Torna in libreria Carmen Pellegrino con “La felicità degli altri”, La Nave di Teseo, altra opera di grande interesse a firma della studiosa. Lo scritto ha inizio partendo da un’infanzia che viene bruscamente negata, interrotta da quella che è una famiglia fatta di liti furibonde tra una madre nevrotica e un padre trasparente. Qui a vigere è l’ombra e “ciò che resta in ombra si abitua a non essere guardato”.
La conseguenza naturale di questa condizione è una solitudine profonda, una solitudine fatta di oscurità e voci e la cui protagonista è Clotilde detta Cloe. Non sappiamo che età abbia costei, sappiamo solo che all’età di dieci anni la sua vita è cambiata e si è ritrovata a vivere in una casa-famiglia. La donna, ancora, è reduce da un aborto e da un matrimonio che si è sgretolato sul nascere. Cloe è dunque alla ricerca delle sue coordinate e al tempo stesso è alla ricerca di quel vivere quotidiano che possa darle le certezze necessarie per vincere quel passato fatto di angosce e silenzi e congedarsi con il presente per aprirsi al nuovo futuro.
Cloe deve vedersela con le “anastilosi”, deve ricostruire. Partire dalle macerie, ritrovare le fondamenta, rendere solido il suo tronco. Trovare il suo punto fermo.
Da qui vengono ancora introdotti molteplici personaggi che sono ricostruiti con la forza delle parole e il tempo, un tempo che si dilata e contrae tra un presente e un tempo che è stato. E sono proprio i continui salti temporali che possono, alla lunga, un poco sfiancare o comunque rendere la lettura più difficoltosa, più lenta nel suo incedere.
«Per quante strade si percorrano, per quante se ne cambino, arriverà il momento di prendere per quella via che darà senso alle altre. E non importa dove e perché ti sei perso. C’è un varco da cercare, erto, nascosto oppure sconciamente evidente […]. Lo attraverserai e ti ritroverai là dove si ricrea qualcosa; senza accorgertene ti ritroverai in un nuovo inizio.»
“La felicità degli altri” è uno scritto da leggere un poco alla volta. Nuovamente Carmen Pellegrino porta i suoi lettori in una dimensione di forte introspezione e riflessione e vi riesce per mezzo di una storia forte che suscita empatia e comunanza. Si tratta di un titolo ancora intimo e intimista, uno scritto dove per prima cosa si ricerca il nostro sentirsi vivi.
Al tutto si somma una penna dai toni sognanti e talvolta evanescente finalizzato al meglio rendere la solitudine e la sofferenza che ne permea e colora le pagine. Lo stile, così come le riflessioni filosofiche ivi contenute e sottese, trattiene il lettore che, solleticato, è curioso di conoscere dell’epilogo. Anche quando la lettura perde di qualche battito a causa dei salti temporali.
Una riflessione intensa e profonda su una vita vissuta soltanto a metà.
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Quando sono le ossa a parlare
«Forse, pensava, se riuscissi a superare il dolore del distacco, non soffrirei più, non succederà più che perda le persone a cui tengo. La vita sembrava godere a far soffrire gli esseri umani dove più faceva loro male. Come un dentista arruffone, snudata la radice del dente, lì colpiva col trapano.»
Rocco Schiavone sa benissimo che le rotture nel suo lavoro non mancano mai. Ancor meno se di rotture di decimo livello si parla. Ma quando ad essere oggetto delle sue indagini è il ritrovamento di uno scheletro appartenente a un bambino, una serie di ossa, resti di queste, tornate alla luce per merito dell’acqua piovana ed esemplari diretti di un corpo privato del suo vivere a causa di mano altrui, Rocco sa benissimo di trovarsi davanti a una rottura diversa. Perché si tratta di un bambino, un bambino morto sei anni prima e di circa una decina d’anni, di un bambino molto probabilmente ancora cercato dai propri genitori, di un bambino morto per chissà quale ragione. È un cold case in piena regola quello che si trova davanti, un cold case che impiegherà tutta la sua squadra nel tentativo di risoluzione di un mistero troppo a lungo celato.
«Se non lo nutri, come una pianta, quello tende a seccarsi. Basta non dare acqua.»
Ecco che torna in libreria Antonio Manzini con un titolo eclettico e molto particolare esattamente come il caso che tratta. Ci troviamo davanti a uno Schiavone più maturo, sempre disilluso, sarcastico e ironico, ma più profondo. Al tempo stesso ritroviamo tutti quei personaggi a cui abbiamo imparato a volere bene, soffriamo anche nel vedere la perdita della retta via e la discesa negli inferi di alcuni di questi, così come invece gioiamo innanzi alle nuove piccole conquiste di altri.
Scritto nel mese di maggio 2021 contestualmente a “Vecchie conoscenze”, come dichiarato dall’autore sui canali ufficiali di Sellerio, “Le ossa parlano” è un giallo tipicamente italiano che coinvolge e trattiene, conquista e solletica la curiosità. Nella sua naturalezza, nella sua genuinità strutturale.
Un titolo che pone un altro tassello a una saga che nel suo evolversi ha raggiunto un discreto grado di piacevolezza ma anche caratterizzazione.
«I binari dell’esistenza si incontrano e dividono senza lasciare neanche una traccia del loro coincidere. Al contrario dei vestiti di chi non c’è più.»
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La casa senza ricordi e senza movente
«La morte la stava aspettando e adesso lei se l’era portata addirittura a casa. E fra poco, terminata la merenda, avrebbe finalmente parlato, annunciandole con voce innocente ciò che nessun essere umano vorrebbe mai sentirsi dire.»
Dodici anni. Il suo nome è Nikolin ed è scomparso da otto mesi con la madre Mira per i boschi del Mugello, Toscana. La donna che lo ritrova è una allevatrice che ogni mattina alle 3.47 si sveglia e si reca alla valle dell’Inferno. I cani hanno paura, lo temono. I suoi occhi non parlano, non si chiudono. Sono specchi vacui di un’ombra che abita il corpo. Cosa è successo al bambino? Perché non proferisce parola? E che fine ha fatto la madre? Gerber viene subito interpellato per quello strano ritrovamento. Il caso è oscuro e al tempo stesso fa preoccupare quegli adulti che subito pensano al peggio. Un bottone sfilato in un contesto di massimo ordine riesce a far risvegliare il giovane dal torpore. Tre condizioni da accettare senza remore e una verità che potrebbe sconvolgere. Ma che sia davvero una ammissione di colpevolezza? Gerber non lo pensa e a buona ragione. Da qui inizia la psiconanalisi del ragazzo ma soprattutto iniziano le sedute di ipnosi. Perché Niko sembra essere chiuso in una dimensione parallela, in una “casa senza ricordi” dove non ha voce in capitolo e dove sono altri a manovrarlo. Ecco, dunque, che per ogni ipnosi è necessario “un innesco”, sempre diverso e sempre più particolare.
Gerber arriverà a mettere in discussione la propria carriera pur di raggiungere la verità. Si trascura, trascura i propri pazienti, scopre e realizza di aver a che fare con un ipnotista forse molto più bravo ed esperto di lui. Talmente bravo da raggiungere dimensioni veramente profonde e oscure della mente. Il nostro protagonista è a una svolta, inoltre, della propria vita: separato da quasi un anno e mezzo dalla moglie e lontano quindi dal figlio a causa del caso Hanna Hall conosciuta ne “La casa delle voci”, è in balia dei cambiamenti. Tante evidentemente le premesse per quest’ultimo lavoro di Donato Carrisi.
«Ma è impossibile discernere un pericolo quando si nasconde dietro la maschera dell’ambiguità, si disse Gerber.»
Con “La casa senza ricordi” Donato Carrisi dona ai suoi lettori un romanzo con tanti spunti e tante possibilità di sviluppo che purtroppo restano disattese. I presupposti di partenza ci sono tutti. Un mistero che si infittisce, ambientazioni tutto sommato apprezzabili e sufficientemente veritiere (da toscana il riscontro o meno viene automatico) seppur con qualche imprecisione, personaggi delineati nei tratti prevalenti, un giovane che con la caratteristica delle sue palpebre affascina. Poi iniziano i refusi e chi legge ci passa sopra pensando che alla fine sia una scelta editoriale perché sennò non se lo spiega, magari una scelta meno arcaica di alcune forme grammaticali seppur la linea generale sia altra, iniziano le sedute di ipnosi che sono onestamente le più attese (l’unica cosa davvero attesa) e anche le mestizie e le petulanze di Gerber che alla lunga sfiancano. In tutto questo il coraggioso e imperterrito conoscitore giunge a pagina 247 di 398 e ancora uno slancio il libro non lo ha preso. La curiosità resta ma chiaramente il lettore ha sempre meno la sensazione di trovarsi davanti a un thriller. La lettura è sempre più farraginosa e va avanti solo e soltanto per l’anzidetta curiosità. Giustamente il finale il conoscitore, a questo punto, lo vuol conoscere. Si stupisce anche, però. Non ci ha mai messo così tanto tempo a finire un libro di Carrisi, nemmeno nelle ipotesi di mancata piacevolezza della lettura. Tuttavia, ancora, l’incedere è lento e farraginoso e quello smacco atteso non c’è. Anzi. Si scopre qualcosa del passato, si giunge a comprendere un po’ chi muove le fila ma alla fine? Alla fine il finale è aperto. L’epilogo lascia in sospeso tutte, e sottolineo tutte, le domande del lettore. Dalla prima all’ultima. Anche il mistero dell’ipnotista sconosciuto come delle sorti del bambino non si ha dato alcuno. Solo qualche riscontro delle sue origini e del “vero cattivo” a cui verrebbe, si ipotizza perché anche qui siamo sul vago, restituito.
In tutto questo i refusi, di nuovo loro, non mancano in un alternarsi, ancora, tra presente e passato di Pietro stesso. È chiaro che sin dall’inizio nelle intenzioni di Carrisi vi fosse l’obiettivo di dar vita a un romanzo di transizione, ma può “La casa senza ricordi” definirsi soddisfacente? A voi la risposta. Dal mio punto di vista si salvano solo le sedute di ipnosi avallate da chiara previa documentazione dell’autore come riportato in note a conclusione dello scritto. Certo non lo definisco un thriller ma onestamente nemmeno una serie riuscita. Se “La casa delle voci” mi aveva addirittura fatto ridere in alcuni passaggi inverosimili e inconcreti, in “La casa senza ricordi”, a cui avevo dato una possibilità senza mettere avanti pregiudizio alcuno, troppe sono le falle rispetto ai pregi per definirlo un libro riuscito.
