Opinione scritta da silvia71

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Gialli, Thriller, Horror
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    11 Agosto, 2014
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Il mistero dei massi avelli

Lo splendido scenario del lago di Como è spettatore muto del secondo romanzo di Bruno Elpis.
Dopo “Il carnevale dei delitti” ancora un giallo fluisce dalla raffinata penna dello scrittore comasco; un giallo dalla trama semplice, in quanto non si cerca il rompicapo, non si cercano immagini truculente, non si cerca l'azione da fiction.
Lo scrittore si prefigge un lavoro arduo che va al di là della ricerca della mano assassina, un lavoro che mira a far emergere ciò che spinge un uomo a commettere il male.
Ecco allora che il romanzo mostra subito le vesti del giallo psicologico, grazie alla cura di Elpis nello scandagliare le zone più oscure dell'anima dei suoi protagonisti, avvalendosi dei mezzi messi a disposizione dai metodi scientifici in materia di psicoanalisi e psicologia.
Scorrono numerose citazioni delle teorie freudiane, interessanti e ben inserite nel contesto narrativo, fungendo da guida per districarsi in una materia così complessa.

Gli uomini e le donne rappresentati nel racconto, non si dividono nettamente in buoni e cattivi, ma ciascuno è portatore di bene e di male. Una dicotomia inestricabile che si fonde nell'animo umano.
La questione più critica è la predominanza del male; perchè accettarlo passivamente senza chiedersi un “perchè”? Quali segreti può celare la mente umana?
Quale causa sta a monte di un effetto?
Bruno Elpis con il suo “Il mistero dei massi avelli” si accinge a fornire le risposte al lettore che avrà il desiderio di ascoltare e comprendere, a prescindere dall'esigenza di dare la caccia all'assassino.

E' palpabile una ricerca di approfondimento contenutistico rispetto al romanzo precedente, una crescita in campo psicologico che porta l'autore a cesellare i suoi uomini, studiandone passioni segrete, ferite nascoste, zone d'ombra pericolose.
Anche lo stile di scrittura ha cambiato pelle, adattandosi a ciò che richiede la narrazione; una penna elegante senza dubbio, che diventa più tagliente, più secca ed incisiva, fatta talvolta di frasi brevissime.
Bruno Elpis attraverso il filone giallo vuole percorrere le infinite ed impervie strade che conducono allo studio dell'uomo, una materia che è camera buia in cui occorre accendere qualche lumino per potersi orientare.
Decisamente un buon lavoro, frutto di una penna da cui ci aspettiamo di leggere molto altro ancora.
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Tre domande a Bruno Elpis:

S : Caro Bruno, anzitutto complimenti per la creazione del tuo secondo romanzo giallo.
Hai dato ampio spazio alla caratterizzazione psicologica dei personaggi, utilizzando molteplici riferimenti e citazioni delle teorie freudiane.
La psicologia o la psicoanalisi, a tuo giudizio, aiutano a svelare l'animo di un uomo totalmente o sono solamente un mezzo per avvicinarsi alla comprensione della parte più oscura dell'essere umano?
B : Personalmente sono molto affascinato dagli strumenti che queste discipline forniscono. In questi ambiti sono un autodidatta e sono cavia di me stesso: mi piace analizzare i miei comportamenti, i miei pensieri, individuarne le radici, rovistando anche nella memoria. Sì, credo che psicologia e psicanalisi siano due torce che gettano fasci di luce sulle ombre dell'intimità. Anche se l'animo umano rimane un cosmo immenso, in larga parte inesplorabile.

S: Ciò che metti in rilievo dei tuoi personaggi è la loro dicotomia bene-male; mettendo in atto uno studio scientifico sull'origine del “male”, reputi che si riesca sempre a coglierne le radici?
B: Il male è irrazionale e le sue forme peggiori, più violente o striscianti, mi spaventano. Credo che dominare il male sia un'abilità alla quale l'uomo deve tendere: un'attività complessa, che richiede innanzitutto coscienza e conoscenza di se stessi e della realtà. Scrivere di queste cose è probabilmente una forma di esorcismo, un modo per esternare la paura.

S: Il Bruno Elpis che ha scritto questo secondo romanzo, è lo “stesso” Bruno de “Il carnevale dei delitti”? Nel senso che il lettore percepisce una evoluzione, una mano più incisiva e profonda, ne convieni?
B: Sì, garantisco, sono sempre io... Quello che tu rilevi probabilmente è imputabile all'effetto sorpresa della prima pubblicazione. Ho inviato il romanzo senza certezza che venisse pubblicato, quindi "Il carnevale dei delitti" è sicuramente più estemporaneo, meno meditato. Se a questo aggiungi che sono un revisionista convinto... ecco spiegata la sensazione che hai tratto!

Grazie a Bruno della disponibilità!

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Il carnevale dei delitti
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    07 Agosto, 2014
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Il diritto di vivere

L'esordio letterario di Stefano Valenti è stato premiato dalla giuria del Campiello 2014 come miglior Opera Prima.

E' un romanzo doloroso che tratta un tema forte, come quello delle morti causate dalla contaminazione da amianto in fabbrica.
Partendo da una valutazione del contenuto pare subito fuori luogo utilizzare la definizione di “romanzo” o parlare in questo caso di “pura narrativa”.
E' indubbio l'intento dell'autore di denunciare, come hanno fatto in precedenza altre voci negli ultimi decenni.
La peculiarità con cui Valenti affronta il suo racconto sta nella pacatezza dei toni, niente grida né commiserazione tra le pagine, ma un'analisi degli uomini e delle famiglie, uniche vittime di interessi economici ed egoistici aberranti.

Immagini nitide di un lavoro infernale e bestiale, di una vita logorante scandita da turni massacranti in ambienti di morte, tra sostanze ben conosciute come altamente nocive.
Lavorare in fabbrica per portare a casa il denaro necessario a sostenere se stessi e la famiglia, il corpo che muta giorno dopo giorno corroso fin nella linfa dalla fatica prima e dal veleno poi.
Uomini con un sogno nel cassetto; non può essere la fornace della fonderia il sogno, bensì divenire un pittore, catturare i colori del mondo e lasciare al prossimo un pizzico di sé, oppure avere la possibilità di veder crescere e realizzare un figlio o un nipote.

I protagonisti del racconto hanno perso sogni e speranze ed i familiari insieme a loro; uomini e donne strappati dai profumi e dai colori della vita a causa del lavoro.
Fabbrica, fabbriche, luoghi di morte e di sfruttamento omicida dal momento che chi sa non si adopera per salvare la vita a tutti coloro che vi prestano servizio.

La voce di Valenti è asciutta mai melliflua e retorica, eppure carica di quell'intensità ed intimità di chi narra fatti vissuti sulla propria pelle, di chi ha perso un padre a causa del demone amianto, di chi si è trovato a vivere un dolore che col tempo si è radicato dentro covando rabbia e angoscia.
Un figlio che rimane ed un padre che se ne va; sul pavimento rimane solamente ingiustizia, sofferenza e ferite indelebili.

Stefano possiede una buona mano narrativa, portato all'introspezione sa trasmettere al lettore pathos e toccarne le corde emotive; ha contribuito a scrivere una pagina di storia italiana che deve rimanere monito per tutti, perché gli errori e gli orrori restano e non si cancellano con un colpo di spugna.

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Storia e biografie
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    06 Agosto, 2014
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6 AGOSTO 1945

6 agosto 1945
Ore 8.15 il sole è già alto sulla città di Hiroshima.
La città vive le tensioni legate alla guerra, eppure tutto scorre secondo le abitudini, finché una deflagrazione potente accompagnata da un bagliore dorato scende sulla città.
E' il blackout totale della vita; c'è chi la termina di colpo senza rendersi conto di nulla, c'è chi si trova scagliato lontano, ustionato, ferito, senza le vesti indossate.
E' solo silenzio, poi pianto, poi disperazione e dolore.
Dolore per le carni lacerate, per le ustioni, per la visione di morte ovunque.
E' catastrofe.

“Diario di Hiroshima” è la testimonianza di un sopravvissuto all'esplosione atomica su Hiroshima.
Il dottor Hachiya gravemente ferito dalla grande “pika”, il lampo di luce, tenne un diario dalla mattina del 6 agosto al 30 settembre 1945, annotando le vicende di quei giorni e dettagliando l'evolversi delle condizioni cliniche dei malati, nutrendo l'intenzione di capire la sintomatologia e fornire gli elementi necessari per studiare e curare gli effetti delle radiazioni sull'uomo, materia sconosciuta fino ad allora.

Le pagine del dottor Hachiya sono asciutte e limpide, non vogliono essere narrativa, non posseggono fronzoli stilistici e allo stesso tempo la penna non funge da valvola di sfogo alla rabbia e al dolore. E' una voce sobria, svuotata come il cuore di ciascun abitante della città, una voce ferma nella descrizione di dettagli intimi e raccapriccianti.
La testimonianza del medico negli anni successivi è divenuta documento scientifico di gran valore per la comprensione delle malattie post-radiazione nucleare, tra le più subdole e inestirpabili.

Oltre al pregio tecnico-medico dello scritto, le immagini fornite da Hachiya sono numerose e cariche di quell'intensità che toglie il respiro al lettore, catapultandolo tra quelle rovine fumanti, a piedi nudi, tra uomini che chiedono acqua, la pelle sciolta dal calore, gli abiti imbrattati di sangue.
Sopravvissuti e morti, uniche categorie possibili cui appartenere.
Tra queste pagine non vi è mai tempo per riflettere sul “perchè” dell'evento, la priorità è per le cure e l'assistenza dei feriti e per l'amorevole pietà verso coloro che sono rapiti dalla morte dopo atroci sofferenze.

Il dottor Hachiya ha lasciato un'eredità preziosa all'umanità, un ricordo indelebile di un pezzo di Storia dove non appare nessun vincitore all'orizzonte, dove la sofferenza e la distruzione hanno piantato le radici germogliando dolore generazione dopo generazione.
Una lettura faticosa, un diario che rientra a buon diritto tra i tesori letterari della nostra civiltà.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    02 Agosto, 2014
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Un bambino in fuga

Roderick Duddle, giovane orfano, ha ereditato dalla madre una vita sventurata.
Ottocento inglese, foto in bianco e nero delle due facce della medaglia: i palazzi dorati dell'aristocrazia ed i bassifondi cittadini dove sono confinati gli umili ed i derelitti.
Si annusa da subito una sensazione di déjà vu, un'ambientazione perfetta e vivida che porta alla memoria celeberrimi romanzi della letteratura inglese.
Eppure occorre procedere ed immergersi senza pregiudizi tra le numerose pagine del romanzo di Michele Mari per comprendere la volontà dello stesso di trarre dagli autori del passato, materia da riplasmare a piene mani e con una forza creativa notevole.

Lo spunto non originale della trama, viene sorpassato dalla messa in scena di una galleria vasta e multicolore di personaggi, dipinti con cura e colti nella pienezza del loro essere arroganti, malfattori, egoisti, immorali e traditori, ma anche indifesi, deboli e reietti.
Una marmaglia di furfanti siano essi nobili o servi, laici o badesse, soldati o prostitute cui si frappongono creature sfortunate.

L'autore rappresenta un'umanità cupa nei valori, uomini e donne assetati di denaro, disposti a tutto per evadere dalle prigioni in cui il destino li ha relegati.
Vite al limite e al confine della dignità, della moralità, della giustizia.
Impossibile non riconoscere a Mari la creazione di un quadro colmo di volti e di voci, un quadro sempre in movimento, una storia che muta rapida e richiede attenzione da parte del lettore,il quale viene sollecitato e richiamato numerose volte dalla voce narrante, facendolo sentire parte del racconto e stuzzicando l'interesse al prosieguo della vicenda.
Inoltre Mari adotta una tecnica narrativa che prevede repentini cambi di scena e di ambientazione, grazie alla scrittura di micro-capitoli che come gocce d'acqua confluiscono in un unico torrente.
Ottimo l'eloquio che dona all'opera una fragranza classica ed elegante, senza rinunciare tuttavia ad un tono ironico di sottofondo, lontano da intenti moralistici bigotti o da ambizioni di ricerca storica o sociologica.

Un lavoro godibile, a tratti intenso a tratti un po' prolisso, che mostra le buone doti di scrittura dell'autore, il quale seguendo un solco narrativo già tracciato va alla ricerca di una propria chiave espressiva.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    31 Luglio, 2014
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Un italiano allo specchio

Con il suo “Il desiderio di essere come Tutti”, Piccolo ha vinto la competizione dello Strega 2014.
Ha vinto un non-romanzo, un racconto figlio di una stratificazione narrativa tra diario, memorie e saggio.
Piccolo ha trovato una sua chiave espressiva per raccontarsi e per raccontare la crescita di un giovane italiano che oggi sta per raggiungere i cinquant'anni; è la crescita di un uomo in parallelo ed in simbiosi alle vicende politiche italiane degli ultimi quarant'anni.
E' tanta la politica tra queste pagine, dove destra sinistra e centro sono raccontate sempre e solo da un punto di vista unilaterale, quello dell'autore, attraverso momenti di riflessione e di analisi personale e sociale anche complessi.
Piccolo non cela il proprio pensiero ma lo manifesta da subito, inanellando descrizioni particolareggiate sulle correnti politiche e soprattutto sui protagonisti della politica.
Sfilano Berlinguer, Moro, Berlusconi, raccontati attraverso riferimenti di eventi e momenti certamente cruciali e di notevole interesse per la collettività.
Ma l'autore ricerca un'analisi di sé, degli ideali divenuti zoccolo duro della propria formazione, convogliando ricordi, ispirazioni, insegnamenti, momenti privati e pubblici in un unico contenitore.

A lettura terminata è impossibile non soffermarsi su determinate riflessioni.
Apprezzabile il coraggio dell'autore di mostrare il proprio pensiero in maniera diretta con la consapevolezza che le proprie considerazioni, anche forti, possano non risultare gradite ad una fetta di pubblico.
Ottima la capacità di analisi sul piano personale, toccando riferimenti del mondo della psicologia, della filosofia e dell'etica.
Rimane un grosso “ma”; in un momento storico e sociale come quello attuale, il libro di Piccolo rischia di far sorridere o annoiare, dipende dai punti di vista, perchè associare la parola “politica” a valore, esperienza di vita, credo, moralità, amore, sembra un'operazione fuori luogo e fuori tempo.

Il valore letterario di quest'opera è labile, fermandosi ad una penna curata ed ad un linguaggio efficace e raffinato, buone le intenzioni di contenuto ma a tratti logorate da un soggettivismo estremo e monotematico.

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Racconti di viaggio
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    28 Luglio, 2014
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Alla scoperta dell'India

India, terra di contrasti, di una spiritualità che permea ogni sasso.
Terra affascinante da sempre, proprio per la difficoltà di coglierne appieno l'essenza, riuscendo ad andare oltre alle apparenze oppure, partendo proprio da ciò che appare per avvicinarsi in punta di piedi ad una cultura complessa e radicata.
Sandra Petrignani racchiude in un breve racconto la sua esperienza in India; un viaggio che la portò attraverso alcune regioni dell'immenso territorio, osservatrice attenta e pronta a cogliere le infinite sfumature dell'ambiente, della gente, della religione, della filosofia di vita che ivi si respira.
Diciamo breve, in quanto l'intento dell'autrice non sta nella volontà di dettagliare le tappe e le impressioni dell'intero soggiorno indiano, bensì nel riportare sensazioni ed emozioni tramite il ricordo di piccoli dettagli, di incontri illuminanti, di luoghi magici, di scorci vividi e potenti come scatti fotografici.
Si respira tra queste pagine il desiderio di condividere col lettore un momento di crescita e di scoperta, operazione delicata in cui la Petrignani si districa perfettamente grazie all'intensità della sua penna, capace di dare voce a sensazioni intime e personali.
In questo racconto ci sono gli occhi dell'autrice ed il cuore a infondere calore alle immagini che scorrono, permettendo al pubblico di respirare un pizzico di quegli odori forti, di leggere tra le pieghe di una cultura lontana da quella occidentale.

