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kafka62 Opinione inserita da kafka62    15 Marzo, 2018
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IL CANTO DEL CIGNO DI SCIASCIA

”Il cavaliere e la morte” è, non dissimilmente dagli altri romanzi di Sciascia, la storia di un misterioso delitto consumato nel rispettabile e inavvicinabile mondo di notabili e potenti, e dell’impossibilità da parte delle forze “sane” della società di assicurare il colpevole alla giustizia. La storia di un fallimento, quindi, e neppure troppo originale per chi conosce Sciascia, tanto è vero che esso culmina con la morte violenta del protagonista, un vice commissario di polizia, ucciso in un agguato per impedire che le sue intuizioni investigative possano smascherare gli astuti depistaggi e portare l’inchiesta alla verità.
E’ proprio nell’anonimo personaggio del Vice che però si riscontra la reale importanza dell’opera, quasi un canto del cigno per lo scrittore siciliano: infatti il Vice, colto, illuminista e incline a filosofeggiare, è un uomo che sta per morire, che anzi da tempo è “approdato su un’isola deserta”, per accingersi con dignitosa consapevolezza a compiere l’estremo passo. Nelle brevi e scorrevoli pagine del libro assistiamo, più che a una classica indagine poliziesca, a un vero e proprio addio alla vita, in un indefesso monologare interiore sul dolore, sulla memoria, sull’arte e sulla verità. Alla fine la sua uccisione, lungi dall’apparire una punizione, diventa quasi una sorta di liberazione, e persino un paradossale trionfo che, trasportandolo in una dimensione morale di superiore e beffarda indifferenza, lo solleva ben al di sopra dei loschi traffici e delle meschine macchinazioni di tutti i mediocri Aurispa di turno.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    11 Marzo, 2018
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IL MITO DELLA CAVERNA IN VERSIONE NO GLOBAL

" Leggendo, si viene a sapere quasi tutto, Anch’io leggo, Qualcosa, dunque, dovrai pur saperla, Ora non ne sono più tanto sicura, Allora dovrai leggere in altra maniera, Come, Non serve per tutti la stessa, ciascuno inventa la propria, quella che gli sia più consona, c’è chi passa tutta la vita a leggere senza mai riuscire ad andare al di là della lettura, restano appiccicati alla pagina, non percepiscono che le parole sono soltanto delle pietre messe di traverso nella corrente di un fiume, sono lì solo per farci arrivare all’altra sponda, quella che conta è l’altra sponda”

Saramago scrittore no global? La cosa non mi sorprenderebbe affatto, dato che, oltre alla ben nota fede politica di uomo di sinistra e a quello che lui stesso chiamava “un punto di vista di confessata simpatia di classe", elementi questi presenti un po’ in tutte le sue opere e del tutto compatibili con l’etichetta di cui sopra, nel fantomatico Centro de “La caverna” è altresì ravvisabile un’azzeccata metafora della globalizzazione. Infatti, è difficile non vedere nel Centro e nel suo inarrestabile potere di espansione l’immagine traslata della civiltà delle multinazionali, che da anni sta lentamente colonizzando il pianeta, modificando i gusti dei consumatori e pianificando le economie dei paesi del Terzo Mondo, il tutto in nome del dio profitto e senza riguardo alcuno per la sopravvivenza di aziende e lavoratori, tradizioni e mestieri. Così l’anziano vasaio Cipriano Algor, che si vede di punto in bianco annullare dal Centro il contratto di fornitura di stoviglie in terracotta e tenta di sopravvivere alla crisi riconvertendo l’attività della sua fornace attraverso la produzione di statuine ornamentali, è, a livello individuale, l’immagine di tutte quelle nazioni africane, asiatiche e latino-americane costrette dal protezionismo, dal progresso tecnologico e dall’agguerrita politica imperialistica di Stati Uniti ed Europa alla marginalizzazione, alla povertà e, per via di un’emigrazione sempre più massiccia, all’assorbimento e alla perdita delle rispettive identità culturali.
Man mano che il romanzo procede prende corpo un altro aspetto di non secondaria importanza, che non mi viene da descrivere se non attraverso il ricorso all’imprescindibile paragone kafkiano. I diversi colloqui che Cipriano ha con i funzionari del Centro mettono infatti in rilievo il carattere di quest’ultimo come autorità trascendente e autoritaria, impermeabile a qualsiasi tentativo esterno di comprensione, melliflua e conciliante in superficie come un piazzista che debba magnificare le qualità della sua mercanzia, in realtà implacabile e spietata come chi non ha altro scopo se non la sopravvivenza e la perpetuazione di sé stesso a scapito di tutto il resto. Con il trasferimento della famiglia Algor nei quartieri residenziali del Centro e il misterioso ritrovamento nel sottosuolo della caverna del mito platoniano, assistiamo poi a un ulteriore approfondimento in chiave per così dire filosofica: il Centro diventa in questo senso lo specchio di una società in cui la vita è solo un riflesso, una riproduzione, una simulazione della vita autentica.
Qualcuno può obiettare che anche l’arte e la creazione artistica (alla cui fatica greve e senza requie e alle cui difficoltà che in certi momenti paiono insormontabili Saramago dedica pagine tra le più belle che abbia mai scritto) in fondo falsificano, inventandola, la realtà. Ma ben diversi sono i loro strumenti, e diversa la loro funzione. Attraverso un procedimento simbolico, e non meramente riproduttivo, di banale ricalco, l’arte si sforza infatti di interpretare, di decifrare la realtà, mentre il Centro (con i suoi appartamenti senza finestre, i suoi divertimenti artificiali, i suoi spettacoli che simulano le sensazioni naturali come il vento, la pioggia o la neve) questa realtà la uccide, inscatolandola in una prevedibile e omologante uniformità che non ha più bisogno di chiavi di lettura perché è offerta, inoffensiva e asettica come una belva allo zoo, alla stregua di un prodotto commerciale ad un pubblico apatico e senza più reazioni. Dal Centro di Saramago alla realtà dei nostri giorni il passo è poi breve, perché l’onnipresenza della televisione nella vita di tutti i giorni o gli aspetti di virtualità indotti dagli strumenti informatici dell’ultima generazione sono troppo simili alla suadente invadenza del Centro per non pensare che lo scrittore portoghese abbia voluto dar corpo a una meditata e consapevole metafora mirante a mettere in guardia il lettore più attento dai pericoli subliminalmente presenti nella nostra società affluente, progredita e democratica. I membri della famiglia Algor, compreso il genero Marçal Gacho, guardiano del Centro, questo pericolo lo capiscono (“quelle persone siamo noi”, dice Cipriano Algor riferendosi ai cadaveri rinvenuti nella grotta, aggiungendo poi: “non rimarrò per il resto dei giorni legato a una panchina di pietra a guardare una parete”), rinunciando definitivamente al loro comodo futuro nel Centro e partendo invece verso l’ignoto, senza certezze ma con la confortevole fiducia nei sentimenti e nelle occasioni che la vita – quella vera, quella a cui, come al cane Trovato, al Centro non è dato diritto di cittadinanza – sempre mette a disposizione.
Ne “La caverna” ritroviamo il messaggio più autentico di Saramago: la sua scelta di campo a favore della genuinità contro la sofisticazione, della verità contro la mistificazione, degli istinti contro la ragione calcolatrice, può forse sembrare semplicistico, ma è in realtà il frutto maturo di una ideologia portata avanti con rigore, coerenza e onestà intellettuale nel corso di una carriera più che trentennale. Nemmeno l’amore è assente in questo romanzo: improbabile e salvifico come ne “L’anno della morte di Ricardo Reis”, nella “Storia dell’assedio di Lisbona” o nel “Memoriale del convento”, esso è forse l’ultima ancora di salvezza cui l’uomo moderno può aggrapparsi per evitare il naufragio nelle secche dell’egoismo e dell’indifferenza. Grazie all’amore per la vedova Isaura e alla religiosa dedizione al proprio anacronistico lavoro di artigiano, Cipriano Algor (anti-eroe per eccellenza) trova nuove, insospettate ragioni di vita e si erge alla fine all’altezza degli eroi epici, incarnazione di una caparbia e indomita volontà di resistenza al Potere. Il romanzo risulta così sospeso tra una dimensione fantascientifica, orwelliana, e un’altra dimensione arcaica, mitologica: insomma, siamo di fronte a un vero e proprio ossimoro letterario, che si oggettiva nei continui viaggi da pendolare che Cipriano compie tra la sua casa in campagna e la città (e, all’interno di essa, quella città nella città rappresentata dal Centro).
Per il resto, ne “La caverna” ritroviamo puntualmente la grande, incomparabile abilità del Saramago narratore, la quale ci fa sentire le sue storie come un qualcosa di tranquillizzante e familiare, un po’ come un focolare domestico: il buon senso che trapela da riflessioni apparentemente a ruota libera, l’umanità che i suoi personaggi rivelano tanto individualmente quanto nel rapporto con il loro prossimo, l’affettuosa condivisione della sorte degli umili, la profondità di pensiero che si traveste di semplicità, la naturalezza con cui vengono portate alla luce motivazioni psicologiche complesse, sono doti artistiche ormai rare, proprio come l’arte manuale, tramandata da generazioni, del vasaio, e da esse – si può scommetterci – riescono sempre a uscire fuori sorprendenti verità e affascinanti invenzioni, come nelle pagine delle mute conversazioni tra Cipriano Algor e il cane Trovato o nel delizioso paragrafo dei piccoli cervelli presenti in ciascuna delle dieci dita delle mani.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    09 Marzo, 2018
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IL DIAVOLO PROBABILMENTE

“Confessione di un assassino” è un romanzo in gran parte debitore della tradizione narrativa dell’Ottocento, e di Dostojevskij in particolare. Alla prima rimandano soprattutto le sue peculiarità stilistiche e narrative, le quali, rapportate all’epoca in cui è stato scritto (gli anni trenta), lo fanno sembrare più vecchio di almeno cinquant’anni, o tutt’al più avvicinabile al Conrad “classico” dei primi anni del secolo: mi riferisco per esempio alle descrizioni minuziose e analitiche di personaggi e ambienti, o alla scelta non casuale di presentare la storia per mezzo di un racconto orale fatto a una pluralità di ascoltatori (come nel “Giro di vite” di James e nella numerosa e coeva letteratura gotica costellata di racconti a lume di candela). A Dostojevskij fa invece pensare la tematica di colpa, espiazione e redenzione che costituisce il perno della tragica vicenda di Golubcik, e più in generale la dialettica tra il bene e il male che permea intimamente il libro.
Il protagonista assoluto del romanzo è il male, o meglio la sua incarnazione fisica per eccellenza, il diavolo. Niente di particolarmente originale, a dire il vero, tanto più che il narratore Golubcik non si fa scrupolo di svelare quasi subito l’aspetto metafisico della sua storia (il libro è zeppo di espressioni del tipo: “il diavolo mi possiede”, “il diavolo guidava ogni mio passo”, ecc.), e soprattutto la vera identità dell’onnipresente Lakatos (“messaggero in carne e ossa del diavolo”), disinnescando in tal modo il possibile effetto sorpresa (quello che ad esempio caratterizzava “L’uomo che fu Giovedì” di Chesterton). Oltretutto l’autore utilizza i luoghi comuni “infernali” più abusati e banali, come la zoppia di Lakatos od il “bagliore rossastro nei suoi brillanti occhi marrone”. Quello che preme più a Roth di sottolineare è però la pervasività del male, la sua irresistibile forza di diffusione basata sul fascino del delitto e della trasgressione (Lakatos è una persona allegra, elegante ed educata, e inebria i suoi interlocutori con “effluvi celestiali”: “Lakatos mi portò dritto all’inferno. Me lo profumò persino”), e soprattutto quella particolare, karamazoviana ebbrezza autodistruttiva, la quale proprio nel momento in cui fa intravedere le conseguenze più nefaste dei propri atti li rende in qualche modo inevitabili e necessari. Golubcik ha fin dall’inizio il sentore di essere avviluppato da qualcosa di diabolico e malefico (i braccioli di una poltrona sono come piante carnivore, la mano nel grembo della zingara è come una mosca nella ragnatela), ma non c’è a mio avviso nelle sue peripezie un autentico senso “tragico” del destino e della fatalità: egli ha sempre in realtà una via d’uscita, una alternativa da percorrere, e se non lo fa e si costringe a bere fino in fondo l’amaro calice della degradazione è solo per una autonoma e consapevole, ancorché masochista, determinazione. L’alter ego del protagonista, quel principe Krapotkin che lo assilla e lo perseguita con l’ossessione del cognome rubato, non è così un William Wilson che vampirizza e annienta il suo doppio, ma è un mero pretesto inopinatamente fatto assurgere a causa di tutti i mali, ed alla fine del romanzo anch’egli finisce per muovere a pietà il lettore non meno della sua vittima-carnefice. Se poi il mefistofelico Lakatos è sempre lì nei momenti cruciali della storia, ciò è in fondo spiegabile non tanto da un’ontologica e ineluttabile supremazia del male, quanto dal fatto, fin troppo riscontrabile nella nostra vita di tutti i giorni, che il demonio è sempre pronto ad offrire i suoi servigi a tutti coloro che lo desiderano e a cogliere ostinatamente ogni occasione propizia per portare un’anima alla dannazione.
Visto in questa ottica, “Confessione di un assassino” è un interessante e nient’affatto banale saggio sulle implicazioni, anche psicanalitiche, della lotta eterna tra il male e la virtù. Questo aspetto lo riscatta in parte da una trama infarcita di troppi cliché melodrammatici (figli illegittimi di principi potenti, spietate spie zariste, innocenti mannequin destinate a diventare esose amanti, proprio come in ogni feuilleton che si rispetti) e da una certa staticità narrativa (la cornice al racconto principale, che si sviluppa tutto in una notte, è quasi inesistente). Tirate debitamente le somme, si tratta di un’opera discreta, seppur minore, di un discreto autore.

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"Delitto e castigo" di Fedor Dostoevskij
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    07 Marzo, 2018
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CINQUE RACCONTI DI SAUL BELLOW

Nei cinque racconti di “Quello col piede in bocca” è presente un’ossessione comune, in alcuni evidente fin dal titolo (la novella “Cugini”), in altri più sotterranea e nascosta: si tratta dell’ossessione nei confronti dei rapporti familiari. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, il narratore, il professore di musica Shawmut, viene ad esempio truffato dal fratello dopo avergli ingenuamente concesso soldi e fiducia, ed è poi malamente assistito in tribunale dal cognato avvocato, il quale lo consiglia di finire i suoi anni esiliato all’estero come un proscritto. In “Come è andata la vostra giornata?” assistiamo invece al rapporto squilibrato (tanto dal punto di vista anagrafico quanto intellettuale) e dalle complesse connotazioni edipiche (più da padre e figlia, da pigmalione e allieva, che da marito e moglie) tra Victor Vulpy, un celebre intellettuale al crepuscolo, e Katrina, una donna goffa e sensuale di trent’anni più giovane. Ne “Il piatto d’argento”, ancora, il protagonista, Woody Selbst, rievoca l’ambiguo rapporto col padre recentemente scomparso, imbroglione, fedifrago e puttaniere da vivo, eppure amato e rispettato proprio in virtù di un insopprimibile obbligo filiale. Infine, nell’ultimo racconto, i legami con la parentela (i cugini del titolo) vengono visti come vincoli ineludibili, dai quali non è possibile, volenti o no, districarsi, neppure quando essi inducono a violare la propria legge morale.
Insomma, la famiglia per Bellow è un groviglio irrisolto e irrisolvibile di tensioni, pulsioni, conflitti ed emozioni, un microcosmo che, nel suo piccolo, riflette l’alienazione diffusa nella società americana contemporanea, schizofrenicamente scissa tra la sacralità dei diritti individuali di libertà e di tolleranza ed il mito dell’autorealizzazione e del successo da perseguire ad ogni costo. Non è un caso che i personaggi di Bellow sperimentino dentro di loro questo lancinante dualismo, in quanto sono tutti in varia misura caratterizzati dalla prevalenza dell’intelletto sul corpo, della teoria sulla pratica, del sentire sull’agire. Quasi una replica moderna degli inetti a vivere di Svevo, essi vivono come degli “schlemiel” in un paese, come l’America, dove tutto è interesse, potere, denaro, concretezza. Candidi, altruisti e pervasi di autentico amore per l’umanità, nel corso della loro crescita i vari Shawmut, Zetland, Woody e Ijiah, devono tutti fare i conti con la durezza della vita, con l’ipocrisia del mondo e con la cinica spietatezza dei rapporti interpersonali, che li obbligano a fare continui compromessi con le proprie inclinazioni naturali. Il loro senso etico è infatti inquinato da una soggezione di stampo patriarcale al clan, alla famiglia, che costringe per esempio Ijiah ad aiutare il cugino mafioso scrivendo una perorazione al giudice, sua antica conoscenza, o Woody a coprire il furto del padre nella casa della sua benefattrice, salvo poi dover convivere per il resto della vita con l’immaginabile corollario di rimorsi e sensi di colpa. Su un atteggiamento di tipo morale prevale quindi una visione prevalentemente sentimentale delle cose, anche se il continuo razionalizzare e teorizzare su tutto permette loro di frapporre sempre uno schermo, un filtro tra essi e gli avvenimenti negativi che si trovano ad affrontare, riuscendo così in qualche modo a rimanere sempre a galla e sopravvivere.
Ne “L’uomo col piede in bocca” si ritrovano anche diverse altre costanti dell’opera di Bellow, oltre alla famiglia. La prima è l’ebraismo, nelle sue varie connotazioni religiose, familiari, ambientali e persino lessicali, nelle quali tutti i personaggi, anche i meno ortodossi, rimangono invischiati come in una pania. La seconda è il rapporto di amore-odio con Chicago, dal Loop ai suoi tristi quartieri residenziali. La terza è l’incessante e inesausto sforzo dei personaggi, che già avevo riscontrato ad esempio in “Ne muoiono più di crepacuore”, di prendere le misure alla vita, di fare i conti con la decadenza della civiltà, di prepararsi all’appuntamento con la morte. Da qui discende un’atmosfera di quieto pessimismo, di rassegnata solitudine, come nell’immagine di Woody Selbst che, dopo una notte trascorsa a ricordare il suo padre defunto, si ritrova il mattino dopo in una malinconica situazione di silenzio e di vuoto esistenziale. Non ci sono in Bellow grandi tragedie, ma solo piccoli dolori, poco o nulla enfatizzati, emozioni trattenute e passate al vaglio di una acuta sensibilità e di una ragione vivisezionatrice. L’ultima, e forse più negativa, costante che intendo evidenziare è la cerebralità dell’opera bellowiana. Nei suoi racconti e romanzi manca infatti il collante rappresentato da una trama ben identificabile, in quanto Bellow ama soprattutto divagare e trapassare continuamente dal presente ai ricordi, dall’azione ai monologhi interiori. E’ uno stile molto personale e riconoscibile, che, ad essere sinceri, lascia non poco perplessi, nella misura in cui, quando arriva l’ultima pagina, non si sa mai se a prevalere sia il fascino, dovuto a una scrittura indubbiamente colta e fluente, ricca di citazioni, aneddoti e battute finemente umoristiche, oppure l’irritazione per la scarsa importanza attribuita all’intreccio, a volte quasi inesistente e comunque mai tale da imporsi alla memoria del lettore, al punto che, a distanza di tempo, è raro ricordarsi di cosa parlino i suoi libri.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    05 Marzo, 2018
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AMERICAN WAY OF DEATH