«Alcuni recano in sé ferite invisibili, che sanguinano continuamente. Oppure vuoti incolmabili in cui riecheggiano urla disperate. Ciò che ho vissuto mi ha portato fin qui, perché dovevo mostrarlo a qualcuno. E adesso tu verrai con me.»
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- sì
- no
No: a chi non ama questa tipologia di scritti.
La rabbia di Pietro
«E fu a questo punto, pensando agli eserciti, che Pietro d’improvviso, come gli accadeva da qualche tempo, fu preso dalla rabbia. La sentì montare come un toro infuriato dentro di sé e dovette serrare la mascella e stringere i denti e le mani dentro le tasche per reggerne l’urto. Socchiuse gli occhi velati da un manto scuro, respirò, e i dannati contorti, gli olivi neri del campo, divennero un mare di fanti morenti che urlavano e lo chiamavano.»
Siamo a Firenze, 1937. Pietro è rapito dalla musica. La sta ascoltando con occhi socchiusi. È il suo compleanno e stanno festeggiando così. Questo è il regalo del Conte che ben sa quanto il contadino ami l’opera. Ma né Pietro né il suo ormai caro commissario Vitaliano Draghi, immaginano cosa si sia perpetrato sulle colline della Certosa del Galluzzo. La neve imbianca i suoli e i cieli, un illustre ospite viene rinvenuto privo di vita e di lì a poco anche il Priore. Che si tratti di una coincidenza? Che i due fatti siano tra loro collegati? Che le circostanze siano condotte da un filo invisibile? Un jolly nella mano destra del Priore complica ancor più le carte così come la reticenza posta da parte del personale. Che ruolo hanno, ancora, i fiammiferi rinvenuti nella tasca del primo morto e che rimandano alla casa di appuntamenti di Madame Saffo? E se una giovane vergine fosse stata preparata a un futuro innegabile e inevitabile? Cosa lega, ancora, un convento di certosini al bordello?
Ed è da queste brevi premesse che ha inizio “La rabbia del lupo” ultima fatica di Fabrizio Silei, autore già noto al pubblico dei più piccoli e che ha fatto il suo esordio anche nella narrativa giallo-storica per adulti con “Trappola per volpi”, Giunti, opera che anticipa appunto le vicende di cui allo scritto odierno. La narrazione scorre rapida e non deve spaventare la mole. Le pagine si susseguono con un ritmo ben cadenzato che alterna ricostruzione storica con il mistero da risolvere. Tra le pagine non vi è però soltanto un giallo perché il Lupo ha una rabbia sopita che torna qui ad emergere tra ingiustizie e periodo storico infausto che purtroppo tutti conosciamo.
Ecco perché il romanzo si lascia letteralmente divorare. Dimostra uno sviluppo e una maggiore maturazione rispetto al precedente e non delude le aspettative. Al contrario. I personaggi sono ben caratterizzati ed entrano subito in sintonia ed empatia con chi legge. Un elaborato da gustare e di grande piacevolezza.
«Il suo non farcela più a sopportare, a pazientare, a stare al proprio posto come aveva fatto esemplarmente tutta la vita e avevano fatto generazioni di contadini prima di lui chinando la testa di fronte a padroni e generali, al potere e all’ingiustizia, dicendo sempre Sissignore.»
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Omaggio e memoria a Franca Viola
«La donna singolare non esiste. Se è in casa, sta con i figli, se esce va in chiesa o al mercato o ai funerali, e anche lì si trova assieme alle altre. E se non ci sono femmine che la guardano, ci deve stare un maschio che la accompagna»
Sicilia, anni ’60. Oliva Denaro è una figlia del tempo che nasce in una famiglia del tempo. La madre calabrese ha sposato un uomo di origini siciliane dopo essere fuggita con lui in quella che è la tanto nota “fuitìna” d’amore. Da questa unione sono nati Fortunata, Cosimino e Oliva, questi ultimi due gemelli. Oliva, purtuttavia, sa benissimo che tra uomo e donna ci sono delle differenze insuperabili e insormontabili e che per questo, anche se sono gemelli, ella non può essere considerata al pari del fratello. La donna è infatti una brocca e chi la rompe, se la piglia. Questo è quel che la madre le ha sempre detto. A Martorana, quel prima e quel dopo, è siglato per una giovane donna dal sopraggiungere del marchese, momento di gioia per l’esser diventate signorine ma anche di maledizione perché da quel momento tutto inevitabilmente cambia. Ed ecco allora che fuori dalla scuola ad attendere le giovani vi è un parente, ed ecco allora che se viene incontrato un maschio, lo sguardo deve essere rivolto al terreno. Oliva non ne vuol sapere del suo marchese. Ella vorrebbe poter continuare a prendere i babbaluci e le rane con il padre, vorrebbe poter continuare a giocare con l’amico di sempre Saro, ma il corpo cambia e con esso gli sguardi al medesimo rivolti. Ha tanti dubbi la ragazza, non conosce il suo aspetto, non pensa di essere bella e anche se il matrimonio sembra essere l’unica via di fuga e di salvezza per quella brocca, non crede che questo possa portare la felicità stante la sorella che tra quelle mura e con quell’uomo che ha preso come marito tutto sembra tranne che felice. Chi osa abbracciare la modernità in un contesto dove a far da padroni sono soltanto le convenzioni quali i matrimoni combinati, non è ben visto. Anzi. Lo stesso vale per la politica e per tutto quello che non rientra negli schemi precostituiti.
E c’è sempre un prima e un dopo, anche per il giusto e lo sbagliato che tra loro si scontrano e incontrano. In questo contesto e in questa realtà al torto può essere posto rimedio soltanto con il matrimonio e se non accetti le nozze tu che sei stata oggetto di scandalo in una Italia che giustifica la forza passionale che si trasforma in violenza, sei la colpevole.
Tra queste pagine tanti sono i volti a parlare in un contesto dove alla donna non è chiesto di studiare ma di trovare marito e alle madri stesse di rimediare e riparare quando sono le prime a sentirsi sole in terra straniera.
Un titolo diviso in quattro parti ove è prevalentemente Oliva a raccontare dei tanti dubbi, conflitti e di quel forte legame che la unisce al padre. Nella quarta parte è il padre, invece, a narrare e a destinarci dei pensieri di un uomo forte che vorrebbe vedere la figlia felice seppur lontana da lui e da quel che è la loro famiglia e la loro terra, le loro radici. Tutto pur di poter sapere che quel torto subito altro non è che ormai una cicatrice.
«Avevi ragione tu, papà: ogni cosa viene per chi sa aspettare.»
“Oliva Denaro” per mezzo della forza di un romanzo ci racconta la storia di Franca Viola, ci narra del torto subito da questa giovane donna, oggetto di violenze plurime e preda di una realtà del tempo che ci ha messo sedici anni a riqualificare il reato ex 544 cp da ella subito da “reato contro la morale” in “delitto contro la persona”.
La storia di Franca/Oliva è la storia di molte donne del tempo, è la storia del volto del nostro paese. Un paese in cui tante cose sono cambiate e tante altre sono rimaste uguali, illibate. Un titolo con una partenza lenta, cadenzata, che accelera piano piano, poco alla volta e che consente al lettore, seppur con molti deja vu e altrettanti cliché, di riflettere sul mondo che ci circonda e sul vivere che fa parte del nostro quotidiano le cui conquiste sono spesso date per scontate.
«Anche dalla terra bruciata dal sale può rinascere vita: l’ho imparato da te, pà, dai gesti delle mani. Scavare, seminare, tagliare, innaffiare. Infilo nella sporta il bouquet di margherite, con delicatezza, per non gualcire i petali, e procedo a passo svelto verso l’ultima destinazione.»
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Gavin
“Gettin it Right”, classe 1982, è pubblicato da Fazi nel 2021 all’interno della collana “Le strade”. In “La ragazza Giusta” l’autrice dei Cazalet ci riporta nella Londra degli anni Settanta. Gavin è un giovane parrucchiere appartenente a una modesta estrazione sociale e dall’indole alla speranza. Un salone, quello dove lavora, non dei più alla moda, non dei più in voga. Eppure amato e ricercato dalle clienti affatto giovani. Infatti, in ogni caso, alle clienti mai una premura non viene riservata. Ciascuna viene curata e lustrata, con ogni massima attenzione. La difficoltà maggiore già al tempo era quella di trovare giovani apprendisti dediti al sacrificio di quell’apprendistato della durata di tre anni con capo chino e massima umiltà volto a imparare un mestiere. Gavin come ogni suo collega si dedica anima e corpo al lavoro ed essendo di indole timida e silenziosa, anche un po’ remissiva e insicura, certamente si sarebbe spaventato a doversi relazionare con persone più giovani, con clienti magari anche di bell’aspetto oltre che di indubbia presenza.
Ma il lavoro non è tutto, Gavin sa che deve anche relazionarsi con il mondo femminile e cercare “la ragazza giusta”. Come trovarla? E come essere sicuri che sia proprio lei la persona giusta una volta incontrata?
Tra confidenze delle clienti, un amico omosessuale e la sperimentazione di due modelli femminili tra loro completamente diversi, il giovane e sensibile uomo d’altri tempi sarà costretto a guardarsi dentro e a interrogarsi su quelli che sono i sentimenti e l’amore.
Ed ecco allora che inizia il viaggio del lettore nella mente maschile e nella ricerca costante di quell’amore che spesso abbiamo accanto anche se non ce ne rendiamo conto.
La Howard confeziona per i suoi lettori una commedia che si legge con rapidità e che non mancherà di appassionare gli amanti del genere. Forse non il suo scritto migliore ma capace di soddisfare chi cerca titoli di questo genere.
«Il mondo non sarebbe un bel posto se fossimo tutti uguali.»
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Carlo vs Robert
Chi già conosce Sacha Naspini sa che è un autore che tocca immancabilmente temi importanti e corde profonde. Temi che vanno dai legami familiari alla vita, al vivere e all’esistere. Sa ancora che tra le sue pagine troverà dolore ma anche riflessione perché egli nulla risparmia a chi legge. Naspini sempre conduce per mano, nei meandri della mente e dell’anima. Nel buio più oscuro. Questa volta però, con “La voce di Robert Wright”, egli ci propone un qualcosa di completamente diverso da quanto precedentemente presentato.
