Opinione scritta da archeomari
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Il troppo....storpia
Il sottotitolo del libro è “una storia romantica” ed è vero, la promessa in questo senso è stata mantenuta.
Siamo in Inghilterra in due periodi storici diversi e due sono le storie d’amore parallele: una inserita in epoca vittoriana, un’altra nel presente (anche se non viene indicata la data, leggendo deduciamo che non ci sono ancora i telefonini, quindi possiamo pensare si tratti degli anni ‘70/‘80).
I protagonisti della storia d’amore più antica sono Christabel LaMotte ed Randolph Henri Ash, entrambi poeti vittoriani. Roland, uno studente universitario, trova un giorno in un libro di Giambattista Vico, appartenuto al poeta Ash, due copie minute di una lettera d’amore diretta ad una donna sconosciuta : le conserva gelosamente (e impunemente) e si mette subito alla ricerca di questa donna, senza rivelare a nessuno la propria scoperta. Questa avventura “letteraria” gli farà incontrare Maud, anch’essa studentessa e massima esperta della poetessa Christabel LaMotte: i due, nel ripercorrere la storia d’amore dei due poeti, si innamoreranno a loro volta.
Questa è la trama che trovate anche sul retro della copertina, quindi io non vi ho rivelato niente di più.
É la prima volta che sono in imbarazzo nel commentare un libro e vi spiego subito il perché.
Si sa che il libro è stato osannato dalla critica, soprattutto anglosassone, che la scrittrice è una critica letteraria, una autorità nel suo campo e riconosco che questo romanzo le sarà costato molto lavoro, perché tutto quello che compone il libro, dal nome dei personaggi ai documenti che ricostruiscono la storia d’amore dei due poeti, è stato tutto inventato dalla Byatt.
Quando ho letto le prime centocinquanta pagine (il libro è composto da oltre 500 pagine) , la mia attenzione era ben desta, insieme alla curiosità che comunque non mi ha mai lasciato fino alla fine, ma dopo...ho trovato la lettura veramente appesantita.
Non esagero nel dire che la metà di tutto il libro, se non di più, si compone di lettere, documenti, intere pagine di diario, lunghissimi poemi, risalenti all’epoca vittoriana, che Roland e Maud scoprono e leggono avidamente e che sono scritte in un linguaggio più anticheggiante, lontano da quello del presente vissuto dai due studenti. È un’opera veramente imponente, in cui la scrittrice forse si è un po’ troppo autocompiaciuta nel dare prova di tutta la sua “intelligenza letteraria” appesantendo un libro ed una storia che sarebbero stati molto più piacevoli.
Non si tratta della lunghezza, ci sono libri meravigliosi assai più lunghi di questo, non si tratta della difficoltà di leggere i documenti, perché sono scorrevoli anche quelli nonostante una prosa o una poesia diverse da quelle contemporanee: si tratta, secondo me, di invasioni, interruzioni continue nella storia presente, che danno fastidio a lungo andare e confesso che a metà libro ho saltato tutti i documenti, se ne poteva fare a meno, in quanto la comprensione della trama non ha subito torti.
Non è facile per me dare questo giudizio poco lusinghiero ad un libro, sono una lettrice che trova del buono in ogni opera di qualità e questo libro è di qualità, assolutamente non discuto sul suo valore. Pregevoli le poesie, i poemi, geniale la composizione di tutto il romanzo, ottima la traduzione italiana.
Sarebbe stato peró un libro migliore, più piacevole se la scrittrice lo avesse alleggerito di tutta quella lunga documentazione che veramente ha dato fastidio alla narrazione degli eventi. È veramente il caso di dirlo: il troppo storpia!
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Misteri di famiglia
Se vi piace la narrativa “gialla” e trovate il filone contemporaneo troppo affollato e saturo al punto di sentirvi completamente disorientati, fate come me, risalite alla fonte, all’archetipo e non sbaglierete.
Il tempo per “discernere il grano dal loglio”, per dirla insieme a Dante, è davvero poco , perché rischiare?
Ecco perché quasi tutto ciò che leggo è considerato narrativa classica, come i grandi racconti di Sir ARTHUR CONAN DOYLE, che vedono come protagonisti il famoso “poliziotto non ufficiale” (gli ho fatto un grave torto a chiamarlo così, però…) Sherlock Holmes e il suo aiutante, il dottor Watson.
“Il mastino dei Baskerville” mi è piaciuto tantissimo, più de “Il segno dei quattro”, l’ho trovato più gotico, più misterioso, più noir. E’ stato pubblicato a puntate sulla rivista “Strand Magazine” tra il 1901 e il 1902.
L’ambientazione – caso raro, ma non unico- è fuori da Londra e, particolare che mi ha colpito, Sherlock Holmes compare solo nei primi e negli ultimi capitoli (in tutto 15): in realtà il dottor Watson raccoglie per lui tutti gli indizi e tutti i dati utili alla ricostruzione del misterioso caso e glieli manda tramite dettagliati resoconti in Baker Street, nel suo studio. E’ una strategia, questa, non soltanto utile a Sherlock Holmes per lavorare con obiettività , ma è utile anche all’autore per riscattare in qualche modo, secondo me, la figura del secondo, di Watson, che nei vari racconti e nelle varie avventure non si è mai mostrato di mente particolarmente brillante, rendendo ancora più notevole, se possibile, l’acume di per sé geniale di Sherlock Holmes.
Veniamo alla storia che, per rispetto del lettore, non rivelo se non tramite pochi tratti. Si tratta di indagare sui fantasmi del passato che da duecento anni incombono sulla ricca famiglia dei Baskerville, incarnati, a quanto pare, da un infernale, diabolico mastino che aveva ucciso già due componenti di questa sfortunata famiglia: Ugo, due secoli fa, e Charles, ai tempi della narrazione. Il medico ed amico del defunto Charles racconta la leggenda, diffusa tra i contadini della contrada, riguardante la maledizione dei Baskerville, dimostrando di “non essere superstizioso, ma non si sa mai” e dichiarando di aver visto delle impronte di un gigantesco cane vicino al cadavere del suo amico paziente. Il dilemma consiste però nel fatto che sul corpo del signor Charles non ci sono segni di aggressioni, l’uomo è morto in seguito ad un attacco cardiaco, probabilmente dopo aver visto la creatura infernale, la cui esistenza sfugge all’ordine della natura. Il racconto si complica sempre di più, con nuovi indizi che rendono più interessante ed intrigante questa storia “gotica”, riportataci dal dottor Watson, come sempre.
È un libro che lascio scoprire a chi vuole leggerlo, la prosa è asciutta, le descrizioni sono funzionali all’economia della storia, non ci sono passaggi noiosi o ridondanti, la ricostruzione dell’intera vicenda si presenterà solo alla fine del libro. Una avventura avvicente e mozzafiato.