La storia de “Il caro estinto” è racchiusa all’interno di due emblematici suicidi, quello di un anziano sceneggiatore inglese trapiantato in America e quello di una ragazza americana di lontane ascendenze europee: entrambi vittime dell’assurdo e spietato sistema nel quale vivevano e lavoravano, ma non abbastanza innocenti da meritarsi la compassione del lettore, dal momento che di tale sistema essi erano in un certo senso conniventi, avendone condiviso e accettato senza riserve regole, leggi e soprattutto valori. Quanto detto dovrebbe essere più che sufficiente per capire perché Evelyn Waugh definiva il suo curioso romanzo in questi termini: “un piccolo incubo notturno, in qualche tratto, forse, leggermente orrido”.
Se mi viene concessa una citazione cinematografica, ci troviamo vicini non tanto all’innocuo umorismo di “Arsenico e vecchi merletti”, cui forse in un primo momento lo stile leggero e svagato di Waugh può far pensare, bensì al cinismo amaro e sulfureo di Billy Wilder. Si sorride spesso ne “Il caro estinto”, ma il romanzo va al di là della mera satira della società americana e di quella inglese, stigmatizzate, la prima, nei suoi aspetti di stolido conformismo e di ingenuo spiritualismo, la seconda in quelli di aristocratico snobismo e di finta supremazia culturale. C’è in primo piano, è vero, quell’autentico trionfo del kitsch rappresentato dal cimitero dei Sentieri Melodiosi, una gigantesca Disneyland dell’aldilà, dove i “cari rimasti” piangono a caro prezzo i “cari estinti”, impeccabili professionisti si adoperano per restituire ai visi dei morti un’espressione radiosa e coppiette di innamorati vanno a fare il picnic accanto alle tombe in aulici siti dai nomi di “Nido d’Aquila” o “Angolo dei Poeti”, tra cinguettii di usignoli e canti d’amore indù; e c’è anche il suo bizzarro equivalente animale rappresentato dal Campo della Beata Caccia, dove inappuntabili reverendi officiano le esequie di cani, gatti, caprette e pappagalli. Ma tra le righe si può leggere un messaggio molto più profondo ed inquietante. Quello che Waugh dipinge è infatti un mondo che, all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, ha perso l’innocenza (come i due suicidi sanciscono definitivamente con il loro gesto) e si è schizofrenicamente diviso tra il culto del potere, del denaro, del successo da una parte e il ricorso a una spiritualità tutta esteriore, in cui prosperano affaristi, psicoterapeuti e sacerdoti a provvigione, dall’altra.
Non è solo l’”american way of life” a essere messo in discussione, ma l’intero sistema di valori del mondo occidentale contemporaneo il quale, oggi assai più che nel 1948, tra edonismo selvaggio, materialismo egoistico e irrazionali slanci mistici, è un cadavere ben conservato che ha sacrificato per sempre la propria anima alle ragioni della mente e del corpo, senza neanche il conforto di un’ombra di rimorso (è esemplare, con il suo lucido e agghiacciante self control, il comportamento del giovane Dennis dopo il suicidio dell’ex fidanzata). Se si legge “Il caro estinto” in questa ottica, il riso si fa finalmente amaro, strozzandosi in gola, ed il breve e fin troppo veloce apologo di Waugh (che sembra inizialmente limitarsi a parodiare la letteratura di Henry James, con i suoi problematici rapporti tra Americani ed Europei) rivela tra le righe un beffardo ghigno di indicibile orrore.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    03 Marzo, 2018
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RICARDO REIS E IL FANTASMA DI PESSOA

“Fernando Pessoa chiuse gli occhi, appoggiò la testa sullo schienale del divano, parve a Ricardo Reis che due lacrime gli spuntassero fra le palpebre, potevano anche essere… effetti di luce riflessa, lo sanno tutti che i morti non piangono. Quel volto nudo, senza occhiali, con i baffi leggermente cresciuti, …, esprimeva una grande tristezza, di quelle senza conforto… D’improvviso, Fernando Pessoa aprì gli occhi, sorrise, Pensa un po’ che ho sognato di essere vivo…”

“L’anno della morte di Ricardo Reis” sembra essere nato da una scommessa: quella di scrivere un romanzo che abbia per protagonista un non-personaggio, un eteronimo (quello con cui Fernando Pessoa scrisse alcune delle sue odi), quindi un semplice nome, il quale viene rivestito per l’occasione da Saramago di fattezze e connotati umani, a cui viene dato un corpo e una vita autonoma, indipendente dal suo creatore; un personaggio che, per di più, nelle quasi cinquecento pagine del libro non fa nulla di rilevante, bighellona inoperoso per le strade di Lisbona, fa sporadici incontri, scrive poesie, legge giornali. Si tratta, a ben vedere, di una duplice scommessa: perché è un romanzo costruito narrativamente sul vuoto anziché sul pieno (senza cioè un vero centro di interesse, se non quello legato alla morte enunciata dal titolo) e, in secondo luogo, perché abbina il massimo di irrealtà (lo sdoppiamento di Pessoa-Reis) con il massimo di realtà (la cronaca meticolosa degli avvenimenti del 1936). La cosa non deve però sorprendere, giacché sono proprio questi motivi a fare de “L’anno della morte di Ricardo Reis” un romanzo perfettamente saramaghiano. Infatti, la missione dello scrittore portoghese è sempre stata quella di dare ad anonimi e misconosciuti personaggi (siano essi contadini dell’Alentejo o soldati impegnati in un assedio) un volto, un passato, una storia. Si pensi a “Tutti i nomi”, in cui il protagonista si prefigge assurdamente di rintracciare e fare la conoscenza della donna la cui scheda anagrafica (rappresentante la spersonalizzazione per eccellenza, quella burocratica che riduce gli individui a meri nomi) è finita per errore nell’archivio dei decessi. Secondariamente, Saramago cerca in quasi tutte le sue opere di partire da dati reali (la costruzione del convento di Mafra, l’assedio di Lisbona occupata dai Mori, ecc.) per inserirvi una vicenda puramente fantastica, persino con divagazioni surreali (come nel caso del “Memoriale del convento”).
Leggendo “L’anno della morte di Ricardo Reis” si giunge ad effetti stranianti. Saramago rovescia il rapporto tra Pessoa (l’autore) e Reis (il personaggio), dando una concretezza inoppugnabile di vita autentica al secondo (attraverso la registrazione minuziosa e diaristica dei suoi atti, incontri e pensieri) e trasformando il primo (già morto quando Reis, nel dicembre del 1935, ritorna in Portogallo dal Brasile) in un personaggio di fantasia, impressione accentuata dal fatto che egli appare solo in veste di fantasma (tra l’altro, nel corso del carnevale, Reis incrocia un uomo travestito da morte e immagina cosa Pessoa, interrogato, potrebbe rispondergli alla domanda se dietro la maschera c’era proprio lui; qualche pagina dopo, quando Reis incontra “realmente” lo scrittore defunto, questi ripete, parola per parola, quanto Reis aveva poco prima pensato: segno forse che è Pessoa ad essere un’invenzione della mente di Reis, e non viceversa?). In questa ottica, “L’anno della morte di Ricardo Reis” è un’opera quasi esistenzialista, che si interroga tra le altre cose, anche se mai direttamente, sull’identità (gli “innumerevoli” che “vivono in noi”), sulla labilità del concetto di individuo (la vita che trapassa gradualmente nella morte senza un confine netto e inscindibile che le separi, come nel bellissimo finale), sulla solitudine (è indimenticabile la figura di Pessoa, spettro annoiato e triste che vaga per Lisbona in cerca di compagnia, sospeso “fra una memoria che tira e un oblio che spinge”, che non è più vivo ma pare abbia portato nell’aldilà tutti i fardelli della vita) e sul destino (la sterile saggezza cui approda Reis è sapere quello che accadrà e non fare nulla per cambiarlo, apatico e inutile spettatore dello “spettacolo del mondo”).
Per contro, l’impressione già citata che il romanzo di Saramago non parli di nulla di importante, ma sia tutt’al più la cronaca minimalista di un’esistenza vissuta nella dimensione soggettiva della coscienza, è contraddetta dal continuo, stringente parallelo con la realtà storica. Allo stesso modo in cui di Reis seguiamo gli insignificanti pensieri e i ripetitivi gesti quotidiani, così di quest’ultima emergono piccoli dettagli, frammenti di un puzzle che sappiamo, col senno del poi, che andranno a comporre lo scenario drammatico della Seconda Guerra Mondiale, ma che la versione dei giornali e della propaganda dell’epoca minimizza e annacqua in una visione stolidamente ottimistica e patriottica, non consentendo di coglierne tutte le straordinarie e irreversibili implicazioni politiche. Come il mondo del ’36 va ignaro verso la tragedia bellica, così Ricardo Reis si incammina senza saperlo verso la sua fine. La consapevolezza che il lettore ha (per esperienza storica del passato da una parte e per via del titolo del romanzo dall’altra) che i giorni della pace e quelli del suo protagonista sono contati carica quindi già a priori di senso quegli avvenimenti, quei pensieri e quei gesti che all’apparenza senso non hanno, convalidando così, mediante questo stratagemma narrativo, la straordinaria bravura di uno scrittore che non fa mai un libro uguale al precedente (qui addirittura usando un periodare molto più breve del solito) e che pure rimane sempre inconfondibilmente sé stesso.

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"Il libro dell'inquietudine" di Fernando Pessoa
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    01 Marzo, 2018
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UNO STRANO IBRIDO LETTERARIO

”Requiem per una monaca” è uno strano ibrido letterario, metà romanzo e metà dramma teatrale. Lo sperimentalismo di Faulkner raggiunge qui uno dei suoi vertici assoluti, ma non riesce a evitare che l’opera soffra della sua struttura troppo rigidamente binaria. La parte narrativa – va detto subito – è la migliore, ancorché risulti difficile, ostica, impervia nella sua scrittura fluviale, in cui i periodi principali vengono spesso inframmezzati da lunghi incisi o parentesi, i quali a loro volta si ramificano in ulteriori digressioni, ciò che fa perdere spesso il filo della narrazione e costringe il lettore ad un vero e proprio tour de force di concentrazione. Ma la storia della città di Jefferson e della contea di Yoknapatawpha è ugualmente affascinante: in una carrellata vorticosa Faulkner parte addirittura dalla preistoria (sic!) per arrivare ai nostri giorni, lasciando intuire, dietro alla sua prosa distaccata e impassibile, sia pure venata di sottile ironia, il suo amore per il Mississippi e la sua convinzione ferrea che ogni uomo è legato al passato della propria terra (o addirittura determinato da essa), anche se troppo spesso se ne dimentica (come dimostra l’amara scoperta, mirabilmente raccontata in alcune pagine tra le migliori in assoluto dello scrittore americano, di come il progresso fagocita tutto e fa ben presto diventare ogni cosa anacronistica). Pur appena abbozzati, passano così davanti ai nostri occhi personaggi che, se da una parte non sono che minuscole e inconsapevoli rotelle di un ingranaggio molto più grande di loro, fatalmente segnati dal marchio di una ineludibile predestinazione, a metà strada tra verità e leggenda, e condannati a scomparire quasi senza lasciare traccia (che non sia il graffio di una data e di un nome sul vetro di una finestra), dall’altra assurgono, quasi a risarcimento dell’inesorabile trattamento subito dalla Storia e anche se per poche pagine, al ruolo paradossale di eroi letterari.
Completamente diversa è invece la parte teatrale, dove Faulkner riprende la storia di un suo romanzo di venti anni prima, “Santuario”. Nei tre atti, di cui le parti narrative costituiscono un insolito prologo, emerge tutto il lato moralistico dell’autore: il sacrificio di Nancy (il cui orribile crimine si rivela paradossalmente un estremo, disperato tentativo per salvaguardare l’integrità della famiglia di Temple) e la confessione di Temple (che accetta pubblicamente di addossarsi la responsabilità morale dell’accaduto) sono infatti l’esemplare dimostrazione della forza redentrice della sofferenza e dell’espiazione. Il dolore (e soprattutto l’accettazione di esso) è l’unica possibilità che l’uomo ha di raggiungere la salvezza e di dare un senso alla propria vita. La visione cristologica dell’esistenza (Nancy si immola per salvare Temple) e il contrasto tra legge e giustizia (la confessione di Temple non può cambiare la sentenza, ma almeno servirà a ristabilire la verità nascosta) assurgono quindi a capisaldi della filosofia faulkneriana, preludendo all’affermazione dell’imprescindibile dignità della persona umana, anche della più abietta. Nancy Mannigoe, “puttana, cocainomane, senza speranza, già dannata prima di essere nata” diventa così una sorta di santa (è lei la monaca cui si riferisce il titolo), cui Faulkner guarda con immenso rispetto come esempio di autentica fede religiosa.
Purtroppo l’intento didascalico dell’autore risulta alla fine troppo palese e scoperto, persino nelle semplici indicazioni scenografiche (l’aula del tribunale sopraelevata, “in un simbolismo che riuscirà più chiaro all’inizio dell’Atto Secondo: il simbolismo di alta Giustizia del quale questa Corte di contea è soltanto uno stadio intermedio, ma non il supremo”). C’è poi una innegabile artificiosità nei meccanismi psicologici che portano Temple a recarsi in piena notte dal giudice per la scabrosa confessione, nella sostituzione del marito Gowan al giudice senza che la protagonista si accorga di niente e nel ruolo spassionato e disinteressato, troppo teorico, dell’avvocato Gavin. Gli equilibri drammaturgici soffrono inoltre dell’esasperazione del coté tragico, che mal si concilia con il sottile umorismo delle pagine non teatrali. Ma la cosa che infastidisce di più è che i personaggi di Faulkner parlano in maniera così artificiosa, prolissa e arzigogolata che ciò che era perdonabile (e spesso lodevole) quando la voce era direttamente dell’autore oppure riferibile ai pensieri dei protagonisti (come nel caso dello stream of consciousness de “L’urlo e il furore”), qua, dove i drammi esistenziali, le passioni, i sentimenti, in una parola la vita vissuta, si esprimono in prima persona, tutto diventa invece moraleggiante, retorico o – quel che è peggio – estetizzante, in scene di dubbio gusto dove Temple e Gavin non si preoccupano minimamente di citare termini astrusi come “eufonico” e “eupepsia” o di pronunciare con naturalezza frasi come “stai affogando in un orgasmo di abiezione e di moderazione”.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    27 Febbraio, 2018
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UNA STRAZIANTE ALLEGORIA DELL'ALIENAZIONE

