Opinione scritta da enricocaramuscio
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La società egiziana postrivoluzionaria
Alessandria d’Egitto, 1966. Amore, politica, storia, denaro, morte sono gli elementi attorno a cui si dipanano le storie di sette personaggi molto diversi tra loro che si ritrovano per motivi diversi a vivere sotto lo stesso tetto, quello della pensione Miramar, un albergo che, come la sua sfiorita ma orgogliosa proprietaria Mariana, contrappone ad una ineluttabile decadenza i labili sentori dei fasti di un tempo ormai lontano. Il fulcro del racconto è la morte di Sahran, giovane avventore della locanda, che ci viene raccontata da diverse angolazioni grazie ad un progressivo alternarsi delle voci narranti: ogni personaggio racconta la sua versione, arricchendo la cronaca di particolari sempre nuovi, ma contemporaneamente racconta anche se stesso, la sua storia personale e il suo punto di vista su quella del paese, il proprio modo di essere e di vedere il mondo. Proprio questo sembra essere lo scopo principale di Mahfuz: presentare, attraverso le varie anime che la compongono, un quadro completo e soddisfacente di una società egiziana postrivoluzionaria molto eterogenea, divisa da obiettivi, visioni e interessi diversi. Con stile e originalità narrativa l’autore mischia il giallo con la cronaca rosa, la psicologia con l’analisi storica, il presente con il passato, trovando il giusto equilibrio tra personaggi antitetici e molto rappresentativi, ma forse privi di quel carisma capace di coinvolgere veramente il lettore. Tra tutti l’unica che spicca veramente è la bella cameriera Zahra, forte e decisa ragazza di origine contadina dotata di un fascino selvaggio a cui nessuno è in grado di resistere e che sembra simboleggiare in pieno la massa onesta e lavoratrice del popolo egiziano che cerca di riscattarsi dai soprusi e dall’ignoranza ma che si vede costretta a subire l’influenza e le decisioni altrui: “Credimi, il tuo tempo non è passato inutilmente, poiché chi conosce le ingiustizie conosce anche, come per incanto, il giusto a cui aspira…”.
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E’ necessario, nacqui monaca
Catania, 1854. Maria è una giovane novizia di vent'anni, entrata in convento quando ne aveva appena sei, in seguito alla morte della madre. L'unico mondo che conosce è quello freddo e buio del monastero, la sua vita è fatta soltanto di doveri e rinunce, studio e preghiera. Ha dimenticato cosa sono le carezze, gli abbracci, le parole amorevoli dei genitori, non sa cosa significhi ridere, giocare, divertirsi. Un giorno il dilagare del colera le dà la possibilità, seppur momentanea, di uscire dalle mura che la tengono prigioniera, di varcare la soglia del convento e riscoprire un mondo che non ricordava più, l'aria aperta, le passeggiate, i fiori, l'erba, i boschi, gli animali, la musica, i balli, il calore di una vera casa e di una vera famiglia. Conosce l'amicizia, la libertà e quasi inevitabilmente anche l'amore. Purtroppo il destino che gli altri le hanno imposto non prevede niente di tutto ciò e alla fine dell’epidemia una vocazione che non ha mai sentito sua la richiama in convento a servire un dio che si ritrova ad amare soltanto per paura e per dovere. Ma si può accettare di seppellirsi vivi dopo aver conosciuto la bellezza della vita? Attraverso le lettere che la povera protagonista scrive alla sua amica ed ex compagna Marianna conosciamo i tormenti, le paure e la rabbia di una donna condannata ad una vita da reclusa senza aver commesso alcuna colpa, di un’animo dolce e delicato violentato da un mondo ipocrita e insensibile. Ma quella che un Giovanni Verga giovane ed intimista ci racconta non è soltanto la tragedia di Maria: il destino della protagonista è quello di tantissime altre ragazze vittime della cosiddetta “monacazione forzata”, un’usanza terribilmente crudele che ha sottomesso per secoli milioni di donne in nome di squallidi interessi e false devozioni. …“Maria”, mi diceva, “perché andrete in convento?” “Lo so io, forse? E’ necessario, nacqui monaca…
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I poli opposti si attraggono
Tra le mura del convento di Mariabronn, in un medioevo quasi epico, nasce e si rafforza l’inossidabile amicizia tra il virtuoso Narciso e l’irrequieto Boccadoro. Due personalità agli antipodi, due ragazzi molto diversi tra loro che come poli opposti sono attratti inesorabilmente l’uno dall’altro. Narciso, colto, raffinato, devoto, appare tagliato per una brillante carriera ecclesiastica, la vita monacale sembra fatta su misura per lui. Boccadoro invece è uno spirito libero, ardente e desideroso di esperienze vere e forti, per lui le pareti del monastero sono strette e soffocanti, tanto che un giorno decide di fuggire e, dopo un commovente commiato con l’amico, abbandona Mariabronn per avventurarsi nel mondo. A questo punto lasciamo Narciso alla sua esistenza ascetica e spirituale per seguire Boccadoro nel suo avventuroso e rocambolesco viaggio per boschi, campagne, città. Il nostro eroe conduce una vita nomade e vagabonda, senza meta né punti di riferimento se non il ricordo e gli insegnamenti del caro amico, seduce e ama un numero incalcolabile di donne, conosce la morsa del freddo e gli stenti della fame, il lusso e la miseria, la sete e l’ebbrezza del vino, la libertà e la prigionia, impara a donare la vita ma anche a provocare la morte di sua mano. Soprattutto scopre la sua vera vocazione, il suo grande talento: l’arte, il disegno e soprattutto la scultura. Ma qualcosa in lui comincia a rompersi quando si imbatte nell’orrore della peste, un’epidemia che semina morte e desolazione per tutta la Germania mettendo a nudo il cinismo e la crudeltà della razza umana e allontanandolo definitivamente da una già labile fede verso un Dio insensibile che ha creato male il mondo e che non sembra preoccuparsi minimamente degli uomini. Passeranno molti anni prima che i due amici riescano a ritrovarsi e a ricongiungersi, e quando lo faranno le differenze tra loro saranno ancora più marcate, ma non per questo la loro amicizia risulterà meno forte. Hesse si serve di due personaggi antitetici per rappresentare il perenne contrasto tra ciò che è terreno e ciò che è spirituale, tra ascetismo e voluttà, tra chi tenta di spiegare la vita attraverso il pensiero e chi decide di raffigurarla con opere tangibili, tra chi ha fede nel divino e chi non ne ha nemmeno negli uomini. I dialoghi tra i due protagonisti, le loro dispute teologiche e filosofiche, i loro diversi stili di vita permettono all’autore di descrivere molto bene questi opposti modi di essere e di vedere l’esistenza, di sottolinearne le diversità ma anche di lasciare intendere che le distanze, anche se notevoli, non sono necessariamente incolmabili, che anzi l’ideale forse sarebbe proprio trovare il giusto equilibrio tra un mondo e l’altro senza lasciarsi sopraffare dagli estremismi.
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Il sole opprimente dell’ingiustizia
Uno sguardo rivolto al passato, alla propria terra lontana, la Palestina, ai villaggi, alle case, ai bellissimi ulivi. Uno al presente, alla situazione miserevole nei campi profughi. Un'altro al futuro, ad un paese ricco come il Kuwait che rappresenta la speranza di una vita migliore. Ma raggiungere questa sorta di “terra promessa” non è per niente facile, c'è un deserto da attraversare, un sole maledettamente caldo cui resistere, una frontiera da passare eludendo i controlli dei posti di blocco. Sono in molti a provarci rischiando la pelle, ma solo in pochi ce la fanno. Kanafani ci accompagna in uno di questi viaggi della speranza insieme a tre profughi palestinesi, Asad, il vecchio Abu Qais e il sedicenne Marwàn. Tre generazioni unite dalla necessità, tre rappresentanti di un popolo che dopo la terra rischia di perdere anche la dignità. La loro idea è quella di attraversare il deserto con il contrabbandiere Canna a bordo di un camion che ufficialmente trasporta acqua, nascondendosi nella cisterna vuota solo i pochi minuti necessari a sbrigare le solite faccende burocratiche alla dogana. Ma il caldo del deserto non perdona e qualsiasi contrattempo che possa allungare i tempi trasformerebbe l’improvvisato nascondiglio in una cocente trappola mortale. L’autore racconta il dolore della sua gente con l’inevitabile passione emotiva di chi ne è direttamente coinvolto ma tenendo comunque una linea politicamente neutra ed evitando di cadere nella facile tentazione di mettere in cattiva luce gli artefici di questa sofferenza. Lo stile è scorrevole e delicato, la narrazione è caratterizzata da continui flashback che permettono di conoscere meglio la vita dei protagonisti e di capire le ragioni che li spingono a tentare quest’impresa disperata. La nostalgia per il suolo natio, la rabbia per le misere condizioni di vita, l’illusione di potersi creare un futuro migliore sono i sentimenti dominanti di questo bellissimo libro che racconta la tragedia di un intero popolo che ha dovuto pagare, e paga tutt’ora, colpe non sue in nome di una discutibile politica che ha tentato di risarcire un’ingiustizia, quella subita dagli ebrei durante la shoah, creandone un’altra diversa ma non meno grave. Gli uomini sotto il sole cui si riferisce il titolo non sono soltanto Asad, Marwan, Qaid e tutti quelli che come loro, in ogni parte del mondo, sfidano la morte per garantirsi una vita, ma sono tutti gli uomini della terra su cui soprusi, abusi e iniquità incombono come il sole opprimente di mezzogiorno. A loro sembra rivolgersi l’ultima, disperata domanda del libro, come a chiedere perché mai tutta questa gente non faccia di più per reagire, per ribellarsi, per cercare un riscatto: “Perché non avete battuto sulle pareti della cisterna? Perché non avete chiamato? Perché? Perché? Perché?”
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Eroi nel vento
Otranto, 28 luglio 1840. La tramontana soffia impetuosa contorcendo i cespugli di finocchio selvatico e confondendo le cime delle querce. Il mare ha perso la pace, lo spruzzo d'acqua delle onde si spinge fino al basamento della torre del Serpe che domina dall’alto tutto il canale e dove di notte i morti tornano dal mare alla riva. Di pesca in queste condizioni è inutile anche parlarne. Costretti a restare sulla terraferma, i pescatori otrantini hanno gli occhi rivolti alla burrasca e il pensiero al pesce che non pescheranno quando all’improvviso, a largo, qualcosa si issa in vetta ai cavalloni. Piano piano, avvicinandosi, la visione si fa sempre più chiara, la forma delle vele e la mezzaluna sugli scafi sono inequivocabili: nel bel mezzo del Canale d’Otranto galee turche avanzano in direzione del porto salentino. Sarà l'inizio di giorni di paura e violenza in cui si verseranno fiumi di sangue e durante i quali gli abitanti di questa meravigliosa perla dell’Adriatico verranno abbandonati a se stessi. Infatti i soldati spagnoli di stanza in città fuggiranno con la coda tra le gambe subito dopo l’arrivo dei turchi mentre dei rinforzi che dovrebbero giungere da Napoli sotto la guida di don Alfonso d’Aragona non si vede nemmeno l'ombra. Così toccherà a pescatori e contadini difendere le mura natie con falci, fiocine, forconi e un coraggio e una forza insospettabili che nascono nel cuore di chi, pur vivendo di stenti, ama la vita, la terra, le radici e difende a spada tratta la propria cultura e le proprie tradizioni. I pescatori Colangelo e Nachira, la bellissima popolana Idrusa, gli ufficiali borbonici Zurlo e De Marco sono le cinque voci narranti del libro. Attraverso i loro racconti fatti in prima persona ripercorriamo le varie tappe dell’invasione ottomana dallo sbarco fino alla liberazione passando per l'assedio, la breccia, l'occupazione e le decapitazioni. Cinque punti di vista differenti per una visione completa di un tragico evento storico che la pregevole penna di Maria Corti riesce a raccontare con poesia e passione creando un ottimo mix tra il lato drammatico e un’atmosfera fatata, quasi da sogno. L’autrice ci fa combattere sui bastioni al fianco degli otrantini sotto l’infuocato sole d’agosto tra urla, spari, scimitarre e pesanti palle di pietra che piovono dall’alto, ci fa provare la paura della morte e l’audacia che nasce dallo spirito di conservazione, ma ci porta anche nelle loro vite di tutti i giorni, tra gli stenti della fatica e della fame e le gioie per le pur piccole soddisfazioni, in un mondo fatto di rispetto e tradizione, di riti e superstizioni, in cui uomini del popolo semplici e saggi come mastro Natale o padre Epifani sono più importanti di qualsiasi regnante forestiero, sia esso napoletano, spagnolo o turco. Meraviglioso anche il quadro che Maria Corti disegna della penisola salentina, una terra e un mare più unici che rari per bellezza e fascino, da sempre e tuttora crocevia di genti di ogni razza e provenienza. Prodi per la storia, martiri per la religione, gli uomini morti in questa battaglia sono semplici pedine in giochi di potere più grandi di loro, vittime nelle mani di autorità che prima ne osservano indifferenti lo sterminio per poi venerarli e innalzarli al ruolo di eroi, cavalcandone l’immagine mentre continuano ad opprimere i sopravvissuti. Un atteggiamento che, a secoli di distanza, i governi dimostrano di non aver perso, come l’autrice sottolinea attraverso le parole di Aloise De Marco: “Gian Francesco mi batté sulla spalla:…… Ma, secondo te, a quella fanfaluca della fine del fazzoletto e della servitù ci crederanno? Alzai le spalle. Il colle della Minerva in quel momento era per metà nell’ombra: il sole stava calando e il mondo sembrava molto grande. Quanti anni sono passati da allora? Solo i vivi contano gli anni. Ed è mutato qualcosa?”
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Il dolore e lo scorrere del tempo
Sembra una mattina come tante a Londra. Stephen Lewis, affermato scrittore di libri per l’infanzia, come spesso accade esce a fare compere con la figlioletta di tre anni Kate. Questa volta però tornerà a casa senza di lei. Un solo attimo di distrazione durante una banale operazione di pagamento alla cassa del supermercato è infatti fatale: l’uomo si volta e non vede più la piccola. Kate è sparita, volatilizzata. A nulla serve l’intervento delle forze dell’ordine, vani sono tutti i tentativi di ritrovarla. Un’evento nefasto che inevitabilmente avrà strascichi negativi sulla vita dell’uomo e su quella della moglie Julie. I due coniugi verranno travolti da un indicibile dolore cui reagiranno in maniera diversa, lui impegnandosi con tutte le sue forze in disperati quanto inani tentativi di ricerca, lei abbandonandosi ad una cupa ed indolente solitudine. Ad un certo punto la separazione apparirà inevitabile, ma il tempo saprà rimarginare la ferita. McEwan racconta il lato sentimentale e psicologico di un dolore straziante come può essere quello che nasce dalla perdita di un figlio, entrando nella mente dei protagonisti ma tenendo sempre un certo distacco, una sorta di freddezza, di cinismo, che se da una parte limita l'empatia dall'altra evita di cadere in facili e mielose drammatizzazioni. La storia è raccontata attraverso continui salti temporali, passato, presente e futuro si intersecano e si confondono, la maturità si scontra con l'infanzia ora vincendo ora soccombendo e ricordandoci del bambino che si cela dietro ogni adulto. McEwan non risparmia poi frecciatine velenose alla politica Thatcheriana dell'epoca e alla società britannica in generale. Non mancano i luoghi comuni, alcuni passaggi possono risultare scontati e lo stile non è dei più virtuosi, ma i contenuti sono di valore e importante appare il messaggio finale che invita a non abbattersi troppo nei momenti difficili, a non annullarsi nel dolore, perchè potrebbe sempre arrivare un'occasione buona per rialzarsi e rinascere.
