Opinione scritta da Bruno Elpis

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Racconti
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    19 Dicembre, 2015
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Essere uno degli uomini senza donne

“Uomini senza donne” è il titolo dell’ultimo di sette racconti nei quali Haruki Murakami affronta il tema dell’assenza femminile nella percezione di uomini talvolta spaesati dal mistero dell’altro sesso.

Dopo “Drive my car”, “Yesterday” e “Organo indipendente”, i racconti si fanno sempre più surreali.
Così in Shahrazad, Habara vive in un’imprecisata sfera di cattività nella quale riceve le visite (“E quando le lancette dell’orologio segnavano le quattro e mezza, Shahrazad si interrompeva…”) di una donna che con lui consuma il sesso scandito da racconti (“Nella mia vita precedente ero una lampreda… Sai come fa una lampreda a mangiare una trota?”) proprio come nelle Mille e una notte (“L’atto sessuale con Shehrazad e le storie che lei gli raccontava formavano una cosa sola”).
“Doveva scriverlo nella sua agenda. Ladra d’amore, matita, tampax”

“Kino” è il titolare di un bar con strani frequentatori: un avventore assiduo, due personaggi loschi (“Kino immaginò la scena in cui Kamita in pochi secondi metteva fuori combattimento quei due uomini” forse della yakuza), una donna (“Mi hanno spento delle sigarette sulla pelle”) che fa coppia con un tipo (“Sembravano condividere, loro due soltanto, un pesante segreto”) che poi scompare (“Altro dettaglio che trovava strano, né l’uno né l’altro fumavano”).
“Prima sparì il gatto, poi cominciarono a comparire i serpenti”

“Samsa innamorato” è la prosecuzione/deformazione de “La metamorfosi” di Kafka e narra le possibili sensazioni di un Samsa riconvertito al genere umano e impegnato a governare i propri istinti primari (“Tutt’a un tratto ebbe freddo… Prima la fame…”) e sessuali (“Il che produsse una protuberanza sul davanti della vestaglia”) dinnanzi a una ragazza (“Gobba?”), chiamata a riparare la serratura di casa Samsa in una Praga assediata (“La città è tutta un posto di blocco”).
“Sono stato malato, e ci sono tante cose che non afferro ancora bene”.

Il clima straniante (“Un uomo dalla voce bassa mi diede una notizia: una donna aveva lasciato per sempre questo mondo”) e alieno (“Era la terza, fra le donne con cui avevo avuto una relazione, che sceglieva di darsi la morte”) raggiunge l’apice in “Uomini senza donne”, il racconto conclusivo (“Quanto sia duro e doloroso essere uno degli uomini senza donne, solo gli uomini che hanno perso una donna lo sanno”).

Giudizio finale: surreale, analitico, preoccupante.

Bruno Elpis

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Storia e biografie
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    14 Dicembre, 2015
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L’assenza è una presenza costante

“Mi sa che fuori è primavera” di Concita De Gregorio ripropone il caso di Livia e Alessia (“Alessia e Livia sono nate il 7 ottobre, come la nonna Mayme, quella di cui porto il nome e della cui madre rivivo la sorte”), figliolette di Irina Lucidi e Mathias, rapite dal padre – morto suicida – e mai più ritrovate.

Dopo la separazione, intervenuta per scelta di Irina, che intende reagire a un marito “psicorigido”, che soffre di “ansia da controllo”, e a un ambiente familiare troppo formale e ipocrita, senza avvisaglie preventive Mathias rapisce le due figliolette e si dà la morte. Livia e Alessia non saranno mai più ritrovate.

Nell’opera viene scolpita la disperazione di una donna che si chiede come ha potuto non premonire la tragedia, se ha il diritto di amare ancora, e se ha titolo per nutrire qualche speranza di ritrovare in vita le figlie.

L’analisi psicologica, la rivisitazione dell’iter delle indagini (“Queste indagini che non hanno indagato nulla se non la tua colpa di aver scelto di separarti da Mathias”), le lettere scritte a familiari e non, tracciano in drammatica sequenza un percorso che ha condotto Irina sino all’impegno sociale di “Missing Children Switzerland”.

La narrazione è ibrida: cronachistica, epistolare, intimistica (“Un amico è quella persona per cui anche se è cambiato tutto non è cambiato nulla”), spesso affidata al flusso delle libere associazioni come negli elenchi che la protagonista redige: cose che mi irritano, cose che mi piacciono, cose che non devo dimenticare (Todo quadra).

Giudizio finale: sconcertante per la vicenda narrata, terapeutico nella disperata proposta esistenziale e d’impegno sociale.

Bruno Elpis

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Per analogia, forse, di argomento: La bambina e il sognatore di Dacia Maraini (in corso di lettura)
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Arte e Spettacolo
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    11 Dicembre, 2015
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È Rembrandt ad andare dai suoi modelli

“Questa vita tuttavia mi pesa molto” di Edgardo Franzosini narra la breve vita di Rembrandt Bugatti, che rinuncia al futuro legato alla casa automobilistica di famiglia (“Gli unici animali che interessano mio fratello sono i cavalli a vapore”) per dedicarsi a una vena artistica assai particolare.

Rembrandt è uno scultore originale: nelle opere ama ritrarre gli animali e, per realizzare questa ispirazione, si reca quotidianamente allo zoo (“Invece è Rembrandt ad andare dai suoi modelli, che vivono dietro le sbarre del giardino zoologico”), ove osserva le abitudini dei prigionieri per maturare una poetica personale ed eccentrica (“Bestie a cui è stato tolto il piacere del sangue, il gusto di sbranare”), che naturalmente lo induce a criticare la pratica circense (“Il pubblico naturalmente applaudiva a quella pagliacciata”) e i tristi spettacoli che ivi si consumano (“Questo genere di spettacoli avvilisce Rembrandt”).

Intanto la guerra divampa (“conte von Zeppelin, amico di Ettore e inventore dell’aerostato ormai utilizzato per spargere morte dal cielo”), le autorità cittadine decidono di sopprimere gli animali, lo zoo viene trasformato in centro d’accoglienza per feriti (“Impara che niente può consolarci più della possibilità di assistere i propri simili nel momento del dolore”). La distruzione degli zoo e la crudeltà della guerra hanno un effetto devastante su un artista che ha sempre dissimulato con eleganza e misura i propri travagli interiori.

Il libello descrive con grande armonia la sofferenza di un essere umano che si identifica nelle creature della natura e nelle ingiuste sofferenze alle quali vengono sottoposte dalla follia umana.

Giudizio finale: animalista, umanitario, una tragedia in miniatura.

Bruno Elpis

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... mi viene da accostare il protagonista di questo romanzo a Ligabue. Lui dipingeva animali, domestici e feroci.
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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    08 Dicembre, 2015
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La nuca piena di riccioletti

Ragazzi di vita… ma è la vita di ragazzi del sottoproletariato visto da Pier Paolo Pasolini in un esperimento linguistico che si addentra nelle catacombe della società, costruendo ex novo il romanesco dei ragazzi di vita...
L’ambientazione è quella delle borgate (“In fondo, nel gran tepore, brillavano i lumi delle altre borgate, fino a Centocelle, la Borgata Gordiani, Tor de’ Schiavi, il Quarticciolo”), le zone desolate delle periferie – le stesse ove il poeta perderà la vita - fatte di “praticelli zozzi”, di “viuzze livide” e di “qualche stradetta tutta buche”, nella quotidianità di scene popolane (“Con le donne che venivano a distenderci i panni sull’erba bruciata”) ove prorompe la vitalità spontanea dei ragazzetti (“Tra centinaia di maschi che giocavano sui cortiletti invasi dal sole”) che si tuffano nelle acque livide del Tevere (“I fiumaroli che prendevano il sole sul galleggiante”) e dell’Aniene o raggiungono le spiagge di Ostia (“Il mare sfolgorava come una spada, dietro il carnaio”).

In Ragazzi di vita, Pasolini trascende la propria natura sofisticata d’intellettuale e sbozza la narrazione in qualcosa di primitivo e grezzo, per osservare i protagonisti conservando per loro qualche sprazzo di tenerezza (“la nuca piena di riccioletti”) che si esprime in vezzeggiativi (“un altro maschietto come lui, che veniva avanti allegro come un rondinino”) e immagini (“il ragazzetto… giocando cinguettava allegro”) sempre dipinte senza pennellate retoriche. Così PPP traccia la drammatica parabola che vede il Riccetto transitare dalla pietà genuina (“Era proprio una rondinella che stava affogando”) all’indifferenza vile per un compagno che affoga (“I tre maschietti gli venivano dietro, Genesio, con la pelle di liquerizia e gli occhi di carbone, in disparte, sornione, e gli latri due che trotterellavano come cuccioletti…”), passando attraverso le esperienze più disparate della strada.

Questo esperimento di spogliazione ancestrale e di riproduzione narrativa da una visuale borghese meritava dunque un processo per oscenità?

Giudizio finale: sperimentale, naturalistico, inutilmente messo al rogo.

Bruno Elpis

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Dello stesso autore: Amado mio, Teorema, le poesie...
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    06 Dicembre, 2015
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E per me chi lo accenderà?

George Stransom, il protagonista di questo racconto di Henry James, ha una tendenza un poco strana: coltiva con i suoi defunti un rapporto intenso (“A poco a poco egli aveva preso l’abitudine di soffermarsi sui suoi morti ad uno ad uno…”), di quotidiana frequentazione, al punto da ritenere opportuno realizzare in una chiesa “L’altare dei morti”, un luogo ove accendere ceri e mantenere con i trapassati (“Quelli che in cuor suo chiamava sempre gli Altri”) una comunione tanto misteriosa quanto vitale.
“La religione dei Morti. Quella sì assecondava le sue inclinazioni, appagava il suo animo, dava sbocco alla sua pietà.”

Sembra avere la medesima passione anche una donna, che George incontra nel luogo dedicato al culto. Solo che la donna indirizza il legame necro-simpatico non già verso una pluralità di morti, bensì verso uno soltanto (“Dunque i vostri Morti sono soltanto uno?”): il suo amante, Acton Hague, che – parlandone da vivo – è stato nemico di George e gli ha arrecato un grave torto.
Come superare questo dilemma e contemperare il desiderio di continuare a frequentare la donna (a quelle modalità funereo-sacrali, s’intende) con l’accettazione del suo sentimento per un nemico?
Saprà George sublimare il suo perdono, mantenendo un occhio fisso sull’obiettivo finale (“E aveva un grande progetto… un lascito… L’avrebbe incaricata di amministrarlo e… avrebbe potuto accendere un cero anche per lui”)?

Giudizio finale: ieratico, cimiteriale, ultraterreno.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    06 Dicembre, 2015
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Uno straccione italiano!

Adina di Henry James è un delizioso racconto che contrappone la millantata superiorità americana alla tipologia dell’italiano rude e, anche per questo, affascinante (“Era tornato un irresponsabile fannullone d’Arcadia. Ma doveva avere una costituzione arcadica per sfidare la rugiada romana a quel modo”).

Il narratore riferisce i fatti di un suo soggiorno italiano con Scrope, poco avvenente amico, appassionato di antichità, ormai passato a miglior vita (“De mortuis nihil nisi bonum”): nel corso di un’escursione, Scrope aveva carpito a un pastorello (“Un nome che, di certo, avrebbe dovuto essere per colui che lo portava una sorta di talismano contro i guai: Angelo Beati”) un gioiello di età imperiale (“È una gemma – disse Scrope – dissotterrata da poco e ancora incrostata di fango”) appartenuto a Tiberio (“Divus Tiberius Caesar totius orbis imperator”).

Ben presto Angelo si ravvede dell’errore commesso e cerca di rientrare in possesso dell’oggetto dall’inestimabile valore (“Per me era più interessante osservare il nipote di Padre Girolamo che se ne stava immobile e guardava il mio amico con espressione grave”): di fronte al rifiuto oppostogli da Scrope, che nel frattempo si è fidanzato con la bella e giovane Adina, il giovanotto italiano concepisce una vendetta ampiamente intuibile nel corso di un racconto sorretto tanto dalle ambientazioni romane, quanto da stereotipi nazionalistici enfatizzati ad arte.

Giudizio finale: anticato, pastorale, beffardo.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    02 Dicembre, 2015
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Orfeo e le Menadi!

Ne Il carteggio Aspern di Henry James “Orfeo e le Menadi” sono il poeta Aspern e la coppia di signore che custodisce il misterioso carteggio (“Oh, ha tutto!”) – preziosa testimonianza in possesso dell’amante ultracentenaria – in un palazzo veneziano nel quale il critico-narratore si introduce con un preciso intento acquisitivo.
Per ottenere lo scopo (“Per me è il poeta dei poeti – lo conosco quasi a memoria”), il critico fa leva sulla cupidigia di Juliana, ma il percorso è irto di difficoltà che principalmente risiedono nella personalità delle signorine Bordereau (“Chissà quali riti di ennui andassero mai celebrando le signorine Bordereau nelle loro oscure stanze”).
E proprio nella caratterizzazione delle due donne (“Le signorine Bordereau costituivano un tipo del tutto nuovo dell’americano in contumacia”), oltre che nella fascinosa ambientazione veneziana (“Le mie carte frusciavano nell’errabonda brezza dell’Adriatico”), risiede la potenza narrativa di un’opera originale nella letteratura di tensione sottile e di alto bordo: da un lato miss Tina (“Alta, tremula zitella”), dall’altro “la divina Juliana come teschio ghignante”: “Conoscenza esoterica – ecco cosa rappresentava quella vecchia”.

Le manovre di accerchiamento del critico sono macchinose ed economicamente dispendiose (“Un ritratto del dio. Non so cosa darei per vederlo”), la strategia implica la conquista della fiducia della diffidente Tina (“Non so che cosa abbia. Tiene tutto sotto chiave”) nel costante timore che Juliana compia l’irreparabile (“Ma perché non dovrebbe distruggere quelle carte? Oh, le ama troppo”), come certi atteggiamenti della vecchia lascerebbero presagire (“Lo strano suono della sua risata; fu come se il debole spettro vagante del tono antico sbucasse d’un tratto fuori con una capriola”).

L’epilogo è originale, in sintonia con il mistero decadente che aleggia sui personaggi e sull’ambientazione miasmatica. A ben vedere, “Orfeo e le Menadi” sono anche il narratore e le signorine…

Giudizio finale: trilaterale, lagunare, epigrammatico.

Bruno Elpis

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Il giro di vite
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Romanzi storici
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    28 Novembre, 2015
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Nea Polis… città nuova

“Io, Partenope”, Premio Fondazione Il Campiello, è l’ultima opera di Sebastiano Vassalli, e – come riferito nella postfazione dall’autore stesso – si colloca armoniosamente in una produzione letteraria che ha voluto esplorare l’Italia nello spazio e nel tempo.

Dopo un’infanzia difficile, Giulia Di Marco trova la propria strada e la propria identità (“Una suora di strada: una terziaria, cioè una suora laica dell’ordine francescano”) a Napoli (“Il Vesuvio… è la fabbrica del fuoco, che di tanto in tanto dilaga verso le case degli uomini con i suoi fiumi di lava… Il colera, invece, viene ogni anno”), ove fonda una Comunità religiosa (“Il mio primo grande amore fu Teresa di Avila”) che pone l’estasi al centro dell’esperienza mistica.
Questo modo originale di interpretare la religione, però, confligge con il potere maschilista del Papato (“Una religione di soli uomini non può andare lontano”), che ben presto perseguita Suor Partenope. Deportata a Roma (“A Roma vivono due generi di persone: i preti e i non preti”), incarcerata, seviziata e inquisita, è costretta alla pubblica abiura in una cerimonia che suscita curiosità morbosa e crudele.

Nella sua seconda vita, pur nella corruzione della città eterna (“Il puttanesimo è una sorta di marciume morale che nasce da una società dimezzata e dall’esclusione delle donne dalla loro Chiesa e dalla loro fede”) suor Partenope conosce Gian Lorenzo Bernini (“Gian Lorenzo non crede nella religione dei papi: come me. Crede nell’arte che è la sua religione”), grande protagonista del senso religioso espresso con originalità e perfezione nell’arte. Interessato all’esperienza mistica di Giulia (“Si entra in Dio sapendo che si affronteranno esperienze a volte piacevoli a volte paurose”), Bernini ne comprende talmente bene l’essenza (“Dio… è un’avventura: ci si perde. Entrare in lui significa entrare nelle ragioni prime e ultime, nei grandi perché”) da rappresentarla in un’opera meravigliosa, sì, ma a quei tempi giudicata peccaminosa (“Estasi di Santa Teresa nella cappella Cornaro della chiesa di Santa Maria della Vittoria a Roma”).

Giudizio finale: ecumenico, scultoreo, transverberante.

Bruno Elpis

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La chimera
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Romanzi storici
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    26 Novembre, 2015
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Cos’è il confine?

Cosa sia “Il confine” tenta di stabilirlo Sebastiano Vassalli in un'opera pubblicata prima della sua recente scomparsa.
Forse il confine è stabilito dalla geografia dei luoghi?
O piuttosto la discriminante è l’identità nazionale ed etnica?

L’indagine viene condotta nel microcosmo del Sudtirolo, una zona tanto incantevole, “nel paesaggio scintillante delle Dolomiti”, quanto dilaniata dai conflitti acuiti dalla politica dell’epoca fascista, fomentati dalla follia nazista, riediti dagli attentati degli anni sessanta (“L’odio era diventato adulto… ebbe il suo culmine nella «notte dei fuochi», tra l’11 e il 12 giugno 1961: quando diecine e diecine di cariche di plastico da due chili l’una danneggiarono, oltre ai tralicci della corrente elettrica anche ponti, binari e condotte forzate…”), forse mimetizzati dall’esperienza dell’autonomia provinciale (“Nascono… le gabbie etniche e viene alla luce l’altra faccia del problema: quella della minoranza italiana”).

