Opinione scritta da Valerio91
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Amazon è il diavolo
Devo essere sincero: questo è uno di quei casi in cui la copertina ha influito parecchio sulla mia scelta d'acquisto. Attirato dalla prima occhiata, mi sono detto che sarebbe stato interessante scoprire qualcosa della vita di un libraio. Shaun Bythell è il proprietario del Book Shop di Wigtown, in Scozia, e questo suo libro non è altro che un resoconto giornaliero (una specie di diario) sulle giornate passate nella sua libreria. Il suo è uno stile scorrevole, divertente, perfettamente adatto a quello che è il contenuto del libro. Ovviamente non ci si può aspettare nulla di troppo impegnativo o profondo: Bythell non fa altro che raccontarci quella che è la sua vita giorno dopo giorno; come porta avanti la sua libreria cercando di sopravvivere alla concorrenza spietata di quello spauracchio che è Amazon: una chimera che, nella mente dei piccoli commercianti, divorerà tutto quel che incontra nel suo cammino. Chissà se questa profezia si reputerà veritiera; sta di fatto che l'odio di Bythell per Amazon è già bello che formato, tanto da spingerlo a sparare a un Kindle e appenderlo a una parete a mo' di trofeo.
Da quel che intuirete, l'autore è un personaggio particolare, una persona schietta che non ha problemi a rispondere per le rime a chiunque, al costo di perdere qualche cliente. È interessante scoprire le diverse personalità che attraverseranno la soglia del suo negozio, sia che si tratti di clienti, collaboratori, scrittori e altre personalità attirate in città in gran numero durante il grande festival del Libro che ha luogo a Wigtown in settembre. È bello leggere i ritratti dei diversi tipi di clienti: quelli che entrano per scoprire il titolo di un libro e poi vanno a ordinarlo su Amazon; quelli che gridano il loro presunto amore per i libri e se ne andranno puntualmente a mani vuote; quelli che scrivono a matita il prezzo e tentano di fregarti; quelli che si indignano perché una prima edizione autografata non costa una sterlina e se ne vanno furibondi... e chi più ne ha, più ne metta.
Tuttavia, credo che alla lunga i racconti inizino a diventare un po' troppo ripetitivi e che quasi quattrocento pagine di resoconti giornalieri di un libraio inizino a stancare, considerando che spesso la routine è la stessa. Mi spiego meglio: c'è il Random Book Club, un circolo di iscritti al quale ogni mese Bythell spedisce un libro a caso, e ogni volta noi lo sapremo; periodicamente si fa vivo qualcuno che chiama il libraio per disfarsi della propria libreria o di quella di un parente deceduto, quindi Bythell si reca sul posto per capire se vale la pena acquistare i libri; periodicamente si fa vivo un cliente fisso che ordina un libro di cui ha letto la recensione su un giornale; periodicamente ci sono problemi col programma per la gestione degli ordini online... eccetera eccetera. Insomma, a un certo punto diventa tutto troppo ripetitivo e se non fosse per gli aneddoti spassosi che si alternano di tanto in tanto, con clienti a dir poco fuori di testa che Bythell affronta provando a non sbottare, questo diario sarebbe più noioso di quello di un prigioniero in cella d'isolamento.
Insomma, questo libro è consigliato soprattutto a chi ama molto i libri, che è interessato alle vicissitudini della vita di un venditore di libri usati. Ci sono diversi aneddoti divertenti che vi lasceranno spiazzati, perché alcuni clienti sono strani al punto da risultare inverosimili, ma chi ha lavorato a contatto con le persone (dunque non solo i librai) non faticherà a credere che siano veri.
Insomma, carino, ma con varie pagine in meno sarebbe stato più efficace.
"[...] un tempo ero diverso, e prima di comprare la libreria, ricordo di essere stato un tipo abbastanza disponibile e amichevole. Se oggi sono quel che sono, è colpa del quotidiano bombardamento di domande idiote, dell'incertezza finanziaria, delle eterne discussioni con il personale, dell'infinito, sfiancante mercanteggiare con i clienti. Eppure, se qualcuno mi chiedesse cosa vorrei cambiare, la risposta sarebbe: niente."
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Corte Desolata
Io ho una devozione per Charles Dickens che va aumentando di romanzo in romanzo, anche se quello appena letto non si rivela all'altezza di altri capolavori. Perché? Prima di tutto, Dickens è LO scrittore: eccelle in tutte quelle che sono le doti che uno di questi professionisti dovrebbe avere e che, soprattutto ai nostri tempi, sono un po' deficitarie. Oltre a fare un uso eccelso della lingua, della sintassi e di tutto quel che riguarda lo stile, Dickens riesce a imbastire meccanismi narrativi complessissimi e portarli a compimento con una maestria unica, senza mai lasciare nulla di irrisolto e, cosa importantissima, senza mai sacrificare l'essenza di un romanzo per regalare al lettore un lieto fine assoluto. Ma volete sapere qual è la cosa più bella di questo autore? I suoi personaggi, tra le pagine, prendono letteralmente vita! Non importa quanti ne siano (in "Casa Desolata" ne sono davvero tanti), nessuno è uguale a un altro, ognuno ha un suo ruolo e un suo carattere che buca le pagine, secondario o meno. Ed è così anche in "Casa Desolata".
Chiariamoci, "Casa Desolata" non scorre con piacevolezza né lascia quel segno indelebile come i suoi altri capolavori, come "Grandi Speranze", ma è comunque un libro bello e ricco. È molto chiaro il messaggio satirico che Dickens voleva rivolgere all'apparato giudiziario inglese, accusandolo la sua natura sconclusionata e i suoi attori dipinti come sanguisughe, che dilapidano il povero popolo che si affida nelle loro mani, speranzoso, ma che in realtà si infilerà in un circolo vizioso che non si risolve mai. Tuttavia, "Casa Desolata" non è soltanto una satira: è un'anticipazione del giallo che sorgerà definitivamente con Sherlock Holmes, è un romanzo pregno di sentimento, è un romanzo che non abbandona l'attenzione che Dickens ha sempre dato ai bambini.
In "Casa Desolata" c'è un po' di tutto, ma niente che non sia bello da leggere.
Risulta difficile riassumere gli eventi che questo romanzo contiene: sono talmente tanti e diversi tra loro (come i personaggi che ne sono protagonisti), che è difficile focalizzare l'attenzione su qualcuno in particolare. Protagonista assoluta di questa storia è sicuramente la causa legale "Jarndyce contro Jarndyce", processo legale riguardante una controversa eredità le cui discussioni si protraggono da anni e anni senza mai fare passi in avanti. Sarà proprio la causa il motore di questa storia, pur essendo l'unica cosa che non muterà mai, rimanendo sempre nella sua condizione di stallo. Intorno ad essa, tuttavia, ruotano tanti personaggi differenti: Ada e Richard, cugini che da questa causa dovrebbero ottenere la propria fortuna, ma che da essa troveranno soltanto l'amore che li legherà e la sofferenza legata al suo immobilismo; John Jarndyce, tutore dei due giovani, completamente disinteressato alla causa perché uno dei pochi ad essere consapevole che non porterà a nulla; Esther Summerson, governante della casa del tutore, appunto chiamata "Casa Desolata".
È Esther la vera protagonista (e voce narrante a capitoli alterni) di questa storia: detentrice di innumerevoli virtù, si farà amare da chiunque la incontri, facendosi fulcro di tantissimi eventi e spesso suo malgrado. Scopriremo cosa si cela dietro alle sue origini misteriose e cosa la lega a un'importantissima donna ammirata da tutto il "bel mondo", la altera Lady Dedlock.
Tra morti misteriose, appassionanti investigazioni, incontri improbabili e amori felici e tormentati, ci infileremo in un intricato labirinto di eventi che Dickens, con la sua arte, risolverà soltanto nelle ultime pagine, riuscendo a soddisfare ogni tipo di lettore. Un viaggio emozionante, che non scade mai nel banale e che non sacrifica mai sé stesso in nome dei lieti fini e della bellezza a tutti i costi.
"Rick, il mondo è davanti a te; ed è probabile che come tu ci entrerai, così sarai ricevuto. Non fidarti di nient'altro che della Provvidenza e dei tuoi sforzi. La costanza nell'amore è una buona cosa; ma non significa nulla e non è nulla senza la costanza in ogni sforzo. Se tu avessi la capacità di tutti i grandi uomini, passati e presenti, non potresti fare bene nulla senza volerlo sinceramente e senza adoperarti per riuscire. Se tu t'immagini che il vero successo, nelle cose grandi e piccole, si sia raggiunto o sarà mai raggiunto, strappandolo alla fortuna, lascia qui questa idea sbagliata o lascia qui la tua cugina Ada."
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Un conflitto infinito
"Una cena al centro della terra" è un libro piuttosto atipico, a partire dall'autore che lo ha scritto: Nathan Englander è statunitense, ma ha vissuto per molti anni in Israele. È proprio sul conflitto israelo-palestinese che ruota tutto questo romanzo, anche se si sposta (tra flashback e flashforward) in vari luoghi del mondo, per seguire le vicende di vari personaggi tutti in qualche modo legati a questo conflitto che sembra non trovare mai fine.
Lo stile dell'autore è abbastanza scorrevole, fila via senza intoppi, pur senza raggiungere vette altissime. La mia impressione, tuttavia, è che questo romanzo avesse ben altre ambizioni e che l'autore non sia riuscito a conseguirle appieno: si concentra su un argomento scottante della nostra storia recente, ma non riesce a sviscerarne problematiche e riflessioni come dovrebbe (e come vorrebbe, credo). Sì, perché i protagonisti di questa storia sono vari, si può dire che l'autore abbia imbastito almeno tre archi narrativi, ma tutti mi hanno dato un'impressione di debolezza: non sono troppo intriganti e li trovo un po' sconclusionati. Forse era proprio questo l'intento dell'autore: mettere in risalto questo conflitto senza fine con varie narrazioni della stessa natura, ma se fosse così per me il romanzo ne risente un po'; inoltre, per quella che dovrebbe essere la parte più importante e profonda del romanzo (quella finale), l'autore inserisce uno dei due personaggi che la reggono soltanto nelle ultime pagine, creando una scarsa connessione emotiva col lettore, nonostante il messaggio che si voglia trasmettere sia interessante.
Come ho già detto, in questo libro seguiremo le vicende di vari personaggi: il primo è il Prigioniero Z, una spia che durante una delle sue missioni, contro la sua volontà, si ritrova tra gli artefici di una delle stragi più sanguinose del conflitto tra israeliani e palestinesi. Scioccato e sorpreso da quel che è accaduto, il prigioniero Z tradirà la propria identità e si trasformerà in un fuggitivo. Un altro personaggio è colui che viene chiamato il Generale (che dovrebbe essere il defunto Ariel Sharon), protagonista di un arco narrativo abbastanza inusuale: difatti seguiremo la sua esperienza "mistica" durante il coma, dove rivivrà alcune delle fasi più tese del conflitto delle quali è stato attore fondamentale. In mezzo a questi due archi narrativi principali si uniranno altri personaggi, che convergeranno tutti in quel punto focale che è questo conflitto senza fine, che non finisce mai di distruggere e dividere due popoli.
Senza infamia e senza lode, nonostante avesse una base interessante da cui partire.
"Il mondo ci odia, ci ha sempre odiati. Ci uccidono, e ci uccideranno sempre. Ma tu, tu alzi il prezzo. Non fermarti. Non fermarti finché i nostri vicini non capiranno l'antifona. Non fermarti finché uccidere un ebreo non diventerà troppo costoso anche per un ricco scialacquatore. Questo è il tuo scopo, - continua Ben Gurion. - Tu sei qui esclusivamente per alzare il valore della taglia sulla testa di ogni ebro. Rendila costosa. Rendila una rara e raffinata delicatezza per chi ama il sapore del sangue ebraico."
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Una vita che sbiadisce
Rughe è stato il mio primo approccio al mondo delle Graphic Novel.
Probablilmente non è stata una cattiva scelta, per rompere il ghiaccio: abbastanza esile per quanto riguarda la mole, contiene comunque un messaggio e delle riflessioni importanti, che arrivano alla mente del lettore quasi in punta di piedi ma riescono a sedimentarsi, scatenando varie riflessioni.
È stata una lettura piacevole, interessante, che scatena pensieri e lascia stampato un sorriso diviso tra l'ilarità e l'amarezza. In fondo, quello trattato da Roca non è un argomento facile: quello dell'età che avanza, dei malanni che acciaccano il corpo e la mente. Sono proprio i malanni mentali quelli su cui si sofferma l'autore, in particolare il morbo di Alzheimer.
Il nostro protagonista, Emilio, è affetto proprio dalla patologia di Alzheimer: diventato ormai ingestibile per i suoi parenti, viene portato in una casa di riposo, così che possa ricevere le migliori cure possibili ed essere sempre sotto controllo. Tuttavia, la vera motivazione sembra essere fin dall'inizio la voglia di liberarsi di un peso, per poter vivere la propria vita senza palle al piede. Qui si scatena la prima riflessione, sull'ingratitudine e l'insofferenza che l'essere umano è capace di mostrare anche nei confronti di chi l'ha messo al mondo, di chi l'ha cresciuto e accudito. Siamo capaci di sbarazzarci di chiunque alla prima difficoltà e questo dovrebbe farci pensare, riportarci alla mente quanto ci abbiano dato quelle persone che ora hanno bisogno di noi più che mai. Ma purtroppo, alcune cose non le capiamo fin quando non le proviamo sulla nostra pelle.
Emilio incontrerà gli altri "inquilini" della casa; conoscerà un nuovo amico, Miguel; verrà in contatto con tante altre persone che sono nella sua stessa situazione, seppure in modi molto diversi. Il tragitto verso la degenerazione della malattia sarà triste, ma lascerà spazio a qualche sorriso e anche a un filo di speranza: si può avere uno spicchio di felicità anche nelle situazioni più disperate, basta sapersi adattare alla propria situazione, basta avere la capacità di accettare quel che non si può cambiare e cercare di godersi quel che ci rimane.
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Orsi giganti, Bio-tec, disperazione e... Borne
Avevo buone aspettative riguardo a questo romanzo: il primo Einaudi di genere fantascientifico che mi trovo tra le mani, di un autore abbastanza conosciuto. Oltretutto, le copertine dei suoi romanzi editi Einaudi sono di una bellezza fuori dal comune.
Vorrei cominciare col chiarire una cosa: la fantascienza non è affatto un genere di serie B. Sono pronto ad ammettere che la probabilità di scrivere scempiaggini e banalità potrebbe essere più alta, ma ha delle potenzialità che se sfruttate a dovere possono spingersi dove romanzi "normali" non possono arrivare. Penso a "Cronache Marziane" di Ray Bradbury, penso al "Ciclo delle Fondazioni" di Asimov, penso a "Ubik" e "Ma gli androidi sognano pecore elettriche" di Philip K. Dick (includendoci i due film capolavoro "Blade Runner"). Quindi, chiunque mi venga a dire che la fantascienza non può essere annoverata nell'Alta Letteratura rispondo di leggere i titoli sopracitati (soprattutto Bradbury) e poi ne riparliamo. Tuttavia, bisogna ammettere che non tutti hanno la maestria di questi autori. Jeff VanderMeer, pur non scadendo nella letteratura di serie B, rimane lontano anni luce dai suoi predecessori (e, spero per lui, maestri da imitare). Sì, quella di Borne è una storia come potrebbero essercene tante, niente di più; ben scritta, ma in certi tratti pesante e ripetitiva, incapace di dare una profondità che possa giustificarne la lentezza di certi tratti.
Non me la sento di stroncare completamente questo romanzo, tuttavia non riesco a dargli note di particolare merito: è una storia come potrebbero essercene tante, senza picchi di originalità né di bellezza.
La storia è ambientata in un mondo ormai ridotto a un cumulo di macerie, controllato da un orso gigante e capace di volare di nome Mord. Mord è un prodotto della Compagnia: un'entità dal passato non molto chiaro che sembra essere la causa della rovina del mondo, produttrice di biotecnologie che lentamente hanno preso il controllo del mondo. Lo stesso Mord è un bio-tec, una creatura biotecnologica creata dalla Compagnia che alla fine gli si è rivoltata contro.
La nostra protagonista si chiama Rachel ed è una giovane cacciarifiuti: sì, perché ormai l'umanità può cercare di tirarsi avanti soltanto arrancando, scavando tra gli scarti e tra le macerie. La vita è una lotta continua: si è perennemente in pericolo e scendere in strada può anche significare la morte per mano di altri esseri umani disperati.
Rachel vive con un uomo di nome Wick in un luogo che hanno tempestato di trappole: la Scogliera, nella quale tirano avanti vendendo droghe biotecnologiche. Tuttavia, qualcosa nella città sta cambiando, le gerarchie si stanno rimescolando, e la vita dei due abitanti della Scogliera cambia del tutto con l'arrivo di una creatura sconosciuta: Borne.
Rachel trova Borne attaccato alla pelliccia di Mord; lo prende e lo porta con sé, affezionandoglisi come fosse un figlio, nonostante non riesca a capire cosa sia. Borne si dimostra in grado di apprendere più velocemente di qualsiasi essere umano, e comincia a crescere vertiginosamente di dimensioni. L'affetto che Rachel prova per Borne si trasformerà presto in paura, ignorando totalmente quale sia lo scopo di questo essere e il suo ruolo in quel mondo grigio e disperato.
"Una scintillante barriera di stelle, sparpagliate e fosforescenti, e ognuna potrebbe ospitare la vita nei pianeti che le orbitano intorno. [...] C'era qualcos'altro al di là di tutto questo, qualcosa che non avrebbe mai saputo di noi e delle nostre lotte, non se ne sarebbe mai curato, e sarebbe andato avanti senza di noi."
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Perfezioni indesiderate
Se dovessi trovare un aggettivo per questo libro, sarebbe senza ombra di dubbio: "Magnetico".
Sì, "Reincarnation Blues" ti attira a sé già prima di aquistarlo: ha un bel titolo, una bellissima copertina, una trama interessante, e l'autore viene paragonato a colleghi del calibro di Kurt Vonnegut e Neil Gaiman. Alla fine l'ho acquistato, cedendo a questi innumerevoli richiami, e ho cominciato a leggere. A quel punto, ho scoperto che quest'opera è magnetica anche perché ti tiene incollato alle pagine, è avvincente pur non essendo un thriller. La prosa dell'autore scorre via che è una bellezza: pur non raggiungendo alcuna vetta letteraria, va avanti fluida e lascia che il lettore consumi le pagine (che a primo impatto possono sembrare tante).
Ho trovato un'incongruenza logica non di poco conto, nella gestione dello spazio-tempo nella realtà e nell'Aldilà immaginato da Michael Poore, ma data la natura del testo non ho voluto dargli troppo peso (anche se un po' ha influito sul mio voto al contenuto, insieme al finale che non mi ha convinto troppo).
Milo è l'anima più vecchia che sia mai esistita, che si è reincarnata in diverse vite quasi diecimila volte. Ha vissuto, sofferto, gioito, ed è morto in migliaia di modi diversi (a volte anche in maniera molto cruenta). È stato una guida spirituale, un saggio, un criminale, un killer, un genio ingiustamente gettato in galera e chi più ne ha, più ne metta.
Gli rimangono le ultime vite, da vivere; quello che non sa è che una volta raggiunta la reincarnazione numero diecimila, se la sua anima non dovesse raggiungere la Perfezione per unirsi alla Superanima, verrà gettato nell'oblio, distrutto per sempre. Per intenderci, la Perfezione la raggiungono personalità tipo il Buddha o San Francesco d'Assisi, per citarne un paio.
Tuttavia, Milo non sembra molto attratto da questa prospettiva: gli piace reincarnarsi e vivere vite così diverse tra loro, e soprattutto è innamorato di Suzie, una bella donna che nell'Aldilà ricopre il ruolo della Morte. Ogni volta che muore, Milo la trova ad aspettarlo lungo il fiume dell'Aldilà, e insieme passano quel po' di tempo tra una reincarnazione di Milo a un'altra. Tuttavia, l'universo non sembra volergli concedere la bellezza del loro amore, la gioia dello stare insieme; entrambi però non si daranno per vinti, pur attraversando mille difficoltà.
Dunque, ci troveremo ad assistere alle ultime reincarnazioni di Milo: ci troveremo in India; in un futuro lontano in cui l'umanità ha colonizzato lo spazio e la terra è stata distrutta; in un futuro prossimo in cui questa colonizzazione è agli albori e gran parte dell'umanità è ridotta in schiavitù dai Cartelli delle Risorse; nell'Ohio; sul Sole. Tutte queste reincarnazioni sembrano essere tanti piccoli racconti, legati da un filo conduttore tenuto integro dalla storia di Suzie e Milo, alla ricerca di una Perfezione che non avrebbe senso, se non dovessero essere insieme.