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Un intero attimo di beatitudine e di felicità
Un personaggio senza nome si aggira solitario per le vie di Pietroburgo. Sono ormai otto anni che vive in questa città e non ha saputo fare pressoché nessuna conoscenza. Eppure ogni persona che incontra quotidianamente sul Nevskij, al parco o sul lungofiume, sente di conoscerla intimamente pur senza averci mai scambiato né una parola né un saluto. Di ognuno ha imparato a memoria la fisionomia, ne ammira l’allegria e si rattrista quando ne percepisce il malumore. Conosce persino i palazzi e a volte ha la sensazione che lo guardino da tutte le loro finestre e gli parlino come si fa ad un buon amico. Si tratta un individuo timido, riservato, schivo, che si autodefinisce un tipo, un originale, un sognatore e come tutti i sognatori non è una persona ma un essere di genere neutro la cui vita comincia veramente solo quando è solo nella sua camera con le pareti verdi piene di muffa. Soltanto allora è libero di perdersi nelle trame dorate tessute per lui dalla “dea della fantasia”, di dare sfogo alla sua immaginazione eccitata creando nuovi mondi, nuove vite, e ogni sogno è una nuova felicità, una nuova dose di veleno raffinato e lussurioso. Lui non vive la vita, la sogna. Ma questo suo ovattato universo onirico viene sconvolto una sera di maggio quando, quasi per caso, si imbatte nella bella Nasten’ka. La giovane donna irromperà come un fiume in piena nella sua indolente esistenza travolgendola con il più potente e incontrollabile dei sentimenti: l’amore. Il nostro eroe avrà quindi la possibilità di conoscere finalmente le pulsazioni e le emozioni che regala la vita reale, vivrà un intero attimo di beatitudine e di felicità ma si troverà a dover fare tristemente i conti con l’evanescenza delle sue velleitarie fantasie. Due personaggi delicati e coinvolgenti, quattro notti di vita vera che sembrano un sogno, temi quali le illusioni, la solitudine, l’amore che toccano il cuore dei lettori, specie di quelli particolarmente sensibili. E poi le magiche atmosfere di una città affascinate come Pietroburgo e la penna incantevole di un Dostoevskij giovanissimo ma che dimostra già un immenso talento letterario e una capacità di raccontare le vicende umane che non ha eguali. La forte empatia e i dialoghi brillanti rendono ancor più piacevole la lettura di questo imperdibile romanzo che ricorda al lettore come possa essere triste e piatta una vita senza sogni ma come siano altresì inutili e fallaci i sogni senza il coraggio e la forza per realizzarli.
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Camere con vista sull’Egitto
Il Cairo, capitale d’Egitto e importantissimo centro politico e culturale del mondo arabo, come ogni metropoli che si rispetti di storie da raccontare ne ha davvero tante con quella smisurata varietà di gente di ogni risma che ne caratterizza la popolazione e che si potrebbe definire un vero e proprio miscuglio antropologico. Al-Aswani ce la presenta attraverso gli inquilini di uno degli edifici più prestigiosi della città, palazzo Yacoubian. I suoi dieci piani dominano un’arteria vitale come via Suleyman pasha, al suo interno troviamo rappresentanti di ogni ceto sociale, di ogni condizione economica, conosciamo le più disparate esperienze e i più svariati modi di affrontare la vita. Lussuosi appartamenti, studi prestigiosi, sedi di importanti società mentre sul terrazzo la gente povera vive in miseri stanzini trasformati in abitazioni di fortuna. Spiando dietro ogni porta si entra in una storia diversa, guardando fuori da ogni finestra sia ha la stessa visione panoramica su un Egitto diviso tra la voglia di occidentalizzazione e il naturale attaccamento alla mentalità tradizionale. Una lotta tra due diverse culture che non trova però un vero vincitore e nella quale a prevalere sono per lo più i lati negativi di entrambe: corruzione, sete di denaro, prevaricazioni e ingiusti privilegi, servilismo e abusi, sessismo, sciovinismo, assenza di valori morali da una parte e fanatismo religioso dall’altra. Un ritratto a tinte forti con un palese scopo di denuncia nei confronti del trentennale governo Mubarak, da cui si evincono chiaramente le ragioni che hanno portato alla rivoluzione del 2011. Storie amare che si intrecciano e si incrociano con un ritmo incalzante, raccontate con stile e capaci di emozionare e coinvolgere. Dal giornalista libertino invaghito di un giovane soldato al sarto con mire espansionistiche sul terrazzo, dal dongiovanni senza età in lite con la sorella all’umile portiere che ripone le sue speranze sul figlio, dal pecoresco domestico che arrotonda le entrate con le creste all’imprenditore senza scrupoli che tenta la carriera politica. Ma le storie più emblematiche sono forse quelle di Taha e Buthayna, due giovani fidanzati costretti a subire in maniera diversa e per ragioni differenti la violenza fisica e morale di una società corrotta e malata. La loro rabbia si incanalerà in maniera diversa, le loro vite si separeranno, ma almeno per uno di loro ci sarà una sorta di lieto fine. “Taha la fissò a lungo poi riabbassò la testa e lei proseguì dicendo: Dai, Taha, smettila. È vero che sono di un anno più giovane, ma ho lavorato e il lavoro mi ha insegnato a vivere. Taha, questo paese non fa per noi. L'Egitto è per quelli che hanno i soldi. Se tu avessi avuto le ventimila lire per la bustarella, ti avrebbero chiesto cosa faceva tuo padre? Se fai i soldi ti spetta tutto, se invece resti povero ti calpestano".
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La vita attraverso gli occhi di chi soffre
"Gente come noi, che lavora nei ranches, è la gente più abbandonata del mondo. Non hanno famiglia. Non sono di nessun paese. Arrivano nel ranch e raccolgono una paga, poi vanno in città e gettano via la paga, e l'indomani sono già in cammino alla ricerca di lavoro e d'un altro ranch. Non hanno niente da pensare per l'indomani." Siamo nella California degli anni '30 oppressa dalla grande depressione: il lavoro scarseggia, quel poco che c'è è massacrante, sottopagato e poco duraturo, i braccianti sono costretti ad una vita nomade, cambiano continuamente posto secondo la stagione e le offerte lavorative, non hanno certezze né prospettive, non hanno un progetto, un futuro. Nella stessa condizione si trovano i due protagonisti del libro, George e Lennie, due amici inseparabili che passano di ranch in ranch, di lavoro in lavoro per guadagnare spezzandosi la schiena quel poco di cui hanno bisogno per campare. George è un ometto piccolo ma molto scaltro, Lennie un gigante con la forza di un toro ma con il cervello di un bambino e una naturale propensione a cacciarsi suo malgrado nei guai trascinandoci anche l'inseparabile amico e tutore. Non hanno niente e nessuno, tranne il bene preziosissimo della loro inossidabile amicizia e un sogno: mettere da parte un po' di soldi per avere una casetta tutta loro, un pezzo di terra da coltivare, maiali, galline, persino una mucca. Vivere "del grasso della terra". E poi avranno i conigli, e sarà Lennie ad accudirli, andrà al campo a riempire un sacco di erba medica e lo vuoterà nelle loro gabbie. Un sogno quasi impossibile che proprio quando sembra vicino alla realizzazione si scontra con un amaro e inesorabile destino: allora per George e Lennie ci sarà un'ultima, difficile e struggente prova d'amicizia e d'amore fraterno. Spietata metafora della condizione umana quest'opera di Steinbeck racchiude in poche pagine una forte dose di emozioni grazie al fascino dei personaggi e ad una trama semplice ma molto coinvolgente che tocca tematiche importanti molto care all'autore come la precarietà dell'uomo, la povertà e le ingiustizie sociali. Un libro intriso di realismo, con una prosa semplice che nei frequenti dialoghi rispecchia lo slang povero e sgrammaticato dei contadini dell'epoca per poi salire a livelli più alti nelle bellissime parti descrittive. Ma la vera grandezza di Steinbeck è come sempre la capacità guardare e raccontare la vita attraverso gli occhi di chi soffre, e questo rimane il punto di vista migliore per cercare di capire il mondo e l'unico che possa veramente permetterci di cambiarlo in meglio.
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La corruzione del potere spirituale
“…Insomma, in alcuni casi lo Ior sembra un’autentica e impenetrabile lavanderia di denaro sporco. Il bancomat privilegiato per gli affari più spregiudicati. L’approdo sicuro per triangolare miliardi di lire nei paradisi offshore…”. In queste brevi parole si può racchiudere il senso del dossier di Gianluigi Nuzzi sui lati oscuri della banca pontificia. L’autore conduce un’accurata analisi dei circa quattromila documenti riservatissimi contenuti nell’archivio segreto di una delle figure di maggior spicco delle gerarchie dell’istituto, il monsignor Dardozzi, ormai accessibili a chiunque. Si parte dagli anni ’60: le casse vaticane non sono per niente floride e per risanarle Paolo VI si affida a Marcinkus, un prete americano in forte ascesa grazie alla spinta del cardinale Spellman, potente gestore dei rapporti tra Usa e Santa Sede. Con l’aiuto di due banchieri laici collusi con la mafia, il siciliano Sindona e il milanese Calvi, Marcinkus non solo risana il bilancio della banca, ma ne riempie le casse in maniera spropositata, grazie a tutta una serie di torbide operazioni finanziarie e di traffici illeciti di capitali tra Italia, Svizzera, Stati Uniti e Vaticano cui partecipano anche Cosa Nostra e la P2 di Gelli, con volumi d’affari incalcolabili. Quando la magistratura italiana cercherà di far luce in questa storia incontrerà diversi intoppi, primo tra tutti l’articolo 11 dei patti lateranensi che di fatto impedisce al nostro paese di giudicare e arrestare chiunque lavori nelle strutture centrali dello Stato Pontificio. Marcinkus riesce quindi a farla franca, forte soprattutto della protezione incondizionata di Giovanni Paolo II, che proprio dallo Ior attinge i fondi per finanziare il suo caro sindacato polacco antisovietico Solidarnosc e per fronteggiare l’ascesa comunista in America latina. Quando negli anni ’90 l’americano si fa da parte il testimone passa al monsignore lucano Donato de Bonis che non solo continua l’opera poco pulita del suo predecessore ma, sfruttando il nuovo statuto varato da Wojtyla che estende la clientela dell’istituto anche a laici e stranieri, lo supera creando una sorta di Ior parallelo fondato su un sistema di finte fondazioni di beneficenza e di impenetrabili conti criptati. Tra i clienti illustri spicca il nome di un certo Giulio Andreotti. Il sistema de Bonis è il mezzo con cui viene gestita la mazzetta più famosa e cospicua della storia della politica italiana: la maxitangente Enimont. Scoppia Tangentopoli e l’indagine arriva fino alle mura leonine, ma ovviamente anche in questo caso la magistratura italiana non riuscirà a far luce per intero sulla vicenda, andando a sbattere contro una porta chiusa a doppia mandata dal solito articolo 11 e da un atteggiamento di finta collaborazione da parte dei vertici vaticani che in realtà è un vero e proprio depistaggio. Deposto de Bonis si cerca di cambiare rotta, ma la situazione intorno alla banca del papa resta tuttora poco limpida. Insomma, mezzo secolo di finanza sporca mascherata da carità, operazioni illegali rimaste impunite, venerabili tonache che nascondono la verità per salvare le apparenze, personaggi in odore di santità che sapevano tutto ma non dicevano niente, uno scandalo senza precedenti i cui protagonisti non solo non vengono condannati ma appaiono ancora agli occhi della maggior parte dei fedeli cattolici come esempi da seguire,. Nuzzi racconta tutto questo basandosi sulle prove concrete derivanti dalle carte di Dardozzi e su poche e ben sviluppate supposizioni, mettendo in luce le magagne senza dimostrare avversione ideologica nei confronti della chiesa e lasciando al lettore il compito di giudicare. L’opera è ben strutturata e l’analisi abbastanza approfondita, di contro alcuni passaggi appaiono ripetitivi e meno interessanti, altri puramente tecnici possono risultare ostici a chi è poco avvezzo al mondo bancario e finanziario. Inoltre l’articolata gerarchia dello Ior e i troppi nomi di personaggi, istituti, fondazioni possono creare un po’ di confusione. Sicuramente un libro da leggere per conoscere fatti che troppo spesso vengono taciuti dai media e per rendersi conto di come denaro e corruzione vadano sempre a braccetto sia che si parli di potere temporale sia che si parli di potere spirituale.
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Il labile confine tra il bene e il male
Henry Jekyll è un noto e stimato dottore londinese, da sempre virtuoso esempio di rispettabilità e buona educazione, apprezzato per la sua intelligenza e la sua cultura. Edward Hyde invece è un reietto, un essere ripugnante e viscido, senza inibizioni né scrupoli che ha nell’aspetto, oltre che nei modi, qualcosa di inquietante. Apparentemente i due non hanno niente a che vedere l’uno con l’altro, sono lontani anni luce sotto ogni aspetto. Eppure tra loro c’è un legame fortissimo, quasi morboso, un vincolo tanto indissolubile quanto inspiegabile che porta addirittura l’integerrimo medico a fare testamento in favore di Hyde. Ma l’avvocato Utterson, legale nonché grande amico del dottor Jekyll, vuole vederci chiaro dietro questa torbida storia e comincia un’indagine che lo porterà a conoscere una mostruosa e sconcertante verità: Jekyll e Hyde sono i due volti della stessa persona, uno rappresenta la parte buona, l’altro quella cattiva. Stevenson ci guida nei recessi più oscuri della mente umana giocando sul labile confine che separa il bene dal male. Un confine tratteggiato attraverso due personaggi antitetici e che per questo a prima vista può apparire netto, ma che in realtà non è così facile da stabilire: se è vero infatti che il viscido Hyde rappresenta solo e soltanto la parte cattiva dell’animo umano, il male puro, non si può invece dire che Jekyll sia soltanto la caratterizzazione del bene, anzi per sua stessa ammissione in lui virtù e vizi convivono da sempre e se i secondi hanno finora dovuto soccombere è solo per questioni di facciata. Hyde nasce proprio per dare al dottore la possibilità di sfogare i suoi più bassi istinti senza intaccare il suo buon nome agli occhi di concittadini ed estimatori, per realizzare i più perversi desideri addossando la colpa al suo alter ego e sentendosi con la coscienza a posto. Un comportamento palesemente ipocrita, attraverso il quale Stevenson bacchetta un perbenismo inglese di fine ottocento tutto intento a salvaguardare le apparenze. Ma di ipocriti dottor Jekyll che celano squallidi mister Hyde è piena anche la nostra società contemporanea: basti pensare a chi si erge a difensore dei valori cristiani per poi promuovere vere e proprie cacce all’immigrato, o a chi marcia in prima fila ai family day per poi lasciare a casa moglie e figli andando a spassarsela con avvenenti escort non sempre maggiorenni.
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Amore e rivoluzione
I primi decenni del ventesimo secolo non sono certo un periodo tranquillo per la Russia: la prima guerra mondiale, una rivoluzione fallita, un'altra riuscita ma solo attraverso una vera e propria guerra civile, uno stravolgimento totale del modo di pensare e di vivere della popolazione. In questo contesto scorrono le vite dei due protagonisti del romanzo di Pasternak, il medico Jurij Andrèevic Zivago e la bellissima Lara. Due esistenze che procedono parallele senza entrare in contatto se non di sfuggita, finché un destino comune non le farà incrociare. Due personaggi uniti da una sorta di avversione rispetto agli eventi storici del momento da cui si vedono travolti loro malgrado, ma che in qualche modo sono complici di un incontro che farà nascere tra loro una grande quanto tragica passione. Testimonianza di un periodo di notevole interesse storico e politico, questo libro prova a conciliare cronaca e filosofia, amore e guerra, virtù e vizi, in parte riuscendoci, in parte un po' meno. Spiccano dal punto di vista stilistico alcuni passaggi particolarmente virtuosi e le bellissime e sempre varie descrizioni dell'inverno siberiano, ma per il resto l'amalgama dei vari elementi a disposizione dell'autore non appare del tutto riuscita. L'analisi storica si sofferma spesso su particolari poco rilevanti tralasciandone invece altri che probabilmente sarebbero stati di maggior interesse, quella politica esprime una velata critica alla rivoluzione bolscevica poco argomentata e in un certo senso scontata visto il palese spirito religioso che pervade l'opera. L'esposizione del pensiero filosofico dell'autore avviene attraverso tediosi brani che troppo raramente esprimono concetti veramente originali e stimolanti. La stessa storia d'amore tra Zivago e Lara appare piuttosto piatta, la consistenza della passione fisica e spirituale che li lega si percepisce appena e rarissimi sono i momenti in cui il lettore si sente veramente coinvolto. Certamente il valore dell'opera è fuori discussione ma da un libro che è considerato quasi unanimemente uno dei più belli e interessanti del novecento e che ha fruttato un premio nobel al suo autore ci si aspetta qualcosa in più.
