Opinione scritta da Renzo Montagnoli
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Un convincente giallo storico
Corre l’anno 1576 e a Milano imperversa la peste. Il notaio criminale Niccolò Taverna, unitamente ai suoi due aiutanti, viene incaricato di far luce sul furto di un candelabro realizzato in età giovanile da Benvenuto Cellini e che era conservato nel Duomo ancora in corso di costruzione. Non fa in tempo ad avviare le indagini che è costretto a interromperle perché gli viene affidato un caso ben più importante: scoprire chi ha assassinato padre Bernardino da Savona, commissario inquisitoriale presso il Consiglio dell’Inquisizione Generale e Suprema di Milano.
Non sarà un lavoro facile, perché esiste una lotta sotterranea fra i poteri forti, tra gli spagnoli che reggono il Ducato con la presenza cupa dell’Inquisizione e Carlo Borromeo, il famoso arcivescovo, in un contesto in cui tutto ciò che appare non risponde mai al vero, in un ambiente di dolore, di lutti, di centinaia di morti per peste.
Il segno dell’untore è un giallo storico particolarmente complesso, ma ben architettato e che riesce ad avvincere il lettore dalla prima all’ultima pagina, accuratamente sorretto dalla penna dell’autore capace di non far perdere il filo del racconto fra i tanti colpi di scena e le tante ipotesi investigative. L’ambiente e il particolare periodo storico sono resi molto bene, così come attenta è la descrizione dei non pochi personaggi, per quanto, per alcuni, maggiori approfondimenti psicologici non avrebbero guastato. Niccolò Taverna arriverà poi a risolvere entrambi i casi, seguendo un convincente criterio logico che non delude certamente.
Lo stile di Forte é snello, teso a privilegiare l’azione, anche se talvolta ama dilungarsi nella narrazione, ma senza mai risultare comunque greve.
Il segno dell’untore é uno dei quei romanzi in cui, come si inizia la lettura non si vorrebbe mai interromperla, perché la vicenda non annoia, anzi si è costantemente assillati dalla necessità di conoscere quel che presenteranno le prossime pagine, di come si articoleranno le ipotesi investigative e anche dal crescente desiderio di sapere il perché, il per come e il motivo di un feroce omicidio.
É evidente, quindi, che lo consiglio caldamente.
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Parte bene, poi s’inceppa
L’idea, non nuova, è interessante: parlare della nostra storia della prima metà del XX secolo attraverso le vicende di una famiglia contadina, i Bruni. Congiuntamente a questa intenzione, l’autore si proponeva, probabilmente, anche di dar vita a una saga familiare, evidenziando un mondo rurale ormai scomparso, una civiltà, insomma, quella contadina che con gli anni del boom economico è venuta meno. Dico subito che all’inizio l’opera mi ha avvinto non poco, nonostante le non poche lacune; del resto queste storie mi hanno sempre interessato, forse memore dei racconti dei nonni le cui origini erano contadine. Dagli inizi del del secolo scorso fino all’incirca alla sua metà si può così leggere delle vicende dei Bruni, in origine coltivatori a mezzadria di un appezzamento di terreno, una bella famiglia patriarcale con padre, madre e, circostanza frequente all’epoca, un bel po’ di figli. Se l’ambiente è reso bene, tuttavia si può notare già dalle prime pagine come sia approssimativa la caratterizzazione dei personaggi, circostanza che si accentua mano mano che passano gli anni con il naturale aumento dei protagonisti, poiché i figli e le figlie si sposano, e a loro volta hanno altri figli; questo, proprio per la carenza di caratterizzazione, fa sì che si possa ingenerare un po’ di confusione. Inoltre, l’autore sembra tendere a privilegiare più le vicende che gli indispensabili contorni ed è così che si sofferma a lungo sull’esperienza della prima guerra mondiale, peraltro resa bene, anche se, per uno storico come lui, è sorprendente il madornale errore che ha commesso quando scrive che alla morte dell’imperatore Francesco Giuseppe gli succede il figlio Carlo, ma quest’ultimo è tutt’altro, è un pronipote, e neanche in linea retta, ma collaterale visto che lo scomparso monarca era un suo prozio. Comunque, fino agli anni della guerra d’Etiopia il libro scorre bene e la lettura è anche piacevole, benchè Manfredi non vada a fondo negli eventi che contano, come il sorgere del fascismo. Più o meno dal 1936 la macchina narrativa comincia a perdere colpi, a incepparsi e si arriva in un attimo alla seconda guerra mondiale, di cui si parla poco, tranne quando, dopo l’8 settembre del 1943, inizia la Resistenza, anche questa trattata abbastanza superficialmente, peraltro con un tono da leggenda. Inoltre, é netta l’impressione che l’autore sia stanco e abbia fretta di finire il suo lavoro, o che comunque abbia perso il filo conduttore, visto che certi personaggi, a cui si era dato risalto, scompaiono senza che si sappia più nulla di loro, mentre ne entrano altri come se questi ci fossero noti e invece ci sono perfettamente sconosciuti, perché Manfredi non ne ha mai parlato prima. Anche il declino della civiltà contadina é appena abbozzato, tanto che viene da chiedersi perché sia poi finita, il tutto in presenza di una costante approssimazione che è lecito trovare nel caso di un autore alle prime armi, ma che non mi sarei mai aspettato da un narratore di lungo corso.
Per farla breve, ho iniziato il romanzo colmo di entusiasmo, entusiasmo che è andato scemando per essere sostituito da una perniciosa noia, tanto più che, mano a mano che mi avvicinavo alle ultime pagine, cresceva in me l’impressione di trovarmi di fronte a una telenovela. Le intenzioni dell’autore erano senz’altro buone, ma la realizzazione, purtroppo, è risultata inadeguata. Il libro comunque si può leggere, ma solo se si sorvola sulle molte lacune.
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Il progetto irrealizzato di Cavour
Certo é che fra la storia che insegnano a scuola e quella che si apprende leggendo saggi di illustri autori c’é una bella differenza. Ricordo a tal proposito che l’insegnante ci spiegò che arrivammo all’unità d’Italia grazie all’abilità e alla perseveranza di Camillo Benso conte di Cavour, a cui sembrava proprio calzante l’appellativo di “Grande tessitore”. In verità, già allora mi era sorto qualche dubbio, anzi dubitare é sempre bene, perché è l’unico modo, poi, per avvicinarsi, se non proprio a raggiungerla, alla verità. Ora questo saggio di Petacco sembrerebbe provare che le cose non andarono proprio così, che il ministro piemontese aveva scopi ben diversi e che, operando esclusivamente nell’interesse dei Savoia, avesse delle idee che con l’unità nazionale nulla avevano a che fare. Diciamolo francamente: se si sostiene un onere corposo, quale quello di una o più guerre, deve essere più che compensato da tangibili risultati economici e l’idea di sottomettere al regno sabaudo l’Italia settentrionale con la ricca Lombardia e il non povero Veneto finì con l’essere il fine a cui il Cavour mirava intessendo le sue trame di ragno paziente. Fu in tal senso che, durante un abboccamento diretto con colui che avrebbe dovuto diventare il principale alleato nella guerra contro l’Austria, vale a dire Napoleone III, gli fu prospettato – e l’interlocutore si dichiarò d’accordo – un piano per dare un assetto all’Italia, a quel territorio che non a caso il Mtetternich ebbe a definire una pura espressione geografica. In buona sostanza il progetto si articolava così:
1) piemontesizzazione dell’Italia settentrionale, nel senso che il Regno di Sardegna si sarebbe annesso la Lombardia, il Veneto, fino all’Istria e alla Dalmazia;
2) un regno dell’Italia centrale con capitale Firenze comprendente l’Emilia, la Toscana;
3) un regno del Sud, comprendente, oltre a quello delle due Sicilie, l’Umbria e le Marche, sottratte allo Stato Pontificio;
4) Una federazione di questi tre stati con presidente, a titolo onorario, del Pontefice, quest’ultima idea piuttosto bislacca, poiché il Papa, contro una perdita consistente del suo territorio, avrebbe avuto solo un incarico simbolico.
Vista l’approvazione del futuro alleato Napoleone III, sembrava cosa già fatta, ma i guai cominciarono quando i Borboni di Napoli, bigotti e papalini, si accorsero che il vantaggio che a loro ne veniva (annessione di Umbria e Marche) derivava da un esproprio dello stato pontificio e ovviamente non aderirono.
Cavour tuttavia non demordeva, brigando ancora per la realizzazione del suo progetto che, a mio parere, se concretizzato avrebbe avuto vita breve, ma poi sappiamo che il colpo decisivo, il definitivo impedimento venne con la spedizione dei Mille, autorizzata in segreto dal re, caldeggiata dalla massoneria e dagli inglesi e avversata appunto da Cavour.
Quindi, addio stato federale e anzi inizio di un nuovo organismo unitario, basato su un forte e anti autonomista potere centrale.
E’ un pezzo importante della nostra storia, poco conosciuto, in quanto volutamente ignorato nell’insegnamento scolastico, e quindi direi che la lettura di Il Regno del Nord è quanto mai utile e opportuna.
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Tre piccole perle
La Nemirovsky fu affascinata dal mondo del cinema, forse anche perché il suo primo romanzo pubblicato (David Golder) ebbe una felice trasposizione cinematografica. Indubbiamente le immagini che si vedono sullo schermo hanno un senso di immediatezza che è superiore a quello che si ritrae leggendo un libro, ma non si deve dimenticare che la scrittura della narratrice ucraina privilegia sempre la visione delle scene, pur lasciando margini di autonomia alla fantasia del lettore. Dal risvolto di copertina di La sinfonia di Parigi e altri racconti si comprende quanto sia stata grande la fascinazione del mondo di celluloide, atteso che queste tre prose sono state scritte nel 1931 con il preciso obiettivo di considerarle dei soggetti cinematografici, i canovacci indispensabili per realizzare in futuro eventuali film. Nondimeno, nulla hanno delle sceneggiature, salvo forse la capacità descrittiva degli avvenimenti qui più minuziosa del solito, ma comunque per niente affaticante. Ciò che più conta in questi tre racconti è che parlando dell’amore sembra di vedere susseguirsi davanti agli occhi, pagina dopo pagina, i fotogrammi di una pellicola; in La sinfonia di Parigi si respira, sfogliando, l’atmosfera di una città come Parigi negli anni ‘30, il mondo degli artisti, un caleidoscopio di personaggi che, pur essendo emblematici, sono dotati di una loro indiscussa e particolare personalità, come Mario Cavalhére, il musicista che arriva nella Ville Lumiere per completare e approfondire gli studi, si segue il suo stupore e perfino pare risuonare nelle orecchie la successione di suoni e accordi che la fontana di Place Concorde crea con i suoi zampilli, di cui prende nota affinché costituiscano lo spunto per comporre la sinfonia di Parigi; Natale é una storia più convenzionale, di seduzione e di abbandono, ma dato che questa festività dovrebbe scaldare i cuori c’è comunque un lieto fine, a differenza di Carnevale di Nizza impostato sul classico triangolo amoroso. In ogni caso non si può non apprezzare lo stile fluido, pulito, senza fronzoli, ma capace di suscitare in silenzio emozioni, nonché di avvincere senza forti contrasti, tanto da risultare serenamente appagante. Non metto in dubbio che la Nemirovsky abbia scritto di meglio, ma sono convinto che questi tre racconti siano delle piccole perle nel grande scrigno della produzione letteraria dell’autrice.
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Non è sempre oro ciò che luccica
A Delfzijl, un paesino olandese, il professor Jean Duclos è incolpato dell’omicidio del capitano di lungo corso Conrad Popinga, in quanto trovato con l’arma del delitto in mano. Maigret vi viene inviato di supporto alla polizia del luogo e per l’assistenza all’incriminato, in quanto francese, ma sopratutto famoso per i suoi studi da criminologo. Questo è l’antefatto del poliziesco Un delitto in Olanda, ottavo romanzo di Simenon con protagonista il commissario Maigret. Lo scrittore belga sta ancora affinando le sue indubbie capacità descrittive dell’ambiente e dei personaggi, ma è già assai prossimo al raggiungimento degli eccellenti risultati che gli sono propri. Più che la trama emergono così i fatti e i misfatti di un piccolo mondo borghese che all’apparenza si presenta come paradisiaco, con un ordine perfetto che stupisce, ma che non incanta. Delfzijl è una dorata prigione e sfuggire alle convenzioni che lo regolano è arduo, quasi impossibile; eppure, c’è chi tenta, ma i risultati sono alquanto deludenti e, addirittura nel caso della vittima, nefasti. Il nostro Maigret quasi gigioneggia nel prendere in mano di fatto le indagini, desideroso di scoperchiare un pentolone di ipocrisie, di buone maniere che nascondono il soffocamento di istinti naturali. É quasi superfluo dire che, procedendo in una intricata ricostruzione dei fatti, finirà con l’assicurare alla giustizia il colpevole, ma senza particolare soddisfazione, se non quella di dare una scrollata decisa a un mondo rigido e formale, poi ritornerà a Parigi, pronto a intraprendere altre indagini.
Un delitto in Olanda ha il pregio anche di poter essere letto velocemente e quindi di essere l’ideale passatempo di qualche ora, senza che imponga grandi sforzi intellettivi, perché la famosa analisi psicologica dei personaggi, una costante della produzione di Simenon, qui è appena abbozzata, preferendo l’autore dare maggior risalto all’ambiente e all’atmosfera.
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Vizi privati e pubbliche virtù
Ogni dittatore, nessuno escluso, diffida, oltre che dei nemici, anche e soprattutto degli amici, di chi sta intorno a vario titolo e che potrebbe rivelarsi all’improvviso per uno che desidera soppiantarlo. Benito Mussolini lo sapeva bene e non era quindi un caso che ricorresse ai servizi dell’OVRA, la polizia segreta fascista, per documentarsi dei comportamenti degli altri gerarchi, in modo da renderli facilmente ricattabili. Il duce era anche un uomo ordinato e pignolo e, oltre a conservare i rapporti degli agenti segreti, non buttava via niente, né le lettere dei numerosi postulanti, né documenti apparentemente banali come lettere di invito a cena. Alla sua caduta nel luglio del 1943 questa immensa mole di dati sparì, per poi essere ritrovata nel settembre dello stesso anno alla Stazione di Milano. Nulla vieta di supporre che nel tragitto ne siano venuti a mancare, come è anche certo che, finita la guerra, siano stati consegnati all’archivio di stato, dove Arrigo Petacco li ha potuti visionare. Certamente mancano quelli che Mussolini portò con sé nella sua vana fuga verso il confine svizzero e che, finiti in mano ai partigiani che lo catturarono, si volatilizzarono. Si mormora anche oggi che si trattasse del carteggio intercorso fra Churchill e Mussolini, ma sembra si tratti di pure illazioni, anche se ad aggiungere mistero a mistero vi è da ricordare il lungo soggiorno dello statista britannico, dopo l’aprile del 1945, sulle rive del lago di Como. Forse si trattò solo di una meritata villeggiatura, ma è una ben strana coincidenza. Data la mole della documentazione Petacco ha dovuto fare una scelta e, a mio avviso, ha scritto di ciò che potrebbe sembrare al lettore di particolare interesse, il tutto con ampie riflessioni personali che non mancano di un pizzico di sana ironia. Non poteva mancare un dossier su Achille Starace, segretario per un lungo periodo del partito, una sorta di macchietta vituperato non solo dagli antifascisti, ma anche dai suoi camerati. Eppure, quest’uomo fascistizzò il modo di vivere degli italiani, con assurde disposizioni quali quella di sostituire al “lei” il “voi”, di italianizzare tutti i nomi di origine straniera, con risultati spesso esilaranti, come nel caso di Eden, insegna di non pochi teatri, cinema, bar e alberghi, un “paradiso” in latino che lo zelante funzionario credeva un termine in inglese, visto che così si chiamava anche il ministro degli esteri britannico. E poi il sabato fascista, le divise, insomma una sorta di baraccone carnevalesco che come come un mago Starace tirava fuori dal suo cilindro, previa autorizzazione beninteso di Mussolini. Pure interessanti sono i vizi privati, contrapposti alle pubbliche virtù, di gerarchi come Balbo e Farinacci e altri, né poteva mancare la corrispondenza amorosa fra Benito e Claretta. Sta di fatto che leggere i documenti di questo archivio, pur con i dovuti distinguo fra un’epoca dittatoriale e l’attuale democratica, ci si accorge che, fra chi tiene le leve del potere, il vizio imperante è quello della corruzione, cosicché si può parlare di una tradizione a cui non si vuol rinunciare. E se é vero che forse Mussolini scappando non portava con sé valori ingenti, è altrettanto vero che la numerosa famiglia, compresi i parenti acquisiti, batteva spesso cassa e in parte veniva soddisfatta, beninteso con i soldi dello stato.
Il libro é assai piacevole e non sono rari i casi in cui si sorride o addirittura si ride, soprattutto quando si legge di gente come Farinacci, il ras di Cremona, considerato un duro, laurearsi in legge con una tesi copiata interamente da un’altra o impuntarsi, sbraitare, insomma fare dei capricci quasi come un bimbo per ottenere medaglie al valore per azioni eroiche del tutto inventate. É forse allora che si comprende come l’Italia fascista fosse uno stato di operetta, soggiogata a tantissimi pagliacci; peccato che poi si sia passati dalla farsa al dramma, ma ciò era inevitabile quando chi comanda ha una smisurata vanità e ben poco cervello.
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La riscoperta del semplice valore umano
Benvenuto (Nuto) Revelli é all’Accademia militare di Modena quando l’Italia entra nella seconda guerra mondiale; geometra, ha infatti scelto il mestiere delle armi, decisione frutto anche della costante militarizzazione dei giovani da parte del regime fascista. Ma le notizie che arrivano dapprima dal fronte francese e poi da quello greco sembrano in contrasto con la tanto sbandierata nostra potenza militare; infatti, se i comunicati sono frutto della propaganda, il tam tam del si dice fa capire che le stiamo prendendo e Revelli vuole sapere, vuole conoscere una verità che il regime si sforza di celare, e allora chiede di partire per il fronte russo, cosa che ottiene non senza fatica e da lì inizierà un’avventura di cui tratta ampiamente in questo suo libro intitolato La guerra dei poveri. In effetti, il nostro esercito non è quell’esempio di organizzazione e di potenza della martellante campagna fascista, anzi è una struttura povera di mezzi e quei pochi che ci sono risultano soggetti a continue ruberie nelle retrovie. Con tono distaccato e poche volte incline alla commozione il memoriale di Revelli é un atto di accusa implacabile , ma è anche un ricordo di dolore, di sofferenza, sia fisica che morale, in una ritirata in cui ben pochi riescono a conservare la loro dignità di uomini. É fortunato chi riesce a tornare, ma è un essere cambiato profondamente, che non crede più in un regime menzognero e menefreghista.
Non é finita, però, questa tragedia, perché ne subentra, con l’8 settembre 1943, un’altra, forse ancora più lancinante, con una guerra civile, che vede da una parte uomini che vanno maturando l’avversione verso il fascismo e dall’altra i tedeschi e i loro odiosi e subordinati alleati, gli uomini della Repubblica Sociale Italiana. Sono tante le pagine dedicate all’esperienza della resistenza, sovente rappresentate da ordini di combattimento, da relazioni sulla consistenza e le intenzioni delle forze nemiche e mai, dico mai, che vi siano accenni di autoesaltazione; Revelli, esperto in quanto militare, diventa il comandante della Brigata Carlo Rosselli, che verrà contrastata duramente dalle truppe nazifasciste con estenuanti rastrellamenti. Nessuno dei partigiani é un eroe alla Rambo, ma a suo modo ciascuno é un eroe, un eroe nel combattere contro forze soverchianti, nei disagi dei trasferimenti, nell’alimentazione scarsa e inadeguata, nell’armamento spesso insufficiente. Ci si sposta di valle in valle per sfuggire agli accerchiamenti, si vedono morire, come in Russia, tanti compagni, si soffre in silenzio e si va avanti. Una ferita in quelle condizioni può voler dire la morte certa e non è nemmeno possibile abbandonare un ferito alla pietà del nemico, che non conosce nemmeno il significato della parola pietà. Lo stesso Revelli, dopo che la brigata Rosselli si è trasferita in Francia a fianco degli alleati, mentre opera un collegamento in motocicletta insieme al leggendario Wolf (Walter Cundari, degnissima persona che ho avuto modo di conoscere personalmente) resta gravemente ferito al volto, tanto che ci vorranno ben otto operazioni per ricostruirlo, tutte in una Parigi da poco liberata dagli alleati, e sempre da poveri, con cibo scarso per risparmiare i soldi per la clinica. Verso la fine dell’aprile 1945 il ritorno in Italia, fra mille peripezie, giusto in tempo per partecipare alla liberazione di Cuneo. Ma i sogni di un paese nuovo vengono subito fugati dall’incontro con un nutrito gruppo di militi repubblichini, passati all’ultima ora fra i partigiani, tanto che il menefreghismo del passato regime finisce con l’apparire come un male endemico del nostro popolo e i fatti successivi, di cui il libro non parla, perché si ferma appunto alla liberazione di Cuneo, ne forniranno ampia prova.