Pagine lucide, con un grande, tragico protagonista: l’odio, “Quel personaggio invisibile ma reale… uno dei protagonisti di questa storia. L’odio è il più forte dei sentimenti umani e chi ha scelto nella vita di fare il mestiere di Omero: quello di raccontare le storie degli uomini, deve saperlo riconoscere, altrimenti che scrittore è?”
Per concludere che forse il confine è un sottoprodotto della follia umana: “Quest’altra Europa… ama i confini, tanto da crearli anche dove non ci sono… con gli ebrei o con gli immigrati o con i «diversi» di qualsiasi genere”.

Giudizio finale: erasmico, illuministico, fa rimpiangere un ottimo scrittore.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    22 Novembre, 2015
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Le stelle di qui son diverse dalle stelle di Toky

“Il paese delle nevi” immaginato da Yasunari Kawabata è la destinazione ove si reca, con cadenza annuale (“È passato un anno. Voi siete di quelli che vengono una volta all’anno”), l’esteta Shimamura.
Uomo di cultura (“Da studente il suo interesse si era rivolto alla danza giapponese e al dramma mimato… Egli improvvisamente si rivolse alla danza occidentale”), dalla raffinata sensibilità (“Forse con l’inclinazione naturale del pigro ai colori mimetici, Shimamura aveva un’istintiva sensibilità per lo spirito dei posti che visitava e aveva avvertito appena sceso dalle montagne che, sotto l’aspetto di nuda frugalità, un’atmosfera di indolente comodità spirava in quel villaggio”) e dall’intelletto vivace (“L’espressione «energie sciupate» si riaffacciò alla mente di Shimamura”), tra i bagni termali e le passeggiate in montagna (“Fermò una massaggiatrice cieca sulla collina”), coltiva con la bella Komako una relazione sfaccettata nella quale sensualità, gelosie e complicati equilibri sociali si fondono grazie all’atmosfera allusiva e sottintesa che Kawabata addensa.

Di notevole impatto sono i colori (“Fuori dalla finestra il rosso luminoso dei kaki maturi era bagnato dal sole morente”) che il Maestro giapponese riproduce componendo ideogrammi, ma anche la capacità di rappresentare attraverso gli spettacoli naturali (“Era la stagione in cui le tarme depongono le uova”) della morte (“Passava molto del suo tempo a osservare gli insetti nella loro agonia mortale”) le ansie tragiche (“Le catene dei monti in lontananza avevano già il rosso dell’autunno nel sole morente. Quell’unica macchia di verde pallido lo colpì stranamente come il colore della morte”) che si accalcano su una vicenda diafana (“Era una dolce morte che veniva con il mutare della stagione”) e sfumata (“Egli vide la figura come un fantasma di un mondo irreale”).

Potenti i contrasti tra ghiaccio e nevi, vapori termali, il fuoco di un incendio (“Komako lottava per farsi strada e pareva portare il proprio olocausto, o la propria punizione”) che nel finale divampa (“La sua cadaverica immobilità, simile a quella della marionetta”).
Giudizio finale: cromatico, estetizzante, innamorato delle tradizioni.

“Barcollò per ritrovare il suo equilibrio, il capo riverso, e la Via Lattea si precipitò dentro di lui con un ruggito”

Bruno Elpis

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La casa delle belle addormentate dello stesso autore
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    17 Novembre, 2015
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Una piuma è fatta per volare

Giorgio Faletti saluta i suoi lettori con una fiaba leggera come “La piuma” in un libello illustrato da Paolo Fresu.
E segue il circuito aleggiante della piuma (“Forse era la penna remigante di un’aquila albina o forse addirittura una delle penne timoniere di una mitica fenice o forse… era semplicemente frutto di un’illusione”), che vola di tappa in tappa presso uomini che non hanno tempo, pazienza o interesse per le cose che hanno intorno.
Così la piuma è invisibile al Curato e al Cardinale (“Le sue preghiere… non riuscivano nemmeno a sollevare… una piuma così leggera”), alla Ballerina Innamorata (“Persa nel labirinto delle sue palpebre abbassate non riusciva a vedere nulla”) e ad altri personaggi che sono troppo assorbiti dal proprio ego per penetrare la realtà. Parimenti la piuma affascina l’Uomo del Foglio Bianco, ossia una persona perennemente alla ricerca di se stesso nella realtà circostante (“Ebbe la tentazione di tuffarla nel calamaio e iniziare a tracciare sulla carta il mistero della conoscenza e la magia del trasmetterla ad altri”).
L’importante – sembra suggerire Faletti con il suo apologo – è rispettare la natura delle cose, che devono realizzare la loro essenza nel modo forse più ovvio (“Il volo della piuma divenne il suo cammino”): la piuma deve semplicemente stare nelle ali che consentono di volare a chicchesia…

Giudizio finale: etereo, elementare, malinconico.

Bruno Elpis

PS: le illustrazioni non mi sono piaciute…

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Le petit prince
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    13 Novembre, 2015
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Siamo ammanettati! Inseparabili, inscindibili…

Da “Central Park” Guillaume Musso fa partire l’avventura di Alice, capitano della Crim, e Gabriel (“Sono americano. Mi chiamo Gabriel Keyne e sono un pianista jazz”), due personaggi che si risvegliano ammanettati e “modificati” (“Una scritta nel palmo della mano”) senza ricordare come ciò sia avvenuto (“Il buco nero. Un velo avvolgeva la sua mente”).

Le domande sono tante, la situazione paradossale (“Noi siamo ammanettati! Inseparabili, inscindibili, legati l’uno all’altra per forza di cose!”) risulta subito pericolosa e al tempo stesso produce situazioni assurde e grottesche.

Come spesso avviene nei romanzi di Musso, nell’azionismo vivace dei protagonisti confluiscono inserti romance e inflessioni thriller: in particolare, da ammanettati prima e da separati poi, i due eroi cercano di risolvere l’enigma del serial killer che strangola donne con le calze di nylon della precedente vittima.

Musso sa come tenere incollata l’attenzione del lettore e accontenta una vasta platea mixando generi (“L’episodio dell’orologio riportò alla luce un passato doloroso”), con ambientazioni metropolitane (“Parigi, inferno in metastasi”) e parigine (“Davvero? Il 26 di quai des Orfèvres? Come Jules Maigret?”), catturando molte tendenze o pseudo tali (fumare le pipe ad acqua in un shisha bar!?!) sia della lingua parlata sia del costume, collezionando aforismi in ogni incipit di capitolo:
“Nel mezzo di ogni difficoltà si nasconde un’opportunità – Albert Einstein”
“I mostri sono reali, e anche I fantasmi sono reali. Vivono dentro di noi, e a volte vincono… - Stephen King”

Giudizio finale: internazional-popolare, rocambolesco, un po’ astuto e un po’ déjà vu (in “Quando si ama non scende mai la notte” dello stesso autore, ad esempio).

Bruno Elpis

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Oltre ai precedenti romanzi di Musso, "La psichiatra" di Dorn
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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    11 Novembre, 2015
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La difficoltà di aprire il cuore

In “Norwegian Wood”, o “Tokyo blues” che dir si voglia, Haruki Murakami parla a modo suo di ’68, di ambiente studentesco, di musica, di cultura… di vita.

Toru Watanabe forma un triangolo pericoloso con Naoko e Kizuki, due coetanei con forte propensione personale e familiare al suicidio. Quando il trio diventa coppia, Toru alterna momenti di vita universitaria – con il maniacale compagno di pensionato (“Alla fine di quel mese Sturmtruppen mi regalò una lucciola”), il libertino Nagasawa (“Ho la sensazione che noi due, dopo essere usciti da questo posto, tra dieci o vent’anni, ci incontreremo”) e la disinibita Midori – alla frequentazione della tanto bella quanto inquieta Naoko. La relazione passa anche attraverso il centro terapeutico di Kyoto (“Questa non è una casa di cura, ma un centro di recupero”), ove Naoko ripara alla ricerca di se stessa e delle cause del proprio malessere.
“ - La differenza tra le persone che sanno aprire il cuore e quelle che non sanno. Tu sai aprirlo. Ma solo quando dici tu, beninteso.
- E se uno lo apre cosa accade?...
- Si guarisce…”

Nel clima sessantottino della libertà sessuale e nel sottofondo musicale (“Da quando è arrivata Naoko sono costretta a suonare solo i pezzi dei Beatles. Mi deve aver preso per un juke-box”) e culturale dell’epoca (“Che dici, se scoppia la rivoluzione… Se è così io non ci credo, nella rivoluzione. L’amore è l’unica cosa in cui credo. Peace…”), il romanzo propone con potenza tragica i temi della scelta, della difficoltà di vivere e della morte (“La morte non è qualcosa di opposto ma di intrinseco alla vita”) con toni emotivi forti e coinvolgenti (“La sua carne non esisteva più in nessuna parte del mondo”).

Giudizio finale: sessualmente esplicito, musicato, neurologico.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    06 Novembre, 2015
Top 10 opinionisti  -  

Una teoria piuttosto che un semplice piatto

Gli “Spaghetti all’assassina” di Gabriella Genisi non sono una semplice ricetta. Di più. Sono una tradizione della Barivecchia, una liturgia, un mito: perché “Lo spaghetto all’Assassina è una teoria piuttosto che un semplice piatto”.

Nella sua nuova avventura la sexy-commissaria Lolita Lobosco deve scoprire l’identità di un assassino crudele, che ha realizzato una terribile vendetta (“Stramaglia è stato incaprettato, evirato e ucciso con una freddezza e una violenza inaudite”) ai danni di un ristoratore che nella sua vita è stato tanto sessualmente attivo quanto equivoco.
Per non smentire la sua fama di abile solutrice di casi polizieschi, Lolì (“Lolità, allora. Che nome meraviglioso. Un nome da tango il suo”) si destreggia tra interrogatori in questura, relazioni con la procura e… interferenze di una vita privata movimentata e ricca di insidie e tentazioni. Come quella rappresentata dall’affascinante executive chef franco-algerino Matou Banallal (“Il nome di una barca non si cambia mai, per nessuna ragione”), tra i sospettati.

Con uno stile contaminato dalla parlata, il romanzo somministra i suoi ingredienti – umorismo, femminilità, mediterraneità – lasciando nel lettore i sapori vivaci e piccanti della Puglia e un vago rimorso per i chili che prenderemo, cercando di realizzare le ricette che Lolì alias Gabriella Genisi sciorina, prima fra tutte quella degli “Spaghetti all’assassina”, proposta in ben quattro varianti.

Giudizio finale: spensierato, frizzante, culinario.

Bruno Elpis

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Le altre avventure di Lolì
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    03 Novembre, 2015
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Nel mondo… della morte senza tempo

H.P. Lovecraft immagina che “Le montagne della follia” si trovino in Antartide. Lì si dirige la spedizione (“Eravamo quattro professori dell’università – Pabodie, Lake del dipartimento di Biologia, Atwood di quello di Fisica, era anche un meteorologo, e io, del dipartimento di geologia e con il comando nominale – più sedici assistenti: sette dottorandi… e nove abili meccanici”) comandata dal narratore, Dyer, che non nasconde “l’importanza cruciale che quel viaggio riveste nella mia vita. Esso segnò per me la fine, all’età di cinquantaquattro anni, della pace e dell’equilibrio che le menti normali posseggono grazie alla loro abitudinaria concezione della Natura e delle leggi della Natura”.

L’avamposto che si dirige verso l’ovest del polo Sud comunica scoperte sorprendenti, ma poi non fornisce più notizie. I superstiti partono per verificare cosa sia successo e s’imbattono in un primo orrore.
La sete di conoscenza e la curiosità scientifica (“Sull’orlo delle vertiginose falesie senza sole sopra il grande abisso… vedere quel favoleggiato baratro dal vero era una tentazione alla quale… sembrò impossibile resistere”) spingono Dyer e l’assistente Danforth a sorvolare le montagne della follia (“Quella memorabile barriera, verso i segreti illibati di un mondo antico e del tutto alieno”) e i resti di un’antica civiltà (“Le incisioni rivelavano… che quella città terribile era vecchia di milioni di anni”) nella quale affonda il segreto dei primordi geologici (“Una regione di grotte, baratri e segreti ipogei che l’uomo mai avrebbe potuto raggiungere”) e antropologici dell’umanità (“La vita preterrestre delle creature dalla testa a stella su altri pianeti”).
I due scienziati atterrano, percorrono il labirinto (“La direzione suggerita dai versi dei pinguini…”), straniscono di fronte alla geografia del luogo (“Forse pensavamo alle rocce grottescamente erose dal tempo del giardino degli dei, in Colorado, o a quelle simmetriche e scavate in modo fantasioso dal ventre del deserto dell’Arizona”) e dinnanzi a poderose architetture, interpretano le opere d’arte di una civiltà antichissima e discendono nel baratro, disposti a tutto pur di penetrare orrori e misteri che lì si celano.
Così s’imbattono nelle tracce di antenati alieni, incontrano creature mostruose e lambiscono una verità che ha come contraltare la follia (“La scoperta dello stigio mare senza sole che si nasconde nelle viscere della Terra”).

Il romanzo è una pietra miliare della cosmogonia lovecraftiana, è un saggio della maestria descrittiva del solitario di Providence (“Un cielo ornato di vapori spiraleggianti e illuminato dal basso sole polare”), è un concentrato confuso e sconvolgente di intuizioni cosmiche che si alimentano nell’orrore.
Lo stile è martellante, oppressivo, affascinante.

Giudizio finale: escatologico, ridondante, vaneggiante.

Bruno Elpis

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Rigorosamente consigliato agli estimatori di Lovecraft (e di Poe?)
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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    28 Ottobre, 2015
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Premio Campiello 2015

“L’ultimo arrivato” di Marco Balzano è Ninetto (“Prima di chiamarmi pelleossa, mi chiamavano strillone”), che racconta la sua storia di immigrato a Milano.

Cresciuto nella povertà (“Eravamo sempre sporchi di strada”) e nel disagio familiare (“Mamma mia stava ogni giorno più stordita”), Ninetto adora Vincenzo, il suo insegnante delle scuole elementari, che gli comunica l’amore per la poesia grazie a Pascoli e l’interesse per l’ideologia grazie a Rousseau.
Senza che lui ne comprenda appieno le ragioni, il padre affida Ninetto a un compaesano, che lo conduce nella Milano del miracolo economico (“Quando la miseria ti sembra un cavallone che ti vuole ingoiare è meglio che fai fagotto e te ne parti, punto e basta”), ove il bimbo intraprende diverse attività lavorative (“Ormai sei grande, tieni tredici anni compiuti!... una frase che se la dici oggi chiamano il Telefono Azzurro”).
Un matrimonio d’amore sarà l’occasione per ritornare provvisoriamente al paesello (“Il viaggio lungo, mio padre trasandato, il matrimonio come due ladri, mamma mia abbandonata…”), ma la vita attende il giovane a Milano.
Poi Ninetto, per gelosia, commette una sciocchezza imperdonabile (“Poi non ho più pianto fino a quando sono entrato in carcere”)…

Il romanzo è commovente (“Il dolore tiene insieme più di ogni altra cosa”) sia perché attraversa efficacemente le dinamiche psicologiche del protagonista e i fenomeni sociali - l’emigrazione, il caporalato – che i corsi e ricorsi storici tragicamente ripropongono, sia perché Marco Balzano, milanese e docente di scuola media, riesce a identificarsi pienamente nel suo personaggio siciliano e ingenuamente innamorato della cultura (“Questo signor Camus autore de Lo straniero… Come ha fatto a raccontare la mia storia raccontandone una sua”).

Giudizio finale: retrospettivo, ma implicitamente attuale, vibrante

Bruno Elpis

P.S. A questo link potete leggere l’intervista che ho realizzato con l’autore http://www.brunoelpis.it/le-interviste/1288-intervista-a-marco-balzano-vincitore-del-premio-campiello-2105

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Le poesie di Pascoli, Rousseau, Lo straniero di Camus, opere citate nel romanzo
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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    24 Ottobre, 2015
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Il privilegio di dialogare con l'autrice

D –Cara Anna Maria Balzano, ho visto le foto della presentazione a Roma del tuo ultimo romanzo, Il cappotto blu, Talos Edizioni. Non ho potuto partecipare all’evento e quindi preferisco commentare il libro con te, rivolgendoti alcune domande. Quali emozioni provi nel parlare pubblicamente di questo tuo “ultimo figlio”?
R – Come sempre, timore misto a speranza. Timore perché presentarlo nella luce migliore non è facile. Il pubblico che ascolta è il primo giudice, a volte piuttosto severo. Speranza, perché ci si augura che il messaggio contenuto nel romanzo possa giungere con chiarezza e semplicità.

D –Mi hai confessato che questo romanzo ti ha fatto molto soffrire. Perché?
R – Per due motivi: per il suo contenuto, per la storia cioè in cui mi sono immersa completamente, vivendo le vicende ora di questo ora di quel personaggio, e poi per l’ansia che accompagna sempre una nuova prova.

D –La storia racconta tre generazioni (Barbara e Fausto – Chiara e Aldo – Michele) in una concezione molto contemporanea della genitorialità e della figliolanza…
R – La famiglia è sempre stata al centro dei miei interessi. Credo molto nei valori che rappresenta, ma sono anche consapevole di quanto sia difficile conservarli integri, specialmente in tempi in cui si è facilmente distratti e attratti da lusinghe diverse... So quanto sia difficile e quanta sofferenza possa generare il rapporto genitori-figli e so anche che non esiste ricetta universale per risolvere conflitti e contrasti.