Una delle tematiche più caratteristiche e riconoscibili delle opere di Franz Kafka, a partire dai primi racconti fino ad arrivare ad “America”, è sicuramente l’alienazione dell’individuo. Siccome la realtà viene quasi sempre a trovarsi su un piano di alterità e incomunicabilità, l’uomo kafkiano si smarrisce, diventa incapace di percezioni irrefutabili e rassicuranti e, conscio del suo incommensurabile distacco dalla ragione ultima dell’esistenza, diventa preda della più orribile e angosciosa estraniazione. Questo lancinante processo di alienazione da se stessi e dal mondo è descritto con allucinata lucidità nel suo racconto più celebre e probabilmente più riuscito, “La metamorfosi”. Trasformando Gregor Samsa in un insetto schifoso, Kafka materializza la condizione di chi, non sapendo abbandonarsi alla corrente vitale con slancio e rimanendo apaticamente in disparte nei confronti del mondo pulsante di energia, si rinserra come una testuggine e ad altro non aspira se non alla propria autodistruzione. E’ importante osservare che Gregor, fin dal principio del racconto, non fatica ad accettare la sorprendente situazione di essere diventato uno scarafaggio, non si meraviglia né si addolora, ma minimizza in continuazione ciò che gli è accaduto. Alla vista del suo ventre arcuato e delle numerose sottili gambette che si agitano tremolanti dinanzi ai suoi occhi, la sua unica reazione è un leggero moto di sorpresa. Ma un istante dopo egli già pensa: “Che avverrebbe se io dormissi ancora un poco e dimenticassi ogni pazzia?”, finendo poi per indugiare in riflessioni sulla pesantezza del lavoro e sulla fatica di “queste levatacce che istupidiscono completamente”. Con torpida e supina acquiescenza, egli cerca pateticamente di dare ordine agli straordinari fatti di quella mattina, trasformandoli per ciò stesso in fatti orribilmente quotidiani. Il comportamento di Gregor è in realtà un inconscio desiderio di cancellare la propria coscienza e di spogliarsi per sempre delle insopportabili responsabilità dell’esistenza: “Egli era desideroso di conoscere quel che avrebbero detto, vedendolo, quegli stessi che ora così insistentemente chiedevano di lui. Se si fossero spaventati, allora Gregor non aveva più nessuna responsabilità e poteva starsene tranquillo”. Con il trascorrere del tempo, assistiamo al progressivo allontanamento di Gregor dalla realtà: giorno dopo giorno, prigioniero di una orribile claustrazione, egli distingue con sempre minor chiarezza gli oggetti intorno a lui mentre la tenebra si impadronisce della stanza. Il mondo esterno, simboleggiato dall’ospedale di fronte, è cancellato nella nebbia (“se non avesse saputo che abitava nella Charlottenstrasse, avrebbe anche potuto credere di guardare dalla sua finestra in un deserto, in cui il cielo grigio e la terra grigia si riunivano senza lasciarsi distinguere”), ed anche il tempo non esiste più, al punto che Gregor non sa se Natale sia già passato oppure no. L’io di Gregor si ottenebra così nell’ottusità del corpo. Kafka si sofferma a descrivere minuziosamente le quotidiane occupazioni di Gregor-insetto, come le passeggiate sui muri o la degustazione dei cibi che la sorella gli porta: l’efficacia del simbolismo del racconto risiede infatti proprio nella sua perfetta fusione con l’oggetto della narrazione, che evita di fare della metamorfosi una trovata meramente letteraria. Fino alla fine comunque Gregor conserva una sensibilità molto delicata, tanto è vero che egli è l’unico a rimanere affascinato dalla musica del violino che la sorella suona davanti ai pensionanti. Il suo progressivo ottenebramento non è quindi un graduale prevalere degli istinti animali su quelli umani, bensì uno sfibrato abbandono al proprio stato di escluso.
Il racconto suggerisce a questo punto una interessante chiave di lettura. La storia della trasformazione di Gregor non è solo la rappresentazione di una volontaria e masochistica autodistruzione, ma anche la descrizione di una straniante vicenda di emarginazione. Il personaggio di Gregor è infatti il simbolo di tutti i paria dell’umanità, cioè di tutti quegli esseri umani, dai pazzi agli anziani, dagli omosessuali ai disabili, che una società sempre più egoistica e superficiale mette continuamente e crudelmente da parte. Gregor infatti vuole sì annullarsi e farsi dimenticare, ma vuole nello stesso tempo e con pari determinazione lanciare un messaggio di aiuto. Ne “La metamorfosi” si adombra una insospettata dimensione morale, che consiste nell’irresolubile dissidio tra il bisogno di amore e l’impossibilità di essere amato. I familiari di Gregor, dopo la disgrazia, non riescono più a vedere al di là della sua forma immonda quella sostanza umana che pure vive ancora in lui e che potrebbe essere salvata con un incondizionato atto d’amore. Il padre, come si è già visto, reagisce con un violento rifiuto, come se la trasformazione del figlio fosse il segno tangibile della sua colpa; la madre, che interviene solo per placare gli animi esacerbati dal rancore e dall’insofferenza, non sa provare per Gregor che una sterile commiserazione; la sorella Rita, infine, pur essendo l'unica ad avere un sia pur limitato rapporto con Gregor, non fa che consacrare "nella sua bontà" la sua nuova natura animale, e al termine del racconto è proprio lei a decretare il tremendo verdetto di condanna: “Non voglio fare il nome di mio fratello dinanzi a questa bestiaccia, e perciò dico solo: bisogna cercare di liberarsene… Via deve andare, questo è l’unico mezzo, babbo. Tu devi soltanto liberarti dal pensiero che sia Gregor”. Lo spostamento dei mobili dalla sua stanza toglie a Gregor l’ultimo residuo contatto con il mondo, precludendogli per sempre la strada del ritorno alla normalità. Per salvare la serenità della famiglia, verso la quale ha sempre conservato un commovente affetto, a Gregor non resta che scomparire, farsi definitivamente da parte. “La metamorfosi”, questa orripilante favola sulla mancanza di amore, si conclude così, inevitabilmente, con la morte del protagonista. E’ una morte narrata senza clamore né pathos: “Rimase in questo stato di meditazione vuota e tranquilla sinché l’orologio della torre non scoccò le tre di notte. Visse ancora tutto il tempo che il cielo mise a rischiararsi fuori della finestra, poi il suo capo senza volere si chinò, e debolmente gli sfuggì dalle narici il suo ultimo respiro”.
La morte di Gregor, così straziante nella sua totale assenza di dolore, ci appare come un testamento poetico di ineguagliabile bellezza. “Abbiamo bisogno – disse un giorno Kafka – di libri che abbiano su di noi l’effetto di una sventura, che ci diano molto dolore. Un libro deve essere come una scure piantata nel mare di ghiaccio che è dentro di noi”. Con “La metamorfosi”, mostrandoci la morte della nostra anima cui è preclusa l’agognata redenzione, Kafka ci ha effettivamente fatto male, ma nello stesso tempo ci ha offerto l’immenso conforto di una guida affettuosa, di una luce capace di condurci attraverso l’assurdo deserto dell’esistenza. Come Gregor Samsa, Kafka si è sacrificato per noi, addossandosi le nostre angosce e le nostre pene per salvarci dalla condanna: “E tu sei sveglio, sei uno dei custodi, trovi il prossimo agitando il legno acceso nel mucchio di stipe accanto a te. Perché vegli? Uno deve vegliare, dicono. Uno deve essere presente”.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    25 Febbraio, 2018
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UN DECAMERONE GOTICO

Non sono un esperto di letteratura fantastica, e quindi non sono in grado di valutare quanto originale e innovativo possa essere giudicato il “Manoscritto trovato a Saragozza” del polacco Jan Potocki. La mia impressione è tuttavia che esso ricicli, attingendovi a piene mani senza troppi scrupoli e ancor meno genialità (cosa che rende addirittura paradossali le numerose vicissitudini di plagi e appropriazioni indebite subite negli anni successivi), gli elementi più disparati ed eterogenei di un immaginario il quale, a cavallo tra il ‘700 e l’800, doveva essere alquanto fertile, come dimostrano i tanti personaggi (come il celeberrimo Frankenstein) nati in quegli anni: incontriamo così, in rapida e spesso caotica successione, spiriti malvagi e geni benigni, mostri, fantasmi e vampiri (che addirittura, come in un bignamino del fantastico, l’autore distingue pedantemente tra vampiri della Transilvania e vampiri spagnoli), e ancora eremiti, indemoniati e cabalisti, principesse, banditi, zingari e cavalieri; e anche le atmosfere oscillano tra l’orrorifico, il picaresco, il favolistico e il romantico, in un pot-pourri di generi che lascia a dir poco disorientati. I modelli di riferimento sono sicuramente le “Mille e una notte”, con tutti quei fastosi palazzi principeschi e quelle bellissime fanciulle che l’autore ama descrivere con meticolosa precisione, e con quel gusto inconfondibile per il meraviglioso e per l’esotico, e soprattutto il “Decamerone” del Boccaccio, con la sua divisione in giornate ed il ruolo assunto, all’interno di ciascuna di esse, dai racconti orali dei vari personaggi: ma, con la predilezione all’accumulo che, come si è visto, contraddistingue Potocki, qui le storie si intersecano, si sovrappongono, si stratificano, in un meccanismo a scatole cinesi che, in alcuni casi (ad esempio, il protagonista Alfonso che ascolta la storia del capo degli zingari, il quale a sua volta riporta la storia di Giulio Romati, e quest’ultimo quella della principessa di Monte Salerno) crea addirittura tre o quattro livelli successivi di narrazione.
In un romanzo la cui fama è sicuramente superiore ai suoi meriti effettivi (senza nulla togliere al suo valore di puro intrattenimento), gli aspetti che mi sembrano degni di menzione critica sono soprattutto la presenza di un sotterraneo, e forse involontario, umorismo con cui viene caratterizzato il giovane protagonista, il quale, stolidamente e fanaticamente convinto che il codice d’onore possa validamente guidare tutti i passi della sua esistenza, rimane dolorosamente meravigliato quando si accorge che anche persone moralmente inferiori a lui, come banditi e contrabbandieri, si vantano di uniformare allo stesso principio la propria vita; un’atmosfera libertina e sensuale che, pur con tutte le prudenze e le “cinture di castità” verbali suggerite dallo spirito dell’epoca, riesce ad essere estremamente audace e provocante; e infine quell’ossessività che pervade la storia e che, a dispetto delle peregrinazioni dei personaggi i quali sono perennemente in viaggio, impedisce alla stessa di evolvere, costringendola a tornare sempre sui suoi passi, in quel vero e proprio cul-de-sac narrativo che è la “venta Quemada”. Questa locanda, infestata dagli spiriti eppure, come avveniva in un analogo palazzo nell’indimenticabile film “Racconti della luna pallida di agosto” del giapponese Kenji Mizoguchi, capace di attirare con le sue irresistibili lusinghe i viaggiatori che transitano nei paraggi, è la cosa più memorabile del “Manoscritto”, anche se alla lunga rischia di intrappolare il romanzo in un vicolo senza uscita. Il fatto che esso sia rimasto incompiuto, se da una parte non ci permette di sapere come vanno a finire le avventure di Alfonso van Worden, dall’altra finisce quasi per risultare di giovamento a un’opera la quale, nonostante tutti gli sforzi dell’autore, non riesce mai ad avere una vera e propria trama, in quanto vive e trova la sua ragion d’essere quasi esclusivamente nei singoli episodi di cui è composta.

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"Decamerone" di Giovanni Boccaccio e "Le mille e una notte"
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    23 Febbraio, 2018
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IL NIBBIO E LA FORMICA

“Ci sono, quante, venti persone, e ciascuna di loro sarebbe una storia, neanche si immagina, anni e anni di vita rappresentano un lungo periodo e tante vicende, se ognuno scrivesse la propria vita, che grande biblioteca, dovremmo portare i libri sulla luna, e quando volessimo sapere chi è o è stato Tizio, dovremmo andare nello spazio per scoprire quel mondo, non la luna, ma la vita”

Il nibbio e la formica. Questi due animali, che ricorrono con insolita frequenza nel corso di “Una terra chiamata Alentejo”, potrebbero ottimamente fungere da metafora per descrivere il modo in cui Saramago affronta le sue storie e osserva i suoi personaggi. Il suo punto di vista oscilla infatti come un pendolo tra distanza e partecipazione, tra distacco e coinvolgimento, tra ironia e pietà. L’atteggiamento del romanziere è un po’ quello di un dio che, dall’alto dei cieli proprio come un nibbio, ha sotto gli occhi il fluire incessante e inesorabile degli anni e delle generazioni, in una parola della Storia, ma non è così distratto e indifferente da non voler prestare la sua attenzione ai lamenti degli ultimi, alle sofferenze di coloro che nella grande macchina del latifondo sono solo dei numeri, a tutto ciò che è masticato, triturato e sputato come un rifiuto dalla Storia stessa, e per fare ciò (proseguendo in questa prospettiva – se così si può dire – cristologica) scende dal suo empireo per porsi finalmente ad altezza d’uomo (e di formica...). E’ questa posizione, che coniuga la lucidità di chi osserva le cose da un altro pianeta con la compassione di chi invece in questo mondo è immerso fino al collo, a fare di “Una terra chiamata Alentejo” un emozionante ibrido artistico.
Che cos’è infatti “Una terra chiamata Alentejo”? Una saga familiare, un romanzo sociale oppure un affresco storico? O ancora, un’opera realistica oppure fantastica? Individuale o collettiva? Credo che siano corrette tutte queste definizioni, a patto che le si integri e le si trascenda con l’ottica indicibile e ineffabile dell’autore – deus ex machina che esce ed entra continuamente dalla scena, beffandosi della cronologicità, della verosimiglianza e della costruzione classica del racconto. Prendiamo ad esempio questo passaggio: “Se rimanessimo da questa parte, se seguissimo la donna, …, e se ci accingessimo per esempio a giocare con suo figlio, non sapremmo che cosa succederà, ed è una cosa che non faremo assolutamente… Non siamo arrivati in tempo per assistere ai preliminari. Abbiamo perso tempo a guardare il paesaggio e a giocare con il ragazzino”. Saramago, come si può notare, non si cura affatto di celare la finzione, anzi si diverte a esplicitare il ruolo del narratore, rendendolo a volte onnisciente (il flashback con cui svela la lontana origine degli occhi azzurri di João Mau-Tempo o il flashforward con cui viene anticipata la morte di Domingos Mau-Tempo), altre volte divagante (quando si sofferma a parlare di personaggi che non c’entrano nulla con la storia, fingendo di perdere addirittura il filo della narrazione per suggerire al lettore l’esistenza di una miriade di altre storie accanto a quella del romanzo), altre volte ancora reticente (come nel brano sopra citato, in cui lo scrittore sembra muoversi e agire con i limiti di un personaggio fisico).
Da tutto quanto si è detto, si evince che “Una terra chiamata Alentejo” è un romanzo in qualche modo sperimentale, che non si lascia definire (basta pensare al bellissimo finale, in cui i morti si accompagnano ai vivi nella loro marcia trionfale verso le terre da occupare, il quale smentisce e rovescia in un simbolismo fantastico alla Garçia Marquez il sostanziale realismo di fondo). Eppure è altrettanto indubitabile che, oltre alle sperimentazioni linguistiche e ai voli di fantasia, “Una terra chiamata Alentejo” è un libro profondamente politico, un’opera di denuncia che attraversa l’intero Novecento e in cui la fede istintivamente marxista di Saramago si prodiga a denunciare le miserie, le ingiustizie e le violenze arrecate da quel perverso strumento di sopraffazione sociale che è il latifondo. “Il latifondo è un mare intero. Ha le sue torme di pesci minuscoli e commestibili, i suoi barracuda e pirañha di morte, i suoi animali pelagici, i leviatani o le mante gelatinose, …”. Il latifondo ha tanti personaggi al suo interno, il popolo con i suoi uomini e le sue donne perennemente alle prese con la fame, con i debiti, con le malattie, e i signori della terra, ferocemente abbarbicati alla loro ricchezza e al loro secolare potere, ma mentre dei primi Saramago conserva nomi, facce, gesti, come se fossero un prezioso campionario di umanità da preservare ad ogni costo per poterlo tramandare ai posteri, i secondi sono tutti sarcasticamente connotati da un’unica, onnicomprensiva, desinenza (Floriberto, Norberto, Sigisberto, ecc.) che mira ad annullarli come individui e a qualificarli come mera classe sociale, così come lo stesso nome, pur a distanza di decenni, hanno i rappresentanti della Chiesa e dell’Esercito (padre Agamedes, tenente Contente, caporale Tacabo), i quali, con le loro prediche pedagogiche e reazionarie e la sistematica repressione degli scioperi e delle rivendicazioni salariali, spalleggiano il latifondo, difendono i suoi privilegi e danno il loro determinante e odioso contributo al mantenimento dello status quo e dell’arretratezza sociale.
Del latifondo Saramago racconta le lotte e le repressioni, gli scioperi e le ritorsioni, fino ai “giorni di riscatto e di gloria” dell’occupazione delle terre, ma ancor di più il duro lavoro e la vita da bestie, la fame e la povertà, le umiliazioni e le sofferenze. Fianco a fianco, anche se per l’ignoranza della gente, l’isolamento geografico e la mancanza di mezzi di comunicazione così remota e distante da sembrare di appartenere a un altro continente, cammina la Storia. Gli echi attutiti dell’avvento della Repubblica, della nascita della dittatura di Salazar e della rivoluzione dei garofani scandiscono le vicende del romanzo, come una sorta di contrappunto che permette di meglio apprezzare e percepire, nell’immobilismo totale del latifondo, il lento e inesorabile trascorrere del tempo. “Una terra chiamata Alentejo” non possiede ancora la sbrigliata fantasia ed il pieno controllo dei mezzi stilistici del successivo "Memoriale del convento”, ma è un romanzo appassionante e commovente, che si legge come un poema epico o (non si trovi in ciò alcuna differenza) come i racconti tramandati oralmente dalla tradizione popolare, e che esprime con imperiosa urgenza quel bisogno così tipico di Saramago di narrare ad libitum, senza soluzione di continuità: “sono cose risapute, non c’è altro da raccontare, oppure non basterebbe l’eternità”.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    20 Febbraio, 2018
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IL TEMPO RITROVATO