Non è un romanzo, si avvicina di più al saggio storico, ma la presa di coscienza dell’ex fascista Nuto Revelli è descritta talmente bene che alla fine non si può che nutrire rispetto e ammirazione per quest’uomo. Hanno scritto bene di La guerra dei poveri Alessandro Galante Garrone (“E’ la guerra vista dal basso, la guerra sofferta...E’, prima di tutto, la tragedia dei poveri cristi gettati allo sbaraglio, beffati, traditi, e che pure, nello sfacelo immane, di un esercito e poi di uno Stato, riscoprono in sé le ragioni profonde della dignità del vivere, del semplice valore umano.”) e Giorgio Bocca (“Il libro è proprio questo: uno scrittore nato che trova, mentre si cammina e si combatte, un linguaggio per cose vere e tragiche quasi sconosciuto alla nostra letteratura….E’ il libro che avrei voluto scrivere.”).
Imperdibile.
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Purtroppo deludente
Quando si prende in mano questo libro le aspettative sono molte e a ciò contribuiscono la bella copertina, con un fotogramma tratto dal film “Riso amaro”, e la presentazione che calca la mano sul fatto che uno scrittore, un grande scrittore, nel raccontare di se stesso, parla dei luoghi che gli sono più cari, di Novara e della sua provincia, in cui ha dimorato per molti anni, una terra d’acque, caratterizzata dalla coltura intensiva del riso che, per l’appunto, per crescere ha bisogno d’acqua. Se ciò che ci si attende con la lettura ha la parvenza di essere di notevole interesse, tuttavia si rivela nella realtà poca cosa; sì, si parla di questa zona del Piemonte, di alcuni suoi personaggi, ma l’opera appare più come un puzzle voluto dall’editore e non dall’autore. Infatti, nulla è stato creato apposta da Vassalli con questo scopo, ma il libro è il risultato di articoli e di brani di suoi romanzi pubblicati nel corso del tempo. A chi ha letto e apprezzato La Chimera e Cuore di pietra poco interessa la parte dedicata alla città e ai suoi dintorni nei primi anni del seicento, perché già conosce questi passi e anche perché queste estrapolazioni paiono avulse dallo scopo dell’opera, che non procede secondo una struttura ben definita, anche perchè pescando qua e là è inevitabile una certa disomogeneità. É pur vero che l’editore ricorre anche ad articoli pubblicati su quotidiani nazionali, di cui è un chiaro esempio quello sul “Caccetta”, ma sembra messo lì più per riempire pagine che per essere inquadrato in un contesto logico. E a proposito di questo personaggio, Giovan Battista Caccia, detto il Caccetta, un Don Rodrigo del XVI secolo, tanto da far nascere l’ipotesi che a lui si sia ispirato Manzoni per i suoi Promessi sposi, la vicenda potrebbe essere di grande interesse, ma non con la penna di Vassalli, a cui manca quell’ironia di cui la trama e il personaggio avrebbero bisogno, così che appare quasi a titolo di notizia, mentre in altre mani avrebbe potuto uscirne un racconto delizioso. Non giovano poi all’opera le numerose fotografie che finiscono con il rubare spazio - oppure malignamente si potrebbe dire che vi sopperiscono - alla creatività dell’autore.
La lettura, senza un preciso filo comune, con materiale eterogeneo, finisce così con il diventare poco gradevole, correndo anche il rischio di arrivare in fondo per inerzia. Pure il discorso su quel che era la civiltà contadina manca dei necessari approfondimenti, così che non se ne sa più di prima.
Insomma, penso che si possa comprendere la mia delusione, tanto più che Sebastiano Vassalli è uno degli autori che prediligo, ma non mi sento di fargliene una colpa, perché, come ho già detto, l’opera pare più frutto dell’editore che dell’autore. Comunque, se la lettura non é consigliata per chi ha già letto diversi libri di Vassalli, può esserlo invece per chi, per la prima volta, intende accostarsi a questo narratore e ciò in forza delle pagine ove sono riportate appunto parti di La chimera e di Cuore di pietra.
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L’armonia
Che la poesia e la musica possano incontrarsi è del tutto naturale, trattandosi in entrambi i casi di arte e l’arte, perché sia veramente tale, non può prescindere dall’armonia, da quel perfetto equilibrio strutturale in cui sia che si tratti di parole, sia che ci troviamo di fronte a delle note, tutto sembra essere messo lì certamente non per caso, ma per fornire una musicalità che è gioia per gli occhi e per le orecchie. Del resto, anche nel caso di non poche pellicole cinematografiche, la colonna sonora costituisce un naturale completamento che dona forza alle immagini. Al riguardo mi viene in mente l’Alexander Nevskij di Ejzenstejn in cui l’omonima sinfonia di Prokofev permea scene, con i ritmi che si incrociano e che si espandono all’unisono.
Leggere una poesia, ascoltando una composizione musicale creata apposta per la stessa, è un’esperienza esaltante che consiglio vivamente ed è questo il caso di questo libriccino in cui l’ars poetica di Caterina Trombetti si fonde perfettamente con l’arte musicale di Antonella Natangelo. L’arpa, nel caso specifico, sembra poi lo strumento migliore per ricreare atmosfere e rafforzare le sensazioni che prorompono dai versi. Già di per sé queste poche liriche sono ben riuscite, ma il tocco musicale appare come un completamento imprescindibile, anche se, occorre dire, l’ascolto della musica senza la lettura delle poesie svilisce un po’ la composizione, insomma, per dirla in breve, esiste una complementarietà da cui entrambe le arti traggono i massimi vantaggi.
E il suono pacato dell’arpa ben si presta alla natura dei versi, così che è possibile assaporare sensazioni ed emozioni per certi aspetti impareggiabili.
Ci si rasserena, il mondo che ci circonda appare diverso, una sospensione di suoni, di immagini, in continua evoluzione ed evanescenza, una sorta di limbo in cui è piacevole restare, perché la vita, la tanto vituperata vita, scorre diversa, soffusa di un tenue e corroborante colore rosa.
Quindi, Consonanze é senz’altro da leggere e ascoltare.
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Nata troppo presto
Cristina Trivulzio di Belgioioso nacque Milano il 28 giugno 1808 e lì morì il 5 luglio 1871. Benché nobile per nascita (i Trivulzio erano una nota famiglia aristocratica milanese) divenne principessa a seguito del matrimonio con il giovane e avvenente principe Emilio Barbiano di Belgioioso, uno scapestrato, che dilapidò una bella fetta del patrimonio della moglie e che le trasmise anche la sifilide. Questa donna, che fu una delle più importanti figure del nostro Risorgimento, é quasi sempre dimenticata negli insegnamenti scolastici o, al più, se ne da un breve cenno, come se fosse stata, in quel grande teatro della rinascita nazionale, poco più di una comparsa. Forse questa trascuratezza é dovuta al sesso, ma se si guarda bene la sua vita, di cui Arrigo Petacco ha scritto ampiamente, si potrà notare che vi sono altri motivi, ben più rilevanti. Già alla sua epoca le donne non le perdonavano la sua notevole bellezza e gli uomini la sua prodigiosa intelligenza, ma c’é ben altro in questo personaggio che oserei definire unico, nato probabilmente troppo presto (sarebbe stato meglio accolto nella seconda metà del secolo successivo). Benché nobile e ricchissima era convinta che solo con l’istruzione dei suoi cittadini uno stato avrebbe potuto dar corso alle riforme che gli erano necessarie e che potevano così essere comprese da tutti. Per quanto questo straordinario principio fosse all’epoca non solo bel lungi dall’essere messo in pratica, ma nemmeno ipotizzabile, lei diede prova che poteva essere realizzato e così nella sua proprietà di Locate creò una scuola pubblica, aperta anche alle donne. Per chi deteneva le leve del potere, e non si trattava solo della corte di Vienna, ma anche di milanesi illustri, la cosa non garbò, tanto che Alessandro Manzoni, sì il celebre scrittore, considerò questa iniziativa un evidente sintomo della follia di Cristina. In effetti, chi portava avanti idee avveniristiche, allora come oggi, era visto come un essere non in pieno possesso delle facoltà mentali, soprattutto da quelle menti ristrette e bacchettone, fra le quali possiamo annoverare anche Manzoni, che a quei tempi pretendevano di imporre il loro grigio e monotono stile di vita. Carbonara, antiaustriaca, egalitaria con idee che si potrebbero definire socialiste Cristina Trivulzio aveva tutto quanto per indispettire chi comandava e per quanto abbia dato un notevole contributo al nostro Risorgimento non ha risparmiato nei suoi scritti accuse ai politici, avulsi dalla realtà, come oggi, e tesi solo al . predominio del loro interesse. Scriveva senza remore, diceva sempre ciò che pensava – e pensava bene -, mettendo in piazza tutto quanto non era di dominio pubblico (e non erano bagatelle), insomma é facile ora comprendere perché una simile protagonista non abbia ancor oggi il rilievo che meriterebbe e una riprova ulteriore è data dal fatto che al suo funerale non presenziò nessuno dei politici di quella Italia che lei, disinteressatamente e con passione, aveva contribuito a unire.
Ripeto che era nata troppo presto, ma non è troppo tardi per riconoscerle quegli onori che tanto meriterebbe.
La biografia di Petacco é puntuale, ma il personaggio è vulcanico, si sposta di continuo e, pur con la cura e l’abilità dell’autore, non è difficile perdere il filo del discorso, e allora il riallacciarlo ogni tanto è l’occasione per comprendere pienamente la grandezza di questa donna.
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Il super capolavoro
Suite francese é un progetto letterario ambizioso con cui Irene Nemirovsky voleva parlare della seconda guerra mondiale, vivendola giorno per giorno, strutturato in cinque parti (Tempesta in giugno, Dolce, Prigionia, Battaglie, La pace), di cui solo le prime due completate, poichè nel luglio del 1942 fu arresta, in quanto ebrea, e deportata ad Auschwitz, dove morì di febbre tifoide il 17 agosto dello stesso anno. Restano quindi solo di questo poema sinfonico Tempesta in giugno e Dolce, pubblicati postumi in Francia nel 1954, sufficienti però per dare un’idea di ciò che l’autrice voleva rappresentare. Sono entrambi riportati in questa edizione di Adelphi, in cui è possibile cogliere quella continuità che è propria appunto di una Suite. Tempesta in giugno è una serie di quadri con cui si rappresenta il caos magmatico che segue all’invasione della Francia da parte dei tedeschi, mentre Dolce ha più la struttura di un romanzo, con una delicata storia d’amore fra un ufficiale germanico e una signora francese, il cui marito è stato fatto prigioniero. In entrambi i casi, sia pur con motivazioni diverse, ci troviamo di fronte a qualche cosa che trascende il cosiddetto capolavoro, tanto che non riesco a trovarne una definizione, se non quella di super capolavoro. In particola in Tempesta in giugno i vari quadri sono raccordati con una puntualità e una perfezione che oserei definire incredibile; se ci sono dei personaggi emblematici che danno corpo alla narrazione e sullo sfondo troviamo un’umanità impazzita nella fuga, la cura del dettaglio è impressionante, senza che tuttavia venga a costituire un appesantimento che possa nuocere alla lettura. Tutto scorre veloce o lento, a seconda delle circostanze, con descrizioni mirate, con una capacità di ricreare l’atmosfera del momento che consentono a chi legge di vedere le scene, come in un film. A ciò giova indubbiamente uno stile snello e fresco, una frequente nota poetica che smussa, attenua la tensione quel tanto che basta per scorgere gli eventi come una sequenza di fotogrammi. Raramente mi é accaduto di imbattermi in una scrittura così inappuntabile, così concisa e al tempo stesso completa, in una sapiente concatenazione di ritmi senza che vi sia una nota stonata; la sua non è una scrittura, ma La Scrittura, cioè il massimo che ci si possa attendere da un’opera letteraria e se stupiscono e avvincono le trame dei singoli quadri, non si può non porre in rilievo appunto la bellezza di questo stile che da solo attira l’attenzione. Sono non pochi i personaggi principali, la cui psicologia é analizzata approfonditamente e sono, per certi versi, simboli di classi sociali, verso le quali la narratrice dimostra ben poca simpatia, fatta eccezione per il grado più basso della borghesia. Non è infatti un caso se rilucono i coniugi Michaud, modesti impiegati di banca, legati da un tenero e incrollabile amore che li porta a essere totalmente solidali nei momenti dolorosi e nelle piccole e non frequenti gioie della vita; sono minuscole realtà che, tuttavia, nel reggere se stessi finiscono con il reggere l’intera umanità. É quindi solo l’amore - quell’amore che si traduce in un sentimento di totale affetto e condivisione, che è superiore a ogni ricchezza e bramosia di potere - a salvare il mondo, concetto che è sorprendente ove si consideri che Irene Nemirovsky era figlia di uno dei più grandi banchieri dell’epoca, un uomo dalla ricchezza smisurata.
La seconda parte, Dolce, è in un certo senso più convenzionale, con questo lento innamoramento che mai arriverà a un amore reciproco palesemente manifestato, perché troppo grandi sono certe differenze, fra il vincitore e la sconfitta, fra chi, prima di essere uomo, è soldato e colei che, insoddisfatta del marito che si trova in prigionia, non può tradire il suo paese e desidera avere un uomo vero. L’autrice cesella le parole, riesce a rendere perfettamente questi insanabili contrasti che in altre penne sortirebbero ridondanti di retorica, ma che qui invece sono di grande semplicità e naturalezza in quanto propri dell’esistenza.
A qualcuno, come per esempio al sottoscritto, potrà risultare più gradito Tempesta in giugno, ma comunque pure Dolce è un romanzo di assoluto rilievo, una di quelle storie d’amore così realistiche da non sembrare assolutamente frutto di creatività.
Resta da chiedersi come averebbero potuto essere le altre tre parti, ma qui entriamo nel campo delle congetture. Pertanto, l’analisi e il giudizio è forzatamente limitato a queste due prime e mi pare di aver evidenziato abbastanza compiutamente la loro importanza, derivante da valori che non sono solo letterari, ma che si espandono alla storia, alla filosofia e perfino alla sociologia; di ciò che non non ha potuto scrivere, si può dire solo che di sicuro sarebbe stato di estremo interesse.
Dire che il libro sia meritevole di lettura finisce con l’essere un po’ riduttivo; più che consigliarla, credo invece sia mia dovere raccomandarla, lasciandosi trasportare dal ritmo adottato dalla narratrice; per le riflessioni c’è tempo, lasciatele a una indispensabile e ancor più gratificante rilettura.
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Il dopo
La quarta di copertina chiarisce già lo scopo del libro, laddove riporta: “Il peso dello zaino é la naturale integrazione e il necessario completamento di Centomila gavette di ghiaccio, con il quale costituisce un unico blocco narrativo.”. Tutto semplice, quindi, ma ciò è vero solo in parte. I superstiti dell’armata italiana in Russia si trovano finalmente in Italia in un’epoca che va dalla primavera del 1943 al settembre dello stesso anno. Feriti nel corpo e nell’anima, tangibile rappresentazione di una guerra voluta da un regime in sfacelo, sembrano tante pedine in attesa di un evento epocale. Infatti la narrazione li coglie in un arco di tempo in cui ormai è certa la sconfitta dell’Asse, ma questi alpini, indomabili, appena si ristabiliscono vogliono tornare al reparto, dove, per un breve periodo, saranno impiegati lungo la frontiera orientale in funzione di contrasto ai partigiani iugoslavi. Ritroviamo personaggi di Centomila gavette di ghiaccio, come il capitano Reitani, il conducente Scudrera e anche il tenente medico Serri, in cui si identifica l’autore. Quest’ultimo, però, che nel precedente romanzo era protagonista di primo piano, ora si va defilando, lasciando più ampi spazi ad altri che sulle nevi russe erano dei comprimari. Peraltro, della tragica ritirata è talmente vivo il ricordo che spesso e volentieri, come incisi, ancora se ne parla, determinando dei flash back che non di rado mi hanno indispettito. Del resto è la struttura stessa dell’opera che non è ben impostata e lineare come la precedente, come se di quel periodo Bedeschi avesse un ricordo confuso; inoltre, mentre dapprima aveva sempre evitato i toni retorici, magari pure avvicinandoli, qui invece diventano la norma. Scene come la fidanzata che dopo un lungo viaggio va a trovare l’amato in ospedale e che resta sconvolta nel vederlo ridotto a un tronco, senza braccia, né gambe, sembrano messe lì per impressionare il lettore, ma sono statiche, a sè stanti, e non offrono un risultato migliore di quello di provocare un turbamento. Anche la confusione creatasi con l’armistizio dell’8 settembre, che avrebbe meritato un accelerazione del ritmo appare fortemente rallentata, quasi che l’autore avesse timore di parlare delle difficili scelte che allora furono operate: combattere i tedeschi o continuare al loro fianco. Evidentemente il fatto che lui abbia optato per la seconda ha posto delle remore, benchè nel libro il tenente medico Serri preferisca eclissarsi per raggiungere i familiari. Quest’ultima soluzione, cioè sparire, è probabile che sia stata vista da Bedeschi come la migliore e in effetti anche lui si diede alla macchia, rifugiandosi in Sicilia, ma dopo la fine della guerra. Non mi piace leggere un libro conoscendo la vita del narratore, ma in tal caso ciò appare indispensabile poiché si tratta di esperienze vissute. In tal senso mi appare ancora ben poco comprensibile la sua scelta di aderire al Partito Fascista Repubblicano, a meno che, e non è del tutto improbabile, non abbiano prevalso motivazioni di carattere economico, rivelando però ancora di più in tal caso la modesta personalità di quest’uomo e lasciando supporre che quanto raccontato della ritirata di Russia, più che una testimonianza a futura memoria, sia finalizzato solo a ottenerne introiti con la pubblicazione. Comunque, al di là di queste mie riflessioni, il libro in se stesso non è male, se pure inferiore a Centomila gavette di ghiaccio, e pertanto ritengo che sia da leggere.
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La ricerca della verità
Il 10 giugno 1940, dal balcone di Palazzo Venezia, Benito Mussolini annunciò all’Italia che le dichiarazioni di guerra erano state consegnate agli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna; dalla folla che gremiva l’immensa piazza si levò un unanime urlo di consenso. Certo, nella moltitudine moltissimi erano i fascisti di provata fede, ma è anche vero che alla luce delle impressionanti vittorie dell’alleato tedesco si era convinti che il conflitto potesse avere brevissima durata e con esito a noi ampiamente favorevole. Lo stesso Duce aveva questa convinzione, benchè sapesse della nostra impreparazione; quindi giocò d’azzardo e, come sappiamo, perse e con lui persero tutti gli italiani, gravati da una guerra disastrosa e terrificante. Quindi Mussolini, nel mentire al popolo sulle nostra capacità belliche, mentì anche a se stesso e del resto, come ebbe a dire Churchill, in tempo di guerra la verità è così preziosa che bisogna nasconderla dietro una cortina di bugie.