D – Concordo con te, questo tuo romanzo denota grande attenzione alle dinamiche familiari. La famiglia è nucleo delle interazioni psicologiche, a momenti prigione dell’individuo, a momenti àncora di salvezza…
R – È verissimo. Chi non ha provato almeno una volta nella vita il desiderio di fuggire, di scrollarsi di dosso il “peso” dei legami familiari? Eppure proprio in quella prigione si può trovare la serenità che si cerca...

D – Nelle storie d’amore, in questo romanzo, prevale l’insoddisfazione, la sofferenza. Barbara è vittima di un legame tiepido, una soluzione di compromesso. Chiara in qualche modo “rinuncia” alla sua dimensione affettiva e ne patisce…
R – Si, è vero. L’amore che viene rappresentato in questo romanzo assume aspetti diversi. L’amore di coppia è sicuramente il più difficile da realizzare in modo durevole. Entrano in gioco molti elementi: a volte una certa competitività, la gelosia, un desiderio di indipendenza, una certa intolleranza verso l’altro. Ma l’amore non è solo quello di coppia. E in questo romanzo forse si celebra di più l’amore verso i più deboli, un amore che richiede dedizione e sacrificio più di ogni altro.

D – Rivolgo a te una domanda che è una frase del romanzo: “Possibile che in tempi evoluti il mondo di una donna debba girare sempre e solo intorno a un marito, a dei figli”?
R –Si, questo è un argomento che mi è sempre stato a cuore e che non è in contrasto con quanto ho dichiarato prima sulla famiglia e sui suoi valori. In effetti ancora oggi alla donna che desideri realizzarsi nel lavoro, che aspiri a un’emancipazione reale, si chiede molto, a volte troppo, al punto che difficilmente si riesce a conciliare tutto ciò con la famiglia. I casi in cui ciò si sia realizzato con successo sono piuttosto rari.

D – Il tuo romanzo è molto ricco di spunti: affronti il tema del bullismo adolescenziale, la condizione femminile, l’adozione, l’impegno sociale. Senza rivelare alcuna delle sorprese che attendono il lettore, anch’io ho sottolineato un pensiero che poi riprende Roberta Lagoteta nella postfazione: “Nessuno pretenderà da lei sentimenti che non è in grado di nutrire. L’importante è la conoscenza… e la consapevolezza”.
R - Si, ritengo che la conoscenza e la consapevolezza degli eventi storici siano fondamentali per la crescita di ogni individuo. È per questo che ritengo che l’istruzione per i giovani sia importantissima, non come fatto elitario, ma come condizione essenziale per una crescita equilibrata.

D – Quanto è autobiografico “Il cappotto blu”?
R – Come sempre, in ogni personaggio, maschile o femminile, buono o cattivo, c’è un po’ di me. Una specie di piccolo “transfert”.

D – Se ti dicessi che il sentimento prevalente che mi ha accompagnato in questa lettura è l’identificazione nella sensibilità di chi l’ha scritto…
R – Io in questo romanzo ci sono tutta!

E adesso Anna Maria copriti gli occhi o, se preferisci, voltami le spalle. Come ben sai, qui a qlibri devo darti i voti… Ahahaha, un abbraccio da

Bruno Elpis

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Consigliato a chi ha letto...
... naturalmente gli altri romanzi di Anna Maria: La voliera dei pappagalli, Il viaggio di Emilia. Consigliato anche a chi ha letto le q-recensioni di Anna, e ne è rimasto affascinato. :-)
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Classici
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    22 Ottobre, 2015
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Laurence, Musetta o Mimì

Ne “La confessione di Claude”, la prima opera di Emile Zola, vi sono già tutte le premesse della poetica del naturalismo che lo scrittore svilupperà nelle opere successive.

Si narra la storia di Claude, giovane che si trasferisce a Parigi dal sud della Francia, ove lascia gli amici con i quali mantiene un contatto epistolare.
Nella capitale Claude sopravvive di stenti e in solitudine (“Vivo in modo stentato e non ho alcuna possibilità di sostenerla. Sono davvero povero…”) e fa la conoscenza di Laurence, una prostituta che lo inizia al sesso in un approccio che suscita insieme curiosità e disgusto (“Il seno, dalla cui immagine ero tanto scosso, non era forse il medesimo sul quale le mani di chissà quanti uomini si erano posate?”).
Nonostante gli intendimenti iniziali, Claude ben presto s’innamora della donna e tenta di compiacerla in tutti i modi (ad esempio portandola a un ballo in maschera), perché comprende che Laurence ha interessi ben diversi dai suoi.
Nello stabile abitano anche Jacques, una vecchia conoscenza di Claude, e Marie, una ragazza dalla salute irrimediabilmente compromessa. La frequentazione della coppia sovverte il corso della relazione tra il protagonista e la sua amata.

La storia attraversa tutte le fasi della passione e risente delle atmosfere bohèmienne (“Trasformerò Laurence in una Musetta o in una Mimì; sarà sempre bella e giovane…”): l’iniziale intento di redenzione (“Credevo di essere sul punto di salvarla, mi accorgo invece di avere accanto una donna della quale non conosco nulla”), il montare dell’ossessione amorosa di fronte all’indifferenza dell’amata (“Era marmorea, fredda e rigida, come appunto sono le statue”), il desiderio di possesso, il sospetto che induce a spiare e origliare, il tradimento (“Laurence se la ride di voi! Ecco come sono fatti gli uomini! Amano soltanto chi li tradisce e chi li abbandona”), la guarigione (“Ascoltate questo mio suggerimento, amici miei fraterni: quando una delle tante Maddalene che girovagano per il mondo si getterà ai vostri piedi…”).

Giudizio finale: bohémien, preliminare (rispetto alla produzione successiva di Zola), riparatore nel finale.

Bruno Elpis

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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    20 Ottobre, 2015
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E compagnia cantante…

“Le canzoni di Narayama” di Scichiro Fukazawa sono impregnate di buddismo (“La canzone della festa del Bon del villaggio”, la festa buddista dei morti) e riecheggiano in un paesino del Giappone, ove la miseria regna sovrana e i ladri sono puniti duramente (“La punizione consiste nell’appropriarsi delle provviste che appartengono alla famiglia del colpevole”).
Da “Le canzoni di Narayama” trapelano pratiche (“Si sballotta con molta forza, in modo che il bambino sulle spalle non possa nemmeno aprire la bocca, più che sballottare è una maniera di maltrattare”) e mentalità aliene, per le quali una donna di settant’anni non può avere i denti belli (“Anche invecchiando non gliene era caduto nemmeno uno, e per O Rin questo era diventato un motivo di vergogna”), e ciò e motivo di derisione (“La vecchia diavolessa del ceppo, questo ormai si diceva di lei dietro le sue spalle”), né è opportuno vivere troppo a lungo (“Se Matsu-yan metteva questo bambino al mondo, lei avrebbe dovuto vedere il sorcetto”), perché significa sottrarre risorse agli altri.

La storia ha una protagonista, l’anziana O Rin, matriarca che si preoccupa di procacciare moglie al recalcitrante figlio vedovo Tappei (“Ormai queste cose non m’interessano più tanto… ah, ah, ah”): è l’ultimo atto prima del tanto atteso pellegrinaggio a Narayama (“O Rin non pensava ad altro che al pellegrinaggio di Narayama”), da compiersi nell’assoluta osservanza di regole scaramantiche (“La tradizione diceva che se nevica il giorno nel quale si va a Narayama… la.. sorte è buona”).
Dopo una veglia iniziatica durante la quale i più esperti rivelano particolari e tradizioni (“Narayama, dove abita un Dio , è una montagna molto lontana a cui si giunge passando sette vallate e tre stagni”), la vecchia silenziosamente s’incammina verso la montagna, accompagnata dal figlio. Il finale è orribilmente cromatico nella contrapposizione tra il bianco della neve e delle ossa umane e il nero di corvi-becchini padroni di Narayama.

Giudizio finale: etnico, cantilenante, agghiacciante.

Bruno Elpis

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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    16 Ottobre, 2015
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Spose & c.

“La sposa” è il titolo del primo dei racconti-saggi di quest’opera di Mauro Covacich, finalista al premio Strega 2015.

Le storie che compongono la raccolta sono raggruppate in categorie.
Ritratti: La sposa, Ogni giorno che va via è un quadro che appendo, Atti impuri
I miei non figli: Sterilità, La ruota degli esposti, Cattive madri, Doppia panna, Safari
Identikit: Carla, Tintorello, Tor Bella Monica, Angela del Fabbro
Nevrosi aerobica: Il punzonatore, La città bambina, L’Uomo-che-soffia
Favole per bambini vecchi: Un cuore in viaggio, La casa dei lupi

Gli identikit ritraggono la single Carla, una scolaresca in gita, un gruppo di giovani sfaccendati (Tor Bella Monica) unicamente intenti a interpretare il vuoto dei valori, una operatrice di call center dal profilo alternativo (Angela del Fabbro). I racconti spesso s’impennano in un finale che riserva qualche piccolo colpo di scena.

Uno dei temi conduttori è la scelta di NON avere figli (“Non siete voi a riprodurre la vita, ma è la vita a riprodursi attraverso i vostri corpi”) in contrapposizione a genitori che concepiscono i figli come proprietà da esibire.

Alcuni racconti – come Safari o La casa dei lupi (“La famiglia di Valter. Bisognava farci i conti, prima o poi, e Damiana… Quella se ne sta lì accucciata, ferma e immobile, e non mi sembra un daino”) – appaiono spietati, altri sono drammi surreali (come “Un cuore in viaggio”, storia del cardiopatico Furian: “È ancora bello, giovane, ma ha sofferto troppo, dentro il dottor Furian non resisterebbe trenta battiti”). Il flusso del racconto viaggia a corrente alternata tra eventi che hanno riempito le pagine della cronaca nera – come l’infanticidio di Cogne, rivissuto attraverso il mito di Salomone, o i misfatti di Unabomber - e storie quotidiane di insoddisfazioni, nevrosi aerobiche e personaggi della nostra vita urbana (“A seconda dell’umore, decide di punzonare o di regalarti un ingresso” - Il punzonatore).

Bruno Elpis

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Racconti
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    12 Ottobre, 2015
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"Le vele sono i muscoli delle barche"

“Il racconto dell’isola sconosciuta” è una fiaba con la quale José Saramago propone un’allegoria del trinomio viaggio-vita-amore. Disseminando mappe topografiche tra le pagine di un libello illustrato, ideale per adulti-bambini in crisi d’astinenza di fiabe.

Se la destinazione è un punto interrogativo, il percorso si autodetermina, anche se gli strumenti a disposizione sono essenziali e le stive sono vuote, mentre le forze dell’istinto umano e della natura si intrecciano affiorando dal sogno.
“Se non esci da te stesso non puoi sapere chi sei”.

Lo stile di Saramago è riconoscibilissimo, nei dialoghi mascherati da discorso indiretto, nell’ironia naïf, nelle immagini poetiche che le parole possono creare.

Bruno Elpis

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L'isola del tesoro
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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    06 Ottobre, 2015
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Zenone in Aeternum

“L’opera al nero” di Marguerite Yourcenar ha per protagonista Zenone (“Tutti erano d’accordo nel trovarlo bello, ma la sua voce tagliente faceva paura; il bagliore delle sue pupille scure affascinava e riusciva allo stesso tempo sgradevole”): un uomo marchiato a vita dall’infamia di essere figlio illegittimo, che dimostra fin dall’infanzia grande interesse per la cultura. Avviato alla vita religiosa (“Zenone crebbe destinato alla Chiesa”), dimostra di avere spirito critico, interesse per l’indagine filosofica e scientifica, curiosità per le arti meccaniche.
Questo profilo composito lo spinge a un viaggio (“Parto… vado a vedere se l’ignoranza, la pura, la stupidità e la superstizione verbale regnano anche fuori di qui”) da Bruges… a Bruges attraverso l’Europa, la Svezia, le Fiandre…
Il viaggio è anche un itinerario attraverso un secolo minato dai conflitti tra Riforma e Controriforma (“Ci si abitua alla ferocia delle leggi del proprio secolo, come ci si abitua alle guerre suscitate dalla scempiaggine umana…”), Inquisizione (“… Un ufficiale dell’Inquisizione incaricato di arrestare Zenone…”) e persecuzioni, che costringono alla clandestinità (“Fu durante questo periodo senza avvenimenti che lo riconobbero per la prima volta… Greta…”) chi esercita il libero pensiero (“Preferisco che non venga dato alle fiamme il mio capolavoro”).

Tornato a Bruges sotto le mentite spoglie di Sebastiano Theus, Zenone collabora con il Priore (“Era un cilicio su cui si seccavano qua e là dei grumi nerastri…”) presso l’ospizio di san Cosma, ove s’imbatte in giovani (“Cipriano aveva tenuto a fare di lui un confidente, se non un complice”) dediti a pratiche segrete (“Qualunque cosa facessero, Idelette e Cipriano, Francesco de Bure e Matteo Aerts erano belli… la grande fiamma sensuale tramutava ogni cosa come quella dell’athanor alchimistico e valeva la pena che per essa si rischiasse dei roghi. Il biancore dei corpi nudi luceva come quelle fosforescenze che attestano le virtù nascoste delle pietre”) e sacrileghe (“Quel consumo di pane benedetto e di vino rubato all’altare, mangiato e bevuto alla luce di mozziconi di candela. Le abominazioni della carne sembravano aggravarsi di chissà quali sacrilegi”).
Nello scandalo, il medico-filosofo viene coinvolto incolpevolmente e affronta il processo per eresia, ateismo e sodomia interrogandosi su come la libera determinazione dell’uomo possa affermarsi contro le forze del sistema politico-religioso: meglio ritrattare, chiedere l’intercessione della sorellastra Marta (che nel frattempo è andata in sposa a un potente banchiere), affrontare il rogo o… quale altra alternativa?

“L’opera al nero” è un romanzo storico che ha un protagonista tanto inventato quanto plastico: Zenone si staglia sull’intrico di eventi, nomi, citazioni (“Eamus ad dormiendum, cor meum”) e riferimenti che talvolta richiedono un ottimo senso dell’orientamento storico. Perché la sfida (“Sono arrivato al punto di biasimare Prometeo per aver dato il fuoco ai mortali”) rientra nello stile di Marguerite Yourcenar.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    01 Ottobre, 2015
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Inoculazione ritualistica

“Il caso di Charles Dexter Ward” è, a parer mio, il capolavoro di Howard P. Lovecraft.

La storia del giovane studioso (dalla prefazione: “In numerosi racconti di Lovecraft, il protagonista - sempre identico: di genere maschile, colto, di buone maniere, quasi totalmente disinteressato all’altro sesso - finisce per essere risucchiato nella dimensione parallela…”), ritenuto pazzo dalle “analisi condotte dagli alienisti” e per questo prima assistito, poi recluso (“In base alle testimonianze di altri e in forza di molte lacune abnormi nell’assortimento delle sue nozioni… si era arrivati alla decisione di recluderlo”) e infine transfuga (“La fuga stessa è uno dei prodigi non spiegati dall’ospedale del Dr Waite. Una finestra aperta su uno strapiombo di venti metri poteva difficilmente costituire una spiegazione…”), che si intestardisce sullo studio (“Charles Ward era appassionato di antichità fin dall’infanzia”) di documenti segreti (“All’improvviso i suoi interessi mutarono dallo studio del passato allo studio dell’occulto ed egli si rifiutò di sostenere gli esami di qualificazione per l’università”), formule (“Un monogramma era stato accuratamente cancellato da un battiporta d’ottone”) e rituali (“Un simbolo arcaico, chiamato Testa del Drago, usato negli almanacchi per indicare il nodo ascendente, e… la Coda del Drago, o nodo discendente”) in grado di riportare in vita un antenato - Joseph Curwen - dedito a pratiche tanto orrende (“Il carico consisteva quasi completamente in scatole e casse di cui una gran parte era rettangolare e pesante e somigliava in modo preoccupante a delle bare”) quanto occulte (“Quelle marchiature delle streghe che si riteneva venissero inflitte durante certe morbose riunioni notturne in luoghi selvatici e solitari"), ha catturato la mia parte più arcana.
Affascinandomi. Insinuando “nella mente l’idea dell’esistenza di oscure relazioni cosmiche e di realtà innominabili dietro alle protettive illusioni di ciò che vediamo comunemente”. Conquistandomi (“Le reliquie mortali di metà dei titani del pensiero di tutte le epoche, trafugate da blasfemi predatori nelle cripte… e sottoposte agli ordini di folli che tentavano di aspirarne il potere per uno scopo ancora più pazzesco…”).
Al punto che, irretito, ho scritto un racconto completamente ispirato a quest’opera, un racconto che verrà inserito in un’antologia dedicata al genio di Providence. La storia, l’ho intitolata “La possibilità di riesumare un amore” (“Perché mai il mio amore infinito non doveva ritornare?”).

Bruno Elpis

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Lo strano caso del Dr Jeckill e di Mr Hyde - Il ritratto di Dorian Gray - Dracula
Questo romanzo di H.P. Lovecraft ne è imparentato...
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    17 Settembre, 2015
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Siamo l’invisibile di qualcun altro

“Cade la terra” di Carmen Pellegrino è un’opera in tre atti, ciascuno anticipato da versi di poesie bellissime.