“Alla ricerca del tempo perduto” inizia con il pronome “io” e termina con la parola “Tempo”. Se l’uso della prima persona singolare è in qualche modo fuorviante, perché ingenera la convinzione non del tutto corretta che di un romanzo autobiografico si tratti (mentre più che alla propria vicenda esistenziale o alla rappresentazione soggettiva di un mondo a Proust interessa la ricerca dell’essenza profonda, assoluta e ontologica dello stesso), il termine “Tempo” è invece quanto mai appropriato per definire l’opera. La “Ricerca” è infatti la più approfondita, magistrale e incredibile riflessione sul tempo e sul ruolo che esso esercita sulla vita degli uomini che mai si sia avuto modo di leggere (per lo meno in ambito narrativo). La “Ricerca” mette infatti in perenne tensione tra loro il passato e il presente, non solo (come sarebbe facile pensare) come mero confronto tra i due opposti cronologici, ma sforzandosi di riempire il “buco nero” che sta in mezzo, di sciogliere la matassa di fili che il tempo ha intrecciato, di scoprire le leggi universali che governano i cambiamenti non solo fisici, ma anche psicologici, ambientali e sociali, dell’umanità. La grande abilità di Proust di descrivere il mondo aristocratico in maniera quanto mai minuziosa e particolareggiata, quasi da miniaturista (fino quasi a sfiorare la pedanteria), non deve far credere che egli possa essere apparentato con la quasi coeva letteratura verista, di cui al contrario è sempre stato un critico accanito. Compito dell’arte per Proust non è di descrivere le cose o le idee, bensì di portare in luce il proprio mondo interiore. Ma per fare ciò non è sufficiente una mera attività intellettuale: l’artista deve essere “poroso” nei confronti di impressioni e ricordi, farsi assalire da essi e in questo modo costruire dei ponti verso il passato, con ciò creando una dimensione extra-temporale che sola può contenere quella verità che l’esperienza concreta e il mondo sensibile non sono in grado di dare. La madeleine proustiana e le intermittenze del cuore non sono più delle evenienze sporadiche e saltuarie, ma diventano il perno di un sistema filosofico in grado di informare di sé l’opera d’arte, anzi di farsi esso stesso opera d’arte.
Il momento fatidico in cui nel “Tempo ritrovato” tutto quanto ora detto si manifesta è una miracolosa epifania (o sarebbe meglio dire una serie di epifanie) avvenuta nel cortile di Palazzo Guermantes, mentre il narratore si sta recando a un ricevimento mondano. Proprio quando l’io narrante si sente sopraffatto dai dubbi nei confronti della letteratura (dubbi che coinvolgono tanto le sue qualità personali quanto la capacità della letteratura stessa di essere apportatrice di una qualche forma di verità), giunge dal passato un avvenimento destinato a cambiare profondamente la sua vita. Appoggiando il piede su una selce sconnessa del cortile egli viene invaso da una sensazione identica a quella provata molti anni prima camminando nel Battistero di Venezia. Questa immagine riemersa dal passato (supportata da altre significative coincidenze) dà il la a una serie di riflessioni sui motivi di questa insolita felicità affrancata dall’ordine del tempo, che procura a chi la prova il brivido dell’eternità. Recuperare questi momenti impalpabili e sfuggenti dal pozzo della memoria, convertire queste sensazioni in altrettanti leggi di ampio respiro e fissarle in un’opera d’arte diventa così da quel momento la missione dell’autore.
La lunghissima sequenza del ricevimento della principessa di Guermantes, in cui sembra di stare davanti a un quadro di Munch, tanto forte è l’impressione di sfacelo e di disfacimento provocati dal passare del tempo sui volti e sui corpi di persone che un giorno il narratore aveva conosciute nel pieno delle forze ed ora sono accarezzate dalla morte (e che Proust descrive con la stessa prodigiosa profondità di pensiero esibita nelle pagine del libro precedente in cui egli ragionava sugli effetti di una separazione lacerante o di un decesso improvviso), sembra far vacillare i propositi dello scrittore. Quella di Proust diventa così una titanica sfida al tempo: il tempo che conserva la verità intima delle cose e la fa riemergere di tanto in tanto è lo stesso tempo che cambia la fisionomia degli individui, gli ambienti sociali e la percezione stessa di cose e persone (basta pensare al modo in cui il ricordo di Swann viene rimosso o fuorviato dai frequentatori di quegli stessi salotti che un giorno lo avevano ammirato), con ciò ostacolando seriamente l’opera della memoria. Così è solo sulla memoria involontaria che lo scrittore può fare affidamento per scrivere la propria opera, in tal modo relegando la propria arte e la propria intelligenza in un ruolo secondario e accessorio rispetto alle mere facoltà sensitive, e costringendo se stesso a diventare una sorta di sacerdote di questa fragile e incorporea ancorché suadente religione del tempo. Conformemente a queste premesse, la “Ricerca” si conferma più che mai un universo autonomo e autosufficiente, in cui, per riuscire a raggiungere la verità extra-temporale dell’esistenza, vengono gradualmente meno i riferimenti al mondo reale (cronaca politica, avvenimenti storici, citazioni letterarie, ecc.), per lasciare invece spazio ai richiami al passato del romanzo, dai più vicini a quelli remotissimi. E’ per questo che nella seconda parte del “Tempo ritrovato” si respira una particolarissima atmosfera fuori dal tempo, in cui tutti i personaggi (da Charlus a Madame Verdurin, da Gilberte a Odette, da Rachel a Bloch) sono contemporaneamente quelli che sono, quelli che erano una volta e tutto ciò che sono stati nel frattempo, in una virtuosistica e caleidoscopica rappresentazione in cui Proust sta sempre dietro di essi (a cercare di registrare gli effetti e le conseguenze del loro passaggio sulla propria esistenza e su quella dei suoi simili) piuttosto che di fronte ad essi. Per riuscire a sostenere questo sforzo sovrumano di attualizzare il passato, Proust ha dovuto edificare una vera e propria cattedrale letteraria, capace di sfidare (laicamente, si badi, senza cioè il sostegno di una speranza ultraterrena) le leggi del tempo e di osare la prometeica scalata all’eternità. Proust non ha potuto avere la soddisfazione di vedere gli effetti nel tempo della sua opera, non ha potuto cioè verificare se quanto ha scritto sia riuscito davvero ad essere all’altezza della sua straordinaria ambizione. Il fatto stesso che noi, a distanza di quasi un secolo, leggiamo ancora e commentiamo le sue pagine, celebrando la sua “Ricerca del tempo perduto” come una delle opere più importanti di sempre, degna di stare al fianco dell’”Odissea” di Omero e della “Divina Commedia” di Dante, è però la prova migliore che la sfida di Proust è stata vinta al di là di ogni più ottimistica aspettativa.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    16 Febbraio, 2018
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ALBERTINE SCOMPARSA

La repentina e inattesa partenza di Albertine e la di poco successiva e non meno inaspettata notizia della sua morte gettano il narratore in uno stato di profondissima prostrazione, che rischia di minare il suo già fragile equilibrio psichico. In estrema sintesi, “Albertine scomparsa” potrebbe essere descritto alla stregua di una meticolosa, ossessiva e claustrofobica analisi delle strategie messe in atto dal protagonista per sopravvivere al dolore, e di come quella tra esse più potente sebbene in gran parte involontaria, ossia l’oblio, riesca, dapprima timidamente e poi in maniera sempre più incisiva, a fagocitare e cancellare tutto, a dispetto di qualsiasi volontà di perpetuazione del ricordo. Tutta l’opera di Proust può essere in fondo letta come la lotta incessante tra la memoria e l’oblio. Se però la memoria è destinata a trionfare sul piano della creazione artistica, in quello delle esperienze, delle sensazioni e dei sentimenti è il secondo a prevalere inesorabilmente, sia pure seguendo un percorso non rettilineo ed uniforme. Questo processo può essere suddiviso a grandi linee in cinque fasi. Nella prima – come ben sa chi ha subito un grave lutto – si assiste impotenti a una moltiplicazione del dolore: ogni luogo, ogni situazione, ogni circostanza fa ricordare la persona che non c’è più, rendendo più atroce il senso di vuoto da lei lasciato. Il rimpianto del narratore non è per una sola, ma per innumerevoli Albertine, tante quante sono le occasioni di ricordarla, e ciò porta a una continua, inevitabile recrudescenza della sofferenza. Inoltre il dolore provocato dall’assenza di Albertine fa rinascere in lui (giacché ogni dolore ha il potere di essere contemporaneo a ogni epoca della vita in cui si è sofferto) tutte le inquietudini sperimentate sin dall’infanzia. Come un nuotatore che si trovi ad affrontare una mareggiata, ciò che soprattutto gli interessa in questi momenti è di non essere sopraffatto dalle ondate crudeli dell’angoscia. Anche la speranza di dimenticare Albertine è però straziante, perché porta con sé come conseguenza necessaria che anche tutti i vari “io” che l’hanno amata dovranno morire. Nella seconda fase, forse la più subdola, il ricordo di chi è scomparso colpisce a tradimento, sotto la forma di stimoli involontari. Ad esempio, al protagonista è sufficiente il rumore dell’ascensore per rammentargli che l’unica persona di cui vorrebbe ricevere una visita non c’è più; e questo vale per una notizia letta su un giornale, per una musica ascoltata per strada, e così via. In questa fase, ancora lontana dall’elaborazione del lutto, il sentimento che prevale è la tristezza, la malinconia. Solo più tardi, in una terza fase, interviene nella vita di colui che soffre la concorrenza decisiva delle attrazioni e dei piaceri della vita: è qualcosa di irresistibile, a cui non è possibile sottrarsi, e che porta a una momentanea scomparsa del dolore. Il prezzo da pagare però per questo inizio di guarigione è il rimorso. Il narratore, di fronte al rinascente desiderio per le altre ragazze o per Venezia, si sente come se tradisse il ricordo di Albertine, preservato finora come una preziosa reliquia, e questo senso di colpa si aggiunge a quello di avere in qualche modo contribuito, con la sua ossessiva gelosia e la sua egoistica volontà di possesso, alla fuga, e di conseguenza alla morte, della ragazza. E’ solo in un quarto, assai più tardo momento, che si giunge alla vera e propria dimenticanza. La sofferenza, come inizialmente accadeva per l’oblio, emerge solo di quando in quando e il narratore si sente ora simile a quei mutilati che sentono a tratti il dolore di un arto amputato o a coloro che, dopo una lunghissima malattia, si sentono una volta guariti in un certo senso diminuiti, avendo la stessa occupato un grande spazio nella loro vita. Il rimpianto e il senso di vuoto non durano comunque a lungo, perché alla fine sopraggiunge l’indifferenza totale. Con un “coup de théâtre” da moderna soap opera, scarsamente verosimile e infatti destinato a rivelarsi infondato, Proust fa addirittura “risuscitare” Albertine per far provare al suo protagonista di non provare più nulla per il suo antico amore.
Le pagine di “Albertine scomparsa” sono tra le più autobiografiche scritte da Proust, il quale vi rievoca molte delle sue esperienze personali, in primo luogo quella con il pilota Agostinelli. Sotto questa luce esse sono anche estremamente crudeli, spingendosi quasi fino al masochismo. E’ fin troppo evidente come mai come in questo libro il protagonista giunga a svelare la propria meschinità e la propria grettezza. La sua sofferenza non gli impedisce infatti di continuare a nutrire sospetti nei confronti della presunta doppia vita di Albertine e di provare gelosia per azioni e comportamenti che ella – dal momento che è morta – non può più compiere o adottare. Egli arriva addirittura all’aberrante decisione di mandare prima Aimé a Balbec per investigare sul passato di Albertine e di convocare poi Andrée per appurare le vere inclinazioni sessuali dell’amica. Ma anche quando è già riuscito ad archiviare il trauma sentimentale, il protagonista è colto da vere e proprie crisi isteriche, nei confronti prima di suo padre e poi, a Venezia, di sua madre, perché le richieste del tutto naturali dei genitori rischiano di intralciare le sue febbrili fantasie amorose. Insomma, non stupisce che il destino del narratore sia quello di finire temporaneamente – come si vedrà nell’ultimo tomo della “Recherche” – in una clinica per malattie nervose, nel tentativo di rimettere in sesto una personalità gravemente lesionata. Nel frattempo, in attesa di ritrovare il Tempo perduto, Proust sembra chiudere, se così si può dire, molti dei cerchi aperti all’inizio dell’opera: ad esempio, il tanto agognato soggiorno a Venezia (città simbolo dell’inconscio del narratore) avviene dopo infiniti progetti e rinvii, iniziati – come si ricorderà – nel primo volume, quando egli era ancora un fanciullo; nelle ultime pagine, poi, il narratore si reca a Tansonville, nella residenza di Gilberte, dove ha modo di rievocare i momenti acerbi del suo amore adolescenziale, scoprendo che quanto allora aveva desiderato era stato, a sua insaputa, vicinissimo a realizzarsi; e infine la prossimità a Combray rimanda alle sue lontane vacanze estive con le quali si era aperta la “Recherche” e alle sue romantiche passeggiate “dalla parte” di Méséglise e di Guermantes.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    16 Febbraio, 2018
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LA PRIGIONIERA

“La prigioniera”, quinto capitolo dell’opus proustiano, descrive un originale e imprevedibile connubio tra desiderio e sadismo. Il narratore, di ritorno dal soggiorno a Balbec, segrega infatti Albertine nel suo appartamento parigino e la nasconde letteralmente a tutti quanti, facendola oggetto di un sentimento morboso e possessivo. L’amore e la passione diventano se possibile ancora più immiseriti e sacrificati che mai, e vengono realizzati, privi come sono del loro sbocco naturale, quello del congiungimento carnale tra due giovani innamorati, solo in una forma totalmente negativa, quella del mero possesso “collezionistico” dell’essere amato e della sua sottrazione al resto del mondo. Il narratore, per sua stessa ammissione, può amare solo una Albertine “in tutto simile a me, immagine di ciò che precisamente era mio e non dell’ignoto”, e, coerentemente con le proprie aspirazioni, cerca costantemente di plagiarla, di modellarla come creta. C’è un che di perverso, ad esempio, nell’atteggiamento di contemplazione e di estasi che il narratore sperimenta quando Albertine dorme e lui la guarda inosservato, poiché egli esprime il desiderio di ridurre la ragazza in suo potere, sottomessa e impotente, alla sua mercé come una cosa inanimata. Ciò, anziché alimentare l’amore (in ossequio alla paradossale legge che fa sì che esso si acuisca con l’assenza dell’altro, mentre al contrario si sopisca non appena la preda è conquistata stabilmente), non fa che esacerbare la gelosia, sia retrospettivamente (giacché l’essere amato, che si rivela diverso da prima, lascia intuire un passato sconosciuto) sia nel presente (gli sporadici momenti di libertà di Albertine sono altrettante occasioni di sospetto), con la conseguenza che la relazione si trasforma in un’ininterrotta, asfissiante inquisizione.
Come già nei primi due libri della “Recherche”, in occasione della relazione tra Swann e Odette e dell’infatuazione del narratore per Gilberte, assistiamo qui a una acutissima analisi delle conseguenze velenose e nefaste che la gelosia produce in un rapporto sentimentale. Il protagonista, che magari fino a un momento prima, tediato dalla consuetudinarietà del ménage e annoiato per la quotidiana e domestica vicinanza, pensava di non amare più Albertine, ritorna a spasimare di gelosia non appena la ragazza gli si allontana per qualche ora, alimentando così i suoi sospetti sulle di lei inclinazioni sessuali e clandestine frequentazioni. “La gelosia – scrive Proust – è un compito da ricominciare senza fine” e che trova solo brevi e temporanei momenti di requie. Albertine infatti si rivela un personaggio ambiguo, a due facce: da una parte docile, servizievole e obbediente, dall’altra astuta, infida e bugiarda. Dietro le sue reticenti parole il narratore intuisce abissi di perversione e di lussuria, e Gomorra fa capolino ogniqualvolta una donna attraente entra nel campo visivo di Albertine. Sennonché la prospettiva in cui è possibile leggere il romanzo si complica se abbandoniamo per un attimo l’idea che l’io narrante sia assolutamente obiettivo e affidabile. Ricordate “Il giro di vite” di Henry James? Là l’istitutrice che racconta la vicenda in prima persona si trova alle prese con fantasmi che noi non dubitiamo mai, fin quasi alle ultime pagine, essere reali; ma alla fine dobbiamo riconoscere che i due piccoli fratelli, che in diverse occasioni si erano mostrati alleati contro di lei per essere stati consapevolmente esposti all’influenza nefasta e corruttrice degli spettri, si rivelano invece all’oscuro di tutto, ed è invece la mente malata e schizofrenica della protagonista, che con le sue parole attendibili e razionali ci aveva tratti in inganno, ad essere messa in discussione. Allo stesso modo ne “La prigioniera” noi diamo per scontata la perversione di Albertine, non mettiamo mai in dubbio le sue menzogne e i suoi sotterfugi, il suo stesso comportamento pubblico, improntato a un contegno ineccepibile, sembra quasi una prova della sua abilità di perfida dissimulatrice. Ma osservando le sue occasionali irritazioni o la sua tristezza da animale in gabbia di fronte al comportamento maniacale e paranoico del narratore, il quale in tutto vede una prova delle proprie sofisticate costruzioni mentali e che se la giovane dice A pensa che in realtà ella voglia significare B, ci viene il fondato sospetto che tra i due sia proprio Albertine la vera vittima: e se, a dispetto di ogni evidenza, Albertine fosse solo una povera ragazza, soggiogata psicologicamente dal narratore e condotta alla fuga e alla morte non tanto dai propri libidinosi desideri quanto dalla asfissiante e oppressiva sorveglianza di una personalità talmente contorta da fare in certi momenti, ad onta del fatto che egli si descriva come il più sensibile degli uomini, pensare a uno psicotico criminale (e che oltretutto – non dimentichiamolo – non ama Albertine, ma viene abbandonato quando già aveva preso la decisione di lasciare lui per primo, vigliaccamente, la compagna)?
Se questa sia la vera chiave di lettura del romanzo, oppure appaia così al lettore all’insaputa dell’autore, non è dato sapere con sicurezza. Certo è solo che essa aggiunge ulteriore profondità psicologica a un’opera che come sempre, trattandosi di Proust, rasenta la perfezione (anche se qui qualche lacuna e imperfezione in realtà traspaiano: prova ne siano le morti di Bergotte, di Cottard e di Saniette, che qualche pagina dopo inverosimilmente “risuscitano”), e in cui la scrittura è un puro, cristallino e rarefatto spazio mentale che non può prescindere dalla realtà, ma la rielabora senza sosta, trasformandola in inesauribili sensazioni e impressioni mentali. Si pensi al vero e proprio tour de force con cui Proust rinchiude il suo protagonista (se si fa eccezione per la serata a casa Verdurin e un paio di brevi passeggiate parigine) tra le quattro mura di un appartamento, e lì, in quello spazio claustrofobico, sia capace, con una sensibilità davvero virtuosistica, di farci respirare ugualmente l’inebriante aria di Parigi, come si può vedere nelle deliziose pagine dei “cris” dei venditori ambulanti che giungono alla finestra del narratore, o in quelle in cui i cambiamenti di stagione vengono percepiti attraverso le minime, quasi impercettibili trasformazioni di luce e di atmosfera sugli arredi e sulle suppellettili della stanza da letto. Non si perdano poi le fondamentali riflessioni sull’arte suscitate dall’ascolto del settimino di Vinteuil: la musica, e l’arte in genere, riesce infatti a esprimere ciò che le semplici parole non sono da sole in grado di dire, essa è un medium per raggiungere il significato più autentico e profondo dell’essere e della vita. Proust prepara così, gradualmente, quella che sarà l’ormai imminente epifania del Tempo ritrovato, la quale conferisce proprio all’arte e alla memoria il compito di realizzare la propria miracolosa missione: quella di fondere (laicamente – è bene ricordarlo - ossia senza l’ausilio di alcuna religione) il proprio passato individuale nella sfera incorruttibile dell’eternità.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    15 Febbraio, 2018
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SODOMA E GOMORRA