Un lavoro interessante, lontano dal genere narrativo, eppure intimo distante dalla freddezza saggistica; più potente di un diario, in quanto lo spunto soggettivo non predomina il racconto ma diviene mezzo per disegnare un abbozzo del coloratissimo quadro dal titolo India.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    22 Luglio, 2014
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La gemella H

E' arduo catturare il romanzo di Falco entro il solco tracciato da una definizione; parla di storia ma non vuole essere un romanzo storico, parla di uomini ma esula dall'ambito psicologico, parla di vite ma rifugge la maschera dei soli sentimenti.
“”La gemella h” è la linfa del passato che scorre nelle vene del presente, che fluisce dentro le persone plasmandole, influenzandole, scrivendo nei loro cuori come un gesso che graffia su una lavagna.
Correva l'anno 1933, si consolidava l'ideologia nazista, il mondo di tanti uomini si apprestava a mutare, il profumo dello strudel lasciava posto a ben altri odori di morte; in questo clima vedono la luce Hilde ed Helga, gemelle, amatissime figlie di una giovane coppia tedesca che vive i tempi adattandosi ad essi.
La Storia si insinua nelle pieghe familiari, nel quotidiano, nelle case, negli affetti, nella crescita individuale; la Storia evolve, muta la pelle come un serpente, travalica i confini di un territorio, approda su altri lidi.
E le persone, che ne sarà di loro? Della loro vita, del lavoro, dei figli?
Cosa resta del fluire del tempo, delle svolte della storia del mondo e delle persone?
Il romanzo di Giorgio Falco fornisce una spettacolare risposta ai suddetti quesiti, con una maturità stilistica e letteraria fuori dal comune.
La narrazione in prima persona della voce di Hilde è un piccolo capolavoro, un fluire sostanzioso, a tratti irruento, di una voce che è anima, genuina e liberata da catene, una voce che non rinnega il passato, ma lo ricorda pezzo per pezzo, bagaglio imprescindibile e carta d'identità del presente.
L'autore non si limita ad un'esemplare costruzione dei personaggi, ma cesella un'opera in cui gli avvenimenti e gli eventi della storia e dell'evolversi della vita socio-economica del Novecento si specchiano senza sosta in quei volti.
Falco rappresenta un dopoguerra terra di incontro tra vinti e vincitori, lo fa attraverso le voci di chi ha vissuto quella parte di storia, una famiglia, una figlia, una sorella, un padre.
La vicenda narrata dipinge un'enorme zona grigia, perchè i colori si sono perduti.

Un lavoro di grande contenuto, una scrittura impeccabile, avvolgente come un fiume in piena, un eloquio ricco e articolato, fanno del romanzo un'occasione per deliziarsi di buona letteratura.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    15 Luglio, 2014
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Orologi e solitudine

Simona Baldelli torna in libreria con un secondo romanzo dopo il brillante esordio di “Evelina e le fate”.
“Il tempo bambino” è un romanzo a suo modo complicato, un romanzo che ad una prima lettura potrebbe fuorviare il lettore, in quanto il personaggio creato dalla penna eccellente dell'autrice è un animo stratificato e sfuggente.
E' un romanzo che parla di solitudini, di traumi infantili, di vuoti d'amore, di un'infanzia rubata che riflette lunghe ombre nere su un'età adulta vissuta con difficoltà.
Un bambino infelice e logorato dalle follie di una madre, un uomo adulto diviso tra passato e presente, incapace di socializzare e di separare la fantasia dalla realtà.
I temi sono amari e dolorosi ed il processo narrativo si snoda lentamente, inanellando ricordi e visioni, in uno spazio senza tempo, ieri e oggi, in un fluire emotivo di sentimenti contrastanti che abbracciano la sfera affettiva, la sfera sessuale, la sfera emozionale.
Si avverte la sensazione che il personaggio sfugga di mano all'autrice, che brancoli nel buio alla ricerca di se stesso, mostrando tanti volti; forse il fine ultimo della Baldelli risiede qua, in un personaggio che si costruisce pagina dopo pagina e di cui è impossibile immortalare una singola espressione.
Chi sei in realtà mister Giovedì? Ripari orologi in solitudine, non sappiamo se hai mai amato e che attrazione provi per la bambina che bussa alla tua porta, non sappiamo quanto la tua mente agisca con lucidità e quanto tu voglia uscire da questa condizione senza tempo.
La lettura intrappola il lettore tra le mura di una casa affollata di fantasmi e di volti, lasciandolo solo fino all'ultima riga a districarsi tra i ragionamenti di un uomo-bambino; a tratti destabilizzante, tuttavia la capacità di scrittura della Baldelli è una garanzia di qualità narrativa.
La penna di Simona Baldelli è stilisticamente affinata e matura, sa cesellare gli stati d'animo dei suoi personaggi con abilità, sa ritrarre pensieri e paure percorrendo le infinite strade del mondo della fantasia, un controcanto di quello della realtà.

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Evelina e le fate
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Storia e biografie
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    08 Luglio, 2014
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Myristica fragrans

L'inglese Milton ricostruisce un pezzo di storia di grande interesse che col tempo si è eclissata tra le onde degli oceani; è la storia delle conquiste delle terre lontane per mano degli europei a partire dal 1500.
Una storia ricchissima di eventi, cruenta e sanguinosa, di cui l'autore ripercorre con minuzia ogni spedizione, focalizzando l'attenzione sulla forte rivalità tra inglesi ed olandesi, corrosi da una brama di conquista che li spinse a fare rotta verso i mari caldi dell'oceano indiano, regno incontrastato delle spezie.
Spezie sinonimo di oro, di ricchezza, di potenza, in un periodo storico in cui ad un piccola noce moscata si attribuivano poteri terapeutici contro mali impietosi come la peste.

“L'isola della noce moscata” non veste i panni di una storia romanzata ed edulcorata, ma quelli di un saggio, connotato da un'estrema esaustività grazie ad un lavoro certosino di ricerca e traduzione di tutti i diari di bordo pervenuti e conservati, di tutte le memorie dei mercanti e dei comandanti sopravvissuti a viaggi logoranti, minati da tempeste, malattie tropicali, guerre e violenze per accaparrarsi le isole dell'arcipelago di Banda, vero serbatoio di ricchezza per la concentrazione di alberi battezzati “Myristica fragrans”.
Che un piccolo seme profumatissimo come la noce moscata abbia scatenato delle battaglie tra le acque indonesiane, abitate da nativi non avvezzi ai contatti col mondo esterno pronti a barattare le spezie con cianfrusaglie colorate e ciondoli di vetro, oggi ci provoca quasi un sorriso; eppure scorse a fiumi il sangue tra europei e tra questi ed i nativi per colonizzare questa parte di mondo.

E' un lavoro di grande pregio quello di Milton, capace di riportare alla luce un secolo importante per la società europea, il secolo dei mercanti, di una economia legata al commercio di nuovi prodotti, un'economia che naviga verso lidi lontani dall'Occidente.
Una lettura notevole per chi volesse approfondire l'argomento, ricca di tanti nomi e volti come è giusto che sia per essere completa ed assumere una concreta veste storica, buona la penna dell'autore lontana da uno stile freddo e didascalico.

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Magellano di Stefan Zweig
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Racconti
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    05 Luglio, 2014
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Raggi di luce

Non poteva scegliere titolo più appropriato Luis Sepulveda per battezzare la sua raccolta di 35 racconti brevi, “ Le rose di Atacama”.
Sì, perché le rose di Atacama fioriscono una sola volta all'anno tra le sabbie salate del deserto cileno, provocando un'esplosione di colore che muta il volto grigio e arido di quelle terre.
Le storie raccontate da Sepulveda parlano di “eroi” per lo più sconosciuti, che con gesti di coraggio hanno cercato di spezzare il buio della violenza, dell'abuso e dell'indifferenza che spesso scende sull'umanità, per portare una scintilla di luce, di colore, di vita.

Le prepotenze non hanno una nazionalità, ma parlano un linguaggio universale, attraversando paralleli e meridiani del mondo, dall'Europa all'America Latina all'Africa.
Storie amare e dolorose per portare alla ribalta il volto peggiore di taluna umanità ed il volto genuino di coloro lottano, di coloro che soccombono per difendere un'idea e dei valori.
I racconti sono pillole brevissime, una narrazione davvero sintetica, forse scelta ponderata dell'autore per fare parlare le sue storie, senza necessità di aggiungere altri elementi.
Pertanto lo stile risulta asciutto ed essenziale, raffreddando talvolta l'intensità sprigionata dal racconto.

E' comprensibile come Sepulveda non cerchi una prova di stile, ma voglia solamente dare voce a uomini e donne di cui la Storia ufficiale non ricorda e non ricorderà i nomi; eppure sono protagonisti di gesti e azioni da immortalare.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    30 Giugno, 2014
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Le arance di Lolita

Nasce dalla penna di Gabriella Genisi una strana creatura: si chiama Lolita, di professione commissario, single, segni particolari amante delle arance.
La città che accoglie le vicende di questo giallo è Bari, con i suoi riti, le sue abitudini culinarie, le sue strade, i suoi profumi.

Una lettura gradevolissima, la cui struttura tinta di giallo si lascia presto sopraffare dalla carica dei personaggi, in primis Lolita eppoi tutti gli altri volti che le fanno da cornice imprescindibile.
Lo spunto posto alla base del racconto è semplice, quasi evanescente, pur toccando temi noti alle cronache, eppure si delinea pagina dopo pagina una donna tutta da scoprire, una donna che veste i panni conferitigli da un ruolo impegnativo, sagace e perspicace, forte e determinata, ma al contempo colta nei piccoli intoppi del quotidiano, fragile e sola.

E' un romanzo che sprizza freschezza, come una delle tanto amate arance menzionate così di frequente durante la narrazione tanto da sentirne il gusto.
Un frutto che fonde in sé la dolcezza di talune situazioni al sapore aspro di certi eventi, come l'inganno e la morte.

Gabriella Genisi sceglie di porre sulla bocca dei suoi protagonisti un linguaggio “locale”, così da creare un'ambientazione perfetta luogo-parola; una scelta azzardata che certo pubblico fatica a condividere, ma se utilizzata con sapienza e nei giusti momenti, conferisce colore e genuinità.

Una buona prova di scrittura, frutto di un'idea che vuole associare una trama noir al volto e all'anima di un personaggio.
Un romanzo che nonostante l'indagine poliziesca sottesa, vuole parlare di sole, di profumo del mare, di amore e di qualche sfiziosa ricetta a base di arance da gustare in buona compagnia.

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Racconti di viaggio
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    27 Giugno, 2014
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Tè e tsampa

Imbattersi in un personaggio come Alexandra David Neel, al giorno d'oggi, ha dell'incredibile.
Il motore di questa donna fu la passione per la conoscenza, che la spinse a viaggiare, attraversando paesi lontani e avvolti da un alone vago e misterioso agli albori del secolo scorso.
Appassionata di filosofie orientali, Alexandra soggiornò a lungo tra India, Cina ed Indocina.
“Viaggio di una parigina a Lhasa”, è tratto dagli appunti di un viaggio intrapreso intorno agli Venti del Novecento, che portò la donna dal territorio cinese a quello tibetano, insieme al figlio adottivo.
Un percorso compiuto interamente a piedi, con pochi stracci addosso, senza scorta di viveri, seguendo sentieri e boscaglie, elemosinando un po' di cibo, sopportando il gelo delle alture, rischiando l'assalto di briganti e la cattura da parte delle autorità tibetane.
Un viaggio proibito e proibitivo, impensabile per viaggiatori dell'era moderna.

Il racconto è minuzioso e serrato, ricco di dettagli sul percorso intrapreso, sulle difficoltà quotidiane incontrate, sulle popolazioni locali stanziate nelle diverse regioni tibetane, sugli usi ed i costumi di questa terra così lontana dalla civiltà occidentale eppure così permeata da una cultura millenaria.
Il diario della David Neel a tratti assume le vesti di un'indagine antropologica vissuta sul campo, capace di fotografare popoli la cui vita sembra cristallizzata ed immobile, impermeabile a qualsiasi tipo di contaminazione esterna.
Questo titolo è estremamente interessante, testimonianza preziosa, storia di vita, documento datato, peccato che si arresti bruscamente con l'agognato e atteso arrivo tra le mura di Lhasa, omettendo di immortalare con immagini l'antica città, di cui il lettore si aspetta di sapere dopo aver accompagnato per pagine e pagine l'autrice soffrendo freddo, fame e buona dose di paura insieme a lei.
Ma su questo tipo di taglio allo scritto potrebbe esserci lo zampino editoriale.

E' un lavoro da approcciare con la consapevolezza di ritrovarsi tra le pagine di un diario, quindi talvolta frammentate, meramente informative, talvolta asciutte come un reportage.
Sono presenti anche stati emotivi e sensazioni, ma la mano dell'autrice non possiede quel calore narrativo capace di renderli vivi e palpitanti.
Considerata la grandiosità dell'impresa, perdonerei le pecche stilistiche ad Alexandra e le direi solamente che è stata una grande donna.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    25 Giugno, 2014
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Cavalieri e santi

Grazie ad alcune ristampe edite da Bur è facile per il lettore amante del genere storico e biografico incappare in un autore poco conosciuto; il suo nome è Louis De Wohl, nato a Berlino nel 1903, di cui è difficile raccogliere notizie certe, in quanto pare che durante il secondo conflitto mondiale fosse più conosciuto e apprezzato come astrologo che come scrittore.
La bibliografia tradotta in Italia finora pare interessante, i titoli riguardano personaggi come Santa Caterina, Sant'Elena madre di Costantino, San Francesco d'Assisi, San Paolo e San Tommaso d'Aquino.

“La liberazione del gigante” prende spunto dalla vita di San Tommaso, ma l'intento dell'autore non è agiografico né saggistico, sfociando bensì nella scrittura di un romanzo storico.
La presenza del santo nell'insieme della trama è veramente esigua, soprattutto in considerazione della grandezza del personaggio e dell'incidenza dei suoi studi teologici e filosofici sul rapporto tra fede e ragione.
Sicuramente un terreno spinoso e complesso da affrontare, ma che, se ben sviluppano può divenire una lettura preziosa.
De Wohl possiede unicamente un intento romanzesco, dipingendo numerosi personaggi dell'epoca; cavalieri, crociati, uomini d'arme, imperatori, papi e monaci.
E' un Medioevo buio ed il suolo italico è terreno di lotte tra imperatori e papato.
L'autore vuole dipingere un grande affresco del periodo senza impegnarsi troppo su analisi politiche e filosofiche, tanti accenni ma di scarso peso storico, un racconto movimentato da tanti dialoghi e povero di riflessioni.

Una lettura che non si addice ad un pubblico che cerchi sostanza, che non si accontenti di avvicinarsi in maniera sfuggente ad un grande personaggio del passato, che sfugga i tiramolla narrativi per assaporare argomenti più convincenti.
La penna di De Wohl è discreta e se prestata ad un contenuto più strutturato, avrebbe potuto confezionare un buon lavoro.