Estella (“la sua faccia di patifacula”) ritorna ad Alento dopo aver abbandonato l’abito monacale. Alloggia presso la famiglia più facoltosa del paesino e lì svolge il ruolo di istitutrice del figlio Marcello, un ragazzo asociale e dispettoso. Intanto il paesino sta franando e si spopola.
Nonostante il pericolo, Estella decide di rimanere nel vecchio nucleo (“Non mi resta che il paese, la sua magica impostura”). Nella solitudine visionaria (“Mi chiedo… se ci fu il paese o se il paese fu un sogno, se fu solo una magica impostura”) le fanno compagnia (“È bello il nostro olmo. Non rimane che lui del paese”) le storie dei “bifolchi” (non ricordano “i cafoni” di Fontamara?), personaggi essenziali e veraci dei quali l’autrice interpreta spirito e drammi. L’immedesimazione si realizza in una cena metafisica, alla quale partecipano lo scettico Marcello e… i fantasmi degli abitanti di Alento (“Parlavano di memorie, e d’un paese morto, e d’una terra che fu. Ora vi stagna sopra una gran palude”).

I versi che anticipano i contenuti delle tre parti sono tratti, nell’ordine, da “Amore per la vita” di Alfonso Gatto, “Forse un mattino andando in un’aria di vetro” di Montale, “Il giorno dei morti” di Pascoli.

“Cade la terra” è un romanzo particolare (“Il gallo non aveva ancora cantato, tanto più che non avevamo alcun gallo”), stilisticamente interessante, colpisce per la profondità e per l’efficacia nel cogliere le dimensioni sotterranee della realtà (“Si è sempre l’invisibile di qualcun altro”), esprime solidarietà verso i protagonisti anonimi della storia, realizza artisticamente l’esigenza umana di comunicare anche attraverso le barriere strutturali e culturali, interpreta la preoccupazione per le tragedie ecologiche, demografiche e urbanistiche che affliggono la contemporaneità.

Bruno Elpis

L’occasione è buona per riproporre la poesia di Montale, di rara bellezza e di immenso significato:

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me ne andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    13 Settembre, 2015
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Dal Campiello 2015

Il tempo migliore della nostra vita di Antonio Scurati è un’opera che fonde storiografia, letteratura e autobiografia familiare. Queste dimensioni si intrecciano intorno alla figura di Leone Ginzburg, il cui profilo biografico, culturale e caratteriale viene delineato – in controluce rispetto al compagno Cesare Pavese detto Cesarito (“A Leone propone di ideare e dirigere le collane editoriali insieme a Pavese, mentre lui, Giulio – ndr: Einaudi -, si occuperà di procurare i fondi necessari e dell’amministrazione”), alla moglie Natalia Levi, al filosofo Benedetto Croce e a tanti altri personaggi dell’epoca – per restituire alla memoria dei nostri giorni un’immagine unica per dignità, impegno e valore.
In questa pagina una sintesi: “Quando nella prima settimana dell’agosto del 1943 Leone Ginzburg torna a essere un uomo libero, ha da sei mesi compiuto trentaquattro anni. Due di questi li ha trascorsi in galera, due e mezzo sotto il regime di sorveglianza speciale, tre al confino e cinque da bambino in esilio da sua madre. Fanno una dozzina d’anni abbondanti che guerre, rivoluzioni e dittature hanno sottratto alla sua vita, libertà e infanzia.
Nonostante questa menomazione Leone è riuscito a dotarsi di una cultura eccellente, a costruirsi la reputazione di uomo integerrimo e d’intellettuale formidabile, a fondare una prestigiosa casa editrice, a combattere ostinatamente il fascismo e a dar vita a una famiglia. Ha tre figli… e una moglie amatissima da cui è teneramente riamato, una donna ammirevole che si cura della famiglia, traduce Proust e manifesta segni inequivocabili di un grande talento letterario.”
I capitoli dedicati a Leone si alternano a quelli che disseppelliscono le radici familiari - brianzole e napoletane - di Antonio Scurati.

Agli appassionati di storia, l’opera riserva una cronaca dell’epoca fascista e della seconda guerra mondiale al ritmo sincopato di date che sono tacche impietose nella sequenza degli eventi bellici, delle violenze, delle aggressioni internazionali e colonialiste, dei bombardamenti, delle persecuzioni razziali e delle deportazioni.
L’incalzare della storiografia si stempera nei capitoli dedicati alle origini familiari di Antonio: lì, la guerra e l’atmosfera del terrore dell’occupazione nazista assumono i toni del ricordo vivo nelle testimonianze dei nonni.

Le molteplici anime dell’opera – quella letteraria, quella storica e quella personale – convergono in un finale che s’immerge nell’aria effervescente e promettente del boom economico: qui la narrazione è più romanzata, ma si mantiene sempre fitta di riferimenti culturali ed evocazioni.

Antonio Scurati combina l’indagine scientifico-letteraria alla qualità narrativa per diffondere, speriamo, l’immagine di un uomo che nella coerenza ideologica e nella serietà degli impegni editoriali, politici e familiari ha concretizzato la propria dimensione intellettuale e umana.
Per connessione d’argomento e come spunto per completare il quadro fornito dal romanzo di Scurati sui rapporti tra Leone-Cesarito-Natalia segnalo a questo link la bella descrizione che la Ginzburg fornisce di Cesare Pavese:
https://ilmestierediscrivere.wordpress.com/2015/08/06/natalia-ginzburg-ritratto-di-cesare-pavese-2/

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    07 Settembre, 2015
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Tutti sanno che è scomparsa

Curiosamente, ho riletto “La peste” di Albert Camus proprio mentre mio figlio stringeva i tempi per sostenere l’esame di microbiologia. Naturalmente, gli ho domandato se i programmi di Medicina contemplano ancora lo studio della peste (“È impossibile, tutti sanno che è scomparsa dall’Occidente”). Ne ho ricevuto in cambio risposte che contemplavano non soltanto eziologia del morbo e sintomatologia (“Pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati”), ma anche modalità di diagnosi (“Si dichiari lo stato di peste. La città sia chiusa”) e terapie (“Lei sa… che il distretto non ha il siero?”).

Che la pestilenza sia veicolata dai ratti è un fatto noto (“La mattina del 16 aprile il dottor Bernard Rieux, uscendo dal suo studio, inciampò in un sorcio morto, in mezzo al pianerottolo”), e Camus – in quest’opera potentemente allegorica (“Ci sono sulla terra flagelli e vittime… bisogna, per quanto è possibile, rifiutarsi di essere col flagello”) – immagina che così scoppi l’epidemia a Orano, che ben presto diviene anfiteatro della tragedia (“Questa città senza pittoresco, senza vegetazione e senz’anima finisce col sembrare riposante, e vi ci si addormenta. Ma è giusto aggiungere ch’essa è inserita in un paesaggio impareggiabile, nel mezzo di un pianoro spoglio, circondato da luminose colline, davanti a una baia di perfetto disegno”) proprio come Tebe ai tempi di Edipo.

Sul coro dei malati si stagliano alcune individualità nelle quali Camus rappresenta come gli uomini rispondano diversamente al medesimo stimolo: chi – come il medico Rieux - con l’impegno umanitario (“Non ho inclinazione, credo, per l’eroismo e la santità. Essere un uomo, questo m’interessa”) ad onta del pericolo (“Ma il lavoro può essere mortale, lei lo sa”); chi – come Tarrou (“L’opinione di un altro testimone. Jean Tarrou… si era stabilito a Orano alcune settimane prima e alloggiava da allora in un grande albergo del centro”) - con la collaborazione e con l’attivismo (“Io ho un progetto d’organizzazione di squadre sanitarie di volontari”); chi con la burocrazia (il funzionario Grand “non arrivava a credere che la peste potesse veramente stabilirsi in una città dove si potevano trovare dei modesti funzionari dediti a onorevoli manie”) e con la reazione (“La pensava come lui, che un mondo senz’amore era come un mondo morto e che viene sempre un’ora in cui ci si stanca delle prigioni, del lavoro e del coraggio, per domandare il viso d’una creatura e il cuore meravigliato dall’affetto”) artistica (“Il dottore lo sfogliò e capì che tutte quelle pagine non contenevano che la stessa frase, all’infinito ricopiata, rimaneggiata, arricchita o impoverita”); chi – come Cottard - con l’opportunismo (“La peste gli serve bene; d’un uomo solitario e che non lo voleva essere, ha fatto un complice”); chi – come padre Paneloux – con la fede; chi – come il giornalista Rambert - con il desiderio di fuga e l’illusione di poter scegliere (“Alcuni di loro, come Rambert, arrivarono persino a immaginare… di agire ancora da uomini liberi, di poter ancora scegliere”).

Le ultime cinquanta pagine del romanzo premiano chi ha “resistito e sopportato” duecento pagine di descrizioni angosciose.
Qui Camus scrive pagine indimenticabili sull’amicizia che si instaura tra due protagonisti, il medico Rieux e Jean Tarrou (“Il dottore… domandò se Tarrou avesse un’idea della strada da prendere per arrivare alla pace. «Sì, la simpatia»”); qui Camus rivela l’identità del misterioso narratore (“La nostra cronaca volge alla fine. È tempo che il … confessi di essere l’autore”); qui Camus sorprende (“Un pazzo spara sulla folla”) e, per contagio (“Io soffrivo della peste molto prima di conoscere questa città e questa malattia”), ci ricorda di essere l’autore de “Lo straniero” (“Ho creduto che la società in cui vivevo fosse fondata sulla condanna a morte e che, combattendola, avrei combattuto l’assassino” … “Dal momento in cui ho rinunciato a uccidere mi sono condannato a un definitivo esilio”).

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    04 Settembre, 2015
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Ero gelosa fino alla pazzia

“Senso” di Camillo Boito ha per protagonista Livia, una giovane avvenente che sposa per interesse un uomo molto più anziano (“Per mio marito, che avrebbe potuto essere mio nonno, sentivo un’indifferenza mista di pietà e di disprezzo”). Durante il viaggio di nozze a Venezia (“… Avevo di poco varcato i ventidue anni, a Venezia. Era il luglio dell’anno 1865. Maritata da pochi giorni, facevo il mio viaggio di nozze”), Livia s’incapriccia di Remigio (“Era veramente bellissimo e straordinariamente vigoroso: un misto di Adone e di Alcide”), ufficiale (“Questo tenente di linea… aveva solo ventiquattro anni…”) tanto affascinante (“Il corpo muscoloso, stretto nella divisa bianca dell’ufficiale austriaco, s’indovinava tutto e rammentava le statue romane dei gladiatori”) quanto dissoluto (“Due sole volte e per un solo istante l’avrei bramato diverso”), vile (“Non so nuotare”) e profittatore (“Remigio ogni tanto mi domandava denaro”).
Livia è disposta a tutto (“Mi piaceva in quell’uomo la stessa viltà”) pur di assecondare la propria infatuazione: inganna il marito (“Una sera tolsi dal dito un anello, dono di mio marito, dove splendeva un grosso diamante, e lo gettai lontano nella laguna: mi parve di aver sposato il mare”), fornisce all’amante i mezzi per corrompere i medici militari (“No. Duemilacinquecento fiorini”) e sottrarsi agli obblighi della divisa (“Mi piangeva il cuore. Il diadema specialmente mi stava tanto bene”), lo raggiunge a Verona (“Una mattina calda… le prime notizie di una battaglia orribile: l’Austria era disfatta… Verona ancora nostra”) da Trento, contravvenendo al principio che in amore è meglio non far sorprese (“Volevo fargli un’improvvisata”)…
Scoperto il tradimento di Remigio (“Un lungo canapé verde su cui Remigio, sdraiato…”), Livia non ha esitazioni: ferita (“Nessuna donna mi può parere più bella di te”) nell’orgoglio e nella vanità (“Un pensiero bieco… il pensiero della vendetta”) realizza la propria vendetta (“Mi feci condurre nella mia carrozza al Comando della fortezza”) dissimulandola con la fedeltà (“Generale vengo a compiere un dovere di suddita fedele”) della filoaustriaca (“La delazione è un’infamia”).

La nobildonna narra la vicenda a distanza di tempo (“Trentanove anni! Tremo nello scrivere questa orribile cifra”), ma – nonostante gli anni trascorsi - si dimostra ancora volubile (“L’avvocatino Gino prende moglie”) e viziata, troppo abituata ad appagare il proprio ego (“Livia, sei un angelo”).

Anche per lo stile anticato, questo melodramma ha il potere di trasportarci sull’ottovolante degli ardori e delle bassezze di un amore impulsivo, che per sua natura si candida a essere rappresentato in modo scenografico come vistoso paradosso della passione.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    01 Settembre, 2015
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Non riuscivo a smettere di pensare al Presidente..

Le “Memorie di una geisha” di Arthur Golden introducono il lettore occidentale in una cultura tanto lontana – perfino negli aspetti culinari! (“Il suo spuntino preferito, fatto con il riso avanzato e prugne acide sott’aceto, il tutto inzuppato di tè bollente”) - quanto affascinante. Il tutto è celebrato al ritmo di una storia inventata di sana pianta, perfino nei riferimenti personali (come nel caso dell’artista Uchida Kosaburo: “Il famoso disegno a inchiostro… giovane donna in kimono ferma in posizione estatica e con gli occhi che le sfavillano”).

Questo commento si sofferma sulla seconda parte del romanzo: nella prima, la narrazione indugia sui meccanismi e sulle fasi iniziali di una professione (uno scienziato arrivò ad affermare che “La più sgargiante fra le scimmie antropomorfe è l’apprendista geisha di Gion!”) quasi sempre imposta e forse brutalmente calata nella vita di una bambina (“A quei tempi mi chiamavo Chiyo”) sottoposta a quelle che a noi sembrano coercizioni (“Eravamo costrette a rafforzare le nostre mani tenendole a bagno nell’acqua gelata finché non piangevamo dal dolore”) belle e buone.

Dopo un’infanzia infelice, Chiyo viene finalmente scelta come protetta da Mameha (“Da quel momento non fui più chiamata Chiyo. Ero diventata la novizia Sayuri”), l’importante geisha che la guida nella sua riscossa contro l’invidia e le cattiverie di Hatsumomo. In particolare a Mameha spetta l’educazione sessuale della “sorella minore”, che – nella migliore delle tradizioni orientali – viene condotta per simboli. “Sai cosa s’intende per l’anguilla vagabonda?... L’anguilla vagabonda passa la sua intera vita a cercare una casa; e che cosa credi che abbia una donna dentro di sé? Una cavità dove all’anguilla piace stare… quando hanno deciso che è confortevole, marcano il loro territorio… sputando”.

Mameha gestisce con astuzia l’asta che viene ingaggiata per le grazie di Sayuri (“Il mizuage, la prima volta in cui la cavità di una donna viene esplorata dall’anguilla di un uomo”): tra un medico, il Dottor Granchio, e Nobu, il direttore generale della Iwamaura Electric, da sempre innamorato ma rifiutato per il suo aspetto ripugnante (“Quando un’apprendista geisha è pronta al mizuage, presenta una scatola contenente uno di questi ekubo – un dolce di riso - a uno degli uomini che si sono intrattenuti con lei”), la spunta il primo. “Alla fine il Dottor Granchio acconsentì a pagare 11.500 yen” (quattro yen era la tariffa oraria di un geisha, 1500 yen il costo di un buon kimono). La perdita della verginità a quindici anni, nel 1935, viene vissuta con senso di estraneità di un atto che assomiglia più a un’operazione chirurgica che a una notte d’amore.
Sayuri, dal canto suo, è passata indenne (“Il barone ti ha spogliata?....Ti ha spogliata e ti ha guardato nello specchio. Ma non ha goduto con te… Allora va tutto bene”) attraverso le insidie (“Lo seguii in una saletta, sentendomi come un aquilone tirato da una corda”) tese dal barone nella sua fastosa proprietà (“Cigni neri scivolavano nello stagno con un portamento così fiero che mi fecero vergognare di appartenere a una specie tanto sgraziata come quella umana”). Così Sayuri diviene la geisha più importante del suo okiya e tra le più importanti di Kyoto, scalzando la perfida Hatsumomo dal suo ruolo. In particolare, viene adottata come figlia dalla Madre, che la preferisce alla coetanea Zucca, e recita un ruolo da solista (“Il sole mattutino sulle onde… parlava di una fanciulla che di mattina va a fare il bagno nell’oceano e si innamora di un delfino fatato”) nelle “Danze dell’antica capitale”.

Nel 1938, con la maggiore età, Sayuri si trasforma “da apprendista a vera e propria geisha… Chiamiamo questo passaggio «cambio del colletto».”
Giunge il momento di scegliere “il danna”, il facoltoso protettore (“Una geisha che speri di essere capita dal suo danna è come un topolino che si aspetti simpatia da un serpente”): ancora una volta Sayuri preferisce un altro uomo, il generale Tottori, a Nobu, con il quale in luogo dell’amore avrebbe potuto sperimentare “un en… un legame karmico che dura una vita”.

Il romanzo, scritto da un americano (“Un uomo ha un’unica cosa in testa”), vive perennemente il confronto con la civiltà occidentale (“A New York… la donna sta pensando: «Mio Dio… mi trovo con una prostituta…» … È una mantenuta, proprio come lo ero io…”) e non rinuncia alla dimensione fiabesca (“Suvvia, Sayuri, Che cosa credevi che fosse la vita di una geisha? Una storia d’amore?”) che – nella migliore tradizione occidentale – significa trionfo del bene sul male (rappresentato dalla malvagia Hatsumomo) e coronamento di un sogno d’amore (“Perché non riuscivo a smettere di pensare al Presidente?”).
Il romanzo aspira anche a costituire un’analisi storico-evolutiva che viene descritta, nella parte finale, con la chiusura del quartiere delle geishe in tempo di guerra, la successiva fase dell’occupazione americana e gli ultimi bagliori di una civiltà costretta a trapiantarsi negli Stati Uniti, adattandosi al luogo per conservare qualche sprazzo di sogno.