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Un caso molto avventuroso!
Seconda opera in ordine di pubblicazione , dopo “Uno studio in rosso”,che vede come protagonisti l’investigatore privato più famoso al mondo, Sherlock Holmes e il suo fidato amico e compagno di avventure, il dottor Watson.
Rispetto al primo libro, “Il segno dei quattro” è molto più ricco di avventura: le scene si spostano dall’India lussureggiante alla Londra invasa dalla nebbia, ci sono personaggi esotici e selvaggi, c’è di mezzo un tesoro da favola, Sherlock Holmes e il dottor Watson agiscono in piena notte...Si fa affidamento al fiuto del cane Toby, alla banda di scugnizzi di Baker Street, lo stesso detective si traveste da vecchio marinaio, c’è una avventura rocambolesca su una lancia sul Tamigi...
Insomma, non cӏ da annoiarsi.
Interessante è la perfezione geometrica con cui è costruito il lungo racconto: si apre con la stessa immagine con quale si chiude e nel mezzo una climax di orrore e tensione narrativa.
Graham Greene nella sua prefazione ad una edizione inglese de “Il segno dei quattro” aveva detto : “quale autore noto potrebbe oggi permettersi di introdurre così brutalmente il suo eroe, un drogato, senza sollevare le proteste del pubblico?”.
Aveva perfettamente ragione. Non tutti sanno -infatti forse solo chi ha letto i libri di sir Arthur Conan Doyle lo sa- , che il mitico, puntiglioso, quasi infallibile Sherlock Holmes, nei momenti di “riposo forzato” , in cui è inattivo, ricorre alla cocaina e alla morfina. Il suo amico,il dottor Watson, lo invita con veemenza ad abbandonare questa abitudine insana, ma senza successo. Il detective spiega che solo la droga permette al suo spirito ed al suo cervello, che si attivano solo quando hanno davanti un caso spinoso, di non abbandonarsi alla depressione dovuta alla noia.
La vita può diventare una terribile banalità, secondo lui.
Eroina e cocaina sono, diciamo così, dei vizi “chimici “ più confacenti al nostro eroe che non l’acool e la birra, che sarebbero sembrati più degradanti. Le eccezionali doti deduttive, il suo acume, la sua correttezza, lo rendono un eroe ‘puro’ e il lettore può accettare questo “difetto”.
La lettrice però rimarrà un po’ perplessa leggendo a pagina 100, (edizione BUR, 1980) : “Mai fidarsi delle donne, neppure delle migliori”. La scarsa fiducia di Sherlock Holmes nelle donne lascia un po’ delusi certe volte, come anche il suo spirito razionale che rifugge l’amore e i sentimenti, perché mettono in discussione le sue facoltà di ragionamento. Egli è gentile e cortese, un vero gentiluomo, ma ...l’amore no. Eppure confessa di aver trovato anni fa molto affascinante una donna, un’assassina, mentre non trova nessun interesse verso la sua cliente, Mary Morstan, dal racconto della quale si dipana l’azione di tutto il racconto, che diventerà poi la moglie del suo amico Watson.
Non vi svelo nulla della trama, non sarebbe corretto. Lascio a voi il gusto di leggere questo bellissimo ed appassionante racconto del maestro indiscusso del “giallo” di tutti i tempi.
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Un potente colpo alle nostre coscienze
Letteratura come dovere. Pubblicata in Germania nel 1929, l’opera principale di Erich Maria Remarque mostra tutto l’orrore della guerra, di quella “inutile strage”, così la chiamò il papa di allora, Benedetto XV. Un libro che va letto, perché ricordare è un dovere e quando lo si fa in uno stile così asciutto e pregevole, diventa letteratura della memoria.
Remarque aveva appena diciotto anni quando prese parte alla prima guerra mondiale, rimanendo ferito. La terribile esperienza in trincea, la perdita dei cari amici soldati, segnarono a fuoco la sua coscienza scuotendola nel profondo e scombussolandone gli equilibri in maniera irreparabile.
L’opera, una sorta di diario di guerra, ottenne subito un grande successo di pubblico e di critica, ma costò l’esilio all’autore a causa dell’esplicito messaggio pacifista. Nella prefazione all’edizione Oscar Mondadori del 1975 si legge “ I libri di Remarque continuano ad essere validi per la struttura morale e le qualità letterarie che li caratterizzano”.
Concordo in pieno. Il libro ha una prosa snella, senza fronzoli, si legge scorrevolmente e pur, trattando delle brutture della guerra, conserva in alcune pagine una potente tenerezza, soprattutto quando parla dell’effetto verso la madre, quando soccorre i commilitoni feriti ed agonizzanti. In mezzo a tanto orrore di corpi mutilati, di crani fracassati, di ventri squarciati, dell’odore di sangue, l’amicizia sincera del cameratismo rende umani quei soldati che sono costretti a uccidere per non essere uccisi.
Appena diciottenni i giovani sopravvissuti alle granate sono consapevoli che la vita che li aspetta sarà fatta di depressione e di smarrimento totale:
“Ritornando ora, siamo stanchi, depressi, consumati, privi di radici, privi di speranze. Non potremo mai più riprendere il nostro equilibrio”.
L’io narrante è un soldato, un certo Paolo, che mette a nudo la propria coscienza, l’unica cosa che non può essere distrutta dalle bombe.
Sono tantissimi i passi che mi sono segnata e che lascio al lettore scoprire e gustare: l’autore scuote le nostre coscienze con potenti immagini, coi suoi giudizi nei confronti della situazione storica che sta vivendo:
“oggi nel mondo si sono aperte enormi frontiere di conoscenza scientifica, ma gli orizzonti della responsabilità morale sono sempre molto limitati. L’uomo come tale è sempre quello di duemila anni fa, con la sua imbecillità, la sua crudeltà, il suo egotismo”.
Sono le parole dell’autore e sono valide ora come allora. Cos’è cambiato da quegli orrori? Le guerre e le crudeltà, anche sotto forme diverse, continuano a distruggere ogni forma di civiltà.
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IL GIARDINO DEL TEMPO SOSPESO
Era da tempo che desideravo leggere questo libro. “Il giardino dei Finzi-Contini“ di Giorgio Bassani. Non è facile scrivere una recensione che non dica cose trite e ritrite su questo libro, perché, effettivamente è veramente un bellissimo romanzo e la sua fama è ben meritata. La mia recensione quindi è positiva ed entusiasta.
Il libro non è troppo lungo, né troppo corto. La scrittura è fluida, piacevole e raffinata con punte di lirismo. Frequenti i termini in lingua straniera, inglese, francese, ebraica.
La storia si struttura in maniera armonica, è un classico da gustare, sebbene all’inizio ci si senta un po’ spaesati, poiché l’ambientazione é un po’cupa: ci si sposta da un cimitero etrusco ad uno ebraico.