Una storia piacevole, con qualche lacuna, ma comunque bella e godibile.
"Mi piacciono le mie imperfezioni. Insomma, quando parlano di imperfezioni si riferiscono ai desideri umani, giusto? Avere qualcuno che ti ami, trovare un buon lavoro, comprare una macchina, sperare che i tuoi figli vadano all'università, essere rispettato dalla gente. Oppure si riferiscono a esperienze dolorose come quando muore tua mamma, vivi in condizioni di povertà o di pericolo, hai il diabete, dei procioni fanno la tana nella tua spazzatura. In altre parole, tutto ciò che ti rende vivo."
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Guida Galattica per Autostoppisti
Un uomo chiamato Menzogna
Difficile dare un giudizio su quest'opera di Emmanuel Carrère. Sebbene all'inizio sembra esserci la chiara intenzione, da parte dell'autore, di indagare a fondo i motivi che hanno portato il protagonista di questa storia vera a fare quello che ha fatto, procedendo nella lettura questa si trasforma in una sorta di freddo resoconto dei fatti. È chiaro che l'autore abbia capito (come lui stesso ammette) di non essere in grado di dare un giudizio su questa tragedia e sul suo autore, personaggio controverso fin dalla sua prima giovinezza.
Questo libro avrebbe avuto tutt'altra forza se avesse almeno tentato di scavare più in profondità, e non limitandosi a fare una cronaca dei fatti. È un peccato, perché lo stile dell'autore è molto valido e lascia intravedere potenzialità notevolmente maggiori, che evidentemente sono state riposte nel cassetto per il timore di dare un giudizio su questa storia tragica e delicata. Avrebbe potuto dare spunto a tantissime riflessioni, ma il modo in cui l'autore la affronta manca degli input necessari a stimolare la mente del lettore.
Il protagonista, Jean Claude Romand, è il classico tipo al di sopra di ogni sospetto. È una persona molto gentile, disponibile, con una bella famiglia e un lavoro importante in cui afferma di essere una figura di spicco. Lui. Peccato che gran parte di tutto questo sia una menzogna, che porta avanti fin dai tempi dell'università.
Sì, Jean Claude Romand non è quel che dice di essere, nemmeno un po'. Non si è nemmeno laureato. Quella di aver superato l'esame del secondo anno è stata la prima, grande bugia, che lo ha messo su un sentiero fatto di menzogne che non potevano avere altro capolinea che la rovina.
Ma la rovina che attende il "dottor" Romand è ben peggiore di quel che ci si potrebbe attendere. Fingerà di essere un medico per tantissimi anni, fingendo di andare al lavoro ogni giorno, e tirerà avanti coi risparmi dei suoi familiari e amici, che glieli affidano convinti che sappia investirli nel migliore dei modi. È un tipo affidabile, il Jean Claude Romand che conoscono loro. In realtà, quei soldi non faranno altro che finanziare le sue menzogne per tanto tempo, menzogne che data la loro entità sono durate un tempo inspiegabilmente lungo. Come potevano le persone a lui vicine non accorgersi dei suoi segreti, delle sue stranezze?
Quando Jean Claude si accorge che tutto sta per venire a galla, comincia a vedere nel suicidio l'unica soluzione sensata; dopo un po', ne trova un'altra infinitamente peggiore. Uccide sua moglie, i suoi bambini, i suoi genitori. Perfino il cane. Nella distruzione di tutto ciò che ha di più caro, inspiegabilmente, trova la via di fuga.
L'uomo che si è reso vettore di tanta malvagità non ne sembrava assolutamente in grado, neanche quando le sue colpe sono state accertate. A me è sembrato un uomo incapace di essere sincero, completamente immerso nelle sue bugie e che non riesce a smettere di fingere neanche quando non ha più nulla da perdere.
"Quando entrava in scena nella sfera privata, tutti pensavano che avesse appena lasciato un'altra scena, dove svolgeva un altro ruolo - quello dell'uomo importante che gira il mondo, frequenta i ministri, viene invitato a cene ufficiali in sontuose dimore -, ruolo che uscendo sarebbe tornato a interpretare. Invece non esisteva un'altra scena, un altro pubblico davanti al quale recitare quell'altro ruolo. Fuori, era completamente nudo. Tornava all'assenza, al vuoto, al nulla che per lui non costituiva un incidente di percorso ma l'unica esperienza della sua vita. La sola che abbia mai conosciuto, credo, anche prima di ritrovarsi al bivio."
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Miseryaccia
Forse il libro più raccapricciante che abbia letto di King (difficile a credersi, ma forse anche più di It). Il Re dell'orrore nella sua accezione più pura, capace di rendere al meglio il senso di impotenza del protagonista, confinato nelle pareti di una stanza con le gambe rotte, incapace di camminare e ribellarsi.
Lo stile di King è inconfondibile, pur dando la sensazione di cambiare da libro a libro: ha quel tocco di unicità che cogli in qualsiasi caso, in qualsiasi salsa. Credo che vada annoverato tra i grandissimi scrittori del nostro tempo, perché seppure le sue storie facciano dell'intrattenimento un punto focale, credo che non si possa limitare l'autore in questo settore. King è un vero e proprio artista, non c'è molto altro da dire, anche solo per come caratterizza i suoi personaggi: basti guardare subito dopo la lettura il film tratto da "Misery", e ci si renderà conto del lavoro immane fatto dal Re. L'attrice che ha interpretato Annie Wilkes ha vinto l'Oscar per quella interpretazione, e pensate che il personaggio cinematografico non ha nemmeno il trenta per cento della caratterizzazione del suo alter ego letterario; per non parlare del protagonista Paul Sheldon, che nel libro è un tornado di emozioni e riesce a rendercene partecipi con empatia. Insomma, il lavoro dell'autore si vede ed è molto importante.
Ma già soltanto il riuscire a rendere avvincente un romanzo completamente ambientato nelle quattro mura di una stanza, è un'impresa in cui credo siano riusciti in pochi.
Mostruoso.
Paul Sheldon è uno scrittore di successo, diviso dalla sua voglia di voler lasciare un segno nella letteratura e lo sfruttare il suo personaggio più rappresentativo, Misery, protagonista di un romanzo che non ha certo le potenzialità per segnare la storia della letteratura, ma che in fondo lo ha reso ricco.
Ormai deciso a liberarsi di questo peso per dedicarsi alla letteratura che gli piace, nel suo ultimo libro Paul Sheldon uccide Misery, per poi dedicarsi a un nuovo romanzo che considera una svolta della sua carriera.
Una volta terminata la scrittura, lascerà l'hotel in cui lo ha scritto per recarsi a casa, proprio durante una bufera. Mezzo ubriaco, avrà un incidente e si spezzerà tutte e due le gambe, e solo il fato (un fato abbastanza sadico) manderà in suo soccorso Annie Wilkes, ex infermiera che lo ricovererà nella stanza degli ospiti e che il caso vuole sia la sua ammiratrice numero uno. O meglio, l'ammiratrice numero uno della sua Misery. Già palesemente instabile di primo acchitto, Annie peggiorerà sempre più, prima leggendo il nuovo romanzo di Paul zeppo di volgarità, poi scoprendo che la sua eroina Misery è stata uccisa dal suo creatore nell'ultimo libro che non aveva ancora letto. Da qui, la sua follia sarà una parabola ascendente: costringerà Paul a rimanere recluso in casa sua e poi, a riportare in vita la sua eroina in un nuovo romanzo: Il ritorno di Misery.
Da qui, ha inizio un incubo che perseguiterà Paul Sheldon per sempre.
"Come batte il suo cuoricino! Come lotta per liberarsi! Come noi, Paul. Proprio come noi. Noi crediamo di sapere tante cose, mentre in realtà non ne sappiamo più di un topo in trappola... un topo con la schiena spezzata che crede di avere ancora voglia di vivere."
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Verso gli inferi in ascensore
Ragazzi, ne ho letti di libri crudi, ma questo li batte tutti a mani basse. Non sono uno che si impressiona facilmente, ma devo dire che questo libro mi ha messo a dura prova. Qui non stiamo parlando della violenza verosimile e "sensata" del McCarthy de "La strada", ma di una violenza spesso e volentieri gratuita, una violenza di cui l'autore non va ad indagare i motivi a fondo.
Se devo essere sincero, capisco la volontà di far passare un messaggio, di creare una metafora che sia abbastanza da sconvolgere il lettore riguardo alla frivolezza della società, delle sue divisioni, dei litigi spesso immotivati di cui è il palcoscenico, ma secondo me da una buonissima idea si è degenerato nel galà della violenza immotivata. Quella che critico più aspramente è l'occasione sprecata, perché l'idea è davvero molto intelligente: ricreare la stessa struttura sociale in cui l'umanità si divide ormai da secoli all'interno di un grattacielo colmo di inquilini, in cui la classe (bassa, media, alta) è rappresentata dal piano di appartenenza.
Questo libro mi ha portato alla mente più di una volta il 1984 di Orwell e l'universo di Bioshock, ma il suo sviluppo non può minimamente competere con tali mostri. Mi è parso che, più che indagare i motivi che spingono gli esseri umani a fare cose che neanche gli animali, li si consideri direttamente senza speranza e li si lasci cadere nella propria miseria senza possibilità di scampo e senza riflessioni. Il messaggio che è passato, almeno a me, è che in tali condizioni l'essere umano sia destinato a finire in questo modo, in un brutale ritorno al primitivo, senza se e senza ma. Non ne sono poi così convinto, sinceramente, e l'autore avrebbe dovuto fare meglio per sostenere la sua tesi. Oltretutto, anche se il degrado crescente è perfettamente palpabile, l'autore ci arriva ripetendo fino allo sfinimento gli stessi concetti, facendoci vivere una miriade di noiosi deja vù: sviluppato in questo modo, il libro poteva benissimo essere lungo la metà, e non è già troppo grande.
Tutto ha inizio con la vita apparentemente normale di un condominio, un grattacielo di quaranta piani con circa duemila inquilini. A parte le solite scaramucce che sono cosa normale anche in un piccolo condominio, nel grattacielo la vita scorre normalmente: gli inquilini vanno al lavoro, al supermercato e alla piscina del decimo piano, stringono amicizie e inimicizie, si divertono alle feste organizzate da alcuni condomini dove l'alcool scorre a fiumi. Tuttavia, fin dall'inizio si sente qualcosa di strano, come una tensione di sottofondo pronta a scoppiare al primo evento sopra le righe. Quando quel qualcosa accadrà, le normali festicciole notturne lasceranno spazio al caos più totale e i piccoli dispetti che gli inquilini si facevano a vicenda si trasformeranno in verie e proprie cattiverie, fino a degenerare in quel che di peggio possa fare un uomo.
I protagonisti sono il dottor Laing, Richard Wilder e il signor Royal, rispettivamente rappresentanti della classe media, bassa e alta del grattacielo. Assisteremo all'assurdo degrado della nuova società istituita nel grattacielo, che si è completamente isolato dal mondo esterno, e alla reazione di ogni classe a questi cambiamenti.
Occasione sprecata.
"Il grattacielo aveva creato una nuova tipologia sociale, una personalità fredda e antiemozionale, insensibile alle pressioni psicologiche della vita di condominio, con esigenze minimali in fatto di privacy e capace di prosperare, come una macchina di nuova generazione, nell'atmosfera neutra. Era il genere di abitante che si accontentava di restare seduto nel suo carissimo appartamento a guardare la televisione senza audio, aspettando che i suoi vicini commettessero un errore."
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Bioshock: Rapture di John Shirley
La desolazione del nido dell'uomo
Il mio primo approccio con Italo Calvino è stato "Se una notte d'inverno un viaggiatore", che mi aveva lasciato alquanto perplesso. Colpa mia: non è stata una scelta felice, per rompere il ghiaccio. Allora mi sono detto: "cominciamo dall'inizio", e ho comprato "Il sentiero dei nidi di ragno", sua opera prima.
Una scelta assolutamente felice.
Calvino ha una prosa scorrevolissima, piacevole e in certi tratti evocativa. I suoi personaggi (soprattutto quello del piccolo Pin), hanno le fattezze di persone in carne ed ossa, seppur con quel tocco comico che le rende macchiette, in certi tratti. Attenzione, non prendetemi alla lettera quando dico macchiette, ma è chiaro che in certi personaggi Calvino abbia voluto mettere un pizzico di esagerazione, così da rendere più efficace ed evidente il loro carattere e il loro posto nella storia che è andato a raccontare.
In questo libro ci sono capitoli di una bellezza magistrale, che fanno riflettere, emozionano, turbano: perché in fondo quello di questo romanzo non è certo un periodo felice della storia umana. Alla fine, questo libro lascia quella piacevole sensazione dei grandi romanzi, come un sedimento nuovo che senti nel fondo dell'animo.
Quello de "Il sentiero dei nidi di ragno" è un modo che Calvino ha avuto di raccontare la realtà partigiana, nell'Italia sconvolta dalla seconda guerra. Come spiega nella sua prefazione, molti di quelli che sono stati testimoni e protagonisti di quel periodo di tempo così triste, si sono ritrovati a raccontare il proprio pensiero, se non la propria esperienza vissuta in prima persona. Deciso a fornire un nuovo punto di vista che fosse originale a riguardo, Calvino ha voluto raccontare questa realtà vista dagli occhi di un ragazzino sboccato e irresistibile, Pin, che si ritrova in mezzo a quegli eventi potendoli solo osservare superficialmente, considerato che è soltanto un bambino. Pin vive in una sorta di terra di mezzo: emarginato dai ragazzini per la sua conoscenza approfondita del mondo dei grandi (anche a causa di sua sorella, prostituta molto nota nel corrugio), emarginato dai grandi perché, ovviamente, un bambino. La vita di Pin è un conflitto continuo: combattutto tra il desiderio di essere intregrato e compiacere gli adulti e afflitto dalle paure tipiche dei ragazzini e la solitudine che gli comporta la sua diversità dagli altri.
Per compiacere gli adulti che frequenta all'osteria, ruba una pistola a un soldato tedesco che "fa visita" a sua sorella. Da qui cominciano i suoi guai: la nasconde in un posto che conosce solo lui, dove fanno il nido i ragni, ma viene comunque beccato dagli ufficiali tedeschi che lo sbattono in galera. Qui fa la conoscenza di Lupo Rosso, ragazzino che è già membro molto attivo e stimato del movimento partigiano, che metterà Pin in contatto con questa realtà. Qui, Pin farà la conoscenza di tantissimi personaggi molto diversi tra loro, che insieme formano un affresco perfetto di quella realtà storica, e che sbattono in faccia a Pin l'assurdità del mondo dei grandi: tutti presi dalle donne, dalle armi, dal furore e dalla loro voglia immotivata di sangue.
In mezzo a loro, non c'è nessuno che sia degno di essere suo amico, nessuno che sia degno di vedere e ammirare il posto dove fanno il nido i ragni. Forse.
"C'è che noi [partigiani] siamo dalla parte del riscatto, loro [i fascisti] dall'altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m'intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un'umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L'altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell'odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi."
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Un "Fossile" di Jurassic Park
Michael Crichton è stato uno degli autori che mi ha iniziato alla lettura, accanto a un mostro sacro come Conan Doyle, per dire. Ho letteralmente amato "Jurassic Park", "Il mondo perduto" e "Sfera". Quel che sta accadendo negli ultimi anni, ovvero la pubblicazione di numerosissime opere postume, tra cui quelle scritte con lo pseudonimo di John Lange, mi fa pensare che si stia provando a sfruttare il nome di questo autore per fare soldi, su soldi, su soldi. Questo mio sospetto era stato in parte confermato dalla qualità modesta di alcune di queste opere, almeno per quelli che sono gli standard di Crichton.
Perciò, quando ho cominciato la lettura de "I cercatori di ossa" ero un po' prevenuto proprio per questo motivo, e anche perché in questo caso specifico hanno provato a usare il nome ultra-attraente di Jurassic Park per attirare quanti più lettori fosse possibile. Per quanto ci viene dato a credere, infatti, questo romanzo sarebbe una sorta di precursore dell'opera più famosa dell'autore; personalmente però, ho un'idea un po' diversa riguardo al concetto di "precursore". L'unico punto in comune col capolavoro di Crichton sono i dinosauri, che in questo romanzo non compaiono in altra forma se non quella di fossili (ovviamente), e i cui studi sono ancora agli albori.
Nonostante questi tentativi un po' subdoli di accaparrarsi lettori, questa lettura mi è risultata comunque abbastanza piacevole, una storia western con un tocco paleontologico, forse forzata e ingenua in alcune evoluzioni narrative ma comunque apprezzabile.
In fin dei conti, ci doveva pur essere un motivo per cui queste storie non erano state ancora pubblicate, quando Crichton era vivo.
"I cercatori di ossa" ha come protagonista William Johnson, uno studente che, novello Phileas Fogg, parte verso l'ovest a causa di una scommessa. Un altro ragazzo lo sfida a partire per il "Selvaggio West" insieme al professor Marsh, paleontologo tanto famoso quanto paranoico. Johnson si imbarcherà in questo viaggio all'ultimo momento nelle vesti di fotografo, ma il professore non lo vedrà mai di buon occhio, scaricandolo alla prima occasione e accusandolo di essere una spia del suo acerrimo rivale, il professor Edward Cope. Descritto da Marsh come un uomo spietato e senza scrupoli, un ladro e un violento, Cope si rivelerà un uomo completamente diverso e accogliera Johnson tra le sue file, anch'egli alla ricerca disperata di fossili delle "terribili lucertole", nell'Ovest tormentato dalla guerra tra bianchi e Indiani, proprio nel periodo del massacro del settimo cavalleggeri del generale Custer a Little Bighorn.
Proprio a causa degli indiani la spedizione incontrerà tantissime difficoltà, delle quali saremo spettatori grazie agli "occhi" di William "Foggy" Johnson, che pur non avendo un attaccamento morboso per i fossili come Marsh e Cope (perennemente impegnati in una lotta ai limiti del comico), non vorrà mai abbandonarli e farà di tutto pur di portarli a destinazione, sotto gli occhi del mondo.
Questo viaggio lo cambierà totalmente, trasformandolo da giovane scapestrato a uomo fatto e finito.
"Gli indiani credono che questi fossili siano ossa di serpenti, il che vuol dire rettili. Anche noi pensiamo siano rettili. Pensano che queste creature fossero enormi. E anche noi. Sono convinti che questi rettili enormi siano vissuti in un passato molto remoto. E anche noi. Sostengono che il Grande Spirito li abbia uccisi. Noi diciamo che non sappiamo perché siano scomparsi, ma dato che dal canto nostro non proponiamo alcuna spiegazione, come possiamo essere certi che la loro sia superstizione?"
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La banda delle recluse
Dopo l'ultimo romanzo "Tempi Glaciali", uscito nel 2015 e avente come protagonista sempre il commissario Adamsberg, Fred Vargas torna con un'altra indagine del suo personaggio più conosciuto. Le storie di Adamsberg mi danno l'idea di gialli più che di veri e propri thriller, ma questo non ne intacca la piacevolezza.
Riguardo allo stile, in questo genere la Vargas è indubbiamente a suo agio: anche se "Il morso della reclusa" non ha la tensione di un thriller, l'autrice è molto abile a gestire le varie fasi e l'evolversi dell'indagine, riuscendo sempre a tenere un buon ritmo e incitando il lettore a fare le sue supposizioni prima della soluzione finale. Oltre a lasciare spazio all'immaginazione del lettore, il romanzo non è povero di colpi di scena, che anche se non sono da mascella spalancata danno comunque qualcosa in più alla storia senza sembrare forzati. Quelle che scrive sono sempre storie piacevoli da leggere e credo che la Vargas possa essere considerata uno dei maggiori esponenti del genere, anche se finora non ho letto nulla di suo che sia veramente indimenticabile.
La storia ha inizio con il nostro commissario Adamsberg che è in vacanza in Islanda, godendosi (?) un periodo di relativa quiete. Non passano che poche pagine prima dell'arrivo di un telegramma da Parigi, che lo richiama urgentemente indietro per la risoluzione di un caso apparentemente complicato. Inutile dire che sarà una bazzeccola per il nostro commissario, che lo risolverà in quattro e quattrotto. Difatti, il caso per cui è stato richiamato alla base non sarà altro che l'inizio, completamente soppiantato dall'indagine successiva, portata all'attenzione di Adamsberg totalmente per caso e che sembrerà apparentemente insolubile.