In merito, il cambiamento è evidente già dalla voce narrante che, questa volta, è una seconda persona singolare. Il narratore, di cui all’inizio non conosciamo granché, si rivolge direttamente al lettore. Carlo Serafini sembra infatti avere tutto. Una carriera con i fiocchi in cui ha prestato la sua voce a Robert Wright sino a far proprio il personaggio, una moglie più giovane e un figlio. Egli è da sempre, infatti, associato a Robert. Basta che si fermi in un bar per sentirsi chiedere se magari vi è una conoscenza pregressa. Ma cosa accadrebbe se un giorno Wright morisse? Cosa ne è della sua esistenza di doppiatore e di uomo una volta che quella che è stata la sua prima identità è perita?
Perché da questo momento in poi quel che viene meno non è soltanto il suo vivere, il suo ruolo nel mondo ma anche la sua vera e propria identità. Per tutta la sua esistenza si è sempre crogiolato dietro il suo ruolo e adesso che lo ha perso, che quella figura imponente lo ha lasciato nudo, cosa resta di lui?
«Gli indizi portavano proprio alla strada con cui ti eri preso a sprangate all’inizio: il giullare shakespeariano non riusciva a guardarsi senza cerone. Paranoia, manie di persecuzione, violente crisi depressive, dissociazione dalla realtà. Alla fine un cocktail letale a base di psicofarmaci. Robert Wright aveva tanti personaggi. Tu uno solo: lui. Ora camminavi come un terremotato che ha perso tutto.»
Da questo momento osserviamo quella che è la sua deriva, la sua rovina. Impietosa, imprescindibile, implacabile. Ci interroghiamo, anche. Ci chiediamo spontaneamente a chi appartenga davvero quella meschinità. A Wright? O forse quella che emerge altro non è che la meschinità del vero volto di Serafini? E cosa accade quando la maschera cade? Sarà anche il connubio creato con Vanessa Sarchi a ridistribuire le colpe.
“La voce di Robert Wright” è un romanzo molto diverso rispetto ai precedenti lavori di Naspini, più maturo e più accurato ma è anche un libro che si conforma a quello che è il suo stile e il suo essere tanto che la sua prosa, anche questa volta, non sbaglia il tiro nemmeno di un millimetro. È di una precisione disarmante. Esattamente come la tematica dell’identità e dell’io che viene rievocata e che rimanda ai grandi della letteratura classica che abbiamo amato. Ed è grazie alla mancanza di voce, al silenzio protratto volontariamente, che Serafini sceglie di tornare a se stesso. Anche se questo può significare limitarsi ad osservare e per questo essere un fantasma quando, nel paradosso, è un io che cerca.
“La voce di Robert Wright” è prima di tutto un viaggio interiore, introspettivo e profondo. Un gioco di specchi governato da un maestro del narrare che confonde le acque e mescola le carte con semplicità. Il tutto sino a un epilogo che ricompone quel puzzle fatto di verità e perché.
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Norton Perina
Ci sono libri che naturalmente attirano e altri che per effetto respingono o non riescono proprio ad attrarci. “Il popolo degli altri” di Hanya Yanigihara è uno di questi titoli. Da un lato attrae, dall’altro respinge. Da un lato invita alla lettura, dall’altro crea come filtro tra chi legge e componimento. Scrittrice statunitense di origine hawaiane, editor e già nota al grande pubblico per il suo “Una vita come tante”, edito da Sellerio (2016), la Hanagihara è una di quelle autrici che giunge al suo lettore per il grande virtuosismo della sua penna.
Se “Una vita come tante” è una storia urbana che parte come un romanzo corale incentrato sulla vita di quattro ragazzi a New York e che poi svela storie tra loro molto diverse di famiglie e realtà, “Il popolo degli alberi” presenta una impostazione completamente diversa. L’arco temporale di riferimento è collocato in un periodo storico antecedente a una decina d’anni prima dell’oggi e si apre con un medico che si dirige in spedizione presso un’isola sperduta della Micronesia. Qui si dedica allo studio della tribù e scopre una malattia che renderebbe le persone al pari di immortali. Cosa succede a questo punto? Egli cerca di ricavare da ciò una cura per l’invecchiamento ma non ci riesce. Riceve comunque il premio Nobel per aver scoperto la malattia ma poi finisce con l’essere accusato di pedofilia da quei “figli”, circa una quarantina (43 nello specifico), che sull’isola aveva adottato. Da qui finisce in carcere. Da qui ha inizio e sviluppo un’opera che a tratti sembra quasi una autobiografia e in un certo senso potrebbe esserlo stante il fatto che l’autrice dedica l’opera al padre, ematologo e oncologo hawaiano ma ispirandosi alla figura di Daniel Carleton Ga jdusek, virologo, che vinse il Nobel 1976 per aver identificato il ceppo di una malattia mortale in una tribù della Papua Nuova Guinea per poi essere arrestato nel 1997 per abuso sessuale di bambini nativi che aveva adottato.
E Norton Perina che ha scoperto la sindrome di Selene, suo protagonista nel libro, e che ritarderebbe l’invecchiamento mantenendo per secoli la giovinezza, ne segue le stesse e identiche strade. Un finto memoir in cui il moto di partenza è dato dalla volontà di mantenere attiva e vivida la figura di un uomo che a prescindere dalle accuse false o vere a lui addotte, è comunque artefice di una scoperta che non può passare in secondo piano.
Da qui la maestria ulteriore della scrittrice che pone il lettore in un focus doppio e in uno specchio introspettivo in cui è costretto a interrogarsi e interrogare, mettere in dubbio e contestare, prendere atto e osservare, punti di vista tra loro anche contrastanti che ruotano attorno a una storia di successo, prevaricazione, arroganza occidentale, vanità intellettuale, disintegrazione ecologia, scienza e contraddizioni. O lo si ama o lo si odia ma in ogni caso, scuote e resta.
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The magician
Apparso per la prima volta nel 1908, “Il Mago” (“The magician”) di W. Somerset Maugham è stato ripubblicato da Adelphi nel luglio 2020. Da sempre Maugham ha abituato i suoi lettori a scritti intrisi di ironia, ambientazioni precise e meticolose e cinismo. Il tutto con una scrittura elegante e magnetica che accompagna pagina dopo pagina.
Ne “Il mago” Maugham prende come spunto di riferimento il personaggio realmente esistito di Aleister Crowley (classe 1875-1947), figura nota per essere esoterista nonché personaggio d’ispirazione per il mondo dell’occultismo, per essere vissuto in Egitto e per aver condotto uno stile di vita libertino ed eccentrico.
Ad aprire le danze della narrazione è proprio Oliver Haddo, il mago capace di comandare gli spiriti della natura e che non passa inosservato stante la sua prestanza fisica e il suo sorriso arcigno mixato a uno sguardo ferino e arrogante. Dedito alle peregrinazioni in Oriente, si focalizza sulle tecniche e pratiche occulte con cui sperimentare la creazione della vita.
A questa figura si affianca Arthur Burdon, giovane chirurgo che si stabilisce a Parigi dopo aver lasciato per motivi di studio l’Inghilterra insieme a Margaret, la promessa sposa orfana e di cui egli stesso è tutore. Insieme alla coppia vi è Susie, un’amica dell’ex istitutrice della ragazza. L’incontro tra Burdon e Haddo ha luogo per mezzo di una comune conoscenza, il dottor Porhoet, altro appassionato di alchimia. A subire però della carica ammaliante e seduttiva del mago sarà Margaret, fanciulla dedita al matrimonio e ricca di modestia e pudore, studentessa di bella presenza della scuola d’arte. L’iniziale antipatia e freddezza verrà infatti vinta da questa sensazione costante di attrazione. Vincerà il bene o il male avrà il sopravvento?
Al tutto si aggiunge una scrittura ricca ma diretta, mai prolissa e sempre essenziale, intrisa di similitudini e magnetismo proprio come di questo sono intrisi i personaggi che ne colorano le pagine. Si tratta di un racconto gotico il cui ritmo è serrato e rapido e che in altrettanto rapido modo si lascia divorare.
Forse non l’opera più caratteristica e significativa di Maugham ma certamente da leggere per contenuti e riflessioni ivi contenute.
«Da giovane non credevo in nulla, perché la scienza mi aveva insegnato a diffidare persino dell’evidenza dei miei cinque sensi” replicò, stringendosi nelle spalle. “Ma in Oriente ho visto molte cose impossibili da spiegare con i processi scientifici a noi noti. Mr. Haddo vi ha dato una definizione di magia, ma io ve ne darò un’altra. Può essere semplicemente descritta come l’impiego intelligente di forze sconosciute, che il volgo non comprende o non tiene in alcun conto. Un giovane che vada a vivere in Oriente al principio si fa gioco del concetto imperante di magia, ma qualcosa nell’aria prosciuga la linfa del suo scetticismo. Dopo qualche anno, arriva inconsapevolmente a condividere l’opinione di molti saggi, i quali ritengono che, in fondo, qualcosa di vero c’è.»
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Lavinia, Lucrezia e Margherita
«Ci sono momenti della vita in cui si cresce e si invecchia in poco tempo. Accade nel dolore, certo, accade anche nello smarrimento, nel fatto che prima il mondo ha la terra e il cielo e poi il mondo ha l’inferno, la terra e il cielo. […] La terra sembra non avere storia, se non quella geologica, ti illudi di essere in un mondo nuovo e invece l’inferno ti segue dappertutto, perché l’inferno ci appartiene, l’inferno è preistorico: quando lo vedi, e basta una volta sola, puoi anche riuscire a dimenticarlo per anni, per decenni, ma quando non te lo aspetti, quando pensi che il cielo e la terra possano essere tutto quello che desideri, l’inferno si riapre.»