“Sodoma e Gomorra” è una sorta di elaborata variazione sull’ampio materiale narrativo dei tre romanzi che lo precedono: in esso infatti ritornano situazioni (i ricevimenti nei salotti dell’alta società, come quelli della principessa di Guermantes o di madame Verdurin), luoghi (il soggiorno a Balbec), avvenimenti storici (l’affaire Dreyfus) e argomenti di conversazione (l’etimologia dei nomi geografici o familiari) che il lettore ha già conosciuto. Alcuni personaggi, poi, salgono alla ribalta dopo essere stati finora semplici figure di contorno (Charlus, Albertine), altri, con un percorso esattamente contrario, passano in secondo piano (Swann, madame de Guermantes, Saint-Loup), altri ancora rientrano da protagonisti dopo essersi eclissati per un certo tempo (il clan Verdurin, Morel). Si viene a determinare un po’ lo stesso meccanismo di familiarità e di riconoscibilità di personaggi e ambienti che caratterizza le saghe familiari, ma con in più una prodigiosa concentrazione spazio-temporale, oltre che intellettuale, la quale è capace di racchiudere in un’unica esistenza individuale quel senso di universalità che solo l’avvicendarsi di diverse generazioni, diverse dinastie e diverse epoche riesce normalmente a conferire alle saghe. Adesso si vede chiaramente che la “Recherche” è un universo chiuso in cui tutti gli elementi, anche i più minuti, concorrono alla riuscita dell’insieme, un edificio di sofisticata complessità in lenta, impercettibile eppure incessante costruzione, che lascia ormai intuire perfettamente non solo la direzione cui essa tende, ma persino il suo traguardo (il “tempo ritrovato”). In questa ottica (di un romanzo, cioè, che fa parte di un’opera che lo contiene e in parte lo trascende) si possono capire e interpretare le differenze presenti in “Sodoma e Gomorra” rispetto alle “Fanciulle in fiore” o ai “Guermantes”. Qui il protagonista, pur ripercorrendo (come si è detto) strade già battute nel recente passato, appare cambiato, più disincantato e prevenuto, meno disposto a lasciarsi illudere dai sentimenti, dalle fantasie o dalle apparenze. Così, nei salotti aristocratici, il narratore, promosso al rango di habitué, è in grado di rivelare di primo acchito (con il suo orecchio “esercitato come il diapason di un accordatore”) i caratteri e le singolarità nascoste dei personaggi che li frequentano, ma, non più intimidito dai nomi e dal lusso, l’ironia che aveva prima messo in ridicolo le loro ipocrisie, i loro snobismi, la loro stupidità (diventati adesso evidenti come alla luce del sole) si è in qualche modo attenuata, in quanto egli è diventato ormai uno di loro. Allo stesso modo, il ritorno a Balbec restituisce sì le sensazioni del primo soggiorno attraverso il meccanismo della memoria involontaria (quelle “intermittenze del cuore” che danno il titolo alla seconda parte e che “risuscitano” la figura della nonna, compagna dell’io narrante durante la prima adolescenziale vacanza), ma il fascino, lo stupore, i sogni ad occhi aperti di una volta sono evaporati, e al loro posto, come in una spiaggia dopo la fine dell’alta marea, è rimasta una distesa di cose usurate dal tempo e sporcate dalla abitudine, dalla ripetitività e dalla noia (sebbene tale sensazione di “già vissuto” sia qualche volta, come in occasione dei viaggi serali in treno interrotti alle fermate dalle estemporanee visite di amici e conoscenti, confortevole e appagante). Lo stesso amore per Albertine, per quanto finalmente consumato e non più solo ideale (come erano stati invece quelli per Gilberte e madame de Guermantes), ha perso ogni alone romantico e si è avviato a ripercorrere fatalmente le alterne fasi dell’antico rapporto tra Swann e Odette, macchiato, oltre che dalla scoperta della doppia vita della ragazza, anche dalla riduttiva consapevolezza che chi ama ben difficilmente può essere riamato.
Per finire resta da parlare della omosessualità che dà il titolo al libro. A questo proposito c’è da rilevare la singolare modalità di trattazione adottata nella prima parte di “Sodoma e Gomorra”. In essa, infatti, Proust adotta la “geniale decisione di descrivere il peccato contro natura col metodo e il linguaggio delle scienze per l’appunto naturali (un po’ come si spiega il sesso ai bambini)… Proust distingue, con commossa autoironia, varietà, specie, rami e sottogruppi del genere omosessuale utilizzando il poetico e animato linguaggio di Darwin, popolato di corolle vibratili, di organi sensitivi, di insetti infervorati e ottusamente desideranti; un universo di venti, pollini, colori e profumi, finalisticamente intento al miracolo della fecondazione” (Daria Galateria). Componente tipica del mondo proustiano (anche quando non viene esplicitamente rivelata, come nel caso della tenera, un po’ effeminata amicizia del narratore con Saint-Loup), l’omosessualità trova qui la sua massima espressione, incarnata in uno stile affettuosamente ironico e allusivo e in personaggi (come il barone di Charlus) in grado di fornire molteplici spunti per esplorare, da un punto di vista psicologico prima ancora che sociale, i meandri più reconditi e inaccessibili del fenomeno. Gli “uomini-donna” come Charlus (ma anche le donne dedite al lesbismo) abbondano nel romanzo, gli conferiscono un’impronta inconfondibilmente ambigua, e il fatto che il narratore si accorga solo ora, tutt’a un tratto, della vera natura di coloro che lo circondano (lungi dall’essere un limite del romanzo, a causa del ricorso a scene un po’ forzate come quella in cui egli assiste non visto all’accoppiamento del barone con Jupin) può essere a mio avviso spiegato con quel meccanismo di messa a fuoco intermittente che abbiamo visto più sopra a proposito dei personaggi: quello che nei primi romanzi era dissimulato, nascosto dietro ad altre urgenze narrative (più che dietro all’ingenuo candore del protagonista, incapace di vedere un interesse sessuale nelle bizzarre profferte di Charlus), emerge adesso di colpo in superficie come se fosse sotto una lente di ingrandimento, prima magari di ridimensionarsi, tornando di nuovo sullo sfondo, nel capitolo successivo della “Recherche”.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    14 Febbraio, 2018
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LA PARTE DI GUERMANTES

I principali motivi di interesse dei primi due romanzi della “Recherche” consistevano da una parte nella descrizione del mondo interiore del narratore (e nella originale filosofia del tempo e della memoria che da essa derivava) e dall’altra nella raffigurazione dell’ambiente aristocratico da egli stesso frequentato. Nel terzo tomo, “La parte dei Guermantes”, il primo elemento, con il passaggio del protagonista dalla fanciullezza e dall’adolescenza alla maggiore età, sembra francamente avere un minore rilievo, e il lettore viene per di più sfiorato dal sospetto della ripetitività di certe situazioni (la storia d’amore di Saint-Loup riecheggia troppo quella di Swann, l’infatuazione del narratore per la duchessa di Guermantes è penalizzata dal fatto di venire dopo quelle, doviziosamente narrate nei libri precedenti, per Gilberte e Albertine, con in più il neo della impossibilità di realizzazione vista la distanza sociale che separa i due). Sono perciò le pagine sul “bel mondo” parigino a tenere in piedi, in mancanza di un intreccio vero e proprio (qui, più che altrove, non succede praticamente nulla che possa legittimare una trama di una qualche consistenza narrativa), l’opera terza, anche se, per il carattere essenzialmente mimetico dell’operazione proustiana, non è assente una certa dose di ambiguità. I salotti della nobiltà dipinta da Proust sono infatti descritti da un lato con dissacrante sarcasmo (sia pure senza intenzioni moralistiche), dall’altra con un fascino e una partecipazione apparentemente contraddittori.
Un esempio di questa ambiguità si può trovare in quello che è un po’ il leit-motiv del romanzo, ossia nel piacere quasi estetico che il narratore prova per gli altolocati personaggi che portano nomi e titoli ricchi di fascino perché incorporano il mistero di un mondo favoloso e apparentemente inaccessibile, ideale come può esserlo un mito e imperituro come i castelli, i feudi e le terre su cui quegli stessi titoli si appoggiano e prendono lustro, ma che poi, una volta conosciuta nei ricevimenti la loro banale mediocrità e la loro comunissima e per nulla eccezionale intelligenza (persino quella della duchessa di Guermantes, pur così celebrata dai contemporanei), lascia il posto a un fortissimo e inevitabile senso di delusione per una simile, inattesa desacralizzazione, salvo poi – questa delusione – essere a sua volta mitigata dalla poesia che produce, disincarnando le prosaiche fisionomie di coloro cui si fa riferimento, l’ascolto dei complicati intrecci genealogici e dinastici, i quali rievocano seducenti ricordi storici e innumerevoli suggestioni artistiche, architettoniche o geografiche.
Ne “La parte dei Guermantes” (e soprattutto nelle conversazioni che si sviluppano durante i due ricevimenti dalla marchesa di Villeparisis e dalla duchessa di Guermantes, che da soli occupano quasi la metà delle oltre settecento pagine del romanzo) ad avere un posto di primo piano sono quindi le genealogie, le casate nobiliari, il Gotha delle famiglie illustri, l’araldica, dei quali, come detto, il narratore subisce un innegabile fascino, in questo non essendo molto dissimile da Legrandin, il quale disprezza il gusto, la sensibilità e l’intelligenza degli aristocratici, ma poi cerca in tutti i modi di essere ricevuto nei loro salotti. In questi salotti, come già si era visto nei due libri precedenti, si mette in scena un complesso, al tempo stesso affascinante e indisponente, gioco di società, in cui ogni personaggio cerca di dare lustro alla propria persona e al proprio nome per mezzo delle più svariate strategie sociali, quali l’affettazione ipocrita, la dissimulazione calcolata, l’ostentazione esibizionistica della ricchezza, l’esibizione esagerata di conoscenze, la crudeltà mascherata dal bon ton, la recitazione quasi teatrale del proprio ruolo sociale, ecc.
E a un rito sociale viene ridotta persino la morte, che per la prima volta – quella della nonna del protagonista e quella, annunciata, di Swann - fa capolino nella “Recherche”. Nel primo lutto familiare, pur narrato con il consueto dispiegamento di florilegi stilistici e di acute notazioni psicologiche, non si ritrova la profondità spirituale che c’è – che so? – ne “La morte di Ivan Ilic” (o persino nelle riflessioni del secondo volume sull’inevitabile perdita dei propri cari), ma solo l’abilità ineguagliabile nel ritrarre una delle tante messinscene dell’aristocrazia e dell’alta borghesia francesi dell’epoca, le quali soffocano e sviliscono la spontaneità del dolore e lo sbigottimento di fronte al mistero della vita che se ne va. La seconda (quella imminente di Swann) offre invece lo spunto per l’ultima, definitiva stoccata nei confronti del ”bel mondo”, qui impersonato dai duchi di Guermantes, i quali antepongono il pranzo dalla marchesa di Saint-Euverte a qualsiasi naturale compassione per la sorte dell’amico intimo gravemente ammalato (oltre che per l’imminente decesso del cugino del duca). Anche se Proust è attento ad evitare qualsiasi giudizio moralistico, tanto è totale la sua immedesimazione nella realtà sociale rappresentata, quest’ultima crudeltà è la classica goccia che fa traboccare il vaso della decenza e che smitizza impietosamente e senza alcuna residua possibilità di appello questi sadici mostri dal volto umano.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    13 Febbraio, 2018
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ALL'OMBRA DELLE FANCIULLE IN FIORE

“À l’ombre des jeunes filles en fleurs” è il bellissimo titolo, evocativo, poetico, musicale, del secondo capitolo della “Recherche”, in cui Proust racconta l’adolescenza del protagonista, una stagione impregnata di desiderio e di sensualità, di eccitazione e di profumi, dei primi piaceri sparsi quasi per caso durante il gioco con una compagna e delle sensazioni dionisiache che per la prima volta rendono le ragazze più attraenti dei quadri e dei monumenti. Certo, non manca in questa seconda parte l’impagabile rassegna di tipi del bel mondo, attraverso un’osservazione inesausta, acutissima e raffinata, la quale, ai limiti della satira di costume, mette alla berlina i vizi e le idiosincrasie dei contemporanei: l’insopportabile snobismo aristocratico, la rozzezza e l’ignoranza nascoste sotto i titoli nobiliari e l’alto lignaggio, l’ostentazione di amicizie e di conoscenze prestigiose (e spesso fasulle) al solo scopo di farsi un nome in società, via via fino ai malori inventati per non dover dare a vedere di non essere stati invitati al ricevimento del marchese Caio, il disprezzo per la duchessa Tizia che ha l’unico difetto di frequentare l’amica Sempronia, la quale potrà poi rivalersi e vantare con tutte questa preferenza, con strascichi penosi di invidie e recriminazioni, la competizione tra salotti rivali, e poi ancora odi dissimulati, malignità sussurrate alle spalle, veleni propinati con eleganza, ecc. ecc.
E’ però con l’entrata in scena dell’amore e dell’innamoramento, non più raccontati in terza persona (come in “Un amore di Swann”), che prende corpo il nucleo centrale di “All’ombra delle fanciulle in fiore”. Anzi, il romanzo può essere visto come una ricca e doviziosa trattazione della fenomenologia del desiderio (e dell’annesso dispiacere) amoroso. Gilberte e Albertine sono i due poli di attrazione tra i quali il nostro oscilla, con una dedizione sentimentale assoluta ed una sensibilità capace di cogliere miracolosamente tutte le più lievi sfumature di un sentimento reso acerbo solo dalla personalità in continua maturazione dell’adolescente, non certo dalla sua minore intensità. Tra le due muse, vi sono però decine di altre ragazze che il narratore magari incrocia fuggevolmente per strada e che gli lasciano intravedere, attraverso un processo di sublimazione cui non sono estranee l’impossibilità di realizzazione, la brevità dell’esperienza e la labilità del ricordo, abissi di felicità; ragazze che, come le amiche di Albertine, sono come fiori tra i quali il protagonista, come un’ape attratta dal polline, indugia con voluttà, innamorato di tutte e, in fondo, innamorato di nessuna; ragazze la cui immagine egli insegue incessantemente, senza mai ritrovarla uguale (clamorose sono, ad esempio, le “metamorfosi” di Albertine, che ogni volta si ricompone sotto lo sguardo del giovane “emergendo dal pulviscolo del ricordo”) perché sono in un’età in perpetua e costante trasformazione. Le pagine dell’estate a Balbec sono pagine solari, paniche, in cui perfino le differenze di classe vengono meno, e gli obblighi sociali sono facilmente sacrificati di fronte alla Bellezza, pagine che descrivono un'età irripetibile come quella della prima giovinezza e nelle quali, nonostante tutto, si insinua un sottile velo di malinconia, giacché in quelle divine creature si intuiscono già i tratti che, di lì a poco, si irrigidiranno definitivamente, facendo sfiorire definitivamente il loro irripetibile fascino.
Questa considerazione mi riporta a quello che è il tema principale della “Recherche”, vale a dire la dialettica temporale. Molto spesso l’opera di Proust è stata analizzata solo in relazione alla dimensione del passato in rapporto al presente. E’ questa, certo, una parte fondamentale della filosofia proustiana: il passato, in tutto l’arco della “Recherche” viene sublimato, evocato minuziosamente (persone, luoghi, odori, ecc.) fino a giungere a formare un “nuovo” presente, un presente parallelo, eterno e non più modificabile, grazie alla sua cristallizzazione nel piano “perfetto” dell’opera d’arte. Ma c’è anche dell’altro nella complessa dialettica temporale di Proust. In particolar modo è importante sottolineare come il presente venga influenzato non solo dalle madeleines del passato, ma anche dal futuro. Non è solo una questione di desideri, di sogni e di aspettative, e della coscienza che essi si realizzino o meno. E’ qualcosa di metafisico, se così si può dire. Il presente viene infatti avvelenato dal pensiero che le persone che oggi amiamo domani non ci saranno più (pensiero della morte) o non ci ameranno più (pensiero della transitorietà dell’amore). Fin qui nulla di particolarmente originale e innovativo. In realtà, ciò che ci fa soffrire di più è la consapevolezza che anche noi saremo talmente cambiati da non sentire più la loro assenza. Il protagonista si allontana da Gilberte per far sentire di più in lei la propria mancanza e ravvivare così il suo amore, ma sa benissimo (ed in ciò sta il vero strazio) che così facendo sarà lui un domani a essere disamorato (“la felicità ci arride quando, ormai, ci lascia indifferenti”). Così il pensiero che la perdita dei propri cari sarà elaborata, e la vita (anestetizzata dall’Abitudine) procederà normalmente senza di loro, ci provoca un’ondata di sdegno, in primo luogo contro noi stessi.
L’impossibilità della felicità è sancita dal fatto che forziamo il tempo per cambiare il nostro destino (anche semplicemente crescendo, uscendo dall’infanzia per diventare uomini), pur sapendo (ed è la coscienza di ciò a farci soffrire di più) che così facendo anche noi cambiamo, e i termini della nostra felicità sono sempre diversi da prima, e quindi perennemente, malinconicamente irraggiungibili se non nella dimensione della creazione artistica. Ma anche questa, forse, è un’illusione, dato che se è vero che l’opera è destinata a durare per sempre, il creatore non può goderne, in primo luogo perché essa è apprezzata e compresa appieno solo dai posteri e quasi mai dai contemporanei, e in secondo luogo per l’implacabile intervento della morte, la quale, proprio nel momento in cui abbiamo “recuperato” il tempo passato, che diventa perciò tempo “ritrovato”, ce lo toglie inesorabilmente di mano. In tale ottica, non è neppure possibile una visione religiosa della vita, perché il nulla e l’eternità sono sotto questo aspetto identici, nel senso che entrambi ci portano via quello che nell’arco della nostra vita abbiamo faticosamente conquistato. Da qui deriva un pessimismo molto particolare, che non ha nulla della negatività e del ribellismo di Kafka o Leopardi, ma che pure è totalmente sconfortante, raggiungendo con toni più malinconici e sfumati le loro medesime conclusioni, persino nella constatazione della fugacità e della precarietà del desiderio. Quando infatti il narratore si invaghisce delle fanciulle incontrate fuggevolmente per strada, è costretto a rendersi conto dell’illusorietà del suo desiderio, che è alimentato – come si è già detto - proprio dall’inaccessibilità della persona intravista ma che, qualora l’incognito venisse meno, sarebbe destinato a dissolversi in un istante. In tal modo il desiderio delle cose che non possediamo (e che pure è l’unico a rendere più interessante la vita) diventa analogo a quello che un moribondo sente verso i giorni futuri che gli sono negati, anche qualora questi fossero, come il più delle volte succede, squallidi e meschini.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    12 Febbraio, 2018
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DALLA PARTE DI SWANN