Ma è solo l’inizio. Il cimitero serve al Bassani per agganciarsi al ricordo della famiglia Finzi-Contini, al signor Ermanno, alla signora Olga, ad Alberto e Micol Finzi- Contini, questa altolocata famiglia ebraica ferrarese apparentemente sussiegosa ed appartata, che accoglierà nel suo giardino i giovani ebrei (tra cui l’io narrante, di cui ignoriamo il nome) esclusi dal circolo del tennis, dalle biblioteche, dalle associazioni ricreative della città, in seguito alle leggi razziali.
Il romanzo si ambienta nella Ferrara degli anni Trenta, a ridosso della seconda guerra mondiale, in pieno fascismo ed antisemitismo. La storia non è altro che la narrazione di eventi lontani nel tempo, siamo negli anni ‘60 (il libro è stato pubblicato nel 1962) e gli eventi ricordati risalgono all’autunno del 1938 fino all’estate dell’anno successivo. Sembra quasi che la voce narrante senta il bisogno di ripercorrere, con una maturità, una consapevolezze nuova l’inizio, lo sviluppo e la fine del suo giovanile, ma non per questo meno forte e appassionato, amore per l’affascinante Micól.
Un amore che sboccia proprio nei pressi di questo giardino magnifico, lungo le mura dove il protagonista, amareggiato per essere stato rimandato in matematica, si era fermato in solitudine con la sua bicicletta . Micol bambina, si era affacciata dall’alto di quel muro e lo aveva chiamato chiedendogli cosa avesse. Dieci anni più tardi la incontra di nuovo: quella bambina adesso è una bellissima ragazza che sta per laurearsi a Venezia. Lo stesso protagonista è prossimo alla laurea in lettere a Bologna.
A questo punto è lecito chiedersi: ma il romanzo è autobiografico? Lo stesso Bassani , era di origini ebraiche e si era laureato in Lettere all’Università di Bologna, amava il tennis, era stato imprigionato nel 1943 perché aveva insegnato clandestinamente in scuole ebraiche. I punti di contatto con la biografia di Giorgio Bassani sono veramente tantissimi, però...sembra che il protagonista di questa storia sia stato un certo Silvio Magrini, come si è scoperto di recente da certi documenti ed è stato dichiarato dallo stesso Bassani. Si tratta di un romanzo ispirato ad una storia reale, ad un amore reale non appagato.
Con questa mia recensione non voglio togliervi il gusto di conoscere la trama, che troverete ricca, ma mai noiosa e dispersiva . Tanti gli spunti di riflessione sull’arte (Morandi, in particolare), sulle idee politiche del tempo, sulla letteratura. Finirete con l’amare i personaggi: Malnate, l’amico comunista della famiglia Finzi Contini, Micól, una delle figure femminili più enigmatiche e affascinanti della nostra letteratura, finanche l’anziano servitore Perotti, attaccato ostinatamente alla famiglia presso cui ha dedicato la vita e ai ricordi di casa. Mostrando la vecchia carrozza al giovane amico, Micól dice divertita:
“Perotti per questa carrozza ha una vera mania,” continuò amaramente, “ed è soprattutto per far piacere a lui (odia e disprezza le automobili: non puoi credere fino a che punto!) se di tanto in tanto gli diamo da portare a spasso la nonna su e giù per i viali. Ogni dieci, quindici giorni viene qua con secchi d’acqua, spugne, pelli di daino, battipanni: ed ecco spiegato il miracolo, ecco perché la carrozza, meglio se vista tra il lusco e il brusco, riesce tuttora a darla abbastanza da bere.”
Amerete il giardino di questa magnifica casa, i cui alberi secolari vengono descritti da Micól con tono affettuoso, quasi fossero persone degne di rispetto e venerazione. Proprio in questo giardino, dicevo all’inizio, nasce e si sviluppa questa passione tenace che brucia il cuore dell’io narrante verso la sfuggente Micól. Sembra decisamente un amore a senso unico, anche se la ragazza confessa che da bambina aveva avuto per lui uno “struscio”, una cotta. Perché quest’amore non è ricambiato adesso? C’è un altro? Non lo sappiamo e non lo sapremo mai, perché di lì a poco si scatenerà l’inferno da cui non si salverà nessuno della famiglia Finzi-Contini e l’ultima immagine bella che abbiamo è quella di Micól che, nel ricordo del narratore
“ ... quasi presaga della prossima fine, sua e di tutti i suoi, Micòl ripeteva di continuo anche a Malnate che a lei del suo futuro democratico e sociale non gliene importava un fico, che il futuro, in sé, lei lo abborriva, ad esso preferendo di gran lunga “le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui”, e il passato, ancora di più, “il caro, il dolce, il pio passato”.
Un passato che non deve essere dimenticato.
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un libro da amare per sempre
Un capolavoro assoluto ed indiscusso della letteratura di ogni tempo. Dalla penna di Marguerite Yourcenar, anagramma del suo vero cognome, de Crayencour, (1903-1987), un’opera di grande spessore culturale e letterario che oscilla tra saggio storico-filosofico e narrativa di grande pregio. Chi non lo ha ancora letto si sta perdendo uno dei libri che probabilmente amerà per tutta la vita, un libro da rileggere, perché “denso” di spunti di riflessione, di profondi pensieri, di nude verità, di poesia nelle immagini, di intelligente scavo psicologico.
L’autrice, non a caso, unica donna eletta nell’empireo dell’Académie Française, ha scelto di raccontare un uomo, ma non un uomo qualsiasi, bensì l’imperatore Adriano, uno dei buoni Principes che la storia ricordi. Nei suoi “Taccuini di appunti” , che troverete nell’Edizione Einaudi, la Yourcenar, ripercorrendo le vicissitudini della realizzazione di questo romanzo, scrive:
“La vita delle donne è troppo limitata o troppo segreta. Se una donna parla di sé, il primo rimprovero che le si farà è di non esser più una donna. È già difficile far proferire qualche verità ad un uomo” (pag. 287, edizione Einaudi del 1988).
Sotto l’apparente forma di un romanzo epistolare, la Yourcenar fa parlare Adriano, ormai sessantaduenne iniziando con un semplice “Mio caro Marco, ...”. Da qui si dipana un profondo e lucido discorso sulla sua esistenza toccando vari punti della sua storia personale e della storia di Roma, palesemente corrotta nei tempi in cui lui è vissuto. Sono delle vere e proprie confessioni che Adriano fa al suo caro Marco (futuro imperatore Marco Aurelio), diciassettenne allora. In diverse occasioni il princeps dichiara il suo profondo amore per la civiltà greca, dichiarandone la superiorità :
“Ho amato quella lingua per la sua flessibilità di corpo allenato, la ricchezza del vocabolario nel quale ad ogni parola si afferma il contatto diretto e vario della realtà, l’ho amata perché quasi tutto quel che gli uomini hanno detto di meglio è stato detto in greco” p. 34 (cit.)