Per Margherita B. la nuova occasione lavorativa presso la famiglia aristocratica degli Ordelaffi cade come un fulmine a ciel sereno. I fatti narrati risalgono al 2018 anno in cui la giovane sta attraversando un periodo particolare della sua vita, un periodo di scelte e cambiamenti. Per ricostruire quanto accaduto, inizia a scrivere il suo memoriale. Nonostante il suo trascorso come studente di medicina, percorso interrotto, prende servizio come istitutrice presso la famiglia. Il suo compito avrebbe dovuto consistere nel prendersi cura dell’istruzione e formazione delle due gemelle figlie del celebre architetto che vive con la famiglia nella villa progettata alle porte di Roma; la casa di vetro. Lucrezia e Lavinia, le due gemelle, sono estremamente particolari. È bene precisare che sin dalle prime battute e dalla loro conoscenza, non sembra di trovarsi negli anni duemila quanto al contrario nell’Ottocento. Non sembra nemmeno di trovarsi alle porte di Roma quanto al contrario sembra di essere in qualche desolata landa inglese. Qui un primo merito a Cotroneo che dimostra già in questo una grande capacità evocativa.
Ad ogni modo Margherita B. vede la casa e la famiglia quale emblema della perfezione. Ma siamo davvero sicuri che sia così? Che la casa di vetro e il bosco antistante non celino in realtà segreti misteriosi e oscure presenze? Cosa succede alla sua mente? Qual è il confine tra verità e menzogna?
«I morti non mordono, avevo letto in un romanzo tanti anni prima. Ma non ne ero più sicura. Il male resta e travolge ogni forma di innocenza.»
Le gemelle già per loro natura sono estremamente ambigue. Per tutta la narrazione viene spontaneo chiedersi quale sia il ruolo che ricoprono, se buono o se cattivo. Rappresentano certamente il tema del doppio, dell’identità, delle tinte più oscure dell’animo umano. È a “Loro” che viene dato ascolto. A loro e agli sguardi che si scambiano, a loro e ai silenzi che aleggiano in un continuo non detto che è più rumoroso di un detto. A loro e a quel bosco che cela Ecate, a loro e a quel giardiniere così surreale quanto inquietante. A loro e a quella stessa moglie dal passato intriso di fantasmi, a loro e a quel padre con forse una doppia vita, a loro e a quella direttrice che aiuta nella gestione dei conti e il cui ritorno dalle ferie potrebbe non essere così certo.
Ecco allora che “Loro” prende forma e si muove nel lettore, nei meandri della sua mente e della sua anima. E non mancano i riferimenti a spiritismi, a visioni e a credenze che si mescolano tra amore, gelosia, possesso. Il tutto in un omaggio a “Il giro di vite” di Henry James, il tutto sino a un epilogo che non poteva che essere che questo e che altro non poteva fare che distruggere ogni certezza.
Un romanzo godibile che regge per tutta la narrazione anche se subisce una battuta d’arresto nella parte centrale per poi ripartire a tutta velocità nella sezione conclusiva. Uno scritto degno di nota e da leggere.
«Quando scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te.» Nietzsche
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Gli dei caduti dall'Olimpo
Olympus, Texas. È qui che la famiglia Briscoe ha affondato le sue radici e visto crescere il suo tronco e i suoi frastagliati rami. Non è un caso però che si parli di Olimpo. È qui che il patriarca Peter ha avuto sei figli da tre donne diverse, è qui che tutta la famiglia è a suo modo eroe, vittima, traditrice e protagonista. Non è un caso che si faccia riferimento al fatto che «Gli dei ci invidiano. Ci invidiano perché siamo mortali, perché ogni momento può essere l'ultimo per noi. Ogni cosa è più bella per i condannati a morte.», non è un caso che Stacey Smann, giovane scrittrice ma anche insegnante di scrittura creativa negli USA, allegoricamente vi rimandi. E cos’è “Infelici gli dei” se non un romanzo-cosmogonia all’interno del quale viene narrata proprio una settimana di vita di questa così distrutta famiglia.
Una famiglia che vive in un luogo selvaggio, primordiale e dove a governare è il sole con i suoi raggi che bruciano la pelle. E d’altra parte la maestria della Swann risiede proprio nell’allegoria e cioè nel riuscire a celare e rimandare ad ogni protagonista il volto e le caratteristiche di una divinità. Alla base vi è l’infedeltà del capostipite che viene seguita e accompagnata dall’ira di June, la terza moglie; donna orgogliosa e ferita ma che ancora ama quell’uomo che ha accanto. Le radici di quella famiglia sono aride, deboli, dissestate, ormai. Il ritorno di March dal suo “esilio” rappresenterà il punto di non ritorno. Figlio di Peter e June, come sopra anticipato il padre ha avuto sei figli da tre donne diverse, questo si è macchiato della colpa più grave e imperdonabile di avere una relazione con la moglie di Hap, il fratello. In tutto questo a precipitare è anche il rapporto dei due gemelli Artie e Arlo, figli nati dalla relazione extraconiugale con Lee. A tornare a casa sarà anche Thea, la figlia minore di June e Peter che in passato si era allontanata da casa a causa di una relazione incestuosa che si ricollega alla terza relazione extraconiugale del padre.
Voci e personaggi che tra loro si fondano ma anche scontrano e che portano al susseguirsi di tutta una serie di vicissitudini inaspettate quanto drammatiche. Perché tra tutti gli eventi che si susseguiranno e che tratteranno il tradimento quanto la caccia ma anche la violenza e la violenza omicida, a tornare a galla saranno i tanti non detti che si celano dietro il volto di questa famiglia. Un non detto che ha scaturito profondi risentimenti ma che ha portato anche alla manifestazione di tanti demoni quali la lussuria di Peter, l’ira di June, l’orgoglio di Thea, la violenza di March, la gelosia di Arlo, la superbia di Vera, l’invidia di Hap. È la mancanza di un cuore, “arto fantasma”, a mancare a questo nucleo.
Il risultato è quello di uno scritto che mixa epica e realtà contemporanea riuscendo a trattare temi di grande attualità e a solleticare la curiosità dei lettori. Ciò sino alla conclusione inevitabile del romanzo, la catarsi finale. Quella stessa catarsi teorizzata da Aristotele, quella stessa catarsi che altro non può essere che la rottura che porta al nuovo equilibrio e da qui alla metamorfosi.
“Infelici gli dei” è un romanzo stratificato che nulla risparmia e che si lascia apprezzare tanto dagli amanti del genere quanto dai non amanti.
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Eternità
«Il tempo è per noi un problema, un inquietante ed esigente problema, forse il più vitale della metafisica; l’eternità, un gioco o una faticosa speranza.»
Eternità. Tempo infinito, tempo indeterminato. Tempo senza confini, illimitato. Tempo che scorre senza sosta e senza freni. Ed ecco allora che nasce “Storia dell’eternità”, opera di Jorge Luis Borges che prende forma nel 1936 all’interno della biblioteca di un quartiere di Buenos Aires mentre una domanda prende corposità e campo in lui: può l’eternità avere una storia?
Saggio già dal suo titolo fascinoso è definito dall’autore quale “un libro interessante per gli argomenti trattati più che per quanto io dica a proposito di essi” e che appunto sorprende perché nessuno si aspetta che l’eternità abbia una storia. Tuttavia, per chi conosce l’argentino, in realtà la sorpresa non è così sorpresa perché è consapevole, il lettore in questione, che all’interno di queste pagine egli affronta un qualcosa di paradossale e ossimorico esattamente come da sua consuetudine. E già all’interno del primo saggio questo traspare in quanto proprio nel concetto di eternità vengono reintrodotti anche Platone e Plotino.
Da qui questa raccolta di saggi, più due note, riproposti ed editati da Adelphi e in cui a far da padrone è proprio l’interrogarsi su questo concetto così effimero ma che eppure rappresenta da sempre un dubbio amletico per l’esistenza umana. Lo stesso medesimo applicato all’idea di immortalità, di un vivere senza sosta e in un tempo senza fine, dilatato nei suoi tempi e spazi.
È noto che affrontare Borges non sia semplice in particolare perché suscita nel lettore emozioni discordanti che vanno dallo scetticismo al provocatorio sino al borgesiano, all’illuminante. Borges gioca con il lettore, lo solletica, incuriosisce e lo invita a riflettere e a interrogarsi. Sulle sensazioni, sulle emozioni, sul dolore, sui sentimenti, sulle impressioni. Sono queste effimere, momentanee o sono il frutto di specchi che ne moltiplicano l’essenza? Dove e quando trovano fondamento questi archetipi? E oggi si parla ancora di eternità?
L’argentino ci prende per mano e in questo mare ci conduce e trattiene per mezzo di un testo che invita al cercare risposte alle tante domande.
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Terzo conflitto mondiale e crisi planetaria
«L’ho visto con i miei occhi. […] Il bambino dimagrisce, ma all’inizio non sembra una cosa grave. Poi si ammala. Magari è un’infezione di quelle che prendono tutti i bambini, con le macchie sulla pelle, il naso che cola o la diarrea, però il piccolo denutrito ci mette di più a riprendersi e si ammala di nuovo. È sempre stanco e piange in continuazione, smette di giocare, se ne sta sdraiato e tossisce. Poi un giorno chiude gli occhi e non li riapre più. E certe volte la madre è troppo stanca per piangere.»
Quando ci avviciniamo a un romanzo di Ken Follett, che sia esso politico, storico, thrilleristico o del genere narrativo, siamo sempre consapevoli di trovarci innanzi a un qualcosa di difficilmente banale e ancor meno scontato. Con Follett abbiamo riattraversato gli anni del Novecento, abbiamo assaporato nel dettaglio i due Grandi conflitti, abbiamo rivisto le conseguenze della Guerra Fredda, siamo giunti a Barack Obama e ai cambiamenti che già la sua nomina ha comportato, ma siamo tornati anche negli anni medievali con un’altra trilogia altrettanto importante e bella quale quella che ha avuto inizio con “I pilastri della terra”. Follett, ancora, ci ha accompagnato in un viaggio altrettanto avventuristico e immaginifico con una serie di scritti più o meno recenti anche proprio intrisi di una caratteristica poliziesca e ha sempre e immancabilmente costruito personaggi solidi capaci di farsi amare quanto odiare.
Giunge adesso in libreria con “Per niente al mondo”, opera dal titolo originale “Never” che in Italia è stata edita da Mondadori e che ha visto la pubblicazione planetaria in contemporanea il 9 novembre. Così negli Stati Uniti come nel resto del pianeta. Follett tra queste pagine ci ricorda quanto il Primo conflitto mondiale sia stato terrificante, per la sua portata ma anche per la sua nascita così inaspettata quanto prevedibile, quanto ancora studiata, quanto ancora anticipata da segnali ritenuti inoffensivi, quasi sciocchi. Ma cosa accadrebbe, si chiede e ci chiede questo, laddove si manifestasse una Terza guerra mondiale? Non una Guerra Fredda tra equilibri precari ma solidi nel loro essere glaciali, una guerra, al contrario, dettata da interessi diversi e frutto di chissà quali paesi e quali interessi sottesi. E in uno scenario ove il mondo è sul baratro della sua fine, dove una guerra devastante è il risultato possibile di un attentato terroristico in una località africana dimenticata da Dio, come muoversi? Come sopravvivere?