In tutti i conflitti, anche quelli in corso, questa massima è puntualmente rispettata, ma se ce fu uno in cui divenne pratica comune fu proprio quello del 1940 – 1945. In un regime che viveva di menzogne queste, a maggior ragione, erano continue durante la guerra, ma sarebbe un errore attribuire le colpe unicamente al Duce, che pure restano e sono gravissime, in quanto ampie responsabilità sono attribuibili alle classi politiche, militari, economiche e anche intellettuali, animate da una fiducia incondizionata in Mussolini, trasformata in occulta e anche palpabile avversione quando le cose cominciarono ad andare male. Insomma, senza voler troppo polemizzare, il ventennio e la guerra ci sono stati perché hanno trovato il terreno di coltura idoneo in un popolo ben poco socialmente unito, con ampi strati volti a coltivare illusioni, salvo poi, quando si rivelano tali, scaricare tutte le colpe su chi le ha propinate.
Arrigo Petacco, con la sua scrittura semplice, ma efficace, scrive la storia di questi cinque anni di guerra con un ritmo incalzante, senza ricorsi alla retorica e cercando di far luce sulle tante menzogne dell’epoca; certo, parlare a posteriori di questo tragico evento può sembrar facile, anche per i numerosi studi effettuati nel dopo guerra; quello che è difficile é l’essere imparziale nei giudizi e mi sembra che l’autore lo sia stato, volto a togliere ogni mito, perfino quello della Resistenza, pur attribuendole un valore rilevantissimo. La realtà è ciò che vediamo, la verità è quello che spesso non riusciamo a scorgere; Petacco non ha la pretesa di portare agli occhi del lettore la verità assoluta, ma solo quella di fare un po’ più di chiarezza, perché capire ciò è effettivamente accaduto è l’unico modo, poi, per mettere in pratica tutto quanto necessario affinché non si ripeta.
Il libro é appassionante, e spesso si legge come un romanzo, con un palcoscenico su cui trovano posto tutti i grandi dell’epoca, ma anche i popoli e gli eserciti, in un dramma intenso e che coinvolge emotivamente fino al suo epilogo.
I
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L’arte del sublime
Sono nove i racconti di questa raccolta e testimoniano una volta di più le grandi capacità letterarie di Irène Némirovsky. Benchè queste siano ben note sono rimasto sorpreso di trovare una straordinaria abilità nel raccontare trame che potrei definire convenzionali, ma la cui trasposizione beneficia, pur a fronte di uno stile che può apparire semplice, di un’elaborazione completa e complessa in cui si mantengono in perfetto equilibrio le descrizioni dell’ambiente e dell’atmosfera, nonché la capacità indiscutibile di sondare l’animo umano, il tutto accompagnato da una vena poetica tenue, ma incisiva.
Così, ognuno di questi racconti diventa l’espressione dell’arte del sublime, tanto belli sono e tanto lasciano nel lettore una palpabile commozione che rasserena l’animo. I protagonisti sono per lo più donne, anche se non mancano soggetti maschili di grande interesse, ma ciò che soprattutto li accomuna è il sempre presente senso della caducità della vita, di quella morte che finisce con il dare un senso alla vita. La figura del procuratore Deprez (L’inizio e la fine) incombe nella prosa con i suoi tormenti per il male che lo divora, mentre altri dolori patisce la signora Barret, la madre di un giovane assassino, che lui dovrà processare, il tutto in un chiaroscuro quasi tenebroso, dove si affrontano amore materno e senso del dovere, pietà e dignità, rimorsi e volontà. Sono tutti belli questi racconti, compreso l’ironico L’orchessa, che esce un po’ dai canoni consueti con la figura di una donna che pretende di portare al successo la propria figlia, a quel successo che lei non ha mai avuto. Personalmente mi sono piaciute particolarmente due prose: Legami di sangue e La confidente. La prima vede i figli riuniti al capezzale dell’anziana madre gravemente malata in un crescendo di screzi e di confessioni, in cui riaffiorano antiche gelosie; parenti serpenti, si potrebbe dire, e se il tema non é proprio nuovo, tuttavia per come é svolto attrae in modo irresistibile, senza dimenticare le inevitabili ricorrenti riflessioni a cui si è indotti, soprattutto se non si è figli unici. La seconda vede l’incontro fra un musicista vedovo e un’amica della moglie defunta, in un dialogo rivelatore, di cui non intendo anticipare nulla, vista l’impostazione gialla, anche se giallo non é; sono pagine che, a dir poco, affascinano, un esercizio di rara bravura, di cui mi corre tuttavia l’obbligo di riportare il grande significato dell’arte secondo l’autore, con ciò che riesce a dare l’artista; infatti, rivolgendosi al signor Dange, famoso musicista, la signorina Cousin dice a proposito della grandezza del suo interlocutore: “….Un mondo sublime. E noi, noi non siamo niente, solo povere creature inutili. É così raro, così bello, quando un grande artista si concede, ci fa uscire dalla dalla nostra mediocrità, parla con noi. É qualche cosa di immenso, signore.”.
Non aggiungo altro, se non la raccomandazione di leggere questo altro capolavoro di Irène Nèmirovsky.
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Scherzo con delitto
Scritto nel 1929 I sette quadranti può essere considerato un romanzo un po’ atipico nella corposa produzione di Agatha Christie. Infatti il classico filone giallo lì viene sostituito con un genere affine, cioè il thriller a sfondo spionistico; inoltre non non è presente nessuno dei classici investigatori così cari alla scrittrice inglese, il misogino Hercule Porot, e la nubile Miss Marple. L’intreccio, piuttosto complesso e fantasioso, trova un’occasionale investigatrice nella persona di Lady Eileen Brent, ragazza inglese di nobile lignaggio e appassionata nel far luce su tutto ciò che può apparire misterioso. L’azione si svolge fra la campagna e la città di Londra, in un ambiente altolocato di nobili di vecchia stirpe e di altri di fresca nomina. La Christie é imbattibile nel descrivere questo mondo aristocratico fatto di noiose convenzioni, con stile particolarmente affettato, tipicamente british. É un mondo di formalismi eccessivi, a cui i più giovani cercano di ribellarsi, magari architettando degli scherzi, ma la vittima di uno di questi resterà effettivamente vittima, nel senso che passerà dal sonno alla morte. Da questo evento, che potrebbe apparire a prima vista naturale o al più un suicidio e invece è un abile omicidio, si dipana
una vicenda intricata, ma anche ad alto tasso di tensione, in un continuo gioco di incastri di un puzzle che alla fine porterà alla soluzione e alla cattura dell’assassino. É un mosaico che viene a comporsi lentamente, costellato di innumerevoli colpi di scena che appassionano in modo particolare il lettore, desideroso di arrivare a scoprire il mistero di una strana setta, I sette quadranti.
Il risultano non fa una grinza, nel senso che è del tutto logico; stupisce invece il dinamismo dell’opera, raramente riscontrabile in Agatha Christie, e stupisce piacevolmente. Restano tuttavia i limiti della narratrice, cioè la mancanza di approfondimento della psicologia dei personaggi, circostanza che evidentemente non rientra nelle sue capacità.
La lettura é comunque consigliata.
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Spatz, la sorella di Sissi
Maria Sofia Amalia von Wittelsbach (Castello di Possenhofen, 4 ottobre 1841 – Monaco di Baviera 19 gennaio 1925) fu l’ultima regina del Regno delle Due Sicilie. Figlia del gaudente e liberale Massimiliano Giuseppe, fu sorella della più conosciuta Elisabetta, la famosa Sissi, consorte dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe. Non é che in famiglia avessero la mania dei soprannomi, ma il padre Massimiliano, che nutriva un particolare e intenso affetto per queste due figlie, entrambe alte, slanciate e assai belle, coniò per Elisabetta questo Sissi e per Maria Sofia “Spatz”, cioè passerotto. Nipoti entrambe di Massimiliano I, re di Baviera, erano dalla nascita destinate, per ovvie ragion di stato, a matrimoni importanti, e così se Sissi convolò a nozze con Francesco Giuseppe, a Spatz fu dato in sposo un altro Francesco, vale a dire Francesco di Borbone, erede al trono del Regno delle Due Sicilie. Quest’ultimo matrimonio non poteva che risultare malamente combinato, in quanto lo sposo, gracile, religioso al massimo grado, per un problema di fimosi non poteva congiungersi carnalmente con una donna, tanto che la prima notte di nozze, e le successive, almeno fino a quando diversi anni dopo non si fece operare, andò del tutto in bianco. Si aggiunga che l’uomo era del tutto imbelle, incapace di prendere una decisione, disposto ad accontentare tutti finendo con lo scontentare tutti. I caratteri dei due sposi erano completamente diversi, lui flaccido, sempre titubante, facile alle depressioni, lei vitale, risoluta e decisa. Divennero rispettivamente re e regina pochi mesi dopo il matrimonio alla morte di Ferdinando II, uomo apparentemente alla mano, ma inflessibile nelle repressioni dei moti popolari. Fu un regno breve, perché nel 1860 Garibaldi, con la spedizione dei mille, vi pose fine, e non tanto per le sue eccelse qualità di condottiero, quanto per l’incapacità dei generali borbonici che sovente era voluta, grazie alla diffusa corruzione di cui abilmente si servì Cavour. Se gli alti gradi erano così, non era altrettanto vero per la truppa, che si comportò in modo encomiabile, come testimoniato nel corso della battaglia del Volturno e dell’assedio di Gaeta, fortezza in cui si rifugiarono il re e la regina. Mai una dinastia perse il suo trono con così tanto coraggio; la resistenza fu trascinata da Maria Sofia, sempre in prima linea, e dal marito, che grazie all’esempio della moglie, sembrò diventare un altro uomo, deciso, disposto a tutto. La fine, però, era scontata e la coppia si arrese e si trasferì a Roma, dove soprattutto Maria Sofia alimentò quella guerriglia nelle zone meridionali che nei primi due anni era senz’altro legittimista, ma che poi divenne esclusivamente una serie di azioni brigantesche. Risultato infruttuoso questo tentativo di restaurazione, Maria Sofia non si diede però per vinta, anche se, più trascorreva il tempo, più era difficile pensare a un ritorno dei Borboni a Napoli. Persa ogni speranza, morto improvvisamente ad Arco il marito, da cui si era separata da diversi anni, non le restava che la vendetta nei confronti dei Savoia e da Parigi dove si era trasferita, vista l’incresciosa situazione italiana, con il debito pubblico colossale, la corruzione dilagante, l’esosità delle tasse che colpivano quasi esclusivamente la povera gente, le proteste pubbliche, del tutto pacifiche, con cui il popolo chiedeva un po’ di attenzione, soffocate con una violenza inaudita, tutto la indusse a pensare a un imminente ribaltone. Occorreva però un innesco perché la bomba esplodesse e fu trovato nell’omicidio del re Umberto I. Fu così che Maria Sofia, liberale sì come il padre, ma solo per benefici personali, e legittimista invece al massimo livello, entrò in contatto con gli anarchici, soprattutto con Enrico Malatesta. Come noto, il 29 luglio 1900 Umberto I fu assassinato a Monza dall’anarchico Gaetano Bresci, giunto apposta dall’America. Dire però che mandante di questo omicidio sia stata Maria Sofia é un po’ azzardato, perché la vicenda presenta dei lati oscuri, nel senso che chi avrebbe beneficiato del delitto non erano solo gli anarchici e lei, ma anche forze interne ad alto livello, come parrebbe essere dimostrato dalla morte di Bresci in cella, spacciata frettolosamente per suicido, quando un’attenta analisi invece farebbe supporre l’omicidio. Salito al trono il nuovo re Vittorio Emanuele III, presidente del consiglio fu nominato Giolitti e le cose cambiarono, decisamente in meglio. Persa ogni speranza Maria Sofia, ormai avanti con gli anni, ma ancora in buone condizioni fisiche, si ritirò, per così dire, a vita privata e la morte la colse all’improvviso, senza che abbia dovuto soffrire.
L’aspetto romantico della vita di Maria Sofia è messo ben in evidenza nella biografia scritta da Arrigo Petacco, un’opera piuttosto esauriente e assai gradevole da leggere, grazie allo stile snello e a una salutare punta di ironia.
Quindi il libro merita indubbiamente di essere letto.
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Alta finanza
David Golder é stato il primo romanzo di Irène Némirovsky ad essere pubblicato e al riguardo c’è un aneddoto che, forse, risponde a verità: l’editore, letto il manoscritto che aveva ricevuto per posta, volle conoscere personalmente l’autore, al fine di fugare l’eventualità che questo fosse il prestanome di qualche narratore famoso. In effetti l’opera stupì non poco il pubblico, trattandosi di opera prima e già comunque di notevole livello, per quanto a mio parere, inferiore a successivi romanzi. Per esempio, se già si intravvede la capacità di analisi che è propria della Némirovsky, lo stile non è così fluido come nelle produzioni che seguiranno e anche la costruzione, per quanto robusta, non è ancora così equilibrata come quella a cui ci ha abituato. Resta però il fatto che in un’epoca in cui la finanza, l’alta finanza, prosperava allegramente, anche se il 1929, con la grande crisi, è ormai prossimo, la scrittrice ucraina smonta certi falsi miti, fornendoci un quadro impietoso del mondo degli affari, fatto da rapaci senza cuore e che maturano sempre di più la convinzione che con il denaro si possa comprare tutto, anche l’amore. La figura di questo satrapo ebreo, il cui nome é un vaticinio, riluce di triste squallore, anche se tuttavia alla fine – una conclusione edificante che era forse d’obbligo, trattandosi del primo romanzo – l’uomo si riscatta, e non per interesse, ma per affetto. Forse non é un caso che il protagonista sia ebreo, visto che il padre della Némirovsky era un celebre banchiere israelita, e poi, senza voler cercare una casistica, di imprenditori ebrei nell’alta finanza ce ne sono sempre stati tanti. Comunque, ebrei o cristiani, agnostici o atei, questi capitalisti del denaro si somigliano tutti e Irène Némirovsky sembra volerci suggerire che dove questi Re Mida posano le loro mani la vita si svilisce, il denaro e solo il denaro diventa lo scopo dell’esistenza e l’inaridimento é crescente, tanto che lo splendore esterno non riesce più a camuffare il vuoto che si portano dentro.
Da leggere, senz’altro.
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Interessante, sincero ed equilibrato
Dopo l’8 settembre 1943, giorno in cui fu proclamato l’armistizio, con l’occupazione dell’Italia da parte delle truppe tedesche e poi la liberazione di Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso e la successiva nascita della Repubblica Sociale Italiana, uno stato fantoccio voluto fermamente da Hitler, gli italiani si trovarono nel dilemma se aderire al ricostituito partito fascista, se combattere gli occupanti o se cercare di tirare avanti senza assumersi delle responsabilità.
Questa terna di scelte divenne un problema più pressante nel momento in cui Rodolfo Graziani, divenuto ministro della Guerra, indisse le chiamate di leva. Questa situazione fu vissuta direttamente anche da Angelo Del Boca, in un’incertezza costante e avvilente e alla fine lui - nato quando Mussolini aveva già imposto nel 1925 la sua dittatura, cresciuto a libro e moschetto, anche timoroso di eventuali e probabili ritorsioni nei confronti della sua famiglia - quasi ob torto collo, finì per arruolarsi. Entrò cosi a far parte della divisione alpina Monterosa, inviata in Germania per un duro periodo di addestramento. Là furono ben preparati e tornati in Italia, nonostante che il duce nel corso di una visita al reparto avesse assicurato che sarebbero stati impiegati sulla Linea Gotica contro gli anglo-americani, furono invece utilizzati per vaste operazioni di rastrellamento nelle retrovie. Se i più erano ancora non convinti della scelta fatta, altri, dei veri e propri fanatici, diedero prova di efferatezze e crudeltà contro l’inerme popolazione, circostanza che provocò moltissime diserzioni e fra quelli che se ne andarono, passando ai partigiani, ci fu proprio Angelo Del Boca. É di questo che parla il suo libro, delle sue titubanze, delle angosce nel prendere la sofferta decisione di arruolarsi nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana e poi nella piena consapevolezza che questa scelta era sbagliata, che non si doveva stare con i fascisti, ma era indispensabile unirsi ai partigiani. La scelta é un romanzo storico atipico, anche per come é strutturato, rappresentato come é da quadri, una sorta di racconti tuttavia concatenati da quell’unico filo logico costituito dal problema della difficile e sofferta decisione. É un libro soprattutto sincero e onesto che cerca anche di comprendere i motivi di chi aderì in buona fede alla Repubblica Sociale Italiana, ma conclude evidenziando che quegli stessi motivi di onore avrebbero dovuto ravvedere questi repubblichini di fronte alle infamie e scelleratezze commesse dalle truppe fasciste. Lo stile é semplice e scorrevole, mai ridondante, misurato direi; ne esce un testo di notevole valore, in cui equilibrio ed equità di giudizio sono sempre presenti. Con la Liberazione finì il periodo della Resistenza, ma è chiaramente evidenziato da Del Boca che l’immediata restaurazione, lo svilimento continuo di chi combatté per un’Italia libera e democratica, il revisionismo ripetuto si mostrarono subito e la conclusione è amara, perché passando dalla famosa vicenda del governo democristiano Tambroni sorretto dal Movimento Sociale Italiano a personaggi più recenti, decisamente populisti, come Berlusconi e Renzi, si evince che il popolo italiano non ha perso le sue radici fasciste, continua a essere socialmente prevaricatore e infine è sempre animato dal desiderio di affidare le sue sorti a un uomo della Provvidenza, e ciò nonostante le tragiche esperienze patite.
La scelta è veramente un bel libro, la cui lettura è da me vivamente raccomandata.
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Nell’inferno staliniano
Quando imperava il fascismo, alle cui regole tutti dovevano assoggettarsi, non mancavano però gli oppositori, ai quali erano riservate, nel migliore dei casi, le bastonature e l’olio di ricino, oppure venivano condannati al confino e anche imprigionati. Molti di loro, però, fuggivano all’estero, in paesi certamente più ospitali come il Belgio e la Francia, e, nel caso dei comunisti, non certo pochi trovarono rifugio nell’Unione Sovietica, mitizzata come il Paradiso Marxista. Una volta là, però, dovettero accorgersi che non di paradiso si trattava, bensì di inferno, vittime pure loro delle epurazioni staliniane. E non si trattava di bastonature e di olio ricino, ma di vere e proprie sadiche torture, di fucilazioni, di lunghi periodi di detenzione nei famigerati gulag. Anche stare accorti nel parlare non era sufficiente e non di rado si era arrestati solo per aver scambiato due parole con un altro compagno incriminato, o addirittura per colpire altri soggetti, cercando, grazie alle sevizie, di ottenere denunce del tutto infondate. Eh sì, nel periodo in cui imperava Stalin in Russia era difficile vivere, ma in cambio era facilissimo morire. I dirigenti del PCI, il partito comunista italiano, e in primo luogo il loro segretario Ercole Ercoli, pseudonimo di Palmiro Togliatti, erano ben consapevoli dei patimenti dei compagni connazionali, ma stavano zitti e con l’abilità dei camaleonti riuscirono a uscirne indenni, ovviamente mai raccontando di quei fatti al loro ritorno in patria dopo la caduta del fascismo. Questo non deve sorprendere, perché la politica é una sporca faccenda; quello che sorprende invece è che coloro che incorsero nelle purghe staliniane e riuscirono a sopravvivere rimasero di incrollabile fede comunista, alcuni cercando giustificazione dei torti subiti in qualche inconsapevole comportamento deviazionista, altri invece solo per pura fede. Fra questi ultimi anche Paolo Robotti, cognato di Togliatti, che pur pubblicando nel 1965 un libro su quel periodo funesto rimase uno stalinista convinto, un atteggiamento che a definirlo masochista non spiega del tutto i motivi. Il culto della personalità era talmente radicato che la ferocia di Stalin veniva accettata supinamente, come il castigo di un Dio che rappresentava con poteri assoluti la loro ideologia politica. Quanto al Partito Comunista Italiano, nonostante le malefatte di Stalin svelate da Chruscev, pensò bene di non rendere edotti i suoi numerosi iscritti, nel timore, giustificabile, che non pochi avrebbero stracciato la tessera.