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Storia e biografie
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    21 Giugno, 2014
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Una casa una vita

Il saggio di Sandra Petrignani nasce da un'idea formidabile, visitare una casa per comprendere meglio la persona che vi ha vissuto tra quelle mura.
Casa è sinonimo di intimità, di carattere, di passioni, di sogni; è un terreno in cui si incrociano passato e presente, ricordi e speranze.

Se il punto di partenza è la casa, la meta prefissa dell'autrice è viaggiare attorno alla vita di alcune scrittrici, più note e meno note, in ogni caso bellissime figure, complesse, raffinate, semplici, tristi, gioiose.
Quello della Petrignani non è un saggio figlio dell'improvvisazione, ma nasce da un laborioso lavoro di ricerca sul personaggio per attingere poi a piene mani da sensazioni visive ed olfattive catturate sui luoghi; luoghi del ricordo, del vissuto di ogni donna.
L'aspetto più intenso dell'opera è il risalto al lato più umano e più vero, una ricerca sottesa al volto genuino di ogni scrittrice, quel volto che spesso fatica a trasparire attraverso la formalità degli scritti o dalla loro semplice lettura.
Si mescolano in una sintonia perfetta e ben dosata le informazioni che la Petrignani fornisce sulla singola protagonista, raccontando episodi salienti e importanti del vissuto e immagini catturate oggi nelle stanze di case divenute memoria.

E' un libro che racchiude sei vite, sei storie, sei mondi, sei cuori.
Una lettura preziosa per chi ama il genere biografico, di cui l'autrice si appropria e con una abilità stilistica stupefacente lo trasforma in un “canto fotografico”, caricandolo di emozioni forti che abbracciano il lettore lungo tutto il percorso.
Al contrario di taluni saggi biografici, tra queste pagine è possibile trovare intensità e veracità, nonostante la penna dell'autrice si imponga rigore in taluni passaggi, in altri si avverte un inevitabile trasporto emozionale.

Sei vite che vale la pena conoscere e approfondire, nomi cui siamo soliti associare il titolo di un'opera ma spesso non conosciamo la vita di colei ha che impresso l'inchiostro su quei fogli.
Sei storie completamente diverse eppure alla fine sembra spuntare dall'ultimo rigo un filo conduttore; vite complicate segnate da scelte coraggiose.


grazie Cub!

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    19 Giugno, 2014
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Johanna

La signora Hoppe è un'autrice tedesca di cui in Italia non abbiamo avuto modo di leggere tanto finora.
Il testo pubblicato e tradotto dall'editore Del Vecchio possiede un titolo accattivante per gli amanti del romanzo storico o della saggistica biografica; si tratta di “Johanna”, ossia Giovanna D'Arco.

E' un romanzo di letteratura “ sperimentale”, un'opera in cui il lettore percepisce presto la necessità dell'autrice di intraprendere nuove strade espressive e narrative, abbandonando i sentieri battuti dai classici biografi.
Non vuole essere una biografia, non vuole essere solo narrativa; la Hoppe vuole dare una forma complessa creando un essere ibrido che mescola fantasia e realtà, storia e finzione, dove i protagonisti sono i pensieri e non gli eventi.
Inevitabile la delusione per il lettore affamato di spessore storico, che si aspetta di incontrare tanta parte delle vicissitudini occorse alla pulzella; qualche rimando storico tratto dai verbali del processo cui fu sottoposta Giovanna è presente tra le righe, ma rimane invischiato in un flusso narrativo che prevede diversi piani temporali e logici.
Giovanna D'Arco non è la sola protagonista del romanzo, ma a lei si alternano le voci di una giovane dottoranda, di un docente ed una figura misteriosa.
Tutte le figure escono appositamente sfuocate dalla penna dell'autrice, possiedono solo qualche linea di contorno ma sono destinate ad essere solo “voci”, sentimenti e paure che si fanno verbo, provenienti come echi di un passato lontano oppure fantasmi di un tempo presente.

Pur essendo pregevoli gli intenti dell'autrice, tuttavia è un romanzo che fatica ad uscire da una zona d'ombra; risulta ostico per disomogeneità di contenuto e pone al pubblico un interrogativo finale su quale sia il nesso sotteso alle due storie parallele passato-presente cui si fatica a dare risposta.
Rimane comunque giusto dare una chance di lettura a questa autrice d'oltralpe, di cui apprezziamo lo spirito innovatore e la voglia di cercare nuovi linguaggi narrativi.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    14 Giugno, 2014
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Terre selvagge

Vassalli è un autore che ama il passato e di cui ama raccontare storie e personaggi.
Il suo ultimo romanzo ricostruisce uno spaccato di storia lontana e caduta nelle nebbie dell'oblio, ossia la sanguinosa guerra tra Romani e Cimbri ed il conseguente annientamento di questa popolazione nordica.
Il terreno che vede scorrere il sangue di migliaia di uomini è situato nell'odierno Piemonte ai piedi di quella che veniva definita la grande montagna, il monte Rosa.
Precisa ed intensa la descrizione dei territori che ci fornisce Vassalli, definendole vere e proprie terre selvagge, popolate da un'infinita varietà di fauna e invasa da una flora rigogliosa, occupata da piccoli insediamenti di galli già sottomessi dai dominatori romani.
Insomma una regione di estremo confine, per lo più inospitale per i rigori dell'inverno e per l'afa asfissiante estiva, eppure luogo conteso in un lungo braccio di ferro tra due popoli che non intendono rinunciare al possesso.
I Cimbri sono gli stranieri, biondi, alti, devoti a strane divinità, parlano un idioma oscuro e bevono una bevanda di luppolo fermentato anziché il vino.
I Romani insediano e attaccano, la popolazione nordica va spazzata via, sulle terre selvagge si deve posare la lingua di Roma, la sua cultura, i suoi dei, i suoi costumi.

Il racconto di Vassalli è abbastanza minuzioso, ricostruendo in maniera convincente uno spaccato di storia lontanissimo di cui si sono persi per strada i particolari. Le citazioni dei classici come fonti dell'epoca donano spessore storico e veridicità.
La penna del narratore sicuramente colora molti spazi vuoti ma lo fa con cognizione e discrezione, in particolare si concentra sui personaggi che attraversano questa storia amara, disegnandoli con cura e facendone portavoci di bisogni, di sentimenti, di dolore.
Buono lo spessore umano che abita queste pagine, in quanto alle descrizioni di luoghi e battaglie, è abbinata l'analisi dell'essere umano, da più punti di vista, quello del vincitore e quello dello sconfitto.

Stilisticamente è un Vassalli che si discosta dalle sue opere precedenti, si concede largamente ad un tono didascalico, accostandosi ad un lavoro dal sapore saggistico, tuttavia rimane apprezzabile il valore del contenuto elaborato e l'intento di riscrivere una pagina del passato che parla di uomini, di cuore, di lacrime.
Vassalli concede ad ogni tipologia di lettore la possibilità di seguirlo in un salto temporale: correva l'anno 101 a.c. e si profilava la battaglia dei Campi Raudii.
Buona lettura

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    09 Giugno, 2014
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Il turno

“Il turno” è datato 1902 e si colloca tra la pubblicazione de “L'esclusa” e “ Il fu Mattia Pascal”.
La struttura è quella di un racconto lungo, quasi di una novella, in quanto in pochissime pagine Pirandello riesce a concentrare un storia di intrecci, matrimoni combinati, matrimoni annullati, matrimoni sperati e sofferti.
Una storia che mette in vetrina sotterfugi, intrighi, egoismi di una società borghese di provincia, dove ai sentimenti e alle passioni vengono anteposti gli interessi e le speculazioni; ma la penna di Pirandello non si limita a portare in superficie le melme dell'animo o le consuetudini del tempo, ma vuole mostrare al lettore cosa avviene quando la volontà dell'uomo si incontra e si scontra con il destino. Un destino beffardo, ospite indesiderato che scompagina ogni piano, spazzando via sogni e speranze.
I personaggi sono un capolavoro, una galleria umana tinteggiata di grottesco, colta con finezza psicologica sia nella solitudine dell'animo sia nel rapportarsi agli altri, in famiglia e in società; lo sfaccendato, il furbacchione, l'indolente, l'egoista, l'approfittatore si incrociano tessendo la tela di una storia il cui succo umoristico sfocia nella sconfitta.
Uomini che si affannano alla costruzione di un castello dorato, progettando e mettendo in porto azioni mirate al raggiungimento di un risultato, di un profitto e di un agio; eppoi gli stessi spazzati via dai venti impetuosi del destino, che manovra gli eventi in maniera imprevedibile.

Una egregia rappresentazione di un gioco degli equivoci e degli effetti contrari, condotto dalla penna acuta e umoristica di Pirandello.
Un romanzo che nonostante il secolo che si porta sulle spalle non perde smalto e freschezza, restando una lettura moderna e godibile.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    05 Giugno, 2014
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La filosofia di Glauco

Una laurea nel cassetto, una professione ben retribuita, una buona vita sociale, una bella fidanzata da portare all'altare, sembrano costituire un'ottima rampa di lancio per giungere a quarant'anni realizzato e felice.
Il protagonista del nuovo romanzo di Scurati è un uomo di oggi, un uomo che sembra possedere tutte le carte in mano per sedersi al tavolo da gioco della vita e dirsi vincitore.
La penna di Scurati è implacabile e inflessibile nell'accompagnare Glauco in un tormentato viaggio dentro se stesso; un viaggio analitico che scruta ogni angolo del cuore, che parcellizza eventi e sentimenti, rapporti, famiglia e amore.
Glauco si racconta, mettendo a nudo in primis il proprio io, rivedendo la propria vita scorrere su una pellicola a tratti sbiadita a tratti nera a tratti grigia.

Scurati affronta temi e problematiche figlie dei nostri tempi, riuscendo a focalizzare e immortalare quella zona di insoddisfazione e sgretolamento che si apre come una falla improvvisa, quella crepa che appare nella vita quotidiana, insomma tutti quei sintomi di un malessere diffuso.
La capacità stilistica e linguistica dell'autore gli permette di condurre una narrazione intensa e pervasiva, quasi cervellotica a livello introspettivo, intrappolando il pubblico nei meandri dei pensieri del protagonista.

E' un romanzo che porta alla ribalta l'essere uomini e donne dell'era moderna, uno specchio non banale della vita attuale e dei riflessi della stessa sulla costruzione dei rapporti sociali, partendo da quelli familiari, primo tassello per dare forma e consistenza alla felicità.
Felicità che sembra essere la protagonista occulta del romanzo; una presenza-assenza, un'aspirazione, un'idea astratta e concreta, una farfalla da acchiappare.

L'uomo fotografato da Scurati voleva essere felice o forse pensava di esserlo.
Buona prova di scrittura, intima e avvolgente.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    03 Giugno, 2014
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Suoni contrastanti

L'arpa di Davita è un romanzo complesso, carico di messaggi, specchio in cui si riflettono avvenimenti storici del primo novecento europeo, intriso di ideologia religiosa e politica.
Ma L'arpa di Davita è anche una splendida storia di vita; è la storia di una bambina intelligente e curiosa cresciuta senza giochi e spensieratezza in un ambiente di adulti, in cui si parla di comunismo, stalinismo, fascismo.
Ilana Davita è la protagonista indiscussa del romanzo, di cui l'autore utilizza la sapienza, la fantasia, la fame di conoscenza per il mondo che la circonda per narrare uno spaccato storico importante e per trattare tematiche nodose come le tradizioni religiose, in particolare quella ebraica.
Il tessuto del romanzo è costituito da una trama fittissima di usi e costumi legati all'ebraismo e da una trama altrettanto corposa come quella del credo politico, inteso come forma di pensiero predominante e condizione di vita per raggiungere la libertà.

E' interessante il percorso narrativo di Potok, al termine del quale le iniziali convinzioni quasi ossessive di taluni personaggi vengono a scemare, a placarsi come onde infrante sugli scogli che scaricate della forza impetuosa divengono innocua schiuma.
L'autore mette in luce lotte e guerre combattute in nome di un ideale, che spazzano il mondo con i lori venti di morte e distruzione; uomini e donne guerrieri pronti a sacrificare la vita per l'idea che li sostiene, anteponendo il bene del futuro e del mondo a loro stessi ed ai loro affetti.
Le pagine di Potok riportano il clima di tensioni e terrore intorno all'anno 1937, quando in Europa ribollono venti di oppressione e di guerra; la guerra civile in Spagna culminante nella strage di Guernica e la pericolosa ascesa di Hitler in Germania.
L'intento di Potok è quello di cogliere i riflessi in terra americana degli eventi europei, senza tralasciare un tassello per lui importante, quello religioso.
Il fattore religioso è onnipresente, è linfa vitale lungo tutto il racconto, è modus vivendi, è vivere sociale, è costume, è famiglia, è istruzione, è cultura.

Ritornando a Davita e alla sua inseparabile arpa eolia, è un personaggio destinato a scalfire la memoria del lettore; Potok riesce a fare di lei trade d'union di tutti i temi trattati nel romanzo.
Davita cresce e combatte lei stessa per portare avanti le proprie scelte in un mondo ancora al maschile e poco propenso a concedere spazi alle donne.
Davita come emblema della facoltà di libera scelta in tema religioso, Davita come frutto prezioso di un albero spezzato.

Un romanzo intenso che per quanto stilisticamente si lasci affrontare con scioltezza, lo stesso non può dirsi per il contenuto. Contenuto che saprà ricompensare i lettori che avranno la voglia di ascoltare le parole della piccola Davita.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    29 Mag, 2014
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Corri Samia

Samia corre e le sembra di volare.
Samia vive per realizzare il suo sogno in un paese dove è proibito coltivarli.
La terra di Samia si chiama Somalia ed il futuro stenta ad attecchire su questo suolo polveroso.
La penna di Catozzella diventa la voce della giovane atleta somala, imprimendosi con forza e con immagini evocative nella mente del pubblico.
Una storia dolorosa e simbolica venuta alla ribalta delle cronache recenti; cronache che parlano di viaggi della speranza, di barconi affollati di disperati disposti a mettere a rischio la propria vita pur di dare una svolta alla propria esistenza, disposti al ricatto e alla violenza dei trafficanti pur di evadere dallo stillicidio della miseria, della fame, di regimi dittatoriali che strappano le ali della libertà.
Il tema non è nuovo, eppure la durezza della storia non lascia nell'indifferenza, anzi, aumenta di intensità con lo scorrere delle pagine, gonfiandosi di lacrime, di rabbia e di disperazione.
L'autore sceglie di impostare il romanzo nella forma del monologo, facendo guadagnare alla narrazione veridicità e incisività, utilizzando studiatamente un linguaggio semplice, un linguaggio adatto ad una giovane nata e cresciuta in una situazione di estrema indigenza, in un paese dove la scuola non è per tutti, perché l'istruzione non serve a niente se non hai nulla da mettere sotto ai denti.

Ricostruite con dovizia di particolari le immagini dei luoghi somali e delle nazioni limitrofe, potenti e nitide come scatti fotografici, dettagliate le usanze ed i costumi di questa terra lontana.
Il racconto di Samia prende le mosse su un terreno descrittivo portandoci tra capanne maleodoranti, problematiche igieniche, strade inesistenti, mercati affollati, militari armati, uccisioni, per divenire dolorosissimo canto e grido di una ventenne, che apre il suo cuore a chiunque voglia ascoltarla; un cuore da guerriera, pronto a combattere i cattivi ed il destino in virtù di un sogno, quello di correre più veloce del vento.