E greco, della Bitinia, era il suo prediletto Antinoo, devoto, giovanissimo “pastorello”, che nelle sue mani divenne un abile cacciatore e che morì nelle acque del Nilo, in circostanze misteriose, forse, come vuole la tradizione (Cassino Dione, LXIX, II e Spartiano, XIV, 7) si autoimmola per passare la propria energia di giovanetto all’amato. Non mi soffermo sulla pederastia, sulla bisessualità nell’antica Roma, in questa recensione voglio comunicare quello che ho provato nel leggere quei passi di grande struggimento, di grande malinconia. Adriano dopo anni ricorderà vividamente i gesti, gli atteggiamenti particolari di quel bellissimo giovanetto che gli ha fatto vivere il momento aureo della sua vita . Fonderà città in suo onore, istituità riti misterici, ma , soprattutto , adornerà ogni punto dell’Impero con una statua che possa immortalare quelle perfette e care fattezze. Quasi ossessivamente Adriano ha commissionato ai migliori scultori del tempo e dei vari luoghi visitati, supervisionando con massimo zelo le opere in corso, la riproduzione del caro volto per avere sempre vivido il suo ricordo. Se confrontate le innumerevoli statue dedicate ad Antinoo, ritroverete un viso inconfondibilmente dolce e malinconico ed un corpo divinamente perfetto. Questo è il dono d’amore di Adriano che sopravvive nei secoli.
Certamente l’Imperatore aveva una moglie, Vibia Sabina,una figura istituzionale come la sua, niente di più. I matrimoni di convenienza erano la normalità ed era diffuso avere un/un’amante prediletto. Sono ben poche le figure femminili care ad Adriano, tra questa spicca prepotentemente Plotina, moglie dell’imperatore Traiano (che lo adotterà in punto di morte) sua confidente, sua fidata amica.
Interessante il passo a pag. 112
“La debolezza delle donne, come quella degli schiavi, dipende dalla loro condizione legale; la loro forza si prende la rivincita nelle piccole cose, e qui il potere che esercitano è quasi illimitato. Di rado ho visto una casa dove le donne non regnassero (...)”.
La grandezza dell’autrice si unisce alla storia di un uomo altrettanto grande, amato e rispettato che ha coltivato la bellezza, la pace e il rispetto tra i popoli. Grazie alla penna della Yourcenar , ai documenti sui quali ha passato anni di studio, ai suoi viaggi nel luoghi in cui Adriano, un vero cittadino del mondo ( “straniero dappertutto, non mi sentivo mai isolato in nessun luogo” pag. 118) e militare infaticabile ha passato momenti della sua vita, possiamo gustare ogni volta un mirabile capolavoro della letteratura di sempre, un libro che mette addosso inquietudine e ci stimola ad interrogarci sul senso della vita. La mia recensione sarebbe troppo lunga e rischierei di dire troppo, è un libro importante e denso, come ho detto sopra. Amerete la figura di Adriano, questo saggio ateo. Sì, un imperatore romano ateo, perché ha vissuto fino in fondo la sua esperienza di uomo “tutte le teorie sull’immortalità mi ispirano diffidenza..”. (271) ha sempre saputo fin dall’inizio che solo l’arte può preservarci dalla dimenticanza e renderci immortali.
Tale sarà il libro della Yourcenar, finché esisteranno lettori in grado di discernere i buoni libri nell’immenso mercato dell’editoria.
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Desideri confessati
Si tratta di una novella, la novella del sogno, una Traumnovelle come la chiama lo stesso Schniztler, ebreo viennese come il padre della psicanalisi, Freud.
Nell'edizione Einaudi è presente una interessante prefazione a cura di Paola Capriolo, la traduttrice del racconto. E'stata scritta ttra il 1921 e il 1925.
Curioso sapere che Freud per anni aveva temuto di incontrare di persona lo scrittore, con il quale intratteneva un carteggio abbastanza regolare, perchè lo considerava il proprio doppio: uno affronta l'argomento del sogno da un punto di vista scientifico, l'altro da quello letterario.
Parlare però soltanto del sogno, della visione onirica equivarebbe a fare un grave torto a questa piccola gemma della letteratura della psicoanalisi. Gli ingredienti sono tanti e importanti, che meriterebbero uno studio e un commento approfondito : il doppio concetto di eros e thanatos, il tema del sospetto nella coppia di amanti, la gelosia, il segreto e il mistero (che nel film di Kubrick sono resi magistralmente), il continuo confondersi e mescolarsi della realtà e del sogno, della realtà e la finzione, ben rappresentata dalla fantasmagoria del Carnevale, del travestimento nella elegante casa, in occasione di un misterioso rito, cui assiste il protagonista.
Lo stile è piacevolissimo, sono meno di 100 pagine e si leggono velocemente in poche ore .
Il protagonista in poco tempo vede dissolversi ed annientarsi tutte le figure femminili che avevano provato, più o meno con successo, a sedurlo o a turbarlo. Tutto si concluderà in due ambienti completamente opposti: l'obitorio, semibuio, illuminato da lampade, dove il protagonista Fridolin contemplerà con orrore e tristezza "il pallido cadavere della notte scorsa, destinato ad una irrevocabile decomposizione", il corpo, la notte precedente così splendido e meraviglioso che lo aveva fatto bruciare di desiderio, ora freddo, senza più "anima" e il ritorno a casa, alla luce, alla vita, dalla moglie Albertine, cui confessa tutto ciò che aveva vissuto, in sogno? nella realtà?
Albertine all'inizio della novella aveva confessato di aver tradito il marito nel sogno, quasi per vendetta, quest'ultimo aveva tentato di tradire lei, nel sogno. Nel sogno? ma ne siamo sicuri? gli stessi protagonisti sanno che "nessun sogno è soltanto un sogno". Nel sogno si liberano i desideri più nascosti della nostra psiche, evidentemente l'unione di Albertine e di Fridolin non è così salda, non è a "prova di sogno".
"la vicenda della Traumnovelle può anche essere raccontatà così, come la storia di un dissidio che separa due coniugi, spingendo lui a cercare altre avventure, lei semplicemente a sognarle" , P. Capriolo Prefazione, edizione Einaudi 2002 L'opera toglie il velo ad una serie di clichè borghesi e alle ipocrisie più diffuse e fornisce il quadro del malessere di un'intera epoca.