Di questo parla il bel saggio storico di Arrigo Petacco e lo fa con elementi probatori, con un atteggiamento super partes che gli fa onore e che in fondo fornisce all’opera la necessaria credibilità.
Da leggere, ovviamente.
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Il cadavere scomparso
Come molti sanno, Agatha Christie ha ideato due protagonisti memorabili di quasi tutti i suoi romanzi gialli, il misogino Hercule Poirot e l’anziana Miss Marple. Le mie preferenze vanno a quest’ultima,più plausibile del primo, ma sempre legata alla ferrea logica dell’autore secondo la quale alla soluzione di qualsiasi delitto si arriva per gradi, come in puzzle che si viene a formare facendo combaciare perfettamente un pezzo dopo l’altro. E così, anche in Istantanea di un delitto, scritto nel 1957, figura l’acume di miss Marple; l’inizio è brevemente convenzionale, con la signora McGillicuddy che in prossimità del Natale, oberata da pacchi e pacchetti e, nonostante l’aiuto di un facchino, si avvia con difficoltà in stazione verso il marciapiedi da cui partirà il suo treno, diretto in Scozia, dove andrà a far visita alla sua amica Miss Marple. Partito il convoglio, la signora assisterà a un delitto su un treno che passa accanto al suo nella stessa direzione. Ovviamente, di ciò sarà resa edotta la polizia, che però non le crede, perché non si trova il cadavere. É inutile che aggiunga che le verrà in aiuto l’amica Miss Marple e che alla fine l’enigma verrà risolto e l’omicida verrà scoperto grazie a uno stratagemma.
Se devo essere sincero, i gialli della Christie mi piacevano di più in giovane età, mentre ora, rileggendoli, provo un tiepido gradimento, un po’ per quel modo di scrivere compassato e formale, tipicamente british, un po’ perché, se lo svolgimento della trama è ineccepibile, mancano alcune caratteristiche che mi interessano molto e che invece posso trovare nei romanzi di Simenon.
Infatti, se la descrizione dei luoghi è ben realizzata e se anche l’atmosfera è sapientemente ricreata, l’analisi psicologica dei personaggi è sovente superficiale, raramente va in fondo, così che finiscono con lo sfuggire le autentiche motivazioni di un reato e si viene a valutare con indifferenza chi l’ha commesso, quasi che lo stesso fosse un anonimo che esce dall’ombra senza che alla fine sia possibile comprendere completamente il suo comportamento. É per me una lacuna, poiché non si aggiunge altro alla semplice piacevolezza della lettura. Insomma, arrivati all’ultima pagina, resta ben poco dentro e si ha la convinzione che l’opera possa costituire solo un gradevole passatempo.
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Un Chiara sorprendente
Credevo di aver letto tutto, o quasi, della corposa produzione di Piero Chiara (mi manca Il vero Casanova e provvederò quanto prima) al punto che tempo fa ho scritto una parziale monografia dedicata a questo autore che giustamente può essere chiamato Il cantore della provincia. Credevo e mi sbagliavo, perché, quasi per caso, mi sono imbattuto in un suo libro, ben poco conosciuto, intitolato Con la faccia per terra e altre storie, insomma una raccolta di racconti, di cui uno piuttosto lungo (Con la faccia per terra) e gli altri generalmente brevi. La lettura non solo mi ha piacevolmente sorpreso, ma mi ha rivelato un Piero Chiara che, lasciate le consuete tematiche, ha saputo fornire un lavoro che a mio parere é il suo migliore. La narrazione è totalmente dedicata a un suo viaggio in Sicilia e alla figura paterna, rivelando un complesso di approfondimenti e una capacità di esporre con semplicità riflessioni di rilevante impegno . Ha ragione Geno Pampaloni quando nella sua ampia prefazione dice che non c’è tanto un compiaciuto abbandono al passato, bensì una riflessione morale, accompagnata da una scrittura lieve e da un riserbo di giudizio nel tratteggiare gli aspetti essenziali della vita. Va da sé, per quanto ho fino a ora detto, che si tratta di una vera e propria, se pur parziale, autobiografia, in cui riluce, non disgiunta dalla consueta ironia, un velo di accennata malinconia che è propria di chi vuole verificare il riscontro fra i ricordi di età giovanile e la realtà di un uomo ormai maturo. Quella Sicilia, la terra natia del padre, che da bambino e da ragazzino, in visita ai parenti, assumeva un aspetto favolistico, ora per nulla cambiata è un’amara realtà. Un tempo fermo accompagna il viaggio, o meglio i viaggi, perché costante é la coesistenza della memoria del trascorso e del presente. In Sicilia si agogna arrivare, ma là si cerca di scappare, troppo diverso è il modo di vivere fra l’estremo sud e il grande nord. Non é tuttavia una critica ai siciliani, verso cui mostra un affetto fraterno, ma è la constatazione che lì non a caso è nato Il Gattopardo e che nulla può mutare, pur fra gli eventi fragorosi del ventennio fascista e della seconda guerra mondiale. Ci sono pagine in cui l’autore riesce così bene a descrivere il paesaggio e le atmosfere che si ha l’impressione di essere presenti con lui, di viaggiare in lungo e in largo, di incontrare i parenti, per lo più povera gente che dalla vita nulla hanno avuto e che mai avranno, ormai senza speranza, tediati da una rassegnazione atavica. Se Con la faccia per terra occupa quasi tutto il libro, gli altri racconti, tutti brevi, sono un diretto omaggio al padre, osservato nella sua avanzata età e nello sforzo per allontanare, almeno scaramanticamente, la morte, con cui pare giocare, una presenza invisibile che tuttavia lui avverte e che accompagna le sue giornate, a volte nel preparare la sua dipartita, magari facendo incorniciare una fotografia da mettere sulla lapide, altre attendendola rassegnato nelle forze che progressivamente vengono meno. É un Chiara che francamente non mi aspettavo, tenero, delicato, che con occhi pieni di affetto annota il progressivo spegnersi di un’esistenza. E con l’ultimo, Un sogno, tributa al genitore un omaggio del tutto particolare e commovente.
Non mi piace attribuire giudizi altisonanti, ma fra i tanti capolavori di Piero Chiara questo é il migliore, é quello che potrei definire un lascito a futura memoria.
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Affinché chi non sa possa sapere
Questo libro ha una strana origine, in quanto nasce dai testi preparatori e dalle lezioni tenute presso l’Università di Torino comprese nel corso 1985 – 1986 di Storia contemporanea tenuto dal professor Giorgio Rochat, con il tema “L’Italia nella Seconda guerra mondiale”. In tale ambito, su invito del cattedratico, Nuto Revelli ha tenuto una serie di lezioni sulla base dell’esperienza acquisita e con lo scopo di far conoscere ai giovani studenti che cosa fosse il fascismo nel ventennio. E lo scrittore piemontese era più che qualificato per tenerle, con il suo passato di fascista, come erano tutti gli italiani senza sapere cosa fosse il fascismo. Nel discorso se ne inserisce un altro e cioè se la storia deve essere vista dall’alto, dal quadro generale, o se debba essere frutto del particolare, delle vicende di ognuno degli ignoti protagonisti. Revelli in questo è salomonico, nel senso che ritiene che di debba tener conto di entrambi i metodi, per quanto sia visceralmente portato al contatto umano, a quelle piccole storie che nel loro insieme fanno la grande storia.
Seguiamo così la sua personale storia, da fascista inconsapevole e anche orgoglioso di esserlo, come può essere un giovane cresciuto a libro e moschetto, alla tragica realtà della nostra avventura in Russia nel corso della seconda guerra mondiale che aprirà (meglio tardi che mai) gli occhi a moltissimi. Si svelano in quel tragico teatro bellico le menzogne del regime: il nostro esercito é il più organizzato del mondo (e invece la disorganizzazione era la regola), la nostra aviazione é la più forte di tutte (e invece faceva pena), il nostro armamento è insuperabile ( e si combatteva con fucili progettati nel 1891 e con la preda bellica della Grande Guerra). L’autore rivive i tragici giorni della ritirata, il ritorno in Italia, lo sconforto per chi non crede più in un sistema e non ha al momento alternative. Queste verranno, dopo il 25 luglio 1943 e, soprattutto, dopo l’8 settembre dello stesso anno. La ribellione, prima ancora che un atto politico, è un atto intimo, è la presa di coscienza che è indispensabile ripensare la propria vita. Ed è dura l’esistenza alla macchia, braccati dai fascisti e dai tedeschi, con poco cibo e il domani sempre incerto. Revelli non é uno spaccone e ci parla della sua esperienza partigiana senza mai esaltarsi, citando vittorie e sconfitte, anche se la sconfitta peggiore sarà il dopo, finita la guerra, con i fascisti che rialzano la testa e vogliono ritornare protagonisti di un paese che nelle sue istituzioni non li avversa, ma spesso li aiuta.
Scritto in modo semplice e immediato Le due guerre é un libro che tutti dovrebbero leggere, che dovrebbe rientrare nei programmi scolastici, perché chi per l’età non può sapere deve essere reso edotto di quale immane tragedia sia stato il fascismo.
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La morte vestita di bianco
Non c’è pace per gli uomini della divisione alpina Julia: prima a combattere contro i Greci, poi inviati nella grande steppa russa a coprire una linea del fronte lungo il fiume Don e infine costretti a tornare indietro per l’avanzata delle truppe sovietiche, che chiudono in una sacca un’’intera armata.
I loro percorsi sono sempre fatti a piedi, tranne per il trasferimento in nave dalla Grecia all’Italia, dove dovranno affrontare i rischi delle mine e dei siluri (e infatti uno di questi colpisce e affonda un bastimento carico di militari) e dalla nostra Patria ai confini russi in treno, stipati su dei carri bestiame. Ma nessuno si lamenta, anzi nei disagi e nelle difficoltà si rafforza quello spirito di corpo che è proprio degli alpini. Dovrebbero andare a combattere sul Caucaso, una regione montuosa dove un corpo ben addestrato come il loro può dare ottimi risultati, ma l’incapacità, la follia degli alti comandi li destina alla pianura, quasi si trattasse di semplice fanteria. La ritirata nella neve e con un freddo polare, pressati dalle truppe nemiche, dai partigiani, poco armati, senza cibo, vestiti in modo inadeguato si trasformerà in un incubo da cui pochi, benchè segnati nel corpo e nell’anima, riusciranno a uscire.
Della nostra disfatta in Russia nella seconda guerra mondiale hanno scritto pochi narratori e tutti testimoni di un’esperienza vissuta. A memoria ricorco l’ottimo I lunghi fucili, di Cristoforo Moscioni Negri, e quel capolavoro che risponde al titolo di Il sergente nella neve, di Mario Rigoni Stern; il primo è a metà fra il romanzo (la ritirata) e il saggio storico (la disamina delle cause dello sfacelo, le colpe), il secondo é un’opera di rilevante valore letterario. Centomila gavette di ghiaccio, testimonianza di quella tragica esperienza che ha vissuto il tenente medico Giulio Bedeschi, é un allucinante percorso in un girone infernale. É difficile trovare in un libro così tanto orrore che sappiamo realmente accaduto, e non inventato, un orrore che strazia, che penetra dentro come il freddo polare che dovettero patire quei disgraziati. Sì, perché la ritirata è senz’altro la parte migliore dell’opera, un incalzare di eventi, uno sfinimento totale che stringono lo stomaco. Gli alpini si trascinano nella neve, cadono esausti e muoiono, si buttano su qualsiasi cosa che abbia la parvenza di essere mangiabile, lottano per quello che chiamarlo cibo è quasi una bestemmia, ma restano saldi nel cercare di aiutarsi, almeno fino a quando avranno un po’ di forze. Il lungo serpente di un armata in ritirata è punteggiato dai poveri corpi di chi non è più stato in grado di proseguire; é una torma di dannati che si trascina verso ovest, verso la salvezza, pronta a combattere anche solo con la forza d’urto dei propri corpi contro gli sbarramenti nemici che vogliono inchiodarli per sempre. Battaglie, scontri, miserie umane, e freddo, tanto freddo che congela gli arti, che mozza il respiro. Sembra di vederli passare davanti ai nostri occhi, viene perfino la tentazione di allungare un braccio per aiutare qualcuno con ce la fa più; in quel bianco uniforme che diventa un sudario per molti va un’umanità dolente verso la salvezza o verso un ideale orizzonte di un mondo senza più guerre. Il nemico é vicino, ma non c’è odio, perché la battaglia è fra l’uomo e quella natura tanto avversa. Sono pagine memorabili, di una bellezza unica e si guardi bene che l’autore rifugge dallai retorica, da frasi del tipo “italiani brava gente”., anche se a volte esagera un po’, almeno nei toni, nel parlare dell’eroismo dei nostri alpini. Apprezzabile é la parte in cui si parla delle contadine ucraine che vicino alla meta li soccorrono; loro non hanno debiti di riconoscenza , ma solo tanta materna pietà.
Saranno pochi a rientrare in Italia, piombati nei vagoni, impossibilitati a scendere alle stazioni, perché la gente non deve vedere come è ridotta la grande armata italiana che è andata in Russia. Prosegue il gioco delle menzogne, lo stesso a cui per tanto tempo sono stati abituati gli italiani.
Resta da chiarire tuttavia un mistero: nonostante l’esperienza patita e l’evidente incapacità di un regime di affrontare seriamente una tragedia come la guerra, Giulio Bedeschi, dopo l’8 settembre 1943, anziché prendere la via dei monti per unirsi ai partigiani, si iscrisse al partito fascista repubblicano, divenendo comandante della XXV Brigata Nera Capanna di Forlì. Alla fine delle ostilità si nascose per poi riapparire, senza conseguenze, nel 1949.
Centomila gavette di ghiaccio è meritevole di lettura, perché é certamente un libro contro la guerra, contro l’insensatezza degli uomini che non comprendono come in un conflitto anche i vincitori finiscono con l’essere perdenti, sconfitti nella loro dignità e feriti nell’animo, una lacerazione da cui è impossibile guarire.
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Il prefettissimo
La n’drangheta, la Sacra Corona Unita, la camorra e la mafia sono mali endemici del nostro meridione, anche se l’operatività di queste associazioni criminali si sono ormai estese a tutta l’Italia, ramificandosi perfino all’estero. La mafia è certamente la più conosciuta e si è sviluppata in Sicilia, diventando un contro stato. Mai sconfitta, magari qualche volta ferita, attraversò tuttavia un brutto periodo negli anni ‘20, allorchè Mussolini, ormai al potere, decise di combatterla, affidando l’incarico, con pieni poteri, al prefetto Cesare Mori, uomo non di regime, anzi avversato ferocemente dai fascisti romagnoli da quando era a capo della prefettura di Bologna, dove, con il solo scopo di far ispettore la legge, cercava di ostacolare le manovre eversive delle squadracce. Uomo integerrimo, di vecchio stampo liberale, era l’unico che poteva riuscire nello scopo, sia per le sue indubbie capacità, sia per l’esperienza maturata in alcuni anni di inizio secolo proprio in Sicilia. Dotato di una forte personalità e anche di una notevole ambizione i risultati non tardarono a venire, anche perché, investito di poteri assoluti, non andava tanto per il sottile e di fatto conduceva una guerra senza quartiere. Famoso fu l’assedio di Gangi, paese di 16.000 abitanti con 160 briganti; riuscì non solo a catturarli, ma anche a far passare dalla sua parte i cittadini, prima consenzienti soprattutto per paura. La sua massima, a cui sempre si ispirò, era questa: “Se la mafia fa paura, lo Stato deve farne di più.”. Da questa azione gli derivo una notorietà non solo a livello nazionale, ma anche all’estero, con soddisfazione di Mussolini che poteva così presentare un regime che risolveva anche i più difficili e spinosi problemi. Tuttavia, e Mori ne era ben consapevole, nella rete cadevano solo i pesci piccoli, al massimo qualche pezzo da 90 ormai imbolsito, ma il cervello, la cupola era inattaccabile, grazie alle connivenze con i politici locali e non solo con quelli. Certo tanti malfattori finirono in carcere o al confino, ma i grandi capi preferirono emigrare, per poi tornare con gli americani all’epoca dello sbarco in Sicilia. Altri ancora, invece, capirono l’aria che tirava e si inserirono, magari indirettamente, nel tessuto connettivo del fascismo. Qualche risultato fu comunque ottenuto, come la defenestrazione dell’onorevole Cucco, federale di Palermo e di fatto massimo esponente del fascismo in Sicilia, che non era mafioso, ma colluso con l’onorata società. Con il tempo Mori divenne un personaggio scomodo, uno che non si tirava indietro e andava fino in fondo, chiunque fosse l’indagato; anche lui si accorse che qualcosa stava cambiando e più per opportunità che per convinzione si iscrisse al partito nazionale fascista. Non bastò, e, nominato senatore per alti meriti il 22 dicembre 1928, nel giugno dell’anno successivo fu collocato a riposo con effetto dal 16 luglio stesso anno “per anzianità di servizio” (35 anni per i prefetti sulla base di nuova legge che sembrava varata ad hoc). Gli si diede anche un piccolo omaggio: la presidenza del Consorzio di 2° grado dell’Istria, in cui ben operò fino alla sua morte avvenuta il 5 luglio 1942. In quel periodo quasi di esilio gli venne la passione di scrivere, in verità con mediocri risultati, tranne che per Con la mafia ai ferri corti, un libro sulla sua esperienza siciliana, non ben accolto dal fascismo, anzi decisamente avversato, ma che riuscì a vendere bene, soprattutto all’estero.
Petacco ne fa una biografia in cui unisce ammirazione a recriminazioni, ammirazione per la coerenza, la ferrea volontà, la capacità dell’individuo, recriminazioni per non aver saputo essere anche un politico, il che forse avrebbe permesso la morte della mafia, invece solo stordita, e pronta a riprendersi proprio con la caduta del fascismo. Lo stile snello, la vicenda stessa, il personaggio rendono la lettura particolarmente interessante e piacevole.
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La valigia dei ricordi
Può una vecchia valigia essere fonte di tanti ricordi? Certamente, come anche qualsiasi altro oggetto, a patto che a far emergere dalla memoria eventi del passato sia un acuto osservatore; per poi metterli nero su bianco, occorre un narratore che abbia la straordinaria abilità di rendere interessanti e piacevoli anche fatti apparentemente banali. Con la sua scrittura semplice, ma non povera, con uno stile quasi colloquiale Isabella Bossi Fedrigotti si impegna nel tema che le è più congeniale, quello del ricordo. La vecchia valigia di pelle fabbricata a Brno da un artigiano dal nome pressoché impronunciabile e da tanto tempo presente nella casa di famiglia è così il pretesto per raccontarci un po’ della sua gioventù, con la vacanza al mare, insieme alla sorella e ai due fratelli, accompagnati dalla tata tedesca, a quella in montagna, dalla zia, con la famiglia questa volta al completo. Lei é bambina e certe storielle fanno un po’ sorridere, però sono tipiche di quell’età dell’essere umano. La valigia è sempre presente, anche quando si va in collegio dalle suore (assai riuscita la descrizione di queste) e infine è quasi un oggetto del contendere fra una mamma e un papà continuamente litigiosi, con lui che minaccia di andarsene e che allo scopo riprende la valigia dalla soffitta, la porta nella camera d’ingresso e lentamente la riempie di indumenti, per poi fermarsi, e lei che la nasconde, lui ancora che la ritrova, la riporta giù e la stipa di vestiario, senza poi tuttavia andarsene. Piccoli dispetti, atteggiamenti pateticamente infantili in due adulti che dovrebbero dare l’esempio di una sana famiglia ai figli e questi che assistono impotenti e anche attoniti sono forse le pagine migliori di questo breve romanzo che si lascia leggere in breve tempo, senza particolari pretese o messaggi di rilevante profondità, ma che alla fine risulterà un gradevolissimo passatempo. Non solo, però, perché stimolati dalla circostanza il nostro pensiero finirà con il correre a qualche oggetto che è presente nelle nostre case e che è il simbolo di una vita; potrà essere un mobile, un apparecchio fotografico, insomma qualsiasi cosa che possa riaccendere la nostra memoria e che, con un po’ di commozione, alimenti un flusso di ricordi.