Bruno Elpis


Nella sezione "recensioni" di www.brunoelpis.it il presente commento viene pubblicato con le foto delle geishe di Kyoto (pare ne siano rimaste una sessantina)...

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    28 Agosto, 2015
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Occasioni che l’istinto rifiuta

Marguerite Yourcenar scrisse “Il colpo di grazia” (1938) attingendo a un fatto reale che accadde in Curlandia (l’attuale Lettonia) nel 1919, durante la guerra civile, e le fu raccontato.

Il soldato Eric von Lhomond (“I miei errori nel corso di questa ritirata in miniatura mi vennero utili qualche mese dopo durante le operazioni sul confine polacco”) vive a Kratowice con l’amato Corrado (“Nelle campagne la gente ci prendeva per fratelli, ciò che sistemava tutto agli occhi di chi non ha il senso delle amicizie ardenti”), Sofia, sorella di quest’ultimo (“con i sospiri annoiati di un’eroina ibseniana disgustata di tutto”) e la stramba zia Prascovia.
Sofia, che ha conosciuto prematuramente gli orrori della guerra (“Sofia era stata violentata da un sergente lituano…”), è innamorata del protagonista-narratore. Tuttavia Eric non solo non la corrisponde, ma addirittura si rapporta a lei in modo cinico. Le cause del rifiuto sembrano sia caratteriali (“La delizia si trasformò in orrore, scatenando in me il ricordo di quella stella di mare che un tempo mia madre mi aveva messo a forza nella mano, sulla spiaggia di Schevingen, provocando in tal modo in me, fra lo sbigottimento dei bagnanti, una crisi di convulsioni”), sia strutturali (“Ci sono anche delle occasioni a cui, a nostro dispetto, l’istinto si rifiuta”).
Eric sottopone Sofia a una serie di crudeltà, che rischiano di renderlo odioso agli occhi del lettore: la provoca (“Ebbi la brutalità di dire a Sofia che se avessi avuto bisogno di una donna lei era proprio l’ultima che sarei andato a cercare”), la induce a buttarsi tra le braccia di Volkmar salvo colpirla (“Io la presi per un braccio e la schiaffeggiai”), la oltraggia (“Le ragazze da marciapiede non devono assumersi la difesa della morale pubblica”). Le provocazioni prevalgono sempre sull’affetto, che trapela sporadicamente, come in occasione di un bombardamento (“Ora che lei è morta e che io ho cessato di credere ai miracoli, sono riconoscente a me stesso di aver baciato almeno una volta quella bocca e quei capelli ispidi”).
Ottenuto l’ennesimo rifiuto da Eric, Sofia reagisce in malo modo (“Mi sputò in faccia”), fugge e si unisce al nemico. Si vendicherà in modo estremo, in un finale spettacolare e degno della miglior tragedia greca (“Ho capito in seguito che voleva soltanto vendicarsi e lasciarmi un’eredità di rimorsi”).

Abilissima nel ritrarre la schietta personalità femminile di Sofia e quella più lambiccata di Eric (“Mi pare oggi che la sciagura abbia aggiustato tutto nel migliore dei modi”), analitica nell’addentrarsi nelle complessità di un rapporto triangolare (“Comunque non avrei creduto che tu potessi mescolare Corrado a tutto ciò”) e ambiguo (“Fui colpito dall’identità di quel grido… Fratello e sorella erano ugualmente puri, intolleranti e irriducibili”), in quest’opera Marguerite Yourcenar percorre le anse della crudeltà umana che gli individui e la storia declinano al ritmo perverso della guerra (“La nostra vita cauterizzata senza tregua dalla guerra”).

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    26 Agosto, 2015
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Quell’incantevole professore

“Sovvertimento dei sensi” di Stefan Zweig è il primo dei tre racconti che compongono la trilogia, pubblicata nel 1927, avente ad oggetto l’imprevedibilità e la forza del sentimento.

Con costruzione armoniosa fino al drammatico epilogo (“Nulla doveva, nulla poteva avvicinare il suo segreto”), “Sovvertimento dei sensi” narra la tensione emotiva che s’instaura nel rapporto tra Rolando, universitario di bell’aspetto, e un appassionato professore che, fin dal primo impatto, trasmette amore per lo studio e desiderio di conoscenza. L’intensità affettiva è bidirezionale: il professore contagia l’allievo con il fuoco sacro della passione culturale, lo studente invoglia il docente (“Gli occorreva… il nostro ardore per la sua ispirazione”) a riprendere la stesura di un’opera mai realizzata, che troverà compimento in incontri quotidiani durante i quali Rolando trascrive i contenuti sotto dettatura.
Nel corso di una delle misteriose sparizioni del professore, Rolando s’intrattiene con sua moglie e realizza così un tradimento (“Non lui, me stesso avevo derubato del mio più gran tesoro”) con il quale forse intende vendicarsi delle intemperanze subite in un rapporto tanto intenso quanto tormentato. Sino alla drammatica confessione che spiega ogni aspetto oscuro della relazione (“Lo amano appassionatamente senza riconoscere il volto d’Eros sotto la maschera dell’insegnante”) e che sospinge il lettore a paragonare mentalmente questo professore all’Aschenbach di “Morte a Venezia”.

Nel secondo racconto, intitolato “Tramonto d’un cuore”, un anziano in vacanza a Gardone intravede nottetempo la figlia uscire dalla camera di un ospite dell’albergo: da quel momento, sentendosi tradito e disprezzato, demistifica i propri sentimenti familiari (“Voi passate sopra di me come un osso sporco… Ma mia figlia, essa è graziosa e compiacente”) e precipita nel baratro dell’incuria e della follia.

Il terzo racconto, “Ventiquattr’ore della vita di una donna”, si svolge in una pensione della Riviera. Tra gli ospiti, la fuga di una donna con l’amante (“Henriette non se n’era andata sola, ma col giovane francese…”) viene vivacemente commentata (“Negavano l’esistenza del coup de foudre come un’invenzione romantica di cattivo gusto”) ed è occasione, per un’anziana aristocratica, per ricordare una notte bruciante d’amore con un giovane polacco, conosciuto al casinò di Montecarlo (“Aveva giocato come ultima posta la vita”) e strappato al suicidio. Per quel giovane, ludopatico e spergiuro, la donna avrebbe voluto commettere uno sproposito (“Il pensiero di avere per colpa propria mancato all’ultimo incontro, mi torturava ferocemente”)...

Quante manifestazioni può avere l’amore!
Chi può testimoniarlo meglio di uno scrittore che si suicidò sentendosi tradito dalla storia e dalla cultura europea?

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    24 Agosto, 2015
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Mai è un sacco di tempo

“La strada”, premio Pulitzer 2007 a Cormack McCarthy, è un romanzo post-apocalittico con due protagonisti: l’uomo e il bambino (“Il bambino era l’unica cosa che lo separava dalla morte”).

Si è verificata una catastrofe (nucleare?) e il mondo si spalanca desolato (“Impiegarono interi giorni per attraversare quella piana cauterizzata”) e devastato (“Tutto era ridotto in cenere”) davanti agli occhi dei pochi sopravvissuti. Il clima è mutato (“Lungo l’arido crinale, alberi scorticati e neri sotto la pioggia”) e i paesaggi sono desertici e grigi. Il padre intraprende il viaggio (“E stiamo sempre andando a sud”) con il figlioletto: i due sono i buoni, forse sono l’ultima chance per rifondare un’umanità distrutta, spaventata e condannata alla solitudine (“Perché non c’è nessuno a cui fare dei segnali. Giusto?”). Si aggirano con un carrello nel quale ripongono i viveri; una pistola è l’unico strumento di difesa del quale dispongono (“Tieni sempre la pistola con te. Devi trovare altri buoni, ma non puoi permetterti di correre rischi… Non puoi. Devi portare il fuoco”).

Il viaggio si svolge tra pericoli, stenti (“Stavano veramente morendo di fame”) e segnali preoccupanti (“Uno schianto fra gli alberi”). Le soste avvengono in prossimità di case abbandonate o bunker che talvolta celano l’orrore, del quale il bambino prende consapevolezza (“Non sapeva se il bambino avrebbe mai ripreso a parlare”).

Lungo il percorso, i due s’imbattono in esuli solitari o bande di superstiti (“Avanzavano strusciando i piedi nella cenere e dondolando le teste incappucciate. Alcuni portavano maschere antigas. Uno aveva una tuta antiradiazioni”) che spesso praticano il cannibalismo (“Se li mangeranno, vero?”). Quando arrivano al mare, la delusione s’impossessa del bambino (“La pelle cerea del bambino ormai era quasi trasparente”), che si ammala. Anche l’uomo si sente sempre più debole e una tosse insistente lo affligge…

Lo stile dell’autore si tronca in periodi brevi, spesso costituiti da singole parole; i dialoghi sono rapidissimi e mai in forma esplicita. L’atmosfera catastrofica incombe sull’intero romanzo che, nel finale, si squarcia in una prospettiva incerta, degna della luce minacciosa che illumina tutta la storia (“La traccia di un sole smorto che si muoveva invisibile oltre le tenebre”). Che sia avvertimento, futuro possibile o pericolo da scongiurare (“Migliaia di notti a sognare i sogni della fantasia di un bambino, mondi di volta in volta generosi o terrificanti ma mai il mondo che sarebbe stato davvero”), il romanzo entra direttamente nelle vene di chi lo legge. Ed è destinato a rimanervi (“Mai è l’assenza di qualsiasi tempo”).

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    20 Agosto, 2015
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Outing

In Alexis di Marguerite Yourcenar, troviamo l’antecedente letterario della confessione pubblica che oggi viene designata con l’espressione “fare outing”.

La storia è tragica: per via epistolare il giovane Alexis Géra, musicista, da Losanna scrive alla moglie Monique per confessarle i motivi del proprio allontanamento: l’omosessualità.
A tale risoluzione il giovane perviene dopo anni di silenzi (“Qualcosa… che mi sembra più intimo perché l’ho tenuto nascosto”) e contrasti, durante i quali il musicista ha combattuto contro la propria indole segreta.

A Woroïno (“Bambino, ne avevo paura. Comprendevo già che ogni cosa ha il suo segreto, gli stagni come il resto”), paese d’origine, Alexis vive l’indigenza familiare (“Ero l’ultimo figlio di una numerosissima famiglia; ero di natura cagionevole…”) in un ambiente ove le presenze femminili sono preponderanti. Dopo un periodo trascorso malvolentieri nel collegio di Presburgo, l’odierna Bratislava (“Alla mia sensibilità affinata dalla sofferenza ripugnavano ancor più tutte le promiscuità del collegio. Soffrivo della mancanza di solitudine e della mancanza di musica. Per tutta la mia vita, musica e solitudine hanno avuto per me la funzione di calmanti”), l’adolescente ottiene di tornare nella casa nativa. Lì (“Nella nostra regione passavano molti vagabondi zigani; alcuni di loro sono buoni musicisti, saprai anche che è una razza assai bella…”) per la prima volta cede ai propri impulsi (“Non oso raccontarti tutto ciò che in maniera molto vaga; camminavo, non avevo meta; non fu colpa mia se, quel mattino, incontrai la bellezza…”), che verranno poi contrastati soltanto in parte durante il successivo soggiorno a Vienna (“Proprio perché in quella città sconosciuta avrei potuto trovare occasioni più facili, mi credetti tenuto a respingerle tutte; non volevo venir meno alla fiducia dimostratami nel lasciarmi partire”).
Ospitato dalla nobile Caterina di Mainau nella sua residenza di Wand (“Il principe e la principessa non erano degli amici per me: non erano che protettori”), ove organizza concerti e impartisce lezioni, in quella sede conosce la futura moglie (“Poi sei arrivata tu”). Il matrimonio è una scelta tanto sofferta, quanto di copertura: “Mi credevo in diritto (o piuttosto in dovere) di non respingere l’unica possibilità di salvezza che mi offriva la vita”. Con queste premesse, l’epilogo è inevitabile: “Piangevi il più silenziosamente possibile perché io non me ne accorgessi, ed io fingevo allora di non sentire”. Anche Daniele, il figlio che nascerà, ovviamente, non muterà il corso di una storia che sembra tracciata e ineluttabile (“Non avendo saputo renderti felice, trovavo naturale addossare quel compito al bambino”).

Con uno stile volutamente implicito (“Non spaventarti: non descriverò nulla; non ti dirò i nomi…”) e allusivo (“Sorvolo sul sonnambulismo del desiderio, la risoluzione brusca che spazza via tutte le altre, l’alacrità della carne che, finalmente, non obbedisce più che a se stessa”), che non scade mai nelle possibili derive dell’argomento (“Avevo ormai preso l’abitudine delle complicità prezzolate”), Margherita Yourcenar affronta il dramma del conflitto: tra volontà (“Mi condannai, a vent’anni, all’assoluta solitudine dei sensi e del cuore”) e natura (“Le nostre azioni hanno soltanto valore di sintomo: è la nostra natura che dovremmo cambiare”), tra amore e sensualità (“Ma io preferisco ancora il peccato… piuttosto che una negazione di sé…”), tra impulsi individuali e obblighi sociali (“Il nostro ruolo, nella vita di famiglia, è fissato una volta per tutte in rapporto a quello degli altri”), tra rinunce e rimpianti (“Ciò che rimpiangevo, mentre risalivo di pensiero in pensiero, di accordo in accordo, verso il mio passato più intimo e meno confessabile, non erano le mie colpe, ma le possibilità di gioia che avevo respinto”), tra reticenza (“Il silenzio… è la più grave delle mie colpe”) e verità (“La vita mi ha fatto ciò che sono, prigioniero -se vogliamo - di istinti che non ho scelto, ma ai quali mi rassegno, e questa accettazione, spero, in mancanza di felicità mi darà la serenità”).

Basterà la conclusione (“Ti ho tradita; non ho voluto ingannarti”) a lenire la profonda tristezza che s’insinua nel lettore pur incantato dalla sublimità della Yourcenar?

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    17 Agosto, 2015
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Fenomenologia della settimana

“Il resto della settimana” è quello che intercorre tra una partita di campionato e quella successiva (“L’importante è quello che succede da subito dopo a subito prima”) nel romanzo in cui Maurizio De Giovanni dichiara a chiare lettere la sua passione per il calcio-Napoli.

In un bar-bugigattolo, tra riti, abitudini e passaggi occasionali di avventori, un professore in pensione decide di approfondire gli aspetti sociali e psicologici di un fenomeno individuale e collettivo che si celebra settimanalmente (Venerdì: “Il Professore aveva ormai le idee in corso di veloce chiarimento…. La comune convinzione, il senso di appartenenza, la vicinanza e perfino la mitologia condivisa. Una malattia forse…. Ma pur sempre un elemento fortemente identitario”).
Peppe, che gestisce il bar con l’ausilio di due collaboratori-macchiette, Deborah e Ciccillo (“Ciccillo… un colibrì ripreso da National Geographic in slow motion”), fornisce al professore le occasioni per apprendere storie (come quella dello scienziato che rinuncia alla sua carriera di ricercatore per portare il padre morente a una partita di coppa) ed episodi (su tutti: la vittoria dell’Argentina sull’Inghilterra grazie al goal segnato da Maradona con “la mano di Dio”) nei quali il calcio è l’elemento centrale.
Ruota così una girandola di situazioni, racconti e ricordi grazie ai quali il creatore del commissario Ricciardi rappresenta vizi (“Scooter dal parcheggio impressionistico”) e virtù della sua città, ridicolizzando abitudini (“Il famigerato Parcheggiatore Abusivo. Si tratta di una via di mezzo tra un grande coreografo e un enigmista abilissimo”), manie (“Sul muro del cimitero di Poggioreale: CHE VI SIETE PERSI!”), scaramanzie (“Un Coso triangolare e tricolore, nostro finalmente, ma che non avevamo il coraggio di nominare”) ed eccessi (“Turpiloquio a sfondo religioso”) della tifoseria (“L’elogio dei distinti”), ironizzando sulle pantomime giornalistiche che nei programmi-contenitore domenicali (“La canzone, dal titolo La gatta in calore, conteneva espliciti riferimenti sessuali che in bocca a una donna di quell’età erano particolarmente osceni”) dalle improbabili conduzioni (“Titty Love - D’Amore Maria Concetta, al secolo - molto decorativa ma completamente priva di qualsiasi attività cerebrale… scarpe lucide rosse, con un tacco tale da poter essere registrate come armi da punta”) hanno l’apoteosi (“Complimentandosi per il suo aspetto sorprendentemente giovanile e dicendo a tutti in questo modo che era una vecchia carampana”)…

Il tutto avviene narrando le gesta di un gruppo di amici (“Luigi brillava di luce propria, tanto era pallido”), dei quali viene ricordata l’epica trasferta a Torino (nella memorabile, non per me, partita del 9/11/86) contro l’odiata Juventus e rievocando alcune partite nelle quali risalta la figura di un sovrano indiscusso: lui, l’argentino, il capitano innominabile che ha fatto sognare un’intera città.