La storia della vita di Samia si racconta da sola, la capacità dell'autore sta nella ricostruzione degli eventi salienti, oltre alla buona caratura psicologica della protagonista senza scadere in forzature emotive per catturare l'attenzione del lettore.
Una lettura efficace per ricordare che dietro ogni volto c'è una storia.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    27 Mag, 2014
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Arance e caffè

E' la Palermo anni Trenta del secolo scorso che fa da sfondo all'ultimo romanzo di Giuseppina Torregrossa.
Una storia che ricostruisce la vita di una famiglia ed in parallelo di una città e di un'epoca, ossia il periodo compreso tra l'avvento del fascismo ed il dopoguerra.
La narrazione dell'autrice, pur non ambendo a raggiungere alte vette stilistiche, tuttavia è pregevole, per la capacità di ricostruire i luoghi e per il potere di inebriare il lettore con una gamma infinita di profumi.
Il caffè con i suoi aromi intensi e fragranti, con le sue varietà robuste e morbide, proveniente da terre lontane e cariche di magia, costituisce trade d'union di un'intera famiglia.
Il caffè sarà testimone muto dell'evolversi degli eventi familiari e storici, compagno fedele dei momenti felici e di quelli tragici.
Vivide le immagini di vita quotidiana tra le mura di casa al ritmo di usi e costumi del tempo, così come le immagini della vita di bottega dove si esercita il mestiere della torrefazione con amore e dedizione, quasi come vocazione.
Al calore del nido familiare l'autrice accosta il gelo ed il dolore della guerra, con le sue ferite indelebili nella carne e nei cuori, una Palermo straziata dalle bombe così come i suoi abitanti.

Il merito della Torregrossa è quello di saper raccontare una storia carica di immagini, di voci, di suoni, di colori, di odori; una galleria di uomini e donne cui è facile affezionarsi, dove si mescola amore, caparbietà, dedizione, abbandono.
E' la storia di una famiglia italiana che visse il periodo tra le due guerre raccontata ai lettori con semplicità, senza tuttavia perdere di vista la sostanza dei protagonisti, col loro fardello di ricordi e di sentimenti.
Una lettura gradevole che apre una finestra sul passato, addentrandosi tra i quartieri della vecchia Palermo, tra aromi di arance e di caffè, tra amori e dolori, tra polvere e sole.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    23 Mag, 2014
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Drazen, Dirk e Romeo

Marco Magini è un giovane autore che ha deciso di cimentarsi su un tema arduo: la guerra.
La guerra di cui racconta nel suo “Come fossi solo” è quella che ha insanguinato la Jugoslavia negli anni novanta.
Magini apre il sipario sull'eccidio di Srebrenica e su certi retroscena realmente accaduti e documentati; per fare ciò utilizza tre uomini, in rappresentanza di altrettanti punti vista.
Si alternano le voci di un soldato serbo, di un militare delle forze Onu e di un giudice membro del collegio del tribunale internazionale contro i crimini di guerra.
Magini ci fa osservare la guerra da tre angolazioni diverse, ci pone in mezzo al conflitto, in mezzo al dolore più estremo e alla morte.
E' un romanzo che va oltre alla narrativa, diviene diario e documento, diviene strumento di riflessione e di indagine psicologica, diviene analisi degli istinti umani, dei sentimenti, dell'influenza del caso o del destino.
Le immagini sono nette e crude, la ricostruzione dei luoghi e degli eventi è imbevuta di realismo e non può non gelare l'animo del lettore; una durezza di clima su cui la penna dell'autore non specula ma delinea con una manciata di tratti decisi.

L'impianto contenutistico è interessante, i volti dei protagonisti si susseguono mentre si raccontano, mentre ripercorrono le azioni compiute senza celarsi dietro maschere e giustificazioni.
La guerra rappresentata è un grande baratro, un vuoto che non prevede vincitori, un terreno su cui si fondono bene e male, un teatro di vita in cui molti eventi hanno una doppia faccia.
Solida la caratterizzazione degli uomini qua ritratti, fotografati durante momenti di azione e nel silenzio e nella segretezza del loro cuore; umanità e crudeltà si fronteggiano e si sfiorano, così come odio e tenerezza, come lucidità e ottenebramento.

Magini ha scritto una pagina di storia amara e dolorosa senza indulgere in sentimentalismi, anzi il suo linguaggio potrebbe essere percepito come freddo e ruvido; tuttavia ha la capacità di far percepire non solo gli orrori di una guerra ma anche i dilemmi e l'annientamento umano.
La guerra è sangue, ma anche solitudine.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    18 Mag, 2014
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Silenzi e grida a Napoli

Prende vita dalla penna di Antonella Cilento uno spaccato storico e sociale datato 1640 circa.
Le immagini sono quelle di una Napoli in fermento; la dominazione spagnola, lo strapotere del governo, le vessazioni, la fame, le rivolte.
Se per strada si vivacchia, si grida, si fomenta giorno dopo giorno la protesta, nei palazzi nobiliari si gozzoviglia, si banchetta e ci si sollazza.
Si alternano le facce di una città cupa, sovraffollata e maleodorante a quelle di una città fastosa, che pullula di artisti e pittori, fortemente ricercati presso le corti.

In un quadro dalle tinte contrastanti, pieno di ombre e di luci, si innesta la vicenda umana di una donna.
Chi è in realtà la docile Lisario? Quale è la malattia che la fa cadere nel sonno?
E' velato di mistero il racconto della vita della giovane donna, imprigionata in una condizione sociale che non le permette facoltà di scelta e di ribellione.
La Cilento narra una storia al femminile, una storia intrisa di amaro e compassione, a metà strada tra fiaba e cruda realtà.
Lisario è donna, deve sottostare alle decisioni della famiglia, ma nessuno potrà mai violare i suoi segreti; solo a lei appartiene un piccolo mondo che parla di sensualità, di piacere, di amore, di sogni.

Il progetto letterario della Cilento è ambizioso; dare forma ad un romanzo storico che si regga su radici salde è operazione complicata, così come piantare su questo terreno una storia credibile che riassuma in sé il clima del tempo, le atmosfere politiche e sociali, le consuetudini ed i costumi, il tutto senza tralasciare caratterizzazione e consistenza dei personaggi.
Un dato è certo; la Cilento ha una padronanza stilistica indiscutibile, dimostrandosi un'ottima voce per la nostra letteratura attuale. La sua penna riesce ad esprimere sensazioni e sentimenti oltre che a raffigurare volti, colori, profumi e suoni, utilizzando quando necessario il colore del gergo dialettale che buca le pagine del romanzo ponendo il lettore in mezzo a dialoghi scoppiettanti, in mezzo al caos di strade e piazze.
Eppoi l'eccellente uso della vena ironica, che smorza i toni gravi e tragici, disseminando qualche sorriso anche tra le pagine più dolorose.
Unico neo riscontrabile, una cesura netta che attraversa la trama del racconto; un salto narrativo che serve all'autrice per introdurre altri personaggi sulla scena, ma che crea un certo disorientamento per il lettore, fino a che i fili della storia non si rinsaldano nel prosieguo.

Un lavoro interessante, una buona riproposizione di un periodo storico oramai lontano, una buona prova di scrittura.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    15 Mag, 2014
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Il nero e l'argento

Paolo Giordano utilizza due colori per battezzare il suo nuovo romanzo: il nero e l'argento.
Due colori molto diversi, simboli muti di due cuori, due anime, due modi di essere.

Questa terza pubblicazione vede la penna dell'autore cimentarsi in un lavoro breve, ma non privo di intensità e di contenuto.
Il flusso narrativo è concentrato prevalentemente nella voce di uno solo dei protagonisti, la quale voce raccoglie e rielabora un insieme di ricordi e di immagini slegati da continuità temporale.
Al di là dei nomi e dei volti, appositamente sfocati, i protagonisti della storia sono i complessi meccanismi di coppia e familiari, la loro solidità o fragilità; insomma quel micro-mondo che si crea tra le mura di casa, con regole, consuetudini, equilibri.
Una famiglia giovane, la gestione della quotidianità, la ricerca della completezza dell'uno nell'altro, le mancanze, i silenzi; eppoi le finestre si aprono ed entra una ventata d'aria fresca tra quelle mura, che come una scossa elettrica riporta il riappropriarsi della vita, divenendo collante tra particelle oramai alla deriva.
Paolo Giordano in pochissime pagine riesce a far parlare i sentimenti, portando in superficie tutti i colori dell'anima; ci sono le tinte fosche dell'incomprensione e della chiusura, le sfumature nebulose dell'evanescenza e della superficialità, eppoi i colori più accesi sprigionati dai momenti più intensi della vita.
Si intrecciano prepotentemente l'amore ed il dolore, la vita e la morte, come due facce alterne di un'unica medaglia.
La vita raccontata da Giordano non fa sconti a nessuno, scorre tra dolcezze e amarezze, scandita da un'alternanza di momenti chiari e scuri.
E' palpabile una vena di pessimismo che scorre lenta e sotterranea, indugiando sotto le maschere dei ruoli ricoperti in famiglia e nella società.

Ritorna anche in questo romanzo il tema della solitudine già emerso e scandagliato ne “La solitudine dei numeri primi” e ne “Il corpo umano”; è una solitudine amara come veleno ed insidiosa, camuffata dapprima dal desiderio di condivisione e realizzazione attraverso la coppia eppoi esplosa nel luogo più intimo, come il focolare domestico, luogo che dovrebbe unire e cementare gli animi.
“Il nero e l'argento” è un'ottima prova di scrittura, che mette in luce la crescita stilistica dell'autore; il linguaggio è diventato più raffinato, l'espressività è potenziata.
Giordano si conferma un autore capace di indagare l'uomo, senza scivolare nella banalità e nello stucchevole, infondendo ai propri scritti un'emozionalità forte, fotografando situazioni figlie del quotidiano e della società attuale.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    11 Mag, 2014
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Tutta la luce di Francesco

Pietro di Bernardone è un ricco mercante di stoffe; si stabilisce ad Assisi con la famiglia e spera di tramandare ai figli una professione sicura ed una vita agiata.
Il secolo è buio e difficile, la terra italica è spaccata in guerre tra ducati, le famiglie benestanti sono nettamente contrapposte agli umili, ai poveri, ai derelitti.
Pochi hanno il pane tanti hanno solamente la fame come compagna, pochi banchettano all'interno di palazzi accoglienti tanti si scaldano in tuguri affollati.

Il figlio di Pietro è cresciuto tra agi e benessere, ma in lui si accende una luce, un'illuminazione; il giovane vuole evadere dalla gabbia dorata, da un mestiere imposto, dal luccichio di ori e argenti, lui vuole unirsi agli umili, abbracciare una vita spoglia di tutto, vestirsi di stracci, vivere come gli ultimi e con ultimi.
Lui è Francesco.

Aldo Nove ricostruisce gli episodi salienti della vita di Francesco d'Assisi, senza la presunzione di scrivere una biografia.
L'autore propone una rilettura di uno dei secoli più bui, forse anche a causa della carenza di materiale documentaristico rispetto ad altre epoche; una rilettura del Medioevo, della vita quotidiana, dei commerci, delle fazioni politiche, ma anche del clima religioso, del potere della Chiesa, delle faide, dei veleni.
All'interno di un quadro intriso anche di ideali filosofici sulla vita e sul mondo, Aldo Nove colloca la figura di Francesco, reso simbolo di un moto di ribellione, deus ex machina del cambiamento, del rinnovamento, spirito libero e audace, pronto ad uscire dalle tenebre dell'egoismo e della cupidigia personale.
Francesco sembra essere una scossa tellurica che spezza le catene dell'ipocrisia e della cieca avidità dell'uomo, incompreso dalla stessa famiglia, tacciato di follia.

Il taglio dato all'opera è godibile sul fronte del contenuto e di estrema bellezza stilistica, in quanto la penna di Nove sboccia in una prosa altamente lirica ed elegante.
Convincenti le ricostruzioni delle immagini tratte dalla vita del santo unitamente ad immagini dei tempi di cui si narra.
Il Francesco di Aldo Nove è un uomo prima che un santo, un giovane catturato dalla luce di tutto ciò che lo circonda, dal filo d'erba alla formica, dai raggi del sole alle ombre del tramonto; un giovane che ha aperto la strada ad un nuovo modo di pensare, di vivere e di agire.

In “Tutta la luce del mondo” Nove ha saputo raccontare con maestria ed originalità la storia di un uomo: si chiamava Francesco di Bernardone, era di Assisi.

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Storia e biografie
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    08 Mag, 2014
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Maria Stuarda, donna e regina

Tra i saggi biografici firmati dalla eccellente penna di Stefan Zweig si colloca tra le posizioni più alte “Maria Stuarda”.
Un'opera densa per la caratura e l'esaustività del contenuto e per la finezza espositiva.
Un'opera di cui si percepisce il minuzioso lavoro di ricerca per ottenere una stesura biografica di buon livello, senza lacune, senza salti temporali, ma raggiungendo il dettaglio in tema storico, politico e umano.

Maria Stuarda donna e regina è ricostruita in maniera esemplare, infondendo alla figura un'intensità emozionale come solo Zweig riesce a fare; siamo di fronte ad un autore che cerca l'anima nei suoi protagonisti e la trasmette al lettore, scivolando tra le pieghe nebulose della storia e facendo riemergere il lato verace, umano e passionale dei suoi uomini e delle sue donne.
Tanto si è scritto su Maria Stuarda, sulla sua vita complicata, sulle scelte, sugli errori, sui vizi e sulle virtù; Zweig non si ferma alla superficie, la sua penna scava, fa l'occhiolino all'introspezione psicologica, si spinge talvolta in maniera analitica dentro la vita della donna per quanto gli sia concesso dalle fonti dell'epoca.

L'affresco offerto da queste pagine è completo e consistente, pienamente soddisfacente per lettori esigenti sul piano della ricostruzione storica; nitide le immagini dei territori inglesi, dei castelli scozzesi, dei sordidi intrighi politici, ottimamente riportati i rapporti contrastati tra Maria Stuarda ed Elisabetta I, le lotte intestine all'interno delle corti, le fazioni, i tradimenti, i veleni.

Zweig ci ha lasciato un lavoro che è un piccolo pezzo di storia, illuminante per approfondire la conoscenza del secolo sedicesimo inglese-scozzese, per avvicinarci a personaggi lontani nel tempo, le cui gesta vengono tramandate da allora assumendo talvolta versioni differenti.
L'autore è consapevole di quante tenebre abbiano avvolto gli eventi, sfumando i contorni dei volti e delle azioni, tuttavia ama riportare alla luce i personaggi che hanno contribuito a scrivere pagine di storia, perché in loro vede anzitutto il lato umano.
Zweig mostra sempre un naturale interesse per le debolezze umane, buchi neri che sembrano aprirsi anche nella vita dei grandi della storia, di cui egli si fa osservatore e non giudice.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    30 Aprile, 2014
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La storia secondo Wu Ming

Il collettivo Wu Ming colpisce ancora, pubblicando un romanzo articolato, complesso, polifonico.
Si tratta de “ L'armata dei sonnambuli”, l'ennesima riscrittura della storia in cui eccelle il gruppo di autori bolognesi.
Il romanzo è deliberatamente strutturato come un lungo copione teatrale, capace di mettere in scena
tanti attori, tante maschere, tanti volti catturati dalle cronache dell'epoca, uomini politici, re e regine, monarchici, patrioti, sanculotti, malfattori, cortigiane; il grande teatro è la Francia post rivoluzione intorno agli anni 1792.