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il mondo è di una tristezza e di una merda totale
Kai Hermann e Horst Rieck scrivono questo romanzo-intervista alla quindicenne Christiane nel 1978 a Berlino, dove era stata chiamare a testimoniare ad un processo. Un documento interessantissimo, una denuncia contro la cecità dell’epoca sulla reale portata della tossicodipendenza tra i giovani.
Un libro che destabilizza per la crudezza delle immagini, la violenza di alcune situazioni, soprattutto perché sono coinvolti dei minorenni e delle minorenni ancora “con l’odore” delle bambole e dei giocattoli.
Si comincia sempre allo stesso modo: alle spalle una situazione familiare disastrosa, con uno o entrambi i genitori completamente assenti o incapaci di gestire situazioni problematiche, di imporsi al figlio o alla figlia, che cerca il confronto e il conforto cel gruppo dei pari.
Christiane dalla georgica campagna amburghese, si trasferisce con la famiglia a Berlino all’età di sei anni e sperimenta da subito la violenza, impara la legge del “muso duro”, del “vince chi picchia più forte”: la bambina accetta subito questo dogma sconvolgente, perché ogni giorno, sulla propria pelle, a casa, il papà ubriaco la picchia a sangue per sfogare la propria frustrazione dovuta al proprio fallimento professionale. Christiane per poter sopravvivere a questo mondo violento e brutale scopre che quelli che contano sono quelli “fighi”, quelli avanti e fa di tutto per farsi accettare dalla leader del gruppo dei ragazzi più ammirati a scuola.
A tredici anni “Avevo già imparato un sacco di cose, non solo la musica che a loro piaceva, ma anche la lingua che parlavano (...) mi ero concentrata sulle frasi che sentivo dire da loro. Per me erano più importanti dei vocaboli inglesi o delle formule matematiche” ( p.47, edizione SuperSaggi Rizzoli, 1980)
Dal libro viene fuori una Berlino senza aree verdi, una città assolutamente non a misura di bambino: i giochi si svolgono tra casermoni, metri e metri di filo spinato, cemento ovunque e si comincia già da bambini a scoprire il piacere di violare cartelli e permessi.
Questo romanzo-verità è un invito a riflettere, a chiedersi il perché i ragazzi, già in tenera età scelgono le strade della droga. Si comincia con un “assaggio”, si continua per sentirsi sballati e fighi e poi ci si ritrova una vita completamente distrutta. Christiane vede morire quasi davanti ai suoi occhi dei suoi compagni del giro: prova a disintossicarsi innumerevoli volte, sopportando l’agonia della “rota” (crisi di astinenza), ma i risultati sono sempre temporanei. Il desiderio di bucarsi supera ogni buon proposito ed anche ogni forma di rispetto, distruggendo la famiglia e anche le amicizie. Per bisogno di procurarsi eroina cade nella fogna della prostituzione, prima facendo più attenzione, scegliendo i clienti e poi, quando la situazione si fa più difficile, cede il suo corpo anche agli stranieri dell’est, gli “zulù”.
Attraverso queste pagine di vita vissuta - sembra assurdo usare questi termini quando si parla di una quindicenne- veniamo a conoscenza dell’orrore della tragedia che segna per sempre chi entra nel vortice dell’eroina.
Toccanti le ultime parole di Atze, primo ragazzo di Christiane, nella sua lettera prima del suicidio per overdose:
“Adesso metto fine alla mia vita, perché un bucomane porta arrabbiature, preoccupazioni, amarezza e disperazione a tutti i parenti e agli amici. (...) fisicamente sei uno zero. Essere bucomani vuol dire essere l’ultima merda (...) “. P. 185-186)
Vecchia storia, quella della droga. Hascisc, eroina, Valium, antidepressivi...tutte sostanze per annullare le preoccupazioni del mondo che ci circonda, annullando noi stessi per primi.
Il finale è aperto, ma sappiamo che Christiane non si è mai completamente liberata della tossicodipendenza.
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Un nuovo atteggiamento di fronte alla vita
Scritto tra il 1816 e il 1817 e pubblicato postumo dal fratello di Jane Austen nel 1818 col titolo “Persuasion” , un romanzo delizioso, che il lettore appassionato di classici non può non aver letto. Ci sono varie edizioni, ma io preferisco quella della Mondadori, Oscar classici, con una profonda ed attenta postfazione di Virginia Woolf ed utili e puntuali note esplicative alla fine del romanzo.
Questa è l’ ultima opera completa della scrittrice, morta poco più che quarantenne, per una malattia che la consumò a poco a poco e che in tempi recenti è stata poi riconosciuta come morbo di Addison. A quei tempi una donna di 40 anni era quasi decrepita, la stessa protagonista del romanzo, Anne Elliot, ventottenne, nubile, non era già più un fiore di gioventù e di splendore.
Pietro Citati in un suo scritto apparso qualche anno fa tra le pagine de “Il Corriere della Sera”, non a caso, ha intravisto in Anne l’alter ego della Austen, per le comuni qualità: “di mente eletta e di dolce carattere”, dotata di “lucida intelligenza unita a dolcezza di modi”. Difficile dirlo, così come potrebbe essere azzardato dire che la costante presenza della natura, dei paesaggi malinconici oppure lussureggianti sia una concessione alle influenze allora imperanti del romanticismo.
“Persuasione” va letto perché in esso troviamo una notevole e palpabile diversità con gli altri romanzi , in quanto vi è una maturità, una consapevolezza assenti in opere come “Orgoglio e pregiudizio”, “Ragione e sentimento”, “Emma”. Esso segna un nuovo cammino letterario e di contenuti. Il trascorrere del tempo offre Anne Elliot ancora un’altra possibilità di essere felice con il giovane che aveva respinto otto anni e mezzo prima, persuasa dal vanitoso padre e dalla “madrina”, Lady Russell, a contrarre un matrimonio più confacente al suo rango.
Il trascorrer del tempo è dunque il tema fondamentale di questo romanzo. È un fare pace col tempo perduto, più che una accettazione del sé col proprio opposto , che abbiamo letto negli altri romanzi giovanili. La protagonista ha già raggiunto una sua completezza, ha sofferto, amato, scopre di essere innamorata dello stesso uomo, stavolta tornato con una ricchezza notevole ed una posizione sociale di prestigio, adesso è diventato il capitano Wentworth.
Anne Elliott, questa meravigliosa creatura, è capace di un perfetto dominio dei suoi sentimenti, dei turbamenti dell’animo, degli sconvolgimenti emotivi, come nessun’altra protagonista austeniana: è una eroina in senso moderno.
Questo, e giova notarlo, è anche l’unico romanzo cui la scrittice non ha apportato correzioni e non ha avuto ripensamenti col tempo, come per altri romanzi, ai quali aveva anche cambiato il titolo (ad esempio “Pride and prejudice “ all’inizio era “First impressions”, “Sense and sensibility “ era “Elinor and Marianne”).