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Il partigianato
Ai più Dante Livio Bianco risulterà uno sconosciuto, ma dopo aver letto questo suo libro e dopo avere imparato che cosa fu veramente la Resistenza finirà con il diventare un personaggio indimenticabile. Nelle pagine si respira un’aria di libertà, di speranza, un’aria buona che manca da troppo tempo. Non è il solito strombazzato retoricamente eroismo partigiano, ma è la realtà di uomini che si trasformano, che militarmente combattono per affermare un ideale di giustizia e di libertà, e Giustizia e Libertà si chiameranno infatti le brigate del Partito d’Azione, di cui Bianco é membro. L’autore sa scrivere in un bello e conciso italiano e, soprattutto, sa quel che vuol dire; vuole mettere nero su bianco quale fu l’esperienza partigiana nel cuneese, una delle zone a più alta densità di “ribelli”. Il suo non è un romanzo, ma è uno studio organico, la cui attenta lettura porta a comprendere chiaramente come vennero a nascere le bande, come progredirono, la loro funzione, il loro inserimento nel tessuto sociale. Sono dell’idea che arrivati all’ultima pagina si sappia molto sul movimento partigiano, non se ne abbia solo un’idea, ma una conoscenza approfondita. Divisa in capitoli sistematici l’opera si presta a fornire puntuali risposte alle tante domande. Rammento, in particolare, avendo destato in me maggior interesse, quelli relativi al carattere popolare dei partigiani, all’inevitabile crisi che subentra nei superstiti dopo un rastrellamento, alla militarizzazione e politicizzazione delle formazioni, alla tecnica militare e allo spirito politico-morale. Si noti bene, peraltro, che Dante Livio Bianco non era un professore di storia, ma un avvocato; evidentemente, però, ha avvertito il desiderio e la necessità di ricordare, per primo a lui stesso e agli uomini della sua epoca, e di far conoscere alle generazioni successive un fenomeno, quale quello del partigianato, del tutto nuovo per l’Italia e con ambizioni non solo di liberare il paese dal giogo nazi-fascista, ma anche di gettare le basi per la nascita di una nuova Italia. Tuttavia, mi è sembrato di avvertire fra le righe delle ultime pagine un senso di sconforto, poiché, finita la guerra, anziché veder sorgere un periodo di rivoluzione (nel senso politico e non insurrezionale del termine) ebbe inizio subito, implacabile, la restaurazione, di cui scontiamo tuttora gli effetti.
Da leggere, lo merita.
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Un tragico rastrellamento
Nel mese di giugno del 1944 17.000 uomini, fra militari tedeschi e reparti fascisti, rastrellarono, palmo a palmo, la Val Grandee quelle adiacenti, site in Piemonte e prossime al lago Maggiore. Scopo dell’operazione militare era di sradicare in modo definitivo i partigiani operanti nella zona e particolarmente attivi, il cui numero era stato stimato erroneamente dai comandi nazisti in misura ben superiore ai 450-500 uomini che effettivamente erano. Fu una strage, crudele e atroce; le perdite dei partigiani si possono quantificare in circa 300 morti, di cui la metà caduta nei combattimenti e il resto catturati, torturati e infine giustiziati. Fra le vittime vi sono da aggiungere poi sette civili, mentre fra i rastrellanti si contarono alla fine circa 200 morti e altrettanti feriti.
Di questo massacro parla il libro di Chiovini, all’epoca partigiano in zona e sfuggito miracolosamente all’eccidio. La sua è una cronaca puntuale e scarna, una serie di piccoli e grandi scontri che si verificano quasi senza interruzioni nel periodo del rastrellamento ed ha quindi un valore storico, poiché da essa è possibile comprendere quali errori furono commessi per arrivare a un simile luttuoso bilancio. A priori c’è da considerare un particolare attivismo partigiano, meritorio senza dubbio, ma spesso condotto con una sfrontatezza che rasentava la guasconata, frutto di una sicurezza che poi, durante il rastrellamento, contribuirà non poco al suo tragico risultato. I comandanti delle bande operanti, poi, adottarono senza dubbio il metodo della resistenza trasversale e rigida in valle, senz’altro sconsigliabile anche per un esercito regolare, poiché una seconda linea difensiva è da considerarsi sempre imprescindibile. Purtroppo, tutti questi fattori, a cui si unirono la notevole superiorità in uomini e in mezzi dei nazifascisti , condussero a una mattanza , scrupolosamente documentata dall’autore. Tuttavia, finita l’operazione di repressione, il nemico non ottenne i risultati auspicati e in breve si ricostituirono in zona, con i superstiti e nuove leve, le formazioni partigiane, diventate più esperte dopo il disastro subito, tanto da fornire il loro prezioso contributo per la nascita della Repubblica della Val d’Ossola, avvenuta il 10 settembre 1944; questa zona libera durerà una quarantina di giorni, ma costituirà la prova che i cosiddetti ribelli avevano un alto senso dello Stato.
I giorni della semina, benché porti la prefazione ampiamente positiva di Oscar Luigi Scalfaro, ex presidente della repubblica italiana, per come è impostato e per come è scritto ha più il valore di una testimonianza che di un approfondito saggio storico, ma riesce a ben rendere l’atmosfera di quegli anni e in particolare di quel tragico evento, elementi positivi che ne consigliano la lettura.
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Caccia al mostro
Il brutto, in quanto diverso ed evitato, rappresenta da sempre il classico capro espiatorio, perchè considerato un mostro e che certi aspetti fisici colpiscano in modo negativo la gente é testimoniato anche dal fatto che lo psichiatra italiano Cesare Lombroso pretese di identificare un individuo come criminale attraverso alcuni tratti somatici. Da un bel po’ sappiamo che si sbagliava, ma la sua teoria ebbe largo seguito in passato.
Alla periferia di Parigi, dietro un cespuglio viene ritrovato il corpo, fatto a pezzi, di una prostituta e dato che nei pressi abita il signor Hire, che è tutt’altro che un adone e conduce una vita solitaria e appartata, i sospetti, coram populo, si appuntano subito su di lui, che, cercando di sviare i pedinamenti della polizia, finisce con l’accrescere la convinzione che sia il colpevole. Hire é invece un uomo mite, timido, che non ha rapporti con le donne, ma che ama spiare una vicina, la quale se ne accorge e inizia a condurre una specie di gioco erotico, che attira sempre di più l’uomo. Non vado oltre, perché il romanzo é bello e lascia con il fiato sospeso e anche se si fa largo la convinzione che monsieur Hire non c’entri, resta però un dubbio salutare che appassiona ulteriormente.
L’incapacità del protagonista di relazionarsi, soprattutto con l’altro sesso, é splendidamente descritta da Simenon, con quest’uomo che osserva, interessato, la vicina che si spoglia e che sa di essere guardata; si poteva cadere nel ridicolo, o peggio nel pornografico, ma la misura dell’autore è tale che viene evitato, anche perché il fine di questo tratto voyeuristico non è tanto quello di attirare morbosamente il lettore, bensì è il mezzo per arrivare a dimostrare i complessi di un uomo che è tutto fuorchè un criminale.
E tale é la complessità del soggetto che resta inerte anche quando la vicina gli si offre e lui è incapace di cogliere l’occasione, di manifestarle il suo desiderio, la sua passione, il suo amore, rifugiandosi nuovamente in un’altra realtà a lui dimensionata in cui si sviluppano i sogni, come i progetti per una felice vita in comune, anche se questi tuttavia sembrano vicini a concretizzarsi.
Indubbiamente l’analisi psicologica di Simenon giunge in quest’opera ai massimi livelli, riscontrabili solo in un altro suo romanzo, I fantasmi del cappellaio. Si tratta di autentico virtuosismo, della capacità di sondare, di comprendere e di far comprendere e alla fine proveremo anche noi la stessa pietà dell’autore per un uomo la cui vita è sempre stata contrassegnata dall’infelicità, per l’esistenza di un individuo i cui complessi l’hanno rinchiuso in un bozzolo che non si rivelerà poi protettivo.
Appassionante, coinvolgente, teso come una corda di violino Il fidanzamento del signor Hire é un romanzo che è un capolavoro, l’ennesimo di Simenon.
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Un caso di doppia personalità
Alessandro Pavolini (Firenze, 27 settembre 1904 – Dongo, 28 aprile 1945) e Benito Mussolini, quando si allontanarono da Como il 27 aprile 1945, diretti verso la Valtellina (il primo per un’ultima disperata difesa nel ridotto fra i monti appena abbozzato, il secondo, tentennante fra la morte eroica e la fuga da vigliacco, con ogni probabilità con la speranza di valicare il confine e rifugiarsi in Svizzera), erano senz’altro, all’epoca, gli uomini più odiati dagli italiani. Del Duce sono state scritte tante biografie, più o meno riuscite, mentre assai meno sono state quelle relative ad Alessandro Pavolini, uomo dalla complessa personalità, e quindi assai difficile da descrivere. Tuttavia, Arrigo Petacco con Il superfascista ci ha provato e, secondo me, con risultati eccellenti. Il saggio storico inizia con la colonna, di cui fanno parte fra gli altri Benito Mussolini e Alessandro Pavolini, bloccata dai partigiani sulla sponda occidentale del lago di Como. Si parlamenta, si discute e infine si arriva un accordo: si lasceranno passare gli uomini della FlacK, a cui come è noto si aggregò il Duce travestito da tedesco. Per gli italiani, per i fascisti che disperati alternano momenti di abulismo o di sconforto ad altri di speranza, c’è da attendere le decisioni del comando partigiano. In questo tempo che per i gerarchi e gerachetti sembra non trascorrere mai Petacco , con stile snello, scevro di accademismo, ci narra la vita di Alessandro Pavolini, intellettuale fiorentino di buona e nota famiglia (il padre era uno dei più noti filologi esistenti al mondo, accademico d’Italia), dedito con passione e capacità alle arti e alla letteratura, di per sé buon giornalista e ottimo scrittore; era persona amabile, rispettosa dell’opinione altrui fin tanto che l’argomento era quello letterario, ma rivelava un’insospettabile ferocia quando nutriva timori per la stabilità del fascismo e per l’incolumità di Mussolini, che addirittura idolatrava. In breve, da vice federale a Firenze, ne divenne il federale, distinguendosi per alacrità, per la realizzazione di opere pubbliche utili e indispensabili, come la nuova stazione della città e i numerosi alloggi popolari. Era capace e onesto e inoltre fedele, ma la sua carriera nel partito non sarebbe stata così rapida se non avesse avuto la sorte di conoscere, divenendone amico, il genero del duce, il potente Galeazzo Ciano. Alla sua corte, senza essere un lacché, si dimostrò fedele e disponibile e quindi gli si aprirono le porte per un luminoso avvenire, diventando, fra l’altro, ministro della cultura popolare, dicastero importantissimo che aveva il compito di istruire non solo fascisticamente i giovani italiani, ma anche quello, non meno rilevante, di manipolare l’informazione e con essa le coscienze. Era un traguardo prestigioso, ma l’uomo non era evidentemente soddisfatto, anche perché l’entrata in guerra dell’Italia, le cui forze armate erano del tutto impreparate, circostanza a lui ben nota, gettava un’ombra sulla sua vita. Si incupì, cominciò a temere, giustamente, che il fascismo avesse le ore contate. Un rimpasto governativo, voluto dal Duce per gettare fumo negli occhi e distogliere il popolo dalle continue disfatte, lo esonerò dall’incarico, compensato dalla ben più modesta investitura di direttore del Messaggero. Era un posto defilato, in cui Pavolini avrebbe potuto attendere relativamente sicuro la fine del conflitto, ma con la defenestrazione del 25 luglio 1943 di Mussolini deliberata dal Gran Consiglio del Fascismo sentì crescere in sé un odio irrefrenabile che lo portò a rifugiarsi in Germania, nonostante disistimasse i tedeschi, e a predisporre con loro un piano di rinascita del fascismo. É così che, dopo l’8 settembre 1943 e successivamente alla liberazione del Duce anche lui condotto in Germania, che nacque lo stato fantoccio della Repubblica sociale italiana. Pavolini diventò il segretario del partito fascista e di fatto l’uomo che decideva anche per un Mussolini ormai depresso e abulico. Fu sua l’idea di fare un esercito fascista ed è così che nacque la Guardia Nazionale Repubblicana che, con ferocia combattè i partigiani, con crimini di tale portata da far intervenire ogni tanto perfino i tedeschi per chiedere un po’ di moderazione. Nel crepuscolo del regime Pavolini finì con il sognare la “bella morte” e in tal senso era spesso in prima linea, tanto che fu anche ferito. Però il libro del destino del fascismo stava per arrivare all’ultima pagina e l’odio e la ferocia si accrebbero in Pavolini che addirittura lasciò numerosi cecchini a Firenze, prossima alla liberazione, affinché uccidessero, più che i soldati alleati, gli stessi cittadini.
L’avanzata dei tedeschi nelle Ardenne risvegliò le speranze di naufraghi morituri, ma fu solo una piccola fiammata e nella primavera del 1945 si annunciò la resa dei conti. É noto come andò a finire, con Pavolini che cercò disperatamente di opporsi all’arresto, combattendo, ma che poi con altri suoi camerati venne fucilato sul lungolago di Dongo. Il suo corpo, come quello di Mussolini e degli altri giustiziati in riva al lago di Como, venne poi appeso a un distributore di benzina di Piazzale Loreto a Milano.
Petacco é stato molto bravo perché non solo ha messo in giusta luce le due personalità contrastanti, ma ha saputo narrare questa biografia come se fosse un romanzo, rendendola avvincente e indimenticabile.
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Tripoli bel suol d’amore?
Ho cercato di pescare fra i miei ricordi scolastici questa battaglia dall’esito a noi sfavorevole, ma il risultato è stato sconfortante. Nella memoria ho trovato altre sconfitte: quelle della prima guerra d’Indipendenza, quelle della terza guerra d’Indipendenza, fra le quali ben chiaro è stato l’episodio di Lissa, nonché la famosa e tristemente nota ritirata di Caporetto. Del resto le nostre guerre coloniali hanno pochi accenni nei programmi scolastici, come se ci dovessimo vergognare di aver voluto assoggettare altri popoli nel periodo in cui noi cercavamo di liberare dal dominio straniero degli italiani come noi. Sì, ho memoria della disfatta di Adua, ma della guerra condotta in Libia, che si concluse dopo molti anni con una pacificazione ottenuta con metodi barbari e crudeli, riesco ad avere solo un’idea confusa e quindi è ben difficile pensare che Gasr Bu Hadi, questa località desertica del Fezzan, possa avere qualche significato per me. Eppure lì patimmo una cocente sconfitta con il rischio consistente di essere ributtati in mare e di finire nel peggiore dei modi la nostra avventura coloniale nell’Africa settentrionale. Per fortuna che fornisce chiari lumi al riguardo lo storico Angelo Del Boca con questo volume che ha anche il pregio di riparare alle tante omissioni relative alla nostra colonizzazione libica. Il tutto accadde nell’imminenza della partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale, quando i bellicosi mujâhidîn arabi si ribellarono e venne inviato a sedare la rivolta un corpo di spedizione comandato da un ufficiale di comprovate capacità e di lunga esperienza coloniale quale era il colonnello Antonio Miani.
Il libro evidenzia i nostri cronici difetti, che già dolorosamente si rivelarono ad Adua, e in genere in tutte le guerre a cui partecipammo: l’approssimazione e la sottovalutazione del nemico; a ciò si aggiungono, nello specifico caso, gli ordini contraddittori del comando di Tripoli e l’invidia di non pochi ufficiali verso un soldato che si era meritato promozioni e medaglie sul campo, e non in poltrona. Purtroppo, Miani contava di avere forze superiori e invece erano inferiori, dava una fiducia oltre ogni logica alle bande irregolari aggregate alla spedizione, procedeva verso lo scontro come se avesse avuto di fronte dei poveri diavoli armati solo di asce e di lance. E poi, in un ufficiale di cui si presagiva un grande avvenire, si scoprono inutili manie di grandezza, rappresentate dalla corposa e ingombrante colonna delle salmerie, con vettovagliamento e munizioni non di certo per una breve campagna, come si ipotizzava, ma per una lunga e logorante guerra. Tradito dagli irregolari, che già i giorni precedenti avevano dimostrato ben scarso affidamento, comportamento inspiegabilmente ignorato dal colonnello, rallentato dalla citata colonna dei rifornimenti, il nostro corpo di spedizione finì in bocca agli avversari e fu una strage. I superstiti, compreso il colonnello ferito ben due volte, riuscirono a riparare in un nostro fortino sulla costa, anche perché i ribelli si gettarono sull’ambita preda costituita dalle salmerie. Miani si vendicò del tradimento colpendo anche chi non c’entrava e numerose furono le pene capitali immediatamente eseguite. L’uomo, conosciuto come autoritario, ma anche come giusto e imparziale, rivelò una ferocia senza precedenti. Le colpe della disfatta però non erano solo sue, investendo anche il governatore militare e il ministro delle colonie e fu questo che salvò Miani da un processo, in cui sarebbero stati inevitabilmente chiamati in causa le predette autorità, con gravi ripercussioni sullo spirito di un paese che da lì a pochi giorni avrebbe dichiarato guerra all’Austria. Comunque per Miani la carriera militare era finita, ma lui non ci stava a essere il capro espiatorio, e se un processo ci fosse stato – ma non ci fu per i motivi sopra precisati – forse avrebbe potuto difendersi, almeno per sminuire le sue colpe; fu così che si affidò alle memorie, ad articoli, insomma a tutto quanto gli era possibile per difendere la propria onorabilità.
Il libro é illuminante e piacevole da leggere al punto che mi sento di consigliarlo.
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L’ultimo del Romanzo di Ferrara
Questa raccolta di racconti conclude il grande progetto a cui Bassani ha dato il nome Il romanzo di Ferrara, ma se era lecito attendersi un’opera addirittura migliore delle precedenti, questa costituisce purtroppo una delusione. Nel leggere queste prose si ha l’impressione di trovarsi davanti al lavoro di un autore che nei libri precedenti ha detto tutto quello che si sentiva di dire; carenza di idee, racconti che, mi spiace dirlo, spesso sono banali e che pertanto, in quanto tali, destano ben poco interesse, insomma un qualcosa che sembra raffazzonato e che magari offre anche qualche pagina piacevole, ma che per lo più finisce con l’annoiare. La creatività sembra spenta, perfino l’italiano, non consueto e non corrente, apprezzato in precedenza, qui langue, dando chiara l’impressione di un’evidente forzatura, come se Bassani avesse dovuto scrivere per contratto e non per il piacere di comunicare. Benchè gli argomenti trattati siano diversi, per tutti vale un dimesso grigiore che trascina lentamente e con fatica il lettore fino all’ultima pagina. A onor del vero ci sarebbe un racconto (Pelandra) il cui spunto é notevole, ma che poi si trascina inerte come un semplice fatto di cronaca, per quanto la trama sia tale da meritare una trasposizione ben diversa, magari con un sottile filo di ironia che non è però nelle corde dell’autore e che invece avrebbe potuto risultare assai migliore in ben altre mani, tanto per intenderci quelle di Piero Chiara. Che poi il libro termini con una sorta di appendice (Gli anni delle storie) in cui l’autore cerca di spiegare come abbia potuto scrivere i romanzi e i racconti di Il romanzo di Ferrara non è motivo di particolare attrazione; chi si attendesse chissà quali rivelazioni rimarrebbe francamente deluso, insomma, per dirla in breve, ho finalmente trovato un’opera di questo autore, da me particolarmente stimato, ben poco riuscita, ben al di sotto del livello a lui consueto. Nondimeno le posso attribuire, più che un valore letterario, un valore storico, come completamento di una produzione che ha sempre avuto al centro l’amata città di Ferrara e che può essere considerata una, se pur incompleta, autobiografia.