Ancora una volta, esattamente come nelle trilogie più famose quali la trilogia del Novecento, le vicende si sviluppano per il tramite di più voci e più precisamente di quattro personaggi che alternano la loro narrazione e che per mezzo del loro narrare portano a ricostruire il puzzle delineato dal romanziere.
Le vicende si aprono proprio alla Casa Bianca ove è stata eletta la prima Presidente donna, Pauline Green, repubblicana. Costei è colei che dovrà prendere le decisioni più complesse anche nel caso e nell’ipotesi di una guerra nucleare. Perché soltanto lei ha il potere di attivare il meccanismo. Nel frattempo, nel Sahara, due agenti segreti d’élite si trovano a dover rintracciare un gruppo di terroristi dediti al contrabbando di droga. Ma cosa succede quando il lavoro si mescola con l’amore e il sentimento può mettere a rischio anche le rispettive carriere? E cosa succede, ancora, se un dittatore golpista africano di nome Kim Jong Un, detto il generale, prende possesso del Ciad e nel suo utopico illusionistico scenario pensa di essere al pari delle grandi potenze mondiali? Altresì, in Cina, assistiamo alla diatriba tra un funzionario del governo molto ambizioso, per se stesso ma anche per il paese in cui vive, e i residui di un governo comunista mixati all’ipotesi di una guerra che potrebbe coinvolgere anche la Corea del Nord. Inequivocabile la parafrasi fra Kang U-Jung, presidente in carica della Corea del Nord, con il noto Kim Jong Un.
A far da cornice e sottofondo, una serie di reti e legami che intrappolano il mondo in una complessa rete di alleanze fatta di pesi e contrappesi in cui a far da padrone è la complessità dei rapporti politici. Il risultato è quello di un thriller in chiave geo-politica in cui viene fatta una perfetta fotografia della società contemporanea. Il tutto tra una serie di colpi di scena che nulla risparmiano al lettore che se da un lato è incuriosito dalle vicende che trattano i personaggi dall’altro è chiamato alla riflessione per quello che tra queste pagine è racchiuso a livello di attualità.
L’autore sembra ricordarci quanto sia impensabile talvolta lo scoppio di una guerra, quanto questo possa derivare anche da piccole inezie, da piccoli passi falsi apparentemente innocui. Follett, ancora, ci ricorda quanto questa si ripeta, quanto questi avvenimenti banali che viviamo anche nel nostro quotidiano che diventa storia, poi banali non siano.
Non mancano le ambientazioni geografiche, non mancano le caratterizzazioni dei personaggi, non mancano quegli aspetti più propriamente propri dello scritto follettiano in tutte le sue forme e modus operandi. Lo stesso vale anche per la tecnica narrativa abbracciata dal narratore e ormai diventata metodo di studio per tanti autori contemporanei e aspiranti tali.
Ecco allora che Follett ancora una volta stupisce, spiazza e scuote. Nel bene e nel male. Abbracciando una diversa forma di romanzo, storico ma anche contemporaneo, raccontando con molta semplicità una crisi globale che minaccia di sfociare in una Terza guerra mondiale e i cui segnali potrebbero già essere stati disseminati.
«Appoggiò le braccia sul tavolo e chinò la testa. Pensò ai morti e a quelli che stavano morendo alle Hawaii, a coloro che presto sarebbero morti in Cina e subito dopo nelle grandi città degli Stati Uniti. Strinse forte gli occhi, ma continuava a vedere quelle immagini. Ogni compostezza l’abbandonò, come il sangue in un’arteria recisa. Fu assalita da un dolore così travolgente e disperato che cominciò a tremare. Le parve che il cuore stesse per scoppiarle e pensò che poi sarebbe morta. E poi, finalmente, cedette alle lacrime.»
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Gruppi di lettura
Ci sono momenti del nostro vivere caratterizzati da un comune denominatore comune: la lettura. E cosa c’è di meglio se questa è accompagnata da brownies al cioccolato, torte di mele, caffè, cioccolate calde e tanti amici con cui condividere le proprie impressioni su un titolo? Estelle ha un locale ed è a causa di piccole difficoltà economiche che decide di coniugarlo all’uso del suo personalissimo gruppo di lettura. Da qui gli iscritti: Gracie, giovane bibliotecaria e super femminista, Rebecca, insegnante trentenne sposata ma non soddisfatta dal proprio matrimonio dal punto di vista sessuale, Sue, neopensionata che cerca di vivere il troppo tempo che si trova a disposizione e Reggie unico uomo del gruppo e presente agli incontri per lavorare alla propria tesi. Un numero un po’ esiguo di partecipanti che certo non riesce a risollevare immediatamente le finanze di Estelle ma che certo porta alla nascita di una serie di lettori eterogenei chiamati a cimentarsi con la letteratura erotica.
Da qui, presso il Cafè Crumb, hanno inizio rocambolesche avventure che vedono protagonisti i nostri eroi in un connubio di gag e situazioni diversificate. Si tratta di una lettura molto leggera, piena di cliché, dal finale scontato ed eloquente sin dalle prime pagine, che scade nella letteratura rosa con tendenze erotiche e che porta il lettore a reazioni diverse. Francamente ho avuto occasione di leggerlo in quanto sono state le mie libraie a proporlo quale testo per iniziare le letture del loro personalissimo nuovo gruppo di lettura. Una iniziativa che cercavano di realizzare da anni e che è stata ritardata anche a causa della pandemia.
Leggere o non leggere questo titolo? La scelta è certamente soggettiva, dipende da tanti fattori, tra cui anche il cosa si sta cercando. Se siamo alla ricerca di una lettura leggera potrebbe rivelarsi adatta, se al contrario non si è affini con il genere e/o si prediligono titoli meno scontati e più di sostanza, è da sconsigliarsi.
Semplicemente, per chi volesse leggerlo, è necessaria una contestualizzazione: il titolo ha l’obiettivo, a prescindere dalle situazioni narrate, di ricordare che la lettura unisce e crea ponti di comunione tra lettori ma porta anche i non lettori a trovare e scoprire in questa la magia delle parole. Una sincera riscoperta cioè anche per chi è meno avvezzo alla lettura.
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Ricerca e serenità ma anche equilibrio
«Passando sfiorò una mano a Fausto, e Santorso avrebbe preferito non notarlo. Non gli piacevano i fatti degli umani. Preferiva i fatti dei lupi, delle volpi, dei galli di montagna.»
Il suo nome è Fausto e da poco il suo rapporto amoroso con la compagna di una vita è venuto a sgretolarsi. È alla ricerca di lucidità e di serenità quando decide di tornare alla natia Fontana Fredda, luogo che conosce sin da bambino. Un legame che si sgretola nel silenzio, forse perché semplicemente aveva raggiunto il suo naturale estinguersi.
«Ci pensi mai agli altri, mentre fai la tua decrescita felice?»
È qui che Fausto si dedica alla cucina presso il locale di Babette, luogo dove egli incontra anche Silvia. Colei che ha finito di studiare, che ha un passato come libraia, colei che sta sperimentando la vita mentre tra quei tavoli serve. La stessa Babette è fuggita da Milano seppur molto tempo prima, la stessa Babette è alla continua e ancora costante ricerca di quel calore.
E poi c’è lui, Santorso. Lui che ci vede lungo anche se beve troppo. Colui che mai avrebbe pensato di potersi affezionare a quel forestiero schivo e dai modi spicci.
È in questo contesto che Fausto inizia piano piano a ritrovare il piacere per le piccole cose, che assapora il tepore di un corpo al suo fianco, un corpo con cui impara a fare l’amore a “modo nostro” ogni volta, che impara ad assaporare il piacere per la cura degli altri. È tra questi boschi che ritrova la sua serenità. Nella natura, tra il profumo dei tronchi, tra gli aromi del tempo che passa e le vette che osservano, tra il desiderio di tornare a respirare e a osservare proprio da quelle vette e da quelle altezze.
«Di cosa sapeva gennaio? Fumo di stufa. Prati secchi e gelati in attesa della neve. Il corpo nudo di una ragazza dopo una lunga solitudine. Sapeva di miracolo.»
Ed ecco allora che prende forma e avvolge “La felicità del lupo”, scritto nato in tempo di Pandemia proprio quando allo scrittore che tra queste pagine si respira nella sua essenza, quella montagna viene impedita, vietata, ostruita. È un libro dove i corpi faticano ma tornano anche a riaffiorare, è un libro dove vi è emozione e similitudine con il luogo in cui si vive e con la ricerca che si pone in essere. È una ricerca costante di noi stessi in un contesto dove non serve il superfluo per ritrovarci. Anche per questo “La felicità del lupo” è uno scritto che trasmette serenità. In questa voglia costante di camminare e muoversi, di cercarsi e cercarci, di appellarci a ogni singolo nostro appiglio anche se l’appiglio umano non serve o non c’è.
«Il motivo è che sto bene dove sto. Il mare è verde e c’è un cormorano nero che ha scelto come casa lo scoglio qui sotto, è da stamattina che lo osservo. Provo quel senso di respiro che ti può dare un paesaggio nuovo, e che da tanto tempo non provavo.»
Amore per le montagne, desiderio di cambiare vita, desiderio di ricominciare e di trovare una propria serenità. Sono questi gli elementi che compongono l’ultimo scritto di Paolo Cognetti, opera dal grande contenuto autobiografico, dove si respira interamente Cognetti in ogni personaggio e luogo, scritto nato ancora in un periodo storico altrettanto particolare; eppure, intriso di profonda serenità. Breve ma lascia il segno.