Non sopporto il mondo del calcio (pur trovandolo moderato, condivido il pensiero di Mario: “A me del calcio non me ne frega niente, ma se mai un sentimento è stato contagioso contagioso era quello”) e i suoi protagonisti, idolatrati (“L’umanità così si divide: ci sta chi le cose le fa, e chi le guarda fare”) per il fatto di saper armeggiare una palla con i piedi; ritengo che negli stadi si consumi una grande quantità di “oppio dei popoli” e non aggiungo altro.
Nonostante questa mia avversione e prevenzione, il romanzo mi ha strappato qualche sorriso e Maurizio De Giovanni dimostra abilità narrative e umorismo che gli consentono di affrontare anche argomenti che normalmente sono il ricettacolo di luoghi comuni e banalità (“E quando mai si è vista l’età sulla carta d’identità? L’età è quella che uno si sente”).

Bruno Elpis

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... "Tre atti e due tempi" di Faletti, sempre sul calcio
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    13 Agosto, 2015
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Aprì il libro e il libro smise di essere il suo

“Stoner” di John Williams è un protagonista davvero originale. Nella pluralità dei romanzi dominati da eroi eccezionali e superdotati, nei quali gli scrittori trasfondono il proprio egocentrismo e le ansie d’immedesimazione di un pubblico sovrano nel decretare un sempre più difficile successo commerciale, Stoner costituisce un’autentica rarità e si lascia apprezzare per il piglio recessivo e per l’atteggiamento di sopportazione stoica con il quale affronta le scelte, la lotta per la sopravvivenza, le delusioni, gli insuccessi e le difficoltà che per lo più costellano l’esistenza della moltitudine non appartenente alla categoria del superuomo.

John Williams designa il suo personaggio con il solo cognome, Stoner, e grazie a questa operazione ottiene nel lettore (che pronuncia Stoner, ma pensa a Bill, tetragono compagno di disavventure) la reazione opposta, non già per la terza legge della dinamica, ma per il fatto che chi legge si affeziona e si commuove per il docente universitario: non un genio, ma un ottimo e serio mestierante, che conserva il proprio spirito critico nelle turbolenze della vita e accetta che gli eventi s’inanellino in sequenza moderatamente e complessivamente tragica (“Arrivato a quarantadue anni, William Stoner non vedeva nulla di emozionante nel proprio futuro. Del suo passato, poco gli interessava ricordare”) sull’asse instabile dell’esistenza (“Si ritrovava a chiedersi se la sua vita fosse degna di essere vissuta”). Così si avvicendano la scelta dell’università e della professione accademica senz’ansia di carriera, il matrimonio infelice (“Erano entrambi illibati e consapevoli della loro inesperienza… Come per molti altri, la loro luna di miele fu un fallimento”) con Edith (“Edith accolse Stoner come fosse un estraneo e poi si allontanò con noncuranza…”), una povera nevrastenica che sul marito inizialmente innamorato atrocemente riversa volubilità e frustrazioni (“Quell’autunno… Edith sferrò l’ultimo attacco contro suo marito…”), i compromessi familiari (“Alla fine Stoner accettò il prestito”), il fallimentare rapporto con la figlia Grace (“Ho un bisogno disperato di bere”) strangolata da una madre debordante, una tardiva relazione extra-coniugale (“A quarantatré anni compiuti, William Stoner apprese ciò che altri, ben più giovani di lui, avevano imparato prima: che la persona che amiamo da subito non è quella che amiamo per davvero e che l’amore non è una fine ma un processo attraverso il quale una persona tenta di conoscerne un’altra”), i meschini giochi di potere che nell’ateneo come in qualsiasi ambiente lavorativo spesso costituiscono i principali meccanismi di funzionamento.

Con stile calibrato, aggraziato, lucido e appropriato alla vicenda (“Sembrava in grado, a piacimento, di rimuovere la sua coscienza dal corpo che la conteneva e di osservarsi dall’esterno come un estraneo che ripeteva i gesti di sempre in modo stranamente familiare”), John Williams dà adeguato risalto alla determinazione tollerante, dignitosa, a tratti stranita ed estraniante di un uomo che fa della sconfitta il proprio vessillo (“Ciò che sentiva era il peso di una tragedia collettiva, di un orrore e di un dolore così diffusi che le tragedie private e le vicissitudini personale venivano trasferite su un altro piano esistenziale…”) e che, anche in punto di morte, riesce a mantenere il suo distacco tollerante e filosofico (“Non riusciva a interessarsi più di tanto”), intravedendo nella cultura il senso – l’unico? - della continuità esistenziale che giustifica il misterioso procedere del mondo: “Aprì il libro, e mentre lo faceva, il libro smise di essere il suo”.

Bruno Elpis

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    04 Agosto, 2015
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Dov'è Anna?

“Dov’è Anna”, così s’intitolava uno sceneggiato degli anni settanta, che aveva per protagonisti due coniugi senza figli. Nello sceneggiato, la moglie scompare misteriosamente…
Anche in “Cosa resta di noi” di Giampaolo Simi i protagonisti, Edo e Guia, non hanno figli e la prima parte del romanzo è efficacemente incentrata sul dramma della sterilità di coppia (“Guia e io non eravamo capaci di metterlo al mondo”).

Guia è rampolla di un’ottima famiglia toscana, nonché scrittrice di belle speranze (“Ora Guia è in una pizzeria di Trastevere a parlare del suo prossimo libro con Franz Donati. Io sono qui, al mare d’inverno, e c’è solo un odore freddo di muffa e di legno umido”); Edo vive per lei (“Non ho più affittato la cabina dodici…”) e amministra la stazione balneare dei suoceri: il bagno Antaura (“Aura è … lo spirito vitale. Antaura è il suo opposto").

Poi Edo conosce Anna e, provocato dall’amico-bagnino Diego o forse perché afflitto dalla crisi coniugale, si concede una scappatella. Lo stesso giorno, Anna sparisce nel nulla (“Dal pomeriggio del 14 febbraio Anna Di Fosco svanisce nel nulla senza un motivo apparente, senza lasciare dietro di sé un biglietto o un indizio, nemmeno un’impronta sulla neve caduta per San Valentino”).

La scomparsa scatena la curiosità dei mass media, sempre pronti ad approfittare di ogni occasione per spettacolarizzare il dolore.
Come nel titolo dello sceneggiato, dov’è Anna? Si è ricostruita una vita felice in un posto lontano o è vittima di un femminicidio compiuto da Giangi, comico da strapazzo ed ex amante della donna scomparsa, che ha reagito in malo modo nel vedersi respinto?

Il noir è sorretto da un buon ritmo, da trovate narrative accattivanti (su tutte, quelle di una lettera manoscritta da Anna) e dal sarcasmo amarognolo con il quale Giampaolo Simi sbeffeggia gli aspetti deteriori della società contemporanea, nella quale i rapporti sembrano esistere in ragione della loro dimensione economica, televisiva o social…

Bruno Elpis

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Romanzi autobiografici
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    27 Luglio, 2015
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Una tigre costretta a essere una bambola

“Un cuore pensante” sospinge Susanna Tamaro nella dolorosa, affannata ricerca di una spiritualità che la società ostacola in ogni modo.

Nella prima parte (Tentativi di volo) la scrittrice cerca nella propria infanzia la matrice di questa estenuante disamina che talvolta è motivo d’orgoglio (“Una tigre costretta a essere una bambola!”), più spesso di sofferenza. La matrice sembra essere una personalità che si manifesta prestissimo, attraverso tendenze (“Il circo mi faceva piangere”) e preferenze (“Tra i sentimenti, il mio prediletto era la gentilezza”) che segmentano la bimba dagli altri (“Passare inosservata, l’aspirazione suprema”). Secondo me, questa è la parte più interessante del romanzo-diario: in essa la confessione retrospettiva (“La forzata genitalizzazione della realtà umana ci sta spingendo verso risacche di desolata tristezza”) individua già nei giochi (“Amavo le cose neutre: pattinare, pedalare, giocare a nascondino, raccogliere sassi”) l’aspirazione all’autenticità (“Diversità, il più delle volte, non è nell’identità sessuale, ma piuttosto nella dolcezza dell’anima”), il rifiuto delle imposizioni, l’esigenza di trovare risposte emotivamente e intellettualmente appaganti (“Veniamo da un’oscurità e ci dirigiamo verso un’altra oscurità”).

Nella seconda parte (La parte non misurabile), l’insoddisfazione e il dolore si razionalizzano nei quesiti vitali (“Chi aveva creato la vita aveva anche creato la morte? E per quale ragione?”) che sembrano non trovare risposta alcuna nella religione tradizionale (“La fede è l’esatto opposto dell’oppio”), troppo radicata nei meccanismi di una società che contrappone l’individuo al creato (“L’autismo elettronico ci rinchiude tutti in invisibili scafandri…”), l’apparenza all’essenza, l’artificialità alla realtà (“Bulimia di incontri virtuali che, in realtà, non sono altro che una carestia di incontri”).

Nella terza parte (Un faro nella notte) un incontro casuale (“Mi capitò di vedere il film di Zeffirelli su san Francesco… Quel ragazzo parlava con gli animali, come facevo sempre io quando mi trovavo sola nella pace dei boschi”) imprime una svolta decisiva (“Prendo solo la vita da voi, non altro”), favorita dal fatto che la ricerca assidua e pertinace ha l’effetto di produrre spirito critico (“L’arte… diventa convulsa esibizione di un narcisismo nichilista, innamorato dei suoi fantasmi de del degrado che possono generare”) grazie al quale è forse possibile riconoscersi (“Noi siamo partecipi della natura di Dio”) nella spiritualità che attraversa il mondo: “Quando questo spirito di maternità tornerà sulla terra, potremo finalmente sollevare lo sguardo verso il cielo e accorgerci che Dio non è un re, ma un nido”.

Una ricerca apprezzabile, un risultato sicuramente da comunicare e condividere, nonostante qualche eccesso dell’ego-riferimento (“Se così non fosse stato, il grande successo mediatico, la popolarità avrebbe travolto la mia vita, trasformandola nella pietosa rappresentazione di un personaggio”), che in una confessione – ad onor del vero - è forse inevitabile…

Bruno Elpis

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Romanzi storici
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    17 Luglio, 2015
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Cinquanta sfumature di Caligola


Il “Caligola” di Franco Forte in parte contravviene alla figura che dell’imperatore è stata fornita da storici come Svetonio: ossia di despota dissoluto, sanguinario e folle, che si macchiò di stragi e nominò il suo cavallo come primo tra i senatori (“Nominerò Incitatus console, con la ratifica del Senato”). Un sovrano, insomma, che ai giorni nostri potrebbe tranquillamente essere accostato a Gheddafi (per la lussuria: il libico si circondò di amazzoni; per il lusso: chi non ricorda la pistola d’oro di Gheddafi? e per le mille altre stranezze, come i guanti bianchi indossati dal colonnello africano per non toccare mani sporche di sangue); o al nord coreano Kim Jong Un, capace di giustiziare un generale perché si addormenta di fronte a lui…

In questo tentativo di prescindere dai precedenti, Franco Forte indugia nelle prime fasi della vita del futuro imperatore, per ricercare nell’humus familiare e nel contesto storico del I secolo dopo Cristo (“Chi è il prefetto della Giudea? Ponzio Pilato…”) i possibili antecedenti dell’abisso (parte III del romanzo) e della follia (parte IV) nella quale precipitò Gaio Cesare Germanico, ribattezzato Caligola (“Drusilla era la sola che avesse il permesso di chiamarlo ancora Gaio”) per via delle calzature che amava indossare.
In un clima perennemente minato dai dissidi familiari (“Quando… Gaio aveva saputo del suicidio della madre, aveva tirato un sospiro di sollievo…”), dalle lotte dinastiche per la successione al trono di Tiberio, da tradimenti e vendette (“Chi dobbiamo mandare a processo, oggi? … Le delazioni e le reciproche accuse fra senatori piovevano a ritmo continuo…”), Caligola adotta metodi difensivi (“Non è la prima volta che ci spii, vero?”) e pian piano afferma il suo potere con strumenti di repressione (“Pugnale e spada erano temuti più delle armi vere da cui avevano preso il nome…”) e con una politica demagogica che vede nella plebe un possibile alleato e nell’aristocrazia dei senatori un nemico da irridere e screditare.

Il romanzo scorre accattivante, anche grazie alle descrizioni suggestive del lago di Nemi (“Lo Specchio di Diana e, oltre l’orlo del cratere che racchiudeva il lago… Anzio, la città in cui era nato”) e al sottofondo erotico che si delinea in parallelo alle acrobazie politiche e ai delitti realizzati per tutelare la sovranità di un tiranno sempre più orientato verso i modelli di monarchia divina all’orientale (“Farò costruire un ninfeo…”). Sulla base di una convinzione: “Insieme al denaro e alla lusinga del potere, il piacere sessuale era lo strumento più semplice per ottenere ciò che si voleva e Gaio aveva capito che saperne sfruttare i segreti e le tecniche più raffinate avrebbe potuto dargli modo di mettersi in vantaggio su molti.”
E sono cinquanta e forse più le sfumature dell’erotismo di Caligola: a partire dall’iniziazione in tenerissima età - aveva soltanto cinque anni! – quando il bambino partecipa agli incontri sessuali con due legionari, Flavio e Aurelio, ai quali procaccia giovani schiave da barattare con lezioni militari. Per poi attraversare quattro matrimoni, a caccia della donna che lo renderà finalmente padre. Passando attraverso tutte le declinazioni del sesso: attivo, passivo (“Alternando l’impeto dell’amore romano con la passività di quello greco”), ambiguo, esibizionista con la bella Ennia di fronte al marito Macrone, incestuoso, preferibilmente consumato con l’amata sorella Drusilla (“La sorella era la sola di cui gli importasse veramente qualcosa, oltre a se stesso”) e con il trans Micenio (“Ti presento Micenio, disse Agrippa indicando la schiava”).

Bruno Elpis

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Caligola di Camus
Gli altri romanzi storici di Franco Forte
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    15 Luglio, 2015
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Come poteva un uomo vivere senza suo padre?

“La confraternita del Chianti” di John Fante è una malassortita compagine, che ruota intorno a un fulcro magnetico: Nick Molise, scalcagnato patriarca (“Era un pessimo giocatore, disperato, terrificante… Doveva proseguire fino alla distruzione finale, come uno deciso a sacrificarsi a una passione fatale”) di una famiglia riottosa (“Il nostro era un clan impulsivo, imprevedibile, incline alle decisioni brucianti e a terribili rimorsi”), alla quale appartiene il narratore, il figlio Henry, scrittore (“Reggevo il suo libro tra le mani… e capii che non sarei mai stato più lo stesso… Volevo pensare e sentirmi come Dostoevskij. Volevo scrivere”), alias John Fante in persona!

I confratelli (“Erano una ghenga di strambi, irascibili, duri individui da previdenza sociale: gente ringhiosa, frontale, vecchi bastardi maligni e aspri, che però se la spassavano colo loro spirito crudele e i modi profani del loro cameratismo”) sono italo-americani (“Joe Zarlingo, un macchinista delle ferrovie in pensione”) dai nomi incontrovertibili (“Lou Cavallaro, un frenatore in pensione; Bosco Antrilli, che una volta era il capo dell’ufficio telegrafi…”), biscazzieri devoti al dio Bacco, che hanno in Angelo Musso - ottuagenario vignaiuolo (“Erano… i suoi schiavi, angosciati quando il raccolto andava male, poiché il suo vino era come il latte della loro seconda infanzia”) - il loro empio, ieratico sacerdote (“Baciai quella mano che sembrava fatta di sole ossa e cartapecora”).
L’equivoco caffè Roma è il loro quartier generale e lì organizzano la bislacca spedizione che ha uno scopo dichiarato (costruire “Un affumicatoio di pietra, su, in montagna” nel motel di Sam Ramponi, profittatore da strapazzo) e un significato più recondito.

Henry, richiamato dai fratelli a San Elmo per sedare una delle tante liti scoppiate tra i genitori, si ritrova invischiato nella spedizione: su un furgone scalcinato (“L’interno faceva pensare a una casa di tolleranza semovente adibita al servizio di un muratore con tutta la sua attrezzeria”), gli intrepidi s’inerpicano per le strade di un Colorado nel quale impropriamente viene proiettato il Chianti, tra i colori di una natura che ha qualcosa di ancestrale: “I fianchi deliziosi delle colline autunnali filavano dietro i finestrini: alberi di manzanita, querce nane e pini, e poi fattorie, vigneti, mucche e pecore al pascolo tra rocce bianche, e boschetti di peri e di peschi. Da quelle parti, l’autunno era una stagione forte: la terra mostrava i muscoli, la propria fertilità, e nell’aria c’era un senso di selvaggia energia”.

Il risultato della spedizione è li da vedere (“Era primitiva, era tutta storta”).
Fallimentare?
Niente affatto. L’esperienza di Henry ha il sapore di un ritorno alle origini e si carica di simboli nel percorso che rappresenta l’accompagnamento dell’indomito, ruggente padre tra le braccia della morte (“Avevo visto il bagliore della morte sul viso di un vecchio che si aggrappava strenuamente alla vita”).

Il romanzo è delizioso: nel rappresentare un’italianità archetipica (“Ma lui era un caprone d’Abruzzo dalle corna iniettate di veleno, e non cedeva”) che mai si banalizza negli stereotipi (“In quell’indecente soprabito da bordello di zia Carmelina”). In un linguaggio apparentemente casuale (“un matto di un dago”), sempre carico di espressioni vive (“i rampolli di quelle vecchie spingarde”), in un clima perennemente in bilico tra l’ironia malinconica e la nostalgia sferzante dell’artista che ha la lucida consapevolezza di possedere quel talento che il mondo, altrettanto pervicacemente, non gli riconosce...