Usando il procedimento della sineddoche (ossia, la singola parte che spiega il tutto), si può affermare che il primo dei sette romanzi che compongono “Alla ricerca del tempo perduto” riproduce alla perfezione l’intero universo artistico proustiano. Esso è infatti tanto un romanzo sulla memoria e sul tempo (“Combray”) quanto un romanzo sulla società dell’epoca (“Un amore di Swann”). Ambedue le ambiziose tematiche, impregnate di filosofia (soprattutto Bergson e i suoi studi sul sogno e sulla memoria inconscia) e di acute notazioni psicologiche, sarebbero di per sé sufficienti a garantire all’opera di Proust la patente di capolavoro, assolvendola altresì in anticipo da qualsiasi eventuale accusa (peraltro ingiustificata, come si vedrà più avanti) di calligrafismo e di eccessiva ricercatezza formale. Infatti lo scrittore francese compie una vera e propria operazione di magia, facendo riaffiorare nelle sue pagine la memoria del tempo che fu, in una rappresentazione del passato minuziosissima non solo nei dettagli fisici ed esteriori ma anche e soprattutto in quelli immateriali, come un odore o un sapore (“Ma quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro, goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del ricordo”). Così una semplice madeleine (la celeberrima madeleine proustiana, gioia e tormento di intere generazioni di studenti liceali!) permette all’autore di recuperare come per incantesimo il passato della sua infanzia a Combray (“E come in quel gioco, che piace ai giapponesi, di buttare in una ciotola di porcellana piena d’acqua dei pezzettini di carta a tutta prima indefinibili che, non appena immersi, si stirano, assumono contorni e colori, si differenziano diventando fiori, case, figure consistenti e riconoscibili, così, ora, tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di casa Swann, e le ninfee della Vivonne, e la brava gente del villaggio e le loro piccole abitazioni e la chiesa e tutta Combray e la campagna circostante, tutto questo che sta prendendo forma e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè”). La bravura e l’originalità di Proust consiste specialmente nel coniugare l’involontarietà del processo di affioramento del passato, opera di sensazioni improvvise e incontrollabili e di un meccanismo eminentemente inconscio o casuale (“E’ uno sforzo vano cercare di evocarlo (il passato), inutili i tentativi delle nostre intelligenze. Se ne sta nascosto al di là del suo dominio e della sua portata, in qualche insospettato oggetto materiale… Questo oggetto, dipende dal caso che noi lo incontriamo prima di morire, oppure che non lo incontriamo mai”), con l’artificiosità di un progetto lungamente meditato ed elaborato a tavolino, con lucido e disincantato raziocinio. Da questa aporia deriva il fascino di Proust, il quale naviga in miracoloso equilibrio tra mondo sensoriale e mondo razionale, tra istinto e intelletto, tra coscienza e cervello. In questo modo, mentre salvaguarda la purezza e l’innocenza delle emozioni del fanciullo, riesce a conservare intatte le facoltà critiche dell’adulto.
C’è una pagina in cui si coglie appieno quanto detto sopra, vale a dire quella in cui l’autore bambino, durante la consueta passeggiata postprandiale con i suoi genitori, si accorge per la prima volta del “disaccordo fra le nostre impressioni e la loro espressione abituale”. Il sole che, dopo la pioggia, illumina coi suoi riflessi le tegole dei tetti e le acque dello stagno incontrati durante il cammino strappa infatti al protagonista una banale esclamazione di entusiasmo. “Ma immediatamente sentii che sarebbe stato mio dovere non accontentarmi di quell’opaca esclamazione e cercar di vedere più chiaro nel mio trasporto”. Diventato adulto, Proust ha riversato nella “Ricerca” quella sua originaria esigenza, mettendo in opera il più grandioso, il più meticoloso, il più analitico sforzo mai tentato prima d’allora di restituire sulla pagina scritta, e nonostante gli anni passati, le più piccole e insignificanti sfumature delle sue esperienze giovanili, anche le più fugaci e transitorie (come l’influsso che i biancospini primaverili risvegliano nell’animo sensibile ed eccitabile del fanciullo o l’esaltazione provocata dalle solitarie passeggiate “dalla parte di Swann”, esacerbata dal turbamento adolescenziale di una apparizione femminile da lui evocata), arricchito in più da una matura e ponderata capacità di decrittarle alla luce dell’esperienza degli anni trascorsi. Il lettore ha così la possibilità di assistere al titanico tentativo dell’autore di restituire fedelmente la verità oggettiva che è nascosta dietro ogni cosa vissuta nel passato e che nel passato è stata solo intuita, vissuta come mera emozione, attraverso un sofisticatissimo processo di razionalizzazione e rielaborazione del ricordo, il quale giustifica appieno l’impegnativa affermazione che “la realtà non si forma che nella memoria”.
Collocato subito dopo la fantasmatica evocazione dell’infanzia di “Combray”, “Un amore di Swann” sembra appartenere ad un altro romanzo. Qui Proust lascia temporaneamente da parte l’intimismo delle pagine precedenti per dedicarsi all’analisi dei rapporti sociali, facendolo non solo con la consueta maestria ma anche con quell’impareggiabile ironia che già in “Combray” gli aveva permesso di tratteggiare alcuni impagabili “tipi” come zia Leonie e Legrandin. Reciprocamente accostati dall’autore grazie alle contemporanee frequentazioni del personaggio principale, Swann, l’aristocrazia e il demi monde sono dipinti impietosamente, con tutti i loro snobismi, tic, ipocrisie e meschinità, ma mai con acredine e cattiveria, senza cioè la volontà di demistificare una classe sociale cui Proust - non dimentichiamolo - apparteneva. Al contrario, i “fedeli” del salotto Verdurin e i nobili amici di Swann sono visti con una arguzia bonaria che non sfocia mai nella comicità triviale o nella satira da vaudeville, consentendo nondimeno all’autore di scrivere, con la sapida rappresentazione della serata mondana organizzata da Madame de Saint-Euverte, pagine così deliziose da rivaleggiare con (e forse superare) i maggiori capolavori della letteratura umoristica di tutti i tempi.
Inserita all’interno della descrizione del bel mondo parigino di fine ‘800 e abilmente intrecciata con essa (come si può vedere nella lunga sequenza in cui Swann cade in disgrazia agli occhi dei Verdurin e contemporaneamente Odette mostra di preferirgli un loro blasonato ospite) c’è poi la storia d’amore tra Swann e Odette, la quale, per profondità di analisi e spessore psicologico, può essere considerato un mirabile e accuratissimo trattato sull’innamoramento e sul rapporto amoroso. La parabola dell’amore di Swann per Odette passa attraverso le varie fasi della sublimazione dell’essere amato, dell’esclusivo desiderio del suo possesso, della cristallizzazione del sentimento nelle abitudini quotidiane, della gelosia devastante come una malattia e infine della delusione quieta e rassegnata, tutte esposte nelle loro più microscopiche sfumature psicologiche. Il rapporto tra i sessi è visto come una sottile e quasi diabolica lotta di potere, a stento camuffata dalle convenzioni e dal bon ton, in cui a cedere è inesorabilmente il partner più innamorato, ma l’amarezza di questa constatazione è stemperata dalla lontananza temporale della storia e dal fatto che sappiamo già dalle pagine iniziali del romanzo come essa sia finita. In questo senso, la chiusa di “Un amore di Swann”, con l’apparentemente definitiva e liberatoria presa di coscienza da parte del protagonista di aver perso anni della sua vita dietro a una donna inferiore che non lo merita affatto, suona ironica e beffarda alla luce del successivo matrimonio tra i due.
Nelle cinquecento pagine di “Dalla parte di Swann” lo stile di Proust non ha mai una caduta, mantenendosi su livelli prodigiosamente alti. Il suo stile, fatto di interminabili periodi dilatati a dismisura dalla presenza di numerose subordinate e parentesi, rompe definitivamente con la tradizione del romanzo ottocentesco, prima ancora e forse più radicalmente di Joyce. Negli anni in cui Monet e i suoi colleghi impressionisti cercavano di trasferire sulla tela tutte le modulazioni della luce su un particolare soggetto (ad esempio, le numerose vedute della cattedrale di Reims alle diverse ore del giorno), Proust può anch’egli a buon diritto essere definito “impressionista” per la sua virtuosistica capacità di descrivere, con parole mai udite prima, l’indistinto apparire dei raggi del sole sulla superficie del balcone oppure una semplice sonata musicale (“al di sotto della tenue linea del violino, esile, resistente, densa e direttrice, aveva visto a un tratto cercar d’innalzarsi in un liquido sciabordio la massa della parte per pianoforte, multiforme, indivisa, piana e internamente ribollente come l’agitazione color malva dei flutti incantati e bemollizzati dal chiaro di luna”. Le sensazioni, i moti psicologici e i fremiti della natura non sono solo descritti da Proust nel loro minuzioso, soggettivo, emergere alla coscienza, ma anche per mezzo di analogie e paragoni che li oggettivano, li reificano in un affascinante processo di carattere simbolico. Il parlare per analogie è una caratteristica peculiare della scrittura proustiana, un vero e proprio leit motiv (un solo esempio pescato tra i tanti: “…i rumori più distanti, quelli che dovevano venire da giardini situati all’altro capo della città, si percepivano in dettaglio con una tale finitezza che sembravano dovere un simile effetto di lontananza unicamente al loro “pianissimo” come certi motivi in sordina eseguiti dall’orchestra del Conservatorio così bene che l’ascoltatore, pur non perdendone una sola nota, ha l’impressione di sentirli risuonare dal di fuori della sala, e tutti i vecchi abbonati… tendevano l’orecchio come se stessero ascoltando il remoto clamore di un esercito che, avanzando nella sua marcia, non avesse ancora svoltato per rue de Trévise”), oltre che uno dei vari motivi stilistici i quali, insieme alla raffinata levigatezza delle frasi, alla ineguagliabile profusione di aggettivi e alla originalissima varietà lessicale, fanno di “Dalla parte di Swann” un caposaldo della letteratura del ‘900, tanto più importante perché non è altro che il primo capitolo di un progetto (“Alla ricerca del tempo perduto”) molto più ampio e composito.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    08 Febbraio, 2018
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UN LIBRO-MONDO DI SMISURATA BELLEZZA

Voglio iniziare questa recensione con un paradosso: nonostante le sue millequattrocento pagine e le sue dimensioni enciclopediche, "Infinite jest" è un romanzo quasi troppo corto. Troppo corto, ovviamente, considerate le sue smisurate e titaniche ambizioni, quelle cioè di proporsi come opera totale, ritratto a 360° di un’epoca, vero e proprio libro-mondo, e come tale pertanto non esauribile, senza limiti, infinito appunto. Le centinaia di personaggi inventati da Wallace e le loro traiettorie esistenziali si intrecciano, si ramificano, moltiplicano i piani temporali del racconto, eppure si vorrebbe, proprio come in una tele-novela senza fine, continuare a seguirli anche al di là dell’orizzonte temporale loro concesso dall’autore, tanta è l’originalità e la forza psicologica che sprigionano, magari nelle poche righe a loro riservate; ma tirare le fila del titanico intreccio è impossibile, e la storia è destinata a rimanere necessariamente aperta, non conclusa. Attraverso questa allucinante “commedia umana”, a "Infinite jest" è concesso soltanto di scandagliare gli oscuri meandri di alcune micro-società (l’accademia di tennis, la casa di recupero dalle tossicodipendenze, l’organizzazione terroristica degli Assassins des Fauteuils Rollents), immaginati come sineddoche dell’intera società americana: da qui deriva l’impressione della sua prodigiosa onnicomprensività, che lo rende un oggetto letterario assai difficile da affrontare in poche parole.
Cominciamo innanzitutto dal coté (pseudo) fantascientifico di "Infinite jest". L’epoca in cui si svolgono gli avvenimenti descritti nel romanzo è spostata solo di pochi anni in avanti rispetto alla data in cui esso è stato scritto: di qui l’effetto angosciante che provoca nel lettore, dal momento che il mondo di Wallace risulta essere una verosimile proiezione dell’oggi (assai più e meglio, ad esempio, del 1984 di Orwell). Wallace non stravolge (come 1984) il mondo come siamo abituati a conoscerlo, però apporta piccole, ingegnose e credibili modifiche alla geopolitica mondiale, così come alle abitudini e agli stili di vita delle persone: l’experialismo e la Grande Concavità, la sponsorizzazione degli anni del calendario, la fine delle major televisive e l’avvento delle cartucce Interlace, non sono “innovazioni” futuristiche gettate lì dall’autore senza spiegazioni, ma sono il logico punto di arrivo di dinamiche storiche, scientifiche e sociali perfettamente credibili, che l’autore si preoccupa di descrivere con precisione e minuziosità, senza peraltro mai cadere in pedanterie didascaliche (vedi ad esempio le vicende politiche che hanno portato alla nascita dell’O.N.A.N., l’Organization od North American Nations, parodiate da un film di Mario Incandenza nel corso della Festa dell’Interdipendenza). L’originalità di Wallace è strabiliante: da una parte lo scrittore americano correda "Infinite jest" di un ricchissimo apparato di note in calce (una sorta di libro nel libro), che cita con piglio enciclopedico e pseudo-scientifico prodotti commerciali, film, personaggi e avvenimenti storici, come se fossero realmente esistiti, aumentando così il tasso di credibilità del romanzo; dall’altra crea una serie impressionate di neologismi ed altre “invenzioni”, da Eschaton (un complicatissimo gioco di ruolo che riproduce un verosimile conflitto nucleare) e ai teleputer (una sorta di proiezione dei nostri computer e televisori) fino all’experialismo (ossia quel processo storico in cui una grande potenza, anziché annettere territori, cede ad altri stati le sue aree ecologicamente più problematiche), al tempo sponsorizzato (il sistema in base al quale lo stato cede a un’industria dietro lauto compenso il diritto di dare il suo nome a un anno del calendario), all’energia anulare, e a tante altre cose ancora.
Wallace è un demiurgo straordinariamente bravo nel costruire la cornice del suo romanzo, ma è altrettanto abile nel dipingere il quadro che quella cornice è destinata a contenere. "Infinite jest" è, come detto, un romanzo dai molteplici personaggi: giocatori di tennis e di football professionistico, tossicodipendenti, travestiti, terroristi, registi cinematografici, alcolisti anonimi, donne bellissime misteriosamente velate, e tanti altri ancora, che occupano un po’ tutte le fasce d’età e i gradini della scala sociale. Eppure, nonostante questa variegata e sterminata umanità, "Infinite jest" parla ossessivamente, compulsivamente, di una cosa sola: la dipendenza. Dipendenza dalla droga, in tutte le sue tipologie e declinazioni (eroina, marijuana, cocaina, droghe sintetiche autentiche o inventate per l’occasione, come il potentissimo DMZ che fa regredire Hal Incandenza ad uno stato sub-umano), dipendenza dall’intrattenimento (dagli schermi permanentemente accesi in tutte le abitazioni fino ad arrivare a quello che dà il titolo al romanzo, un misterioso film la cui visione provoca una letale catatonia nei suoi ignari spettatori e che pertanto diviene l’oggetto di una spasmodica ricerca da parte di terroristi canadesi senza scrupoli), dipendenza dal consumismo (la tragicomica evoluzione della videofonia, gli anni sponsorizzati, ecc.). In fondo a tutto c’è l’orrore, un orrore totale e senza via di scampo, che sembra prefigurare la condizione esistenziale alienata che ha portato Wallace qualche anno dopo al suicidio. Lo scrittore americano dà sempre infatti l’impressione di sapere molto bene quello di cui sta parlando, come se le crisi di astinenza o le depressioni dei suoi personaggi fossero davvero state provate sulla propria pelle. Tutto è troppo terribile e insopportabile, eppure il tono del romanzo, lungi dall’essere tragico, è al contrario percorso da una irresistibile vena umoristica (il modo in cui il teoretico gioco di Eschaton viene condotto verso un apocalittico epilogo per nulla astratto), se non in qualche caso addirittura grottescamente comica (gli incidenti sul lavoro di Doony Glynn), la quale è padroneggiata con somma disinvoltura.
Il vero rischio che correva "Infinite jest" era la dispersione, l’approssimazione: troppi personaggi, troppi andirivieni temporali, troppi punti di vista, troppo di tutto. Eppure, miracolosamente, la costruzione non si incrina, non dà segni di cedimento, ma regge a meraviglia, tenuta insieme da uno stile che spazia da un maniacale enciclopedismo di stampo greenawayano (ad esempio, l’interminabile filmografia di James O. Incandenza riportata nelle note in appendice) a una sfrenata fantasia in grado di creare scene assolutamente fantastiche e surreali (la visita del fantasma di Incandenza senior al capezzale di Don Gately, gli oggetti che all’E.T.A. vengono ritrovati appesi alle pareti o ai soffitti), con in più un’incredibile capacità di coinvolgere emotivamente il lettore. Wallace racconta infatti il vuoto esistenziale della nostra epoca, rispetto al quale la droga, i consumi e lo sport agonistico sembrano rappresentare altrettanti modi per cercare di superarlo e produrre una qualche reazione (sia essa competitiva, ricreativa, o perfino autodistruttiva). Anedonia, amoralità, assenza di sentimenti (il personaggio più “morale” del romanzo è il deforme Mario Incandenza, una sorta di “idiota” con un grande senso di compassione cristiana) e spersonalizzazione dei rapporti umani (ad esempio, Orin parla delle donne che lui seduce quasi compulsivamente chiamandole “soggetti”, i passanti si fanno sempre i fatti propri e dribblano qualsiasi fastidio con maestria “perché ci sono abituati e fanno molta pratica”) creano un mondo agghiacciante, però si respira sempre (a differenza – che so – di un romanzo di Bret Easton Ellis) una straordinaria empatia tra autore e lettore. Hal e Gately, Pemulis e Madame Psychosis, Povero Tony e Marate, e i tanti altri personaggi di "Infinite jest" ce li porteremo dentro di noi a lungo, come gli eroi di una Divina Commedia infima e degradata, eppure terribilmente, irresistibilmente affascinante.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    05 Febbraio, 2018
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LA SINTESI DI DUE MONDI