Indicazioni utili
- sì
- no
C’era una volta la Jugoslavia
C’era una volta la Jugoslavia: serbi, croati, sloveni, turchi, albanesi, ebrei, cattolici, ortodossi, mussulmani avevano messo da parte secoli di sangue e rancore per vivere uniti sotto la stessa bandiera in uno stato in cui non contavano né la razza, perché irrilevante, né la religione, perché bandita. Ma quando Josip Broz, meglio conosciuto come Tito, controversa guida politica di questa nazione multietnica venne a mancare la pace e la concordia finirono presto. Alla morte del “Maresciallo” infatti vennero subito rispolverate differenze e antichi risentimenti, ogni etnia rivendicò la propria indipendenza disseppellendo l’ascia di guerra, gli ideali di unità, fratellanza e uguaglianza inculcati nella gente dal vecchio regime vennero brutalmente soppiantati da un fervido quanto sanguinario nazionalismo, portando i Balcani a vivere uno dei momenti peggiori della loro storia. In questo terribile periodo si muovono i due protagonisti del libro di Clara Usòn, Ana e Danilo, due giovani amici, entrambi studenti, con tante cose in comune ma anche con tante differenze e divergenze di vedute. Ana, realmente esistita, è una convinta sostenitrice dello sciovinismo dilagante che porta il suo popolo ad imbracciare le armi per la causa nazionale (in questo caso Serba). Il suo modo di pensare dipende molto dall’ambiente in cui è cresciuta, suo padre è un militare molto famoso, un generale dell’esercito, un patriota che rischia la vita per difendere il suo popolo dai nemici e Ana lo adora e lo stima in maniera incondizionata. Il suo sogno è diventare presto un eccellente chirurgo e andare al fronte a salvare la vita agli eroi che combattono per la patria, così da seguire l’esempio del padre e rendersi utile alla causa serba. Ma i suoi castelli crollano impetuosamente quando la ragazza comincia a rendersi conto di chi è veramente l’uomo che l’ha messa al mondo: il generale Ratko Mladic è infatti conosciuto come il “boia dei Balcani”, un pazzoide esaltato responsabile di un incalcolabile serie di delitti contro l’umanità, dal genocidio alla violazione delle leggi di guerra. Scoprire che genere di mostro si celi dietro l’uomo che tanto ama e ammira sarà fatale per Ana. Danilo invece, personaggio di fantasia e voce narrante del libro, è un pacifista, un classico esempio di incrocio di differenti etnie e religioni, che non riesce a capire il senso dell’improvviso e violento nazionalismo che imperversa nei Balcani. Attraverso i suoi occhi ripercorriamo le varie tappe di una guerra atroce che si è combattuta a due passi da noi, nel cuore dell’emancipata Europa, tra l’imperturbabilità degli altri governi e lo scarso interesse dei mass media. Clara Usòn invece va a fondo nella sua importante e interessantissima ricerca storico-politica, non soltanto mettendo in evidenza le atrocità commesse ma anche denunciando l’indifferenza e addirittura le squallide connivenze grazie alle quali si è realizzato l’orribile progetto di pulizia etnica della ditta Milosevic-Karadzic-Mladic, cioè lo sterminio dell’intera popolazione mussulmana della Bosnia-Erzegovina, nonché l’intempestività di una Comunità Internazionale che ha deciso di intervenire solo a genocidio ultimato. Ottimo l’equilibrio tra reale e romanzato, impeccabile la cronaca, esaurienti le notizie. Inquietante l’analisi socio-politica che evidenzia quanto facile sia manipolare i mezzi d’informazione e raggirare le masse, quanto pericolosi siano i nazionalismi, a partire dal più innocente (in apparenza) campanilismo, e quanto siano sempre attuali le parole di Hegel quando diceva: “La storia ci insegna che gli uomini e i governi non hanno imparato nulla da essa”.
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Una passione tragica e travolgente
Attraverso le lettere scritte al carissimo amico Guglielmo, Werther racconta la triste storia che ha sconvolto la sua vita. La sua è un’esistenza serena e pacifica: figlio di buona famiglia e dotato di una notevole intelligenza, si dedica con passione all’arte e alla cultura. Nella primavera del 1771 si reca a Wahlheim per curare alcuni affari restando ammaliato dal posto e facendo interessanti amicizie. In particolare conosce la bella e dolce Carlotta, figlia del borgomastro, con cui instaura un forte legame che ben presto si trasforma per lui in un amore tanto ossessivo quanto privo di speranze. La ragazza infatti, pur dimostrando un certo affetto per il nostro eroe, è innamorata e promessa sposa del buon Alberto. Disilluso e pieno di dolore Werther si rende conto dell’impossibilità di coronare il suo sogno sentimentale, ma non riesce comunque ad allontanarsi da Carlotta continuando a frequentare la sua casa come amico. Quello che si verrà a creare sarà una sorta di morboso triangolo amoroso che inevitabilmente finirà per concludersi in maniera drammatica. Goethe racconta con grande maestria questa passione tragica e travolgente dal sapore lievemente autobiografico, incantando con il suo stile virtuoso e poetico e regalando momenti di intensa emozione e di grande empatia. Grazie alla forma epistolare infatti il lettore entra in forte intimità con il protagonista, che si apre totalmente all’amico mettendo a nudo la sua anima sconvolta non soltanto da sofferenze amorose ma anche esistenziali e rendendo praticamente impossibile restare insensibili davanti al dramma di un uomo che si vede pian piano annientare dai suoi stessi sentimenti. Quella di Werther è infatti una dolorosa parabola discendente che lo vede ridente e pieno di amore per la vita all’inizio del libro per poi precipitare progressivamente in un baratro di dolore e autocommiserazione fino a toccare tristemente il fondo con un ultimo disperato gesto: “Ho finito, Carlotta. Non tremo nell’afferrare il gelido, orrendo calice dal quale sorbirò l’ebbrezza della morte. Sei tu che me lo offri, e io non esito: si adempiono tutti i desideri e la speranza della mia vita. Così busso, freddo e irrigidito, alla porta della morte.”
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Faccia a faccia con il tempo
Il tempo non passa, il tempo invecchia. Ecco il concetto alla base di questo piacevole e delicato libro di Antonio Tabucchi composto da nove racconti che si differenziano tra loro per l’ambientazione geografica e storico-politica e per l’eterogeneità dei protagonisti e delle storie, ma sono tutti accomunati da un’atmosfera melanconica e da un’idea di impotenza davanti all’ineluttabile invecchiare del tempo. Dalla Svizzera al Maghreb, dal Kosovo alla Croazia, dalla Romania ad Israele, da Roma a Creta, e poi la Germania Est della Stasi, l’Ungheria dell’invasione sovietica e la Russia di Putin, il Portogallo di Salazar, la Polonia socialista, l’Italia del Grande Fratello. Visioni ancestrali che offuscano il presente; ricordi d’infanzia che tornano su letti di morte; un militare che attende pazientemente i devastanti effetti dell’uranio impoverito sulla sua salute cercando di leggere il futuro nelle nuvole; un uomo che ha passato la vita a spiare gli altri senza accorgersi di quello che accadeva nella propria casa; generali nemici che si incontrano a distanza di anni trascorrendo insieme i giorni più belli della loro esistenza; canzonette che rievocano un tempo ormai sparito, evaporato, marameo; avvocati di Stato che usavano trucchi cinematografici per alleviare le pene ai propri assistiti; un vecchio convinto di trovarsi in un’altra città; un uomo che si trova a vivere da protagonista una storia che lui stesso aveva inventato per combattere l’insonnia. Ogni personaggio è impegnato in un personale faccia a faccia con la propria vita passata, presente e futura, ma i confini tra ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà non sono ben definibili, il tempo si confonde, si intreccia, si nasconde. E’ difficile tracciare bilanci senza pensare al domani, è impossibile fare progetti senza fare i conti con un passato che riappare con la forza di una mandria di cavalli selvaggi che galoppano vorticosamente in cerchio, o che scava pian piano nell’anima come il suono ipnotico delle gocce, una diversa dall’altra, che cadono da una flebo: clof, clop, cloffete, cloppete.
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Viaggio a ritroso tra Europa e Medio Oriente
La storia del giovane ebreo Efraim Mani, soldato impegnato nella guerra di Libano nei primi anni ottanta, da il via ad un affascinante viaggio a ritroso nel tempo che, attraverso le vite dei suoi antenati giunge fino al 1799, anno di nascita del patriarca Abraham, commerciante di spezie e vice-rabbino. Spaziando tra Europa e Medio Oriente e rivivendo gli importanti eventi storici che hanno caratterizzato gli anni in questione, la delicata penna di Yehoshua offre un pregevole ritratto di una famiglia tormentata da un difficile destino, in un mondo accanito in una continua e inarrestabile guerra per il dominio politico, economico e religioso. Ottima l’analisi psicologica dei protagonisti, ammalianti le descrizioni dei luoghi, da Creta, culla della civiltà, a Istanbul, baluardo sacro per l’incrocio delle razze degli uomini, ad una spirituale Gerusalemme, il cui solo nome è di per sé più grande di qualsiasi edificio, moschea, muro o chiesa. Originale la tecnica narrativa usata dall'autore, che ci presenta i Mani attraverso le parole di chi li ha conosciuti, con un dialogo-monologo di cui ci pervengono solo le parole della voce narrante e non anche quelle del suo interlocutore. E così è la giovane Hagar ad iniziare questo viaggio parlando con sua madre di Efraim, il suo fidanzato, che si trova a combattere ancora sul fronte libanese nonostante un trattato di pace già firmato tra Gerusalemme e Beirut, e del Signor Mani, padre del ragazzo e aspirante suicida. È poi il turno del militare tedesco Egon che, durante la seconda guerra mondiale conosce a Creta l'esiliato politico Josef Mani e suo figlio, rispettivamente bisnonno e nonno di Efraim, che cercano di annullare il proprio essere ebrei per sfuggire alle persecuzioni naziste. Tocca poi a Horovitz, tenente inglese incaricato di indagare su un caso di spionaggio a Gerusalemme sul finire della prima guerra mondiale, farci conoscere meglio Josef e spiegarci le ragioni del suo esilio. Ci si sposta quindi a Cracovia, nell’ultimo anno del diciannovesimo secolo, dove il dottor Efraim Shapiro ci presenta il padre di Josef, il ginecologo Moshè, che ha conosciuto durante il III Congresso sionistico e seguito fino a Gerusalemme. Solo nel quinto e ultimo dialogo la parola è affidata ad un membro stesso dei Mani, il patriarca Abraham, nonno di Moshè, che nell’Atene del 1848 scossa dalla ribellione del popolo greco contro i dominatori turchi, narra l'inquietante e torbida storia della morte del suo unico figlio maschio. Cinque dialoghi, due secoli di storia, sette generazioni di una famiglia che, come il popolo cui appartiene, sembra impegnata in una eterna ricerca di un’identità, di una stabilità e di una pace che appaiono sempre più difficili da trovare.
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Elegante esempio di umorismo inglese
Siamo alla fine del diciannovesimo secolo e in una mattina di tarda primavera o di prima estate, come preferite, comincia questo viaggio sulle acque del Tamigi che parte dalla città di Kingstone, prosegue fino a Oxford e da qui inverte la rotta per un piovoso ritorno. Lungo il tragitto Jerome ci guida tra luoghi storici sulle orme di personaggi del calibro di Giulio Cesare, che proprio a Kingstone attraversò il fiume con le sue legioni; di Re Giovanni, che su una delle isolette sparse sul corso d’acqua si dice firmò la Magna Charta; di Enrico VIII che in un giardino di Ankerwyke House, vicino alla Punta dei Picnic, incontrava la sua Anna Bolena. Tra riferimenti storici e amene descrizioni seguiamo le comiche disavventure dei protagonisti, l’ipocondriaco J. (lo stesso Jerome), lo scaricabarile Harris, il dormiglione George e il pestifero fox-terrier Montmorency. A bordo di una barca a remi i quattro si avventurano in una rocambolesca traversata in cui ne combinano di tutti i colori: lotte con barattoli di ananas e bricchi del tè, esperimenti culinari e musicali, eroici bagni nell’acqua gelida e tante altre divertenti gags. Inoltre rievocano spassosi episodi (come la storia di zio Podger che attacca un quadro) e bacchettano la società con simpatiche ed ironiche considerazioni sulla vita e sulla gente. Un elegante esempio di umorismo inglese che non suscita risate grasse e volgari ma sano divertimento e sinceri sorrisi stimolando anche la riflessione e che proprio per questo non passa mai di moda e dopo tanti anni risulta ancora una godibile lettura per passare qualche ora spensierata.
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Trasgressivo inno alla libertà sessuale e morale
Wragby, vecchia dimora di pietra scura della famiglia Chatterley, lunga, bassa e immersa nell’assoluta e vacua cupezza di ferro e carbone delle Midlands inglesi, sembra, con le sue stanze malinconiche, incombere come una condanna sulla vita di Costance. Costretta a vivere in questa sorta di conigliera priva di eleganza avvolta nei vapori e nei fumi dei pozzi carboniferi, Lady Chatterley trascorre un’esistenza triste e piatta, dedicando il suo tempo al marito Clifford, un aristocratico colto, raffinato e conservatore costretto su una sedia a rotelle da una ferita di guerra. L’uomo, paralizzato dalla vita in giù e quindi impotente, dimostra apparentemente amore e rispetto per la bellissima moglie, ma in realtà la tiene legata a sé con una sorta di implicito ricatto morale, usandola come infermiera, segretaria, dama di compagnia e come oggetto da esibire, senza manifestarle mai affetto, anzi ostentandole continuamente la sua superiorità. Ma quanto può resistere in queste condizioni una ragazza piena di vita e bisognosa di passione come la protagonista di questo libro? Connie vuole sentirsi viva, vuole qualcuno che sappia darle il calore di cui ha bisogno, ma dove trovarlo se nell’ambiente chiuso e limitato che è costretta a frequentare ci sono solo egoisti, frigidi e apatici pseudointellettuali? La nostra eroina tuttavia riesce ad incontrare l’uomo giusto, proprio a due passi da casa ma lontano anni luce dal contesto sociale della famiglia Chatterley: si tratta di Mellors, il guardiacaccia di Clifford, che vive in solitudine in un piccolo cottage nel bosco di Wragby. La differenza di classe è notevole, lo scandalo è dietro l’angolo, ma i sentimenti, quando sono forti e vitali come questo, se ne infischiano delle convenzioni. Tra i due infatti nasce una passione molto fisica, carnale, che ben presto si trasforma in vero amore. Lady Chatterley viene travolta dalla potenza sessuale dell’uomo e vi si abbandona con tutto il corpo e l’anima, senza vergogne e senza inibizioni, sentendosi finalmente viva, amata, libera. Lawrence sfida i tabù della mentalità perbenista ed ipocrita della sua epoca, quella a cavallo tra le due grandi guerre, raccontando questa storia ad alto tasso di erotismo, ma facendolo con una classe incredibile, usando un linguaggio colto e raffinato e descrivendo molto esplicitamente le scene di sesso senza mai cadere nell’osceno, chiamando le cose per nome senza mai essere volgare. Trasgressivo e disinibito, l’autore si fa beffa del conformismo e delle convenzioni di una società chiusa e fin troppo legata a vecchi preconcetti, non solo dal punto di vista morale ma anche politico, criticando fortemente sia una classe dirigente arrogante e conservatrice che cerca in ogni modo di mantenere la supremazia e i privilegi ostacolando le possibilità di ascesa dei propri sottoposti, sia lo stesso proletariato d’oltremanica, indolente ed incapace di unirsi alla forte presa di coscienza della Classe Operaia che divampa in mezza Europa. Facile capire come un libro del genere pubblicato in un momento simile abbia incontrato difficoltà e affrontato critiche e censure, ma niente di tutto ciò è riuscito a scalfire il fascino letterario e l’impeto sovversivo di un libro immortale che si propone come una sorta di inno alla difesa dei propri impulsi e dei propri desideri, al diritto all’amore, al piacere e alla libertà sessuale e morale.