Nelle ultime settimane, infatti, sembra che un ragno apparentemente innocuo e "timido", la Loxosceles Reclusa, stia mietendo vittime in maniera del tutto inusuale. Tre anziani, infatti, sembrano essere stati uccisi dal morso di questo animale, che in condizioni normali non uscirebbe mai dal suo nascondiglio soprattutto in presenza di un uomo, e il cui veleno non è mai letale se non in dosi abbondantissime, che le ghiandole di un solo esemplare non potrebbero mai contenere. Inizialmente, dunque, tutti pensano che le morti di queste persone siano dovute alla loro età avanzata.
Ma non per Adamsberg, ovviamente, che tormentato dai suoi pruriti e dall'impressione insopportabile che in questa storia si nasconda qualcosa di losco, avvia un'indagine ufficiosa soltanto coi membri della squadra che se la sentono di seguirlo, rendendosi conto dell'assurdità delle sue supposizioni. Questo creerà una spaccatura nella squadra, costringendo Adamsberg a gestire una delle situazioni più difficili mai affrontate.
Tuttavia, procedendo nelle indagini, troverà non pochi indizi che gridano all'omicidio. I tre anziani che sono morti si conoscevano tutti, e insieme formavano "La banda delle Recluse", perché da ragazzini si divertivano a nascondere questo tipo di ragni nei vestiti degli altri bambini, provocandogli lesioni molto gravi. Da grandi, si sono dati allo stupro. Ma i membri della banda non erano soltanto tre; inizia dunque una corsa contro il tempo per cercare di impedire la morte degli altri membri della banda che, per quanto infimi, sono pur sempre esseri umani.
"I nostri tempi, commissario? Ma quali tempi? Civilizzati? Razionali? Pacificati? I nostri tempi sono la nostra preistoria, sono il nostro Medioevo. L'uomo non è cambiato di una virgola. E soprattutto non nei suoi pensieri primari."
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Generazion Perduta
Considerata la coetaneità e l'amicizia che legava Hemingway e Fitzgerald, non mi è sembrato affatto strano trovare dei punti in comune tra "Fiesta" e qualcuna delle opere dell'amico. Il punto d'unione principale sta nei personaggi che popolano questa storia, degni rappresentanti della "Generazione perduta" del primo dopoguerra. Uomini e donne distrutti da fragilità e insicurezze, completamente inconsapevoli di quello che vogliono dalla propria vita e che affogano tutto nel divertimento sfrenato ma soprattutto, nell'alcool.
Hemingway è uno di quegli autori dallo stile inconfondibile, ma non per la sua profondità (in questo era parecchio diverso dall'amico Fitzgerald), ma per la sua schiettezza, per il suo saper descrivere alla perfezione luoghi e stati d'animo senza fronzoli. Con inenarrabile maestria è riuscito a rendere alla perfezione l'ambiente spagnolo di Pamplona durante la "Fiesta" di San Fermìn, durante la quale hanno luogo festeggiamenti ininterrotti, gozzoviglie, corse coi tori (Hencierro) e corride. Mi ci sono sentito immerso.
I suoi personaggi sono delineati alla perfezione e divengono persone in carne ed ossa, capaci di generare nel lettore reazioni che avrebbe davanti ai comportamenti di persone da lui conosciute. Non è difficile capire che nella persona del protagonista l'autore ci abbia messo una buona parte di se stesso, anche se spero per lui che non fosse così arrendevole come dimostra di essere Jake nei confronti della protagonista femminile Brett, che personalmente ho odiato moltissimo. Ma credo fosse questo, l'intento di Hemingway, quello di delineare una donna tanto simile (ma molto peggiore) alla Daisy che porta alla follia Jay Gatsby.
Protagonista è un gruppo di amici che a un certo punto della storia decide di spostarsi da Parigi fino a Pamplona, in Spagna, in concomitanza della festa di San Firmino che avrà luogo a inizio Luglio. Prima dell'inizio della festa, il protagonista e il suo amico Bill (personaggio esilarante) si daranno alla pesca non molto lontano da Pamplona, e questo sembra essere l'unico momento di serenità che si troverà a vivere Jake durante tutta la storia. Sì, perché spostandosi da Parigi la sua vita non muterà di molto, muteranno soltanto il nome dei ristoranti e dei bar in cui si ubriacheranno costantemente, chi per un motivo chi per un altro. Il motivo principale è Brett, donna affascinante ma assolutamente fragile e insicura, sempre alla ricerca di nuove storie sentimentali che possano darle nuova vita. Questa sua continua ricerca la metterà sotto una cattiva luce e scatenerà non poche liti tra gli uomini protagonisti, compreso il nostro protagonista Jake, che farà sempre di tutto pur di farla felice. Ma Brett è una donna perduta come tante della sua generazione e nemmeno la pacatezza e la sicurezza del protagonista potranno scuoterla da questa sua condizione disperata, tanto è vero che non vediamo l'ora che lui si stacchi definitivamente da lei, che è una persona malsana che può fare solo del male e che ne è assolutamente consapevole.
A qualcuno, questo libro potrà sembrare privo di una trama, solo una storiella in cui i protagonisti si sbronzano continuamente e si danno a una vita frivola, ma secondo me Hemingway ha dipinto alla perfezione quella che era la situazione degli uomini della sua epoca. Che la gioventù fosse questa, a quei tempi, non era certo colpa dell'autore; si doveva chiamare "Generazione perduta" per un motivo, no?
Io trovo che Ernest l'abbia tratteggiata alla perfezione, per quanto triste e frivola potesse essere.
"Sorrise di nuovo. Sorrideva sempre, come se le corride fossero un segreto molto particolare tra noi due; un segreto un po' scandaloso, ma assai profondo, di cui eravamo al corrente. Sorrideva sempre, come se nel segreto ci fosse qualcosa di osceno per gli estranei, ma qualcosa che noi capivamo. Non bisognava svelarlo a chi non lo avrebbe capito."
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Discettazione religiosa
"Franny e Zooey" è un libro parecchio particolare, un po' come il suo autore.
Lo stile dell'autore è assolutamente unico; chi ha letto "Il giovane Holden" sa bene di che cosa parlo. Molto scorrevole, incisivo, con dialoghi fluenti che caratterizzano alla grande i personaggi; tuttavia, questo libro non mi ha colpito come mi ha colpito Holden.
I due protagonisti, che danno il nome a questo piccolo romanzo, sono i due membri più giovani della famiglia Glass, già presente in altri racconti scritti da Salinger. Le riflessioni fatte dai personaggi sono mistiche, opache, a volte inafferrabili; anche il dialogo finale tra i due fratelli, che sembra suscitare una grande reazione in Franny, mi ha costretto alla rilettura più e più volte senza lasciarmi nulla di veramente concreto. In realtà, in questo libro non accade nulla di veramente concreto: si divide in tre scene principali in cui si susseguono lunghissimi dialoghi che fanno pensare più a un'opera teatrale che a una di narrativa.
Il libro è diviso in due parti: la prima del tutto focalizzata sul personaggio femminile (Franny) che incontra il suo fidanzato in un ristorante. In questo momento della storia, Franny è già in preda ad una crisi esistenziale e religiosa, scatenatale dalla lettura di un libricino che racconta il pellegrinaggio di un contadino alla ricerca del metodo per "pregare incessantemente", come nell'esortazione fatta in un versetto della Bibbia. La lettura di questo libro scatena in Franny una crisi che la porterà a rientrare a casa completamente priva della voglia di fare qualsiasi cosa, perfino mangiare. Nella seconda parte del libro, esortato da sua madre, Zooey cerca di far ragionare sua sorella ma a causa del suo temperamento "vivace" (come un certo Holden di nostra conoscenza), non farà altro che peggiorare le cose, almeno inizialmente.
Franny e Zooey sembra una semplice discettazione sulla fede, su Gesù, sull'importanza della preghiera e sul posto che la religione occupa nella vita degli esseri umani.
Io credo che Salinger avrebbe potuto fare di meglio.
"I fatti parlano da sé, si dice, ma i fatti che ci toccano da vicino parlano, mi pare, una lingua un po' più volgare degli altri."
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- sì
- no
Cruel is the life
E' incredibile quanto Fitzgerald abbia messo di sé in questo romanzo. Mi è sembrato quasi di percepire il sangue e le emozioni che lo scrittore vi ha gettato dentro, neanche fosse un calderone in cui far ribollire tutte le sue sofferenze. Sì, perché è chiaro che almeno nei suoi personaggi chiave siano trasfigurate sua moglie; le sue conoscenze; egli stesso.
Il suo stile è di altissimo livello, assolutamente tra i più belli che mi sia trovato a fronteggiare: anche se in certi tratti può risultare pesante e di ardua comprensione, in altri si lascia andare a una prosa fluida e quasi poetica.
I personaggi di "Tenera è la notte" sono vivi, lo specchio perfetto di quegli anni Venti in cui la frivolezza e l'abbandonarsi ai "piaceri" della vita era un modo dilagante per sottrarsi ai suoi orrori. L'empatia che si crea con le personalità tratteggiate da Scottie (scusate, ma ormai questo autore lo sento mio) è profondissima: che questo sia dovuto al fatto che il loro carattere sia plasmato da persone ben note a Fitzgerald non è che un dettaglio, perché l'autore ha l'immenso merito di averli resi nel modo più umano possibile, tanto che le loro azioni e reazioni sono in grado di scatenare un turbinio di emozioni.
La trama e gli eventi possono sembrare banali, prevedibili, addirittura frivoli, ma questo non è nulla se paragonato all'affresco d'umanità che ci viene posto dinanzi: carico di contraddizioni, di conflitti interiori, di cambiamenti palpabili, dolore e gioie fugaci.
I personaggi sono l'anima di un romanzo e Fitzgerald in questo era un vero e proprio maestro, così come ho avuto modo di appurare in Gatsby (in quel caso concentrando tutto su un unico grande personaggio), e anche in quest'ultimo romanzo.
Il romanzo ha inizio con l'arrivo di Rosemary Hoyt, giovanissima e bellissima attrice Hollywoodiana, su una spiaggia della Costa Azzurra. Qui incontra Dick e Nicole Diver, due personalità straripanti, circondate da una combriccola di persone variegate che quasi li venera, pur covando in segreto i più variegati sentimenti. Il sentimento che la giovane e ingenua Rosemary proverà sarà il primo amore nei confronti del bellissimo Dick Diver, medico psichiatra non esercitante la professione e in grado di mantenersi grazie ai soldi della moglie.
L'incontro con Rosemary sarà lo snodo cruciale che cambierà la vita dell'ex dottore. Nicole Diver, difatti, è una sua ex paziente con gravi problemi di schizofrenia, follemente innamorata di lui dalla prima volta che lo ha visto e che ha sempre visto in lui l'ancora di salvezza dalla sua malattia. Dick, a suo tempo, si innamorò di quella ragazza bellissima e, pur essendo consapevole di quanti problemi può generare un rapporto intimo tra uno psichiatra e la sua paziente, decide di sposarla e ha con lei due figli.
Il tempo tuttavia, farà luce su verità dolorose e l'incontro con Rosemary sarà cruciale: gli permetterà di aprire gli occhi sulla sua vita sacrificata a una donna per salvarla dalla sua malattia, e l'uomo che per anni era stato un punto di riferimento per tantissime persone, fonte smisurata di allegria, sicurezza e mondanità, comincerà a vacillare in maniera inversamente proporzionale alla guarigione della moglie.
Il percorso che seguiamo in questo romanzo è molto triste; è doloroso osservare i cambiamenti che hanno luogo nella vita e nell'animo dei personaggi e soprattutto del nostro protagonista, eppure è uno di quei viaggi che vale la pena fare.
"Si scrive di cicatrici guarite, un parallelo comodo della patologia della pelle, ma non esiste una cosa simile nella vita di un individuo. Vi sono ferite aperte, a volte ridotte alle dimensioni di una punta di spillo, ma sempre ferite. I segni della sofferenza sono confrontabili piuttosto con la perdita di un dito o della vista di un occhio. Possiamo non perderli neanche per un minuto all'anno, ma se li perdessimo non ci sarebbe niente da fare."
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La fuga del tempo e le inutili speranze
Secondo me, Dino Buzzati ha avuto il merito di costruire una storia densa di significato senza doversi inventare una storia troppo complessa, ma scovando questa complessità nelle profondità dell'animo umano, carico di contraddizioni.
Lo stile dell'autore è di pregevole fattura, riuscendo ad essere accurato senza risultare pesante; carico di descrizioni e capace di materializzare gli ambienti nella mente del lettore, che riesce a immedesimarsi nella storia e nei personaggi perfettamente caratterizzati. I temi trattati sono molto forti, a mio avviso, provocando un forte senso di angoscia man mano che si avvicina la fine del libro, che si incupisce gradualmente fino a diventare difficilmente sopportabile. Questo perché Buzzati è molto abile nello sviscerare quelle che sono le nostre maggiori paure: lo scorrere inesorabile del tempo; l'ossessione di voler vivere una vita degna; l'avvicinarsi della morte.
La storia del tenente Giovanni Drogo è senza dubbio tristissima: una vita sacrificata nella speranza di qualcosa che potrebbe non arrivare mai e se anche dovesse farlo, potrebbe non trovarci nelle condizioni di accoglierla come vorremmo. E' questo il fulcro del "Deserto dei Tartari": l'attesa di un invasore, della guerra, che possa dare un senso a quelle vite sacrificate alla monotonia della Fortezza Bastiani, un luogo praticamente inutile considerando che mai, nei secoli, gli invasori si sono mai sognati di attraversare quelle sabbie con intenti bellicosi.
Perciò, ogni minimo segnale accende i sogni di gloria dei soldati come benzina su una fiamma sì affievolita, ma che non si spegne mai. Drogo, che inizialmente intuisce l'inutità di una vita vissuta su quella fortezza senza scopo, ne rimane invischiato senza alcuna via di scampo, contagiato dalla speranza che, tacitamente, consuma tutti. Dunque la semplice presenza di un cavallo sperduto, di un gruppo di soldati mandati a segnare la frontiera, generano in quel rudere un entusiasmo spropositato puntualmente deluso.
Ma quella fiamma non si spegne; nel cuore di Giovanni Drogo, almeno.
E' spaventoso assistere alla fuga del tempo che travolge la vita di Drogo, che continuerà a vedersi giovane, con tanti giorni di vita davanti a sé, perfettamente in tempo per aspettare i Tartari ancora un poco. Ancora un poco. Ancora una vita. Ma la vita può essere spietata, può dimenticare chi ha sacrificato tutto e donare quella gioia a chi per essa non ha gettato nemmeno una goccia di sangue, pensando solo al proprio benessere.
Il protagonista di questa storia è di quelli che non si dimenticano, in certi tratti molto simile allo Stoner di John Williams, ovviamente inserito in un contesto completamente diverso. Vorremmo gridargli quel che noi faremmo al suo posto, vorremmo che la sua vita non andasse sprecata nei corridoi di quella Fortezza dimenticata dai Tartari e da Dio ma lui, sordo alle nostre suppliche, continuerà ad andare avanti per la sua strada, verso il mare di piombo che lo aspetta a destinazione.
"Dal deserto del nord doveva giungere la loro fortuna, l'avventura, l'ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno. Per questa eventualità vaga, che pareva farsi sempre più incerta col tempo, uomini fatti consumavano lassù la migliore parte della vita. Non si erano adattati all'esistenza comune, alle gioie della solita gente, al medio destino; fianco a fianco vivevano con la uguale speranza, senza mai farne parola, perché non se ne rendevano conto o semplicemente perché erano soldati, col geloso pudore della propria anima."
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Nel paese degli ultimi
Paul Auster è un autore che mi intrigava già da parecchio, poi in seguito al successo di 4 3 2 1 ho deciso di tentare il mio approccio con lui. Ho scelto questo libro perché il titolo mi intrigava e anche per la sua mole contenuta, che ritenevo perfetta per rompere il ghiaccio.
Cosa dire, Auster è sicuramente un autore valido e leggerò sicuramente altre delle sue fatiche. Tuttavia, anche se "Il paese delle ultime cose" è un'opera che si sviluppa su un tema e una storia interessanti, non ha mantenuto del tutto le mie aspettative.
L'atmosfera ricorda un po' quella de "La Strada" di McCarthy: sicuramente meno apocalittica, ma la miseria in cui sono immersi gli uomini di questo "paese" distopico sembra essere molto simile. Mi ha ricordato anche "Cecità" di Saramago, in certi tratti, anche se non saprei dirvi precisamente per quale motivo.
L'abilità dell'autore nel dipingere questo mondo è comunque notevole, e ci si fa perfettamente l'idea di quel che vuole descrivere sia per quanto riguarda i luoghi che per gli stati d'animo. Eppure, il romanzo manca di quel qualcosa che possa renderlo indimenticabile, quel qualcosa che ti rimane dentro anche una volta che hai chiuso il libro. Inoltre, quello che da' titolo al libro mi sembra un concetto non sviscerato abbastanza, anzi.
Anna Blume parte verso il paese delle ultime cose alla ricerca di suo fratello William, un reporter che era stato inviato lì per inviare dei resoconti sulla situazione disperata in cui versa quella terra, ma che non ha mai fatto arrivare una riga. Tutti sembrano volere che desista dalla sua decisione; il Paese è un luogo da cui mai nessuno ha fatto ritorno, abbandonato a se stesso dall'indifferenza del resto del mondo, una sorta di globo a sé stante che si va mano a mano disgregando. Sottoposto continuamente a sovversioni di governo e alla sparizione di cose che cessano di esistere all'improvviso sia nella realtà che nella mente degli abitanti, quel luogo è il palcoscenico di un'apocalisse circoscritta, in cui tutti sono in povertà e barcollano tra la vita e la morte. In quella terra non sembrano esserci ricchi, o meglio, ci sono ma non si vedono mai; relegati in un paradiso invisibile che sembra impossibile da trovare in un posto come quello, eppure deve esserci. Come se il benessere non avesse il coraggio di mostrarsi.
Nel paese tutto è grigio, senza speranza, e tutti gli uomini che lo abitano sembrano vivere nella stessa miseria, nella stessa situazione disperata, riuscendo a stento a sopravvivere. Anna si ritroverà ben presto nella stessa condizione: una volta esauriti i risparmi si ritroverà a vagare per le strade, alla ricerca di qualche cianfrusaglia da rivendere in mezzo all'immondizia abbandonata, come tutti gli altri.
Come altre opere dello stesso genere, "Il Paese delle ultime cose" prova a mettere in risalto la totale mancanza di scrupoli che pervade gli esseri umani quando si trovano immersi nella miseria, quando anche la più piccola cosa è necessaria per sopravvivere. In queste condizioni Anna rappresenta la ribellione, la disperata ricerca di portare un po' di normalità straniera all'interno di quella terra perduta; ma sarà quella terra a consumare lei lentamente, insieme a quasi tutte le sue speranze.
"A un certo punto le cose si disintegrano in sozzura, polvere o rottami, e quanto rimane è qualcosa di nuovo, qualche particella o agglomerato di materia che non si riesce più a identificare. Rimane un pezzetto, un granello, un frammento del mondo che non c'è: un nulla, una cifra di infinito."
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Cecità di José Saramago
Il mestiere del Murakami
Prima di recensire questa specie di "saggio autobiografico", faccio una premessa: non ho letto nulla di Haruki Murakami. Da quel che mi è parso di capire in questa lettura, mi sembra uno scrittore abbastanza sicuro dei propri mezzi, padrone di una consapevolezza che deriva dall'essersi fatto da solo con l'aiuto di un bel po' di fortuna. Mentre leggevo ho pensato più di una volta: "che fortuna, questo Murakami!" (anche se a fortuna andrebbe sostituito un altro termine più colorito).
Lo stile che usa è abbastanza diretto, schietto, e in undici parti l'autore ci elenca qualche sua nota autobiografica in prosa e qualche consiglio sparso qua e là, dedicato agli aspiranti romanzieri.
Sarà che di lui non ho letto nulla, ma non posso dire che questo saggio mi sia rimasto impresso più di tanto, né che mi abbia suscitato importanti riflessioni o spalancato porte mentali prima sprangate: è la semplice testimonianza di uno scrittore contemporaneo di successo, che ci espone le sue opinioni su vari aspetti della vita e del mestiere dello scrittore, in maniera del tutto personale. Difatti, non gli mancherà occasione per ribadire che gran parte delle sue teorie nascondo dalle sue esperienze di vita vissuta. Tanto di cappello, comunque, per un uomo che è riuscito a realizzare appieno l'obiettivo che si è posto.