Ed é per tale motivo che non ne sconsiglio la lettura.
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- sì
- no
Sconsigliato a chi ha apprezzato le precedenti opere di Il Romanzo di Ferrara, perchè L'odore del fieno é decisamente inferiore. Gli ho dato un 3 perchè mi piangeva il cuore dare un voto peggiore a un autore che, comunque, continuo a stimare molto.
La città e la natura
Sono venti novelle, ma è come se fossero un romanzo, perché la figura del manovale Marcovaldo è sempre presente, é l’uomo semplice e umile che riesce, proprio per la sua cristallina innocenza, a scoprire una realtà che sfugge ai più. La città, questo agglomerato anonimo di case, con una vita convulsa e che svilisce l’essenza umana, è un mostro di cui siamo artefici e vittime. In queste prose, in cui il ciclo delle stagioni è ripetuto cinque volte, l’ostinazione di quest’uomo nel cercare la Natura in una grande città industriale (forse Milano, ma più probabilmente Torino) finisce sempre in un insuccesso. Marcovaldo é attentissimo a cogliere i più piccoli segni di vita animale e vegetale a ogni variazione atmosferica, ma il risultato è sempre lo stesso: una cocente delusione. Ma lui non si dà per vinto e con ostinazione prosegue a cercare un connubio fra città e natura. Eppure é evidente che ciò non è possibile, poiché entrambe procedono con ritmi diversi: la prima con la velocità imposta dall’uomo, la seconda secondo le leggi dell’universo, di cui cui l’uomo è parte e non artefice. Calvino, come in una parabola, intende descrivere un tipico agglomerato urbano industriale italiano, con tutti i suoi limiti – e sono tanti - e i reiterati tentativi di un individuo semplice che vuole evadere da questa prigione alla ricerca di aria pulita, di un mondo più a misura d’uomo. Lungi dal teorizzare una decrescita felice, perché se è evidente la critica alla società industriale, è altrettanto lapalissiana un’opposizione all’idea di un possibile ritorno a epoche passate, l’opera tuttavia si presenta come un monito agli uomini, affinché, se è vero che il progresso non può essere fermato, è però altrettanto possibile che lo stesso venga indirizzato a un miglioramento effettivo delle condizioni, tenendo ben presente che alla natura non ci si può sostituire.
Lo stile è quello classico di Calvino, semplice e immediato, con un sottofondo salvifico di ironia. Queste novelle si leggono in pochissimo tempo e risultano particolarmente gradevoli non solo agli adulti, ma anche ai ragazzi.
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L’ebbrezza della libertà
Perché Norbert Monde, titolare della ditta di intermediazione ed esportazione Monde, sposato, padre di due figli adulti, una posizione economica invidiabile si è allontanato da casa senza lasciare traccia? Non si tratta di un personaggio di Chi l’ha visto, di un uomo depre4sso e sfiduciato che compie un gesto senza saperne il motivo, anzi lui è ben consapevole, tanto che di quando se ne va Simenon scrive “ Non ebbe incertezze, si potrebbe dire che non ebbe bisogno di decidere, anzi non ci fu niente da decidere.”.
Il tema della fuga non é nuovo all’autore belga e già si è visto in qualche altra sua opera, ma in questa costituisce il nerbo, è l’argomento di cui si tratta. Per il signor Monde non è tanto una fuga, ma una ribellione a una vita ripetitiva che nel trascorrere nel tempo (non è un caso quindi se prende il volo nel giorno del suo quarantottesimo compleanno) diventa di una monotonia assordante, tanto che questo modo di esistere, stabilito da altri, dalle convenzioni finisce con il diventare insopportabile. Iniziare a percorrere una strada senza sapere dove andare, liberarsi dai laccioli di una vita costellata di responsabilità e di doveri familiari è forse un sogno che qualche volta nasce, magari solo per un momento, in ognuno di noi, ma provare l’ebbrezza della libertà resta sempre un desiderio, nascosto in una piega dell’animo, e che di tanto in tanto fa capolino, subito ricacciato sul fondo dal timore dell’ignoto, da un’innata preferenza a un certo non esaltante rispetto a un incerto oscuro.
Monde cambia i suoi vestiti e se potesse cambierebbe anche il suo aspetto fisico, va alla stazione, dopo aver prelevato in banca un bel malloppo, prende un treno per il sud e via, che la vita cominci. Va in Costa Azzurra, cambia nome, conosce una donna e s’accompagna, trovano entrambi lavoro in un locale notturno che è anche un casinò. Come é bello iniziare una nuova vita, rinascere in effetti dopo aver troncato i ponti con il passato! Ma il passato ogni tanto ritorna e infatti una sera se lo ritroverà davanti in modo del tutto inatteso. Non si può sfuggire al proprio destino, la libertà assoluta è solo un’utopia, ma Monde è diventato un’altra persona e ora può permettersi di guardare gli altri negli occhi con una serenità disarmante.
Non aggiungo altro, se non che ci troviamo di fronte all’ennesimo capolavoro di Simenon.
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Il Cristo rosso
Ci sono personaggi della storia che sembrano essere inventati, tanto sono avvolti da un alone di leggenda e di mistero; sono pochi in verità, ma rappresentano sovente una luce improvvisa che squarcia le tenebre, un faro a cui tanti esseri umani si affidano per avere una speranza in un mondo migliore.
David Lazzaretti è uno di questi protagonisti che sembrano andare oltre il corso del tempo, che lanciano un messaggio talmente grande da essere utopistico. Era nato ad Arcidosso, sul monte Amiata, il 6 novembre 1834 in una povera famiglia di contadini e manifestò quasi subito una natura contrastante, associando misticismo e vita fuori dai comuni canoni. Sposato e con cinque figli, svolgeva l’attività di barrocciaio, trasportando terra di Siena da Arcidosso a Grosseto e Siena. Strani sogni, visioni, continuavano a popolare la sua esistenza fino a quando nel 1868 avvertì dentro di sé di essere stato scelto per una missione di carattere religioso, una rifondazione della Chiesa cristiana non solo con un ritorno alle origini di questa, ma anche una sostituzione di questa con una nuova Chiesa giurisdavidica. Fece rapidamente proseliti, più che per l’aspetto religioso, per una sua visione dell’umanità che non poteva non soddisfare la povera gente che, oppressa da tasse e da burocrazia, pativa la fame. Per lui sarebbe presto finita l’Era della Grazia e avrebbe avuto inizio l’Era del Diritto, con l’avvento finalmente di un’autentica giustizia sociale, in un mondo di uguali, con pari dignità e che si sarebbe sostenuto con il lavoro collettivo e la messa in comune delle risorse ottenute. A ben guardare sono i principi socialisti del Vangelo, ma lui socialista non era, o meglio tendeva a esserlo, senza saperlo. E poi non era finita, poiché predicava l’apparizione di un secondo Cristo, cioè lui. Forse le sue idee erano un po’ confuse, frutto del disordine delle letture con cui era cresciuto, ma di certo non era un truffatore; credeva a quel che predicava, aveva una fiducia illimitata nel suo pensiero e proprio per questo la gente lo seguiva. Certo, l’aspetto religioso e quello civile della sua dottrina, anche se dottrina è una parola un po’ grossa per un coacervo di idee che tendevano tanto all’utopia, erano una miscela altamente esplosiva. Se avesse continuato a raccogliere proseliti, che ne sarebbe stato della Chiesa di Roma? Se avesse diffuso il principio dell’eguaglianza, del lavoro collettivo per realizzare una società di uguali, che ne sarebbe stato dei ricchi?.
La Chiesa lo esecrò, lo condannò come eretico, lo scomunicò, mise all’indice i suoi scritti; lo Stato lo uccise, cogliendo l’occasione di una processione da lui guidata e diretta all’Arcidosso. Processione o sommossa? Propendo per la prima ipotesi, giacché l’uomo mai si rivelò violento; sta di fatto che una pattuglia di carabinieri e un militare la fermarono, sparando sulla gente e ammazzando degli altri fedeli, oltre a David Lazzaretti. Con la sua morte il giurisdavidismo non finì, anche se si ridimensionò alquanto, fino a scomparire poco a poco.
Di questo straordinario personaggio parla Arrigo Petacco, con misura, data anche la delicatezza del tema trattato. La ricerca delle fonti è stata scrupolosa e quindi il ritratto che emerge di questo predicatore appare realistico, è quello di un uomo che magari non manca di ambzione, ma che in ogni caso si è reso conto che la gente, la sua gente, ha bisogno di una speranza per sopravvivere e lui offre loro questa idea utopistica, a cui dedicherà tutti i suoi giorni e a qualunque prezzo, anche a costo della vita. E come Cristo che morì sul Golgota, David Lazzaretti finì la sua esistenza sull’Amiata, novello Cristo senza resurrezione, ma il cui nome mai verrà dimenticato.
Da leggere, senza alcun dubbio.
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Un borsaiolo, una mattina
Che un giovane sottragga sull’autobus il portafoglio a Maigret é già di per sé una di quelle notizie che possono definirsi sorprendenti, ma che poi il ladro lo restituisca al legittimo proprietario senza trattenere nemmeno un centesimo è un fatto eclatante, tanto più che il reo fa di tutto per incontrarsi con il celebre commissario. Il ladro di Maigret è uno degli ultimi romanzi della serie e si nota chiaramente quanto Simenon faccia per destare l’interesse del lettore, interesse che con il tempo va naturalmente affievolendosi. Abbandonate le tetre periferie parigine, messi in disparte gli ambienti di provincia, questa volta l’indagine, perché di indagine si tratta, non tanto per il furto, ma per il fatto che la consorte del ladro viene rinvenuta assassinata, si svolge nell’ambiente del cinema che potremmo definire underground. É un mondo popolato di giovani in cerca del facile successo, quasi sempre squattrinati e che vivono alla giornata, ruotando intorno alla figura di un ricco produttore. Come in tanti romanzi di Simenon si tratta di mezze calzette, di individui che sognano un luminoso avvenire come fosse cosa facile da realizzarsi, spesso guidati da una vanità smisurata che si infrange quasi sempre contro una realtà che si ostinano a non vedere.
Si tratta di individui di una generazione che pare lontana anni luce da quella di Maigret, che procede nell’inchiesta un po’ a tentoni, cercando di comprendere la psicologia dei possibili indiziati. Se devo essere sincero, Simenon non sembra a suo agio con questi personaggi, anche se è possibile riscontrare le notorie capacità di descrivere un ambiente e di analizzare attentamente il carattere dei protagonisti. Ne sortisce un romanzo giallo privo di tensione, con una soluzione certamente logica, anche se poco probabile; é come se affiorasse, dopo tanto scrivere, un po’ di stanchezza, anche se la lettura continua a essere piacevole, senza tuttavia risultare particolarmente avvincente.
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Analisi intertestuale
Antonio Catalfamo, docente di Letteratura Italiana presso le Università di Cassino e di Messina, ha fondato nel 2001 l’Osservatorio permanente sugli studi pavesiani nel mondo, divenendone sin dall’inizio anche coordinatore. Appare evidente, quindi, che nutra una vera passione per Cesare Pavese, senz’altro uno degli autori più interessanti del novecento, e non solo a livello nazionale. Gli approfondimenti da lui effettuati delle opere dello scrittore di Santo Stefano Belbo lo hanno portato ad analizzare anche i lavori di altri narratori piemontesi coevi di Cesare Pavese, in un confronto comparativo e intertestuale le cui risultanze sono indubbiamente di rilevante interesse. Ne scaturisce una visione, che pur nella disparità degli stili e dei temi, porta in buona sostanza a trovare un comune denominatore negli scrittori piemontesi del secolo scorso.
L’analisi, e ovviamente la comparazione, ha riguardato Italo Cavino, che, benchè nativo di Cuba, con padre ligure e madre sarda, ha avuto un rapporto stretto con Pavese, di cui era l’allievo prediletto, e che a suo modo, ne ha subito gli influssi; gli altri nomi, tutti di spicco in campo letterario, sono invece proprio piemontesi, e così troviamo Beppe Fenoglio, Davide Lajolo, Nuto Revelli, Primo Levi, Carlo Levi e Franco Ferrarotti. L’ultimo parrebbe stonare, in quanto è conosciuto come grande sociologo, ma in realtà viene rivalutato come scrittore da Catalfamo.
Il metodo usato per questo ponderoso lavoro è d’impronta gramsciana, vale a dire che è orientato ad analizzare i testi non solo in base alle loro caratteristiche specifiche, ma anche in relazione al contesto nel cui ambito sono nati. La pratica é più che corretta, perché é evidente che le opere di un autore risentono inevitabilmente del territorio e dell’epoca, quest’ultima con le sue specifiche caratteristiche economico-sociali, storiche, politiche, ideologiche, culturali e letterarie.
Il risultato, come ho sopra anticipato, é sicuramente interessante e consente anche, ad li là di quelle che sono le connessioni, di approfondire le caratteristiche di tutti questi scrittori; presuppone, però, di non essere a digiuno, cioè di aver letto con attenta analisi le loro opere. Questo saggio, per certi versi e anche per lo stile eccellente, ma accademico di Catalfamo, finisce con il presentarsi come un testo universitario, di indubbio valore per un laureando, ma a volte ostico per chi voglia limitarsi a una semplice erudizione. Ciò nonostante, è un piacere seguire le riflessioni, apprendere le connessioni e infine avere un’idea meno generica e più documentata di questi scrittori piemontesi, le cui opere, lette singolarmente, hanno un indubbio valore, ma che alla luce di una lettura intertestuale appaiono quasi come una corrente letteraria che ha arricchito la cultura del nostro paese.
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L’origine dell’infelicità
“Gli anni non sono riusciti a medicare un dolore che è rimasto là come una ferita segreta”
La giovinezza non è sempre primavera di bellezza, anzi può essere un periodo di profonda tristezza interiore, di solitudine riveniente da una inconsapevole auto esclusione. Ed è di quegli anni, anni di studio al liceo, che parla questo delicatissimo romanzo di Giorgio Bassani. É il ricordo che guida la mano del narratore, che descrive con sapienza un microcosmo in cui tutti per un po’ ci siamo trovati, quello scolastico. Il periodo storico va dall’ottobre del 1929 al giugno del 1930, ma ho rilevato che quel mondo di aule, di compagni di classe, di insegnanti era assai simile a quello che ho vissuto io, solo che a dividerci c’era stata una sanguinosa guerra e una lunga ricostruzione; per il resto, gli atteggiamenti dei professori, le piccole gare per riuscire a essere il più bravo, le invidie, le ripicche sono le stesse dei miei anni ‘60 e occorrerà arrivare al famoso ‘68 perché vi sia un radicale e irreversibile cambiamento. Per l’autore è un periodo di sfide tacite, della ricerca di un compagno con cui condividere gli studi e la scelta cade su quello che, senza essere un somaro, non è nemmeno una cima, una sorta di gregario che non potrà mai diventare un pericoloso concorrente nella gara per diventare il più bravo della classe. Inizia così un rapporto in cui la continua frequentazione fa scivolare verso un’intimità sempre più accentuata, che sfiora anche la sfera sessuale nel difficile periodo del passaggio dallo stato infantile, o quasi, a quello adulto. L’io narrante è timido e tende sempre di più a chiudersi a riccio, come a proteggere quell’innocenza dell’infanzia in cui gli piace crogiolarsi. Ma c’è chi matura prima e il nuovo compagno ne è un esempio, e così l’autore apprenderà dolorosamente quanto il presunto amico sfotta quel suo essere ancora non adulto. É allora che diventerà uomo, ma la lacerazione interiore, una sofferenza sorda e muta, lo accompagneranno per tutta vita. La perdita dell’innocenza é la perdita di un mondo che gli pareva eterno e che invece si è squarciato nell’amara realtà delle miserie umane; ciò lo isolerà ulteriormente, impedendogli di aprire quella porta che lo conduca alla consapevolezza di essere parte di una realtà che inconsciamente rifiuta.
Dietro la porta é un autentico gioiello, soffuso, tenue e forte al tempo stesso, frutto di un ricordo che è un grido disperato.
Da leggere, senz’altro.
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Uno dei primi Maigret
Il defunto signor Gallet (titolo originale in francese Monsieur Gallet, décédé) é stato scritto da Georges Simenon nel 1931 e cronologicamente é uno dei primi romanzi con protagonista il commissario Maigret. La figura del celebre poliziotto appare diversa da quella da noi conosciuta, nel senso che l’autore non ne aveva ancora definito con precisione quelle caratteristiche che ci sono ben note. É infatti un uomo il cui volto ci può apparire anonimo, corpulento senz’altro, ma senza quell’aria da investigatore che sa essere implacabile o anche umano, a seconda delle circostanze. Del resto la descrizione dell’ambiente, che in seguito costituirà uno dei pregi della serie, è un po’ carente, mentre é solo abbozzata l’analisi attenta della psicologia dei personaggi. Evidentemente, la macchina che funzionerà perfettamente in seguito, con la schematicità e la regolarità di un orologio, era non ancora ben oliata. La stessa vicenda presenta non pochi aspetti oscuri e mira a una soluzione sensazionale, ma molto poco credibile. La provincia francese, che farà da scenario a non pochi suoi romanzi, si presenta anonima, se non addirittura un po’ artefatta.
É proprio quindi il caso di dire che Simenon si stava facendo le ossa e che non aveva ancora maturato la necessaria esperienza per confezionare un prodotto che andasse oltre il semplice svago, ma che avesse anche un intrinseco valore letterario. Del resto l’impressione che ha si ha nel leggere questo romanzo è che non sia stato scritto da Simenon, o comunque da quel Simenon che ben conosciamo e apprezziamo. La discrasia fra quest’opera ancora acerba e le successive è talmente evidente che stride non poco con le aspettative del lettore, abituato a ben altro, tanto che io stesso mi sono trascinato stancamente fino all’ultima pagina più che altro con il solo scopo di conoscere il perché e il per come di uno strano omicidio, e chi avrà la pazienza di leggere capirà bene cosa intendo per strano.
Ciò nonostante, è stata un’esperienza utile, soprattutto per rendermi conto che Simenon agli inizi non era dissimile da tanti autori agli esordi, impacciato, anche ingenuo, e che se avesse continuato così non sarebbe mai riuscito a entrare in quell’olimpo letterario in cui, con ampio merito, può essere inserito.
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Grazie, Ultra!