Nel romanzo è possibile rilevare un lungo stream of consciousness ante litteram , vi è infatti una profonda autoanalisi dei pensieri di Anne, “ogni cosa è vissuta con la sua mente e il suo cuore” dice Anna Luisa Zazo, nella prefazione alla edizione Mondadori. La natura
Lo stile, la scrittura sono quelli inconfondibili di Jane Austen: linguaggio elegante, arioso, ricco di subordinate e ben sorvegliato.
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Ragione e sentimento
Sognavo l’altra notte che ritornavo a Manderley...
Questo bellissimo e drammatico romanzo venne pubblicato dalla scrittrice londinese Daphne De Maurier nel 1938 e reso celebre grazie ad una riduzione per il teatro e per il cinema, portato sul grande schermo da Hitchcock.
L’autrice risente dell’influenza degli scrittori dell’800, soprattutto per le atmosfere del passato tipicamente romantiche a cui unisce una stupefacente capacità di entrare nei meandri della psicologia dei suoi personaggi femminili che, nonostante siano lontanissimi dalla vita di oggi, sono vivi, umani, palpitanti.
L’incipit è indimenticabile, piano di struggente malinconia “Sognai l’altra notte che ritornavo a Manderley...” che in lingua originale è ancora più toccante “I dreamt last night I went to Manderley again”. Le prime righe mi hanno subito rapita.
Manderley è il cuore del libro, lo sfondo dell’intera vicenda. Un luogo magico, incantevole, dove la protagonista della storia, legatasi frettolosamente ad un uomo molto più maturo di lei, dal (recente) passato tempestoso e misterioso, sboccia come donna, lascia la scorza dell’ingenua e svagata gioventù per fortificarsi e prendere consapevolezza di sé.
Manderley: gli effluvi di rose e azalee, le pennellate vivaci di idrangee, la frescura sicura e accogliente del grande ippocastano, le giornate di sole che placano gli animi turbolenti, il profumo di erba e poi...la grande casa, le grandi stanze arredate con gusto da Rebecca, la prima moglie di Maximilian de Winter, proprietario di tutta la contea, la grande e ben fornita biblioteca, il profumo del té alle quattro e un quarto, servito con meticoloso rituale dal maggiordomo Frith.
Manderley però è anche profumo di mare, quel mare ora calmo e placido ora tempestoso e fatale. Quel mare che tanto turba e innervosisce Max de Winter e la giovane sposa non capisce il perché. È nel mare che è stato trovato il cadavere di Rebecca, la prima moglie.
Per tutto il romanzo non verremo mai a sapere come si chiama la protagonista. Una scelta ben meditata dalla scrittrice. La giovane sposa si annulla totalmente una volta messo piede in quella grande casa. La gelosia e la mancanza di fiducia in se stessa materializzeranoo il fantasma di Rebecca.
Sempre Rebecca, sempre lei. Rebecca è ovunque: nella sala, allo scrittoio, nella sua vecchia camera da letto, nei ricordi della gelida ed ossuta governante.
Rebecca, la più bella, la più intelligente, la più amata.
Ma ciò che si legge nella prima metà del libro verrà sconvolto via via che si prosegue nella lettura. Mai fidarsi delle apparenze e questo romanzo drammatico, sorprendentemente si trasforma in un giallo/noir di prim’ordine. Assolutamente da leggere!
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ogni romanzo di Houellebecq è complesso
Un libro complesso
Ho conosciuto Houellebecq partendo da "Serotonina", ho proseguito con _Sottomissione_ ed ho continuato tutto d'un fiato con "Le particelle elementari ". Se dovessi fare un grafico dell' entusiasmo che ho avuto nel leggere i tre romanzi direi che verrebbe fuori una parabola. A parte "Sottomissione" che ho trovato interessante, ma meno coinvolgente, gli altri due mi sono piaciuti.
Ma l'ironia forte, che strappa il sorriso, l'ho trovata solo nel suo ultimo romanzo che ho già recensito. I temi di Houellebecq si ritrovano: erotomane, scene di sesso, una sola donna che da piacere fisico si trasforma in qualcosa di piu forte, dolce, nostalgico. Riflessioni esistenziali, ancoraggio a momenti importanti della storia francese.... raffinata erudizione.
Le scene di sesso vi sembrano troppo volgari? Allora facciamo la fine di Baricco che ha tacciato Houellebecq di non fare letteratura a causa del suo linguaggio diciamo provocatorio. La letteratura deve essere viva e contemporanea, non delineare mondi e linguaggi idealizzati. Chiamate Houellebecq volgare, ma non sciatto. Quest' uomo è dotato di una erudizione molto raffinata, sofisticata, non comune. Non sforna romanzi tanto per vendere, anzi tra il penultimo e l'ultimo romanzo passano 4 anni. È uno scrittore che sceglie con cura le parole ed è maestro. Sceglie le parole per corrodere il nostro conformismo, le nostre coscienze, sceglie le parole giuste per provocare e scatenare la censura dei tabù.
Non so se questo libro sia un capolavoro, ma posso dire che va metabolizzato prima di esprimere un giudizio, va meditato. È un libro complesso. Ma lo consiglio! Nascond
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Una possibilità per uscire dal tunnel
*Di cosa parla?*
Credo che sia la domanda che non bisogna mai porre quando si legge un romanzo come _Serotonina_ o _Sottomissione_ di Houellebecq (quanto agli altri non posso pronunciarmi, non avendoli ancora letti). È difficile parlare di un romanzo come questi, gli spunti di riflessione, la complessità che li caratterizza, impediscono di dare una risposta immediata, che si esaurisca in poche righe.
Ho iniziato questo romanzo, _Sottomissione_ , pubblicato nel 2015, subito dopo aver terminato _Serotonina_ e posso dire che, se i precedenti romanzi dello scrittore francese si avvicinano di più al secondo, do in parte ragione a coloro che sostengono che _Sottomissione_ non li ha coinvolti come si aspettavano. Ragione in parte, dicevo, perché ho trovato un bellissimo romanzo, che ha sicuramente una vena sarcastica, ironica e una carica dissacratoria meno forti che nell’ultimo romanzo e, probabilmente nei precedenti, ma che si presenta come un’opera complessa, di qualità che spinge chi lo legge a riflettere.
Riflettere...ma su cosa?
Innanzitutto non è un libro islamofobo, come vorrebbe fuori da una lettura non attenta e superficiale, e così come è stato definito subito, alla pubblicazione, avvenuta a ridosso della tragedia di Charlie Hebdo.
Nella finzione del romanzo, siamo nel 2022 circa, in una Francia dove ormai la rilassatezza dei costumi e la perdita di tempra politica padroneggiano, ascende alla presidenza della repubblica ...un musulmano.
Un uomo colto, forte politicamente e circondato da un team ben organizzato e con le idee chiare.