Che le opinioni esposte da Murakami in questo saggio siano personali non è certo un aspetto negativo; è ovvio che non esista una verità assoluta riguardo all'approccio che un aspirante scrittore deve avere nei confronti del mestiere dei suoi sogni, ma da un autore di discreto successo mi aspettavo qualche punto in più in comune con i grandi autori del passato, che tra loro si trovavano comunque d'accordo su alcuni aspetti essenziali.
Scopriremo quel è l'opinione di Murakami riguardo ai premi letterari; scopriremo cosa pensa riguardo alla creazione dei personaggi che popolano un romanzo e che ne rappresentano l'anima; riguardo alle varie stesure dei romanzi e alle meticolose revisioni (uno dei rari punti in comune con altri scrittori, nello specifico Raymond Carver). Tutto questo, contornato dal racconto della sua ascesa verso il successo: da quando ha avuto l'improvvisa aspirazione di scrivere un romanzo mentre era ad uno stadio di baseball, fino al suo approdo in terra straniera, allontanandosi da un Giappone con cui ha uno strano rapporto; più negativo che positivo.
Interessante, ma credo ci siano testi più validi a riguardo.
"Per quanto giusti siano gli slogan, per quanto belli i messaggi, in mancanza della forza spirituale e morale necessaria a sostenere la giustizia e la bellezza, tutto si riduce a una sequela di parole vuote."
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Zen nell'arte della scrittura di Ray Bradbury
On Writing di Stephen King
Il declino del matrimonio
Questo di Domenico Starnone è un libro abbastanza particolare, a partire dal suo stile e dal metodo scelto dall'autore per raccontare questa storia, fino all'approccio usato per affrontare un tema quanto mai scottante, nei nostri giorni: quello del matrimonio.
Il libro è diviso in tre parti: la prima racconta la fuga di Aldo dal punto di vista di sua moglie Vanda, tramite una serie di lettere scritte dal pugno di quest'ultima e indirizzate al primo, scappato per amore di un'altra donna: Lidia. Nella seconda parte si viene catapultati nel presente in cui marito e moglie si sono ricongiunti e sono ormai nel pieno della vecchiaia, e nella terza conosciamo il punto di vista dei due figli Anna e Sandro e delle ripercussioni che la lunga scappatella del padre e anche il suo rientro nella cerchia familiare hanno causato nelle loro vite, anche tacitamente. Lo stile di Starnone non è assolutamente pesante, ma se devo essere sincero non mi è rimasto impresso e in certi tratti risulta abbastanza piatto, senza mai raggiungere vette altissime. Il contenuto di questo romanzo, oltretutto, anche se tocca un tema contemporaneo e ne mette in risalto ottimamente alcuni punti, manca di quell'ispirazione senza nome che trasforma un libro normale in un ottimo libro, se non un capolavoro.
Dunque, è sulla fuga di Aldo che si basa tutta la trama di questo breve libro, e sulle ripercussioni che questa ha sulle vite di sua moglie, dei suoi figli, ed anche sulla sua medesima esistenza.
Per concedersi quella scappatella di quattro anni, che a quanto pare è l'unico periodo di tempo in cui lui si è sentito felice, il protagonista si è dimostrato disposto a sacrificare la sanità mentale di quattro persone, incluso se stesso. Se ne fosse completamente consapevole non è dato dirlo, sta di fatto che così è stato: è fuggito dalla trappola in cui si è chiuso a causa di scelte affrettate dettate dalla sua gioventù e da impulsi ancora sconosciuti, per poi tornarvi non si sa bene con che spirito. La sua è una fuga da quella che gli era sembrata una trappola: ma si può fuggire da un luogo d'oppressione e improvvisamente, provare il desiderio di tornarvi? E con quale disposizione d'animo, poi? Un uomo che ha sacrificato tutto quello che aveva in nome della propria libertà d'individuo, può tornare sui propri passi? Può volere indietro quel che ha sacrificato in passato in nome di qualcosa, sacrificando a sua volta proprio quel qualcosa?
E' alquanto contorto, lo so, ma è un po' tutto il libro ad esserlo e lo sono anche tutti i personaggi che lo popolano. Non mi sento di dire che siano inverosimili, perché in fondo, non sono del tutto fuori dalla realtà: gli esseri umani con cui conviviamo ogni giorno ci hanno abituato a stranezze ben peggiori.
Eppure... non lo so, c'è qualcosa di strano, quasi artificioso; come se si volesse a tutti i costi enfatizzare quello che è il declino (evidente, per carità), dell'istituzione matrimonio e dell'affezione naturale anche tra genitori e figli. Forse era questo l'intento di Starnone: enfatizzare questo lato triste della realtà contemporanea, portando i suoi personaggi al limite.
Il messaggio arriva, puntuale, amareggiante come dovrebbe essere, ma ne perde qualcosa il libro come entità a sé stante.
"Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie. Lo so che questo una volta ti piaceva e adesso, all'improvviso, ti dà fastidio."
Illuminante
Comincio col fare una premessa: dell'opera narrativa di Jack London ho letto soltanto "Il richiamo della foresta" e "Zanna Bianca", che ho apprezzato molto ma non considero tra i miei libri preferiti. Non credo, dunque, di essere stato influenzato dall'ammirazione che ho per l'autore, durante la lettura di questo suo saggio rivolto agli scrittori esordienti.
In certi tratti, ha evidenziato con una precisione che mi ha lasciato interdetto buona parte delle mie perplessità, dei miei dubbi. Scritto tanti anni fa e in una realtà molto diversa dal mondo editoriale moderno, questo libro è spaventosamente attuale e ne ho fatto la mia bibbia, una linea guida nel percorso che vorrei perseguire nel raggiungimento di quello che è il mio sogno in comune con l'autore di questo saggio.
Oltre alle esperienze di vita dell'autore, che sono interessantissime ed utili e invitano alla lettura del suo "Martin Eden", che è una sorta di autobiografia, troverete delle perle che non si trovano in tutti i libri di saggistica. Ma partiamo da quelle che sono le convinzioni in comune coi vari Fitzgerald, Carver, Cechov. Uno scrittore deve avere qualcosa da dire: deve attingere dalle proprie convinzioni, dalla propria filosofia di vita e renderle evidenti attraverso i propri personaggi, senza mai mostrare se stesso come narratore e senza mai dare l'impressione al lettore di voler essere un didatta. L'autore deve trasparire dalla sua opera in tutto e per tutto, ma eliminando se stesso. Più facile a dirsi che a farsi, ma davvero arguto.
Sottolinea, come gli altri, l'importanza di creare una propria voce distinguibile dagli altri, di affinarla col confronto con gli altri autori (evitando di lasciarsi scoraggiare); l'importanza iniziale di farsi un nome assecondando le volontà del mercato, che una volta avuto da noi quello che vuole sarà più propenso ad accettare quel che noi vogliamo dare al mondo, con opere più impegnative; l'importanza del lavoro: lavoro, lavoro, lavoro.
Queste sono solo alcune delle varie riflessioni fatte dall'autore, in modo schietto ed efficace. Non vi nascondo che ci sono cose che lui presenterà come verità assolute con le quali nemmeno io sono d'accordo; ho preso quel che ritenevo il meglio, e l'ho fatto mio. In fondo, nessuno vuole imitare l'uno o l'altro autore, nessuno vuole diventare identico a Jack London (oddio, forse), ma crearsi una propria voce traendo il meglio da chi ha già realizzato il sogno e gettare le fondamenta per il proprio.
Ora, quello che a me sarà sembrato illuminante, per qualcun altro potrà sembrare un'accozzaglia di stupidaggini; ma se c'è una cosa che ho capito è che i grandi scrittori del passato hanno tanti pensieri in comune, riguardo allo scrivere con qualità e alla strada da seguire per diventare scrittori, ma anche tante idee divergenti. Il trucco sta nel prendere quel che crediamo si accordi meglio con quella che è la nostra filosofia di vita e le nostre convinzioni, metterle insieme e cementificare il nostro modus operandi.
Buona parte di queste cose, le ho trovate in questo libricino. E potreste trovarcele anche voi, quindi leggetelo.
"Non spiegare la tua filosofia, devono essere i personaggi a farlo. Il lettore non vuole le tue dissertazioni sull'argomento, le tue osservazioni, il tuo sapere in quanto tale, le tue opinioni su tutto questo, le tue idee... però metti tutte queste cose che ti appartengono nelle storie, eliminando te stesso. E questa sarà l'atmosfera, e questa atmosfera sarai tu, capisci? Tu, tu! Solo allora sarai un artista e non un artigiano."
Indicazioni utili
Nuotare sott'acqua e trattenere il fiato di Francis Scot Fitzgerald
Nè per fama nè per denaro di Anton Cechov
Zen nell'arte della scrittura di Ray Bradbury
On Writing di Stephen King
On Writing di Hernest Hemingway
Per (ri)scrivere occorre una cura maniacale
Ultimamente mi sto cimentando in letture che possano essermi utili nella mia crescita da aspirante scrittore, dunque una serie di saggi e di raccolte di lettere scritte dai più grandi autori passati e contemporanei. Dunque, non poteva mancare tra questi "Il mestiere di scrivere" di Raymond Carver, da tutti additato come uno dei maggiori testi da tenere in considerazione, in questo ambito.
Il contenuto di questo libro è apprezzabile soprattutto da chi ha letto qualcosa di Carver, che potrà ritrovare in queste pagine l'essenza vera e propria dell'autore, ed è interessante scoprire alcuni lati della sua vita privata e la percezione che lui stesso aveva del suo mestiere. Si tenga lontano chi crede che qui siano raccolti dei consigli specifici o delle vere e proprie lezioni per aspiranti scrittori.
Diviso in varie parti (di cui l'ultima è un elenco di esercizi di scrittura a sfondo Carveriano), alcune sono narrate dallo stesso Carver, altre sono estratti di lettere e testimonianze di persone che avevano conosciuto l'autore, ma anche la trascrizione di una lezione che ha tenuto ad uno dei corsi di scrittura creativa in cui insegnava.
Dalle pagine traspare la passione che Carver aveva per il suo mestiere, un mestiere che ha ottenuto con il duro lavoro, l'umiltà e una specie di reverenza per il linguaggio, che è uno strumento da adoperare con grande cautela, quasi con timore di comprometterne la sacralità. Per lui le parole, la punteggiatura, possono avere la stessa forza di un'azione vera e propria, se adoperate nella maniera adatta.
Come tanti altri scrittori del passato - compreso Cechov, a cui si è ispirato tantissimo non per lo stile di scrittura, quanto per la concezione che ne aveva - Carver era convinto che uno scrittore debba avere qualcosa da dire, qualcosa che poi prenderà vita nelle pagine da lui scritte, che non saranno altro che il risultato di quello che lo scrittore vede, sente e vive intorno a sé filtrato dalla sua interiorità, dalle sue esperienze di vita.
Carver era un "revisionatore seriale", divertito dalla fase di riscrittura e convinto che fosse una parte fondamentale nella stesura di una storia. E' interessante notare questo aspetto anche nel suo approccio con gli studenti, nella trascrizione di una sua lezione: è chiara l'attenzione maniacale che da ad ogni singola frase, il peso che per lui deve avere e la necessità di omettere quello che non è necessario e approfondire quel che può interessare il lettore senza aver paura di dilungarsi.
Non illuminante come altri testi dello stesso genere, "Il mestiere di scrivere" è comunque un testo interessante per chiunque voglia addentrarsi nel mondo della narrativa (ma principalmente per chi si diletta con i racconti, meno per i romanzieri), ma anche per chi ama Carver e vuole approfondire le sue metodologie e il suo modo di vivere il proprio mestiere.
"[...] se le parole e i sentimenti sono disonesti, se l'autore bara e scrive di cose che non gli stanno a cuore o di cui non è convinto, allora non può aspettarsi che qualcun altro mostri interesse per il racconto."
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Nuotare sott'acqua e trattenere il fiato di Francis Scot Fitzgerald
Nè per fama nè per denaro di Anton Cechov
Zen nell'arte della scrittura di Ray Bradbury
On Writing di Stephen King
Non il miglior Lansdale
Partiamo dal presupposto che adoro Joe R. Lansdale e che finora, non ho trovato davvero deludente nessuno dei suoi libri. “Bastardi in salsa rossa” non è da meno, anche se credo che tra quelli che ho letto non sia tra i meglio riusciti.
Quella di Hap e Leonard credo che sia una delle coppie meglio riuscite del panorama poliziesco, sicuramente unica nel suo genere e spassosa oltre ogni dire.
Dunque, se amate già questi due detective, non esitate a leggere la nuova storia di cui sono protagonisti, anche se non è brillante come le avventure passate. Se vi state accostando a Lansdale per la prima volta vi consiglierei di cominciare con altro, come “Paradise Sky” o una delle prime avventure di Hap e Leonard.
Ormai dipendenti della compagna di Hap e della sua agenzia investigativa, i due protagonisti si ritroveranno a indagare su un caso che in quanto a guadagno è ben poca cosa, ma in quanto a guai... beh, saranno tanti come al solito. Una donna di colore si presenterà in ufficio, raccontando loro di come sua figlia sia stata trattenuta ingiustamente e molestata da una banda di poliziotti corrotti di un quartiere malfamato: Camp Rapture. Il fratello di lei, deciso a vendicarsi, comincia a piantare grane a quei poliziotti, che non esiteranno un istante ad ammazzarlo di botte per il disturbo. La donna chiede ai due di indagare, e si renderanno presto conto di quanta lordura nasconde quella storia, di quanto il crimine sia penetrato a fondo anche nella polizia.
Si troveranno di fronte avversari senza scrupoli, pronti ad ammazzare chiunque possa rappresentare per loro un problema, ma anche personaggi divertenti e tipici dell’opera di Lansdale.
Anche se con qualche cedimento e qualche forzatura, “Bastardi in salsa rossa” è una storia piacevole, ma senza troppe pretese. Varie cose vengono lasciate in sospeso e il finale è probabilmente un po’ affrettato, di qui il mio voto basso per quanto riguarda il contenuto. Vale la pena leggerlo anche solo per godere della simpatia dei due protagonisti, ma per quanto riguarda la trama è chiaro che non ci troviamo di fronte al miglior Lansdale, Il suo stile e la piacevolezza dei suoi libri rimangono a un buon livello, ma non al massimo.
Ripeto, se dovete iniziare a leggere Lansdale, partite da altro; se già lo apprezzate e non sapete che libro scegliere, tenetelo in considerazione.
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Serenità perduta
Il rapporto tra me e Simenon è abbastanza controverso. E' chiaro che abbiamo qualche problema di approccio, considerando che sono soltanto agli inizi riguardo alla lettura della sua estesa opera. E' fuor di dubbio che sia uno scrittore di livello, ma ancora non è scattata la scintilla, tra noi due.
Per quanto "L'orologiaio di Everton" sia un giallo di buon livello, con numerosi risvolti psicologici che possono indurre a riflettere, ancora non posso dire che tra me e lo scrittore belga si sia creata quella sinergia lettore-scrittore che avverto quando leggo, ad esempio, un McCarthy o un King. Devo dire, però, che il potenziale c'è e che la voglia di leggere altro, nel suo repertorio, è piuttosto viva.
Lo stile di Simenon riesce a catturare, a rendere l'idea della vita inizialmente monotona del protagonista, Dave Galloway, un orologiaio che svolge ogni piccolo gesto della sua vita come fosse un dovere da adempiere necessariamente in un certo modo e ad una certa ora. La sua vita si divide tra il suo lavoro, suo figlio Ben (di cui è l'unico a prendersi cura dopo la fuga di sua moglie) e un unico diversivo settimanale, che è una serata passata nella veranda del suo vicino, Musak. Galloway è un uomo intrappolato nella sua routine, ma non se ne lamenta, come se sapesse che in fondo, l'abitudine, è solo un altro modo per dire "serenità".
Quando suo figlio Ben scapperà di casa insieme a una vicina, lui sembra completamente incapace di reagire, bloccato com'era nella sua vita sempre uguale. Difatti, in seguito al disastro, quella serenità che si era guadagnato sembra essere la cosa che rimpiange di più, una serenità di cui suo figlio era parte fondamentale.
Il lettore si troverà a scrutare i mutamenti della vita di Dave, un uomo che soltanto alla fine sembra essere in grado di scuotersi dal torpore e indagare sui motivi che hanno spinto suo figlio a fare quello che ha fatto; perchè non si è certo limitato a scappare di casa. Per gran parte del libro non basteranno poliziotti, commissari, avvocati, giudici a scuoterlo da quella specie di dormiveglia che lo fa agire quasi casualmente, arrendevole agli eventi e alla volontà degli altri come una bandiera al vento.
Non volendo rovinare a nessuno la sorpresa, è stato il finale a non convincermi del tutto. Ho sperato che la genialità di Simenon mi colpisse come un pugno sulla faccia. Non è stato così, nonostante dia una spiegazione soddisfacente dei fatti e dei motivi che hanno spinto Ben a fare quello che ha fatto, indagandone i risvolti psicologici. Però, ad essere sincero, non mi hanno convinto del tutto.
Resta comunque una bella lettura, ma forse, va fatta dopo aver letto quelli che sono i capolavori dello scrittore.
"Non era più la sua casa, la loro casa. Gli oggetti avevano perso ogni fisionomia e il letto di Ben, sul quale lui, Dave, stava disteso fino a poco prima, era solo un normale letto che conservava la traccia di un corpo."
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L'incanto dell'amarezza
"Cavalli Selvaggi" entra di diritto tra i libri che mi sono rimasti nel cuore. Dopotutto, viene dalla penna del mio autore preferito. Eppure, questo non è stato sempre garanzia di apprezzamento, perché ci sono stati libri di Cormac McCarthy che non ho apprezzato moltissimo, come "Meridiano di Sangue". Ad essere sincero, ho temuto che "Cavalli Selvaggi" fosse spaventosamente simile all'opera sopracitata. Le prime pagine, infatti, contengono una serie di descrizioni del paesaggio che i cavalieri si trovano ad attraversare, così come in Blood Meridian. Anche se le descrizioni di Cormac McCarthy sono meravigliose, evocative e a volte quasi poetiche, all'inizio tutto sembra statico a parte i due protagonisti. Vi dirò, per più di un quarto del libro si è fatto spazio nella mia mente il pensiero che, forse, l'autore avesse toccato il suo apice con "Suttree" , "La strada" e "Il buio fuori"; che in quelle opere avesse messo tutto quanto di meglio aveva da dire. Mi sbagliavo clamorosamente. A un certo punto la storia prende il suo via, e non ci lascerà un attimo di tregua.
Avendo perso ogni legame con la propria terra e quasi tutti quelli che lo legavano alla propria famiglia, John Grady Cole parte insieme al suo amico Rawlins, diretto oltre il confine che separa l'America dal Messico. Lungo la strada incontrano un ragazzetto, Blevins, armato e in sella a un bellissimo cavallo. Un gran bel tipo, quel Blevins, un mascalzone che li getterà nei guai, ma per il quale non si può che provare una fortissima tenerezza. Forse, insieme al protagonista, è il personaggio più riuscito. Il rapporto che si crea tra i tre cavalieri è anomalo, una sorta di amore-odio che li renderà un trio unico, mai visto prima. Il legame che si crea tra il lettore e i tre protagonisti è fortissimo, come quello che lega il protagonista ai cavalli; ci entreranno nella mente, nel cuore, e verremo travolti da ogni evento insieme a loro. Eventi che li cambieranno per sempre e di quali ci sentiremo quasi partecipi in prima persona, tanto sarà forte il legame che McCarthy è stato in grado di creare tra il lettore e i suoi personaggi.
Rideremo, piangeremo, staremo in ansia. In questo romanzo, merce rara per l'opera di McCarthy, farà la sua comparsa anche l'amore romantico. Ma non fatevi illusioni: Cormac non è un tipo da fiori d'arancio, nè tantomeno è un uomo che ha un buon rapporto col lieto fine. E' un realista ai limiti del pessimismo. Ed è un gran bastardo, ci aggiungerei, ma almeno io non posso fare a meno di amarlo. Come si può non rimanere affascinati dalla sua visione del mondo, delle cose, anche se in certi tratti non la si condivide appieno? La scrittura di McCarthy è amara, tanto, tanto amara, ma contiene sprazzi di verità che appartengono soltanto ai grandi pensatori, a uomini che con le proprie riflessioni e la propria profondità d'animo hanno avuto il coraggio di scavare negli angoli melmosi dell'anima umana. Questa storia mi ha sconvolto il cuore, mi ha suscitato un turbine di emozioni che soltanto i grandi libri riescono a scuotere.
Io non so come sia possibile che quest'uomo non abbia ancora vinto il Nobel. Non lo so davvero.