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A volte le brutte esperienze aiutano
L'adolescenza, si sa, è il periodo più complicato della vita di una persona. Può essere ancora più difficile quando si hanno diciotto anni e si detestano i propri coetanei. Diventa terribile se poi, anche tra gli adulti che ci circondano, le persone con cui si ha piacere a stare non sono più di un paio. Quando si è considerati disadattati, estraniati, problematici. E' quello che succede al protagonista di questo libro, James, un ragazzo che ha serie difficoltà a rapportarsi con gli altri, schivo, taciturno, solitario e disgustato dal mondo che ha intorno. James ha appena finito la scuola e lavora nella galleria d'arte della madre pluridivorziata in attesa di partire per l'università. Ma lui ha in mente altri progetti, l'università non lo attira, non vuole vivere in mezzo a tutti quei ragazzi così profondamente diversi dal suo modo di essere in compagnia dei quali ha già trascorso tutta la sua vita senza trovarli piacevoli né interessanti. Inoltre tutto ciò che gli serve può impararlo benissimo leggendo i suoi amati Trollope, Welch, Rohmer, senza spendere soldi in costosi corsi di studio di cui non gli importa niente solo per conformarsi ad una norma sociale. Sogna quindi di acquistare una vecchia casa nell'ovest e andarci a vivere da solo, imparare un mestiere e passare il tempo in compagnia dei suoi libri. Tra fughe, sedute psichiatriche, licenziamenti, guai a casa e disastrosi tentativi di conquista lo seguiamo in questo momento difficile e delicato, in cui potrà contare sempre sull'appoggio e l'affetto della persona che ama più al mondo, la nonna Nanette, l’unica che sembra capirlo, accettarlo e offrirgli un rifugio dalla stupidità, dall’intolleranza e dall’odio e che saprà fargli capire che i momenti difficili a volte possono trasformarsi in un dono. Caratterizzato da una buona analisi introspettiva del protagonista e da dialoghi incalzanti, questo libro di Cameron risulta piacevole e a tratti interessante, senza però entusiasmare più di tanto sia da un punto di vista stilistico, con la sua prosa fin troppo semplice e priva di qualsiasi virtuosismo, che dal punto di vista dell’originalità, con personaggi un po’ stereotipati e una storia che sa di già visto. Il romanzo infatti sembra fin troppo palesemente ripercorrere la trama e le tematiche de “Il giovane Holden”, senza riuscire ad avvicinare il carisma e l’estro che caratterizzano il capolavoro di Salinger, ma coinvolgendo comunque il lettore e lasciando un messaggio sempre valido che l’autore affida alle parole di Nanette: “A volte le brutte esperienze aiutano, servono a chiarire che cosa dobbiamo fare davvero. Forse ti sembro troppo ottimista, ma io penso che le persone che fanno solo belle esperienze non sono molto interessanti. Possono essere appagate, e magari a modo loro anche felici, ma non sono molto profonde. Il difficile è non lasciarsi abbattere dai momenti brutti. Devi considerarli un dono, un dono crudele, ma pur sempre un dono”.
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Immutabilità patologica
Siamo in pieno Risorgimento e lo sbarco a Marsala di mille camicie rosse guidate dal generale Garibaldi porta un’irreversibile sconvolgimento socio-politico negli equilibri siciliani: l’aristocrazia borbonica, classe finora dominante sull’isola, sta per essere soppiantata dall’ambiziosa e ascendente borghesia. Don Fabrizio, principe di Salina, vive questi cambiamenti con l’amara consapevolezza dell’inevitabile declino del ceto cui appartiene. Imponente, colto, elegante, ma anche burbero, altero, diffidente e tormentato da funerei pensieri, il protagonista del libro dedica il suo tempo alla caccia, a qualche peccatuccio extraconiugale e soprattutto allo studio degli astri, vero e proprio rifugio per la sua anima troppo spesso angustiata. Intelligente e scettico, si rende presto conto che l’impeto innovatore nato con l’Unità d’Italia porterà soltanto l’illusione del cambiamento, ma le cose resteranno sempre uguali. Anche il sorpasso che l’aristocrazia subisce nella scala sociale serve a ben poco, anzi, non fa altro che peggiorare le cose, perché manda al potere una borghesia incolta e ferocemente assetata di potere e denaro. Per salvare il salvabile Salina si vedrà costretto a fare buon viso a cattivo gioco e ad imparentarsi con uno dei maggiori rappresentanti del rozzo ceto rampante, il tanto disprezzato Calogero Sedara, esempio lampante di una nuova classe dirigente arricchitasi troppo in fretta. Ma il matrimonio tra il suo amato nipote Tancredi, per lui l’unico discente degno di essere il suo erede, e Angelica Sedara, pur permettendo la sopravvivenza del suo antico e nobile casato, non riuscirà comunque a salvare il Principe disilluso da un’inevitabile morte spirituale, nonché fisica. La bellezza della Sicilia, il fascino dell’epoca in cui il romanzo è ambientato, il carisma di Don Fabrizio, lo stile elegante dell’autore sono tutti elementi che rendono quest’opera uno dei maggiori capolavori della letteratura del novecento. Interessante l’analisi storica, ottima quella psicologica del protagonista, ricercato il lessico, piacevole la presenza di personaggi secondari simpatici e ben curati come Padre Pirrone, Don Ciccio Tumeo e il cane Bendicò. Bella e struggente la parte dedicata alla morte di Salina, ma il meglio dell’opera sta forse nel dialogo tra il Principe e il prefetto Chevalley, aspra, rassegnata e pungente constatazione sull’immutabilità patologica della Sicilia e dei Siciliani, ma più in generale dell’uomo e del mondo intero. “Tutto cambia affinché nulla cambi” è un motto certamente ancora e sempre più valido in un’epoca, la nostra, caratterizzata da una finta politica dell’alternanza e dalle frottole del bipolarismo e del “voto utile”.
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Amaro surrealismo
Visionari, tristi, pungenti, onirici, malinconici, i racconti di Kafka pubblicati in questa raccolta si differenziano per la varietà delle storie e dei protagonisti ma sono tutti accomunati da un profondo senso di amaro surrealismo e ruotano intorno ad un concetto comune: l’infelice situazione dell’uomo sulla terra e l’ineluttabilità del suo destino. Tra tutti spicca nettamente “La metamorfosi”, il vero capolavoro del libro, nel quale è racchiuso tutto il pensiero di Kafka sulla vita umana. Il commesso viaggiatore Gregor Samsa si impegna con grande fervore nel suo lavoro per garantire un buon tenore di vita alla sua famiglia, di cui è ovviamente il beniamino. Ma quando una mattina si sveglia trasformato in un grosso e rivoltante scarafaggio l’affetto e la riconoscenza nei suoi confronti cessano di colpo, crudelmente soppiantate dal ribrezzo e dalla paura che suscita nei suoi cari. Per lui comincia una vita di isolamento e di desolazione, in cui nessuno mostra compassione per la sua attuale situazione. Impietosa metafora della condizione umana, La metamorfosi è dotata di una fortissima carica empatica che permette al lettore di immedesimarsi nel povero Gregor, e offre continui spunti di riflessione su temi quali la diversità, la solitudine, l’abbandono. Insieme ad essa troviamo altri tre racconti lunghi, tutti degni di nota e meritevoli di essere letti. Ne “Il verdetto” un uomo che da ormai troppo tempo inganna incresciosamente un suo carissimo amico viene smascherato dal proprio padre: l’occasione è il pretesto per quest’ultimo per gridare al figlio la rabbia e la delusione per il suo comportamento ambizioso ed egoista degli ultimi anni e per lanciare contro di lui una dolorosa sentenza. Ne “Il fuochista” il giovane emigrante Karl aiuta il fuochista della sua nave a chiedere davanti al capitano giustizia per le angherie subite dal suo aguzzino, il capo macchine Schubal. La situazione sembra favorevole, ma il fuochista si lascia prendere troppo la mano, si esalta, si confonde, fino a capovolgerla a suo sfavore. In “La colonia penale” un esploratore viene invitato ad assistere ad un’esecuzione capitale tramite un meccanismo a dir poco sadico e truculento, col fine di giudicare il livello di civiltà e di giustizia di questo sistema. L’ufficiale addetto all’amministrazione di tale procedimento e grande sostenitore del violento dispositivo cerca invano di portarlo dalla sua parte, ma davanti alla fermezza del suo giudice non può che ammettere la sconfitta ed eseguire con la sua tanto amata macchina un’ultima condanna a morte. Il libro comprende poi tre raccolte di racconti brevi. La migliore è senza dubbio “Un medico condotto”, in cui spiccano in particolare tre novelle: “Un medico condotto”, una storia allucinata che dimostra come spesso chi sacrifica se stesso ed i suoi affetti per occuparsi degli altri riceva in cambio solo derisione e indifferenza; “Davanti alla legge”, una triste metafora dell’impossibilità per l’uomo di raggiungere le mete che persegue; “Sciacalli e arabi”, in cui si percepisce tutta l’assurdità e l’insensatezza delle rivalità e degli odi che troppo spesso ci dividono. Della raccolta dal titolo “Un digiunatore” si distingue soprattutto il racconto omonimo, storia di un singolare artista che dimostra come a volte il fanatismo (nell’arte, ma anche in qualsiasi altro campo) possa portare alla distruzione. Meno bella invece “Contemplazione” che, vuoi per l’estrema brevità dei suoi scritti, vuoi per la loro indecifrabile cripticità, non riesce ad essere coinvolgente né interessante. Poco da segnalare anche nella parte riguardante i racconti pubblicati singolarmente in riviste, dove si distingue soltanto “Il cavaliere col secchio”, in cui egoismo e avarizia fanno da protagonisti. Certamente consigliata per lo stile impeccabile, accompagnato da minuziose descrizioni e da atmosfere trasognate, e per l’importanza dei temi esaminati, quest’opera va però affrontata con la consapevolezza che non si tratta di una lettura agevole e leggera, ma molto impegnativa e ricca di sfumature, particolari e significati nascosti non sempre facilissimi da cogliere e che per questo richiedono grande concentrazione.
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Il disagio giovanile
Mancano pochi giorni alle vacanze di Natale quando il giovane studente di Pencey Holden Caulfield apprende di essere stato allontanato dall’istituto per scarso rendimento. La notizia non sembra sconcertarlo particolarmente, anche perché non è la prima volta che il protagonista del libro viene cacciato da una scuola per lo stesso motivo. Ribelle, indifferente e spavaldo, Holden anticipa la partenza dal college senza però avere nessuna intenzione di rientrare in casa prima del previsto. Forte di un discreto gruzzoletto di denaro, vaga invece per tre giorni per le strade di New York tra alberghi, bar e night club, atteggiandosi a uomo vissuto e incontrando gente di ogni risma, tra cui vecchi compagni, amiche, suore amanti di Shakespeare, prostitute con strani protettori, scialbe signore con il pallino delle star e burberi tassisti esperti di zoologia. A prima vista appare un piccolo sbruffoncello immaturo, un indolente figlio di buona famiglia che gioca a fare il grande con i soldi di papà. Ciò gli impedisce di riscuotere grandi simpatie nell’animo del lettore. Ma pian piano Salinger tira fuori ciò che c’è dentro la corazza esteriore del protagonista, mettendo in mostra la sua fragilità e ponendolo sotto una luce diversa. Capiamo allora che si tratta di un ragazzo molto sensibile che si trova a dover fare i conti con un mondo crudele, ipocrita e insensato cui non sente di appartenere e da cui sogna di poter scappare andandosene lontano, di abbandonare una società repellente rifugiandosi in una capanna vicino ad un bosco e fingendosi sordomuto per risparmiarsi “tutte quelle maledette chiacchiere idiote e senza sugo”. Con il suo slang giovanile (per l’epoca) e sgangherato, Holden ci racconta in prima persona il crescendo della sua depressione, alternando profonde e spesso mature riflessioni sullo “schifo” che lo circonda a puerili fantasticherie da ragazzino, spiegando i tormenti interiori che lo attanagliano e il bisogno di purezza che sfoga rifugiandosi nell’innocenza della sorellina Phoebe e nel ricordo di Allie, il suo fratellino morto. Un eroe atipico per un romanzo non certo politicamente corretto, con cui Salinger affronta un tema sempre attuale come il disagio giovanile nei confronti del mondo adulto e più in generale quello di tutte le anime particolarmente sensibili rispetto ad una società malata e alienante.
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Una barca tra le onde
L’acqua bolle nel samovar, un succulento storione allieta il palato, un bicchiere di vodka riscalda il corpo e lo spirito. Siamo nella Russia del diciannovesimo secolo e seguiamo le avventure del protagonista del romanzo, Pavel Ivanovic Cicikov, la cui vita è da lui stesso definita "una barca tra le onde". Accompagnato dai suoi due servi, il burbero Selifan e il pigro Petruska, a bordo di una carrozza da scapolo trainata da tre cavalli, un baio, un pomellato e un sauro, il nostro eroe si sposta per tutto il paese, frequentando l'alta società, affascinando tutti con il suo spiccato savoir-faire e conducendo con discrezione i suoi affari. In cosa consistano questi affari però non è facile spiegare. Ufficialmente compra anime, cioè servi della gleba da trasferire nei suoi fantomatici possedimenti agricoli. Fin qui niente di strano, ma c'è un piccolo particolare: quelli che interessano a lui sono i contadini deceduti dopo l'ultimo censimento e che quindi per lo stato risultano ancora vivi. In pratica compra anime morte. Per farne cosa? Come reagiscono i potenziali venditori davanti ad una simile richiesta? Cosa penserà la gente quando verrà a sapere di queste strane compravendite? Infine, chi è questo Cicikov? Per avere una risposta a queste legittime domande non c'è altra soluzione che lasciarci guidare dall'ironica penna dell'immenso Gogol’ in questo grottesco viaggio nella terra degli zar. Con eleganza ed umorismo l'autore disegna un bellissimo ritratto di una nazione affascinante e del suo popolo dal carattere tanto particolare, regalando momenti simpatici e a tratti esilaranti alternati a profonde riflessioni sui mali della società: corruzione, indolenza, pettegolezzi, vizi, sete di denaro, sono solo alcuni dei difetti che uccidono moralmente gli uomini, e coloro che ne sono affetti sono forse le vere anime morte cui si riferisce il titolo. Concepito come opera in tre volumi, questo libro avrebbe dovuto seguire la falsariga della Divina commedia ma Gogol è riuscito a completare solo la prima parte, mentre la seconda è giunta a noi lettori con diversi pezzi mancanti che non impediscono comunque di intravedere una sorta di rinascita morale dell'uomo che probabilmente sarebbe divenuta un vero e proprio riscatto nella terza parte. Tuttavia il fatto che si tratti di un romanzo incompleto non diminuisce il suo fascino né ne pregiudica il grande valore sociale. Che aspettate dunque? Salite in carrozza con Pavel Ivanovic, ordinate a Selifan di sferzare i cavalli, soprattutto quel lavativo di un pomellato, armatevi di pazienza con Petruska e via in marcia per la grande Russia tra villaggi, boschi e campi sterminati.