In una guerra ci sono sempre battaglie che, se non possono essere definite risolutive della stessa, rivestono però una particolare importanza, poiché segnano un’inversione di tendenza. Fino all’epico scontro di El Alamein nel corso della seconda guerra mondiale la vittoria aveva sempre arriso alle armate del Terzo Reich, ma la sconfitta subita in quel piccolo villaggio, che era talmente piccolo da costituire una semplice espressione geografica, segnò una svolta al corso degli eventi, perché in seguito l’asse Roma – Berlino vide sempre una progressiva riduzione dei territori in precedenza occupati e una lenta, ma inesorabile ritirata delle sue truppe, soprattutto dopo la batosta di Stalingrado. Di questa grande battaglia nel deserto, anche se in effetti gli scontri furono tre, di cui solo l’ultimo determinante, parla questo interessante saggio storico di Arrigo Petacco. In verità l’autore, per opportuna completezza, discetta dell’intera guerra tenutasi in territorio libico, allora nostra colonia, e parte proprio dalle primissime fasi del conflitto, segnate dal tragico incidente di cui fu vittima, con l’equipaggio del suo bombardiere, Italo Balbo e che rallentò, fino a quasi paralizzare, qualsiasi nostra azione volta a contrastare l’esercito inglese e a conquistare l’Egitto. Certo ci fu l’eccessiva prudenza del nuovo comandate in capo della nostra armata in Libia, il generale Rodolfo Graziani, ma è altrettanto vero che, oltre a non essere preparati come mezzi per una guerra moderna, i piani generali erano inconsistenti ed estremamente vaghi. Fu anche per tale ragione che l’esercito inglese, inferiore ampiamente di uomini al nostro, ma superiore come qualità dell’armamento, ci inflisse a fine 1940 una sconfitta di grandi proporzioni, a cui si pose rimedio solo accettando, finalmente, l’aiuto tedesco che inviò un apposito corpo di spedizione comandato dal generale Erwin Rommel, uomo dalla forte personalità che, benchè sulla carta subordinato al comando italiano, fece sempre di testa sua, dapprima ricacciando gli inglesi, e poi marciando direttamente verso il canale di Suez. Alla luce di ciò fra gli alleati italiani e tedeschi nacquero degli attriti, tanto più che le condizioni delle nostre truppe, pure encomiabili per dedizione e coraggio, erano deplorevoli. Per combattere però in un territorio vasto, inclemente e spopolato come il deserto erano indispensabili i rifornimenti, che potevano arrivare solo via mare dall’Italia, ma questi venivano in buona parte persi per l’affondamento delle navi che li trasportavano, silurate o dagli aerei, oppure dalle motovedette, che partivano da Malta, una vera e propria spina nel fianco e che, per un motivo o per l’altro, nonostante un piano predisposto per la sua invasione, non si riusci mai a rendere inoffensiva. C’è di più però, perché se è pur vero che quasi magicamente gli inglesi sapevano tutto di questi trasporti, è altrettanto vero che avevano la possibilità di leggere i piani dell’avversario. Nessuna magia, ma la presenza di Ultra, un prezioso decodificatore delle comunicazioni tedesche; il Comando Supremo tedesco avrebbe dovuto senz’altro insospettirsi, vista la straordinaria coincidenza fra gli orari, le velocità dei convogli e le rotte seguite con gli attacchi inglesi. ma lo stillicidio delle navi perse andò avanti, sia perché gli inglesi seppero mimetizzare Ultra, sia perché l’Intelligence Service fabbricò ad arte il sospetto che le informazioni fossero fornite da qualche alto ufficiale italiano traditore. Al riguardo, poiché i tedeschi non stimavano gli italiani, abboccarono e non pensarono nemmeno per un momento che i loro preziosi codici potessero essere decifrati. Però dare il merito solo a Ultra della vittoria inglese nella terza e decisiva battaglia di El Alamein (23 ottobre – 3 novembre 1942) è troppo riduttivo; certo, concorse e non poco, ma la sconfitta venne anche per altri motivi: la scarsità del carburante, il logoramento dei mezzi e degli uomini, che si batterono tuttavia eroicamente, sia tedeschi che italiani, la malattia che colpì Rommel, una vera e propria depressione provocata dalle prime serie difficoltà dopo tanti successi - ma che non gli impedì comunque di compiere una ritirata prodigiosa, con la quale salvò quasi tutta l’armata -, le forze nemiche più numerose, meglio armate e comandate dal generale Montgomery, che se non era altrettanto bravo del comandante tedesco, sapeva però il fatto suo.
Ma con questa sconfitta, benchè non tramutatasi in una rotta, se si era spezzato qualcosa nello spirito di Rommel, si spezzò ben altro nei destini della guerra, visto che, come ho sopra precisato, da allora non avvennero nuove conquiste, anzi, se pur lentamente, la Germania e l’Italia cominciarono a ripiegare e imboccarono la strada della definitiva sconfitta.
Da leggere, perchè è un’opera di sicuro interesse, avvincente peraltro come un romanzo.
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Una bellissima storia d’amore
Se si osserva con attenzione l’immagine della copertina, una fotografia di Rosa Vercellana, meglio conosciuta in piemontese come la Bela Rosin, non si può far a meno di rilevare la floridezza del personaggio, bene in carne e nei punti giusti (fianchi e seno), con un bell’ovale in cui spiccano gli occhi scuri, dolci, ma non succubi, insomma quella tipologia femminile che tanto piaceva a Vittorio Enanuele II, impenitente donnaiolo, padre della patria e di non pochi italiani bastardi. È anche vero, però, che oltre a queste doti fisiche, la signora ne possedeva altre, tali da far innamorare in modo duraturo il re d’Italia, uomo avvezzo a ad assai frequenti incontri sessuali con qualunque femmina destasse il suo interesse – e ce ne furono moltissime -, a cui si presentava senza tanti preamboli per andare al sodo, in un’alcova che poteva essere il grande letto di un palazzo, come una brandina da campo, o anche un fienile e perfino sull’erba. Erano smanie di cui Vittorio Emanuele era preda e che servivano a temperare per un po’ la sua esuberanza, insomma si trattava di amore soltanto fisico, e non anche di affetto, di quel sentimento che porta due persone a confidarsi, a parlare, a sognare insieme, quello che invece ci fu anche e solo per la Bela Rosin. Di questo legame, durato una trentina d’anni, ci parla in questo libro Roberto Gervaso, con la sua consueta ironia, non scevra di simpatia per una donna capace, con le sue qualità, di accrescere i pregi del monarca e di attenuarne i difetti, un porto sicuro a cui rifugiarsi nei periodi bui o a cui approdare per condividere i pochi, ma sostanziosi, momenti di felicità. Il re, come noto, era sposato con Maria Adelaide d’Austria, un matrimonio combinato per cementare alleanze e dunque non ravvivato dall’amore, il che non impedì tuttavia a Vittorio Emanuele di adempiere ai suoi doveri di consorte, come testimoniano le sette gravidanze della moglie, l’ultima delle quali le fu fatale. Maria Adelaide era un tipo fine, riservato, veramente innamorata di Vittorio e che aveva capito che con quell’uomo non c’era nulla da fare, se non ignorare le sue frequenti scappatelle; lui nutriva un certo affetto per lei e in fondo era grato di avere una moglie che lo lasciava fare, come del resto analogamente si comportava la Rosina. Questa, figlia di un tambur maggiore, e quindi plebea, aveva solo quattordici anni quando Vittorio, non ancora sovrano, le mise gli occhi addosso e fu un colpo di fulmine, che durò fino alla scomparsa del re. Lei era assai bella e aggraziata, lui non era brutto, ma aveva un che di rozzo e un aspetto somatico che neula aveva in comune con i suoi ascendenti (i Savoia per parte di padre e gli Asburgo per parte di madre); anche il carattere era del tutto diverso, contrario a ogni etichetta, forse credente, ma non certo bigotto come il padre e la madre, andava più d’accordo con il popolino che con i nobili e per l’insieme di queste cose correva la voce che non fosse un Savoia, in quanto aveva preso il posto del legittimo erede, perito ancora in culla in un incendio; le stesse voci asserivano che fosse figlio di un macellaio fiorentino, ma secondo Gervaso tali notizie sarebbero da considerarsi infondate, pur restando ancora da spiegare le differenze fisiche e caratteriali.
La relazione con Rosina, con cui fu prodigo di regali in denaro, gioielli e proprietà, fu in realtà un matrimonio, anche se non ufficiale, da cui nacquero tre figli, di cui uno morto subito e ai superstiti (un maschio, chiamato Emanuele, e una femmina chiamata Vittoria) il re volle particolarmente bene, preferendoli ai figli legittimi avuti da Maria Adelaide. Questo menage era ben noto a tutti e trovò la dura avversione di Cavour, che nel libro viene descritto come un individuo della peggior specie, sempre in disaccordo con il re. Ciò nonostante, Vittorio Emanuele, pur consapevole di non poter prendere in sposa la Rosa (dopo la scomparsa della moglie) e di non poter legittimare Emanuele e Vittoria, il tutto per questioni dinastiche, prima investì del titolo di Contessa di Mirafiori la Vercellana, poi arrivò all’unica soluzione possibile, una sorta di compromesso, unendosi in matrimonio con lei morganaticamente. Gli anni migliori furono forse quelli dopo il 1860, quando, senza calmarsi nelle sue passioni (donne, guerra, caccia) il re, rimasto vedovo nel 1855, poté stare più vicino alla Rosina. I due colombi già cominciavano a pensare alla vecchiaia quando improvvisamente il 9 gennaio 1878 il re moriva per una broncopolmonite; la Vercellana non era presente al trapasso perché malata e per lei fu un gran colpo e un autentico dolore. La grande storia d’amore era finita, o forse continuava nel ricordo; non trascorse molto tempo dalla dipartita del re e anche la bella Rosina il 26 dicembre 1885 chiuse per sempre gli occhi.
Gervaso è uno storico e biografo che ho avuto modo apprezzare per la puntigliosità nella ricerca della verità e anche in questo libro tali caratteristiche sono presenti; forse, per la prima volta, si sbilancia, porta alla luce la sua simpatia per il personaggio, ma se veramente le cose sono state così è impossibile non sentirsi attratti da Rosa Vercellana, venuta dalla polvere e salita sull’Olimpo, una donna che tuttavia riuscì sempre ad aver ben chiare le sue origini, insomma non si montò la testa. Le notizie che fornisce l’autore sono tante che è impossibile descriverle e come suo solito all’inizio dedica un capitolo alla descrizione dell’ambiente e del periodo storico, indispensabile per proseguire la lettura avendo ben presente lo sfondo su cui si svolge questa bellissima storia d’amore che dapprima ruota intorno a Torino, capitale del Regno di Piemonte e poi, per un brevissimo periodo, d’Italia. È una città di militari e di preti, nonché di una massa di poveracci, quasi tutti analfabeti. Vittorio e Rosina sapevano leggere e scrivere, ma non erano certo dei letterati e al riguardo basta leggere i testi delle numerose lettere che Gervaso ha scelto e che, pur negli errori di grammatica frequenti, evidenziano tuttavia in modo chiaro l’intensità di un sentimento a cui pose fine solo la morte.
La lettura è senza dubbio consigliata.
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Il significato di una lotta
E’ indubbiamente interessante questo diario partigiano scritto una settantina di anni fa, perché rievoca senza enfasi e senza retorica un periodo della vita dell’autore (dall’autunno del 1944 fino a quasi alla Liberazione) in cui passa da cacciatore di ribelli della divisione Monte Rosa a partigiano, e non è un voltagabbana, bensì è frutto di una decisione di cui Del Boca prenderà piena consapevolezza nei mesi dolorosi in cui dovrà misurarsi con la ferocia dei nazisti. La decisione di cambiare casacca avviene all’inizio più che altro perché ci si accorge che il fascismo non solo non ha più nulla da dare, ma che tende a togliere sempre di più in un’agonia cupa e opprimente. La scelta non è facile, poiché é fra il certo e l’incerto, ma il certo fascista é talmente nauseante che si preferisce fare un passaggio di parte, con tutti i rischi del caso (la diserzione in tempo di guerra é punita con la morte); così, più che una decisione ponderata, è frutto di una fuga da un mondo che sta morendo, nella speranza che i ribelli possano dare uno stimolo per continuare a vivere e a sperare. Se non è stato facile scegliere, ancor più difficili saranno i mesi con i partigiani, stretti nella morsa di un grande rastrellamento. Combattimenti, compagni morti, la paura per la propria sorte, il freddo inclemente e la fame assillante sono descritti in modo encomiabile per senso della misura e per la capacità di trovare in questo orrore, ogni tanto, una nota di poesia, con paesaggi nella nebbia e nella neve e personaggi semplici, umili, ma indimenticabili. E proprio le privazioni e la paura finiscono per fortificare l’autore, poco a poco gli donano la consapevolezza dell’esattezza della scelta operata, perché fra questi soldati senza divisa trova un ragione per rischiare la propri vita non inutilmente, ma per un ideale di giustizia e di libertà. Le lunghe marce per sfuggire al rastrellamento, i contatti umani con le popolazioni, i terreni impervi su cui é difficile procedere, specialmente di notte quando ci si orienta solo con le stelle, a patto che il cielo non sia coperto, donano un tono epico alla narrazione, ma scevro da facili entusiasmi e da scialbe retoriche. Si va, si combatte, si muore, é una lotta per la sopravvivenza e nei rari momenti di calma, con i crampi nello stomaco per la fame, si ragiona sulla propria condizione, si cerca di dare una risposta ai tanti perché e lui trova il motivo di questo suo essere ribelle, che non ha all’origine il concetto vago di patria, ma ben altro. Scrive infatti Del Boca: "Io non combatto per la mia patria, combatto per mia madre, per rivedere il suo viso." E non è mammismo, ma è quel porto sicuro a cui cercare di approdare nei momenti più bui, quando tutto sembra perso, quando si sopravvive più per istinto che per volontà.
Benchè viziato da una prolissità e ripetitività dei concetti, Nella notte ci guidano le stelle é un libro che affronta il tema della Resistenza in modo onesto e imparziale, merce rara in un argomento del genere, e che forse più di altre opere può servire a comprendere che cosa essa sia stata veramente.
Insomma, la lettura, più che consigliata, é da me particolarmente caldeggiata.
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Il Rosicchiatore
Donato Altomare, autore eclettico che spazia in tutte le categorie del fantastico, in questo libro sfoga a piene mani la sua creatività, con un susseguirsi di invenzioni che, accompagnate da un ritmo incalzante, finiscono ben presto per coinvolgere il lettore. I due protagonisti, l’attempato, ma ancora affascinante duca di Sanseverino, e la giovane e bella Elena Ghirardi sono alla ricerca di un demone che sta progressivamente erodendo una delle colonne portanti della Sicilia. Questo essere mostruoso, proprio per quello che sta combinando, viene chiamato il Rosicchiatore, ha dimora in un rilievo montuoso e, simile a un gigantesco verme, sazia il suo appetito con carne umana, procacciata da sette avvenenti fanciulle che, all’occorrenza, si trasformano in una grossa scolopendra. Sarà una lotta titanica, non scevra di pericoli e di colpi di scena, ma, come si conviene, soprattutto in queste storie, il risultato sarà appagante, e non solo per i protagonisti, ma anche per il lettore.
Come già detto, Altomare in questa prosa dimostra ancora una volta le sue grandi potenzialità creative, coinvolgendo diverse categorie del fantasticoi, perché se è vero che l’horror mi è apparso predominante, non mancano né un pizzico di gotico, né un accenno all’esoterico; il rischio di realizzare un’opera squilibrata è evidente, ma l’autore, le cui qualità letterarie sono indiscutibili, riesce bene a creare un amalgama che è di forte effetto e che ha il pregio di essere sostenuto da un ritmo e da una tensione per nulla trascurabili. Questi elementi, uniti a una capacità descrittiva che riesce con poche azzeccate frasi a materializzare all’occhio del lettore la scena, è la chiave di volta per ottenere un lavoro che è puro svago e che, data anche la lunghezza non rilevante del romanzo, invita a divorare le pagine con un ritmo ancor più veloce di quello con cui il Rosicchiatire sbriciola la colonna portante. Francamente, poiché l’horror mi attira ben poco, all’inizio della lettura temevo di cadere presto nella noia, ma non è stato così e anzi mi sono accorto che ben presto ero avvinto da questa strana trama che riservava di continuo piacevoli sorprese. Benché ritenga che la lettura possa essere più apprezzata da chi è appassionato di questo genere di letteratura credo che a tutti possa risultare gradita e che in fondo lasciarsi permeare dalla fantasia dell’autore possa costituire l’opportunità per astrarsi dalla frenesia di tutti i giorni e ritrovare quel piacere dell’avventura che cela anche il desiderio di scoprire un’altra realtà, quella non consueta, ma che è quell’immensa zona oscura, frutto dei nostri inconsci timori.
Senz’altro meritevole di lettura.
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Complicità insospettabili
L’attempato signore della foto di copertina, dall’aria mite e che sembra un contabile, è invece uno dei più famigerati criminali nazisti, responsabile dei trasporti che hanno consentito la “soluzione finale”. È troppo noto perchè non abbiate potuto riconoscerlo, se non altro per l’ardita operazione che consentì ai servizi segreti israeliani di prelevarlo in Argentina, di portarlo in Israele, dove subì un processo conclusosi con la sua condanna a morte, regolarmente eseguita. Sì, è proprio lui, l’ex colonnello delle SS Adolf Eichmann. Come era riuscito alla fine della guerra a scampare alla cattura, rifugiandosi nella compiacente Argentina? E in che modo tanti altri criminali nazisti poterono fuggire, per approdare nell’America del Sud, o in Egitto, o in Siria o in Libano?
Di questa fuga, per nulla disorganizzata, parla questo libro di Arrigo Petacco. Emergono così, non come illazioni, ma come verità tanti complici, alcuni dei quali del tutto insospettabili. Finita la guerra già se ne profilava un’altra, che per fortuna fu solo fredda, cioè incruenta, fra gli alleati occidentali e l’Unione Sovietica, che, nonostante gli accordi presi a suo tempo a Yalta, non vedeva l’ora di estendere il suo dominio dall’Europa orientale a quella occidentale.
E poiché machiavellicamente il fine giustifica i mezzi ci fu chi intendeva avvalersi dell’esperta collaborazione degli ex nazisti, per certo anticomunisti. Così alcuni criminali furono protetti dalla CIA, altri, la maggior parte, trovarono un aiuto fattivo nella chiesa cattolica, approdando prima a Roma, dove cambiavano identità, grazie a un nuovo passaporto, per andare a Genova e imbarcarsi per l’America Meridionale. Poiché l’apparato nazista già nutriva seri dubbi fin dal 1942 su una vittoria del Reich, fu predisposto un complesso piano di fuga, furono trovati i compiacenti rifugi definitivi (in Argentina non era un mistero che il populista Peron nutrisse simpatia per il nazionalsocialismo), approntando anche i fondi necessari, non solo per l’itinerario da seguire per sfuggire alla cattura, ma per potersi ricreare una bella vita in un porto sicuro, magari da lì riprendendo il sogno pazzesco di Hitler di sottomettere il mondo. Con tanta abbondanza di mezzi, implementata anche dalle razzie nei paesi occupati, è difficile credere che l’obolo di San Pietro non ne abbia beneficiato e che magari qualche alto prelato non abbia teso la mano solo per un aiuto disinteressato. Meno probabile è che la CIA abbia approfittato di questi fondi, mentre è pressoché certo che alcuni regimi sudamericani si siano non poco ingrassati. A Petacco preme, più che approfondire il tema dei fiancheggiatori, fornire un quadro generale affinchè si sappia come fu che i più grandi criminali della storia finirono i loro giorni sereni e beati. Ricorrono nomi che fanno rabbrividire, come quello dell’angelo della morte, il famigerato Dott. Mengele, appunto di Adolf Eichmann, un grande esperto in spedizioni, o il grande cacciatore di ebrei Alois Brunner, che peraltro era un mezzo ebreo; peraltro, Petacco non fa mancare un capitolo dedicato alla storia dell’antisemitismo, pagine che sono importanti anche per comprendere come mai ancor oggi ci siano, in diversi popoli, gruppi che vedono l’ebreo come l’origine di tutti i mali, come responsabile delle loro sfortune.
Se è vero che grazie a una scrittura snella e a una struttura ben equilibrata il libro si legge come un thriller, anche se invece è un saggio storico, è ancor più vero che aiuterà non poco l’attuale generazione a comprendere come l’aberrante teoria della razza superiore possa portare solo a infamie e lutti, nonché a sapere che se il crimine dell’Olocausto è il più grande di tutti, non deve essere considerato da meno di quello commesso da chi aiutò e ospitò i nazisti in fuga.