"[...] si sentì solo come non gli era più capitato da quando era bambino, totalmente estraneo al mondo che pure continuava ad amare. Pensò che la bellezza del mondo nascondeva un segreto, che il cuore del mondo batteva a un prezzo terribile, che la sofferenza e la bellezza del mondo crescevano di pari passo, ma in direzioni opposte, e che forse quella forbice vertiginosa esigeva il sangue di molta gente per la grazia di un semplice fiore."
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Tre sfumature d'ossessione
Dall'inventore della celebre serie Mad Men, ecco a voi una storia che un grandissimo autore noir che è James Ellroy definisce "Un noir perfetto". Sarei curioso di sapere se siano state letteralmente queste le sue parole o se siano state estratte e trattate così da rendere il libro più vendibile. Se un libro che ci viene presentato come noir viene definito "perfetto" da uno dei più grandi esponenti del genere, la curiosità nasce spontanea. Questa tattica può essere però un'arma a doppio taglio: se da un lato può attirare più lettori poco informati e registrare migliori vendite nei primi giorni, si carica di un'aspettativa molto maggiore che può essere facilmente delusa. Perciò, chi si ritrova a commentare il suddetto libro può ritrovarsi ad essere più spietato di quanto sarebbe stato se gli editori fossero stati un po' più "umili". Di conseguenza, i lettori che arriveranno successivamente potranno essere influenzati da quel giudizio, inquinato da eccessive aspettative.
Proverò a sottrarmi a questo fattore, per quanto mi è possibile.
Weiner scrive discretamente, senza infamia e senza lode. Bisogna dire che perlomeno non annoia, ma se avesse annoiato con un libro così breve (tanto da sembrare quasi un racconto), ci sarebbe stato da preoccuparsi seriamente. "Heather, più di tutto" è questo, un racconto con qualche buona idea ma niente di più. Certo, la storia da' vari spunti interessanti soprattutto verso la fine, ma è un'opera ben lontana dall'essere indimenticabile, figuriamoci essere perfetta. Tuttavia non mi sento di stroncare totalmente quest'opera, forse perché mi rendo conto che si tratta di una vera e propria occasione sprecata. Perché il talento dell'autore c'è (come dimostrato in Mad Men), ma questa storia è talmente breve e sbrigativa che il lettore non può fare altro che rimanerne spiazzato. La stessa Heather, che da' il nome al libro, sembra essere stata trattata con superficialità, regalando al suo approfondimento non più di qualche breve paragrafo.
Tutto inizia col matrimonio tra Karen e Mark; lei una bellissima donna con una evidente difficoltà ad imporsi e con una bassa autostima, e lui un uomo non molto bello e con un discreto successo, ma che non riesce a spiccare definitivamente il volo. Il frutto di questo variopinto matrimonio darà alla luce una piccola bambina che sarà la loro ossessione e la loro delizia: Heather.
Heather è una ragazzina che crescendo dimostra di poter avere la bellezza della madre e il successo del padre, se non molto di più. Fin da piccola riceve tutte le attenzioni morbose della madre, che dimostra a lei un attaccamento assolutamente eccessivo. Ecco la prima ossessione.
In contrapposizione alla vita perfetta di Heather e famiglia, c'è la vita di Bobby, nato in un ambiente sudicio e cresciuto (o sarebbe meglio dire ignorato) da una madre che è un'accozzaglia di tutti i vizi peggiori: ubriacona, drogata, tossica, che cambia un fidanzato al giorno. Come poteva mai crescere un ragazzino circondato da una simile realtà? Tra violenza e anni di carcere si ritroverà a lavorare come operaio nel palazzo dove vive Heather, per delle ristrutturazioni. Inutile dire che non le passerà inosservata. Seconda ossessione, da cui deriva la terza, quando il padre si accorge delle attenzioni (pericolose?) dell'operaio.
Una lettura piacevole, ma senza troppe pretese.
" [...] gli rivelò che anche lei, come lui, aveva sofferto per la crudeltà della gente, ma era arrivata a capire che non possiamo mai arrivare a vederci come ci vedono gli altri, e che non è un problema sembrare isolati a patto di ricordare che siamo diversi da come veniamo visti."
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Un incubo americano
Una lettura che continuavo a rimandare, come se sentissi quanto sarebbe stato difficile portarla a termine.
Roth veste i panni del Tolstoj d'oltreoceano e in "Pastorale Americana" ci offre un affresco di quell'America del dopoguerra che prometteva tanto, che sembrava offrire soltanto successo e niente di peggio, ma che nei suoi angoli nascosti celava lati oscuri che avrebbero distrutto i cuori e le menti di chiunque.
Questa è letteratura vera e propria, con tutti i pro e i contro che ne derivano. Ciò che Roth descrive potremmo sentirlo lontano se consideriamo l'arco temporale che la storia raccontata comprende (almeno per chi è giovane come me) e per il luogo in cui si svolge, ma lo sentiamo nostro in quanto esseri umani, perché ciò che ci affligge va oltre le generazioni, il dolore ci insegue come se per lui il tempo non scorresse e ci raggiunge ugualmente; non importa quanto cambino gli scenari mondiali, il dolore si adatta. Le cause scatenanti potranno cambiare, ma lui è sempre lì, pronto ad assalirci.
Al centro della storia c'è proprio questo: una famiglia che si sforza di essere normale, composta da persone che avrebbero tutti i requisiti e anche più per essere felici, gettata nel baratro dal caos e da un'America che promette grandi cose ma non può garantirle a tutti; un'America che dietro a una facciata di onestà e gloria, cela mostruosità di cui la guerra in Vietnam era soltanto l'inizio.
Al centro di questa storia c'è Levov detto "Lo Svedese", leggenda del liceo di Weequahic ed eccellente giocatore di baseball, basket e football. Tutto, nella vita dello Svedese, sembrava essere proiettato verso il successo. Tutti avrebbero voluto essere Lo Svedese, o almeno essergli amico. In lui erano incanalate le speranze di una nazione, quando lo vedevi correre per un campo, prendere a spallate gli avversari o centrare perfettamente la palla con una mazza, potevi credere che tutto andasse bene, che quella Seconda guerra in realtà fosse solo un'invenzione e che l'unica cosa che contava era vedere quel prodigio umano sbriciolare record su record.
La vita dello Svedese era destinata ad essere indimenticabile, e l'America sarebbe stata il suo palcoscenico perfetto.
Ma lo Svedese non sceglie di calcare un qualsiasi tipo di campo sportivo, decide di prendere in mano l'azienda di guanti di suo padre e portarla avanti con successo. E' un uomo buono che va d'accordo con tutti, che riesce a superare alla grande alcuni dei periodi neri che la storia del suo paese gli pone davanti.
Poi sposa Miss New Jersey ed ha una meravigliosa figlia. Merry. Meravigliosa sì, ma fino all'adolescenza, fin quando l'America le sbatte in faccia quella che era la sua realtà di quel tempo. La guerra in Vietnam, i monaci che si danno fuoco per protesta, i bambini che muoiono di fame. Merry è una bimba nata nel posto sbagliato, al momento sbagliato. Una bimba che intraprende una strada che potrebbe essere ammirevole ma decide di percorrerla nel modo sbagliato, portando distruzione nella propria vita, in quella dei suoi cari e in quella degli altri. Come può Meredith Levov, figlia del mitico Svedese, che vive in una specie di paradiso in cui nulla sembra poter andare storto, fare una fine simile?
Pastorale Americana è la cronaca di un sogno americano, quello di Seymour Levov Lo Svedese, che va in mille pezzi nel fragore di una bomba, una bomba tirata dalla sua stessa figlia.
"La vita di Levov lo Svedese, per quanto ne sapevo io, era stata molto semplice e molto comune, e perciò bellissima, perfettamente americana."
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Overlook Hell
Credo di poter dire che il nome di Stephen King, in questo ultimo biennio, sia in uno dei suoi momenti di più grande auge. Ebbene sì, perché dopo la serie tv ispirata a 22/11/'63, dopo lo strano adattamento cinematografico de La Torre Nera e quello interessante del suo grande capolavoro che ha come protagonista Pennywise il Clown ballerino, Stephen King sta trovando nuovi proseliti che grazie a queste innumerevoli proposte fatte alle masse si avvicinano anche alle sue opere cartacee.
Io ero già un tuo estimatore, caro Stephen, ma non posso nascondere che il tuo "Shining" ho iniziato a leggerlo proprio perché, sull'onda di questi successi sullo schermo, il 31 Ottobre e il 2 Novembre verrà riproposto l'adattamento di Stanley Kubrick che ha come protagonista quel Jack Nicholson al massimo del suo splendore. Ho già prenotato il biglietto, ma non avendo mai visto nemmeno il tanto acclamato film, potevo mai presentarmi in sala senza aver letto la tua fatica che ha partorito quello che tutti acclamano come un capolavoro del cinema?
Avevo poco più di due settimane per leggere "Shining", ma come mi capita sempre col caro Stephen, ho finito ben prima. Scorrevole e intrigante come sempre, ho divorato anche "Shining", anche se ad essere sincero non lo considero accostabile ad altri capolavori che hanno avuto adattamenti meno acclamati. Sì, perché quello che adoro di questo autore è la capacità di emozionare, e devo dire che nonostante la storia dell'Overlook Hotel e della famiglia Torrance sia misteriosa e intrigante, non colpisce emotivamente nel profondo. E' comunque una lettura piacevole e interessante, assolutamente un must soprattuto per gli estimatori del Re.
Jack Torrance è angustiato da problemi finanziari che minacciano la stabilità della sua famiglia, composta da lui, sua moglie Wendy, e suo figlio Danny. Da sempre afflitto da problemi di alcool che hanno messo in serio pericolo il suo matrimonio, decide di smettere di bere, ma nonostante questo si ritroverà a fare una stupidaggine che gli farà perdere il posto di lavoro. Il suo status di disoccupato lo costringe ad accettare una proposta di impiego, quella di guardiano invernale dell'Overlook Hotel, luogo controverso su una montagna nel Maine, completamente isolato nella stagione delle nevi. Lui e la sua famiglia dovranno passare mesi e mesi da soli, in quel luogo che nelle sue stanze nasconde qualcosa di strano, etereo, mortifero. Lo sa bene il piccolo Danny che, aiutato dal dono dello "Shining", o aura, è in grado leggere nei pensieri delle persone e di penetrare a fondo nelle cose, vedere le disgrazie passate e ancor peggio quelle future, che a quanto pare coinvolgono lui e la sua famiglia in prima persona. Nella mente di Danny, è chiaro che quell'albergo nasconde segreti tenebrosi che possono portare soltanto guai. Morte. E l'Overlook sembra avere una strana influenza su suo padre Jack, che vedrà pian piano riaffiorare i demoni che lo hanno sempre afflitto e che credeva di aver sepolto.
Cosa nasconderà la stanza 217, dalla quale il cuoco Dick Hallorann(anche lui dotato di un pizzico di "aura") ha detto al piccolo Danny di stare alla larga? Quali tragedie nasconde il passato oscuro dell'Overlook Hotel? Cosa ne sarà di Danny e della sua famiglia?
Scopritelo in questa lettura, in cui il re dell'orrore e della paura ci catapulterà in un luogo di follia e morte in cui siamo orribilmente soli, insieme alla famiglia Torrance.
Inutile dire che non vedo l'ora di vedere il film, anche se lo stesso King non ne è un grande estimatore.
"Comunque, tutti noi abbiamo in corpo una certa dose di schizofrenia."
Un Langdon atipico
Dopo la quinta avventura che ha come protagonista il professore di simbologia Robert Langdon, si può finalmente dire: Dan Brown ha scelto la sua collocazione tra gli scrittori contemporanei, e non ha la minima intenzione di smuoversi da quel modus operandi che lo ha portato al successo con quei due capolavori che sono "Il codice da Vinci" e ancor di più "Angeli e demoni". Le storie di Langdon sono, in fin dei conti, tutte molto simili tra loro, solo proposte in "salsa" diversa.
Origin non fa eccezione, anche se a quest'ultima fatica manca una componente importante che da sempre ha contraddistinto lo scrittore statunitense, e che probabilmente gli dava un qualcosa in più: la componente artistica e misteriosa. Si, perché mentre nelle sue vecchie avventure ritroviamo un Langdon alle prese con le opere dei più grandi artisti della storia, tra i capolavori del Louvre, del Vaticano, L'ultima cena di Leonardo, L'inferno del maestro Botticelli, alla ricerca di indizi nascosti che possano portarlo allo step successivo dell'avventura, in Origin tutto questo è non dico assente, ma quasi. A discapito della copertina, che suggerirebbe tutt'altro(giusto per informarvi, la "Creazione di Adamo" non ha alcun ruolo nella storia, se non quella di copertina che possa rimandare al tema del libro), l'arte ha lasciato il posto alla tecnologia.
Per carità, Dan Brown si legge con piacere e ti tiene incollato alle pagine; è uno degli autori di intrattenimento più capaci che esistano attualmente sulla scena, che fa sapiente uso delle sue doti per trasmettere alle masse informazioni storiche e artistiche in maniera che sia piacevole. E' l'autore che più mi fa prendere lo smartphone per informarmi e saperne di più su tutto quello che cita e inserisce nelle sue storie. Di certo non potevo aspettarmi una profondità che, in fondo, non è mai stata nel suo stile. Ma, bisogna dire, che mi è parso non molto ispirato e spero che non abbia dato fondo a tutte le sue risorse.
Il nostro caro Langdon, oltre a recarsi tra varie difficoltà nel luogo dove si nasconde il suo obiettivo, fa poco altro. Inoltre, l'attenzione è stata data a una moltitudine di personaggi, a discapito dello stesso protagonista che abbiamo imparato ad apprezzare. Ma andiamo nel dettaglio.
Robert Langdon si trova al museo Guggheneim di Bilbao, invitato da un suo vecchio allievo(e caro amico) diventato un futurologo ultramiliardario, che ha organizzato un evento in quel museo allo scopo di svelare la sua più recente scoperta, la quale promette di essere una rivoluzione alla pari se non superiore a quelle di Darwin, Copernico e tanti altri luminari della scienza del passato. La scoperta di Kirsch promette di rispondere scientificamente alle due domande che affliggono l'uomo dall'alba della specie: "Da dove veniamo? Dove andiamo?". Inutile dire che l'imminente annuncio di Kirsch ha attirato milioni di persone in tutto il mondo, ma anche l'attenzione di esponenti religiosi che farebbero di tutto per metterlo a tacere, salvaguardando la fede nel mondo. Persone senza scrupoli, che nonostante la realtà che rappresentano non disdegnano l'uso di sicari, pur di salvaguardare il proprio Dio.
Durante la presentazione avviene qualcosa che nessuno si aspetta, che comprometterà la trasmissione del video in cui è contenuta la verità. Langdon, accompagnato dalla solita donna di bell'aspetto, che sara nientemeno che la promessa sposa del principe di Spagna, e da un'intelligenza artificiale potentissima di nome Winston progettata dallo stesso Kirsch, si troverà lanciato alla ricerca di una password nascosta(nemmeno troppo bene). Le energie mentali e le competenze di Langdon non verranno messe a dura prova come al solito, come ci piaceva vedere, ma si troverà immischiato quasi in una "caccia al tesoro" nemmeno troppo complessa.
Insomma, "Origin si legge con piacere, ma manca quel qualcosa in più che ha sempre contraddistinto Dan Brown, e questo mi ha fatto storcere un po' il naso. Spero che questa fase discendente che è iniziata con "Il simbolo perduto", non sia irreversibile.
Per concludere, il tema di questa storia mette in risalto come la tecnologia stia prendendo il sopravvento in questa nostra società contemporanea, quasi assorbendola. E' un bene? Un male? Non saprei, ma una cosa la posso dire: in questo libro è stato sicuramente un male, perché ha tolto parecchio di quel fascino che il nostro passato, per quanto imperfetto, emana, e che Dan Brown era bravo a portare alla nostra attenzione.
Efficienza a discapito della bellezza, quella vera. E' questa la direzione che stanno prendendo umanità e letteratura? Speriamo di no.
"Fin dalla notte dei tempi, la mente umana si è continuamente evoluta, e non starà certo a me impedire questo sviluppo. Dal mio punto di vista, però, non c'è mai stato un progresso dell'intelletto che non abbia incluso Dio."
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un uomo relegato da se stesso
Non trarre delle riflessioni dalle opere di Dostoevskij è un'impresa praticamente impossibile. Il russo è uno dei letterati più ispirati e profondi di tutti i tempi, che indaga l'animo umano fino ai suoi recessi più oscuri e anche oltre, portando il lettore a interrogarsi su varie sfaccettature esistenziali.
Riguardo allo stile di un autore del genere, ritengo sia superfluo soffermarsi, anche se in parte è chiaro che questa è l'opera che fa da apripista alle più importanti che seguiranno.
Questo libro è una specie di monologo, una confessione divisa in due parti. Nella prima, il nostro protagonista ci espone il suo modo di vedere le cose; è un uomo che si è ritirato nei recessi della società, nel sottosuolo, perchè non in grado di vivere in pace con essa. Egli si considera superiore agli altri ma allo stesso tempo si rende conto di quanto la sua condizione miserevole sia dovuta solo e soltanto a sé, alle sue paranoie e al suo esasperare qualsiasi cosa. Eppure, in alcune delle sue riflessioni si scorgono dei tratti di profonda verità, ma il suo portarle all'estremo non gli permetterà di vivere una vita serena, bensì lo relegherà nell'angolo più oscuro di quel mondo che tanto disprezza.
Nella seconda parte del libro verremo a conoscenza di un racconto della durata non superiore ad un paio di giorni, un racconto in cui questo essere abietto viene fuori in tutte le sue sfaccettature, brillando di un'incoerenza spaventosa ed esasperante. Venire a contatto con una tale personalità diventa addirittura opprimente, e assistere alla sua scostanza e alla sua incapacità di vivere in società risulta ripugnante per la maggior parte del tempo. Egli non sa rapportarsi, non sa mantenere un rapporto amicale, non sa amare; in tutto vede un'offesa alla sua persona, o quantomeno una mancanza di considerazione. Per lui, gli altri non gli attribuiscono il valore che merita, quando a conti fatti anche lui disprezza se stesso.
Dostoevskij ci porta davanti agli occhi l'apoteosi dell'asocialità, della superbia, della scarsa fiducia in sé stessi celata in una maschera di sicurezze ostentate, ma in fin dei conti fasulle.
Il protagonista guarda il mondo con disprezzo, ma in fondo al cuore vorrebbe farne parte. A causa del suo temperamento e del suo carattere impossibile non riuscirà mai a farne parte, rassegnandosi(in teoria ma non in pratica) a vivere per sempre in quel sottosuolo.
"Ora poi concludo l'esistenza nel mio angolo, stuzzicandomi con la rabbiosa e del tutto inutile consolazione che una persona intelligente non può nemmeno diventare seriamente qualcosa, ma diventa qualcosa solo chi è stupido."
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Misterioso (anche troppo)
Questo libro di Peppe Fiore che mi accingo a recensire è misterioso per vari aspetti.
Ma partiamo dal principio: sulla quarta di copertina questa storia viene definita "un noir dei sentimenti". Ora, non volendo dare a questa affermazione il suo significato letterale (perché del genere noir questo libro ha ben poco), voglio dedurre che sia riferita al fatto che l'autore cerca di indagare nei lati oscuri dell'essere umano. Ora, è evidente il tentativo di Peppe Fiore di scendere a fondo nella psiche dei personaggi (soprattutto del protagonista Daniele), ma questo suo proposito si rivela efficace solo in alcuni tratti e in maniera nemmeno troppo profonda. Quello che meno mi è piaciuto è il poco approfondimento delle vicende, che alla fine scadono nel confusionario. Non si capisce chi ha fatto cosa; non si capisce quale sia il tormento che affligge il protagonista, cosa lo abbia causato e quali siano stati i suoi errori passati e futuri; non si trova il bandolo della matassa.
La psicologia del protagonista ruota tutta intorno a un personaggio, suo fratello Franco, con cui avremo a che fare poco o nulla se non con la mediazione di Daniele. Al termine della mia lettura la sensazione dominante era una diffusa incompiutezza, perché tanti sono gli interrogativi che apre questa storia, ma pochi sono quelli che vengono realmente chiusi (almeno in maniera chiara) al suo termine. La domanda che mi è sorta spontanea è: ma fai che ci sia un seguito? Se anche la risposta fosse sì (ma non credo), leggerei il seguito ma con qualche riserva, perché questa era secondo me una storia da portare a termine in questo stesso libro.