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Amore e morte
Anno 19.. Monaco di Baviera. Il famoso ed apprezzato scrittore tedesco Gustav Von Aschendbach, solitamente repellente all'idea di allontanarsi dalla sua città, viene preso da un'inspiegabile ed incontenibile impulso a partire. Decide allora di trascorrere un periodo di vacanza al mare, e nessuna destinazione appare più azzeccata della bellissima Venezia. Si avventura perciò in un viaggio che risulterà senza ritorno, in cui al degrado fisico si accompagnerà quello morale, frutto di una ossessiva quanto insospettabile attrazione platonica per un ragazzino polacco. Amore e morte convivono e combattono dalla prima all'ultima pagina di questo breve romanzo di Mann, la cui semplicità della trama contrasta con la complessità delle riflessioni concernenti il tema di fondo dell'opera: la ricerca della bellezza. Una ricerca che non conosce prevedibilità né limiti riguardanti età, convenzioni sociali, convenienze, questioni morali, che sprona l'uomo ad ambire ad un continuo miglioramento di se stesso, ma che, se portata all'estremo, può sfociare in insana morbosità e culminare nella morte dello spirito.
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- no
Confini mentali
La siepe come linea di demarcazione di un confine territoriale, come quella che separa la casa dei Finch da quella dei Radley, e che Scout, Jem e Dill vogliono a tutti i costi varcare per indagare nella vita del misterioso Arthur. Ma anche, in senso figurato, la siepe come simbolo di un confine mentale, che non permette di superare i propri limiti restando legati ad insensati pregiudizi e antiche convinzioni, barriere che il signor Finch si trova a dover fronteggiare attirandosi l'antipatia e il disprezzo della sua comunità, ma anche il rispetto e l'ammirazione dei pochi che la pensano come lui. Anni trenta. Stati Uniti, Alabama, Maycomb. La schiavitù ormai è stata abolita da un pezzo ma nei bianchi non è mai sparita la tendenza a giudicare e trattare i neri come esseri inferiori, a metterli da parte, a sfruttarli, ad usarli come capri espiatori. Atticus Finch è uno stimatissimo avvocato vedovo e padre di due bambini, Jem e Scout, che cerca di educare nel migliore dei modi aiutato dalla sua domestica di colore Calpurnia. Atticus accetta l'incarico di difendere Tom Robinson, un nero accusato di violenza carnale nei confronti della giovane bianca Mayella, figlia del balordo Bob Ewell. Una decisione giudicata scandalosa da tantissima gente e che porterà lui e i suoi figli a vivere un periodo difficile caratterizzato da volgarità, critiche, accuse e minacce. Ma i Finch affronteranno la situazione a testa alta, cercando in ogni modo di far fronte alla mentalità arretrata e bigotta dei loro concittadini. Per salvare la vita al povero Tom però potrebbe non essere sufficiente provarne l'innocenza, il colore della sua pelle è di per sé un inequivocabile indizio di colpevolezza. Voce narrante è la piccola e ribelle Jean Louise detta Scout che, accompagnata dal fratello maggiore Jem, cerca di barcamenarsi tra le difficoltà tipiche della sua età e le vicende degli adulti che finiscono per coinvolgerla. La sua dolcezza e la sua precoce intelligenza si trovano spiazzate davanti alla cattiveria e ai preconcetti che la circondano, la sua genuinità cozza con l'ottusità di squallidi luoghi comuni e l'ipocrisia di ridicole convenzioni sociali. Harper Lee è bravissima nel raccontare l'insensatezza di alcuni comportamenti umani attraverso gli occhi innocenti e puri di una ragazzina, miscelando la crudeltà e la tensione con l'allegria dei giochi e un pizzico di umorismo. Lo stile è ben curato, così come l'analisi dei personaggi e della società dell'epoca. Importante il messaggio che l'autrice lancia ai lettori: mai fermarsi alle apparenze, mai barricarsi nelle proprie certezze, ma tenere sempre aperta la mente al confronto e al dialogo: solo così si può superare la siepe che ci tiene confinati nelle nostre convinzioni e trasformare in luce le tenebre del pregiudizio.
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Maniacalità distruttiva
Quando c'è passione per un'arte ci si può accontentare di coltivarla senza necessariamente essere i migliori, si può essere contenti delle proprie qualità anche se non sono propriamente eccelse. Ma quando il legame con l'arte in questione diviene viscerale, quando ad esempio un musicista non solo vuole "saper suonare" il pianoforte ma desidera addirittura "essere" il pianoforte stesso, allora non basta avere talento, non basta essere virtuosi, per stare in pace con se stessi bisogna essere dei geni, bisogna essere i numeri uno. Ma, è chiaro, non può che esserci un solo "migliore", agli altri non restano che due possibilità: continuare ad esercitare eclissati dalla sua ombra o gettare la spugna e abbandonare del tutto. E' questo ciò che succede ai protagonisti di questo romanzo di Bernhard. Tre amici studiano insieme al Mozarteum di Salisburgo sotto la guida del grande compositore russo Vladimir Horowitz, condividendo studio, casa e una passione maniacale per il pianoforte. Sono Glenn Glould, il "virtuoso", Wertheimer, il "soccombente" e la voce narrante, il "filosofo", di cui non conosciamo il nome. Sono i migliori allievi della loro scuola, tre grandi talenti, tre fenomeni. Ma soltanto uno di loro è il genio, solo Glenn Glould può essere il top, lui e nessun altro può essere considerato il più grande pianista del ventesimo secolo. Quando il canadese suona le Variazioni Goldberg per un pubblico composto solo dai suoi due compari questi si rendono conto dell'inarrivabilità del suo talento e, non volendo essere secondi a nessuno, scelgono di abbandonare la musica. Una decisione che è frutto, più che di invidia e rancore, dell’amara consapevolezza della propria inferiorità davanti al loro virtuoso amico. Ma mentre per il filosofo l'abbandono non avrà strascichi negativi, Wertheimer, da buon soccombente, inizierà una parabola discendente che, dopo una serie di sintomi di squilibrio, lo porterà a compiere un gesto estremo. Un incalzante monologo composto da un turbine di ricordi e pensieri che si susseguono e si accavallano senza tregua, con volute ripetizioni e sprazzi di amara ironia, che non segue una vera trama e non ha un classico finale, ma coinvolge e appassiona il lettore portandolo in zone spesso inesplorate della psiche umana. Un libro che dovrebbe far capire quanto possa essere pericoloso trasformare le passioni in manie e le aspirazioni in ossessioni, perché non solo le delusioni possono essere tragiche ma anche il successo frutto della maniacalità, come insegna il caso di Glould e del suo “radicalismo pianistico”, può portare alla distruzione.
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Il sapore dei ricordi
El pan ed sèira, l’è bon admàn, ovvero il pane di ieri è buono domani, un antico detto contadino che Enzo Bianchi riprende per spiegare come le esperienze e la cultura che provengono dai nostri padri siano un ottimo insegnamento per noi figli. Ed è proprio questo il tema dominante del breve saggio con cui l’autore intende raccontare lo stile di vita povero e semplice che ha caratterizzato la sua infanzia, confrontandolo con quello frenetico e consumista dei giorni nostri, e constatando quanto possano risultare utili gli insegnamenti di chi ci ha preceduti e quanta validità ed importanza possano avere ancora oggi alcuni principi che regolavano la vita di allora, anche se spesso accantonati o dimenticati. Il canto del gallo, la cura per le piante da cui derivava il sostentamento per intere famiglie, la cucina tradizionale, il rito della tavola che andava al di là del mero nutrimento, il valore delle (poche) feste, ma anche la violenza domestica, i bicchieri di troppo, la durezza del lavoro nei campi, il freddo, la fame, sono alcuni dei tanti aspetti su cui si sofferma il libro. I racconti di Bianchi ricordano molto quelli pieni di nostalgia per i tempi andati e di malanimo per quelli odierni che spesso ascoltiamo dai nostri nonni o genitori e che, anche se si riferiscono a poco più di mezzo secolo fa, sembrano appartenere a un'epoca remota viste le fortissime differenze con il mondo in cui viviamo oggi. Il priore di Bose però si lascia prendere la mano e infarcisce il racconto di luoghi comuni e di immagini stereotipate, eccedendo inoltre in inutili ripetizioni e girando e rigirando sempre intorno agli stessi concetti. Ciò non toglie comunque che il libro rappresenti una lettura interessante e piacevole, ma va preso con le molle perché, come spesso accade quando c’è di mezzo la memoria, nei ricordi le cose tendono ad apparirci migliori di quanto in realtà non erano, e il sapore del pane di ieri potrebbe non essere stato poi così gustoso.
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Ossessioni e pigre abitudini
Giovanni Percolla è uno scapolo catanese che vive oziosamente tra le coccole che gli riservano le tre sorelle zitelle con cui abita, un lavoro senza costrutto nella merceria di famiglia, lunghe ore di sonno, lauti pasti e un chiodo fisso che lo attanaglia giorno e notte: il gentil sesso. Così come i suoi amici e, a quanto sembra, la quasi totalità dei suoi concittadini e corregionali, Giovanni è ossessionato dal pensiero della donna. Una mania che però viene sfogata solo attraverso una morbosa immaginazione e un'infinità di fantasiose chiacchiere da bar, se si eccettua qualche squallida e poco soddisfacente esperienza a pagamento. Ma l'amore per Ninetta, incantevole continentale, sembra riuscire a cambiarlo, ad allontanarlo dalle proprie ossessioni e dalle sue pigre abitudini. Il protagonista si sposa, cambia città, amicizie e modo di vivere, sembra un'altra persona. Ma quanto tempo può durare tutto ciò? Si può veramente sfuggire alle proprie origini e alla propria natura? In antitesi con la tendenza del ventennio a promuovere un ritratto dell'uomo italiano attivo, coraggioso, forte e concreto Brancati propone una visione di maschio nostrano pigro, indolente, abitudinario e fanfarone. L'autore regala simpatici momenti di umorismo e un adorabile ritratto della sua bellissima regione, il tutto raccontato in bello stile e con un'ironia a dir poco pungente con cui si fa beffa delle ridicole velleità amatorie di Casanova immaginari e di chiunque pensa invano di poter mascherare le proprie radici e di riuscire ad apparire ciò che in realtà non è.
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Santi, clochard e bicchieri di pernod
Un racconto a metà tra favola e parabola che concilia un che di mistico e di surreale alla spietata durezza della realtà. Un protagonista combattuto tra le umane tentazioni del vizio e il nobile desiderio di restare una persona onorevole nonostante la condizione di decadenza. Il clochard Andreas vive di stenti sotto i ponti di Parigi con un solo compagno, l'alcool, e con la rassegnazione e la disillusione tipiche di chi da troppo tempo combatte con la miseria. Un giorno riceve in prestito da uno sconosciuto una discreta somma di denaro con l'impegno di restituirla non a lui ma al parroco della chiesa di Santa Maria di Batignolles, come ringraziamento a Santa Teresa di Lisieux, cui il benefattore è devoto. Quei 200 franchi possono essere lo stimolo per ripartire, per rifarsi una vita, il pagamento del debito può essere un modo per dimostrare che la decadenza materiale non necessariamente include anche quella morale. Ma i buoni propositi di Andreas si scontrano continuamente con le sue debolezze, e rinascere ed onorare l'impegno si riveleranno imprese meno facili del previsto. Autobiografica e fortemente autocritica, questa storia fa trasparire i tormenti di Roth, schiavo del bicchiere e ormai prossimo alla morte, ma anche il suo geniale talento letterario e la sua grande sensibilità e capacità di raccontare l'animo umano con parole semplici e con velata ironia. Una visione pessimistica quella dell’autore, che vede gli sforzi e la buona volontà degli uomini soccombere davanti alla loro natura indolente e viziosa. Resta comunque un piccolo barlume di speranza: la vita, anche nei momenti peggiori, può offrirci un’opportunità di riscatto, sta a noi approfittarne o continuare ad affogare in un simbolico bicchiere di pernod.
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Una donna alla ricerca di se stessa
Marianne è una trentenne sposata con Bruno, direttore vendite di un’affermata ditta di porcellane. I due vivono agiatamente in un bungalow in un quartiere residenziale e hanno un figlio di nome Stefano. Il loro sembra un matrimonio felice, ma la donna un bel giorno decide di dare il ben servito al suo compagno pregandolo di andarsene da casa e lasciarla da sola con il bambino, senza giustificare la sua scelta. Inizierà per lei un periodo di riflessione interiore che la vedrà rifugiarsi in una profonda solitudine, rifiutando compagnie, svaghi e avances e concentrandosi invece su se stessa e sul suo lavoro di traduttrice. Libro breve e glaciale, in cui l’autore racconta i tormenti di una donna alla ricerca del proprio Io, senza intraprendere una vera e propria analisi introspettiva della protagonista ma basandosi su piccoli particolari, su gesti quotidiani apparentemente banali e su vaghe informazioni riguardanti la sua vita che più che spiegare fanno intuire velatamente quali potrebbero essere le ragioni della sua scelta e la maniera in cui la donna affronta le conseguenze della sua decisione. Una decisione che Marianne sembra difendere con sempre maggiore fermezza e convinzione, dichiarando esplicitamente che non cerca la felicità, anzi la teme, dimostrando fastidio nei confronti di chi vuole spiegarle come è fatta lei e indifferenza verso chi cerca di starle vicino e verso i blandi tentativi del marito di riconquistarla. Decisa, misteriosa, impassibile, la protagonista affronta un viaggio nei meandri della propria identità che va oltre la fuga dal matrimonio e la conquista di una libertà fine a se stessa.
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Progressiva alienazione
È una fredda mattina d’autunno a Pietroburgo. Il consigliere titolare Jàkov Petròvic Goljàdkin è alle prese con un difficile risveglio in cui non riesce a distinguere tra sogno e realtà. Ci mette un po’ a riprendersi ma si alza dal letto con la migliore predisposizione d’animo. Lui è puro, mondo e netto da ogni macchia, schietto, amorevole e cordiale. E’ fiero di non essere un intrigante, se ne sta per conto suo e non prova che sprezzo per i nemici. Oggi per il nostro eroe è un giorno speciale: ha affittato una carrozza per l'intera giornata, ha a disposizione un cospicuo mazzetto di banconote e vanta un importante invito in casa del suo benefattore, il consigliere di stato Olsùfij Ivànovic Berendèev, per festeggiare il compleanno della figlia di questi, Klàra Olsùf’evna, di cui è innamorato. Ma le cose non vanno per il verso giusto, i suoi nemici gli stanno giocando un brutto tiro. Berendèev si rifiuta di riceverlo, lui entra comunque ma tutti gli si mostrano ostili, viene sbattuto fuori, corre a casa in preda al panico e nel delirio si imbatte in una strana persona, un individuo singolare che da questo momento in poi trasformerà radicalmente la sua esistenza. Cos'ha di particolare costui? Il suo nome è Jàkov, il suo patronimico Petròvic, il suo cognome Goljàdkin, proviene dalla sua stessa città, viene assunto nel suo stesso ufficio e per giunta gli somiglia in maniera strabiliante, come fosse il suo gemello, come fosse la sua stessa immagine riflessa in uno specchio, come un perfetto sosia. Tra i due nasce subito un’amicizia che pare sincera. Goljàdkin Junior sembra una persona a modo, educata, cortese, timida, fa quasi tenerezza. Jàkov Petròvic lo accoglie in casa sua, generoso e prodigo di affetto. Ma dopo poco il sosia comincia a mostrare un altro carattere, rivelandosi un vero e proprio antagonista nei confronti del nostro eroe, umiliandolo, coprendolo di ridicolo davanti a colleghi, superiori e conoscenti e riuscendo lì dove lui ha fallito: fare carriera e farsi ben volere da persone importanti e potenti. Dostoevskij ci guida in questo incredibile viaggio attraverso la progressiva alienazione della mente del protagonista, raccontando con grottesca ironia, stile poetico e una magistrale analisi psicologica il suo delirio e lo sdoppiamento della sua personalità. Il sosia infatti non è che l’incarnazione stessa della malattia mentale e della mania di persecuzione di Jàkov Petròvic, che crea nella sua mente un vero e proprio alter ego che possiede tutti i difetti, tutti gli aspetti negativi che egli ha sempre riscontrato e aspramente criticato negli altri, negli intriganti, nei suoi nemici, nelle persone che usano i mezzi più infimi pur di farsi strada. La sua pazzia sembra nascere dall’insoddisfazione, dalla frustrazione, dal desiderio di essere migliore che si scontra con la consapevolezza di essere invece una persona insignificante. Il protagonista peggiora di pagina in pagina, confonde l’immaginazione con la realtà, cambia continuamente opinioni e atteggiamenti, non riesce a comprendere né la sua situazione né gli effetti delle sue azioni. Tutto ciò non può che portarlo a sprofondare definitivamente nel baratro della follia. In questo romanzo l’autore tratta il tema a lui tanto caro della difficile condizione dell’uomo, qui schiacciato da un sistema burocratico che lo relega ai margini della società e che ne frantuma i sogni e le aspirazioni, portandolo ad odiare non solo chi gli sta intorno ma perfino se stesso. Ma sotto quest’aspetto la Russia zarista del diciannovesimo secolo non sembra poi troppo differente dall’odierna società occidentale, né sembra essere migliorata più di tanto la situazione degli individui che anche oggi vedono troppo spesso frustrate le proprie ambizioni e diverse volte constatano tristemente di possedere loro stessi i difetti che tanto aborrano negli altri.