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Disegniamo il nostro calamaro gigante
Non è altro che un bambino con dieci nonni, un bambino chiamato a disegnare il suo animale preferito e che non resiste alla tentazione di disegnare quel calamaro che tanto ama e tanto lo incuriosisce. Con i suoi tentacoli, con il suo poter esplorare le profondità marine. Un animale spesso considerato come inesistente e/o protagonista delle fantasie e dei racconti dei marinai che dopo lunghi viaggi facevano ritorno a casa. Eppure, eppure, eppure, quel calamaro con le sue grandi e abnormi dimensioni sembra esistere davvero. E i protagonisti di questa storia a firma Fabio Genovesi lo sanno bene.
«Perché mica lo sanno, che del mare non sappiamo nulla. Che dietro il tendone ci sono le tigri, le scimmie, i mangiatori di spade, gli sputafuoco, le donne con la barba e i lanciatori di coltelli. E i calamari giganti.»
Ed è davanti a questo che apprendiamo la consapevolezza più vera: del mare non sappiamo nulla. Conosciamo soltanto la sua buccia, il suo strato più esterno. Per il resto ci affidiamo al sentito dire, alle storie che vengono tramandate. E lo stesso vale per quel ragazzino che quelle storie ascolta e fa proprie tra giorni di derisione e rivincita perché tra quei banchi di scuola ha avuto il coraggio di disegnare il calamaro gigante e cioè il suo animale preferito.
«Si spandono nell’aria, ti entrano dalle orecchie e dagli occhi, se ne fregano del cervello che crede sempre di sapere tutto, colano giù fino al cuore e addio.»
Non dobbiamo quindi temere di spingerci oltre, di guardare al cosmo e alle sue bellezze, all’infinito e alla sua indeterminatezza, allo stupore che solo i sogni e le storie sanno suscitarci perché questo e questo ancora è il nostro vivere, la nostra linfa. Ed è ancora questo il filone attorno al quale ruota questo ultimo lavoro di Fabio Genovesi, uno scritto che spazia portandoci sempre più “al largo” in una narrazione senza confini.
«[...] la risposta a chi ha dubbi sul proprio amore per qualcuno. È chiara e semplice, e in realtà è una domanda: Hai ancora voglia di raccontargli storie? Storie su quel che fai, che pensi, che hai visto o sentito. È così che capisci se siete ancora innamorati. [...] L'amore è un bisogno urgente di raccontare, di ascoltare, di condividere e mescolare tutto quello che vivete, che avete fatto dal primo giorno di asilo fino a oggi, ogni cosa ha senso solo adesso che siete insieme e potete raccontarvela.»
Perché Genovesi ci ricorda e ricorda ancora quanto sia importante narrare, raccontare, osservare e far proprie le storie che ci circondano per fare nostri quegli insegnamenti e guardare davvero al mondo circostante.
Un libro che per i suoi connotati o si ama o si odia, uno scritto che spazia prima di tutto nella fantasia e che dunque è adatto a chi ama in primo luogo la scrittura del narratore ma anche quell’immaginazione che la fa da padrona.
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Anni '20
Anni ’20. Anni di superficialità, anni di “perdizioni” e di “ritrovamenti”, anni di una società benestante cieca e di una storia d’amore che chiede di essere vissuta. Isabelle, protagonista indiscussa, giunge in Francia a seguito della morte del marito Roy. Cerca un nuovo inizio, cerca una ripartenza che le consenta di tornare a vivere dopo la perdita. Isabelle è anche una donna benestante e come molti vive nelle ricchezze e nello sfarzo. Questo è senza dubbio il secondo aspetto che caratterizza l’opera della West che sullo sfondo, ma in realtà molto più in primo piano di quanto si pensi, mette in luce proprio questi sfarzi e queste opulenze del primo ventennio del Novecento.
La nostra eroina è anche una donna di grande eleganza e bellezza, una donna che stringe un’amicizia intima con André e che non è parca di conoscenze e amicizie nel ramo. Isabelle è figlia di quegli anni tanto che nel tentativo di liberarsi di una relazione amorosa che le sembra invadente e pressante, finisce con lo sposare quasi per capriccio un altro uomo: Marc Sallafranque, un industriale di origine ebrea dai lauti patrimoni ma non altrettanto bello e attraente.
Da qui ha inizio la storia della coppia che si sposta nel Sud della Francia dove vive tra le tentazioni di lui un tempo dedito al gioco d’azzardo e un susseguirsi di vicende che portano la moglie a rivivere le ragioni di quella scelta alla fine solo apparentemente avventata. Il lettore è condotto tra le maglie di questo scoprire, è coinvolto in questo aspetto di conoscenza e introspezione che lo accompagna pagina dopo pagina.
La lettura, tuttavia, nonostante gli intenti, in alcuni punti fatica a decollare, a conquistare e a lasciar coinvolgere nella sua interezza. Interessante l’aspetto relativo al focus sulla società, piacevole l’introspezione relativa ai personaggi principali e alla loro costante ricerca della felicità. Non è solo una storia d’amore in quanto sono proprio i protagonisti che portano chi legge a riflettere sulle futilità che talvolta fanno parte del nostro vivere. Da qui varie e molteplici considerazioni sulle superficialità e su quella che era la società degli anni ’20. Aspetto questo, sicuramente di maggior pregio e valore dell’intero scritto.
“Naturalmente ho scelto Marc perché è la persona che mi sta più vicina. Ho dato sfogo senza freni al mio istinto perché essendo ricca non ho mai saputo controllarmi. E l’ho offeso terribilmente, dando credito agli estranei, minando lo scopo stesso del matrimonio e tradendo la fiducia su cui esso dovrebbe fondarsi.”
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Vite
Con “Le nostre vite” Francesco Carofiglio dona ai suoi lettori un titolo che ha le capacità di far riflettere sulla vita e su tutti quegli aspetti che veicolano e moderano questa con quei ricordi e quei fatti che ne hanno regolato lo scorrere.
E sono proprio due le vite narrate. Due vite parallele ma anche capaci di andare contro a quella improcrastinabile regola matematica che prevede il loro non incontrarsi mai. C’è Anna, detta Nina, con la sua vita di giovane sedicenne e che si trova in vacanza a Martina Franca con la madre. È qui che incontra Lupo, un ragazzo che la corteggerà e che nel suo riuscire ad attrarla riuscirà anche a strapparle “il fiore proibito”. Ma che fare se una volta tornati alla realtà la consapevolezza di una gravidanza sopraggiunge? Cosa fare con quei rimpianti dettati da una scelta e aggravati da tante lettere scritte e a cui mai è seguita risposta?
Segue poi la vita di Stefano Sartor che non ha memoria del suo passato più remoto. Un incidente ne ha dettato questi vuoti e queste lacune che anche a distanza di anni non possono essere colmati. Adesso è docente di filosofia ma ha fatto propria anche la penna con libri scritti che lo hanno accompagnato in quelle oscurità. Al contempo ama quella Puglia dove il nonno Zeno è ad attenderlo.
Passano gli anni e casualmente a Firenze si incontrano Stefano e la ormai fotografa Anna. Ed è qui che entra in gioco un’amicizia che poi si trasforma in un sentimento diverso, più forte e intenso. Un sentimento che li riporterà a vivere quegli anni del passato e anche quella estate dove Lupo affascinò la protagonista. Tanti i fattori che subentrano e che portano Anna a dover fronteggiare una perdita e Stefano a convivere con una perdita già sopraggiunta e un legame atavico con la Puglia delle origini.
Ed è su questo gioco di rimpianti, rimorsi, ricordi e memoria che si snoda “Le nostre vite” di Francesco Carofiglio. Uno scritto che ci catapulta in un caleidoscopio di emozioni e che ci porta a riflettere sul nostro personale percorso di vivere. Perché talvolta le ferite del nostro passato ci impediscono di vivere il nostro presente. Perché talvolta i vuoti e i buchi del nostro passato possono tradursi in un senso di incompletezza, in una sensazione di qualcosa che sfugge per un tempo che è stato e che forse non sarà più.
Il tutto è avvalorato da uno stile evocativo, pungente, vivido. Le immagini sono dipinte nella mente, i personaggi conquistano e coinvolgono, le parole scorrono e con essere scorre la letteratura anche classica. Un libro da leggere e da gustare.
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Una vendeta petulante
«[…] A meno che un cattivo pensiero nasca dall’errore, la natura umana ha orrore del crimine. Però la civiltà ci ha dato dei bisogni, dei vizi, dei falsi appetiti che a volte ci portano a soffocare i nostri buoni istinti, conducendoci al male. Da qui discende la massima: se vuoi scoprire il colpevole, comincia cercando di capire a chi poteva tornare utile il crimine. A chi poteva tornare utile la tua sparizione?»
Edmondo Dantès è un giovane sicuro, ingenuo e dal futuro roseo e promettente quando l’opera ha inizio. È pronto a sposare la sua amata Mercédès, è pronto alla sua scalata sociale, il giovane. Eppure qualcosa non va come da lui presupposto ed ecco che Edmondo da uomo libero si ritrova accusato di un crimine che lo conduce a una prigionia che durerà anni e che lo vedrà perdere tutto quello che ha, compresa ogni possibilità di fato. Sarà tra queste mura all’interno della prigione sull’isola di Montecristo che l’uomo conoscerà l’abate Faria che gli lascerà in dote il suo segreto. E riuscirà a fuggire, Dantès. Riuscirà a tornare in libertà l’uomo, riuscirà a ricominciare. Avrà inizio da questo momento la sua vendetta. Una vendetta fatta di una vita privata e portata via, una vita il cui corso e il cui proseguire è stato interrotto e fermato da un tiro losco del destino, un tiro giocato dall’invidia umana e dalla gelosia dell’altro.
«La felicità e l’infelicità sono un segreto domestico. Le mura di casa hanno orecchie, ma non hanno lingua. Se una fortuna immensa basta a essere felici, Danglars lo è di certo.»
Ha inizio da qui la parte prevalente dell’opera, uno scritto che da questo momento in poi si concentra tanto sulla vendetta e su quelli che sono i piani per riprendersi quel che è stato tolto. Se quindi la prima parte dell’opera fatica a decollare ma incuriosisce perché il lettore è spinto a sapere e a conoscere, nella seconda quando inizia la progettualità vendicativa, il conoscitore inizia ad essere sfiancato e a restare basito da quelle scelte che vengono compiute e che sono portate in essere.