Dunque, non poche perplessità mi hanno accompagnato soprattutto nelle ultime pagine, quando mi sono reso conto che ancora troppe cose non trovavano spiegazione e si avvicinava inesorabile la fine del libro, e se anche fossero state soddisfatte tutte insieme... ho i miei dubbi che la scelta avrebbe funzionato.
Però, prima di rendermi conto che l'autore tardava a chiudere il cerchio, devo ammettere che la lettura è stata piacevole e lo stile dell'autore è abbastanza scorrevole e preciso nei dettagli, soprattutto per quanto riguarda l'ambientazione, che a mio modo di vedere è resa in maniera ottima e si lascia facilmente immaginare.
Peccato.
Tutto ha inizio con i due fratelli, Franco e Daniele, coinvolti in una brutta situazione vicino allo stadio di Fiumicino. Tutto ruota sui problemi del fratello del protagonista, ex calciatore di serie inferiore e malato cronico di gioco d'azzardo, sempre in debito con gente poco raccomandabile. Quella allo stadio non sarà la prima né l'ultima volta in cui i due fratelli si troveranno nei casini(sempre per colpa di Franco), ma dopo questo breve racconto tutto si sposta immediatamente su una montagna a Trecase, vari anni dopo, in un bar ormai abbandonato di una vecchia meta sciistica dismessa in seguito a una tragedia. Una ragazza salita con la sciovia è incredibilmente sparita vari anni prima, col suo corpo ritrovato mutilato. In paese tutti credono che il colpevole sia un orso, anche se la presenza di un animale del genere è alquanto improbabile in un posto come Trecase. Tuttavia, quando Daniele arriva sul posto per rimettere in piedi il bar, sembra che Trecase sia pronta a diventare nuovamente una meta turistica.
Fino a quando non viene travolta da una nuova tragedia.
Incompiuto.
"Franco gli aveva detto che amava la carambola perché il panno verde era un posto che seguiva le regole. Colpisci bene la palla, la palla colpisce un'altra palla, la palla va in buca. La colpisci male, la palla finisce sulla sponda, sei fregato. Erano solo stupidi pezzi di legno foderati di alluminio e verniciati, gettati nel mondo per rotolare e cozzare tra loro e nient'altro. Come gli esseri umani. Eppure gli esseri umani, così gli aveva detto suo fratello, si fossero comportati con un decimo del raziocinio delle palle da biliardo, lui non avrebbe avuto tutti i casini che aveva."
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Khmer e Barang
Nella mia vita non ho letto tantissimi romanzi di viaggio, nè ho mai letto altre opere di Lawrence Osborne, ma questo titolo mi ha attirato per la sua ambientazione, un luogo che almeno una volta nella vita vorrei visitare: la Cambogia, coi suoi templi(specialmente Angkor Wat) e le sue tradizioni.
L'ambientazione è ben descritta, forse anche troppo, considerati i detagli che spesso rendono la lettura meno scorrevole. E' un romanzo che richiede più impegno di quello che mi sarei aspettato, uno sforzo che viene però controbilanciato(anche se non del tutto), dalla resa perfetta dei luoghi descritti, dei profumi, dei sapori, delle tradizioni, di una cultura così diversa dalla nostra. E' ovvio che l'autore sa di cosa sta parlando e ne abbiamo la conferma nella pagina dei ringraziamenti, in cui omaggia un suo caro amico che è sopravvissuto a un campo di sterminio durante il genocidio cambogiano sotto il regime dei Khmer Rossi, il quale coi suoi racconti fati all'autore ha ispirato questa storia.
Incontriamo il nostro protagonista Robert durante la sua vacanza(anche se sarebbe meglio dire fuga) in Cambogia. Robert è un giovane professore d'inglese, stanco della vita che conduce da sempre in una terra natia che non gli manca affatto. Robert decide che, forse, la Cambogia è il luogo adatto per ricominciare, un luogo che sente affine alla propria anima nonostante gli innumerevoli difetti che presenta in bella mostra. Ad aiutarlo nella sua scelta di ricominciare da zero è un'importante vincita in uno dei tanti casinò del paese; vince una cospicua somma di denaro che gli regala una sicurezza economica pronta a spalancargli porte sprangate fino a poco tempo prima.
Un uomo che vince tali somme, però, non passa inosservato in un paese in cui gli abitanti sono pochi e i barang(bianchi) sono ancor meno, e Robert non è esente da questa regola. La sua vincita innescherà una serie di eventi e di incontri che gli cambieranno la vita, che lo porteranno a credere a cose che prima riteneva superstizioni impossibili, che lo avvicinerà a quella cultura che farà sempre più sua e che gli entrerà silenziosamente nell'anima.
Sullo sfondo, la Cambogia ancora sconvolta dal suo passato difficile, da una Rivoluzione che ha lasciato ferite non ancora cicatrizzate, ferite che hanno segnato un popolo ancora convalescente, ma che sta provando lentamente a rialzarsi. Al passato dei Khmer(cambogiani), rappresentati in questa storia dal controverso poliziotto Davuth, si contrappone il passato dei barang rappresentati dal nostro protagonista, e da questo contrasto nascerà una storia interessante, scritta discretamente, ma che vi terrà impegnati più di quanto crediate.
E' comunque uno di quei libri che lascia qualcosa, dunque vale la pena dargli un'occasione.
"Anche la loro tristezza era diversa. Veniva dagli anni Settanta, epoca che qualsiasi cinquantenne ricordava con lucidità. Era la tristezza delle generazioni che avevano perso tutta la gioventù per niente e la cui unica via d'uscita era dimenticare. La tristezza dell'Inghilterra, invece, stava precisamente nella sua portentosa memoria, nel rifiuto di dimenticare alcunché."
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Alle porte di un altro mondo
Prosegue con "La chiamata dei tre" il mio viaggio nella saga de La Torre Nera.
Stephen King riesce a mantenere l'atmosfera che avevo apprezzato molto nel primo libro(seppur diversificandola un po'), permettendoci di proseguire il viaggio che avevamo iniziato insieme a Roland di Gilead: il pistolero, l'ultimo cavaliere.
La trama rimane intrigante e chiarisce alcuni punti oscuri della storia ma, considerando che siamo ancora all'inizio, ne introduce degli altri su cui verrà sicuramente fatta luce in seguito. L'autore riesce a mantenere alto l'interesse, nonostante in certi tratti la storia risulti un po' ripetitiva a causa delle condizioni precarie dei protagonisti. A tratti frenetici si alternano tratti un po' piatti e monotoni, che però non compromettono la bellezza della storia né il piacere della lettura.
La storia riprende proprio da dove l'avevamo interrotta: Roland è disteso sulla spiaggia e quando si risveglia si ritrova colto di sorpresa dall'alta marea. Una sopresa sicuramente non piacevole, considerando che l'acqua ha bagnato le pallottole, rendendone inservibile una gran parte. Ma al peggio, come si sa, non c'è mai fine. Dalle acque profonde vengono fuori dei mostri simili ad enormi aragoste, con chele velenose e letali, mostri sussurranti delle domande inquietanti e incomprensibili. Roland esce da questa battaglia parecchio provato, e il morso di una di queste creature gli porterà un'infezione che sembra volerlo uccidere lentamente. L'unica cosa che può salvarlo sarebbe un miracolo oppure... una medicina. Arrancando, si imbatterà nell'adempimento delle profezie fatte dall'uomo in nero tramite i tarocchi: il pistolero dovrà chiamare a sé tre uomini, che dovranno portarlo più vicino al suo obiettivo, alla sua meta: la torre nera.
Ci ritroveremo catapultati in un mondo a noi molto familiare, un mondo che per il pistolero è assolutamente estraneo; eppure sarà da lì che proseguirà il suo viaggio verso il compimento dei suoi misteriosi propositi.
Un ottimo seguito per una saga che cattura l'attenzione e intriga come poche.
"Non si vede mai tutto ciò che si vede. Una delle ragioni per cui vi mandano a me è perché vi mostri ciò che non vedete in ciò che vedete, ciò che non vedete quando avete paura o state combattendo o correndo o scopando. Nessun uomo vede tutto ciò che vede, ma prima che siate pistoleri, e mi riferisco a quelli di voi che non andranno a ovest, vedrete in un solo sguardo più di quanto certi uomini vedono in una vita intera. E qualcosa di ciò che non vedrete in quello sguardo vedrete in seguito, con gli occhi della memoria, sempre che viviate abbastanza a lungo da ricordare. Perché la differenza che passa dal vedere al non vedere può essere la differenza tra il vivere e il morire."
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Odissea evolutiva
A quanto pare ultimamente sono attratto dalle letture sulle quali sono basati grandissimi film. Stavolta è stato il turno di "2001: Odissea nello spazio" di Arhur C. Clarke, da cui è stato tratto l'omonimo film di Stanley Kubrik, giudicato capolavoro assoluto della storia del cinema ma che non ho ancora avuto il piacere di vedere. Preferisco di gran lunga leggere prima i libri.
A mio modesto parere, il libro può piacere o non piacere. Lo stile di Clarke non lesina termini scientifici (pur senza essere insostenibile), la qual cosa può far storcere il naso ai profani ma che certamente delizia i divoratori della letteratura fantascientifica. In alcuni tratti il libro è abbastanza lento, quasi sfiancante, salvo poi diventare avvincentissimo nei punti focali della storia. Non so quanto ci sia del libro nell'omonimo film, ma di sicuro le basi che pone l'opera di Clarke non sono pochi, anche per quanto riguarda la profondità di contenuti che pone le sue basi sull'evoluzione umana e su quello a cui potrà arrivare col progresso tecnologico e cognitivo.
L'odissea ha inizio agli albori della storia umana, quando gli uomini erano ancora nella fase embrionale del loro sviluppo mentale. Gli uomini-scimmia stanno morendo di fame, il cibo scarseggia e non hanno ancora imparato a cacciare. Eppure, non sembra che gli possano fare dei grossi passi avanti in tal senso, fin quando non appare un misterioso monolito che sembra ipnotizzarli e regalargli capacità che prima non sembravano avere. Da qui, si fa un balzo in avanti nell'evoluzione umana, arrivando al tempo in cui gli uomini hanno colonizzato la luna, la quale nasconde un segreto che può cambiare il futuro della razza umana, un futuro che punta dritto verso Saturno. Quella sarà la meta dell'astronave Discovery e del suo equipaggio, che comprende anche il supercomputer Hal 9000, avanzatissimo calcolatore che sarebbe perfettamente in grado di dirigere la missione in autonomia.
2001: Odissea nello spazio è un viaggio di scoperta, alla ricerca di altri abitanti delle stelle, altri esseri viventi che probabilmente hanno reso l'uomo quello che è. Esseri che possono donargli le capacità per fare un passo ulteriore nell'evoluzione.
"Non serbò alcun ricordo conscio di ciò che aveva veduto; ma quella notte, mentre sedeva rimuginando all'imboccatura del rifugio, le orecchie sintonizzate sui rumori del mondo circostante, sentì i primi lievi fremiti d'una nuova e potente emozione. Era una sensazione vaga e diffusa d'invidia... di insoddisfazione per la propria vita. Non aveva la benché minima idea di ciò che la causava, e tantomeno del modo di guarirla; ma lo scontento era entrato nell'anima sua, ed egli aveva mosso un piccolo passo verso l'umanità."
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A volte il miglio verde è così lungo...
Stephen King è un autore straordinario e se tornasse ai fasti di quel tempo in cui scrisse questo capolavoro che è "Il miglio verde", avrebbe tante altre perle meravigliose da regalarci.
"Il miglio verde" (che ha avuto un adattamento cinematografico di assoluto successo con Tom Hanks come protagonista) è stato per lo scrittore una specie di esperimento letterario, un tentativo di ritorno all'epoca dickensiana, in cui le storie venivano pubblicate spesso e volentieri sulle riviste, a puntate. Beh, non so dirvi quanto l'esperimento sia andato a buon fine sotto l'aspetto delle vendite, ma il tomo che ne è stato generato è un vero e proprio capolavoro. Scorrevole, profondo e avvincente anche se, ahinoi, profondamente triste. Inadatto ai cuori deboli, ma assolutamente da leggere per chi avrà la forza di reggere le sfaccettature di cruda realtà che ci pone davanti.
Paul Edgecombe è il capo delle guardie del cosiddetto Miglio Verde, il corridoio che dalle celle dei condannati a morte porta al destino che li attende: la sedia elettrica, meglio conosciuta come Old Sparky. Sarà lui il nostro narratore, facendoci fare la conoscenza di personaggi variegati e interessantissimi, a partire dalle guardie del penitenziario, tra i quali Percy Wetmore, personaggio tra i più negativi e odiosi del panorama letterario. Faremo la conoscenza del piccolo topolino Mr. Jingles, che diventerà compagno inseparabile di uno dei detenuti, Delacroix, formando la coppia che, almeno io, ho amato di più. Ma l'uomo che è il fulcro di questa storia e che cambierà le vite di tutti è solo uno: John Coffey.
John è un grosso uomo di colore accusato dello stupro e dell'omicidio di due bambine, ritrovato a sbraitare e piangere disperatamente coi loro corpi insanguinati tra le mani. Ci vuole poco a condannare a morte un uomo del genere, in queste condizioni. Ma John Coffey presto mostrerà di possedere un dono particolare, che farà crollare le certezze di tutti, e la sua mansuetudine non farà altro che accentuarne l'intensità.
"Il miglio verde" per il lettore è un vero e proprio viaggio tra le menti dei protagonisti, un pentolone di riflessioni ed emozioni così intense da lasciare scossi e a bocca aperta. Riflessioni sulla vita, sulla morte, sul pentimento, la colpa. Quando tra il lettore e i personaggi si creano legami profondi come tra queste pagine, è difficile che queste non nascondano un libro meraviglioso. Ho sempre avuto un debole per le storie che regalano emozioni intense, positive o negative che siano, ma credo che sia così un po' per tutti i lettori.
E allora, cosa state aspettando per leggere uno dei più grandi capolavori del Re?
"La prima mattina passò e il primo pomeriggio, poi il primo turno di lavoro. Il tempo si prende tutto, il tempo lo porta via, e alla fine c'è solo oscurità. Talvolta incontriamo altri in quell'oscurità e talvolta li perdiamo di nuovo là dentro. E' tutto quello che so, salvo che tutto questo avvenne nel 1932, quando il penitenziario statale era ancora a Cold Mountain. E anche la sedia elettrica, naturalmente."
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Per un pugno di energia
Credo che nel mondo della letteratura, Isaac Asimov sia uno di quegli autori che meglio incarnano quel genere uomini che scrivono di ciò che conoscono. Nelle sue pagine traspare chiaramente la sua enorme conoscenza scientifica, combinata con una eccelsa scrittura e una fantasia (a volte profetica) fuori dal comune.
"Neanche gli dèi" non è altro che un'ulteriore dimostrazione di questo concetto, e credo che Asimov sia un autore parecchio complicato: se hai amato un suo libro non è detto che tu non possa odiarne un altro, perché le sue storie pur avendo un'impronta simile hanno storie che possono differenziarsi anche di molto. Questa storia non è forse una delle sue migliori, seppur scritta abilmente e chiudendo alla perfezione un cerchio narrativo diviso in tre parti, ognuno inquadrato da angolature molto lontane e diverse tra loro. Soprattutto la seconda parte, quella scritta dal punto di vista degli abitanti del para-universo (poi scoprirete chi sono), risulta parecchio ostica ma non si può negare che fornisca un affresco perfetto del mondo che l'autore vuole disegnare.
Tutto ha inizio quando, quasi casualmente, un scienziato di nome Hallam scopre che in un contenitore che fino a poco tempo prima conteneva del tungsteno, è comparso un nuovo tipo di plutonio, che per le leggi atomiche del nostro universo non potrebbe esistere. Dopo una serie di studi, verrà fuori che quest'elemento è stato introdotto dagli abitanti di un altro universo, un universo completamente diverso dal nostro in cui il tungsteno è un elemento altrettanto impossibile da ottenere in certi stati particolari e che può essere essenziale per la loro sopravvivenza. Inizia così uno scambio di elementi che fa comodo ad entrambi i mondi, ma che crea controversie in alcuni esponenti nel mondo scientifico, che temono che questi scambi creino degli squilibri a livello atomico e infine possano portare all'esplosione del nostro Sole. La Pompa Elettronica, nuovo ritrovato progettato dai para-uomini e costruito dagli uomini per favorire gli scambi, è un mezzo che ci porterà presto alla distruzione, ma nessuno pare volerlo accettare, pur di non rinunciare alle comodità che ne conseguono. Primo oppositore alla teoria apocalittica sarà Hallam, portato alla gloria dalla sua fortunosa scoperta e restio ad ammetterne gli spaventosi rischi.
Ma la verità non potrà nascondersi per molto.
"Contro la stupidità neanche gli dei possono nulla."
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The gunslinger
Mi sono accostato alla celeberrima saga de La Torre Nera incredibilmente affascinato e, devo ammetterlo, attirato dalla prossima uscita del film(anche se a quanto pare avrà poco a che vedere col libro).
"L'ultimo cavaliere" è per stessa ammissione di King un libro scritto da un autore ancora alle prime armi, con tutti i difetti che questo comporta. Però devo dire che già si intravede la genialità e la fantasia che hanno fatto di King uno dei più grandi autori contemporanei. La storia de la Torre Nera è affascinante e nel suo primo capitolo non fa altro che introdurci in un mondo oscuro e tutto da scoprire.
"L'ultimo cavaliere" non è un capitolo da mandibola spalancata, anzi, devo dire che se non fosse per una seconda parte avvicncente e un finale davvero meraviglioso sarebbe risultato un po' piatto. A conti fatti però, si rivela la premessa perfetta per una saga che si preannuncia epica. Da acquolina in bocca.
"L'uomo in nero fuggì nel deserto e il pistolero lo seguì": quale incipit migliore per racchiudere le vicende de "L'ultimo cavaliere"? (Tralasciamo l'indegna traduzione dal titolo originale "The Gunslinger"). In fondo, le vicende raccontate nel libro non sono che questo: un inseguimento. Ma ridurre tutto a questo sarebbe decisamente riduttivo. Roland Deschain è l'ultimo dei pistoleri, una stirpe di uomini che si sono distinti per il proprio coraggio e le proprie abilità, ma della cui fine non verremo ancora a conoscenza. Sappiamo solo che Roland ne è l'ultimo superstite, che la sua missione primaria è quella di raggiungere la Torre Nera e che inseguire l'Uomo in Nero è quello che deve fare per perseguire il suo scopo.
Nel corso del suo pellegrinaggio-inseguimento, Roland intraprenderà un percorso che lo porterà a scoprire lati nascosti del suo animo e a riscoprire sentimenti seppelliti ormai da troppo tempo; un passato quasi dimenticato. In quel mondo desolato incontrerà una serie di personaggi che lo guideranno nel suo viaggio fisico e spirituale, che raggiungerà il suo snodo cruciale nell'incontro con Jake, un ragazzo proveniente da un mondo a Roland sconosciuto ma stranamente familiare. Tra le sabbie del deserto e montagne da scalare esploreremo questa dimensione in rovina, scavando nel suo passato, presente e futuro, e scoprendo che ha tante cose da dire e innumerevoli lati oscuri e misteriosi su cui potremo far luce soltanto proseguendo la lettura di questa promettentissima saga.
"Quando i traditori vengono proclamati eroi (o gli eroi traditori, ipotizzò nella sua grave cadenza meditativa), dev'essere segno di tempi. Tempi davvero bui."
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In cima al Sumeru
Come ogni anno, in seguito alle premiazioni dello Strega nasce in me la voglia di leggere l'opera che si è aggiudicata la vittoria di uno dei premi più prestigiosi della letteratura italiana; una voglia che non viene assecondata quasi mai, magari perché ero scoraggiato dalla mole troppo esagerata del libro vincitore (vedi "La scuola cattolica di Edoardo Albinati), vuoi perché ero impegnato in altre letture che non potevo interrompere. "Le otto montagne" di Paolo Cognetti, invece, mi ha trovato in un momento favorevole e devo dire che mi intrigava, perciò l'ho comprato e l'ho letto, carico di curiosità.
Devo dire che, pur non avendo letto le altre opere in gara, Cognetti non ha assolutamente disonorato lo Strega con la sua vittoria, perché questo libro è assolutamente meritevole di un premio. Il suo stile è piacevole, carico di dettagli senza mai risultare pesante, riflessivo ed efficace, oltre a lasciar trasparire una profonda conoscenza di tutto ciò che l'autore racconta. E' evocativo, in certi tratti.