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Al cuore non si comanda
Per una serie di ovvie ragioni sarebbe bene innamorarsi sempre della persona giusta, o meglio che si ritiene giusta per utilità, convenienza, decoro, convenzioni sociali, soprattutto quando si appartiene ad una famiglia di un certo rango, soprattutto quando si è già sbagliato giocandosi male la propria (unica) possibilità. Ma al cuore, si sa, non si comanda. Allora può capitare che si perda la testa per chi non si dovrebbe e le conseguenze possono essere catastrofiche. È ciò che succede ad Ammu, madre di due gemelli e con alle spalle un matrimonio con un uomo alcolizzato e bugiardo contratto solo per sfuggire ad un padre ipocrita e violento, che trova in Velutha una nuova giovinezza, un’altra ragione di vita, l’amore e la dolcezza che ha sempre desiderato e non ha mai avuto, il suo Dio delle piccole cose. Ma Velutha è un Intoccabile, un Paravan, uno schiavo sporco e selvaggio che per di più professa idee marxiste di affrancamento. Che ha la sfrontatezza di ricambiare Ammu con tenerezza e ardore. Che si permette di amare i gemelli come fossero suoi figli e di farsi amare da loro. Ma come si può parlare di errore davanti ad un legame così forte ed intenso? Quando un sentimento è così viscerale, così puro, non si è necessariamente nel giusto? Perché devono intervenire e vincere stupide differenze di casta o di classe che siano, perfidia e invidia dei parenti, squallide motivazioni religiose e politiche? Perchè Ammu è costretta alla clandestinità e al disonore per amare di notte colui che i suoi figli amano di giorno? Ed è proprio attraverso gli occhi ingenui e innocenti dei due gemellini dizigoti Estha e Rael che Arundhati Roy narra questa struggente e tragica storia d'amore. Due bambini con una sola anima, che guardano il mondo con la fantasia, la gioia, la paura tipiche della loro età, ma che a causa di questioni più grandi di loro, si ritrovano troppo presto e troppo brutalmente fuori dall’infanzia ad andare incontro non alla morte ma alla fine della vita. La durezza dei fatti narrati è ben compensata da uno stile raffinato e poetico, dalla dolcezza dei protagonisti e da atmosfere incantate. Sullo sfondo le contraddizioni tipiche degli uomini di ogni razza e latitudine qui descritte attraverso un’India in cui i progetti di riscatto ed emancipazione professati da un governo di ispirazione marxista si scontrano con una società bigotta e legata a vecchie tradizioni e pregiudizi, all’ipocrisia, all’invidia, alla rassegnazione, a sporchi interessi economici e a desolanti giochi di potere.
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Magistrale lode all’amicizia
Amichai, Churchill, Ofir e Yuval: quattro amici a cavallo dei trent'anni che dai tempi del liceo sono praticamente inseparabili. Quattro persone profondamente diverse tra loro ma legate da un sodalizio fortissimo che resiste a qualsiasi divergenza, rivalità, invidia, incomprensione. Un gruppo indivisibile, con le sue abitudini, i suoi riti, il proprio linguaggio e i propri scherzi, con norme e regole tacite e non da rispettare. Durante la finale dei mondiali di calcio del 1998 la comitiva è riunita davanti alla tv per assistere all'evento e nella mente di Amichai balena un'idea che prontamente propone agli altri: ogni membro deve scrivere su un bigliettino tre desideri, tre propositi per il futuro che vorrebbe veder realizzati fra quattro anni, quando in occasione della prossima finale verrà svelato il contenuto dei foglietti misteriosi e confrontato con i risultati che i ragazzi avranno ottenuto. Grazie al racconto fatto in prima persona da Yuval scopriamo come si siano trasformate nel corso di quei quattro anni le vite dei protagonisti, attraverso amori, tradimenti, delusioni, lutti, cambiamenti radicali. Ci accorgiamo di come sia importante il loro legame e di come la maniera viscerale in cui viene vissuto lo renda invulnerabile. A volte sembra addirittura che i ragazzi arrivino a vivere la propria vita attraverso quella degli altri. I loro desideri, per quanto totalmente diversi, sembrano subire questa comunione, ognuno di loro diventa il desiderio di tutti, tanto che alla fine la loro realizzazione avverrà attraverso una sorprendente simmetria. Originale, profondo, emozionante, questo libro di Eshkol Nevo coinvolge ed appassiona grazie allo stile grazioso e vivace, alla particolare ambientazione storico-politica e al carisma e all’umanità dei personaggi, tra cui spicca la voce narrante Yuval, timido, introverso, silenzioso, con una personalità fragile e insicura ma dotato di un animo buono e comprensivo e della rara e nobile capacità di perdonare. Ma il vero e incontrastato protagonista del libro è il sentimento dell’amicizia, di cui Nevo tesse magistralmente le lodi senza mai cadere in pomposa retorica o in facili banalità, ma evidenziando quanto impegno e dedizione richieda e quanta importanza abbia nella vita di ognuno di noi. "Ma questa è proprio la definizione dell’amicizia, no? Un’oasi che ci permette di dimenticare il deserto…o…una zattera le cui assi si tengono unite. O…un piccolo staterello circondato dai nemici. Non credi?”
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Un fiume di buonismo
Coelho propone una raccolta di fatti, racconti, leggende, credenze popolari, pensieri, esperienze di vita reali o presunte tali, al fine di tentare di spiegare il proprio punto di vista riguardo al senso della vita. Un punto di vista sicuramente positivo ed ottimista, influenzato visibilmente da un profondo senso di spiritualità e dalla consapevolezza che, se si riescono ad apprezzare appieno le piccole cose, si vive molto meglio. Idee apprezzabili e condivisibili che non evitano però a questo libro di apparire eccessivamente mellifluo tanto che, per restare in tema con il titolo, potremmo parlare di un fiume pieno di buonismo che scorre su un letto di banalità. Non male lo stile e da evidenziare la profondità e la capacità di coinvolgere di alcuni racconti, tra i quali sono senz’altro da segnalare “Gengis Khan e il suo falco”, “La carità in pericolo”, “Una favola”, “Il pianto del deserto” e “Grazie, presidente Bush”. Ma stanca l’esagerata mielosità che a tratti sembra rasentare l’ipocrisia, così come possono risultare seccanti alcune parti palesemente autocelebrative, l’enfasi da santone e i troppi e troppo banali riferimenti religiosi.
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Piccolo e inconsapevole capolavoro
Due anni e passa di autoreclusione per sfuggire alla follia devastatrice degli uomini. Il periodo più delicato e difficile dell'adolescenza trascorso tra la paura di essere deportati o bombardati e la difficoltà di tenere a freno un temperamento esplosivo e una incontenibile voglia di vivere. Attraverso il suo diario su cui scrive rivolgendosi a Kitty, un'amica immaginaria, Anna descrive se stessa e la sua triste esperienza di perseguitata. Una ragazzina come tante, piena di vita e di ambizioni, che ripone grandi aspettative nel futuro costretta a rinchiudersi in un appartamento nascosto con la sua famiglia e con gli amici Van Daan per sfuggire alle deportazioni naziste. Anna racconta a Kitty la paura che pervade gli abitanti della casa, i sensi di colpa che l'assalgono quando pensa ad amici e conoscenti meno fortunati di lei che sono finiti nei campi di concentramento, le difficoltà ideologiche e materiali di coabitazione, i tormenti adolescenziali che la portano ad uno scontro continuo con i più grandi. Ma anche la bontà dei loro virtuosi protettori, l'entusiasmo per lo studio, i progetti per il futuro, nonché i primi crucci amorosi. Nelle sue toccanti confessioni epistolari la piccola eroina dimostra una grande maturità, non solo per i pensieri che espone ma anche per lo stile "adulto" e coinvolgente, palesando grande sensibilità ma anche un carattere forte e ribelle. Carattere che però non l'aiuta a soffrire di meno quando si sente incompresa e poco amata o quando cerca invano di spiegarsi perché gli uomini arrivino ad odiarsi tanto tra di loro. Il diario si chiude con la lettera a Kitty datata I agosto, intrisa di toccanti considerazioni personali. Il resto dello storia di Anna lo veniamo a conoscere da altri, da chi ha trovato e pubblicato questo manoscritto: il nascondiglio segreto verrà scoperto il 4 agosto e i suoi abitanti saranno deportati e moriranno nei lager. Ma Anna continuerà sempre a vivere attraverso le pagine del suo piccolo e inconsapevole capolavoro, a testimonianza di uno dei capitoli peggiori della storia umana.
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Inesplicabile gnommero
Nella Roma del ventennio non c’è spazio per la criminalità. L’opera di moralizzazione dell’Urbe portata avanti dal “Testa di Morto in tight” prevede l’estinzione di ladri, assassini, truffatori e compagnia bella. Ma un duplice pasticciaccio rischia di infangare la riuscita del programma del “Mascellone”. Nell’inverno del 1927 infatti in via Merulana succedono a breve distanza due fatti criminosi, nello stesso palazzo e addirittura sullo stesso pianerottolo. Prima avviene un furto a colpi di pistola in casa della contessa Menegazzi, quindi viene brutalmente assassinata la sua dirimpettaia, la distinta e affascinante signora Liliana Balducci, grande amica e inconfessato amore del dottor Francesco Ingravallo, comandato alla mobile. E proprio a lui, don Ciccio come tutti lo chiamano, viene assegnato il compito di condurre le indagini, per scoprire i colpevoli e mettere a tacere l’opinione pubblica per la gioia del “nuovo inquilino in fez di palazzo Chiggi”. Ma non sempre le ricerche portano alla scoperta della verità. Coerentemente con la sua visione del mondo basata sulla inesplicabilità delle vicende umane, Gadda lascia questo giallo insoluto, così come insoluti risultano gli sforzi dell’uomo per venire a capo della complessa matassa della vita. Vediamo quindi i vani tentativi di don Ciccio di districarsi in questo ingarbugliato “gnommero” , tra cugini incantatori, ingegneri dal palato fino, garzoni sospetti, elettricisti latitanti e ragazze sedotte e abbandonate. Ma il buon Ingravallo appare svogliato e rassegnato nella conduzione dell’indagine, un po’ per la palese inanità della sua ricerca, un po’ per la scarsa voglia di lavorare al servizio di un governo scellerato. L’autore mette in secondo piano l’aspetto giallo della storia, esponendo invece la sua disillusa concezione della vita, ironizzando sulla condizione umana e affondando stoccate sul regime e sul suo fanatico leader. Ma la sua idea di inestricabilità del mondo sembra ricadere anche sulla prosa che risulta arcigna e fin troppo articolata, rendendo ostica e pesante la lettura. A ciò vanno aggiunte le lunghe disquisizioni in stile barocco su argomenti avulsi dal contesto e per niente interessanti come ad esempio l’importanza degli alluci nell’iconografia sacra. Gradevole invece, anche se a volte di difficile interpretazione, il ricorso a pittoresche espressioni dialettali e a folkloristici personaggi popolari come ad esempio sora Manuela o la Zamira, sarta, lavandaia, ristoratrice, indovina, meretrice e maitresse, che danno un’idea colorita e realistica di una capitale e di una nazione a cui, nonostante le difficoltà dell’epoca in questione, non si può che guardare con simpatia.
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Bei sentimenti e nobili intenzioni
Il cuore è l'organo del corpo umano a cui vengono ricondotti i buoni sentimenti e per questo immortale capolavoro De Amicis non poteva trovare un titolo più azzeccato. Amicizia, rispetto, amore, riconoscenza, coraggio, patriottismo, generosità sono alla base di un libro che tutti dovrebbero leggere, indifferentemente dall'età anagrafica. Anno scolastico 1881-1882. Enrico, giovane studente di terza, tiene un diario su cui riversa le sue esperienze ed i suoi pensieri riguardo la scuola: il rapporto fondato sul rispetto e l'ammirazione nei confronti del suo insegnante, vero e proprio maestro di vita, e quello basato sull'amicizia e la fratellanza con i suoi compagni, piccoli eroi di ogni giorno e alleati esemplari. Facciamo così la conoscenza del signor Perboni, professore gentile e buono, di Derossi, eternamente primo della classe sempre pronto ad aiutare gli altri, di Garrone, gigante dal cuore d’oro e difensore dei deboli, di Coretti, che lavora sodo nella bottega del padre ma trova sempre il tempo e la voglia di studiare, di Garoffi, astuto affarista sempre impegnato in una vendita o in una lotteria. E poi il simpatico “muratorino”, il dolce Precossi, il determinato Stardi e tanti altri, ognuno con una caratteristica peculiare, ognuno proveniente da una diversa estrazione sociale e con una situazione economica e familiare diversa, a sottolineare l’eterogeneità di un paese appena unificato. Ma nel diario c'è posto pure per ciò che avviene fuori dalle aule, per i teneri rimbrotti e gli importanti insegnamenti del padre, i dolci stimoli della madre, la descrizione del modo di vivere dell'epoca e per dei racconti, uno per ogni mese, che hanno come protagonisti giovani valorosi che guidati dal coraggio, dall'amore, dalla forza di volontà, dal patriottismo compiono gesta eroiche e fungono da encomiabili esempi per i lettori. Edmondo De Amicis si cimenta nel difficile duplice compito di cercare di educare sia i ragazzini che i loro genitori, invogliando i primi all’amore per lo studio, al rispetto per le persone più grandi ma anche per i compagni, indipendentemente dal ceto sociale, dalla ricchezza, dal lavoro svolto, ed i secondi ad inculcare nelle nuove generazioni ideali di giustizia sociale, generosità, spirito di sacrificio attraverso la comprensione, il perdono, il sostegno e la fiducia. Un ruolo fondamentale poi l’autore lo assegna all’amor di Patria, in un periodo in cui era indispensabile il consolidamento dei rapporti tra gli abitanti di un paese che fino a pochi anni prima era frammentato in stati, staterelli e ducati. Il risultato è un libro magnifico e coinvolgente che da più di un secolo risiede in pianta stabile nelle librerie di quasi tutte le case italiane e che continua ad avere fascino e carisma pur avendo uno stile un po’ antiquato e nonostante il fatto che i tempi siano cambiati e nel mondo attuale sembra non ci sia più posto per i bei sentimenti e le nobili intenzioni che De Amicis professava.