Il risultato è che la lettura si fa farraginosa, lenta e a tratti petulante. Con uno stile rapido ma che collide con quello che è il componimento nel suo complesso. Resta un’opera che merita di essere letta e che merita di far parte del bagaglio culturale di ogni lettore ma onestamente o si ama o si odia. Non penso esistano molte mezze misure proprio per la sua struttura, per l’età che inizia a risentire, per questi personaggi tratteggiati ma eppure caricaturali o fatiscenti che faticano ad entrare in sintonia ed empatia con chi legge.
Da leggere per completezza.
«Dantès, gettato nel mondo dopo una solitudine infinita, a volte avvertiva un bisogno imperioso di stare da solo. E quale solitudine è più immensa e poetica di quella di una nave che solca il mare deserto, nella notte più nera, nel silenzio dell’immensità, sotto lo sguardo del Signore?»
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Legami
Ancora una volta Napoli è padrona e prima attrice di questo romanzo a firma Maurizio De Giovanni, opera che vede quale protagonista delle avventure Mina Settembre, personaggio nato dalla sua penna che riporta il lettore ad affrontare temi di maggiore aspetto sociale e introspettivo.
Ed è quello che proprio accade tra queste pagine che sin dalle prime battute ci mostrano una realtà che può far storcere il naso essendo questa tutto tranne che rosea o fiorita. Emerge da queste una profonda povertà, non solo economica ma anche d’animo, un profondo senso di disillusione e anche amarezza per quella società circostante che tutto sembra tranne che pronta ad accogliere per il futuro.
E Marco, tra questi, ne è il rappresentante più forte. A cosa serve lavorare e studiare, impegnarsi e lottare per un domani migliore, se anche dopo che hai fatto mille sforzi e hai preso quel foglio di carta tanto desiderato da tua madre, finisci con il fare un lavoro come un altro pur di portare a casa quello stipendio necessario alla tua più cara prossima parente Ester? Costretta, quest’ultima, a casa a causa di un trauma invalidante che non le consente nemmeno di dedicarsi alle attività minime e ancor meno di uscire. Vivendo all’ultimo piano e senza ascensore, come potrebbe d’altra parte, uscire? E allora eccolo il suo canto da quel terrazzino dal quale innalza la sua voce verso il cielo. Come una sirena, come la sirena.
Ci si può accontentare di sopravvivere? E se davvero la strada della criminalità, del guadagno facile, fosse quella giusta? Sembra chiedersi anche questo, il giovane.
Ed è da questi brevi assunti che ha inizio l’ultimo romanzo dell’autore, uno scritto che non brilla forse particolarmente per sviluppo e trama quanto per contenuto empatico. La linea narrativa proposta è infatti quella più consona e nota del narratore, la trama si delinea in modo logico e consequenziale, l’epilogo si raggiunge con facilità dopo esser passati anche per una serie di situazioni piacevoli che vedono quali eroi principali i protagonisti che già abbiamo conosciuto tra cui l’affascinante ginecologo. A far la differenza è questo aspetto sociologico che guida tutta la narrazione e che salva un romanzo che altrimenti avrebbe rischiato di finire con l’essere un po’ troppo sullo stesso filo dei precedenti tanto da perdere di intensità e coinvolgimento.
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L'estate dentro
«Se riuscisse ancora a cantare, canterebbe una canzone che dice che il tempo è più di una cosa, il tempo è vetro e sabbia, il tempo è fragile e fluido, il tempo è delicato e duro, il tempo è tagliente e smussato, il tempo è ora e antichissimo, il tempo è prima e dopo, il tempo è liscio e ruvido, e se cerchi di non essere troppo attaccato al tempo, il tempo ti ride in faccia e ti stacca la pelle.»
Con “Estate” Ali Smith porta a conclusione il suo quartetto dedicato alle stagioni. Correva l’anno 2016 quando “Autunno” fece il suo ingresso per la prima volta in libreria. E come sempre l’autrice torna a parlare di temi forti e attuali, a lei cari come a noi. Questa volta l’opera non può non risentire degli sconvolgimenti che hanno toccato la Gran Bretagna e, più precisamente, la Brexit ma anche l’epidemia Covid-19 che ha colpito tutti noi. Non mancano, ancora, tematiche care alla scrittrice quali l’immigrazione e i centri di detenzione per immigrati.
E come può svilupparsi questa estate se non con quel tepore che può essere suscitato anche semplicemente da un abbraccio da una persona cara o dall’arrivo dei rondoni? È una stagione che si colloca nei cuori e nonostante la brevità non può che essere definita e delineata quale immortale.
Ed è proprio in questo contesto che a far da sfondo non manca l’epidemia di Covid-19 che però non fa venir meno le vicende che si susseguono e che vedono molteplici protagonisti susseguirsi. In particolare in una famiglia dove i legami e gli affetti sono scanditi dal tempo che passa e da fatti del passato che si susseguono. Non sembra nemmeno di essere in un romanzo tanto sono vivide e susseguenti e sceneggiate le scene, appunto, che si scandiscono.
Conosciamo così Grace, Sacha e Robert. Rincontriamo Daniel ed Elisabeth, i vicini nella stagione autunnale, in un alternarsi per Daniel ora ultracentenario tra presente e passato. E si allacciano queste storie tra loro, questi protagonisti dello ieri e dell’oggi. Si fondono tra loro, mescolandosi e creando una nuova materia viva e pulsante.
Tanti ancora i personaggi citati, da Charli Chaplin passando per Rainer Maria Rilke, Greta Thunberg e giungendo a Albert Einstein. Presenti ancora riflessioni sul tempo della nostra attualità, presenti ancora riflessioni sul governo britannico e su quelle nuove abitudini che sono entrate a far parte.
Un titolo complesso, stratificato che ben conclude un’opera che conquista e coinvolge, che fa riflettere e non si dimentica in un caleidoscopio di colori ed emozioni.
«A Sacha si è riempito il petto di quel calore che le era capitato di sentire una volta, quando era molto piccola; all’epoca aveva chiesto a sua madre come mai questa sensazione fosse così bella e sua madre le aveva risposto: è perché hai l’estate dentro.»
VIvere e sopravvivere
Secondo titolo di Samuel Beconcini è “The Life is gone”. Siamo in un mondo non troppo lontano da quello in cui abitiamo ma lo scenario che si apre innanzi ai nostri occhi è quello di una dimensione completamente distrutta e dove non vi è spazio che per i banditi. Guerre nucleari, distruzioni generalizzate, morte, fame e povertà sono ormai all’ordine del giorno.
Sin dalle prime pagine conosciamo quelli che sono i due protagonisti principali: Mike, che si è risvegliato da un sonno profondo, da un coma in cui è versato per ben dieci anni senza alcunché ricordare se non brevi frammenti che tornano a far capolino man mano che la narrazione va avanti, e Demtra, una misteriosa ragazza che lo trova al suo risveglio all’interno dell’ospedale. Inconfondibile per i suoi tratti, per quell’arco con frecce e per il cappuccio che immancabilmente veste sopra alla propria testa, lei è l’emblema della moralità e della giustizia in una realtà dove vige solo la legge del più forte e della violenza. A far da cornice ai due principali personaggi vi sono una miriade di altri volti che vengono creati dalla fantasia dello scrittore e mixati con una serie di cattivi con i quali si scontrano in rocambolesche avventure.
Pagina dopo pagina l’opera è intrisa di colpi di scena, non mancano le carte in tavola mescolate e lo stesso epilogo lascia aperta alla possibilità di un nuovo episodio della saga. In particolare, a seguito di quelle che saranno le sorti di Dimitri, il cattivo per eccellenza.
“The life is gone” è un libro che ho avuto occasione di leggere la scorsa estate per tramite della biblioteca della mia città che me lo ha proposto. È uno scritto che non deluderà gli appassionati del genere e tutti coloro che cercano avventura e amano gli scenari apocalittici e distopici. È un volume che certamente risente dell’essere ancora un po’ acerbo dello scrittore, con questo alla sua seconda esperienza letteraria. Ma è anche un titolo che dimostra un buon potenziale di partenza e che potrà essere migliorato e implementato con studio, impegno e volontà di crescere e migliorare. Attenzione ai refusi perché non mancano. Nel complesso una piacevole scoperta.
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Donne e storie
«Forse si potrebbe accusare di essere più spettatrice he protagonista degli avvenimenti. Nel qual caso, mi difenderei rispondendo che i reali protagonisti nella vita sono in verità molto pochi, e che la capacità di osservare – neppure quella di analizzare –, oggi è molto diminuita poiché tutti vogliono essere al centro. Io non sono la protagonista di queste pagine, sempre ammesso che ne esista una. Ci sono solo donne, tanti tipi diversi di donne. Eppure così simili, tutte; abbiamo molto in comune. Potremmo dire che sono qui per raccontare una, due, o tre storie, non importa quante. In fondo, tutte noi abbiamo più o meno – la stessa storia da raccontare.»
Primo libro a firma Marcela Serrano è “Noi che ci vogliamo così bene”, scritto che ci racconta della storia di quattro donne: Ana, Isabel, Sara e Maria. La Serrano ci propone le voci di queste anime con la loro pura e semplice genuinità e con tutti quelli che sono i vari contrasti che loro appartengono.
Il loro incontro è avvenuto ben un decennio prima al narrato attuale. Tornano adesso a incontrarsi, ciascuna con il proprio bagaglio e con il proprio percorso di vita che in quei dieci anni ha risentito di tanti fattori, esterni e interni. Se Ana ha una vita più cupa, monotona, grigia, e attende con timore misto a paura l’arrivo delle amiche, Sara è cresciuta in un ambiente maschile capitanato dal nonno ma con il profondo amore della nonna. Isabel, al contrario, cresce con quella smania esasperante di voler diventare grande e dimostrare la sua posizione a quella stessa madre. Infine, Maria. Ella è la più giovane e al contempo la più avvezza all’amore e alla combattività ma anche alla frivolezza.
Il tutto è accompagnato dalla penna di un’autrice che abbiamo imparato a conoscere negli anni e che ha rappresentato in questi il volto di una società in continuo cambiamento. È un elaborato che risente dell’esser ancora acerba della scrittrice e questo fa in parte perdere di empatia ed entusiasmo nella lettura che a tratti fatica a proseguire e/o andare avanti.
Resta una piacevole testo ma non riesce a coinvolgere completamente per caratteristiche, contenuto e caratterizzazione delle protagoniste.
Indicazioni utili
- sì
- no
Fantasmi e vecchie conoscenze
«All’improvviso ti trovi davanti al bivio più difficile da affrontare, oppure davanti a scuola ti bollano con un marchio indelebile. La vita non avverte, picchia senza preavviso.»