I Wu Ming sono abili penne nel raccontare la storia passata utilizzando materiali dell'epoca e riempendoli di vita e movimento, di pensieri ed azioni, rendendo gli eventi palpitanti davanti agli occhi del lettore. La Storia perde il manto polveroso, abbandona la staticità in cui il tempo l'ha relegata, per divenire vitale, per tornare in auge, per assumere i connotati di una grande allegoria.

Il periodo storico che ispira il romanzo è tra i più ferventi; anni di lotte, di fazioni, di intrighi politici, di terremoti sociali.
Un periodo che si presta a divenire palcoscenico; si incastrano come scatole cinesi immagini legate alla Rivoluzione dove gli uomini combattono per strada e nelle piazze, immagini di internati psichiatrici utilizzati come cavie per i nuovi esperimenti in campo medico che prevedono l'utilizzo dell'ipnosi, immagini di compagnie teatrali, immagini d corpi straziati dalla lama della ghigliottina.
Una galleria sfaccettata di uomini, un'orda affamata di pane e diritti, una masnada di furfanti e poveretti, una vera e propria armata di uomini la cui mente viene controllata con nuove tecniche scientifiche per scopi abietti e di opportunismo politico e sociale.
Una rivoluzione scissa in tante rivoluzioni, ciascun personaggio combatte la propria; chi cerca la giustizia, chi il pane, chi la libertà, chi la sopraffazione, chi la vittoria.

Lo spaccato offerto dagli autori è un groviglio incandescente, è un coro di voci che grida, è la Storia che si mescola ad un pizzico di fantasia, è il passato raccontato dai protagonisti.
E' un lavoro dall'impianto poderoso, costruito su solide basi storiche e documentali, nulla è lasciato al caso ma tutto confluisce verso il filo conduttore, verso il significato che gli autori vogliono attribuire alla gigantesca rappresentazione; la storia di ieri che si rispecchia in quella successiva e odierna.
Il linguaggio è scoppiettante, ribolle di termini gergali, turpiloqui, si adatta perfettamente al clima e al pathos della narrazione divenendo concitato e febbricitante.

Wu Ming non offre una lettura agevole, per la moltitudine dei personaggi, per le citazioni riportate, per la concatenazione degli eventi; eppure questo ultimo romanzo è una avventura che va vissuta fino all'ultimo rigo per poterne cogliere appieno l'essenza ed il messaggio.
Si accomodi il lettore in platea e si accinga ad essere catapultato per le strade di Parigi, affollate, imbrattate di sangue, brulicanti di vita; crocevia di amara realtà e sogno di speranza.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    24 Aprile, 2014
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Passeggiando in America

“America” nasce da un'esperienza di viaggio di Dickens sul suolo americano; era il 1841.
Charles Dickens a bordo del piroscafo Britannia salpa dalle amate coste inglesi per affrontare l'avventura di un viaggio di conoscenza e scoperta di luoghi e popoli.

L'autore inizia il suo racconto come un vero diario di viaggio, con una descrizione dettagliata e minuziosa dell'attraversata atlantica estremamente faticosa e disagevole, vissuta in maniera piuttosto negativa.
Eppoi il tanto agognato sbarco e le pagine dedicate all'osservazione degli usi e delle consuetudini nel nuovo continente, l'analisi delle istituzioni sociali, la tenuta dei centri urbani, e infine la legislazione.

Ciò che emerge dalla lettura è una voce affilata e critica nei confronti della terra ospite, un Dickens fortemente deluso da tutto ciò che vede e tocca con mano; tante le frecciate al vetriolo, seppur camuffate con sottile eleganza, con cui l'autore dissente dalla cultura americana.
L'invettiva più acuta e diretta rimane senza dubbio quella contro il problema ignominioso della schiavitù, che sfocia in pagine di testimonianza diretta riportando brani e annunci tratti dai giornali dell'epoca.

E' un'opera curiosa, che se da un lato ci avvicina ad un Dickens diverso dal narratore, dall'altro rimane testamento di una galleria di immagini e luoghi impressi su carta dalla penna dell'esimio autore. Si rende tuttavia necessaria una scrematura dei giudizi ivi espressi, in quanto l'enfasi e la parzialità dell'autore nell'esprimere taluni pareri è palese.
La scrittura sgorga rigogliosa e abbondante nei tratti descrittivi toccando perfino l'analitico in tema di istituzioni; rientra in canoni più consoni ad una voce da narratore nel raccontare i luoghi, gli stati d'animo e le aspettative.

Rimane un viaggio interessante, uno spaccato storico che immortala una terra ancora lontana da quella che oggi conosciamo ed un confronto tra due culture piuttosto divergenti.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    19 Aprile, 2014
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I volti di Giuda

Sebastiano Vassalli è maestro nel raccontare la storia attraverso le vicende di uomini e donne, attraverso l'analisi del quotidiano, dei volti, degli eventi.
Con “La notte del lupo” Vassalli compie un'operazione difficile, cucendo storia e leggenda, percorrendo un doppio binario presente e passato.

Chi era in realtà Giuda di Queriot?
E se il dna di questa figura divenuta simbolica si fosse tramandato nelle vene di altri uomini fino a giungere ai nostri giorni, contaminando pagine di storia recente?
Se il punto di partenza è affascinante, altrettanto può dirsi per l'impianto narrativo.
La penna di Vassalli è abile nel tenere le fila di due vicende, di due uomini, di due periodi storici, ipnotizzando l'ignaro lettore.
Due epoche pennellate a tinte forti, precise nei particolari, percorse dall'aria calda della Galilea e dalle brezze primaverili romane; i volti torbidi di due uomini che sanno mentire, che si sanno vendere, che riescono a tradire altri uomini.
Vassalli non si ferma alla superficie, è un autore che entra nei pensieri del suo protagonista, con semplicità, senza necessità di stupire con analisi psicologiche altisonanti, tuttavia con estrema efficacia.

I due Giuda, si alternano ritmicamente capitolo dopo capitolo, sovrapponendo quasi il loro volto, simboli di una tipologia umana che non è relegata alla leggenda e a scritture lontane, ma vive oggi come allora, assumendo le sembianze di un qualsiasi uomo che è possibile incontrare per strada o vedere immortalato sull'edizione straordinaria di un quotidiano in quanto legato ad un fatto di cronaca giudiziaria.

Un romanzo breve le cui pagine volano inseguendo le orme del celebre Giuda e di un novello Giuda; buono il ritmo narrativo, elegante la prosa, ricercato il contenuto.
Una buona prova di scrittura contraddistingue questo titolo poco conosciuto di Vassalli, autore capace di creare un romanzo che innesta spunti appartenenti a mondi disparati, come le sacre scritture, testi di tradizione religiosa, fatti di cronaca del secolo appena trascorso, fondendoli e rendendoli speculari.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    16 Aprile, 2014
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Frida

“Viva la vida” nasce da un'operazione di salvataggio, ossia estrapolando un interessante monologo scritto da Pino Cacucci per una sceneggiatura teatrale in cui si incrociavano quattro voci, una della quali era quella di Frida Khalo.
Abortendo il progetto, l'autore ha pensato di isolare la voce della pittrice messicana e di pubblicarla, redigendo in epilogo alcune pagine per ripercorrere i tratti salienti della vita della donna, unitamente ad alcune sue considerazioni critiche personali.

Il monologo è squisitamente lirico, la voce di Frida fluisce con naturalezza, raccontandosi di fronte al pubblico senza veli come un canto dalle note in netto contrasto, da un lato dolore e tristezza dall'altro forza e convinzione.
Non è semplice prestare la voce a Frida Khalo, il rischio di cadere nella banalità è consistente; invece Cacucci compie un ottimo lavoro, mettendo in scena una donna in carne e ossa, devastata nel fisico da un destino crudele, ma tenace nello spirito, nonostante i momenti di caduta, i momenti di buio, come è naturale che sia.
Frida e il suo corpo, Frida e l'amore, Frida e la pittura, Frida e la vita.

La scrittura di Cacucci è intensa, il navigare nel cuore della protagonista è ben congegnato, mostrando un'ottima conoscenza della pittrice, tanto da farne parlare i pensieri, le paure e le speranze.
E' una lettura brevissima ma commovente, a tratti lacerante, che pur non avendo pretesa di esaustività, tuttavia apre una finestrella sulla vita di una donna, un'artista, dall'esistenza complicata e compromessa, una donna lottatrice.
Tante le riflessioni sul senso della vita e sulla sua precarietà, oltre ad instillare nel lettore il desiderio di approfondire questa storia incredibile.

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Racconti
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    13 Aprile, 2014
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Cinque storie di vita

“Per voce sola” è il titolo di una manciata di racconti scritti da Susanna Tamaro.
Cinque racconti dal contenuto graffiante, la rappresentazione di un magma incandescente che brucia l'anima di ciascun protagonista.
Storie di donne, di famiglie, di uomini, di figli; storie che parlano di crudeltà, di azioni abiette, di rinunce, di distacchi, di violazioni.
E' abile la penna dell'autrice nel dare voce a loro, ai protagonisti, ricamando una serie di monologhi spiazzanti, dove le parole sono genuine e colpiscono per loro semplicità, dove i sentimenti affiorano riga dopo riga, limpidi.
Da ogni racconto traspare la capacità dell'autrice di scavare nell'emotività, di affondare la luce nelle pieghe più intime e segrete della persona, fino a provocare un coinvolgimento totale del lettore.
E' una lettura dai contenuti così forti e dal ritmo così serrato, che impedisce di rimanerne meri spettatori, ma avvolge il pubblico come una cappa di ferro.

La Tamaro riesce a dare tanti volti al dolore, raccontando storie di vita maledettamente reali, episodi di quotidianità; ed è proprio il quotidiano che spesso maschera tanti demoni.
L'autrice abbatte il muro del buio e del silenzio, sfila la maschera a situazioni di apparente normalità, catapultandoci nel baratro di una vita lacerata.
La maggior parte sono storie di donne, la cui psicologia è ottimamente tratteggiata dall'autrice, senza sbavature, utilizzando una prosa elegante, mai eccessiva nei toni, nonostante la delicatezza degli argomenti.
Le donne della Tamaro non alzano la voce, non si abbandonano al vittimismo, non invocano vendette; vogliono uscire dal buio raccontando, consapevoli che le ferite lasciano il segno per sempre.

Un lavoro che mostra punti di contatto con “Buio” di Dacia Maraini soprattutto per i contenuti, invece sul piano emozionale e passionale la Tamaro è vincente, donandoci una intensità straordinaria.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    10 Aprile, 2014
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Notturno

Allo scoppio del primo conflitto mondiale nel 1915, D'Annunzio si arruolò e partecipò attivamente alle operazioni belliche come aviatore.
Il suo “Notturno” nacque durante un periodo di convalescenza a seguito di un incidente aereo nei pressi di Venezia, che gli compromise l'uso della vista, infliggendogli l'obbligo di forzata mobilità per diverse settimane.

Nasce come un lavoro dal marcato accento autobiografico soprattutto nel preludio, riportando i dettagli amari dell'incidente occorso, la perdita del caro amico co-pilota, il ricordo delle numerose azioni belliche affrontate; eppoi il contenuto vola tra presente e passato, tra sogni ed incubi, assumendo le caratteristiche del flusso di coscienza.
Si rompono gli argini spazio-tempo, più prende forma il demone della cecità più si accavallano le immagini, scorrono i ricordi della memoria, voci e volti, paure ed emozioni.
La voce di D'Annunzio scorre con fiume in piena, scuotendo il suo stesso animo, facendolo vagare tra pensieri tristi e dolorosi, mettendolo al cospetto della morte e del buio.
Egli attraversa così momenti cupi in cui sembra vacillare e perdersi, abbandonando le parole altisonanti del superuomo, rimpicciolendosi come uomo comune di fronte alle asperità della vita.
Un D'Annunzio uomo diverso, minato nella salute e nella serenità spirituale, fiaccato nel fisico e provato moralmente.

Un componimento dal sapore nettamente diverso rispetto ad altre opere, a testimonianza della ecletticità dell'autore, di una penna che ha percorso varie strade espressive.
La prosa è depurata dalla ricerca estetica, è raffinata e lirica, ben adatta ad un fluire ininterrotto di pensieri e ricordi, di immagini che si inanellano senza lasciare spazi.
Un'opera accolta con enfasi dalla critica del tempo, vista come un mettersi a nudo da parte dell'autore spogliandosi dalle maschere utilizzate nei momenti precedenti.
Potrebbe essere, come potrebbe essere l'ennesima sperimentazione letteraria del vate, accogliendo lo spunto offertogli dalla vita stessa, una dura prova, la paura della cecità, una caduta agli inferi senza garanzie di ritorno, elementi che lo costringono ad un'analisi disperata della vita passata.
E così egli forgia la sua penna adattandola ai suoi pensieri straripanti, ad un animo che vaga tra sogno e realtà senza confini, varcando le terre delle visioni che lo portano fino alla giovinezza, alla casa natale e alla cara madre, per poi riemergere e navigare nelle acque agitate del presente, scosso dalle recenti immagini di morte, di vite spezzate, di colori terrei di volti spenti per sempre.

Un D'Annunzio meno conosciuto emerge dalla lettura di “Notturno”, lontano da echi filosofici, da tensioni idealistiche di stampo politico, lontano da contaminazioni letterarie marcate presenti altrove.


* Termina con la recensione di questo titolo il percorso di lettura proposto alla riscoperta di Gabriele D'Annunzio; un autore dai forti contrasti, come emerge dall'insieme di tutta la sua produzione e dalle opere scelte e recensite.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    09 Aprile, 2014
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Tra samba e lacrime

Il Paese del carnevale è il romanzo di esordio di Jorge Amado nel 1931.
E' un romanzo che rivela già l'essenza dello scrittore, il suo stile di scrittura che si consoliderà nei lavori successivi.
Al di là dei numerosi volti che scorrono tra le pagine, il vero protagonista è il Brasile, fotografato in un periodo storico di transizione, scosso da continue rivoluzioni, percorso da contrasti politici, segnato da divisioni sociali, povertà, corruzione, speculazioni.
Un paese, nonostante tutto, pieno di vita, vivace e suggestivo come il suo carnevale, evento simbolo, dna brasiliano, che per qualche tempo spazza via lotte e faide, unendo un'intera popolazione.
La penna di Amado non cattura solamente l'aria magica e sensuale di questa terra, ma scava nel profondo di una cultura e di una società che brama cambiamento che coabita col bene e col male.
Entrano in scena gli uomini e le donne di Amado, che personificano idee e pensieri opposti, la sensualità e la razionalità, la rettitudine e l'immoralità, concentrati in una tensione continua alla felicità, alla sopravvivenza, alla realizzazione.

Considerando che questo romanzo è stato scritto dalla penna di un Amado diciannovenne, lo si potrà trovare incredibilmente maturo, definito nei contenuti, suggestivo nello stile; un autore che coglie i numerosi spunti che gli fornisce il paese e che si fa portavoce di un popolo, di un sentimento, di una terra crogiolo di volti, di costumi, di realtà sociali contrastanti.