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Eroina “pirandelliana”
Non bisogna essere naturali ma sembrare naturali. Su questo precetto si fonda la carriera di Julia Lambert, la migliore attrice d’Inghilterra. Quando si trova sul palco, la protagonista di questo libro sa sempre come comportarsi, che posa assumere, che espressione prendere, che tono di voce usare, che sguardo e che sorriso sfoderare. Grazie al suo talento riesce a far innamorare di sé il pubblico, rendendo piacevoli e coinvolgenti anche le sceneggiature più banali. Ma Julia una volta uscita dal teatro continua a comportarsi come se fosse ancora in scena. Anche nella vita di tutti i giorni le sue maniere sono sempre effettate, i suoi gesti calcolati, le sue parole mirate. E’ come se non smettesse mai di recitare. Lo fa con i suoi ospiti, con il marito, con il figlio, con i domestici, con gli amici. Recitare le viene praticamente naturale, la finzione diventa la sua verità, tanto che non la si può nemmeno accusare di essere falsa. Sembra non esistere realmente ma essere il risultato delle innumerevoli parti interpretate, come se non avesse un proprio “io” ma sia solo un veicolo per i personaggi che impersona. L’unico che sembra accorgersi di ciò è il figlio Roger, mentre tutti gli altri sono talmente soggiogati, irretiti, quasi succubi di questa diva seducente da non rendersi conto dell’artificiosità dei suoi comportamenti. Un’eroina ammaliante, con un che di “pirandelliano”, attraverso la quale l’autore ci racconta un mondo controverso e ricco di fascino come quello del teatro, con i suoi retroscena, le rivalità, le abitudini, i vizi e le virtù, descrivendo bene la fame di successo e il bisogno viscerale degli addetti ai lavori di strappare un applauso al pubblico. Ma c’è una domanda che sembra accompagnarci per tutto il libro: la fama, il denaro e il successo bastano di per sé a dare la felicità?
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Guerra alle “tenebre d’Egitto”
"Insegnami, angolo sperduto! Insegnami silenzio della casa di campagna! Si, un vecchio ambulatorio può raccontare molte cose interessanti a un giovane medico." In queste poche parole Bulgakov sembra racchiudere tutti i dubbi e le paure, le sofferenze e le privazioni, la voglia di imparare di un giovane medico neolaureato che alla sua prima condotta viene mandato in un angolo sperduto di mondo a lottare contro la sua inesperienza e contro l'ignoranza e le superstizioni di persone povere non solo dal punto di vista materiale ma anche e soprattutto culturale. Gente legata a vecchie credenze che si affida più volentieri ai metodi insensati di strambe levatrici, che pensa di risolvere tutti i problemi con le goccine, magari prendendo in una sola volta tutte le dosi di medicinale previste da una lunga cura, o che rinuncia a credere che dietro un semplice mal di gola si nasconda la sifilide. Problemi pratici, reali, delle vere e proprie “tenebre d’Egitto” che si affiancano ai tormenti spirituali ed esistenziali del nostro novello Esculapio. Con il suo solito stile incantevolmente elegante, con il consueto mix di amara dolcezza e frizzante ironia, il Maestro ci rende partecipi della sua esperienza autobiografica come dottore, raccontandola in prima persona ma attraverso una sorta di fantasioso alter ego, il dottor Bomgard. Nove racconti, altrettanti episodi di vita tra bisturi, siringhe, stetoscopi e spaventose tormente di neve. Giunto nell'ospedale rurale sede del suo primo incarico con un bagaglio culturale fatto di sola teoria e zero pratica, Bomgard si trova innanzitutto a dover combattere con il dubbio di non essere all'altezza del compito affidatogli e con la paura di incorrere in errori o di non sapere che pesci prendere davanti a situazioni per lui sconosciute, in un ospedale pieno zeppo di attrezzature mediche di cui non sospettava neanche l'esistenza e con il fantasma di un predecessore capace, brillante e amato dalla gente con cui doversi confrontare. L'inizio sarà duro ma tra amputazioni, tracheotomie, parti complicati il buon dottore saprà cavarsela egregiamente, acquisendo sicurezza e disinvoltura ma rendendosi conto che non ci si può mai adagiare sugli allori perché non si sa mai cosa può riservare il prossimo paziente. Non si smette mai d’imparare, e per imparare bisogna continuamente leggere e studiare. Bellissima l’immagine che Bulgakov ci regala alla fine del quinto racconto: mentre fuori impazza la guerra, Bomgard armato di spada, o forse di uno stetoscopio, con la sua armata in camice bianco formata da lui e dai suoi tre collaboratori avanza incontro al nemico per combattere la sua personale battaglia contro le tenebre d’Egitto.
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Bugie, retroscena e cacce alle streghe
La storia, è risaputo, la scrivono i vincitori. Nel farlo è prassi di storici, politici e giornalisti esaltare le virtù della propria parte e nascondere invece tutto ciò che di biasimevole si è commesso, mentre si tende a mascherare le ragioni dell'avversario e di contro a ingigantirne i difetti. Si arriva perfino a lavorare in questo senso in maniera preventiva, facendo determinate promesse ma lavorando sotto banco in direzione opposta, oppure creando falsi allarmismi, demonizzando gli avversari per giustificare davanti agli altri il proprio modo di agire e gli eventuali comportamenti futuri. Gore Vidal ci porta un esempio pratico di tutto questo, narrando un pezzo di storia statunitense in maniera completamente diversa da come viene raccontata nelle versioni ufficiali. Il momento storico di riferimento va dalla candidatura al terzo mandato di Franklin Delano Roosevelt alla doppia presidenza di Harry S. Truman, vale a dire dal periodo che precede l'inizio della seconda guerra mondiale ai primi anni della guerra fredda. Attraverso le vicende di Tim Farrel, un regista cinematografico e di Caroline e Peter Sandford, due giornalisti della carta stampata l'autore ripercorre un momento di fondamentale importanza per la storia mondiale. Si parte con la torbida campagna elettorale del 1940 caratterizzata dal dubbio se intervenire o meno nel conflitto europeo, da cui Roosevelt esce vincitore promettendo agli elettori che con lui al governo nessun soldato americano avrebbe mai combattuto in una guerra straniera a meno che gli USA non fossero stati attaccati. Ma dopo il bombardamento giapponese a Pearl Harbor il governo americano si sente tenuto a rispondere per difendersi, entrando di fatto nel secondo conflitto mondiale in maniera apparentemente giustificata. Ma cosa c'è veramente dietro l'attacco nipponico? Come mai le autorità pur conoscendo in anticipo le intenzioni del nemico non hanno mosso un dito per evitare la strage? Morto Roosevelt il testimone passa a Truman ma l'atmosfera resta limacciosa: perché lanciare due bombe atomiche su una nazione ormai praticamente arresa? Perché finita una guerra sanguinaria se ne comincia una virtuale contro la Russia di Stalin con cui si è lottato insieme per sconfiggere Hitler? Come mai un paese che si fa da sempre portabandiera di ogni tipo di libertà non permette al suo popolo di criticare il capitalismo, di aderire a ideologie marxiste e di dissentire dell'operato del governo? In un mix di personaggi inventati (pochi) e realmente esistiti (tanti, troppi) Gore Vidal svela i retroscena, le magagne, le reali intenzioni che hanno portato i vertici della nazione più ricca e potente del mondo a prendere determinate decisioni indirizzando la storia mondiale nel verso che più le faceva comodo e cercando di raccontare le cose in modo da poter apparire inequivocabilmente dalla parte della ragione. Non siamo davanti ad un vero e proprio romanzo ma a qualcosa di più vicino a pura e semplice cronaca storica, e ciò richiede quasi inevitabilmente uno stile scarno e piatto. Questo, unito all'eccessivo numero di personaggi della politica e dello spettacolo d'oltreoceano pressoché inutili e comunque ignoti ad un lettore europeo, rende la lettura un po' pesante e poco piacevole. Ma ciò che conta in questo libro sono i contenuti e da questo punto di vista l'autore è impeccabile, raccontando verità scomode e facendo aprire gli occhi al lettore: mai fidarsi ciecamente di ciò che ci viene raccontato, mai abboccare ingenuamente a qualsiasi tipo di caccia alle streghe. Un monito più mai utile in un momento come questo caratterizzato da mezzi di informazione fin troppo manipolati e da persecuzioni mediatiche all’ordine del giorno.
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La lettura è amore, la lettura è vita
“Il verbo leggere non sopporta l’imperativo, avversione che condivide con alcuni altri verbi: il verbo amare…il verbo sognare…”. E’ intorno a questa affermazione che Pennac costruisce questo breve e simpatico libro che non è né un saggio né un romanzo, ma un insieme di riflessioni riguardanti una passione così bella e controversa come la lettura. Si parte proprio da questa visione di lettura come piacere, come diritto e non come dovere o sorta di obbligo morale o culturale. Forte della sua esperienza di educatore sia come genitore che come insegnante, l’autore tenta di spiegare quanto sia sbagliato e infruttuoso provare ad imporre la lettura ai ragazzi in casa e a scuola, come sia invece consigliato cercare soltanto di invogliare e incuriosire lasciando poi che ognuno si avvicini ai libri a suo tempo e a suo modo. Ogni lettore infatti ha con i libri un approccio personale, cerca nei testi e trae dalla loro lettura un benessere soggettivo ed esclusivo che può essere solo proprio e non paragonabile a quello degli altri. Un altro errore in cui si incorre spesso è quello di incolpare la televisione, il cinema, lo sport, la società in generale della poca o inesistente passione per la lettura che caratterizza alcuni giovani (e anche meno giovani), o il lavoro e gli impegni vari che non ci lasciano il giusto tempo libero da dedicare ai libri. Sbagliato. La lettura è un piacere talmente unico che non dovrebbe temere la concorrenza di nessun altra passione e il tempo per leggere, se se ne ha veramente voglia, lo si trova sempre e comunque. Leggere o non leggere è esclusivamente una questione di amore: amare la lettura è come amare una persona e quando si ama qualcuno è impensabile non avere il desiderio o non riuscire a trovare il tempo per starci insieme. Pennac spiega tutto questo in modo frizzante e brioso, mettendosi ora nei panni di educando ora in quelli di educatore, usa una prosa piacevole e nel finale regala un decalogo dei diritti del lettore che andrebbe esposto in ogni biblioteca e su ogni libreria. Un libro consigliato sia a genitori e insegnanti che a figli e studenti, a chi ama profondamente la lettura ma anche a chi ancora si aggira titubante attorno a questa meravigliosa passione. La lettura è amore, la lettura è vita: “Il tempo per leggere, come il tempo per amare, dilata il tempo per vivere”.
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Velatamente autobiografico?
Un uomo avvinto dall'ammirazione per un fratello maggiore con cui non è mai riuscito a stringere il forte legame che avrebbe sempre desiderato. Una goffa e impacciata indagine per far luce sulla vita di un artista che si trasforma in un viaggio nella vita di chi scrive, in ciò che è e in quello che invece vorrebbe essere. Protagonista e voce narrante è il giovane V. russo d'origine ma fuggito dal suo paese con la famiglia nel 1918 in seguito alla rivoluzione. Dopo la morte del fratellastro Sebastian Knight, famoso e controverso scrittore, decide di mettere su una biografia che ne valorizzi il lato umano ed artistico, da contrapporre a quella a suo dire menzognera e poco edificante pubblicata da mr. Goodman, ex segretario di Knight. La sua impresa si rivelerà più ardua del previsto. Costretto a partire quasi da zero a causa della scarsa conoscenza di quella che è stata l'esistenza di Sebastian con cui i rapporti erano legati a qualche lettera e a sporadici e fugaci incontri, il novello biografo dovrà cercare di districarsi tra compagni di studi, amici, amori, critici, portieri d'albergo, dimostrando scarse doti da investigatore e la quasi impossibilità di avere un ritratto chiaro di una personalità così introversa ed intricata. Il risultato più che una biografia è un resoconto dei suoi sforzi per scriverla, e della "vera vita" dello scrittore a parte un paio di amori e qualche accenno alla malattia che l'ha stroncato finisce per far conoscere ben poco. A risaltare sono invece l'affetto e la stima che V. prova per Sebastian che lo pervadono e lo guidano per tutto il libro, facendogli desiderare di essere come lui, portandolo infine a diventare egli stesso Sebastian Knight. Nabokov gioca con questo protagonista simpatico e pasticcione, divertendosi, divertendo il lettore e ironizzando sulle velleità artistiche di certi aspiranti scrittori. L'autore è bravissimo a creare tutta una bibliografia di Knight inventandosi di sana pianta titoli, trame, protagonisti e temi talmente gustosi e interessanti da portare il lettore a domandarsi come mai non abbia scritto per davvero questi libri. Ne offre addirittura alcuni spezzoni o delle semplici frasi che da un punto di vista stilistico risultano i passaggi migliori del romanzo. Tra tutti spicca nel capitolo 12 il brano dedicato alla fine di un amore, riflessione amara e profonda che è poi stata ripresa e trasformata in una bella canzone dai Marlene Kuntz (Uno, dall'album Uno del 2007). Humor, azione, sentimento e una scrittura magistrale sono alla base di questo consigliato romanzo che probabilmente, sotto sotto, nasconde qualcosa di autobiografico.
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Non delude né entusiasma
Creando una linea d'unione tra L'ombra del vento e Il gioco dell'angelo, questo romanzo di Zafon fa luce sul passato di alcuni protagonisti e ne svela i segreti che li legano, lasciando però in sospeso un po' di punti che probabilmente saranno risolti con un libro successivo. Non che si senta l'impellente esigenza di conoscere il seguito comunque, perchè anche se piacevole questa lettura risulta meno coinvolgente e interessante dei due capitoli che la precedono. Al centro del racconto c'è il buon Fermin Romero de Torres alle prese con una serie di problemi legati ai preparativi per il suo imminente matrimonio con Bernarda e con un regalo inaspettato e inquietante giuntogli da un sinistro individuo con cui ha condiviso un pezzo importante del suo passato. La ricomparsa di questa misteriosa persona costringe Fermin a tornare indietro nel tempo e tirare fuori dal cassetto delle sue memorie quello che è stato il periodo più difficile della sua vita: la prigionia nel terribile carcere di Montjuic e il successivo reinserimento nella società. Davanti ad una cena luculliana e ad una massiccia dose di vino un uomo tormentato racconta al suo fedele amico e prossimo testimone di nozze Daniel Sempere il trattamento ricevuto dal sadico Fumero, la dura vita da recluso, le continue minacce e i subdoli ricatti che lui e i suoi compagni subivano dal direttore della prigione Mauricio Valls, la forte amicizia nata con lo scrittore David Martin, come lui inquilino di quel posto dimenticato da Dio. Fermin svelerà come anche lo stesso Daniel sia legato a questa storia, provocando nell'animo del ragazzo, già tormentato dalla gelosia, un forte odio e una sete di giustizia e di vendetta difficile da contenere. Ma i due riusciranno come sempre a sostenersi l'un l'altro, dando nuovamente prova di grande lealtà e amicizia. Non propriamente deludente ma ben lungi dall'essere entusiasmante questo terzo capitolo della storia sembra segnare per l'autore una decisa flessione negativa. Lo stile non è banale ma i tentativi di riproporre la prosa virtuosa a cui Zafon ci aveva abituati non sembrano andati a buon fine. Ma è nei contenuti che si nota il calo maggiore: se si eccettua la parte dedicata alla prigionia di Fermin, intrisa di pathos e carica di tensione , il resto della storia sembra banale e scontato, e durante la lettura non si può fare a meno di notare un profondo senso di déjà vu dovuto alla riproposizione di personaggi e situazioni già visti. Anche la descrizione di Barcellona solitamente affascinante e coinvolgente appare più debole e sbiadita del solito, mentre risalta la cupa atmosfera del regime franchista. Il libro è comunque gradevole, ma non aspettatevi un altro L’ombra del vento.