All'inizio di questa storia, Pietro è ancora un ragazzino che si ritrova costretto a trasferirsi a Milano; ma non sarà tanto lui a soffrire il cambiamento, ancora troppo piccolo per capire, quanto i suoi genitori, che della città non sanno nulla e sono amanti sinceri delle montagne in cui sono cresciuti. Molto presto però, scopriranno il paesino di Grana, ai piedi del Monte Rosa, e compreranno una piccola casetta in cui passare le proprie estati e poter rivivere le gioie passate, le gioie che solo la montagna può regalare.
Pietro cresce in questo contesto, con nove mesi senza gioia da vivere in città (dei quale il lettore non saprà nulla, perché privi di importanza) e un'estate in cui potrà godersi quel mondo al quale scoprirà di appartenere e dove stringerà l'amicizia di una vita, quella con il giovane montanaro Bruno.
Quella tra Pietro e Bruno sarà un'amicizia che non farà altro che crescere nel corso degli anni, congelandosi nei mesi in cui Pietro deve tornare in città per poi ritrovarsi per nulla scalfita in quei mesi estivi in cui la montagna apre le braccia e li accoglie dopo un inverno rigido. Quei due giovani ragazzi cresceranno fino a diventare uomini, affrontando le difficoltà e le prove che la vita mette davanti a tutti e subendo un'evoluzione a cui nessuno può scampare, nel bene e nel male.
La montagna è una spettatrice di tutte queste evoluzioni, di questi tormenti e queste gioie di vita, ma non si limiterà a godersi lo "spettacolo", essa è il fulcro intorno al quale ruotano queste vite; un ostacolo da superare; una meta da godersi; un pericolo da non sottovalutare.
La montagna è un'entità mistica, una metafora della vita e del viaggio che, ogni giorno, ci ritroviamo ad affrontare.
"Cominciai a capire un fatto, e cioè che tutte le cose, per un pesce di fiume, vengono da monte: insetti, rami, foglie, qualsiasi cosa. Per questo guarda verso l'alto, in attesa di ciò che deve arrivare. Se il punto in cui ti immergi in un fiume è il presente, pensai, allora il passato è l'acqua che ti ha superato, quella che va verso il basso e dove non c'è più niente per te, mentre il futuro è l'acqua che scende dall'alto, portando pericoli e sorprese. Il passato è a valle, il futuro a monte. Ecco come avrei dovuto rispondere a mio padre. Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa."
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L'apoteosi del nonsense
Un libro così controverso non poteva fare altro che generare emozioni di eguale natura. Il paese disegnato da Lewis Carroll fa fede al suo nome. E' un luogo in cui tutto è meraviglia, a partire dai paesaggi fino ad arrivare ai suoi variopinti abitanti.
Non stupisce che questa storia abbia tanto affascinato le tre sorelle Liddell (tra cui quella Alice che ha ispirato almeno il nome della protagonista), piccole amiche di Carroll che quest'ultimo soleva intrattenere coi suoi racconti, compreso questo. E' una lettura perfetta da fare ai propri figli e la scrittura di Carroll sembra fatta per essere letta ad alta voce, rendendo evidenti le sue origini di racconto non scritto.
"Alice nel paese delle meraviglie" è piacevole, divertente nel suo nonsense. A mia opinione, però, è sicuramente più apprezzabile dai bambini, che nelle sue lande fantastiche possono sentirsi a proprio agio, perché quando si è bambini non si deve necessariamente dare una spiegazione a tutto e questo libro è rivolto soprattutto a chi di spiegazioni non ne chiede. La stessa Alice, nel suo vagabondare, smetterà di chiedere spiegazioni ai folli personaggi che popolano i suoi sogni, personaggi affascinanti come lo Stregatto, la Regina di cuori, il Cappellaio e la Lepre Marzola, ma tutti completamente fuori di testa. A un certo punto, la piccola Alice abbandonerà i tentativi di capire le loro affermazioni, smetterà di chiedersi perchè nel Paese delle Meraviglie le cose funzionano in un modo così diverso dalla vita reale e semplicemente vi si abbandonerà.
Ed è la stessa cosa che deve fare il lettore, per poter apprezzare l'opera di Carroll.
In fondo, è raro che chiediamo una spiegazione ai nostri sogni e quando lo facciamo, una volta trovatone il senso, ci rendiamo conto che questo è nascosto soltanto in alcuni dei suoi dettagli e che molte altre cose che ci sono in mezzo non hanno spiegazione alcuna.
Alice e il suo Paese delle Meraviglie non sono altro che questo: un sogno, che in pochi dei suoi tratti può nascondere un pizzico di senso, mentre tutto il resto non è altro che un viaggio da godersi senza fare domande.
"In un paese dove la Meraviglia è vanto
Dove sognando passano i giorni ma non l'incanto
Dove sognando muoion le estati e il loro manto.
Eternamente allor sulla corrente scivolate via...
La vampa dorata che su voi indugia è pur la mia...
La vita, se non è sogno, sai che sia?"
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Le avventure di un mascalzone di buon cuore
Dopo aver incontrato Huckleberry Finn come personaggio secondario ne "Le avventure di Tom Sawyer", eccomi qua a commentare il libro che gli è interamente dedicato.
Mark Twain è un autore davvero spassoso, e la sua scelta di lasciar raccontare le avventure di questo libro al suo protagonista è sicuramente azzeccata, oltre che ben riuscita. Difatti, non aspettatevi un libro scritto nel linguaggio impeccabile di uno scrittore affermato, bensì attendetevi la trascrizione di un racconto come ce lo farebbe quel mascalzone di Huck Finn, che come sempre suscita un'immensa simpatia.
Ritroveremo Huckleberry Finn così come lo abbiamo lasciato al termine del racconto dedicato al suo amico Tom Sawyer: arricchito (anche se non avrà modo di usare nemmeno un dollaro del tesoro trovato nella miniera) e "addomesticato" contro la sua volontà dalla vedova Douglas, che tenta invano di insegnargli le buone maniere e un modo di vivere rispettabile. Inutile dire che il nostro Huck non è per nulla abituato a questo genere di vita e non passerà troppo tempo prima che provi ad abbandonarlo. Quando finalmente ci riuscirà sarà nel modo che meno auspicava: rapito dal suo padre ubriacone, viene rinchiuso in una baita, dalla quale riesce a scappare inscenando il proprio omicidio. Si ritroverà così a vagare lungo il fiume Mississippi, imbattendosi in altri personaggi degni di nota, come il servo di colore Jim che diventerà un suo grande amico e compagno di viaggio. Si ritroveranno coinvolti in varie avventure che potrebbero quasi rappresentare dei racconti separati tra loro, se non fossero uniti da quel filo conduttore che è il fiume sul quale navigano.
Si imbatteranno in personaggi di ogni tipo, a partire dall'amico Tom Sawyer, passando per due mascalzoni che li coinvolgeranno nelle loro malefatte e che si spacciano per due nobili (un duca e un re). Saranno proprio questi ultimi due a dare vita agli stralci più divertenti del libro. Un libro certamente piacevole, anche se a tratti sale al lettore la voglia di prendere a schiaffi il protagonista e quella faccia di bronzo che è Tom Sawyer.
"[...] e mi sentivo tormentato dai rimorsi, perché sapevo benissimo che mi ero comportato male, e capivo che era inutile provare a comportarmi da persona perbene. Chi non comincia a comportarsi bene da bambino, non c'è più niente da farci, quando arriva il momento buono non trova niente che lo guida, e così continua a far male."
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Essere un buon poliziotto
Due appuntamenti con Don Winslow, due libri memorabili; dopo "Il cartello", "Corruzione" è un altro grande libro sfornato da uno degli scrittori contemporanei più capaci e giustamente acclamati.
Il suo stile è unico, accurato eppure leggero. Dalla prima all'ultima pagina ci si rende conto che l'autore sa di cosa sta parlando: immergendo dei personaggi ben caratterizzati in un contesto che conosce e descrive in maniera eccelsa, imbastendo una storia che seppure trova il suo climax nella seconda metà del libro, non è mai noiosa. I personaggi poi, soprattutto il protagonista, sono indagati a fondo e il lettore si ritrova legato a loro e riesce anche a scoprire la causa profonda di tutte le loro azioni, anche le più scabrose.
Dennis Malone è il poliziotto più popolare di New York. Potresti non sorprenderti di trovare in galera il capo della polizia, il sindaco o anche il presidente degli Stati Uniti, ma se dovessi vederci il detective Denny Malone, allora c'è qualcosa che non va.
Eppure è così che la storia di "Corruzione" ha inizio, per poi partire con un flashback alla scoperta di cosa ha portato quel poliziotto insospettabile a finire dietro le sbarre.
New York è un covo di corrotti, un mondo in cui anche chi dovrebbe essere incorruttibile accetta favori e regali, anche da persone che dovrebbe sbattere in galera. Mafiosi, narcotrafficanti.
Malone non è da meno: "il re di Manhattan North" è, insieme ai suoi partner, tra i più corrotti della città. Tutti lo conoscono, tutti lo rispettano, perché è anche grazie a lui che criminali veri e propri e criminali subdoli conducono i propri sporchi affari. Ben presto però, i segreti e le persone coinvolte nel giro diventano troppe, e quando un uccellino inizia a cantare allora è probabile che in molti lo seguano, innescando un effetto domino che travolgerà anche Malone. Il detective si ritroverà immerso in un fiume di eventi che lo trascineranno verso l'oblio, verso un'oscurità impenetrabile e senza via d'uscita. In una New York affrescata in maniera impeccabile, della quale vengono messi in scena i lati più oscuri, i conflitti d'interesse, le discriminazioni e le lotte razziali, e ovviamente la corruzione dilagante, andrà in scena uno dei polizieschi più appassionanti degli ultimi anni. Una città in cui i buoni non esistono e anche la persona più insospettabile potrebbe riservare delle sorprese.
Spettacolare.
"La vita, pensa Malone, cerca di uccidere tutti. E ci riesce sempre. A volte anche prima della tua morte."
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Perfidia
L.A. Confidential
Sorcio di nome e di fatto...
Essendo un grande amante dei gialli, era da parecchio tempo che volevo avvicinarmi al prolificissimo Georges Simenon, inventore del celeberrimo commissario Maigret. In mezzo alla sua vasta opera, mi è capitato fra le mani "Il Sorcio", appena pubblicato da Adelphi. Considerata l'ottima opinione che la maggior parte dei lettori ha per lo scrittore belga, credo di essere stato non poco sfortunato. Sì perché, mi dispiace dirlo, ma questo giallo è davvero anonimo, sia per quanto riguarda lo stile che per quanto riguarda la trama.
È lecito dire che mi aspettavo molto di più?
La narrazione è lenta, marca di mordente e non lascia alcuna voglia di approfondire il mistero né ci trascina nella lettura, se non in un paio di occasioni. La banalità della storia (che paradossalmente è resa difficilmente fruibile al lettore), mi ha fatto nascere un solo desiderio: quello che le pagine finissero il prima possibile.
Mi dispiace per Simenon, ma credo che in giro ci siano gialli decisamente migliori. Unica nota lieta è il personaggio che dà il nome al libro: "il Sorcio"; un vecchio barbone alsaziano abbastanza simpatico e disinibito che si ritrova suo malgrado al centro di eventi spiacevoli (ma se l'è anche voluta).
Il Sorcio vagabonda per le strade di Parigi ormai da molti anni e la notte trova ospitalità nei vari commissariati della città. Non essendo comunque un criminale, il giorno dopo è libero di scorrazzare nuovamente per le strade. Una sera, mentre cerca di guadagnarsi qualche spicciolo, si imbatte in un cadavere che nasconde un portafoglio rigonfio di dollari. Ammaliato dall'idea di comprare una casetta per sé in cui vivere gli ultimi giorni della sua vecchiaia, il Sorcio elabora un piano. Decide di tacere la vista del cadavere e raccoglie i soldi in una busta che poi presenta agli oggetti smarriti; di certo il cadavere non si sarebbe presentato per chiederli indietro, e perciò dopo un anno sarebbero diventati suoi di diritto. Ma il Sorcio non ha fatto i conti con il commissario Lucas, con l'ispettore "Scorbutico" Lognon, con gli assassini "derubati" e con degli importanti uomini d'affari, che lo trascineranno in un turbine di disavventure.
Concludendo, se volete accostarvi a Simenon vi consiglio di scegliere un altro libro, perché questo pur non essendo pessimo è assolutamente evitabile.
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Stella Karenina
Vi starete chiedendo perché, nel mio titolo, abbia messo un chiaro riferimento al famosissimo personaggio di Lev Tolstoj. Beh, perché non ho potuto fare a meno di cogliere varie analogie tra "Follia" e "Anna Karenina", principalmente nelle protagoniste, ma anche per situazioni specifiche della trama.
Ma procediamo con ordine.
McGrath ha uno stile fresco e scorrevole: vi ritroverete a divorare questo libro a tratti davvero avvincente; ad entrare in empatia con i personaggi, anche se l'unico realmente amabile è il narratore, lo psichiatra Peter Cleave, che si erge al di sopra di tutti in quanto a morale e umanità. Stella, invece, è una di quelle personalità che si possono amare, odiare o compatire, a seconda del lettore che si trova a "giudicarla". Personalmente, l'ho odiata come ho fatto con la Karenina (prima analogia).
Stella è la moglie del promettente psichiatra Max Raphael, appena trasferitasi con lui e suo figlio Charlie in una villa all'interno della struttura psichiatrica in cui suo marito sarà vicedirettore.
L'incontro fatale sarà quello con Edgar Stark, paziente in semilibertà che lavora nella loro serra per ristrutturarla. Stark è un ex scultore internato per una gelosia ossessiva, che lo ha portato a uccidere sua moglie e ad infierire sul suo cadavere. Silenziosamente, tra Edgar e Stella nasce una passione irrefrenabile, favorita dall'insoddisfazione di lei a causa di quel marito freddo, totalmente dedito al lavoro e spaventosamente simile ad Aleksej Aleksandrovic Karenin (seconda analogia, che comprende personaggio e situazione).
Da qui scaturirà una serie di eventi tragici, che manderà completamente in malora la vita di tutti i personaggi principali, trascinati nell'oblio dalla follia dei due amanti che, completamente rapiti dal loro "amore" (puah!), se ne fregheranno di tutte le conseguenze e delle persone a cui stanno facendo del male. Personalmente, devo dire che pur apprezzando la penna dell'autore, la scorrevolezza e i colpi di scena, non ho amato questo libro, così come non ho amato il capolavoro russo (terza analogia, ma strettamente personale). E' probabile che il mio scarso entusiasmo sia generato dall'antipatia che i personaggi come Stella (e Anna) generano in me, ma sospetto che sia dovuto anche al fatto che la psicologia di Stella non mi ha convinto del tutto. A parte tutto è una lettura che consiglio, anche perché starà a voi cogliere la quarta analogia. Se avete letto Anna Karenina ci arriverete, sono sicuro.
"Era come se lo sentisse al suo fianco, sempre. Aveva imparato a fidarsi di lui. Senza una ragione al mondo, ovviamente, o forse proprio per questo, sì, perché si stava convincendo che la fiducia, e la speranza e l'amore sono tali in quanto nascono e crescono a dispetto della ragione."
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Cime Tempestose
La distopia dei bambini divorziati
Tendo ad essere sempre buono, quando do dei voti. Ma stavolta davvero non ce l'ho fatta. Sebbene il libro sia leggero e si lasci leggere, perché l'autore possiede uno stile fresco e divertente, il contenuto di questo romanzo mi ha lasciato abbastanza interdetto.
E' incredibile come un romanzo possa capovolgere sé stesso e l'opinione che il lettore ha di lui nel giro di poche pagine. Nel bene e nel male. Peccato che nel caso di "Divorziare con stile" sia in male. Sì, perché il romanzo comincia bene: Vincenzo Malinconico è un personaggio ben riuscito, sincero, schietto, simpatico. Il romanzo offre un preludio piacevole alla storia che pensi andrà a raccontare. Poi inizi a chiederti, ma la storia che mi si presenta sul retro, ma quando cavolo inizia? Risposta: tranquillo che inizia, ma non dura più di 50 pagine su oltre 370. Vabbè, pensi, è comunque una lettura piacevole. Poi iniziano i campanelli d'allarme.
Entra in scena un personaggio dopo l'altro, tutti paurosamente simili tra loro. Tutti sboccati come se dire parolacce fosse una virtù, tutti uomini e donne di mezza età immaturi oltre ogni dire. Il romanzo diventa silenziosamente una distopia popolata da uomini arrabbiati o delusi dal mondo, un mondo in cui il concetto di famiglia "felice" è completamente bandito e tutti sono divorziati in perenne scontro con i propri ex, o perlomeno si cornificano senza pudore a vicenda e magari sono pure contenti. E ovviamente, tra le cause, l'autore ci butta pure la tecnologia cadendo in un cliché che si fa sempre più frequente. Okay, capisco che i tempi sono cambiati, ma a un certo punto della lettura mi sono chiesto: "Ma in che razza di mondo vive De Silva? Che tragedie familiari assurde ha vissuto?".
In certi tratti il libro ti strappa delle risate sincere, soprattutto nelle riflessioni personali di Malinconico, ma queste ben presto diventano troppe, troppo invasive, e diventa anche chiaro che sono opinioni sfacciatamente dell'autore, che così entra nella storia in maniera troppo marcata. Queste mie riflessioni (anche un po' spietate), mi hanno travolto tutte insieme quasi alla fine del libro, in un modo che sinceramente ha stupito anche me, perché fino a poco prima lo avevo apprezzato.
Vincenzo Malinconico è un avvocato sfigato e nemmeno troppo preparato. All'improvviso viene contattato dalla moglie bellissima di un avvocato importante, che gli chiede di assisterla nella causa del suo imminente divorzio. Veronica Starace Tarallo. Manco a dirlo, la bella signora ci proverà con lui. Ma questa è soltanto una delle varie storie che "riempiono" le pagine di questo romanzo: la vendetta verso un giudice di pace odiato all'unanimità; il matrimonio della figlia di Malinconico e la presunta omosessualità di suo figlio; una rimpatriata tra compagni di classe. Eccolo qui, il momento cruciale: la cena con gli ex compagni. E' qui che si raccolgono tutti i difetti del romanzo e ci urlano in faccia per farsi notare. Tutti i campanelli d'allarme, che prima avevano qualche sfumatura piacevole, diventano un terremoto. La cena è un'accozzaglia di quasi 50enni senza uno straccio di maturità, che se ne dicono di tutti i colori, che covano rancori per nulla attutiti dal tempo e dalla crescita. Si sputano veleno, si attaccano a vicenda che nemmeno bambini delle scuole elementari quando la maestra non c'è, con la volgarità di ragazzi della più malfamata delle scuole superiori. Si insultano, si offendono, e addirittura si stupiscono se l'offeso si alza e se ne va, come se prendersi a male parole e giudicare le scelte di vita in maniera spietata sia una cosa normale e prendersela sia uno scempio. Nel giro di una scena, un libro piacevole è diventato una storiaccia popolata da personaggi improvvisamente inverosimili. Ci può stare che un personaggio possa avere queste peculiarità, ma non tutti!
Sono rimasto interdetto, sinceramente, soprattutto da come l'autore ha sciupato la sua abilità e dalle sue opinioni spesso indelicate. In questo libro, almeno.
"E' la sindrome del lieto fine, che poi rovina un sacco di belle storie. Perché tante volte la vita ti dimostra che una storia non è bella perché finisce bene, ma proprio perché finisce."
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Amore, desiderio o malattia?
E' molto difficile recensire un romanzo come "Lolita"...
Che dire, in primis mi aggiungo alla schiera di ammiratori dello stile di Nabokov e dico che, sì, l'incipit di questo suo romanzo è tra i più belli mai scritti: un sunto perfetto, seducente e disperato delle vicende che lo seguiranno.
L'argomento trattato è un tabù, che potrebbe turbare facilmente chi è più sensibile all'inviolabilità minorile, pur non contenendo alcuna scena di erotismo spinto. Ma non sarebbe l'erotismo eccessivo il problema (altrimenti non si spiegherebbe il successo che ancora non mi spiego delle varie Cinquanta sfumature...), ma lo è l'età della piccola Lolita. Dodici anni.
Quello che penso, personalmente, è che la letteratura è piena di personalità negative di vario genere: assassini, depravati e simili. Ma se ci si turba di fronte alla personalità di Humbert, ci si dovrebbe turbare anche personaggi i cui tratti si leggono molto più frequentemente, che magari tolgono la vita a persone una dietro l'altra, accumulando un bel numero anche in poche centinaia di pagine. Il fulcro di questo discorso è che stiamo leggendo un'opera di fantasia, che ci racconta una storia e non ci costringe assolutamente a condividere i pensieri dei suoi protagonisti, e nella maggior parte dei casi non lo fanno nemmeno gli autori che a quelle figure danno vita. Altrimenti ogni scrittore sarebbe un assassino, un depravato, o comunque un avanzo di galera.