Nei primi capitoli del romanzo, Ernesto segue il padre avvocato nei suoi trasferimenti per lavoro sulla Sierra, fino ad Abancay, dove viene finalmente sistemato a studiare in un collegio cattolico. Questo insolito esordio, fatto di viaggi a dorso di mulo, di precarie e provvisorie sistemazioni e soprattutto di una vera e propria full immersion nello stupefacente paesaggio andino, serve ad Arguedas per inquadrare la personalità del protagonista, che è quella di un bambino dotato di una sensibilità davvero fuori del comune, fervida ed esaltata, il quale, di fronte a una realtà che gli si imprime poeticamente come entità viva e vibratile (ad esempio, nel suo brevissimo soggiorno a Cuzco, le grosse pietre di un muro inca “bolliscono”, “parlano” e sono “bestie che si muovono alla luce”, i serpenti scolpiti su un’architrave “camminano”, la macchia di fuliggine di una camera “si agita come uno straccio nero”), si trasforma in un adoratore panico della natura, alla stregua di un sacerdote di una religione pagana in cui l’animismo si fonde con la magia, in cui il canto di una tuya (allodola) è “la materia di cui sono fatto” e uno zumbayllu (trottola) può fare arrivare un messaggio a una persona lontana. Il fatto è che Ernesto, pur essendo un bianco, è stato allevato dagli indios, e degli indios ha assimilato i valori e la cultura. Egli è pertanto la sintesi di due mondi che in Perù sono distanti e inconciliabili, quello della classe sociale dominante di discendenza spagnola e quello dei poveri colonos indigeni, numericamente in maggioranza ma vessati e tenuti in subordinazione dai padroni terrieri, dai soldati e dai preti. Tra i due mondi è evidente che Ernesto si senta più vicino al secondo, tanto è vero che egli è invincibilmente attratto dalle chicherias (le bettole dove la gente quechua si va ad ubriacare la sera o nei giorni di festa) e dai huaynos (i malinconici canti della tradizione), e quando le chicheras si ribellano e assaltano lo spaccio del sale guarda a Doña Felipa e alle sue compagne come a delle eroine epiche che si battono disinteressatamente per i diritti dei poveri. Questa intima dissociazione porta Ernesto a essere un solitario, un diverso (i compagni del collegio lo chiamano il “forestiero”), che solo raramente si lancia in appassionati gesti di altruismo e di abnegazione fraterna (il dono dell’amato zumbayllu all’Añuco), salvo poi assistere, incurante dei rischi del contagio, la scema Marcellina nelle sue ultime ore di vita. All’ambiente in cui vive, e che guarda con un distacco critico e impietoso (la sua mistica purezza lo fa essere arditamente impudente, come quando rompe l’amicizia con Antero o dice al temuto rettore di vedere l’inferno nei suoi occhi), Ernesto preferisce sempre immergersi nella natura, con cui comunica simbioticamente pensieri ed emozioni, ed appena ne ha la possibilità corre a contemplare il selvaggio corso del fiume Pachachaca, che scende non lontano da Abancay. La evidente natura autobiografica del protagonista accentua notevolmente la sua credibilità e la sua verosimiglianza psicologica (anche se di primo acchito le sue reazioni possono apparire isteriche o incoerenti), ma ancor più accresce la verità sociologica del mondo in cui egli si muove, per cui alla fine I fiumi profondi può essere letto, più che come un romanzo di formazione adolescenziale, come un originale saggio antropologico sul Perù, in cui il popolo quechua è rappresentato con una umanità e una vividezza (anche lessicale) che non ci si potrebbe aspettare di trovare nella letteratura peruviana contemporanea, tanto meno in quello che è il suo alfiere più rappresentativo e conosciuto a livello internazionale, Mario Vargas Llosa.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    02 Febbraio, 2018
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VITA DI UN SIGNOR NESSUNO

Mr. Biswas è un uomo mediocre, che è possibile definire solo per mezzo di termini negativi: debole, pusillanime, inetto, invidioso, senza carattere, permaloso, astioso, meschino nelle aspirazioni e negli ideali. Perfino le sue velleità intellettuali si esauriscono nella ripetuta e incessante lettura di alcuni libri “impegnati” (Epitteto e Marco Aurelio), senza che si riesca mai a intravedere in lui un qualche segno di evoluzione culturale. Inoltre, nell’intero arco della sua vita, a Mr. Biswas non succede praticamente nulla di straordinario, al punto che solo la nascita sotto nefasti presagi (un po’ come l’Oscar del Tamburo di latta o il Saleem Sinai de I figli della mezzanotte) e la morte per annegamento del padre (di cui egli è involontariamente responsabile), possono avere il marchio dell’eccezionalità. Eppure Naipaul, nel suo romanzo di esordio, ne fa il protagonista di una monumentale saga di quasi seicento pagine, e questo solo dettaglio la dice lunga sulla sua abilità di narratore, giustamente premiata dal Premio Nobel nel 2001. Dunque, Mr. Biswas è un Signor Nessuno. Della sua vita, nel prologo, conosciamo subito la conclusione, e quindi sappiamo fin dall’inizio che nessuna sorpresa, nessun coup de theatre la salverà dalla banalità, dall’ordinarietà. Lo potremmo definire un piccolo borghese, se solo l’epoca e la collocazione geografica del romanzo lo consentissero, in quanto la sua massima ed unica aspirazione (quella che dà il titolo al libro) è di poter avere una casa tutta per sé. “Ma più di tutto la casa, la sua casa. Sarebbe stato tremendo… vivere senza nemmeno provare a reclamare per sé una porzione della terra, vivere e morire come si nasce, superflui e senza un tetto”. Mr. Biswas passa tutta la vita a inseguire questo sogno, e, a differenza che in Aspettando Godot, alla fine vi riesce (anche se la casa è un edificio squallido e fatiscente, pagato per giunta troppo caro e destinato, per l’impossibilità di onorare i debiti assunti, a essere nuovamente perduto dalla famiglia dopo la sua morte prematura). Eppure il paragone con i personaggi beckettiani è forse il più appropriato, perché la caratteristica saliente di Mr. Biswas è proprio l’attesa, l’afasia, l’incapacità di agire se non sotto la pressione di circostanze irrevocabili. “Aveva passato la vita a prepararsi per qualcosa, aveva sempre aspettato. E così erano passati gli anni; e ora non c’era più nulla da aspettare”. L’esistenza di Mr. Biswas è una esistenza sprecata, vissuta all’insegna di una paura (del futuro, del rapporto con gli altri, delle responsabilità) al limite della paranoia, ed esorcizzata a stento solo attraverso una aggressività verbosa, sterile e vittimistica. E’ così che Mr. Biswas diventa, forse al di là delle intenzioni stesse dell’autore, un personaggio-simbolo, specchio fedele di una condizione umana universale, così come parimenti simbolico risulta il contraltare di Biswas, ossia i Tulsi, la famiglia di origine della moglie Shama. L’annosa lotta di Mr. Biswas per emanciparsi dai Tulsi e dalla loro abitazione, Hanuman House (“un organismo che possedeva vita, forza e potere di dare conforto, ben distinto dagli individui che lo componevano”) - i quali, come un mostruoso cordone ombelicale, tiene avvinti i suoi membri con una subdola forza di attrazione basata sulla abitudine, sul conformismo e sulla paura del mondo esterno, ostacolandone l’emancipazione e la conquista dell’autonomia - diviene così l’espressione del conflitto ineluttabilmente insito nel comportamento umano tra individuo e società, tra adolescente e nucleo familiare e – in maniera più traslata – tra tradizione e modernità. I Tulsi, ritratti con grande sagacia psicologica da Naipaul, costituiscono una struttura articolatissima che, con la “regina madre” in testa, le numerose figlie, i generi e la moltitudine dei bambini, regola in maniera ferrea i rapporti interpersonali della famiglia, distribuendo premi e castighi, premiando i fedeli ed emarginando i reprobi, favorendo riavvicinamenti e riconciliazioni o al contrario comminando inappellabili bandi di esclusione, rappresentando sempre, nonostante tutto, un porto d’attracco comodo e tranquillo anche se pagato al prezzo della sottomissione e della perdita dell’indipendenza. Mr. Biswas, essere fortemente individualista, al limite della misantropia e della asocialità, si scontra perennemente con questa struttura, ma la sua sfida è velleitaria, e serve solo a fornire a sé stesso una comoda scusa per giustificare i propri fallimenti. La casa-negozio di Chase e la baracca nelle piantagioni di Green Vale, messe a disposizione non del tutto disinteressatamente dai Tulsi, non fanno che accrescere l’umiliazione di un uomo che non ha il coraggio di rischiare e di trovare una propria strada nella vita, le case fatte costruire con mano inesperta non lontano dall’alloggiamento di Green Vale e dalla abitazione padronale di Shorthills costituiscono timidi tentativi di allontanamento votati al più crudele dei fallimenti, la dimora urbana di Port of Spain è una versione peggiorativa di Hanuman House, e il fatidico acquisto della casa di proprietà è l’esito di una truffa di uno speculatore da quattro soldi ordita ai suoi danni. Arrivato al termine dei suoi giorni, Mr. Biswas può sì autoconvincersi di essere finalmente a casa sua, ma dentro di sé, in uno dei rari momenti di malinconica consapevolezza, capisce anche di essersi perso, in tutto questo vano e improduttivo agitarsi, l’infanzia dei suoi figli. Anche quando parla di malattie e di morti, il tono di Naipaul resta comunque alquanto distaccato e impersonale, pervaso più da un caustico umorismo che da una autentica immedesimazione. Sulla carica simbolica di Naipaul ho già detto qualcosa più sopra, anche se francamente non sono in grado di giudicare se la dinastia dei Tulsi, che va lentamente ma ineluttabilmente disfacendosi entrando in contatto con il “mondo nuovo” del dopoguerra, rappresenti o meno, in maniera più lata, il destino dell’India, la terra madre da cui provengono, e che ancora influenza con i suoi riti e le sue tradizioni, i personaggi del romanzo. In ogni caso, se anche esiste, penso che il simbolismo di Naipaul sia qualcosa di molto naturale e assai poco cerebrale, capace di creare in forma del tutto realistica immagini di rara efficacia descrittiva, come quei serpenti di pece che pendono dal soffitto della casa non ultimata e che fanno da straordinario pendant alla dissoluzione psichica di Mr. Biswas.

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"Stoner" di John E. Williams
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    29 Gennaio, 2018
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RITRATTO DI DUBLINO IN NERO

Il leit motiv di “Gente di Dublino” è la paralisi: ipostatizzata nella paralisi fisica di Padre Flynn nel primo episodio, essa attanaglia, nella forma di paralisi spirituale, la volontà di tutti quanti i protagonisti dei quindici racconti, bloccandone le aspirazioni, frustandone le ambizioni, costringendoli a una vita spenta, ripetitiva e vuota di senso, e privandoli perfino della speranza nel futuro. La città di Dublino (opprimente, uggiosa, ostile) è come l’appendice materiale di questa paralisi, anche se Joyce è bravo nel rendere universale questa condizione umana (basta cambiare i nomi delle strade, e le storie potrebbero essere trasportate ovunque nel mondo). Dove Joyce è senza mezze misure geniale è nell’avere abbracciato nei suoi racconti tutte le fasi dell’esistenza, accomunando in un totale, irrevocabile pessimismo, la fanciullezza alla vecchiaia. In “Gente di Dublino” fin dai primi anni di vita non c’è alcuno spiraglio per sfuggire alla paralisi. Gli ambienti familiari sono squallidi e soffocanti (spesso poi le figure di riferimento sono zii e zie), ma quando i piccoli protagonisti escono di casa per azzardare un’evasione non trovano nulla: la gita di “Un incontro” si risolve in una delusione, l’adolescente di “Arabia” dopo aver agognato per tutta la settimana la visita al bazar cittadino dall’esotico nome vi giunge quando si stanno spegnendo le ultime luci, mentre quando non è la deprimente realtà a sconfiggere i personaggi, e una prospettiva di fuga e di una vita diversa e migliore si presenta all’orizzonte, sono i sensi di colpa, la paura dell’ignoto e soprattutto l’assuefazione al pur scoraggiante presente a impedire ogni cambiamento (”Eveline”). Crescendo la situazione si complica se possibile ancora di più, e matrimonio e figli vengono visti (“Pensione di famiglia”, “Una piccola nube”) come fastidiose zavorre che impediscono una peraltro improbabile autorealizzazione, alimentando in tal modo rimpianti, invidie e vittimistici risentimenti contro il destino, o peggio ancora come gli inermi e passivi destinatari su cui sfogare vigliaccamente le proprie frustrazioni (“Rivalsa”).
In “Gente di Dublino” lo stile di Joyce è ben lontano da quello, trasgressivo e rivoluzionario, che impiegherà nell’”Ulisse” e nella “Veglia di Finnegan”. Esso è al contrario ancora saldamente ancorato ai modelli del romanzo ottocentesco, il che può riservare una sorta di delusione in chi si aspettava una qualche anticipazione dei canoni espressivi della narrativa del nuovo secolo. C’è però una novità profonda rispetto ai racconti di un Flaubert o di un Maupassant: in ognuno dei quindici racconti di “Gente di Dublino” interviene ad un certo punto, nella routine quotidiana apparentemente immodificabile, un qualcosa che fa sì che i personaggi da quel momento in poi non siano più come prima: i critici l’hanno definito una “epifania”, ossia una rivelazione, una presa di coscienza in negativo della propria condizione esistenziale (ad esempio, l’amara scoperta della propria irrevocabile solitudine da parte del protagonista di “Un caso pietoso”). Questo procedimento è del tutto evidente in quello che è il più lungo, complesso ed elaborato racconto di tutta la raccolta, “I morti”. In esso, la riunione natalizia in casa delle sorelle Morkan viene narrata in maniera molto tradizionale, attraverso tutti i rituali – conversazione, ballo, pranzo - di una riunione borghese; ma quando, qualche minuto prima del congedo, il protagonista Gabriel Conroy sorprende la moglie Gretta in commosso ascolto di una musica lontana, scatta un qualcosa che sposta il tono del racconto su un piano simbolico e spirituale (nelle pagine precedenti intuito soltanto attraverso sporadici momenti di inquietudine e di imbarazzo di Gabriel). I remoti ricordi della moglie, che aveva avuto in gioventù uno spasimante che era morto per lei, scuotono Gabriel, facendogli improvvisamente capire (ecco l’epifania joyciana) quanta parte della vita della donna con cui ha vissuto tanti anni gli sia preclusa e portandolo a riflettere malinconicamente sul labile (e qualche volta, come nella nevosa notte natalizia del racconto, impalpabile) confine che separa la vita e la morte. L’immagine della morte ritorna così ancora una volta in “Gente di Dublino”, chiudendo così emblematicamente il cerchio aperto, come si diceva all’inizio a proposito della morte di Padre Flynn, con “Le sorelle”.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    26 Gennaio, 2018
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QUANTO E' DIFFICILE CRESCERE NELLA "TERRA DORATA"

“Lei si strinse nelle spalle, ... «E’ sempre così, con gli anni. Ogni nuovo anno ti mostra le due mani a questo modo…», distese davanti a sé le mani chiuse. «Ecco, scegli!». E le aprì. «E sono entrambe vuote. Si fa quel che si può. Ma la cosa amara è lottare… e non salvare nessuno tranne noi stessi».