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- sì
- no
Il gioco dell'angelo
Confessioni lucide e schiette, senza moralismi nè
E' incredibilmente difficile affrontare la vita quando si ha la consapevolezza di essere diversi dagli altri, di avere qualcosa di anormale, qualcosa che agli occhi di una società bigotta e conservatrice non può che apparire raccapricciante. E' dura non poter vivere seguendo i propri istinti e i propri desideri per evitare di essere additati come dei mostri. Ne sa qualcosa il giovane Kochan, che sin da piccolo si rende conto della sua omosessualità e dei problemi che potrebbero venire fuori se qualcuno scoprisse il suo segreto. Già in tenera età trova gusto nell'impersonare personaggi femminili, prova attrazione per le immagini di aitanti cavalieri proposte dai suoi libri illustrati, resta affascinato dai pantaloni attillati di un giovane vuotatore di pozzi neri, si innamora di un compagno di scuola. Entra in un circolo vizioso di autoerotismo da lui definito la sua "brutta abitudine" con cui tenta di sfogare le sue lussuriose e perverse fantasie. Consapevole della stranezza dei suoi istinti arriverà egli stesso ad autodefinirsi un essere mostruoso e si vedrà costretto ad indossare una sorta di maschera e a soffocare il suo modo di essere ostentando una personalità che in realtà non gli appartiene, per dare a chi gli sta intorno una parvenza di normalità. Finirà col mettersi alla prova costringendosi a provare interesse per le donne, accorgendosi ben presto che forse è possibile ingannare gli altri ma proprio non si può raggirare la propria coscienza. Mishima racconta le confessioni del protagonista senza ipocrisie né moralismi, in modo lucido e schietto, sfiorando il cinismo ma al tempo stesso dimostrando grande sensibilitá e una notevole capacità di coinvolgere il lettore e di creare empatia anche per un personaggio particolare come Kochan. La prosa é molto curata, il racconto in prima persona aiuta a capire la psiche del protagonista anche se di contro il suo spiccato egocentrismo finisce col dare poca rilevanza ai personaggi che lo accompagnano e che vengono relegati al ruolo di semplici comparse. Ma forse era proprio questa l'intenzione dell'autore, mettere in evidenza un personaggio che può definirsi un suo alter ego trattando un tema a lui caro come quello dell’omosessualità, senza demonizzarlo né divinizzarlo.
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Giallo pacato e raffinato
Che don Alfonso Pezza, parroco della chiesa di Santa Liberata sia un religioso fuori dagli schemi è abbastanza chiaro. E' anche facile comprendere che le sue vulcaniche ed eccentriche attività liturgiche ed extraparrocchiali possano far storcere il naso a qualcuno. Ma da qui a farlo saltare in aria nel bel mezzo di uno dei suoi eretici sermoni ce ne passa. Chi può aver avuto interesse a farlo fuori in questo modo? Cosa ha mai potuto combinare il prete per meritarsi una fine del genere? Cosa nascondeva don Pezza? In una Torino anni '60 sferzata dalle prime avvisaglie dell'inverno il commissario Santamaria deve far luce su questo arcano e scottante caso, tra misteriosi venditori di matite, arcivescovi indagatori, mafiosi innamorati, eretici gnostici, ambigui dirigenti Fiat, strani redattori e signore impiccione. Sotto lo sguardo onnisciente del "Grande Boss" e costretto a chiedersi continuamente “a che punto è la notte?” Santamaria riuscirà a sbrogliare una matassa intricatissima, dipanando la quale troverà sulla sua strada altri due morti e la consapevolezza che tutto gira sempre intorno ad interessi economici. La premiata ditta Fruttero&Lucentini ci offre un intricato giallo a sfondo religioso, precorrendo i tempi rispetto ad un genere ormai diventato (fin troppo) di moda ma distinguendosi dai thriller moderni per lo stile pacato e raffinato, per la veridicità dei fatti narrati e per l'assenza di quella smania di stupire con effetti speciali tipica di certi scrittori odierni. La collaudata coppia invece propone una storia credibile, interessante e divertente, scritta con sapienza e capace di tenere sulle spine il lettore nonostante il ritmo non altissimo e la mancanza di clamorosi colpi di scena, puntando sul realismo, sull’umanità di personaggi carismatici e ben delineati e su un bel ritratto del capoluogo piemontese.
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Aspettative deluse
Sarebbe bello poter scrivere una recensione positiva su questo libro. Sarebbe bello e doveroso, perché è un classico e perché è frutto di una penna autorevole come quella di James Joyce. Ma quando una lettura in cui si ripongono grandi aspettative ci lascia addosso solo un senso di tedio e pesantezza non è facile scriverne bene anche se si tratta di un capolavoro universalmente riconosciuto. Certo è fuori discussione la bellezza di una prosa curata ed elegante che denota il grande talento letterario dell'autore; solo che, messa al servizio di una trama spenta e confusionaria perde di consistenza e di fascino. Così come non si può negare l'importanza dei temi trattati, a cominciare dall'indipendentismo irlandese e proseguendo con l'ingerenza della religione nella vita pubblica. Ma in particolare dovrebbe essere interessante l'analisi dei tormenti interiori di un giovane studente alle prese con la decadenza di prestigio della sua famiglia, con screzi e incomprensioni nel rapporto con compagni ed insegnanti, con tormenti amorosi, con formicolanti impulsi fisici in contrasto con la bigotta e puritana morale che gli viene impartita. Ma riesce difficile farsi coinvolgere da un personaggio privo di carisma e della capacità di creare empatia, che per quasi tutto il libro si dimostra passivamente succube dei precetti religiosi dei gesuiti e che anche quando decide di ribellarsi lo fa con apatia e indolenza. Anche il metodo usato dall'autore nel presentare la psicologia di Dedalus non appare molto efficace, essendo per lo più affidato a vaghi ricordi d'infanzia e a dialoghi che cominciano e finiscono in maniera piuttosto occasionale, non permettendo al lettore di avere una chiara analisi introspettiva del protagonista ne di seguire un vero e proprio filo logico. Pesante il lungo capitolo nel quale vengono esposte le punizioni e i tormenti a cui sono destinati i peccatori che andranno all'inferno, sconclusionato il diario finale scritto in prima persona dal protagonista. Probabilmente ci sono dei libri che sono belli ovunque e in tutte le lingue, altri come questo che invece vanno letti necessariamente in lingua originale perché forse la traduzione, l'adattamento ad un'altra lingua e ad un’altra grammatica, il differente contesto culturale in cui vive il lettore straniero non riescono a dare lo stesso risultato dell'originale. Mettiamola così, altrimenti riesce difficile spiegarsi come quest'opera possa meritare la fama che ha.
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Cocktail ben riuscito
E’ possibile creare una storia partendo da un semplice gesto di saluto? Si può scrivere un libro sull'immortalità ponendovi come protagonista un soggetto che nell'immortalità non crede? Può quest'opera essere considerata un capolavoro nonostante una trama confusa che balza continuamente da un personaggio all'altro, cambia spesso argomento, propone situazioni surreali? Visto che stiamo parlando di un genio della letteratura del calibro di Milan Kundera la risposta non può che essere si. Si parte da una signora che non vuole invecchiare e si va avanti passando per radiosveglie, asini integrali, professori fuori dagli schemi, occhiali scuri, gente che aspira all’immortalità e/o al suicidio, mostri sacri dell'arte, collezionisti di donne. Si arriva persino ad ipotizzare un dialogo ultraterreno tra Johann W. Goethe ed Ernest Hemingway che è una delle parti migliori dell'opera. Il tutto condito da una fortissima vena filosofica, da un velato erotismo e da interessanti teorie come quella del “Computer del Creatore” e quella del “quadrante della vita”. Il linguaggio semplice e la grande verve con cui Kundera racconta e disquisisce rendono la lettura piacevole e mai noiosa. L'immortalità è il tema di fondo ma gli argomenti trattati sono tanti altri: si parla d’amore, di matrimonio e di adulterio, di politica e di religione, di arte e di letteratura. Un mix che inizialmente può sembrare confusionario ma che andando avanti acquista sempre più senso dimostrando le grandi doti letterarie dell'autore non solo nello scrivere bene e nel creare interesse nel lettore, ma anche nel saper gestire e coordinare diversi temi facendoli ruotare intorno allo stesso concetto. E’ come se Kundera abbia messo in uno shaker i più svariati ingredienti e, dopo aver mescolato ben bene, abbia offerto al lettore un cocktail di personaggi, materie e pensieri che non si può definire ne saggio ne romanzo ma che affascina per stile e contenuti e che esalta l’amore per quest’autore e per i libri in genere.
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Indagine lessicale
Dialetti a parte la lingua italiana, è ovvio, è la stessa per tutti gli abitanti del Bel Paese, così come sono condivisi dall’intera popolazione modi di dire, frasi fatte, frasi celebri e luoghi comuni. Ma ogni piccola comunità fa suoi in particolare certi termini ed espressioni tipiche che appartengono solo a chi ne fa parte e che permettono a questi membri di identificarsi e di riconoscersi tra loro. Ciò accade bene o male in tutte le famiglie e la descrizione di questa sorta di “lessico famigliare” è il pretesto con cui Natalia Ginzburg descrive un lungo pezzo di storia dei Levi, la sua famiglia, raccontandola in prima persona ma con un distacco degno del miglior cronista. Vengono così fuori gli strani aggettivi usati dal padre Giuseppe per apostrofare comportamenti e modi di essere che non gli vanno a genio (negrigure, sempiezzi, sbrodeghezzi), frasi dette da questo o quel parente o amico in una determinata occasione e che, rimaste alla storia, vengono ripetute ironicamente ogni qualvolta si presenta una circostanza analoga (non siamo venuti a Bergamo a fare campagna), giochi di parole (il baco del caco del malo) e via dicendo. Il libro della Ginzburg non si limita però a questa indagine lessicale. In un’Italia alle prese prima con il fascismo e poi con un difficile dopoguerra l’autrice narra vicende più meno importanti della sua famiglia: discussioni, litigi, amori, matrimoni, ma anche l’attiva partecipazione dei suoi membri all’antifascismo e alla resistenza che porterà il padre e i fratelli chi in galera chi in esilio e le interessanti amicizie che frequentavano la casa e in cui si possono annoverare personaggi del calibro di Adriano Olivetti, Felice Balbo, Vittorio Foa, Luigi Einaudi e Leone Ginzburg. Ma particolarmente interessanti risultano i legami con Filippo Turati, che i Levi nascosero e aiutarono a scappare quando era braccato dal regime e con Cesare Pavese, di cui la scrittrice ci offre un romantico e malinconico ritratto e propone una sentita riflessione riguardo la sua morte per suicidio che forse è la parte più bella del libro. Scorrevole e piacevole, questo romanzo permette di rivivere in chiave tutto sommato simpatica un difficile periodo storico del nostro paese e da al lettore lo stimolo per giocare con la lingua e con le proprie abitudini sollecitandolo a fare mente locale sul “lessico famigliare” che usa in casa, al lavoro o con gli amici.
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Presa di coscienza
“Come può non parlare, il muratore Metello del 1894, al precario di oggi?” si chiede Antonio Pennacchi nella prefazione. Sembra infatti di essere ai giorni nostri: salari insufficienti, incidenti sul lavoro, scioperi, precarietà; e invece parliamo di più di cent’anni fa. Siamo a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo e la classe operaia sta finalmente alzando la testa per sostenere le sue ragioni ed avanzare i propri diritti. La strada del riscatto però è dura e ostacolata da una profonda crisi economica e dall’ostilità di una borghesia capace solo di pensare al proprio tornaconto e forte dell’appoggio di un governo palesemente di parte. Ma si sa, l’unione fa la forza. In questo contesto scorre la vita di Metello Salani, giovane cresciuto in campagna e trasferitosi quindicenne a Firenze per diventare muratore proprio in un momento estremamente difficile e a dir poco infuocato della storia d’Italia. Iniziato al socialismo e trascinato nella lotta quasi per inerzia diventerà poi grande protagonista della protesta e suo malgrado una sorta di leader per i compagni di partito e di cantiere, abbandonando il suo motto “non essere mai il primo a farsi avanti e mai l’ultimo a tirarsi indietro” e vivendo in prima linea il duro sciopero dell’estate 1902 di cui così poco (o niente) trattano i libri di storia. Ma non soltanto di politica si parla in questo bellissimo libro. La storia di Metello è coinvolgente e affascinante anche dal punto di vista umano: si parte da quando orfano viene affidato ad una famiglia contadina di Rincine, nel Mugello, da cui si stacca adolescente per cercare maggiore fortuna nella natia Firenze. Da qui in poi è un susseguirsi di lavori, amicizie, avventure romantiche, periodi di precarietà e altri di maggior fortuna; soffrirà la fame, la stanchezza, la frustrazione, perderà persone care, proverà più volte la galera da innocente, conoscerà l’amore e la tranquillità che può dare una famiglia unita e la soddisfazione di saper fare bene il proprio lavoro. Pratolini affianca al protagonista personaggi ricchi di umanità come i fedeli Lippi, Aminta e Renzoni, il suo maestro di vita Betto, il carismatico Del Buono, la bella Idina, la carnale Viola; tra tutti spicca però la moglie Ersilia, donna carica di dolcezza ma dotata anche di grande carattere, compagna devota, affidabile consigliera e irriducibile sostenitrice di Metello e dei suoi compagni anche nei momenti di maggior sconforto, pronta a sacrificarsi ma anche a tirare fuori le unghie per difendere la propria famiglia. L’autore è bravissimo nell’alternare diversi stili a seconda della situazione: usa infatti una prosa semplice e popolare nel raccontare la vita quotidiana e le varie vicende dei protagonisti e un’altra più raffinata ed elegante nei momenti di riflessione, regalando un quadro preciso dello stile di vita dell’epoca e un ritratto romantico e coinvolgente di una terra affascinante e di un popolo generoso. L’incredibile attualità di questo libro è un ottimo spunto per riflettere sulla situazione odierna del mercato del lavoro e Metello e gli altri possono ancora essere di esempio a noi del ventunesimo secolo: oggi più che mai è necessaria una forte presa di coscienza ed un impegno concreto perché nessuno verrà mai a regalarci niente e se vogliamo cambiare rotta dobbiamo rimboccarci le maniche e non abbassare mai la testa e la guardia.
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Specchio di una società decadente
In un Sudafrica uscito da poco dalla follia dell'apartheid gli equilibri tra bianchi e neri sono ancora tutti da definire. Ne avranno una triste conferma David Lurie e sua figlia Lucy, travolti da una violenza malata e insensata figlia della rabbia e della voglia di vendetta di chi ha dovuto subire per anni l'umiliazione della segregazione per motivi razziali. Lurie è un ultracinquantenne professore universitario che in seguito ad uno scandalo sessuale che lo ha visto coinvolto con una sua studentessa si autoesilia nella fattoria della figlia, una giovane hippy omosessuale e animalista. Nonostante le enormi differenze tra i due la convivenza scorre piacevole e senza intoppi finché non avviene il suddetto fattaccio. Da questo momento in poi vengono fuori tutte le divergenze umane, concettuali e generazionali tra i due, creando un distacco in un certo senso insanabile. Coetzee propone una storia tutto sommato interessante sia per i fatti narrati che per l'ambientazione geografica e sociale e propone una profonda e curata analisi introspettiva dei personaggi. Non entusiasma invece la prosa alquanto scarna e piatta e appaiono palesemente incoerenti alcuni comportamenti dei protagonisti: due persone forti e indipendenti, in continua lotta contro le convenzioni sociali e il perbenismo che però davanti alle difficoltà sembrano abbandonarsi ad un'insensata autodistruzione che porterà David a rifiutare una via d'uscita per stupido puntiglio e Lucy ad autoproclamarsi capro espiatorio per crimini commessi da altri. Ma viene da chiedersi se nelle intenzioni dell'autore il comportamento dei protagonisti tenda in qualche modo a rispecchiare la decadenza di una società umana malata e autolesionista.
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