Bruno Elpis

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... il ciclo di Bandini!
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    13 Luglio, 2015
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Ogni film… è una storia d’amore che finisce

Ho letto Sei la mia vita di Ferzan Ozpetek proprio nel periodo in cui Facebook metteva a disposizione un’applicazione (divenuta poi virale) grazie alla quale l’utente poteva trasformare il proprio profilo con i colori dell’arcobaleno per celebrare la sentenza della Corte Suprema USA sui matrimoni gay. “Io so già cosa vedrei. Vedrei tutti i colori dell’arcobaleno, perché tu sei il rosso dell’amore possibile e il viola di quello perduto, il verde dell’amicizia che non morirà mai e il giallo della felicità assoluta”.

Ferzan Ozpetek trasfonde anche nella scrittura il proprio senso della regia cinematografica, sceneggiando una storia d’amore nell’abitacolo dell’auto in occasione del viaggio da Roma alla casa di montagna del compagno del narratore. Che approfitta del tragitto per raccontare ogni recesso della sua vita all’amante, che lo ascolta muto.
Il regista di “Saturno contro” sciorina ricordi, piccoli segreti, confessioni. Dai ritrovi tra amici del condominio di via Ostiense (“Le domeniche in terrazza”) agli amori precedenti (“Federica è stata una delle donne più importanti della mia vita”), dalle vacanze trascorse sulla trasgressiva spiaggia “Il buco” (“A Roma questa rete di uomini discriminati, che avevano fatto della discrezione la loro filosofia di vita, veniva chiamata «la banda di velluto»”) alle sperimentazioni erotiche (“Con un uomo è diverso, lo sai… Oltre al desiderio e alla sensualità, c’è una complicità diffusa che ti avvolge e ti sostiene, certi equilibri non vengono toccati, solo ridefiniti. Ma con una donna, be’, all’improvviso il tuo spazio si trasforma, i tuoi ritmi si dilatano, poi si restringono. È una tempesta di emozioni. Puoi anche non capire più chi sei”), dalle frequentazioni alle conoscenze (“Rossella… da tempo, voleva con tutta se stessa un figlio… stavamo appunto festeggiando perché il nostro spot aveva vinto un premio…”). Passando attraverso le imprese teatrali e tragicomiche della transessuale Vera, le idee sull’amore omosessuale, il terrore degli anni ottanta per il dilagare dell’AIDS.
Memorie e successi professionali (“Ogni film, in fondo, è una storia d’amore che finisce”), tragedie private e relazioni intense, memorie infantili (“la signora Circassa”) e familiari (“Mia nonna… era stata sposata con un pasha per ben due volte”) sono cucite insieme dal sentimento vero e profondo che il narratore dichiara al compagno, dal quale il lettore attende reazioni e repliche per tutto il romanzo. Sino al colpo di scena finale (“Il tempo delle mummie… per noi è finito”), che s’intuisce, ma tuttavia sorprende più per il connotato umanitario che per la soluzione narrativa.

Tra principi (“La verità è che non esiste amore senza follia”) e professioni sentimentali (“L’amore ti cerca, spetta a te farti trovare”), citazioni poetiche (come quella della “poetessa polacca Wislawa: Ti sono sopravvissuta solo/E soltanto quanto basta/Per pensare da lontano…” ideale per rappresentare “il totale struggimento per l’assenza di chi ami, che diventa ancor più dolorosa se ripensi ai luoghi dove si è stati più felici”) e scelte ideologiche, “Sei la mia vita” incuriosisce, strappa qualche sorriso, commuove, fa riflettere sul genere che può assumere l’amore. Per concludere che non è maschile, femminile o neutro, non è eterosessuale e neppure il suo contrario.

Bruno Elpis

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... Camere separate di Tondelli
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    10 Luglio, 2015
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Una puntura d’insetto che sembra molto lieve

“Perché tu non ti perda nel quartiere”, l’ultimo romanzo di Patrick Modiano, ricorda potentemente un’opera precedente, “L’erba delle notti”.
Nella Parigi ove vie e luoghi sono circuiti esistenziali e gli edifici custodiscono segreti di permanenze, ricostruzioni e trasformazioni, il protagonista – uno scrittore scontroso (“E poi il telefono non suonava più da mesi”) e dalla memoria labile (“Ma con il tempo tutto quel passato era diventato così traslucido”) – si aggira pungolato dal desiderio di ricostruire un passato indefinito che prende forma nelle pagine del romanzo come una scultura che viene via via sgrossata dall’artista, una scultura che – a opera ultimata – mantiene i tratti grezzi e abbozzati della materia.

L’occasione per avviare questo percorso viene fornita da una telefonata: Gilles Ottolini, un individuo ambiguo e strano, ha ritrovato il taccuino che Daragane ha smarrito (“In caso di smarrimento restituire questo taccuino a”). Ottolini chiede d’incontrare lo scrittore e, nell’occasione, si dichiara interessato ad approfondire le vicende che riguardano uno dei nominativi inclusi nell’agenda (“Guy Torsel non gli diceva niente”).
Daragane, insospettito dal fare equivoco di Ottolini, che ben presto si rivela un impostore, oppone resistenza alle richieste (“Fra quei numeri di telefono non ce n’era nemmeno uno che avrebbe avuto voglia di comporre. E poi, i due o tre numeri mancanti, quelli che avevano contato per lui e che ricordava ancora a memoria, non avrebbero più risposto”), ma nel frattempo riattiva gli ingranaggi inceppati della memoria, individuando in una sua opera (“Torstel… lo ha usato in Le noir de l’été”) lo snodo per riavvolgere i fili di una trama vitale che si è sfilacciata nel tempo (“Ti interessa sapere perché ti ho portato a fare le fototessere?”). Intanto le telefonate si fanno sempre più insistenti e minacciose…

Tempi (“Ma in estate tutto resta in sospeso – una stagione metafisica…”), spazi e persone (“Ho anche cambiato il nome proprio… Agnès Vincent”) sono intarsi da connettere nella poetica di Modiano, che affida all’arte una funzione segnaletica e ausiliaria (“Per lui scrivere un libro voleva anche dire lanciare segnali luminosi o Morse all’indirizzo di persone di cui non sapeva più niente. Bastava seminarne a caso i nomi tra le pagine e aspettare che loro dessero notizie”) rispetto alla complessità delle vicende umane, dei meccanismi mnestici e sentimentali. Anche questo romanzo è sospeso in un’indeterminatezza che affascina e sospinge, tra le incongruenze esplicative che fanno da contrappeso alla puntigliosità e alla concatenazione degli indizi…

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    08 Luglio, 2015
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Aspetterò, sognerò. Qualcosa succederà.

“Il commesso” di Bernard Malamud è un romanzo che narra la lotta condotta da un avventizio per l’autoaffermazione in una società imbevuta di pregiudizi e dominata da forze che contrastano il desiderio di riscatto dell’individuo.

L’ebreo Morris gestisce il suo negozio in condizioni di sussistenza minima, al punto che la bella figlia Helen (“Aspetterò, sognerò. Qualcosa succederà”) è costretta a rinunciare agli studi e a convertire parte del suo stipendio allo scarno bilancio familiare.
Due malfattori rapinano i magri incassi di Morris e lo feriscono; poco dopo compare sulla scena Frank Alpine un giovane immigrato (“Il suo aspetto la colpì; gli occhi erano allucinati, affamati, tristi; credette che sarebbe entrato a chiedere l’elemosina e decise di dargli dieci cents, ma Frank scomparve”), che si propone come commesso in cambio di ospitalità e benevolenza.
Il nuovo venuto combatte per affrancarsi da un passato di stenti ed emarginazione (“Io passo da una cosa sbagliata a un’altra e finisco sempre in trappola”); con il proprio lavoro risolleva le sorti del negozio (“La ragione del miglioramento del negozio era… perché questo abitante di cantine… non era ebreo”), ma vive in perenne conflitto tra le tentazioni del denaro (“Gli scrivo una bella letterina dicendogli chi ha fatto la rapina il novembre scorso”) e della carne, soprattutto quando s’innamora di Helen (“Non ti vergogni di aver baciato un goy?”) e la spia (“Pensò che avrebbe potuto puntellarcisi per guardare nel bagno”).

“Mi dica, Morris, se qualcuno le chiedesse in che cosa credono gli ebrei, cosa risponderebbe?”
“Tutto quel che occorre è un cuore buono… Quel che conta è la Torah… un ebreo deve credere nella Legge”

Dopo alterne vicende, quando alla famiglia di Morris la sorte sembra arridere con la promessa di vendita del negozio, un lutto si abbatte e, in questo momento, Frank è chiamato ad opporsi ai preconcetti (“Fetente giudeo”), per affermare la sincerità dei suoi sentimenti e fornire una prova definitiva del proprio amore.

“Il commesso” è una storia condotta con stile lucido e minimalista, per dimostrare come l’individuo possa prevalere con l’autodeterminazione e con la volontà sui meccanismi soffocanti della società.

Bruno Elpis

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Romanzi autobiografici
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    06 Luglio, 2015
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L’amore, come la satira, ottunde

“Vacche amiche” è un’autobiografia che Aldo Busi scrive con la tecnica della vernice a spruzzo, disseminando episodi a singhiozzo in un terreno fertilizzato dallo spirito critico e dalla libertà stilistica.
Il titolo costituisce un ossimoro con la cover, affidata alla riproduzione di un’opera di Fabio Romano (Paesaggio 2008).

Durante il viaggio verso Davos, il racconto si snoda bizzoso, stizzito, a momenti nostalgico, con toni che oscillano tra il narcisismo creativo (“I neon che accecano ogni umano discernimento, il mio a parte”), la polemica sociale (“Il mio dolore era un dolore tutto sommato occidentale e ormai privilegiato, un dolore che non usciva da una guerra, da una fuga fortunosa da un paese martoriato…”), l’indifferibile solitudine (“Più si allungano le aspettative di vita, più si accorciano quelle di stare in compagnia”) che costringerebbe chiunque in un angolo: chiunque, non Aldo Busi.

Oltre alle memorie dell’infanzia e della gioventù, colpiscono le riflessioni sulla condizione dello scrittore contemporaneo (“La prima volta che andai in televisione… mi fu chiesto quanti erano secondo me in Italia i lettori che avrebbero potuto leggerlo – ndr: Vita standard di un venditore provvisorio di collant -… Risposi di getto, Diecimila… oggi… risponderei Seicentosessantasei, tanto per gradire e perché la televisione vuole le sue diavolerie di risposte un po’ d’effetto, ma anch’io come Manzoni penserei Venticinque, e non uno di più”) e sulla letteratura dei nostri giorni (“Morta è ogni cultura che non sia edibile all’istante, collettivamente partecipata e che non raggiunga il suo apice in un karaoke da social network o da saga del cartaceo con incontro d’autore transeunte…”). Con qualche buona parola sui romanzi d’intrattenimento (in particolare, Aldo Busi si scaglia – senza mai nominarla - contro Donna Leon, americana che vive a Venezia e che lì ha ambientato le gesta del commissario Brunetti: ben 17 romanzi, pubblicati in 23 lingue ma non in italiano, per precisa scelta dell’autrice).

La parte centrale è strutturata sull’analisi del rapporto con tre donne, quella finale vira verso una proposta vitale che vede, forse, una via d’uscita nel ritorno alle origini contadine ed essenziali.

Lo stile è dovizioso, esagitato, talvolta delirante, provocatorio, stimolante, con qualche immancabile aforisma: “L’amore, come la satira, ottunde. Il sesso, come la letteratura, affila”.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    02 Luglio, 2015
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Una spina in fronte, una nel cuore

La “Santa degli impossibili”, per Daria Bignardi, è santa Rita (“Voleva così tanto essere partecipe della passione di Cristo che un giorno ricevette in fronte una spina della sua corona: si vede ancora oggi sulla mummia. Un altro miracolo”).
A lei perviene, dopo un itinerario piuttosto sofferto, Mila. Giornalista milanese, coniugata a Paolo, che ha conosciuto grazie a un gatto ( “Monaldo… Paolo e io ci siamo conosciuti grazie a lui”) quando operava come supplente in un ricovero per animali, madre di Maddi, che interviene nella narrazione per fornire il punto di vista dei figli, e di due gemelli, Mila avrebbe tutti i prerequisiti per essere felice… Ma la felicità non si costruisce a tavolino, non la si può programmare o ottenere con la vita familiare, né la si conquista con qualche impegno sociale, tipo volontariato nel carcere di san Vittore (“Quando sto coi bambini, o con gli animali. O coi detenuti. Ma anche al bar”). In Mila talvolta affiorano impulsi autodistruttivi e un disagio strutturale (“A me piace vivere… La cosa che mi viene… è come un mancamento, un’ebbrezza”).
Il ricovero in ospedale dopo un incidente misterioso e la conoscenza di Annamaria aprono uno squarcio di spiritualità e di sorpresa trascendente (“Sfoglio il libro che mi ha mandato Annamaria, una raccolta di disegni di Dino Buzzati sui miracoli di Santa Rita. S’intitola I miracoli di Val Morel”). Chissamai che sia la via giusta da praticare, per approssimarsi a quella felicità che troppo spesso ci sembra irraggiungibile.

La storia è breve, complessivamente triste, ma lascia intravedere qualche spiraglio. La razionalità espositiva della Bignardi, che conosciamo come intervistatrice televisiva talvolta brusca nei cambiamenti di registro, fa da patina al tumulto dello stress sociale e dell’insoddisfazione interiore, in un esperimento essenziale nella forma, interessante nel risultato.

Bruno Elpis

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    29 Giugno, 2015
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Lo scafandro del detective

“Un conto aperto con la morte” di Bruno Morchio è la prosecuzione della storia narrata nel precedente romanzo “Lo spaventapasseri”.

Bacci Pagano, il detective bello e dannato che opera nella città della Lanterna, ha subito un attentato nel quale ha riportato un grave danno alla colonna vertebrale. In attesa del rischioso intervento chirurgico dall’incerto esito, vive con impazienza e tormento la propria inabilità temporanea (“Imbragato com’era nello scafandro ortopedico”), costretto all’inerzia forzata nel suo appartamento. Gli amici, il senatore Cesare Almansi (“Figlio di una borghesia interclassista educata alla scuola di don Sturzo e Primo Mazzolari”) e Gina Aliprandi, pensano bene di distrarlo da preoccupazione e dolore affiancandogli un noto scrittore, che ha l’incarico di imbastire un romanzo nel quale narrare un caso poliziesco di Bacci (“Insomma, vuole scrivere a tutti i costi un romanzo-verità”). Detto, fatto: perché il caso da narrare è quello che Pagano sta vivendo e consiste nell’individuare ragioni e responsabili dell’attentato che l’ha colpito così duramente (“Perché tu… resti convinto che l’attentato contro di te sia collegato all’omicidio (di Adele) Semeria”).

L’idea di fondo è quella di sovrapporre realtà e finzione, vita vera e racconto della stessa per esplorarne le connessioni. Perché sia il Bacci investigatore, sia il romanziere Gian Claudio Vasco (“Il mio ruolo è quello di un alter ego”) sono, in fondo, gli alter ego dello scrittore.
Per condurre questa operazione, Bruno Morchio si avvale della ricerca psicologica: così nella casa di Bacci Pagano sfilano la figlia, la ex moglie, amici e amanti, che riportano a galla passato, trascorsi e sottofondi ideologici (“Con Clara… una relazione intermittente, come si usava allora, quando si sperimentava su tutto e anche i sentimenti venivano influenzati da una razionalità che all’ipocrisia aveva sostituito l’autoinganno della verità a tutti i costi, fra coppie aperte e improbabili comuni dove il sesso libero era insieme premio e condanna, sollievo e maledizione”).
Ma l’autore utilizza anche una tecnica interessante: il ricorso a riferimenti letterari che agiscono non soltanto da raffinato substrato (“Il pensiero d’essere tirato in ballo per distrarlo dall’idea della morte mi ricordò la storia di Sheherazade; peccato che nel nostro caso chi doveva raccontare era lui”), perché sono elementi costitutivi della trama, decisivi per la soluzione del caso. Così è per “I fratelli Karamazov” di Dostoevskj (“Del resto, quella verità appariva troppo letteraria per essere ammessa nell’aula di un tribunale”), così vengono citati “A sangue freddo” di Truman Capote e la pulsione gregaria di “Psicologia delle masse e analisi dell’io” di Freud.
Anche per questo il romanzo, finalista al Premio Nebbia Gialla 2015, può costituire spunto per interessanti riflessioni che vanno al di là del mero intrattenimento, nella splendida cornice di una Genova viva, che non è soltanto panorama suggestivo dalle finestre dell’appartamento di Bacci Pagano.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    25 Giugno, 2015
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La mia palinodia divenne sorte

Patrizia Rinaldi torna “Ma già prima di giugno” e propone un nuovo modo d’essere romanziera, accantonando il noir di Blanca, per scrivere questa saga storico-familiare dai tratti originali.
Demandando alla sinossi il compito di fornire informazioni sul contenuto del romanzo, in questo commento preferisco giocare con il titolo, e prima ancora soffermarmi sulla bella cover, un ensemble di grazia femminile e gusto retrò, con il particolare vintage della radio d’epoca a valvole.

Giugno è mese di grande evocazione letteraria con l’incipit affidato all’Elio Pagliarani di “Inventario privato”: “Ma già prima di giugno/la mia palinodia divenne sorte”.
Nei particolari: “Porto sempre il telefono con me, anche se non è ancora giugno”.
Nelle speranze: “Quando la frattura si sarà ricomposta (inutile, sarà dopo giugno)”.
Nella rassegnazione: “Ma no, che devo morire a giugno, non ne vale la pena”.
Ancora nella rassegnazione: “Capirai il danno, non mi resta molto fino a giugno”.
Nell’attesa: “Quanto manca per giugno?”
Nella resa: “Va bene, confesso, ma in anticipo, non è ancora giugno”.
In un moto di ribellione: “Anche questo fatto di giugno è una bufala”.
Nelle bugie declamate al medico: “Gli recito … il limite del giugno che non afferra”.
Nel dubbio: “Non sono così sicura che morirò a giugno, lo sai?”