Il titolo è un falso programma, è un titolo “civetta” , per provocare e far discutere e in questo Houellebecq è un indiscusso maestro.
Sottomissione ad Allah. I Muslim sono letteralmente i sottomessi.
Il protagonista, François, alla fine del libro, si converte all’Islam, sottomettendosi, come a suo tempo (ma senza sottomettersi) aveva fatto il grande autore francese che tanto ha influenzato il nostro D’Annunzio, Jori Karl Huysmans . François è professore alla Sorbona ed è uno specialista proprio di Huysmans, sul quale aveva scritto una tesi di dottorato dal titolo “Huysmans o dell’uscita dal tunnel”che sintetizza alla perfezione lo slancio, lo sforzo dell’autore di _À rebours_ di trovare una via di uscita alla sua vita inconcludente e la trova nella conversione al cattolicesimo, che avviene con sincera apertura e convinzione.
François, come ogni protagonista houellebechiano che si rispetti, è di un cinismo e di un opportunismo davvero estremi, e nulla fa per risultare simpatico al lettore: si converte per puro opportunismo e non con convinzione solo per continuare ad avere una vita sessuale appagante, con mogli molto più giovani di lui, opportunamente “selezionate” da una mezzana per i gusti più esigenti e per continuare a lavorare alla Sorbona.
Sono ben due gli intellettuali interessanti vissuti il secolo scorso in questa storia: Huysmans, oggetto della tesi di dottorato di François e René Guénon, poco conosciuto in Italia che da cattolico si poi era convertito all’Islam ed aveva passato il resto della propria vita in Egitto.
Quest’ultimo intellettuale è autore di un ricca produzione in cui la conversione all’Islam appare come una naturale continuazione della tradizione primordiale, non un rigetto della fede di origine (vedi l’opera del musulmano italiano Shayck ‘Abd al Wahid Pallavicini, _L’islam interiore_ ).
René Guénon, guarda caso, è stato oggetto della tesi di dottorato del nuovo rettore della Sorbona islamizzata, un certo Robert Rediger.
Cito un passo interessante che riporta parte del discorso di quest’ultimo:
“Tale battaglia, necessaria per l’instaurazione di una nuova fase organica di civiltà, ormai non poteva più essere condotta in nome del cristianesimo; era l’islam, religione sorella, più recente, più semplice e più vera (perché, infatti, Guénon si era convertito all’islam? Guénon era innanzitutto una mente scientifica, e aveva scelto l’islam da scienziato, per economia di concetti; e altresì per evitare certe marginali credenze irrazionali, come la presenza reale nell’eucaristia), era dunque l’islam, oggi, ad aver preso il testimone. A furia di moine, smancerie e vergognosi strofinamenti dei progressisti, la chiesa cattolica era diventata incapace di opporsi alla decadenza dei costumi. Di rifiutare decisamente ed energicamente il matrimonio omosessuale, il diritto all’aborto e il lavoro delle donne. Bisognava arrendersi all’evidenza: giunta a un livello di decomposizione ripugnante, l’Europa occidentale non era più in grado di salvare se stessa –non più di quanto lo fosse stata la Roma del V secolo della nostra era.”
Alla luce di ciò non si può assolutamente dire che il romanzo di Houellebecq sia islamofobo come già ho detto prima, anzi l’autore sta tentando di farci affacciare da una finestra su un mondo possibile.
Attraverso il protagonista di cui non conosciamo neppure il cognome, ma solo il nome di battesimo, l’età (44 anni, la stessa di quando Huysmans si converte al cattolicesimo) e l’occupazione, Houellebecq non solo dá prova di erudizione, ma ci spinge a riflettere sull’uomo occidentale, sul sua decadenza, sui suoi limiti.
Un protagonista tipicamente houellebechiano, più colto della media, umanamente superficiale, “sentimentalmente” si presenta come il tipico maschio dei suoi romanzi, capace quindi di provare amore, dolore solo quando ha perso la donna più preziosa, quella cioè che prima scatena intenso piacere fisico e poi l’amore, per cui la sua assenza diventa per lui impensabile per continuare a vivere.
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La disperata fame di felicità e di amore
spoiler free
Riassunto : Spiazzante
Commento articolato:
È la prima volta che leggo questo autore tanto chiacchierato, osannato e criticato. E questa conoscenza è partita proprio dall’ultimo libro da lui scritto. Guardo con un pizzico di invidia chi ha già letto almeno altri due romanzi dell’autore francese, classe 1956, negli ultimi anni al centro di discussioni e dibattiti non solo letterari.
Dico questo perché chi già conosce Houellebecq, il suo stile, i suoi temi, è già corazzato di fronte ad uno stile così dissacrante, provocatorio, così ostentatamente impolitico...per me, è stata una lettura scioccante, consiglio alle donne o chi ha una certa sensibilità, di leggerlo lontano dai pasti. Scherzi a parte, ogni volta che leggo certi passi e sto mangiando, il boccone mi va di traverso, non riesco ancora ad abituarmi a scene, a passaggi “forti” . E non poteva essere altrimenti essendo io abituata ai grandi classici della letteratura, agli scrittori dei grandi slanci, delle “grandi cause” dell’umanità, dei sentimenti appaganti (e del perbenismo? del conformismo?). Uno scossone alla mia comfort zone.
Certamente non rinnego le bellissime letture, i grandi classici che, per l’epoca in cui sono stati scritti e i secoli immediati a venire hanno parlato, e, anzi, sono sicura, continuano ancora a parlarci...tuttavia bisogna accogliere con entusiasmo e con le dovute riserve ciò che la narrativa contemporanea ci offre. Con questo spirito ho letto _Serotonina_ , ho letto Houellebecq.
Sicuramente nel suo intento c’è una manifesta voglia di provocare e lui ci riesce benissimo. C’è chi dice che lui sia stato un profeta, un veggente, poiché ha anticipato coi suoi libri, pubblicandoli a ridosso di tragedie e disordini nazionali, gli avvenimenti che hanno sconvolto la Francia negli ultimi anni. _Sottomissione_ , che sto leggendo adesso, prefigura una nazione che non trova alternativa all’accettazione dell’Islam come unica forma di potere/religione possibile, quella che può funzionare dove il cattolicesimo ha fallito, dove le forme di governo occidentali hanno fallito.
Spiazzante, sconcertante, ma fin dove si spinge questo scrittore? Che abbia il pallino del sesso, nessuno può negarlo, assolutamente, chi si azzarderebbe a dire il contrario? Non si fa mancare nulla a quanto pare e in questo romanzo probabilmente ha superato se stesso in quel senso; vi lascio il piacere di farvi accapponare la pelle davanti alla zoofilia e a un accenno di pedopornografia. Di fronte a questi passaggi, mi sono chiesta: questa è letteratura contemporanea?