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Una tragedia scespiriana
Di Antonio Tenisci avevo già letto Nuvole rosse sotto il mare, un buon romanzo storico sulla battaglia avvenuta a Ortona fra gli alleati e i tedeschi nel corso della seconda guerra mondiale, con questa cittadina diventata una sorta dui piccola Stalingrado. L’autore vive lì e quel luogo gli deve essere tanto caro da ambientarvi un giallo storico, dalle tinte fosche, dal sapore scespiriano. Infatti in La Madama c’è di tutto: la lotta per il potere, amici e nemici, i buoni e i cattivi, i tradimenti, un incesto e infine un delitto, la cui soluzione è affidata a un capitano “Moro”, vale a dire a un nero. Da quest’opera è nata poi una pièce teatrale di successo, ma trasformarla per il teatro non deve avere costituito una grossa difficoltà per Tenisci, vista l’impostazione e la struttura del romanzo, diviso più in quadri che in capitoli, in ciascuno dei quali dominano, a turno, i protagonisti, attraverso i cui occhi possiamo vedere la scena e per ciò che dicono seguire la trama e comprendere lo stato d’animo e l’atmosfera. Le pagine non sono tante (104), ma questa brevità è più che giustificata dal fatto che l’intera vicenda si svolge nell’arco di poche ore in una notte. Se probabilmente la quasi totalità dei personaggi è di fantasia, sicuramente esistita è invece la Madama, appellativo attribuito a Margherita d’Austria, figlia naturale dell’imperatore Carlo V e che in realtà entra nella storia di Ortona, avendola acquistata. Nonostante il titolo la sua presenza nell’opera è limitata, non certo da comparsa, ma da attore di secondo piano e comunque non protagonista. Tuttavia il suo inserimento appare indispensabile per conferire al romanzo una sua precisa collocazione temporale e per essere il pretesto (il suo arrivo in città) per imbastire una trama complessa, che si dipana in una serie di verità che si susseguono e in una crescente tensione emotiva a cui contribuiscono certamente il delitto e le indagini, ma anche la tragedia familiare che gradualmente si consuma. Sembra non esservi speranza per i personaggi di uscire dalla tenebrosa galleria in cui sono entrati e che percorrono fino al termine, dibattendosi, di fronte alla verità, come falene intorno a una lampada.
Opera indubbiamente originale, nonostante qua e là alcuni richiami scespiriani, La Madama si presta a una veloce e gradevole lettura.
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Un uomo qualunque
E’ innegabile che fra le straordinarie qualità di narratore di Georges Simenon vi sia anche quella di portare alla ribalta personaggi di modesto spessore, degli uomini qualunque quindi, quasi sempre perfettamente anonimi. In genere sono membri della piccola borghesia, schiavi di abitudini al punto da rendere la vita un grigiore quotidiano, ed è questo anche il caso di Marcel, sposato con una donna prossima a partorire, padre di una bambina, proprietario di una villetta e artigiano che si occupa della riparazione di apparecchi radio, nonché della loro vendita. E’ del resto sempre il caso che porta in luce questi mediocri protagonisti e in questa circostanza gioca un ruolo determinante l’invasione del Belgio, dove l’uomo risiede, da parte dei tedeschi agli inizi della seconda guerra mondiale. Tutti fuggono, anche lui, e come tutti senza una meta ben precisa, solo che nel treno con cui si muove avrà un incontro che potrebbe determinare una svolta nella sua vita, il risveglio da un sonno letargico che da sempre l’accompagna, la rottura definitiva con un mondo in cui si crogiola senza esserne pienamente soddisfatto. Non sarà così, nemmeno un atto d’amore con una sconosciuta profuga ebrea potrà disturbare il suo stile di vita e ognuno andrà per la sua strada, soprattutto lui che ritornerà a quel mondo asfittico, ma protettivo in cui ha sempre vissuto. E se la donna proverà dolore dalla separazione, Marcel invece finirà con il considerare quell’incontro come una parentesi, rinnegando la passione che lo aveva preso, rinunciando a un cambiamento, atteggiamento tipico di un uomo senza qualità. Certo lei non aveva nulla da perdere, mentre lui qualcosa a cui attaccarsi, anche se modesto e quotidiano, l’ha sempre avuto. Si potrebbe dire che chi nasce senza il desiderio di costruirsi una vita sua, diventerà un perfetto anonimo, confuso nel grigiore di tutti i giorni, incapace non solo di autentici sentimenti, ma anche talmente egoista da non amare nemmeno se stesso. Marcel é un mediocre, un essere per cui non si prova simpatia, ma Simenon é riuscito a farne un personaggio indimenticabile, un essere di una banalità sorprendente, ma pur tuttavia portatore di un malessere rappresentato da una latente infelicità, a cui lui comunque non intende porre rimedio, nonostante l’occasione che gli si era presentata, troppo rivoluzionaria per le sue abitudini.
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Le regole devono essere rispettate
Eddie Rico vive in Florida, abita in un quartiere lussuoso, è felicemente sposato e ha una figlia che adora, è proprietario di un’attività di commercio all’ingrosso di frutta anche esotica che procede con regolarità, insomma è quel che si dice un uomo arrivato, contento del suo stato, ma non tutto è ciò che sembra. La bella casa, l’agiatezza nascondo una verità: Eddie è un uomo dell’organizzazione, una consorteria criminale che da noi viene chiamata mafia e negli Stati Uniti Cosa Nostra. Ha anche due fratelli, il solitario Gino che fa il Killer e il più giovane Tony, abile meccanico e che guida le auto che servono per missioni per così dire “speciali”. Insomma una bella famigliola di origine italiana invischiata nella malavita, che ha delle regole ben precise e che, come dice Eddie, sono fatte per essere rispettate. Tony è sparito, pare si sia sposato e pare sempre che possa spiattellare qualche notizia importante alla polizia. Deve perciò essere ritrovato e chi meglio del fratello Eddie può riuscire nell’impresa?
I fratelli Rico è un noir che Simenon scrisse nel 1952 nel corso del suo soggiorno americano e presenta le caratteristiche tipiche dei romanzi dell’autore belga: lo stile snello, accattivante, la perfetta descrizione dell’ambiente, la capacità di ricreare atmosfere, il ritmo equilibrato, l’abilità incontestabile di sondare gli animi che, nel caso specifico, è a dir poco sorprendente. Perché? Perche Eddie Rico cerca disperatamente di far di tutto per salvare il fratello pur sapendo che nella sua ricerca occhi invisibili lo spiano o addirittura lo precedono, ma la famiglia è la famiglia. Ma quale famiglia? Quella dei Rico, cresciuti sulla strada a New York e in cui solo Eddie è riuscito a raggiungere la posizione che desiderava, senza mai essere violento, ma con costanza e indubbie capacità? O l’altra famiglia, l’associazione criminale, che ha delle regole ben precise che devono sempre essere rispettate?
È un dramma di Eddie, piccolo boss, che raggiunta una posizione intende mantenerla senza patemi d’animo, ma che avverte anche il richiamo del sangue, il legame con il fratello e sterilmente cerca di salvarlo. Lunghi viaggi in aereo, anche in automobile, la verdeggiante pianura della Florida, la torrida California del Sud sono i palcoscenici di questa vicenda, in cui si segue il percorso di Eddie per ritrovare Tony, sempre in bilico fra rispettare le regole e trasgredirle per una volta, per amore verso il fratello. Questo travet del crimine non impietosisce, però, è solo un ingranaggio di una macchina di cui lui non è consapevole. Tutto lì deve procedere perfettamente, non ci devono essere intoppi, perchè esistono le regole e queste appunto devono essere rispettate. Come si comporterà allora Eddie? Leggete il romanzo e lo saprete, accompagnatelo nel suo peregrinare, assistete al suo dissidio interno fra obbedienza cieca e uno spiraglio di umanità, condividete con lui la tensione emotiva fino all’ultima pagina e credo proprio che al termine resterete più che soddisfatti.
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Il dolore di vivere
L’airone è il quinto romanzo del progetto letterario Il romanzo di Ferrara ed è stato premiato nel 1969 con il Campiello. Bassani anche in quest’opera tratta il problema dell’emarginazione, particolarmente avvertita in un autore che, in quanto ebreo, ha subito le persecuzioni razziali. In lui il concetto di emarginazione è più marcato, perché in effetti si tratta di esclusione dalla società, non di una messa in disparte, ma di un ostracismo pernicioso che in un essere umano, portato per sua natura alla convivenza con i suoi simili, finisce con il provocare l’avversione per una vita che non ha più senso. Anche in questa storia, che si svolge in un giorno freddo e nebbioso dell’inverno del 1947, in una zona d’acque della Bassa, sul Po di Volano, il protagonista, Edgardo Limentani, proprietario terriero ed ebreo, nel corso di una battuta di caccia prende coscienza del fatto che il mondo in cui vive non è più il suo. Il pericolo dei rossi, che intendono trattare con i padroni da pari a pari, quell’atmosfera di sudditanza dei contadini che esisteva prima della guerra e che ora non solo non c’è più, ma che è sostituita da toni baldanzosi, l’amore scemato per la moglie, l’affievolimento di quello verso la figlioletta, la sua origine razziale per cui ritiene di essere discriminato perfino da chi, ex ebreo, si è convertito al cristianesimo, lo fanno sentire un escluso, gli fanno invano rimpiangere la vita che in passato conduceva. Avverte sempre più crescente un sordo dolore per un’esistenza che per lui non ha più senso e cerca disperatamente una soluzione che troverà osservando in una vetrina un airone imbalsamato. Non aggiungo altro, perché è giusto che lo scopra il lettore.
Il romanzo presenta, oltre alla trama, pregi indiscutibili, come la capacità di ricreare l’atmosfera ovattata della Bassa nella nebbia e la corrosiva presa di coscienza dell’autore, in un ritmo lento che amplia i tempi di un giorno e che invita a soffermarsi sui singoli periodi, sempre funzionali alla vicenda. Lo stile è quello tipico di Bassani, mai impetuoso, quasi pudico, ma sempre incisivo, in un italiano che oggi può apparire a tratti desueto, ma che è quanto di meglio un narratore possa esprimere.
Sarà che questo dolore di vivere finisce con il rendere partecipe piano piano il lettore, sarà forse perché dilatare il tempo di un giorno a un’intera vita rallenta un po’ troppo il ritmo, sta di fatto però che, pur apprezzando l’opera, la ritengo inferiore al romanzo di Bassani che, almeno, fino a ora, mi è piaciuto di più: Gli occhiali d’oro. Certamente è una questione di gusto, perché il gradimento c’è stato, tanto che mi sento di consigliarne vivamente la lettura.
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Il sogno ottomano
Non solo l’ultima crociata, cioè quella che allontanò definitivamente gli ottomani dalle mura di Vienna, la loro mitica “mela d’oro” che avrebbe dovuto aprire le porte per arrivare a Roma, la “mela rossa”, ma secoli di insanabili conflitti fra il mondo cristiano e quello islamico sono oggetto di accurata trattazione in questo bel saggio di Arrigo Petacco. Il libro, però, non vuole nelle intenzioni dell’autore essere solo una cronistoria di guerre combattute per terra e per mare, ma si propone di attirare l’attenzione su un contrasto che deriva dall’osservanza del Corano che esplicitamente indica che gli infedeli, cioè noi cristiani, dobbiamo essere sottomessi e praticamente rinunciare alla nostra fede per diventare maomettani. Non è un caso quindi se l’opera inizia con un richiamo alla lectio magistralis pronunciata nel 2006 da Benedetto XVI a Ratisbona, città dell’odierna Baviera che richiama una Lega Santa della cristianità che portò alla famosa battaglia di Lepanto, allorchè la flotta ottomana fu sbaragliata e fu frenato così l’impeto di espansione verso occidente che sempre caratterizzò la politica della Sublime Porta. Nelle pagine è un susseguirsi di scontri, di battaglie, di tensioni che mai si smorzavano e che solo la grande vittoria, ottenuta da Eugenio di Savoia comandante supremo delle truppe imperiali a Zenta nel 1697,. sembrò, una volta per tutte, stroncare il crescente e temibile pericolo islamico, che ogni tanto, tuttavia, si ripresenta, come è cronaca della fine del secolo scorso e dei primi anni di questo. La materia è complessa e molto vasta, ma fra tanti dati e tanti fatti Petacco si destreggia molto bene e riesce a fornire un quadro completo ed esauriente, senza per nulla affaticare il lettore, che anzi può apprezzare lo stile scorrevole e il ritmo adeguato alle circostanze, costante, senza brusche accelerazioni e improvvisi rallentamenti. È un libro di storia, ma si legge come un romanzo particolarmente avvincente dalla prima all’ultima pagina. Le citazioni sono frequenti, ma anziché, come non di rado accade, appesantire, sono scelte con arguzia e intelligenza, così che impreziosiscono il racconto, danno l’impressione che a parlare non sia l’autore, ma siano i protagonisti di questa epica lotta. Si impara molto e, quel che più conta, con piacere, così che si riesce anche a comprendere, in modo chiaro e incontrovertibile, che solo un’Europa unita, come accadde in occasione delle crociate, può fronteggiare con successo il pericolo derivante da un concetto di religione che fa sì che uno stato, che dovrebbe essere laico, è invece uniformato a un regime teocratico, in cui l’identità fra potere temporale e potere spirituale è solo foriera di disastri per l’umanità.
Da leggere, quindi, senz’altro.
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Il dramma dell’emarginazione
L’essere perseguitati in base a una legge perché si è nati ebrei e l’essere emarginati solo perché si è nati omosessuali sono i percorsi quasi paralleli di cui tratta questo romanzo breve di Giorgio Bassani, parte integrante di quel grande progetto letterario che molto opportunamente chiamò Il romanzo di Ferrara.
La vicenda del dottor Fadigati, conosciuto e stimato medico otorinolaringoiatra, con avviato studio in città, può essere solo un pretesto per delineare l’esistenza di chi, per natura o per legge, è definito un diverso, ma è anche emblematica di un falso puritanesimo che al giorno d’oggi farebbe sorridere, ma che negli anni 30’, in cui in Italia predominava tanto da sembrare eterno il fascismo, era più che mai radicato. Stimato si è detto questo clinico, almeno fino a quando, pubblicamente, non rivela la propria sessualità, perché allora, all’impietosa luce del sole, si insinua nei cittadini dapprima un senso di scherno e di ilarità e poi una vera e propria emarginazione che si traduce in un calo marcato della clientela dello studio medico, in un isolamento in cui l’interessato avverte colpe che non ha. Non è un caso, poi, che pur non approvando il suo comportamento, l’autore e la sua famiglia non lo evitano, già in procinto di essere considerati pure loro diversi in quanto ebrei. Sintomatico di questo atteggiamento, se non di consenso, almeno di comprensione, è quel puvraz che pronuncia il padre dell’autore, apprendendo, raggiunta la famiglia a Riccione per le vacanze, che quella persona che così tanto stima – e che continuerà a stimare – ha manifestato pubblicamente, con grande scandalo, le sue tendenze accompagnandosi al Grand Hotel con un giovane studente sfaccendato, amico del Bassani. L’amante non è altri che un gigolò, senza alcuna morale, che va con le donne, ma che non disdegna gli uomini quando questa compagnia sia ben fruttifera. Gli spasimi di Fedigati, le sue gelosie, il lento scendere nel baratro sono descritti in modo splendido e con una penna guidata da un grande senso di pietà; sono pagine in cui l’autore riesce a cogliere il tormento dell’esistenza che può avere solo un innamorato tradito e un uomo che avverte palpabilmente un progressivo isolamento, da cui non potrà uscire se non con un gesto estremo, con un suicidio che i giornali di regime faranno passare per incidente. La vicenda si svolge mentre già la stampa comincia ad attaccare gli ebrei, tanto da parlare di imminenti leggi razziali, che di lì a poco in effetti verranno promulgate. L’ansia di questi israeliti, che memori di antiche persecuzioni sono sempre attenti a cogliere sintomi avversi, è ben esposta e procede di pari passo con le chiacchiere e gli atteggiamenti dei ferraresi nei confronti del dottor Fadigati.
Due diversità, dunque, ed entrambe incolpevoli, un senso di graduale afflizione che pervade gli animi, che rende insicuri, un’inconscia sensazione di colpevolezza quando invece colpevoli non si è, incidono le pagine come rasoi, descrivono in un italiano colto e ricercato il passaggio dai timori alla disperazione, condannano senza se e senza ma l’atroce delitto dell’emarginazione, un altro crimine di cui si macchierà il fascismo, incapace di fornire agli italiani un ideale diverso da quello che gli fu proprio, cioè la violenza per la violenza, la discordia civile, il senso dell’inutilità di una vita non libera di essere vissuta.
Non ho altro da aggiungere, salvo che questa piacevolissimo libro, che appaga in tutto e per tutto, lascia alla fine un senso di disorientamento, quasi di incredulità, come se certi fatti – e non dico quelli del romanzo – non possano essere accaduti, quando invece sappiamo che altri ben più gravi avvennero, come l’Olocausto conferma.
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Autoassoluzione
Nei ricordi dei pochi vecchi che sono rimasti in vita e che hanno conosciuto il fascismo riaffiora ogni tanto una frase, allorchè si parla dei crimini nazisti: noi italiani eravamo diversi, tanto che nei paesi occupati dicevano sempre “Italiani, brava gente”. E per quanto sembri strano, si è creato un culto di questa frase, tanto che a volte riaffiora, soprattutto quando si vuole distinguere il nostro comportamento, in certe circostanze, da quello tenuto da altri popoli.
La domanda che mi pongo e che si è posta anche lo storico Angelo del Boca è se questo modo di dire risponda a verità. Ne è uscito un libro, ricco di fonti, da cui sembrerebbe che quell’italiani brava gente sia un modo per autoassolversi, poiché, sia in guerra che in pace, non solo non siamo stati esenti da critiche, ma addirittura sovente i nostri comportamenti sono risultati devastanti, in questo in verità in linea con quelli di altre nazioni, fatta eccezione per i tedeschi, che in materia di violenza e brutalità sono su un piano decisamente superiore.
L’analisi storica di Del Boca è relativa a un secolo e mezzo, dalla lotta al brigantaggio, compiuta con metodi brutali alla conclusione della seconda guerra mondiale, con una proiezione più ridotta fino a quasi i giorni nostri.
C’é semplicemente da inorridire, perché non poche volte le nostre azioni politiche e militari si sono tradotte in un genocidio, come accaduto per la rivolta dei libici appena conquistati, per la guerra d’Etiopia e per la nostra occupazione dei Balcani nel corso della seconda guerra mondiale,. Ma questi comportamenti scellerati non hanno colpito solo altre popolazioni, ma anche degli italiani, come appunto nella guerra al brigantaggio, e con l’ordine, impartito da Cadorna e dal Presidente del Consiglio, e avallato dal re, di non far giungere pacchi viveri ai nostri soldati prigionieri degli austriaci, così che molti morirono di stenti. C’è spesso una cattiveria nei nostri capi che mi è incomprensibile, cattiveria che raggiunge le vette più alte durante il fascismo, con il trio Mussolini, Badoglio e Graziani che avrebbe fatto la gioia di Belzebù.
Tutti e tre si credevano dei geni, ma erano meno di niente, così che anche vincere la guerra d’Etiopia, il cui esercito era poco armato, diventò un problema a cui si sopperì con il ricorso ai gas asfissianti e con il terrore che colpiva soprattutto la popolazione. Non sto a raccontare quel che accadde quando ad Addis Abeba Graziani fu oggetto da un attentato, da cui uscì ferito, con orde di italiani, militati e civili, che diedero la caccia ai neri per tre giorni, facendo scempio dei cittadini etiopici, e che successivamente investì tutti i notabili e i monaci, oggetto di esecuzioni di massa e sommarie. Nel Balcani non andò diversamente e, soprattutto in Slovenia, il paese fu messo a ferro e fuoco, con il chiaro intento di eliminare quelle genti. Il generale Roatta, responsabile militare, un uomo viscido come un’anguilla e crudele come uno sciacallo, si lagnava ogni giorno che il numero dei fucilati era troppo basso e che pertanto non si doveva andare molto per il sottile, bastando il sospetto, non la prova.
Quel che è peggio, però, è che a guerra finita sia Graziani che Roatta, benchè da più nazioni si reclamasse la loro estradizione come criminali di guerra, furono protetti, e non mi si dica che questo trattamento di riguardo dipendeva dall’avvio della guerra fredda e che agli americani risultavano graditi due simili personaggi in quanto anticomunisti, perché nel loro caso non è vero. Li protessero, infatti, la Democrazia Cristiana, il Vaticano e indirettamente perfino Togliatti con la famosa amnistia. Graziani e Roatta potevano così certamente dire, per il trattamento ricevuto: Italiani, brava gente.
Dunque, questo motto è quasi sempre stato usato a proposito e Del Boca conclude, trovandomi d’accordo, che se si deve parlare di italiani come brava gente questo deve riguardare l’esercito del volontariato che, disinteressatamente, ogni giorno presta la sua assistenza a chi ne ha bisogno.
Ne raccomando, pertanto, vivamente la lettura.
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