Con “Vecchie conoscenze” torna in libreria Antonio Manzini e lo fa con un nuovo capitolo dedicato alle avventure del suo più fortunato protagonista, Rocco Schiavone. Tuttavia tra queste pagine ben diverse sono le ambientazioni che fanno da teatro alle vicende. Altrettanto ben diverso è il clima che si respira perché il Rocco che ci viene presentato è un uomo ancora più disilluso e disincantato, un uomo ancora più stanco.
Ancora una volta il Vicequestore è chiamato a risolvere un caso: una donna, Sofia Martiner, viene rinvenuta priva di vita nel suo appartamento a causa di un colpo alla testa con un’arma contundente. Ad accorgersi del delitto è una condomina che conosce il sangue perché vi ha lavorato e saprebbe riconoscerlo ovunque. È una donna che il sangue lo sa riconoscere anche solo dallo sguardo e non solo dalla sua consistenza e odore.
Ma chi poteva aver interesse ad uccidere la Martiner? Sola, ormai in pensione, divorziata e madre di un figlio adulto ma problematico. Una donna quasi dimenticata. La vita ancora si ricorda di lei solo per il suo trascorso nella storia dell’arte e la sua grande esperienza maturata.
Il sospettato numero uno non convince Rocco che prosegue nelle indagini perché in costui vede un qualcosa che non appartiene agli assassini: la paura. Al contempo però il passato non lo risparmia e tra legami che si sono spezzati e altrettanti che si sono dovuti separare per trasferirsi in altre città e ricominciare a vivere, ecco che quei fantasmi di un tempo trascorso tornano a bussare alla sua porta, “Vecchie conoscenze”, appunto. E talvolta sono proprio queste conoscenze di un altro tempo quelle che più sanno deluderti e lasciarti quell’amaro in bocca. O ancor più confonderti fino a sconvolgerti.
«Lui lo sapeva, ci sono dei giorni in cui si percepisce che un pezzo della nostra vita se n’è andato, e seppelliamo la nostra faccia di una volta perché non ci appartiene più. La faccia, quella ce la disegna il tempo, ogni ruga per ogni sorriso strappato, le diottrie in meno per ogni riga che non volevamo leggere, i capelli abbandonati chissà dove insieme al loro colore, e quello che vediamo spesso non ci piace, ma è soltanto l’inizio di un nuovo episodio della nostra esistenza. Ci conviene conservare ciò che rimane per poterlo portare avanti, fino alla prossima stazione quando anche quest’altro pezzo della vita non ci apparterrà, e avremo allora un’altra faccia, altre rughe.»
Perché tu credevi in loro e mai ti saresti aspettato che proprio loro potessero celare altrettanti oscuri fantasmi. Perché tu di loro ti fidavi. Perché tu per loro ti sei prodigato.
Ed ecco allora che l’amarezza è pulpito, è certezza, è costante. Non vi è spazio per altro se non per questa nuova consapevolezza.
Uno Schiavone stanco, disincantato, rude e ancora più disilluso è quello che colora queste pagine, eppure, è anche uno Schiavone che coinvolge e trattiene ancora e ancora. Ancora più che mai.
Un capitolo delle avventure che conquista e non delude le aspettative degli appassionati aggiungendo quel tassello in più a una serie che per sua natura ha tanto ancora da offrire.
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Case, luogo di vita e vivere
Ci sono luoghi che non sono soltanto luoghi quanto anche metafora. Metafora del vivere, metafora e sinonimo di casa. Ed è quello che accade con “Le case del malcontento”, opera di Sacha Naspini che ci porta in Toscana, in bassa Maremma. Ed è proprio a Le case, un borgo che è prigione, un borgo che è provincia, che ha inizio lo scritto dell’autore. Apparentemente siamo in un contesto dove non sembra esservi possibilità di fuga e scampo. Quei borghi millenari sono un microcosmo chiuso in se stesso e che porta il lettore a interrogarsi su quel paese morente e su quei protagonisti che rappresentano ciascuno un caleidoscopio di vite diverse ed eterogenee.
Ogni storia di ogni personaggio è narrata con una propria e specifica narrazione suddivisa per capitolo. Ognuno ha cioè la sua voce ed emerge con le sue caratteristiche principali e peculiari. In questo contesto e in questa realtà ogni voce ricrea la propria anima e il proprio essere. Torna a dare vita a una propria dimensione che si incastona con quella dell’altro per via diretta o indiretta. Gli equilibri vengono però rotti da un ritorno inaspettato; quello di Samuele Radi. Nato e vissuto tra quelle mura è poi fuggito per il mondo. Quel mondo dal quale adesso sta facendo ritorno con la sua scia di storie e realtà da affrontare.
Ed è da questi brevi assunti che prende il via una storia che in perfetto stile Naspini nulla risparmia al lettore. Il narratore ci costringe a metterci nei panni di ogni voce narrante, ci invita alla riflessione e ci porta ad osservare quelle brutture del nostro vivere che spesso non vorremmo affrontare. Si crea una struttura solida e stratificata, perfettamente incasellata che chiede di andare nel profondo e di non fermarsi alle apparenze. Le case è metafora, le case è una realtà che talvolta non vogliamo vedere. È lo specchio del nostro vivere e del nostro esistere. Non semplice è all’inizio la lettura essendo caratterizzata da questa moltitudine di voci che ricorda quasi un racconto tanto possono apparire tra loro a se stanti, di fatto sono in realtà tutte magistralmente intessute tra loro. L’invito è dunque quello a non interrompere la narrazione ma a procedere con curiosità e rapido incedere.
Ecco perché “Le case del malcontento” è uno scritto vivido e forte che si legge gustandolo un poco alla volta e che con semplicità si sedimenta nel cuore senza farsi dimenticare.
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Transumanisti
Ambizioso il progetto di Mark O Connell che ci conduce tra le pagine di questo scritto, con caratteri e impronta saggistica, finalizzato a farci riflettere su quelli che sono i transumanisti e ancor più su quegli scienziati, ingegneri e pensatori vari che operano giornalmente per rendere verità i sogni e le fantasie degli scienziati dalla Storia dei tempi. Questi transumanisti fondano le loro tesi sull’idea della possibilità di vincere quel dogma improcrastinabile stante il quale la vita avrebbe un inizio e una fine a causa di quell’evento chiamato morte che è scritto nel destino di ognuno di noi. Ma è davvero possibile vincere questo vincoli biologico? Ed è altrettanto lecito farlo? Dov’è il confine tra etica ed esistenza? Ed è davvero possibile trovare una cura per l’invecchiamento?
È da questi brevi assunti che ha inizio l’opera di O Connell, un saggio che pone in essere tra le sue maglie molteplici riflessioni e che spinge il lettore a interrogarsi tra quel che un tempo era, appunto, mera fantascienza mentre oggi è divenuto un dogma concreto sul quale soffermarsi perché non più solo utopia. Molteplice è la riflessione sulla filosofia transumanista che viene analizzata in tutti i suoi corollari, ivi comprese le varie contraddizioni che la caratterizzano.
Uno scritto molto particolare che ha il grande pregio di riuscire a solleticare la curiosità del lettore e a spingerlo a chiedersi fino a dove può arrivare l’essere umano. Divide. O si ama o si odia proprio per questa sua capacità di toccare temi da sempre oggetto di curiosità e interrogazione.
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Per affrontare il dolore
«Ma i miei fantasmi, un tempo, sono state persone, e io non posso dimenticarlo. Non posso dimenticarlo quando cammino per le strade di DeLeslie, strade che sembrano ancor più spoglie dopo Katrina. Strade che sembrano ancor più vuote dopo tutte quelle morti, dove invece di sentire i miei amici o mio fratello che ascoltano la musica in macchina nel parco della contea, l’unico suono che sento è il pappagallo di uno dei miei cugini, un pappagallo il cui grido tormentato, un grido simile a quello di un bambino ferito, è tanto forte da riechiggiare per tutto il quartiere da una gabbia così piccola che la cresta tocca la sommità e la coda sfiora il fondo. […] Mi chiedo perché il silenzio sia il suono della nostra rabbia repressa, dei nostri dolori accumulati. Decido che non è giusto, che devo dar voce a questa storia. Te l’ho detto: qui dentro c’è un fantasma, diceva Joshua.»
Jesmyn Ward da sempre ci ha abituato a scritti evocativi e dove i temi della natura e della famiglia erano preponderanti. Rapporti forti, intensi, travagliati. Rapporti fatti di legami anche marci a causa di una serie di vicissitudini affatto semplici da vivere e di un ambiente sociale altrettanto complesso. In “Sotto la falce” non vengono a mancare quei temi ad ella cari ma al contempo si toccano anche aspetti di cruda e dura quotidiana verità. Perché l’opera è prima di tutto un memoir all’interno del quale ella parla della dipartita prematura di suo fratello Joshua e di altri quattro ragazzi. Sono vite accomunate dal colore scuro della pelle ma anche giovani che tra il 2000 e il 2004 hanno visto spazzare via la propria vita a causa di alcol, droga, povertà, razzismo, diseguaglianza, solitudine, indifferenza e chi più ne ha più ne metta.
La Ward focalizza l’attenzione del lettore su quella che è una comunità che resta a sua volta silente in quel grido che non trova forma. E lo stesso vale per la scrittrice che è sopravvissuta a quelle perdite ma che sente il bisogno di tirar fuori il dolore, il rancore, il “covato” in quegli anni. Ed è questo ciò che accade.
Jesmyn si guarda intorno. È una bambina, poi una giovane ragazza, infine una donna adulta. Vede perire tante anime al suo fianco, sente la violenza che aleggia tutta attorno. Quella solitudine, inoltre, estrema che condanna e vincola quelle anime che non riescono a rifuggire dalle tentazioni quali la droga e l’alcol.
Il tutto sino a giungere a quell’ultimo capitolo in cui siamo colpiti da un’altra perdita per Jesmyn: quella del marito a causa della Pandemia.
Ed ecco allora che la scrittura è anche terapeutica e riesce a ricomporre il volto di quel vissuto che chiede consapevolezza e speranza per il divenire. Uno scritto dove il sentimento e l’emozione fuoriescono con tutta la loro forza dirompente. Un libro che fa male e che suscita tante riflessioni e domande a cui è necessario dare risposta.
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