Si può disprezzare la condotta di un protagonista, ma personalmente ho letto "Lolita" come avrei letto qualsiasi altro romanzo.
Humbert, diciamolo a chiare lettere, è un pedofilo. Ma è uno di quelli che soffre della sua malattia in silenzio, che spesso se ne vergogna e ne soffre, che non si azzarda ad adescare gli oggetti del suo desiderio depravato. All'origine di questa sua malattia, c'è una passione infantile finita precocemente in tragedia, con il suo primo amore Annabel che morirà improvvisamente per una malattia. Quando conosce Lolita, dodicenne, mentre lui è sulla soglia dei venticinque anni, Humbert rivede la sua amata scomparsa e il suo desiderio si acutizza pericolosamente. Fantasie si fondono con la realtà, anche perché la piccola Lolita è davvero precoce e non fa nulla per distruggere le illusioni del suo "ammiratore", anzi, le fomenta. Humbert è un mostro, ma Lolita è ben lontana dall'essere la bambina innocente che dovrebbe.
Tra varie vicissitudini, Humbert diventerà il padre adottivo di lei: vagheranno senza meta per gli Stati Uniti, soggiornando in squallidi motel, e Humbert riuscirà a saziare i suoi appetiti, ma ne diventerà completamente assuefatto. Coltiverà una dipendenza affettiva senza sbocchi nei confronti della sua Lolita, che lo terrà completamente in suo potere. L'approfittatore verrà completamente consumato dall'indifferenza con cui lei gli si concede, ma non potrà comunque farne a meno.
La malattia di Humbert si macchierà di un amore infetto, completamente inerme, che va oltre lo status di "ninfetta" della sua amata, ma che si legherà indissolubilmente alla sua figura, anche quando Lolita bambina non lo sarà più. Il suo affetto sfocierà molto spesso nel ridicolo e vi ritroverete a scuotere la testa di fronte a tanta debolezza e follia.
Lolita è una vittima, ma fino a un certo punto. Humbert l'accompagna nel suo corso che la porterà a diventare un'anima dannata, ma è un sentiero che aveva già incominciato prime dell'arrivo di Humbert e che non smetterà di percorrere una volta che lui sparirà dalla sua vita.
Questo è sicuramente un libro difficile, sia per il tema trattato sia per la disperazione che impregna ogni singola pagina, trasmessaci magistralmente dall'autore tramite il suo protagonista.
Di sicuro, suscita nel lettore un turbine di emozioni, positive e negative.
"Io ti amavo. Ero un mostro pentapodo, ma ti amavo. Ero ignobile e brutale e turpido e tutto quello che vuoi, mais je t'amais, je t'amais! E c'erano momenti in cui sapevo come ti sentivi, e saperlo era l'inferno, piccola mia. Bambina Lolita, coraggiosa Dolly Schiller."
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Se un pomeriggio d'estate un lettore...
Il mio primo incontro con Italo Calvino non poteva essere più strano. Mi ha sinceramente spiazzato, considerando anche le recensioni entusiastiche e i voti altissimi che ho trovato in giro per il web. Forse ho cominciato con il libro sbagliato per approcciarmi all'autore.
Lo stile di Calvino è abbastanza complesso, ricercato, intricato. Richiede una lettura più che attenta ed è facile ritrovarsi a vagare con la mente. Se da una parte mi inchino e apprezzo la bravura di un grande scrittore come Calvino, dall'altra rimango leggermente perplesso dalla sua spasmodica ricerca di una complessità che ho trovato a volte artificiosa al punto da diventare insostenibile, e che in certi momenti a parer mio poteva essere evitata. La trama di questa storia poi, volutamente frammentaria, non fa altro che accentuare questo senso di estraniamento del lettore.
Comunque, a parte tutto questo, Calvino è bravo a mettersi nei panni di un generico lettore, perché è chiaro che "Se una notte d'inverno un viaggiatore" ha come unico obiettivo quello di sviscerare questa figura in tutte le sue forme.
La vicenda vede come protagonista, per l'appunto, un "Lettore", un semplice uomo come voi e me, che si ritrova tra le mani l'ultima fatica di Italo Calvino: "Se una notte d'inverno un viaggiatore". Entusiasta, il lettore si lancia in quest'ultima avventura cartacea, ma scoprirà presto che quest'opera è vittima di un orrido errore di stampa: molte delle pagine sono mancanti e quelle poche che ha letto non appartengono al libro che credeva di leggere ma ad un altro, di un autore polacco. Da questo frainteso, alla ricerca del libro perduto, il Lettore si ritroverà a leggere vari incipit di vari romanzi, tutti spacciati per quello che ha appena interrotto ma che sempre si rivela tutt'altro e che ogni volta si ritroverà costretto a interrompere, per un motivo o per un altro. L'incubo di ogni lettore.
Il protagonista si ritroverà intrappolato in una rete di intrighi letterari arditi da un individuo losco, che si diverte a falsificare e diffondere romanzi incompiuti di sedicenti autori, il tutto allo scopo di prevalere in una sfida e dimostrare alla controparte femminile (la Lettrice), che la letteratura non nasconde nulla oltre a quello che si legge di primo acchitto. La Lettrice, invece, è colei che cerca sempre un significato profondo in quello che legge, una porta verso un'altra dimensione dove quello che viene scritto non è altro che una parte dell'infinito del "non detto". Quando legge, lei cerca l'anima delle cose oltre le parole.
Lettore e Lettrice si incontreranno e percorreranno un curioso viaggio in questo mondo fittizio fatto di falsità e peculiarità letterarie, di libri proibiti e incompiuti.
" [...] d'una lingua scritta è sempre possibile desumere un vocabolario e una grammatica, isolare le frasi, trascriverle o parafrasarle in un'altra lingua, mentre io sto cercando di leggere nella successione delle cose che mi si presentano ogni giorno le intenzioni del mondo nei miei riguardi. e vado a tentoni, sapendo che non può esistere alcun vocabolario che traduca in parole il peso di oscure allusioni che incombe nelle cose. "
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Un bicchiere di gin tonic
Avevo spesso sentito parlare di Carver, del suo stile essenziale privo di ogni cosa superflua. Ho scoperto che questa però non è una peculiuarità propria dell'autore, che questa sua fama di autore "essenziale" è merito del suo editor Gordon Lish, che tagliava interi pezzi delle sue opere come un barbiere taglierebbe i capelli a Tarzan.
Ho deciso definitivamente di leggere Carver quando ho visto "Birdman", film premio Oscar, in cui il protagonista è un attore teatrale impegnato a mettere in scena proprio un racconto dell'autore: quello che da il nome a questa raccolta che sto per recensire.
La peculiarità di Carver (almeno in questo caso specifico), sta nel lasciare la maggior parte dei racconti in sospeso. Se da una parte gli amanti delle storie fatte e finite (quelle dove il cerchio si chiude sempre) storceranno il naso, dall'altro alcuni saranno entusiasti dello spazio che verrà lasciato alla fantasia del lettore, che si potrà lasciare andare a riflessioni e cercherà disperatamente di entrare in contatto con i personaggi, in modo da provare a indovinare come la storia potrebbe andare a finire. Personalmente, mi schiero con i secondi, e devo dire che Carver, in poche pagine del racconto, ci da tutto quello che è necessario per concludere la storia per conto nostro. Potremmo indovinare cosa farà un personaggio, in base a quelle poche cose che gli abbiamo visto fare e che l'autore è stato così bravo a mettere in risalto.
Nei diciassette racconti di questo libro, il tema principale (come è chiaro dal titolo) è l'amore. L'amore in alcune delle sue infinite sfaccettature: quello sincero; quello appena sbocciato; quello che non sfiorisce nemmeno nella vecchiaia; quello passionale; quello possessivo che spesso sfocia nel violento e che può finire in tragedia. L'amore che è stato, ma che ormai è finito. Ma a quali di questi ci riferiamo quando parliamo d'amore? Qual'è l'amore autentico? Tutti. E nessuno.
L'amore è un sentimento troppo grande e complesso: ingloba in sé molti altri sentimenti ed emozioni e questi ultimi non fanno altro che dargli una sfumatura diversa, rendendo impossibile tracciare i contorni. Non lo si può inquadrare pienamente, mai. Non ci riusciamo noi, e non ci riescono nemmeno i quattro personaggi di Carver che sono seduti attorno a un tavolo a bere gin tonic e a provare a dare una definizione a questo sentimento indefinibile.
Dunque: "Di cosa parliamo quando parliamo d'amore?"
In fondo la risposta la conosciamo tutti, ed è: non lo sappiamo, e non lo sapremo mai. Ne parliamo e basta. L'amore è tutto e niente, è il più grande sentimento che proviamo, ma è anche il più grande mistero dall'alba dei tempi, ed è forse il suo essere così enigmatico ad attrarci tanto. Proviamo a sviscerarlo con la mente, ma arriviamo a capirne qualcosina soltanto quando lo sentiamo col cuore. E ogni volta non è mai uguale al precedente.
In questa sua fatica è come se Carver avesse tentato di sviscerare l'amore come a volte proviamo a fare noi, ad analizzarlo nelle sue varie forme, e anche se non ci è riuscito ci lascia comunque un gioiellino da ammirare. E questo, almeno a me, basta e avanza.
"Le cose cambiano, dice lui. Non so come. Ma le cose cambiano, e senza che nessuno se ne accorga o lo voglia. [...] Però non si muove dalla finestra, ricordando quella vita passata. Avevano riso. Appoggiati l'uno all'altra, avevano riso fino alle lacrime, mentre tutto il resto - il freddo e dove lui era andato in quel freddo - restava di fuori, almeno per un po'."
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Allucinato
Non è difficile credere che Stefano Benni tenga dei seminari sull'immaginazione. Nel suo "Prendiluna" c'è tanta di quella fantasia da rimanere spiazzati. Forse ce n'è anche troppa; e come ben sappiamo, il troppo stroppia. Capiamoci, Benni è sempre piacevole e scorrevole da leggere ed è uno degli autori italiani che apprezzo di più, ma questa sua ultima fatica è probabile che la scorderò così come l'ho letta: rapidamente. Ho apprezzato di più la sua ultima raccolta di racconti: "Cari Mostri", che pur ospitando più esseri soprannaturali, riusciva ad essere più logica e meno forzata. Sì, perché ci sono tante forzature evidenti in questa storia, e personaggi che cambiano da un momento all'altro quando per anni hanno condotto vite all'opposto. Per non parlare dell'allucinante finale.
Ripeto, il troppo stroppia.
Prendiluna è una ormai vecchia gattara, maestra di italiano in pensione. Una notte un vecchio gatto ormai morto, di nome Ariel, le appare sottoforma di fantasma e le comunica che se non troverà dieci Giusti a cui affidare i suoi dieci gatti, il mondo finirà.
Nel frattempo due ex alunni della maestra che ora sono chiusi manicomio, Dolcino e Michele, hanno avuto un sogno in cui sono venuti a conoscenza della Missione di Prendiluna. Hanno scoperto che lei incontrerà Dio una volta conclusa l'opera, e anche loro vogliono incontrarlo per dirgliene quattro. "Se vuoi trovare qualcuno, cerca chi lui sta cercando", per cui, partono alla ricerca di Prendiluna.
Avanzeremo quindi con loro in questo viaggio fatto di ironia, allusioni sessuali ed evidente denuncia alla società tecnologica dei tempi moderni, che chiude il proprio mondo nel ristretto schermo di uno "Smartafone". Si scontreranno con una strana setta, gli Annibaliani, che hanno come capo Chiomadoro, un uomo dal passato misterioso.
In conclusione posso dire, a malincuore, che non è proprio il miglior lavoro di Benni.
"Ogni notte è meravigliosa quando torni vivo da un campo di battaglia, o esci da un ospedale, o lasci una prigione, bella è la gioia degli scampati, dei guariti, dei salvi, anche se sarà breve."
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Voliamo tutti quaggiù...
Questa sensazione che mi pervade ogni volta che chiudo un libro che ho "amato"... non so se mi piace o se la odio profondamente. Quelle ultime frasi ad effetto che l'autore pare scrivere apposta, come se non bastasse la tristezza di dover dire addio a personaggi con cui si è ormai creato un legame. Quelle frasi come di commiato che ti danno il colpo di grazia e sembrano sussurrarti: "E' davvero tutto finito". Magone.
Che posso dire... quello di "It" è davvero un King da applausi, che fa rimpiangere l'autore che era prima di 22/11/'63 (suo ultimo vero capolavoro) e che ti fa venir voglia di leggere tutte le opere passate... quando era davvero il Re.
Un'impresa ardua per le oltre 1300 pagine (in caratteri nemmeno troppo grandi) che forse potevano essere meno, ma sinceramente... va bene così.
Tutto ha inizio con la celeberrima scena in cui il piccolo George Denbrough, in impermeabile giallo, insegue la sua barchetta di carta lungo un fiumiciattolo d'acqua piovana, fino a vederlo perdersi in uno scarico delle fognature della città di Derry, nel Maine. Lì farà il suo incontro con It, nelle sembianze di un pagliaccio, e sarà l'ultimo incontro della sua vita.
It è l'anima malvagia della città di Derry, un essere multiforma che prende le sembianze delle maggiori paure di chi lo osserva, che fa la sua apparizione ogni 27 anni lasciandosi alle spalle una scia di morte che culmina con un evento catastrofico. Dopo la tragedia, It va in letargo, salvo tornare dopo quel periodo di tempo, puntuale come un orologio.
Il lettore sarà spettatore della battaglia tra It e il Club dei Perdenti, un gruppo di ragazzini il cui leader è Bill Denbrough, il fratello del ragazzino ucciso dal clown. Saranno loro a sfidare It, a decidere di doverlo distruggere, a ridurlo in fin di vita da bambini e a giurare col sangue che sarebbero tornati per finirlo, se il terrore fosse ricominciato.
King gestisce magistralmente l'alternarsi degli eventi che portano i protagonisti ad affrontare It sia da piccoli che da grandi. Vi affezionerete a ognuno di loro, credetemi, e vi ritroverete a pensare alla vostra infanzia, ai vostri vecchi amici, alla bellezza di quegli anni passati.
Anche se non avevamo un mostro come It, da affrontare.
"In un certo senso era come se fossero entrati in uno di quei film dell'orrore del sabato pomeriggio all'Aladdin, ma per un altro verso, forse quello cruciale, non era affatto così. Perché in quel caso non c'era la pace interiore che si ha davanti a un film, quando si sa che tutto finirà bene, e anche in caso contrario a rimetterci la pelle non sarai tu."
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Sono un uomo o un "pidocchio"?
Mi sono già espresso più di una volta sulla grandezza di Fedor Dostoevskij. "Delitto e Castigo" non fa altro che confermarla. Un autore che riesce, col suo stile tormentoso e profondo, a indagare nel torbido dell'animo umano, a sguazzarci, alla ricerca di un pizzico di luce nascosto in mezzo alla melma.
"Delitto e castigo" è esattamente quello che ci presenta il suo titolo, ovvero la cronaca di un delitto e del suo conseguente castigo. Questo "castigo" non rappresenta certo il carcere, anzi, quest'ultimo sarebbe una sorta di sollievo, perché è solo per mezzo di esso che la morale umana può avere almeno la percezione di espiare i propri peccati. Il castigo è invece quel tormento interiore, quel delirio incessante che sfinisce il corpo, la mente e il cuore.
Raskol'nikov è uno studente dalle spiccate capacità, dal grande acume, dall'intelligenza fuori dal comune, dalle idee innovative. Ma sarà proprio un'idea, una convinzione personale non ancora dimostrata nel concreto, a diventare per lui un pensiero fisso che gli toglierà il sonno e la pace.
Sono un uomo o un "pidocchio"?
A un uomo geniale, davanti al quale si presenta un ostacolo lungo il cammino che lo porterebbe all'esaltazione, è concesso il diritto di distruggere quell'ostacolo, anche se questo significasse spargere del sangue?
Raskol'nikov sente dentro di sé le capacità per distinguersi dalla massa di uomini normali che popola la terra, di ergersi e donare loro qualcosa di nuovo; eppure cosa possiede? Nemmeno un rublo; una stanza piccola come la cuccia di un cane; patisce la fame; è stato costretto, nella miseria, a lasciare gli studi. Pur di sopravvivere è disposto a dare in pegno gli oggetti a lui più cari, a una vecchia e maligna usuraia. In lei, Raskol'nikov vede la via d'uscita, il punto di convergenza tra le su idee e la loro possibile dimostrazione, il mezzo con il quale la sua ascesa può cominciare. Il momento opportuno e una scure, sono tutto ciò che gli serve. Ma questo pensiero sarà il suo tormento e, dopo l'attuazione, il suo "castigo": un tormento al quale non c'è rimedio, se non l'accettazione della sofferenza, il pentimento, l'amore, Dio.
Ma l'uomo è un essere duro di compredonio, è orgoglioso. E' vigliacco.
"Esiste un uomo tanto codardo da non preferire cadere almeno una volta piuttosto che barcollare in eterno?" si è chiesto Cormac McCarthy tra le pagine del suo "Suttree". Chissà se mentre scriveva quelle parole non avesse proprio in mente il Raskol'nikov di Dostoevskij. Per tutto il romanzo vedrete questo pover uomo vacillare di continuo, cercando di capire se, alla fine, si lascerà cadere, e se una volta che l'avrà fatto sarà capace di rialzarsi.
"Se mi sono torturato per tanti giorni chiedendomi se Napoleone lo avrebbe fatto oppure no, vuol dire chiaramente che lo sentivo di non essere Napoleone [...] Non è per aiutare mia madre che ho ucciso; fesserie! [...] Dovevo scoprire qualcos'altro, qualcos'altro mi spingeva il braccio: allora dovevo scoprire, e scoprirlo al più presto, se ero un pidocchio come tutti, o un uomo. Se avrei saputo oltrepassare il limite oppure no! Se avrei saputo chinarmi a raccogliere oppure no!"
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Uccello in gabbia, vola via
Lansdale mi piace, e un bel po'. Il suo modo di scrivere ha un non so che di unico. Il suo stile è semplice eppure efficace, ironico, e le pagine scorrono via come il vento. Certo, 220 pagine non sono tantissime, ma questo libro l'ho letteralmente divorato.
In fin dei conti, quella di "Io sono Dot" non è certo una storia sorprendente né troppo intricata, eppure, raccontando la vita quotidiana di una semplice ragazza di diciassette anni, Lansdale è riuscito a tenermi incollato alle pagine. E' anche in questo che si valuta un buono scrittore.
Dot, come dicevo, è una semplice ragazza di diciassette anni, che vive una vita abbastanza stentata in una roulotte insieme a sua madre, sua nonna e suo fratello minore Frank. Suo padre è uscito di casa per comprare le sigarette cinque anni prima, e non ha fatto più ritorno. Dot lavora come cameriera al "Dairy Bob", dove serve la cena ai clienti seduti in macchina, sfrecciando su un paio di pattini. E' così che guadagna da vivere per sé e per la sua famiglia. Non è certo uno status invidiabile, eppure Dot ha dalla sua un carattere forte, talvolta fin troppo scontroso e diffidente, temprato dalle difficoltà affrontate fin da quando era piccola.
Eppure, è determinata a non fare gli stessi errori di sua madre e sua sorella, che hanno annullato sé stesse in nome di un "amore" rivolto a un fuggiasco e a un violento ubriacone. Dot vede per sé un futuro diverso, e l'arrivo di suo zio Elbert le darà quella spinta e quel sostegno di cui aveva sempre avuto bisogno ma che non aveva mai ricevuto. Conoscerà l'amore, quello vero, l'amicizia, e metterà alla prova sé stessa come non aveva mai fatto prima di allora.
Dot non si rassegna alla mediocrità, non accetta di accontentarsi di quello che il mondo le ha messo davanti dalla nascita. Lei proverà ad avere qualcosa in più e sa che per averlo dovrà lottare, sgomitare, sanguinare.
Ma in fondo, non è quello che proviamo a fare tutti?
"Penso che siamo tutti responsabili di ciò che facciamo. Non è colpa degli altri. Non è sempre colpa della genetica, e di come ci hanno fatto crescere, perché ci sono tante persone nate in contesti orribili, che hanno subito ogni sorta di torti e non per questo sono diventate spregevoli. Scegliamo di essere quel che siamo. Diventiamo quel che vogliamo essere."
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