Un romanzo breve ma intenso che consente di conoscere un grande autore e di assaporare le immagini attraverso le quali è riuscito ad immortalare il Brasile del secolo scorso, in particolare gli anni Trenta, anni di fervore politico e culturale.
Il paese del carnevale è una terra che vuole sognare, che vive di musiche e di colori ma quando si scontra con la realtà, l'impatto genera ancora delusione.
Comincia da questo primo tassello letterario il lungo percorso di Amado che lo porterà a raccontare i tanti volti del suo paese.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    03 Aprile, 2014
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E se Michelangelo...

Splendidi frutti di melograno segnano la copertina dell'ultimo romanzo del francese Enard, una giovane voce poco conosciuta nel nostro paese.

“Parlami di battaglie, re ed elefanti” classificato come romanzo storico, nasce dall'idea dell'autore di dare una risposta alla domanda “ ..e se Michelangelo fosse sbarcato a Costantinopoli per progettare la realizzazione di un ponte sul Corno d'Oro?”

Che Leonardo da Vinci fosse stato contattato dal sultano Bayazid per potergli affidare la costruzione di un ponte è dato certo, eppure Enard in appendice racconta di come recentemente siano stati rinvenuti dei carteggi appartenuti al Buonarroti, con schizzi di un ponte e dei rilievi di Santa Sofia.
Parte proprio da questo spunto la costruzione del romanzo che colloca il grande Michelangelo tra le strade dell'attuale Istanbul.
Correva l'anno 1506.

Quello che il lettore ritrova tra le pagine di questo romanzo è un Michelangelo ritratto con realismo, da parte di un autore che non improvvisa, ma dopo essersi nutrito di materiali e studi sul suo personaggio, ce ne trasmette un volto concreto e storico.
Piacevole e ben orchestrato l'intento di Enard, di far camminare un uomo dell'occidente, un uomo avvezzo a calpestare le strade di Firenze e di Roma, tra i vicoli di una delle più grandi città del passato, avvolta da costumi e tradizioni poco conosciuti.
Belle le immagini del fiorentino a spasso tra i profumi dei mercati, i cui occhi sono colpiti dai colori delle spezie essiccate e dei frutti dai sapori diversi.
Eppoi l'incontro con una cultura differente, i versi del poeta Mesihi di Pristina gentile ospite durante il soggiorno, gli abbigliamenti, i suoni, le danze.
La concretezza e la razionalità di un uomo occidentale che si misura con la fantasia, con la magia dei luoghi, con le emozioni, con i sogni.

Il narrare di Enard non è corposo, il suo essere descrittivo è dominato da un tratto rapido e poetico, fermandosi brevemente sulle immagini e sui soggetti ma catturandone il cuore.
A tratti diviene una lettura di flash emozionali, di scorci, di pensieri, che nell'insieme concorrono a creare il tempo ed il luogo.
Un romanzo breve, con capitoli veloci come un soffio, una trama che vuole intrecciare due mondi, una storia che riemerge dal passato vestita un po' come una fiaba.

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"Il tormento e l'estasi" di I. Stone
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    01 Aprile, 2014
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Una donna, due volti

Da pochi giorni è possibile leggere l'ultimo racconto di Cristina Comencini.
Lo definiamo racconto per l'esiguità delle pagine, uno spazio brevissimo in cui l'autrice riesce ad entrare nell'anima della sua protagonista.
Non c'è spazio per i preamboli, per introdurre la donna e la sua vita; questa autrice ha la capacità di disegnare il lato più oscuro di un cuore nello spazio di un battito di ciglia.
Con frasi rapide e veloci prende forma il volto di Nadia, figlia, moglie e madre, eppoi i vuoti, gli abbandoni, i rancori, le finzioni, le insoddisfazioni; una vita che deraglia abbandonando i binari della cosiddetta normalità, della famiglia, degli affetti, del perbenismo, per frantumarsi in tanti cocci.
E' straordinaria l'immagine dell'esplosione o trasformazione di questa donna, fotografando un collage di tante storie riportate dalle cronache, situazioni forti talora limite, eppure impregnate di crudo realismo.
I contenuti proposti dalla Comencini non possono lasciare il lettore indifferente sia altrove sia qua, sono il frutto di sentimenti sbagliati, corrotti, deturpati dalle forze oscure all'interno dell'individuo oppure da rapporti familiari e sociali piagati.
L'autrice riesce ad entrare nella parte più buia dell'animo umano, lo osserva e lo racconta ma non offre spiegazioni o giustificazioni delle azioni e dei pensieri.

La Comencini ha uno stile di scrittura inconfondibile, aggressivo e arrabbiato, denso e sintetico, non concede alla sua penna divagazioni, ma corre dritta sul bersaglio.
Non smentisce la sua alta espressività in questo racconto, nonostante ci si chieda il perché di una forma strutturale così concisa, quando i temi affrontati avrebbero permesso l'elaborazione di qualche pagina in più.
Sicuramente una scelta ponderata, una storia dai connotati così marcati e definiti da spingere l'autrice ad un'analisi rapida come una sferzata, una storia dove la fine è già scritta strada facendo, una storia di cui è impossibile tentare di ricucire i pezzi.

Ancora un buon lavoro, una lettura di grande trasporto emotivo, un viaggio nel dolore che non prevede il ritorno.
Al termine della lettura viene naturale chiedersi se siamo certi di conoscere la persona che abbiamo accanto nella vita e con cui stiamo condividendo un percorso; per l'autrice è un quesito per nulla scontato.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    28 Marzo, 2014
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Una donna dura come pietra

“Pietra è il mio nome” è l'ultimo lavoro di Lorenzo Beccati, forse conosciuto più come autore televisivo che nella veste di narratore.
Eppure Beccati negli ultimi anni si sta dedicando alla scrittura di romanzi appartenenti al genere del giallo storico, ambientandoli per le strade della sua Genova a cavallo tra 1500 e 1600.

Correva l'anno 1601 quando tra i carruggi genovesi un oscuro assassino seminava morte e terrore, mettendo in allarme le autorità.
Entra in scena la protagonista, la giovanissima Pietra, il cui nome eguaglia un temperamento ed un carattere duro da scalfire nonostante le avversità postele dalla vita; una donna iniziata fin da bambina alla misteriosa arte della rabdomanzia, invisa a molti, tacciata di stregoneria, eppure utilizzata in extremis come fonte di verità dal bargello e dalle guardie del Doge.

La figura di Pietra è il fulcro dell'intero racconto, donna scaltra e giudiziosa, consapevole dell'opinione che i concittadini nutrono di lei e avvezza a combattere la malignità ed i pregiudizi delle persone; una donna cui è stata rubata l'infanzia, la famiglia e gli affetti, piegandosi giocoforza al ruolo di rabdomante per pura sopravvivenza.

Il romanzo di Beccati, pur non possedendo la consistenza e la rigorosità di un romanzo storico a tuttotondo, tuttavia esplicita il desiderio dell'autore di addentrarsi nei meandri di un'epoca lontana, minata da vendette, superstizioni, dove le distanze sociali sono segnate da solchi incolmabili, dove il quotidiano è segnato da fame e miseria.
E' rappresentata la Genova dei palazzi del potere e l'altra Genova, quella della gente comune, delle donne che aspettano il proprio uomo imbarcato, dei piccoli artigiani che riempiono i vicoli con le loro mercanzie, eppoi i negletti ed i disperati.

La scrittura di Beccati è rapida, dominata da periodi brevi, frasi cristalline e qualche vezzo linguistico, note positive che a tratti si scontrano con la necessità del lettore di trovare maggior spessore narrativo. In compenso l'idea che supporta il contenuto è buona ed il personaggio di Pietra è positivo, fotografando una storia tutta al femminile, una storia in bianco e nero, una storia densa di umanità e di cattiveria come due facce della stessa medaglia.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    25 Marzo, 2014
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Sette luoghi

L'ultimo romanzo dell'autore egiziano Ziedan si scosta dall'ambientazione storica dei titoli precedenti, ossia “Azazel” e “Nabateo, lo scriba”, descrivendo uno spaccato di contemporaneità.

Il protagonista della storia è un ragazzo musulmano di oggi, sul cui nome e volto Ziedan non indugia mai, perchè di questo giovane vuole farne un simbolo, il simbolo di un giovane dei nostri tempi che appartiene alla società islamica.
Inizialmente scorrono immagini di vita quotidiana, la famiglia, gli studi, un lavoro come guida turistica tra i meravigliosi siti archeologici egizi, l'amore ed il desiderio di costruire un futuro con una splendida ragazza; eppoi le tinte rosa cedono la scena a colori foschi.
Il romanzo cambia marcia e cambia volto, gli avvenimenti si accavallano prendendo le oscure strade dell'estremismo, del terrorismo, del braccio di ferro tra Stati Uniti e mondo islamico.

Insomma ben presto il lettore comprende l'intento della penna di Ziedan; trattare il tema caldo del terrorismo islamico attraverso gli occhi disperati di un giovane incappato casualmente in certi ambienti, trascinato in vicoli senza uscita, seppure lontano da determinate ideologie.

La storia giunge ad assumere connotati forti, descrivendo situazioni balzate agli onori delle cronache, spaziando tra Egitto, Emirati Arabi, Uzbekistan ed Afghanistan e Pakistan.
La calma placida dell'attacco narrativo assume un ritmo rapido, il clima diviene rovente per le violenze ed i soprusi.

Sicuramente è un romanzo che desta riflessione ed è comprensibile il desiderio dello scrittore di alzare la voce per dire al mondo occidentale che non tutti i musulmani sono estremisti o terroristi in lotta contro l'occidente.
Il protagonista del romanzo è una vittima assoluta, un arabo che non ha scelto volontariamente di affiliarsi ai terroristi, un uomo che giocando a carte col destino ha perso.
Anche se taluni eventi sembrano un tantino forzati mettendone in discussione la reale possibilità, tuttavia resta il fatto che il tema del terrorismo di stampo islamico ha assunto connotati seri sul piano politico internazionale degli ultimi decenni, calamitando l'attenzione dei media, accendendo un focus sul mondo arabo e su determinati territori, rimarcando differenze socio-culturali e religiose.
Esiste una ferita aperta tra il mondo occidentale e quello medio-orientale che l'autore egiziano riconosce ed intorno alla quale imbastisce una storia di vita sui generis, un caso limite, per avvicinare i lembi di entrambe le carni straziate da oramai innumerevoli morti.

Nel complesso un romanzo discreto, di un autore votato più al contenuto che allo stile di scrittura, quest'ultimo senza tocchi di originalità, a tratti scarno e poco incisivo.

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Racconti di viaggio
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    22 Marzo, 2014
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Terra del fuoco

Francisco Coloane classe 1910 è un autore che con la sua penna ha contribuito allo sviluppo della letteratura sudamericana.
Lui, cileno, approda alla scrittura dopo una vita faticosa e dai mille mestieri.
“Terra del fuoco” è una raccolta di racconti, da cui affiora quella forza e quella intensità che spesso solo lo spunto biografico riesce a dare.
Sullo sfondo di luoghi talora inospitali, dove la natura detta delle leggi ferree, come l'intensità delle tempeste, il gelo, i venti, a cavallo tra Patagonia e Terra del Fuoco, scorrono le storie di uomini vinti, corrosi da una vita grigia, amara e dolorosa.
All'estremità del mondo, Coloane rappresenta un'umanità fatta di marinai, braccianti, minatori giunti da varie parti del mondo alla ricerca di un rifugio, di una speranza di guadagno o semplicemente di sopravvivenza; ma questa terra del fuoco finisce per divorare tutto, estirpando il filo della speranza.
La penna di Coloane non si dilunga nelle descrizioni dei luoghi, ma concentra tutto il suo impegno per parlare di loro, dei protagonisti delle sue storie, dei loro sentimenti, del loro cuore avido e crudele, della loro solitudine, della tensione disperata all'affetto e alla solidarietà.
Uomini buoni e cattivi, uomini divisi tra bontà e cattiveria in egual misura, uomini irrecuperabili e uomini calpestati dai simili e dal destino.
Scorrono scene dure, comportamenti detestabili, ma l'autore rimane confinato nel proprio ruolo di narratore senza affrontare l'aspetto del giudizio morale.
Le storie di Coloane sono destinate ad imprimersi negli occhi del lettore, avvolte in un'atmosfera particolare e rarefatta che sembra mescolare realtà estrema ed un pizzico di leggenda; insomma una lontanissima periferia del globo, svincolata dalle leggi della civiltà, dove a tratti tutto sembra lecito, dove si respira un'aria di abbandono e di deriva.

Si tratta di una raccolta interessante per approcciarsi all'autore cileno, per avvicinarsi alle tematiche da lui trattate ed al suo stile di scrittura, tendenzialmente asciutto ed efficace.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    20 Marzo, 2014
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Giovanni Episcopo

Dopo aver conosciuto il D'Annunzio de “Il Piacere”, l'approccio alla lettura del romanzo breve “Giovanni Episcopo” è alquanto destabilizzante e curioso.

Si tratta di un romanzo che ha stimolato fiumi di analisi e commenti critici a causa della vicinanza contenutistica e stilistica con lavori di autori del calibro di Dostoevskij.
Ebbene per chi conoscesse lo splendido protagonista de “Memorie del sottosuolo”, ritroverà tra le pagine dannunziane molti punti di contatto, riaffioreranno ricordi precisi di quella lettura.
Se costituisce dato certo che il Giovanni Episcopo sia figlio del desiderio di D'Annunzio di sperimentare nuove strade, trascinato dal profumo letterario di un filone poderoso come quello della letteratura russa e non solo, è altrettanto certo il valore di questo romanzo ed il buon lavoro di caratterizzazione del personaggio.

Giovanni Episcopo vuole essere un lavoro letterario di introspezione psicologica, un viaggio nel cuore e nella mente di un uomo.
Cade la raffinatezza stilistica cui D'Annunzio ci ha abituato altrove, cade la grazia, il vezzo linguistico e la liricità.
Gli strumenti linguistici utilizzati su questo terreno sono meno dolci e rigogliosi, ma diretti ed incisivi perché questo la narrazione richiede.
Cade il dolce flusso narrativo della penna dell'autore per lasciare spazio al monologo-confessione del protagonista; una voce che parte da un cuore sprofondato agli inferi, una voce violentata dalle avversità della vita, una voce piegata dalla sofferenza.

Nell'arco di poche pagine è presto delineato Giovanni Episcopo, un uomo che non vive la vita ma viene vissuto da essa; incapace di prese di posizione, di slanci intellettivi e materiali.
Uomo grigio e logorato, figlio della società che lo ha partorito e che lo accoglie.
Abbandonati gli sfarzi ed il luccichio dell'aristocrazia romana, D'Annunzio ci prende per mano e ci porta ad esplorare altri strati sociali, popolati da intemperanze, prepotenze, immoralità, lascivia.
Un mondo che vive nelle taverne fumose, nei vicoli angusti, in modeste abitazioni claustrofobiche; uno spaccato di umanità che deve lavorare per vivere, che non frequenta teatri e salotti.

Le atmosfere che attraversano il romanzo sono perfettamente costruite, tanto da creare un' aria rarefatta difficile da respirare, un clima uggioso, un sole spento sia nei cuori sia sull'orizzonte di Roma.
Un lavoro dal sapore sperimentale, per mettere alla prova la penna sul fronte psicologico, dove l'espressività estetica cede il passo al rigore della voce della coscienza, ad un flusso di immagini e sentimenti spogliati da belletti e cipria.

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Romanzi
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    18 Marzo, 2014
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Come un respiro interrotto

Dopo l'ottima prova di scrittura con “L'ultimo ballo di Charlot”, giunto secondo classificato al Premio Campiello 2013, Fabio Stassi è da pochi giorni nelle librerie con il suo nuovo romanzo.