Se mi fossi limitata a storcer il naso, mi sarei persa tutto il resto ed avrei frainteso il suo lavoro. Non c’è solo questo, c’è molto di più. Siamo di fronte ad uno dei pochi autori che non ripropone i soliti argomenti triti e ritriti, ma che dà un senso a ciò che scrive. È letteratura. Non si può dire che la sua prosa sia sciatta, non curata, assolutamente no. Si tratta di una prosa asciutta che, nonostante quei termini volgari (sono sempre i soliti due/tre che si ripetono) , è ricca, curata, meditata.
Il protagonista guarda il male dritto negli occhi, senza tentennamenti. Grazie alla serotonina non soccombe di fronte ai vari traumi che piomberanno nella sua storia. Disperato, determinato e...terribilmente romantico. Eh sì, terribilmente romantico, un antieroe quasi eroe. Antieroe perché il protagonista è essenzialmente un fallito, un “vinto” (ciliegina sulla torta: dopo tanto libertinaggio è diventato pure impotente...) , solo, senza possibilità di recuperare il suo amore perduto, vede il mondo in cui è cresciuto sgretolarsi sotto i colpi della globalizzazione, ma eroe perché, nonostante tutto, sopravvive e conserva una ironia che meravigliosa è dir poco.
Romantico a modo suo, perché ci sono nel libro dei passaggi inaspettati, delle riflessioni sull’amore tra un uomo e una donna che meritano di essere letti e meditati.
Morboso Houellebecq, erotomane Houellebecq, odioso e scomodo Houellebecq, coraggioso e sincero. “Un farabutto cinico attraversato talvolta da un pizzico di sincerità” , così si è definito (“Corriere della Sera”, 2015)
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Speranza tra le macerie
Quando raggiunse il grande atrio pieno di luce, Hans esitò: a sinistra c’era l’angelo sorridente, che la prima volta, di notte, gli aveva dato il benvenuto. Hans si fermò a guardarlo: sembrava che la figura gli facesse cenno gli sorridesse dal fianco, e si girò lentamente verso di lei, ma quegli occhi fissi guardavano lontano e il giglio dorato non si muoveva, solo il sorriso sembrava rivolto a lui, e Hans accennò ad un sorriso di rimando. Solo allora, con la figura in piena luce, vide che il sorriso dell’angelo era un sorriso di dolore”.
Vi capita di innamorarvi di un autore e di cercare tutte le sue opere in maniera ossessiva? A me è capitato con Böll. Mi piace tantissimo e questo libro è uno dei più belli che io abbia letto quest’anno.
Titolo originale Der Engel schwieg opera giovanile scritta tra il 1949 e il 1951, ambientato nell’immediato dopoguerra in Germania. Manoscritto rimasto inedito per decenni.
L’editore all’epoca non volle pubblicarlo. La Germania era cambiata e i tedeschi volevano dimenticare la passata miseria. Il libro contiene già tutti i temi, i motivi, la poesia che esploderanno nelle sue opere dell’età matura.
Böll è un autore che sa unire poesia e delicatezza ad una forte critica sociale che mette in risalto le strutture dell’ingiustizia e delle contraddizioni sociali, tradendo una aperta simpatia per i poveri e gli afflitti.
“Non si racconta niente della guerra, né tantomeno degli avvenimenti del dopoguerra. Heinrich Böll mostra solo gli uomini di quel tempo. Con loro scopriamo quanto sia importante riuscire ancora a sentire almeno il soffio dell’anima, essere colpiti almeno da un raggio d’amore, conservare ancora accesa la luce eterna delle fondamenta della fede. Attraverso una storia d’amore, limpida e fragile, sperimentiamo l’assenza di retorica nella generazione dei reduci, che sa che in questo mondo non esiste patria” (Middelhauve)
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Come i media ti distruggono la vita
Ho tanti slogan per presentarvi questo libro, questo piccolo, breve gioiello di Heinrich Böll. E fate _chapeau_ , perché il Premio Nobel nel 1972 è ampiamente meritato. Chi conosce Böll può capirmi se dico che potrebbe essere una sorta di Pirandello tedesco. Ha scritto racconti umoristici che celano grande sofferenza, c’è una ironia che lascia colpiti, c’è poetica rassegnazione dietro ai suoi romanzi scritti sopra le macerie della Germania post seconda guerra mondiale.
Questo piccolo romanzo ha come titolo originale _Come può nascere e dove può condurre la violenza_ . Quale violenza? Sicuramente l’autore si riferisce al potere distruttivo che certa stampa prezzolata può avere sulla vita di alcune persone.
La spietata campagna giornalistica di una certa fazione (la Germania non ancora unita) butta nel tritacarne la vita della bella, diligente e intelligente cameriera Katharina Blum, ventisettenne, la sua unica colpa? Essersi innamorata di un ribelle, definito dalla stampa un “terrorista” . Notizie palesemente false, contraffatte, condite di particolari scandalistici, contro la ben nota _pruderie_ sessuale di Katharina, atti a soddisfare la morbosa curiosità dei lettori di quel giornale.
Il romanzo non è certamente il classico giallo, anche perché la soluzione del caso è già all’inizio del libro, ma è comunque un giallo “problematico”, costruito attraverso brevi, a volte brevissimi capitoli che, come tessere di un mosaico, si sistemano lungo il racconto. Si tratta di una riflessione sarcastica sul potere della stampa che attraverso il caso di Katharina si mostra come un vero incubo che cresce giorno, deformando fatti, parole, dopo giorno distruggendole la vita e portandola quasi “con naturalezza” verso un finale tragico. No, non si suicida. Non ve lo dico. Leggetelo.
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Storia originale ed avvincente
Finito stamattina davanti alla tazza di tè a colazione. Un libro davvero splendido che consiglio a tutti. Io non ho visto il film, per cui non sono in grado di fare confronti, se non quello riguardante il punto di vista: nel film non c’è una voce narrante, mentre nel libro quella di uno dei pazienti dell’istituto psichiatrico, Capo Bromden, un pellerossa, racconta la storia. L’ho trovata originale, soprattutto per L’ambientazione e la tematica trattata. La storia è avvincente, va dal drammatico all’esilarante, mi ha trascinata in una lettura piacevole e interessante. Indimenticabile il protagonista McMurphy, un uomo di 35 anni , rosso di capelli, che col suo charme, il suo modo di fare, spiccio, diretto e talvolta furbo, mette in crisi la direzione dell’istituto psichiatrico incarnata dalla Grande Infermiera, una anziana donna che da anni mette in riga imalati, quali burattini incapaci. Interessante e indimenticabile il colto e saggio Hardy, un alito paziente dell’istituto dispensatore di saggezza e riflessioni importanti. Consigliato vivamente
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