Una figlia vecchia (“Gli esercizi per la felicità invece li ho fatti per anni”), una madre giovane (“Sì ho studiato. Senza la guerra mi sarei laureata, ma intanto lavoravo. Ho un titolo finito di maestra. Una donna istruita. Hai fratelli? Uno piccolo, sta con noi, e tre sono prigionieri in Germania… Torneranno?”). Ci raccontano. Si raccontano. La madre per bocca della figlia. La figlia in proprio. Mentre scorrono in flash back eventi storici dei quali la mamma giovane (“Sono Maria Augusta, la moglie del tenente Augusto F.”) si è resa protagonista: la guerra in Jugoslavia (“La reazione sarebbe stata crudele: le parti peggiori di due popoli stavano per sposarsi con la benedizione della grancassa del sangue”), la fuga da Spalato (“A Spalato non si può più restare, i titini hanno dato inizio alle rappresaglie”), l’approdo a Brindisi tra i morsi della fame che inducono a rubar formaggio a un pastorello (“Il primo morso la fece cattiva e felice”), il ritorno a Napoli, la deportazione di tre fratelli (“La sua carriera da kapò fu veloce e brillante, al punto che poté ammazzare K.M.”), la morte del marito nelle foibe, il dopoguerra (“Maria Antonia, la guerra mia comincia ora. Quella che è finita era la guerra degli altri”), le contese legali per assicurare alla figlia Lucia l’eredità di una villa la mare, una scelta scandalosa…

Lo stile di Patrizia Rinaldi è una bella novità, nel suo modo di esprimersi è bello ricercare contenuti che giungono come ondate e ti sorprendono.
E questa frase, “Non possiamo andare a Nisida e voi lo sapete bene” non ricorda “La gita al faro”?
”… Se fossero andati finalmente al Faro…”
“Domani non andremo al Faro; e sentì pure ch’egli avrebbe serbato per tutta la vita il ricordo di quel rammarico.”
“Domattina no, rispose la madre, e promise: Però ci andremo presto, il primo giorno di bel tempo”.
Io, “Ma già prima di giugno”, vi ho colto lo stesso senso dell’attesa perenne che incombe sulle nostre vite.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    23 Giugno, 2015
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Chi non ha gambe abbia testa

Marco Vichi interpone “La sfida” tra due protagonisti di un racconto lungo dall’esito incerto. I due che si sfidano sono Davide Yalta, un paralitico di origine ebree, che vive in un lussuoso appartamento perfin dotato di palestra, e Trotti, sceneggiatore-scrittore in crisi creativa. Oggetto de “La sfida” è la conquista della bella Elena.

I due si conoscono casualmente in un bar, ove Davide cattura l’attenzione per la sua incostanza. Pronuncia frasi che vorrebbero essere provocatorie e suscita una reazione ibrida d’interesse e antipatia (“Faceva di tutto per essere antipatico e se ne compiaceva”). Nonostante il difficile impatto iniziale, i due uomini finiscono per frequentarsi e Davide racconta all’altro l’origine della sua menomazione (“Eravamo in due a voler nascere, ma si vede che nella pancia di mia mamma non c’era posto a sufficienza. Le mie gambe dovevano lottare con la testa del mio gemello…”), la sua storia (“Mi parlò di suo padre, di suo padre, di suo padre. Nei suoi racconti mancava la mamma”) e svela di essere innamorato di una bella vicina, Elena, che desidera invitare a casa (“Ho colto tre cose. Fastidio, meraviglia, imbarazzo”). Quando Trotti s’imbatte nella vicina, dalla quale si sente attratto, non riesce a resistere alla tentazione anche un po’ insana (“Quel giorno imparai sulla mia pelle cos’era la vigliaccheria”) d’infliggere una sconfitta a Davide.
Chi risulterà vincitore della sfida?

La storia si mantiene sempre sul filo tra il cinismo nel rappresentare l’handicap (“Chi non ha gambe abbia testa”) e il desiderio di normalizzazione. I toni paradossali e iperbolici, a mio parere, non invogliano ad affrontare il tema in modo adeguato, perché in chi legge prevale lo stesso sentimento di rifiuto e d’imbarazzo che Davide suscita con le sue provocazioni.

Bruno Elpis

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    19 Giugno, 2015
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Una relazione da tenere segretissima

Per Andrea Camilleri il termine “La relazione” ha una duplice valenza in questo romanzo non appartenente all’universo del commissario Montalbano.

Innanzitutto “La relazione” è il rapporto ispettivo che l’integerrimo Mauro – funzionario della vigilanza bancaria (“Sono un ispettore bancario… mi mandano a ispezionare le banche per vedere se tutto è in regola”) incaricato di indagare su un’azienda di credito in odore di truffe e corruzione – sta stilando, per trarre le conseguenze del caso.
Anche per questo, Mauro subisce molte e varie (“Mutti, poco fa mi hanno telefonato dalla casa editrice per dirmi che quell’enciclopedia che avevi prenotato...”) azioni di disturbo (“Che tradotto significa: state attenti come vi muovete con la Banca Santamaria”) che aumentano per intensità e per potere devastante (“… stanno scatenando una guerra dei nervi contro di lui?”) sulla vita lavorativa e privata dell’ispettore, riversando su di lui una carica di apprensione (“… è vero o no che sua sorella è deceduta in una clinica per malati di mente?”) nel groviglio degli interessi di personaggi altolocati (“La denunzia all’Autorità Giudiziaria… Quindi guai grossi per il Sottosegretario, il Senatore e compagnia bella anche se non coinvolti in prima persona”) e dei meccanismi di carriera tra superiori collusi e colleghi rapaci.

Nella seconda accezione, “La relazione” è quella che Mauro intreccia con Carla (“Una relazione da tenere segretissima come quella che stai scrivendo?”), la bella escort che – sempre per uno degli equivoci montati ad arte dai burattinai occulti – viene inviata a casa di Mauro, mentre la moglie Mutti è in vacanza con il figlioletto.

Il clima è un misto tra la commedia del paradosso e il romanzo di tensione, forse paragonabile a “Il sospetto” (Suspicion) di Alfred Hitchcock, il film tratto dal romanzo “Before the fact” di Anthony Berkeley nel quale la protagonista si sente minacciata dal marito e in ogni gesto del consorte legge un progetto preordinato dall’uomo per impossessarsi dell’eredità.
Fin dalle prima pagine s’intuiscono orientamento ed epilogo della vicenda, ma bisogna pur riconoscere che Camilleri (“IL FUMO UCCIDE. Sorride. La frase minacciosa potrebbe essere facilmente stravolta. IL FUMO UCCIDE LA NOIA”: e questo passaggio non ricorda la parodia di Fiorello che, qualche anno fa, rappresentava lo scrittore come accanito fumatore?) è maestro di intrighi ambientati nell’humus italico.

Bruno Elpis

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... consigliato a chi ha visto "Il sospetto" di Hitchcock
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Romanzi autobiografici
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    17 Giugno, 2015
Top 10 opinionisti  -  

Bimbo mio, non piangere più

“Un bambino piangeva” è un romanzo breve nel quale Aldo Nove riconferma la propria vocazione per la poesia.
L’occasione è qui fornita dall’autobiografismo dei ricordi di quando Antonello nelle vacanze estive partiva da Viggiù e raggiungeva il nonno Giuseppino in una Sardegna ancestrale ed essenziale (“Per arrivare dal porto a Ortueri bisognava fare chilometri e chilometri di stradine tortuose”), che si manifestava nell’animismo di luoghi popolati da spiritelli e attraversati dallo spirito della terra.

Dopo un’introduzione ironica nella quale Aldo Nove celebra l’ambiguità e l’infelicità (“Salgari… l’autosbudellamento rituale… sommerso dai debiti…”) di scrittori (“Borroughs… giocando a Guglielmo Tell con la moglie, la beccò in faccia e l’uccise”), pensatori (“Pitagora… davanti a un campo di fave… piuttosto che attraversarlo, si fece raggiungere e sgozzare”) e filosofi (“Althusser, noto più che altro per aver strangolato, uccidendola, la moglie durante un massaggio – i filosofi, si sa, hanno poca manualità”), per concludere che “ci sono troppi scrittori e filosofi assassini”, i ricordi di Antonello si alternano a mitologie (“Quel gioco era il passatempo degli dei”) e tradizioni (“Come il dio distratto le avesse trasformate da api in Janas”) rivissute in chiave personale attraverso la figura di Saltaro, che assiste sgomento alle atrocità della conquista fenicia dell’isola.
Tra bambini che piangono (“E io ero quasi in Sardegna e piangevo di gioia”). Prendendo le distanze dalle crudeltà della storia (“Così si fanno le guerre e la gente si ammazza. Prima perché fa confusione, poi perché fa più confusione di prima. Quella era la storia dell’uomo secondo mio nonno”).

Con un occhio puntato alle culture orientali (“La luna – insegnavano gli sciamani – è il sole della notte, e la notte è il giorno che dorme”), nella poetica che sembra ispirarsi a quella del fanciullino di Pascoli, Aldo Nove prosegue nel suo percorso poetico lasciandosi alle spalle un passato di ex cannibale.

Bruno Elpis

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... le opere poetiche dello stesso autore, come "Tutta la luce del mondo" sulla figura di San Francesco e "Mi chiamo...", dedicata a Mia Martini
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Classici
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    14 Giugno, 2015
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“Alla fine ci si abitua a tutto”

“Lo straniero” di Albert Camus nella nuova traduzione di Sergio Claudio Perroni è introdotta da Roberto Saviano (“Camus è straniero a tutto. Alla sua terra d’Algeria che lo considera straniero, alla Francia che lo considera algerino, ai comunisti che lo considerano un reazionario, ai conservatori che lo considerano un comunista”), che evidenzia la progressione del senso di estraneità del protagonista rispetto a una vicenda che lo vede più spettatore che soggetto attivo (“Camus è riuscito in un’impresa impossibile: quella di descrivere l’esistenza come qualcosa che accade”), in assoluta sintonia con l’esistenzialismo di Camus (“A Stoccolma, nel 1957, in occasione della consegna del Premio Nobel… pronunciò… Amo mia madre e la giustizia, ma fra mia madre e la giustizia scelgo mia madre”).

La prima parte dell’opera pone le premesse che poi troveranno estreme conseguenze nella seconda.
Meursault partecipa, interdetto e stranito (“…Non sapevo il numero esatto di anni”), alla veglia e al funerale della madre presso la casa di riposo che la ricovereva (“Per non sbagliarmi gli ho detto una sessantina d’anni…”). Poi trascorre un’ordinaria domenica con l’amica, nell’assoluta normalità di una giornata qualsiasi (“Marie mi ha insegnato un gioco. Nuotando bisognava bere la schiuma della cresta dell’onda, trattenerla in bocca e poi mettersi sul dorso per spruzzarla contro il cielo. Questo produceva una gala schiumosa che in parte si scioglieva nell’aria e in parte ricadeva sul viso come una pioggia tiepida”). L’impiegato si lascia quindi trasportare dagli eventi e dai rapporti con un vicino ambiguo, giungendo a compiere un delitto assurdo su una spiaggia.

Nella seconda parte, il protagonista “assiste” ai suoi interrogatori, risponde in modo distaccato alle domande (“Gli ho raccontato quello che gli avevo già detto: Raymond, la spiaggia, il bagno, la zuffa, di nuovo la spiaggia, la piccola fonte, il sole e i cinque colpi di pistola”) di un giudice prevenuto (“Per oggi è finita, signor Anticristo”), non sconfessa né i gesti della vigilia (“D’altronde, capita a tutte le persone normali di augurarsi in qualche modo la morte dei propri cari”) né il delitto (“Ho detto che più che rimorso vero e proprio provavo una certa noia”). “Non ero particolarmente pentito del mio gesto”: naturalmente questo atteggiamento non gli giova (“A poco a poco… il tono degli interrogatori è cambiato. Sembrava che il giudice non s’interessasse più a me…”).
Intanto Meursault vive la prigionia, sperimentando in modo asettico la perdita della libertà (“All’inizio della detenzione, in realtà la cosa più dura era che avessi pensieri da uomo libero”).
Mantenendosi sempre più spettatore che protagonista anche in tribunale (“Mi ha fatto pensare a quelle feste rionali in cui, dopo il concerto, si sgombra la sala per poter ballare”), l’imputato partecipa con terzietà aliena al processo (“Le cose che diceva erano plausibili”), ascolta la sentenza di condanna, vede profilarsi la pena (“Altre volte… elaboravo progetti di legge. Riformavo il codice. Avevo notato che l’importante era dare una possibilità al condannato… la ghigliottina non dava nessuna possibilità…”), riflette sugli strumenti della giustizia (“La macchina raffigurata nella foto mi aveva colpito per il suo aspetto di strumento di precisione, rifinito e luccicante… ancora una volta la meccanica annientava tutto: si veniva uccisi in modo discreto, con un po’ di vergogna e molta precisione”), rifiuta i conforti del cappellano e giunge a riflessioni conclusive (“Come se i percorsi familiari tracciati nei cieli d’estate potessero portare tanto alle prigioni quanto ai sonni innocenti”) e paradossali (“… Mi rimproveravo di non aver prestato sufficiente attenzione ai racconti di esecuzioni capitali”).

Il romanzo è davvero un capolavoro, mi lascia incantato ogni volta che lo leggo e ogni volta scopro implicanze e significati nuovi, che si arricchiscono con il fluire delle esperienze personali (ovviamente di carattere esistenziale, non giudiziario!).

Bruno Elpis

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Romanzi
 
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3.3
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    11 Giugno, 2015
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L’esistenzialismo osceno

Innanzitutto due considerazioni estrinseche: una sul titolo, l’altra sulla cover del romanzo di Marco Missiroli.
Il titolo, “Atti osceni in luogo privato”, fa il verso alla rubrica di un reato: atti osceni in luogo pubblico. Reato che viene consumato con la cover: un’opera di Erwin Blumenfield, “Holy Cross (in hoc signo vinces)”, geometricamente oscena per rimanere in tema: “Ti vedevo a mille chilometri di distanza con la paura di scegliere tra la vita e l’oscenità, senza sapere che sono la stessa cosa. L‘osceno è il tumulto privato che ognuno ha, e che i liberi vivono. Si chiama esistere, e a volte diventa sentimento”.

Il romanzo attraversa l’evoluzione sessuale di Libero Marsell che, spiritualmente assistito da un’affascinante bibliotecaria anche quando si trasferisce da Parigi a Milano (“Le portavo i saluti di Giorgio, dell’osteria, le raccontai di Leoni e di Frida, delle tacche, di Marika”), attraversa le fasi dell’autoerotismo, dell’iniziazione, della dispersione gaudente prima e della ricomposizione sentimentale poi, in ciò forse traumatizzato in età infantile dall’aver assistito alla fellatio che la madre pratica all’amante.
Il sesso domina interessi e narrazione, la sua ossessione viene vanamente imprigionata in un’equazione elaborata dall’amico Antoine: “La formula della resistenza… Y = (C x SC) + D, ovvero: la resistenza alla tentazione (Y) era il risultato della costanza © moltiplicata per un ipotetico senso di colpa (SC) più una serie di distrazioni (D)… Le distrazioni erano le trentuno tacche che aveva inciso in un anno e mezzo”.

Parallelamente allo sperimentalismo monomaniacale di stampo sessuale, scorrono le dinamiche dei rapporti familiari (“La mia stagione famigliare era finita. E con essa la mansuetudine”): Libero parteggia smaccatamente per il padre, che ben presto muore dopo aver subito il dolore della separazione, ma poi con il tempo perviene a ricomposizione, comprensione e ammirazione della figura materna.

La parte forse più interessante del romanzo è rappresentata dal ruolo che libri e cinema (su tutti la novelle vague di Truffault: I cento colpi, Jules et Jim, Le dernier métro) rivestono nella maturazione erotica, psicologica e personale del protagonista.
Dopo il primo, entusiastico approccio (“Lo straniero era colpevole e imperterrito, quanti innocenti abbandonati, al contrario, attendevano il patibolo? Camus aveva scritto una storia di indiani”), i libri si susseguono (“Addio alle armi, Fontamara, Il commesso”) e scandiscono il tempo sino all’adultità (nella quale impazzano Faulkner e Kundera).
Merito dell’educazione ricevuta (“Il Lycée Colbert l’aveva voluto lei perché pubblico, multietnico, culla della nuova classe dirigente progressista. Era una scuola… bourgeois-bohème”)?
Merito della cultura dell’epoca (“Cominciò l’epoca dell’indignazione. La prima vittima fu padre Dominique”)?
O piuttosto dell’atmosfera parigina, pregna di un esistenzialimo (“Quell’uomo e Camus erano amici”) che si manifesta anche nell’intonazione narrativa (“Pianse di colpo, e piansi anch’io. Non per nostalgia, non per desiderio, ma perché le cose finiscono”).

La morbosità tematica del romanzo viene annegata nell’intellettualismo e nella letteratura, in un risultato che si affida agli effetti scenici (“Più volumi troverai in casa di una persona e maggiore sarà il suo grado di infelicità”) per molcire (o corroborare?) la tensione dell’oscenità.

Bruno Elpis

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