“Come un respiro interrotto” è un romanzo che ci regala un autore ulteriormente maturato, che ha cercato strade personali per esprimersi al meglio, raggiungendo completezza di contenuti e di stile.
Stassi compone la trama del suo lavoro utilizzando tante tessere, ossia tante voci, divenendo la sua penna un collante per realizzare un quadro di vita multicolore.
L'impatto è forte e disorientante, una coralità di voci che porta in scena volti e storie del passato, un'alternanza di punti di vista, un brulichio di sentimenti che tratteggiano una donna misteriosa; lei è Sole, alla brillantezza attribuita dal nome fa da contraltare una coltre nebbiosa che la avvolge da sempre, passato e presente, una ragazza degli anni Settanta, una cantante, una figlia, una nipote, una sorella, un'amica.
La caratterizzazione di Sole attraverso queste pagine è un vero capolavoro, che brilla per intensità, raffinatezza; è una protagonista che si compone un pezzo alla volta fino alla rivelazione finale, in cui tutti gli elementi accumulati per strada prendono forma, dando un volto a quell'immagine eterea e sfumata che l'autore ha creato lungo il percorso narrativo.
Complementari e indispensabili tutte le figure che le ruotando attorno e che ci parlano di lei, spogliandosi di segreti e condividendoli direttamente col lettore in lunghi monologhi.

La storia raccontata da Stassi è un'apoteosi di vite, di sofferenze, di sacrifici, di abbandoni, di amore; è un groviglio di individualità, è un esempio di cuore nella famiglia e nell'amicizia.
Fabio Stassi raggiunge un eccellente risultato di scrittura, percorrendo strade espressive nuove e vincenti rispetto al lavoro precedente, abbandonandosi a tratti ad una scrittura viscerale e dimostrando notevoli capacità di indagine psicologica attraversando indistintamente e con efficacia l'universo maschile e quello femminile.
E' un lavoro che parte lentamente fino raggiungere un ritmo ed una profondità sconvolgente, caricandosi di un'impetuosità emotiva verace.
Il mondo rappresentato da Stassi è senza veli e belletti, un mondo che ti mette alla prova in famiglia e nella società, un mondo amaro, un mondo di ieri che si riflette su quello attuale.

“Come un respiro interrotto” sa regalare emozione e commozione, cavalcando le onde dei ricordi, delle immagini, delle parole, dei pensieri.

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L'ultimo ballo di Charlot
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Storia e biografie
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    14 Marzo, 2014
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Oltre i confini della terra

Se con i saggi dedicati ad Amerigo Vespucci e ad Erasmo da Rotterdam, Zweig evadeva dal genere prettamente biografico, con il suo Magellano egli vi rientra a pieno titolo, dedicando al grande navigatore una validissima opera.

Zweig offre la possibilità al pubblico di conoscere la vita intera di Magellano e di navigare insieme a lui per affrontare la sua più eroica ed importante impresa, la circumnavigazione del globo.
Se sappiamo tutto del viaggio del portoghese, lo dobbiamo ai diari di un uomo di bordo Antonio Pigafetta, cronista ante litteram dell'intero percorso durato ben due anni con partenza da Siviglia e ritorno nello stesso porto, quando oramai tutti avevano perso le speranze di rivedere la flotta.
Zweig è riuscito ad eleborare un lavoro di estrema compiutezza e rigorosità documentale, grazie allo studio certosino dei carteggi del Pigafetta, scrivendo un saggio memorabile.
La penna dell'autore perde qualche venatura sentimentale e passionale presente altrove, per divenire più oggettiva, più narrativa, per avvolgere il lettore con un racconto ricco di notizie, di aneddoti, di momenti di scelta e sacrificio di uomini,un racconto che parla di pazienza, di coraggio, di morte, di fatica.
Zweig ci pone davanti ad un filmato che inizia dalla prima pagina e termina all'ultima, provocando in chi legge delle emozioni molto forti; ci fa sentire in balia dell'oceano, ci fa sentire la tenacia del capitano Magellano, ci fa sentire quel dolore feroce che attanagliava l'equipaggio dopo mesi di peregrinazione per mare alla ricerca ostinata e disperata del varco che congiungesse i due grandi oceani, ci fa sentire la morsa della fame quando le stive delle navi erano oramai vuote, ci fa provare il gelo della terra del fuoco, ci fa sentire il grido stremato dei marinai alla notizia tanto sperata.

Insomma tra queste pagine tante notizie, il racconto di una grande avventura che forse non tutti conoscono nei particolari, ma anche tanto pathos scaturito dalla nitidezza delle immagini.
Un grande Zweig, il cui amore per i viaggi intorno al mondo ha fatto riaffiorare alla memoria la figura di Magellano, uomo ed esploratore, un caparbio, un paziente, un uomo tenace, forse coraggioso forse un po' incosciente.
Pur imponendosi una narrazione distaccata, si percepisce l'ammirazione dell'autore per il navigatore portoghese, per un viaggio divenuto leggendario e punto di svolta della modernità, della nuova concezione geografica della terra.
Un testo che leva gli ormeggi dalle placide acque del mare saggistico per affrontare i venti impetuosi di un storia di vita immensa.

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Zweig " Amerigo Vespucci"
Zweig " Erasmo da Rotterdam"
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Romanzi autobiografici
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    10 Marzo, 2014
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Vivere in Vaticano

Negli ultimi anni il focus sul Vaticano e le sue vicende sembra essersi potenziato, tanto che si è ampliata una certa produzione saggistica sul tema.
Tralasciando certuni scritti a sfondo prettamente critico e scandalistico, mossi più dall'intento di raggiungere buone vendite a scapito di una corretta informazione, occorre vagliare con cura l'attendibilità delle notizie dal semplice fumo.
Chi non si è mai domandato cosa avvenga tra le mura vaticane, come funzioni questo micro apparato statale?
Sicuramente è un argomento che stimola curiosità e di cui si è disposti ad ascoltare volentieri.
L'autrice Matilde Gaddi ha deciso di raccogliere i ricordi personali e familiari in un piccolo saggio autobiografico; lei nata presso lo Stato Vaticano, come testimoniano in maniera indelebile i suoi documenti, da una famiglia ivi residente per il lavoro del padre.

Il racconto, pur nella sua semplicità, lontano dalla minuziosità di un saggio di un addetto ai lavori, tuttavia riesce a trasmettere al lettore tante informazioni precise, dalle più formali alle più spicciole e quotidiane, raggiungendo pienamente lo scopo di aprire il sipario sulla vita un po' “speciale” che si vive all'interno di quelle mura; mura che separano l'Italia da uno Stato estero, retto dal Santo Padre, mura avvolte da un alone di mistero.
I ricordi della signora Gaddi percorrono la prima parte del secolo scorso, anni densi di storia e di avvenimenti anche per il Vaticano, con il succedersi di figure notevoli di papi, lei che li ha conosciuti da vicino, percependone le diversità e le particolarità, ce ne offre qualche aneddoto.
Degne di nota durante questa lettura, le informazioni sullo statuto legislativo e normativo che gli abitanti laici del piccolo stato sono tenuti ad osservare; insomma per loro vivere tra quelle mura non significa solo usufruire dei benefici ma comporta anche il dovere di rispettare leggi e regole.

Una lettura rapida e suggestiva, in grado di svelare attraverso la storia della famiglia Gaddi, la storia di tante altre persone che prestano attività lavorativa per il Vaticano e là risiedono.
Una lettura dai connotati illuminanti anche per chi avesse masticato nozioni di diritto internazionale, arricchendo la conoscenza di regolamenti specifici e consuetudini cristallizzate nel tempo.

Aleggia forte tra le pagine tanta nostalgia da parte di chi scrive e la voglia di ricordare il proprio passato, la propria infanzia e adolescenza tra le mura di uno dei luoghi più noti al mondo, ma al tempo stesso più segreti, più magici, immerso in una perenne nebbiolina che ne conserva tutta la sacralità.


Un ringraziamento alla signora Matilde Gaddi per aver concesso una copia del suo saggio alla Qredazione.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    06 Marzo, 2014
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Il Piacere

Romanzo divenuto da sempre simbolo per identificare D'Annunzio letterato, “Il Piacere” è stato sezionato e parcellizzato in ogni sua parte da foltissima schiera di critici, analizzandone intenti, espressività, stile e linguaggio, influenze, coerenze e contrasti con gli indirizzi artistici dell'epoca cui appartiene.

Abbandonando ricordi scolastici e antologici, svicolando dalle indicazioni dei critici letterari, cosa trasmette oggi una simile lettura?
Senza dubbio il romanzo “Il Piacere” è un'opera complessa, all'interno della quale si intrecciano contenuti, caratterizzazioni psicologiche dei personaggi, atmosfere letterarie, contaminazioni decadenti; ma l'effetto finale è squisitamente raffinato.

Il contenuto su cui poggia l'intera impalcatura del racconto è presente e solido, un contenuto elaborato da D'Annunzio con cura del particolare oggettivo e soggettivo.
Andrea Sperelli è figlio di una società aristocratica che si culla tra ozi, agi, teatri, concerti, duelli; egli è diviso tra avventure amorose che scandiscono le ore del giorno e della notte, egli è rapito dalla beltà e dal fascino muliebre, dal brivido della passione, del tradimento, scivolando tra alcove, immerso in vagheggiamenti sognanti e deliranti.
Andrea è l'espressione più alta della passione e dell'emotività, ritratto nella vividezza degli usi del tempo e scandagliato nell'intimo del cuore.

Lo spaccato sociale e ambientale è fedele ai tempi, è filo conduttore e culla dell'intera narrazione; i palazzi romani sono dimore ricche e sfarzose, pullulano di opere d'arte, di arazzi, di sculture, di tessuti preziosi e introvabili. Tutto ciò che circonda questi uomini è un'esplosione di bellezza, di ricercatezza, di armonia.
D'Annunzio sa cantare il ruolo dell'arte e vuole cantare il valore e l'anima dell'arte attraverso queste pagine, infarcendo la narrazione di citazioni poetiche, di rappresentazioni pittoriche e di arie musicali; risuona alle orecchie del lettore una sinfonia melodiosa, rifulgono agli occhi l'oro zecchino delle cornici, il luccichio di gioielli di ottima fattura e cesello.

Strada facendo sale forte il messaggio dell'autore, come un vento insinuatosi tra le pagine; impossibile ignorarlo. L'incanto si spezza, la caduta avanza, in maniera duplice, ossia nelle pieghe dell'animo umano e della società e nel campo artistico.
Mirabile D'Annunzio nel mettere in scena l'ambivalenza piacere- infelicità, estasi-struggimento, bellezza-decadimento.
Il sole, le essenze, i fiori, i luoghi ameni, compartecipi muti della gioia di vivere, dell'esaltazione amorosa, dell'estasi artistica, cedono la scena al silenzio cupo, al grigio logorio della mente, al tarlo del tradimento, alle stanze depredate dalle bellezze preziose e passate nelle mani di mercanti senza scrupoli e senza amore per l'arte.

Immenso è il contenuto de Il Piacere, elaborato dalla penna lirica, densa, elegiaca d'annunziana.
Il gusto per l'estetica è interpretato magistralmente dal protagonista Sperelli, uomo e artista; un uomo che vive di eccessi, anima ambigua, che fa della passione e della ricerca della bellezza un motivo di vita, forse l'unico.
Il dio piacere narrato da D'Annunzio assume le sembianze di un Giano bifronte, non è solo esaltazione del gusto edonistico della vita e delle arti, ma è fonte di egoismo, immoralità, corruzione.
Tante influenze letterarie affiorano tra le righe, donando al romanzo un costrutto ricco, senza deviare l'attenzione del lettore dal flusso narrativo, anzi potenziandone l'effetto e la consistenza.
E' una lettura che appartiene ad un altro tempo e ad un altro sentire, eppure è destinata a rimanere testamento letterario.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    04 Marzo, 2014
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Il paese di Abacrasta

La Leggenda di Redenta Tiria è uno dei primi romanzi di Salvatore Niffoi.
L'autore sardo innesta sulle pagine di questo romanzo tutto l'attaccamento per la propria terra e la voglia di cantare la vita e le storie di quella terra.
Una terra aspra, dura, spinosa, una terra di fatica, di dolore, di passione.

Il racconto di Niffoi si compone di una girandola di storie, di volti, di uomini e donne generati dal ventre della terra sarda, legati a doppio filo ad essa, radicati nel contesto sociale come tronchi di alberi millenari.
E' un romanzo dalle tinte forti, che mette in risalto una penna da impressionista, una penna che con tratti precisi ed incisivi riesce ad evocare nel lettore emozioni e sensazioni; una penna che impasta i colori soffusi ed eterei della leggenda e del sogno e li mescola con quelli vivi e squillanti della realtà, del quotidiano.

Le immagini che scorrono durante la narrazione sono indelebili, sono scatti fotografici che immortalano la durezza della vita quotidiana e la lieve speranza del sogno; una danza capricciosa tra vita e morte, un rincorrersi, un incontrarsi ed evitarsi.
L'autore dimostra una sensibilità elevata ed una capacità di rappresentare l'animo umano in maniera vibrante ed originale.

Pienamente promossi l'originalità del contenuto e lo stile di scrittura, capace di fondere con misura ed equilibrio la lingua italiana con localismi gergali, senza appesantire il flusso narrativo.
Niffoi elabora una buona prova di scrittura, dipingendo una terra che ha già ispirato tanti autori di ieri e di oggi, eppure lo fa mosso da una passione che trasuda dal racconto, mosso dalla voglia di portare al pubblico la propria visone della tradizione sarda, di scavare nello spirito di questo popolo.

Un romanzo amaro come una spremuta di cicuta, un romanzo che mette a nudo le sfaccettature dell'animo umano, un racconto che non fa sconti, che rigetta falsi buonismi, eppure nonostante tutto non condanna mai, non alza la voce neppure quando scorre la disperazione.
Il mondo di Niffoi non è solo buio, in fondo in fondo c'è una lucina che si chiama Redenta Tiria ossia speranza.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    26 Febbraio, 2014
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Vita da oste

L'editore Wingsbert affida alla penna di più voci letterarie il compito di scrivere storie brevi sul tema del vino.
La prima voce a cimentarsi è quella di Valerio Massimo Manfredi, con il suo racconto intitolato “L'oste dell'ultima ora”.
Si tratta senza dubbio di un piccolo e delizioso cameo, dedicato alla leggendaria e notissima figura dell'oste responsabile della fornitura di vino durante le nozze di Cana, di cui si narra nei Vangeli.

Manfredi dà un volto all'oste, costruendogli una storia familiare e di vita nell'arco di una manciata di pagine.
Si materializza rigo dopo rigo un uomo dai mille mestieri, avvolto dalla solitudine, poco fortunato, abituato ad arrangiarsi nella vita adattandosi alle situazioni.
Il territorio che fa da sfondo è quello della terra di Galilea, soggiogata dal dominio romano, divisa da fazioni politiche e religiose, abitata da ricchi signori e umili lavoratori, artigiani, contadini e pescatori.

Si tratta di un racconto breve, non impegnativo, eppure intenso grazie ad una figura ben tratteggiata e ad altri personaggi che ruotano intorno alla vicenda; ne nascono spunti per parlare di umanità, di generosità, di altruismo, di capacità di relazione.

L'intento di Manfredi è riuscito, mettendo in scena una storia dove il protagonista silenzioso è il vino e non solo, dove seguendo la nascita ed il commercio del vino si parla anche di uomini, uomini di ieri, figli di un passato lontanissimo e nebuloso, eppure potrebbero essere figli di oggi, alla ricerca di un po' di fortuna e di sicurezza economica, alla ricerca di un'attività di cui si ha poca esperienza ma nella quale si è disposti a mettersi alla prova per necessità.

Un po' ingenuo, pasticcione, inesperto, questo è l'oste di Manfredi; però ispira tenerezza e comprensione.
Una lettura da assaporare degustando un buon vino, facendo in modo che il calice dai riflessi rubini nelle mani del lettore, sia il nesso tra il presente ed il salto nel passato narrato dalla storia.

Esperimento pienamente riuscito ovvero mescita fortunata per dare il via ad una collana di storie brevi, dove cantare eventi, tradizioni, favole e leggende che vedono il vino come protagonista.

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Romanzi autobiografici
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    26 Febbraio, 2014
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Anna e Fedor

Da qualche anno Bompiani pubblica le memorie di Anna Grigor'evna, seconda moglie di Dostoevskij.
Anna rimase accanto a Fedor per quindici anni, fino alla morte di quest'ultimo nel 1881 e nel 1911 iniziò a raccogliere i suoi ricordi in un diario, successivamente dato alle stampe.

Il racconto in prima persona di Anna, oltre che essere di estremo interesse per conoscere da vicino il romanziere senza filtri da parte della critica, risulta davvero intenso sul piano emotivo e dei sentimenti.
Le parole di Anna destano una sensazione di genuinità e di calore umano, portano alla luce in maniera vivida le problematiche della vita familiare, le traversie economiche, gli accidenti dovuti alla salute malferma e precaria dello scrittore, la disperazione causata dalla perdita di due figli; eppure fa da contraltare lo spirito tenace e combattivo di una donna estremamente moderna nel sentire, nel pensiero e nell'agire.
Traspare dalla ruvidità di questo racconto una giovane donna, che ha rinunciato alla possibilità di avere una vita forse più tranquilla, in nome di un sentimento di amore e dedizione molto forte, un sentimento che la legherà a Dostoevskij per la vita, nonostante i sacrifici e le avversità.

La vera chicca di queste memorie è quella di fornire ai lettori di Dostoevskij un'occasione straordinaria, ossia di conoscerlo dall'interno, di conoscere prima che il romanziere l'uomo, il padre, il marito. Attraverso i ricordi, gli occhi, il cuore di Anna ne emerge la figura di un uomo dotato di estrema sensibilità, devoto alla famiglia, riconoscente verso la moglie, innamorato dei figli giunti in tarda età, mosso da un animo generoso verso il prossimo, sfruttato da amici e parenti opportunisti.
Un uomo vessato da debiti e creditori, un uomo segnato dalla malattia con cui cercò di convivere una vita intera, ma che certamente lo condizionò sotto tanti aspetti.

Grazie a quest'analisi intimista, è possibile cogliere infiniti spunti e notizie per comprendere la genesi ed il percorso creativo di alcuni romanzi; seguendo talune cronache dettagliate di Anna, un lettore conoscitore della penna di Dostoevskij può senza dubbio uscirne arricchito da quest' opera, carica di immagini, di avvenimenti, di ricordi dolci e amari.
Illuminanti le pagine in cui la moglie descrive la maniera di scrivere di Dostoevskij, la nascita dell'idea e dei personaggi di un romanzo, le ore dedicate alla scrittura; insomma ella ci fornisce una rappresentazione vivida del letterato, sempre con naturalezza e pacatezza, senza utilizzare toni enfatici e celebrativi.

Non ci è dato conoscere fino in fondo se le memorie di Anna Grigor'evna abbiano subito contaminazioni e rimaneggiamenti; vero è che stilisticamente si mostra come un lavoro ben curato, fluido e non frammentato.
Forse per merito dei suoi studi anche Anna possedeva una buona capacità espositiva e ce ne dà conto nell'ultimo atto d'amore verso il marito, imprimendo nero su bianco i suoi ricordi, almeno questo ci piace pensare.

Un titolo poco conosciuto, che offre una lettura gradevole ed emozionante, un mezzo di approfondimento per chi conosce Dostoevskij o per chi dovesse accingersi alla sua lettura.

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Storia e biografie
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    21 Febbraio, 2014
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Dostoevskij uomo e letterato

Dopo la prima guerra mondiale, Stefan Zweig pubblica il trittico “I tre maestri”, contenente tre brevi saggi dedicati a Balzac, Dickens e Dostoevskij.

Grazie ad una sapiente opera di recupero dei testi, l'editore Castelvecchi, nel corso del 2013, riporta alle stampe un piccolo gioiello, il saggio sul grande romanziere russo, di cui col tempo in Italia era svanita la possibilità di lettura.

Fin dalle prime righe è percepibile l'amore di Zweig per il grande Dostoevskij e la sua conoscenza minuziosa e approfondita dell'opera omnia.
La particolarità di Zweig saggista già riscontrata altrove, riemerge anche in questo lavoro, evidenziando le buone capacità di analisi dell'autore, oltre ad un interesse per il lato più umano e privato del personaggio di cui ci narra.

Nel caso del russo, Zweig non ha avuto modo di conoscerlo di persona, ma ha maturato una visione dell'uomo e del letterato studiandone i romanzi e dedicandosi ad un lavoro di ricerca critica a tutto tondo.
Zweig dà subito conto al pubblico di possedere informazioni precise sulla vita di Dostoevskij, sulle traversie passate, sulle passioni, sugli amori, sulla precaria situazione di salute, sulla genesi delle opere maggiori. Informazioni davvero preziose che incrociate con i contenuti elaborati dal romanziere, forniscono un quadro d'insieme interessante e gli strumenti necessari per coglierne significati profondi e meno immediati.

A tratti l'approfondimento sul contenuto dell'opera dostoevskijana, arricchito da citazioni e rimandi ai testi, fa sì che il piccolo saggio assuma un valore di critica letteraria di eccellente livello.
Un saggio illuminante per tutti coloro che hanno già letto alcuni romanzi di Dostoevskij, motivo per cui troveranno tra queste pagine un terreno rigoglioso e fertile di spunti e riflessioni.
Le interpretazioni fornite da Zweig su talune tematiche e sulla maniera espressiva del russo, partono sicuramente da un sentire personale, tuttavia non deragliano mai nell'ottusa visione a senso unico o nella partigianeria; la penna di Zweig cerca sempre equilibrio di giudizio e buon senso critico.

Un saggio critico di estrema bellezza stilistica e linguistica, uno Zweig maturo nella capacità di analizzare l'opera di un “collega”, richiamando numerosi personaggi partoriti dalla penna del Dostoevskij e ricercandone l'anima più profonda.

Una lettura di gran valore che fortunatamente è riemersa dal dimenticatoio dell'editoria.

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Classici
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    20 Febbraio, 2014
Top 10 opinionisti  -  

Le vergini delle rocce

Nelle intenzioni originarie di D'Annunzio, “Le vergini delle rocce” doveva essere il primo capitolo di una trilogia. Ciò lo apprendiamo dalle ultimissime righe del romanzo, in cui l'autore rimanda il lettore a seguirlo nei titoli successivi.
L'incompiutezza dell'opera ci obbliga ad elaborare un'opinione sul contenuto limitata a questo titolo, ponendoci amari interrogativi su come sarebbe stato l'intero excursus.

L'opera è del 1896 e rappresenta il punto d'incontro tra letteratura ed ideologia filosofica, figlia dell'attrazione d'annunziana per il mito del superuomo elaborato da Nietzsche.
La figura cui D'annunzio affida il ruolo del superuomo è il nobile Claudio Cantelmo, che entra prorompente in scena col suo bagaglio di idee ed ideali, contrario all' avanzata democratica, intenzionato a generare un erede che perpetui la propria gloriosa stirpe, voglioso di poter restaurare un sistema politico del privilegio.
Claudio è un animo focoso, volitivo, eccentrico, appassionato; egli incarna in toto l'ideologia politica e di pensiero promossa dalla penna che lo partorisce.

Stilisticamente il romanzo è percorso da una cesura netta; se la prima parte è l'espressione più alta del credo politico e filosofico d'annunziano, raggiungendo un alto grado di retoricità, la seconda parte è addolcita da un contenuto amoroso-passionale, ricca di protagonisti, esempio mirabile di prosa elegiaca e raffinata.

I piani di lettura del romanzo sono diversi, ciascuno è significativo e dotato di una caratterizzazione propria.
Il volto contenutistico dell'opera è uno spaccato fedele dell'ideologia contemporanea all'autore, trae linfa da determinate correnti socio-politiche dell'epoca, corroborato dagli impulsi filosofici nietzschiani che si insinuano tra le maglie narrative.
Tuttavia la sensazione netta di anacronismo che scaturisce dalla lettura, non ne deturpa il valore storico e letterario, anzi mette in luce la capacità dell'autore di far incarnare ai propri protagonisti ruoli ben definiti, di tratteggiare personalità cariche di emotività.
I personaggi che scorrono nell'arco della narrazione hanno il pregio di essere eterei eppure consistenti, avvolti da un'aura misteriosa che a mano a mano si dirada, svelandone sentimenti e aspirazioni.
Bellissime le figure delle tre sorelle candidate a ricoprire il ruolo di sposa del superuomo Claudio; donne che incarnano tre visioni differenti della vita, donne nebulose di cui non si riesce a cogliere l'essenza fino in fondo, archetipi della sensualità, della passionalità, della profondità spirituale.
Le pagine che accolgono l'incontro di Claudio con le sorelle, costituiscono un territorio in cui la penna di D'Annunzio abbandona il registro retorico ed ideologico dell'apertura dell'opera, per esplodere in una prosa aulica, raffinata e potente.
Egli mette in scena una danza morbida che vede abbracciarsi l'animo umano e la natura circostante; le descrizioni dei luoghi trasportano il lettore tra paesaggi accarezzati dal sole, tra gli aromi vaporosi delle essenze odorose dei vegetali oppure su collinette scoscese, rupi grigie e sassose, sotto cieli plumbei.

Un documento letterario datato, eppure di valore, espressione mirabile di una penna lirica in toto, anche nelle pieghe più ideologiche e filosofiche del suo pensiero.
Un frammento di un'opera forse già pianificata nell'interezza ma arenatasi nella produzione, di cui rimpiangiamo l'impossibilità di conoscere l'evoluzione degli eventi e dei protagonisti.

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Storia e biografie
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    13 Febbraio, 2014
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Kimitake alias Yukio

Talora capita di avvicinarsi alla lettura di un saggio biografico per approfondire la conoscenza di un personaggio del passato o del presente; altre volte capita invece di iniziare a leggere le opere di un personaggio del mondo letterario e non, avvertendo forte la necessità di scavare nella vita personale e professionale del medesimo.

Se il personaggio in questione è lo scrittore giapponese Yukio Mishima, il supporto di un buon saggio biografico che ci fornisca un piccola torcia per attraversare la fitta selva letteraria partorita dall'autore, si rende non solo necessaria, ma fonte preziosa di riflessione e di spunti.
Il saggio è stato scritto da un corrispondente inglese di stanza in Giappone per lunghi anni, tanto da intessere rapporti stretti con Mishima, mediante frequentazioni in pubblico ed in privato, oltre al fatto di possedere un'ottima conoscenza del mondo politico e culturale nipponico.

Il lavoro di Stokes nasce da un'accurata opera di raccolta di informazioni tra tutti coloro che ebbero rapporti con Mishima, amici, familiari, colleghi letterati, giornalisti, uomini politici e militari; l'asso nella manica è dato dall'avere avuto la possibilità di conoscerlo di persona, senza filtri.
Difatti le immagini di Mishima che scorrono tra queste pagine sono estremamente nitide e suggestive, riportando al lettore l'intensità e la malinconia del suo sguardo, i suoi gesti, il suo abbigliarsi, il suo passo.
In questi frangenti Stokes riesce ad infondere umanità e calore al suo racconto, staccandosi dalla rigorosità giornalistica e giungendo a scavare nel cuore e nella mente di un personaggio davvero complesso, le cui infinite sfaccettature fanno sì che non si riesca mai a sviscerarlo in toto.

La compiutezza del saggio di Stokes sta nel fatto di aver abbracciato vita, produzione artistica-letteraria, impegno politico, ideologia di Mishima; tutti elementi strettamente concatenati tra loro, la cui analisi va condotta in parallelo sempre per non rischiare di incappare in interpretazioni errate e a senso unico.
Grande spazio viene dedicato ad una rilettura ed interpretazione critica degli scritti, fornendo al lettore ottimi strumenti per decriptare l'opera di Mishima, per cogliere la complessità del pensiero anche se celata sotto una prosa lirica e suadente.

Tirando le somme di questo saggio, possiamo affermare senza dubbio che evade dai confini stretti della mera opera biografica, per rivelarsi un lavoro completo, ricchissimo di citazioni, bilanciato nei giudizi, curato nel costrutto e nell'esposizione, aperto a scandagliare tutte le fonti, restio a fermarsi alle apparenze.
Un testo consigliato per chi avesse già iniziato a leggere Mishima, per comprenderne il valore della produzione letteraria e per dare qualche risposta agli interrogativi su l'uomo Yukio ed il suo pensiero.

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Consigliato a chi ha letto...
per chi ha già letto i romanzi di Mishima
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Racconti
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    06 Febbraio, 2014
Top 10 opinionisti  -  

Racconti

Einaudi pubblica in questi giorni una raccolta di racconti dello spagnolo Javier Marias, appartenenti
a momenti diversi della sua attività letteraria.

Talvolta il racconto può divenire un genere letterario pericoloso, in cui non tutti gli autori riescono ad esprimersi al meglio, pur possedendo ottime doti narrative.
Leggendo questa manciata di racconti di Marias si avverte da subito la sensazione che il racconto sia congeniale alla sua penna, per le nette capacità espressive e per l'abilità di scavare nell'io più profondo del personaggio nello spazio di poche pagine.

I protagonisti delle storie sono davvero enigmatici, emergono dalle tenebre di esistenze complicate, sono corrosi da dubbi e incertezze, sono marchiati da maledizioni, lacerati nella coscienza, invischiati nelle sabbie mobili del passato, perduti nelle scelte del loro presente.
A Marias non interessa fermarsi ad una fredda e immobile classificazione tra buoni e cattivi; egli travalica questo spartiacque, la sua penna affonda nel pensiero dell'essere umano rappresentato, portando alla luce i semi primigeni della bontà, della crudeltà, della immoralità.
Nello spazio di ogni racconto, Marias racconta una storia densa di umanità, ma lo fa mettendo in moto una girandola di immagini e pensieri, vorticosa, incatenando il lettore al filo del ragionamento.
La penna di Marias è densa, fortemente introspettiva, originale nell'approccio col personaggio; egli non delinea marcatamente i contorni del suo uomo o donna, li lascia camminare avvolti da una leggera nebbiolina che stuzzica la curiosità del lettore, che talora destabilizza, eppure a mano a mano la sensazione iniziale di evanescenza esplode in un'introspezione così acuta e complessa da divenire spettatori muti delle anime descritte.

I racconti di Marias richiedono attenzione, voglia di ascoltare, capacità di attraversare il confine dell'apparenza e del certo, di andare oltre al giudizio netto, richiedono la sensibilità di saper cogliere le infinite sfumature della vita.
Un ottimo preludio per conoscere la scrittura di un autore contemporaneo, riflessivo e raffinato.

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