“Chiamalo sonno” non è un bildungsroman, cioè un romanzo di formazione, e neppure, a rigor di logica, un affresco storico dell’America di inizio ‘900, né tantomeno un classico dramma familiare di ambientazione proletaria. O meglio, “Chiamalo sonno” è sì tutto questo, ma nel contempo è molte altre cose ancora (è il tipico caso, artisticamente parlando, in cui il totale risulta maggiore della sommatoria delle parti), ciò che lo rende un unicum nella storia della letteratura del Novecento. La sua caratteristica più evidente e rimarchevole è che tutto quanto avviene nel romanzo viene filtrato attraverso il punto di vista del piccolo protagonista, David Schearl. Henry Roth ha una straordinaria capacità di immergersi nell’universo di David, di immedesimarsi totalmente nei pensieri, nelle fantasie, nei sogni e nelle paure di un bimbo di sei anni, di guardare il mondo - se così si può dire – ad altezza di fanciullo, calandosi camaleonticamente in un’ottica infantile, per cui una nevicata, una commissione, una visita o un funerale sono vissuti con emozioni inimmaginabili da un adulto. Questa inusuale prospettiva dà al romanzo, oltre a una forte impressione di verità psicologica, anche una notevole spontaneità e freschezza, perché tutto ciò che David fa è nuovo, tutto quello che egli vede lo vede per la prima volta, le sue considerazioni non sono ancora contaminate dall’esperienza. Piccoli episodi, apparentemente innocui, come il gioco proibito con Annie o il racconto dei topi diventano per lui degli incubi spaventosi, mentre perdersi per le strade di New York o assistere a un’esplosione di violenza da parte del padre sono dei veri e propri traumi che (possiamo facilmente immaginarlo) segneranno per tutta la vita il suo subcosciente.
Nel corso del libro, David cresce, passando dai sei agli otto anni. Contemporaneamente assistiamo, oltre al naturale cambiamento dei pensieri, dei desideri e delle esigenze del piccolo protagonista, anche a una apertura del romanzo. Mentre all’inizio esso era quasi tutto racchiuso tra le quattro mura domestiche, pian piano, con la maggiore indipendenza, anche affettiva, di David, inizia a scendere nelle strade e dà modo al lettore di respirare l’aria pittoresca e variopinta della New York ebraica. Il romanzo, se così si può dire, cresce con David, e se prima gli unici personaggi al di fuori della cerchia familiare erano Luter, Yussie e Annie, nei capitoli successivi entrano in scena la zia Bertha, il marito e le figliastre, i ragazzi del heder e tutta una vastissima umanità che, con le diverse usanze religiose, la mescolanza di lingue (yiddish, polacco, tedesco, italiano, ecc.) e la varietà di tipi e caratteri, costituisce una inesauribile fonte di meraviglia narrativa. Ovviamente, i personaggi che emergono su tutti gli altri sono quelli dei due genitori di David. La madre, col suo affetto e le sue premure, crea uno splendido legame di intimità col figlio che, soprattutto all’inizio (vuoi per le difficoltà linguistiche di lei vuoi per la scarsa autonomia di lui), sembra voler escludere il resto del mondo. Tra le sue braccia (“la valle sicura dei seni”) David trova sempre un riparo dalle amarezze e dalle avversità del mondo, e basta che sul volto della madre passino fuggevoli ombre di rassegnazione e di contrarietà per trasmettere al figlio, in un rapporto empatico nel quale Freud andrebbe a nozze, inquietudine e smarrimento. Freud e il complesso di Edipo c’entrano anche con la problematica relazione col padre, uomo frustrato, dispotico e collerico, che si vede poco ma è comunque una presenza terribile e temuta. Le quotidiane riunioni intorno al desco serale sono degli insuperabili esempi di tensione familiare, in cui i silenzi e i gesti forzati del genitore pesano come macigni, capaci di mandare per un nonnulla in frantumi la precaria armonia domestica.
Questo magmatico e sovente caotico materiale narrativo, così colorato, passionale e ricco di umori, è vivificato dallo stile impressionistico di Roth. La sua scrittura è un curioso ibrido tra la prosa classica, in cui è il narratore a raccontare in terza persona gli avvenimenti, e lo stream of consciousness joyciano, nel quale i pensieri di David vengono registrati in tempo reale, senza mediazioni di sorta, nel loro sconnesso e disarticolato fluire. David è sempre in scena, recepisce tutto ciò che gli succede intorno e - da bambino qual è – interpreta a suo modo gli eventi (il segreto giovanile della mamma, i giochi proibiti di Leo e della cugina, il racconto biblico di Isaia e dell’angelo), spesso deformandoli, ingrandendoli o mistificandoli con la sua fertile e ingenua immaginazione. Accade quindi che il lettore sappia come siano andate realmente le cose (riuscendo ad esempio a capire facilmente il significato della frammentaria conversazione tra Genya e la zia Bertha) e, contemporaneamente, come le stesse cose vengano interpretate dalla candida mente del protagonista, in un continuo e affascinante oscillare tra oggettivo e soggettivo. Solo due volte l’autore rinuncia alla presenza in prima persona di David. La prima è quando il romanzo indugia nel seguire il rabbino, zia Bertha e Nathan mentre, ognuno per suo conto e con una motivazione diversa, si recano alla volta della casa di David per parlare coi suoi genitori; la seconda quando racconta in montaggio alternato, adottando i punti di vista dei tanti personaggi che si trovano per caso in quei paraggi, i minuti che precedono l’incidente sulla rotaia del tranvai. Mentre nel primo caso la costruzione è tutto sommato tradizionale, tesa a far convergere gli avvenimenti verso un nucleo drammatico al fine di farlo reagire ed esplodere, nel secondo c’è l’adozione di un ardito sperimentalismo linguistico, in cui i punti di vista si sovrappongono, si accavallano, anche a costo di interrompere le frasi o addirittura a spezzare a metà le parole per dar conto della simultaneità di azioni e pensieri, in un andamento centripeto sempre più rapido e concitato. Classicità e sperimentalismo sono quindi i due poli all’interno dei quali si muove l’opera di Roth. Mi sembra un motivo sufficiente per considerare “Chiamalo sonno” un fondamentale punto di convergenza delle principali tendenze della letteratura del Novecento. Se l’importanza letteraria di Roth non può, come si è visto, essere disconosciuta, da lettore ho trovato comunque molti altri, più immediati, motivi di interesse: il piacere di una narrazione fluente ed ispirata, il sottile umorismo di stampo ebraico e, non ultimo, il fatto di avermi ricordato una volta di più che l’infanzia è, tra tutte le età dell’uomo, la più bella ma anche la più terribile e dolorosa.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    25 Gennaio, 2018
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MOMO', PICCOLO SOGNATORE FILOSOFO

“Non bisogna piangere, figlio mio, è naturale che i vecchi muoiano. Tu hai tutta la vita davanti”. […] Mi sono alzato. Be’, adesso sapevo che avevo tutta la vita davanti ma non me ne sarei fatto certo una malattia.

Quando ho preso in mano per la prima volta “La vita davanti a sé” di Romain Gary mi ha colpito una certa somiglianza con “Il giovane Holden” di Salinger, vuoi per lo stesso modo disinvolto del protagonista di rivolgersi direttamente al lettore, vuoi per un linguaggio molto spontaneo e nient’affatto formale. Le assonanze in realtà finiscono qui, dal momento che Holden Caulfield è uno studente di 16 anni, rampollo di una famiglia benestante di Manhattan, mentre Momò è poco più che un bambino, non frequenta la scuola, è orfano e vive nel quartiere parigino, proletario e multietnico, di Belleville, lo stesso che qualche decennio dopo sarà il teatro delle avventure del signor Malaussene e della sua tribù: insomma due universi completamente differenti e non confrontabili. Confesso inoltre di avere all’inizio pensato che nell’approccio di Gary al personaggio di Momò (cucciolo smarrito e indifeso, senza nessuno al mondo se si eccettua la vecchia ebrea madame Rosa, nel cui pensionato per figli di prostitute vive da sempre) ci fosse un qualcosa di sentimentalmente ricattatorio, dal momento che il lettore è indotto a guardarlo con istintiva e aprioristica simpatia, la stessa simpatia che provano i tanti adulti che nel suo bighellonare lo avvicinano e provano una irresistibile tentazione di accarezzarlo e di mostrarsi gentili con lui. Mi sono però dovuto ben presto ricredere: benché sia innegabilmente un libro ad alto tasso di commozione, “La vita davanti a sé” possiede anche una profondità morale sconvolgente. Non c’è nessuna retorica, nessun buonismo in questo ragazzino costretto a vivere esperienze ed assumersi responsabilità troppo grandi per la sua età, a confrontarsi precocemente con la povertà, la malattia, la solitudine, la vecchiaia, e soprattutto con la prematura constatazione che la vita è fondamentalmente ingiusta. Non c’è neppure autocommiserazione, perché Momò impara presto che la vita è dura e non fa sconti, e che “la felicità bisogna prendersela fintanto che c’è”, senza fare troppo gli schizzinosi, perché dopo tornerà inevitabilmente il dolore. C’è un immenso desiderio di amore e di contatti umani in Momò, e questo bisogno (che è un costante tentativo di riempire un vuoto originale, quello della madre assente, mai conosciuta) lui lo cerca dovunque, senza tregua, al punto di compiere perfino dei furtarelli apposta per farsi scoprire e sgridare (“c’era comunque qualcuno che si interessava a me”) oppure di passare intere ore nella sala d’attesa del premuroso dottor Katz, anche se non è affatto malato.
Madame Rosa è la madre surrogata, la madre adottiva: anche se la loro convivenza sembra apparentemente dettata dal reciproco interesse (quello della donna di ricevere gli assegni della famiglia d’origine che le permettono di sopravvivere e di tirare avanti, quello del bambino di non finire al brefotrofio), gradualmente si instaura tra loro un legame affettivamente molto intenso, che sfocia in qualcosa che ben si può chiamare amore. Quando madame Rosa si ammala e diventa non più autosufficiente, Momò si prodiga ad assisterla e a confortarla con filiale sollecitudine, cercando in tutti i modi di farle vivere i suoi ultimi giorni a casa sua anziché in ospedale. Intorno ai due si scatena una vera e propria gara di solidarietà intergenerazionale e interrazziale da parte degli abitanti del quartiere: chi si incarica di portare a spalle il dottore sofferente di cuore fino al sesto piano in cui vive la vecchia, chi provvede quotidianamente a vestirla e a tenerla pulita, chi addirittura inscena nella sua stanza dei veri e propri spettacoli di strada per cercare di riattizzare una vitalità che va sempre più spegnendosi. In questo modo si stagliano nelle pagine di Gary dei personaggi indimenticabili: ovviamente madame Rosa, ex prostituta ebrea dal cuore d’oro, che tiene sotto il letto un ritratto di Hitler (“e quando si sentiva infelice e non sapeva più a che santo votarsi, tirava fuori il suo ritratto, lo guardava e si sentiva subito meglio, era pur sempre una grossa preoccupazione di meno.”); madame Lola, un travestito senegalese, già pugile in gioventù nel suo paese, che non fa mai mancare soldi (ma anche dolci e champagne) quando madame Rosa e Momò rimangono soli, senza più l’aiuto economico dei bambini lasciati a pensione; il signor Hamil, un vecchio arabo ormai quasi cieco, che dispensa a Momò con la sua ancestrale saggezza le prime, fondamentali lezioni di vita; il temibile protettore nigeriano N’Da Amédée, che gira con le guardie del corpo e che alla famiglia in Africa vuol far credere, con le lettere che madame Rosa scrive per lui a motivo del suo analfabetismo, di essere diventato una persona ricca e importante; e poi ancora il mangiatore di fuoco Waloumba con la sua tribù di colore, il gentile dottor Katz, e tanti altri ancora. Su tutti svetta il piccolo Momò: “La vita davanti a sé” è un suo ininterrotto monologo, pieno di infantile ironia e spontaneità, in cui sogni, desideri e paure affiorano con irresistibile naturalezza, senza affettazioni e senza le censure psicologiche tipiche dell’età adulta. Gary è straordinariamente bravo a calarsi nel modo di pensare di un ragazzo di quattordici anni (che però per gran parte del libro pensa di averne dieci), semplice ma non semplicistico, grezzo ma pieno di buon senso, anche a costo di ricorrere a sgrammaticature (Momò dice spesso “prossineta” per “prosseneta”, “stati d’abitudine” al posto di “stati d’ebetudine”, come normalmente farebbe un bambino di fronte a parole tipiche del mondo dei grandi) o a ripetizioni di cose già raccontate in precedenza. Altrettanto stupefacente è la capacità dello scrittore francese di rappresentare con esattezza e credibilità la psicologia infantile, quel mondo in cui le paure (quelle di rimanere soli o di non essere in grado di affrontare le responsabilità della vita) vengono stemperate dal ricorso alla forza protettrice di sogni ricorrenti (di una leonessa o di un poliziotto, proiezione simbolica dei genitori assenti, dei pagliacci). C’è poi una bellissima scena in cui Momò entra in una sala cinematografica di doppiaggio e qui, vedendo le immagini sullo schermo andare al contrario, immagina come sarebbe se la vita stessa potesse riavvolgersi (ad esempio Madame Rosa ritornare giovane e bella), e così facendo riesce addirittura a immaginare se stesso nelle braccia amorevoli di sua madre.
La vita ha costretto Momò a crescere in fretta (di fronte a lui i due figli della ricca Nadine gli paiono “nuovi di zecca, come se non li avessero mai usati”) e a capire cose che la maggioranza dei suoi coetanei impiegheranno forse decenni a imparare. In una scena estremamente significativa, al dottor Katz, che vorrebbe ricoverare madame Rosa in ospedale, Momò dice che “non c’è niente di più schifoso che infilare a forza la vita nella gola della gente che non si può difendere e che non vuol più essere utile”, in una accorata perorazione in favore dell’eutanasia che ci fa capire come Gary non intenda arretrare neppure di fronte a tematiche dal forte impatto etico e sociale. Il lascito forse più originale di Gary è l’ottica con cui, per mezzo del suo protagonista Momò, guarda i vecchi e li eleva, con la loro bruttezza, la loro decrepitezza, il loro rimbambimento e la loro solitudine al posto che raramente la letteratura contemporanea ha assegnato loro: quello di esseri indifesi ed impauriti per la loro prossimità alla morte e alla non autosufficienza, che la società avrebbe il dovere di aiutare, rispettare, ma soprattutto amare. Il romanzo termina con la non memorabile frase “bisogna voler bene”, parole che però, alla luce di quanto si è letto nelle intense pagine precedenti, sono un po’ come un provvidenziale salvagente che Gary ha voluto lanciare a una umanità sempre più in balia dell’indifferenza e dello sconforto, consapevole che la bellezza e la bontà si possono trovare più facilmente nei bassifondi delle nostre metropoli, piene di immigrati e di reietti, piuttosto che negli eleganti quartieri dove vive l’alta borghesia. In fondo, qualcuno prima di lui non aveva già detto “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”?

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"Chiamalo sonno" di Henry Roth
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    23 Gennaio, 2018
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LA GUERRA SANTA DI ANTONIO IL CONSIGLIERE

Vargas Llosa è uno dei più abili e sapienti orchestratori di storie della letteratura mondiale di ogni tempo. Nel suo romanzo più classico, quella "Guerra della fine del mondo" che possiede tutti i connotati della saga epica, lo scrittore peruviano sa gestire al meglio i ritmi del racconto corale, tenendo i fili di tanti personaggi e di tante storie che si intrecciano all’interno della trama principale (ad esempio, quelle del rivoluzionario Gall, della guida Rufino, di sua moglie Jurema, del giornalista miope, del nano del circo del Gitano, del barone di Canabrava, e soprattutto di tutti i personaggi che attorniano Antonio il Consigliere, il quale – pur essendo il motore della vicenda – rimane paradossalmente quasi sullo sfondo), con una narrazione vertiginosamente policentrica eppure precisa come un raffinatissimo meccanismo ad orologeria, geniale nel fare confluire tutto l’enorme materiale verso il redde rationem della battaglia finale, con un effetto suspense che è vieppiù amplificato dal misurato ricorso ai piccoli sfasamenti temporali che, sia pure in misura minore che in altre sue opere, Vargas Llosa utilizza di quando in quando. Si prenda ad esempio, la quarta parte in cui il barone di Canabrava e il giornalista miope discorrono della avvenuta distruzione di Canudos (*), anticipando al lettore ciò che egli leggerà nelle pagine successive: ebbene, pur svelando l’inevitabile conclusione, questo flashforward non toglie nulla alla spasmodica tensione che si è accumulata pagina dopo pagina, quasi che, a dispetto di ogni logica e di ogni verosimiglianza, si continuasse a sperare in un diverso andamento delle cose. Anche l’uso della terza persona e di uno stile distaccato, neutro ed imparziale non va a detrimento del pathos, perché se da una parte il punto di vista obiettivo si adatta perfettamente alla narrazione di un avvenimento che – è opportuno ricordarlo – è davvero accaduto più di cento anni fa e fa parte della storia del Brasile nella fase del suo passaggio dalla monarchia alla repubblica, dall’altra il ricorso a tanti personaggi (sia rivoltosi di Canudos sia “patrioti” dell’esercito regolare) accresce la sensazione di trovarsi proprio al centro del nucleo incandescente della vicenda.
Anche se la prosa di Vargas Llosa ci fa parteggiare senza tentennamenti per la bizzarra comunità messa in piedi dal Consigliere, una vera e propria corte dei miracoli composta da derelitti, poveracci ed ex banditi (all’interno della quale si stagliano potenti e indimenticabili figure come quelle di Joao Abade, Joao Grande, Pajeu, Antonio Vilanova, il Beatino, il Leone di Natuba e Maria Quadrado), essa non nasconde i tratti più paradossali ed anacronistici della rivolta di Canudos, il suo carattere regressivo e conservatore, anziché rivoluzionario e modernista: il Consigliere e i suoi accoliti sono dei fanatici, la cui fede, per quanto autentica, sfiora la superstizione, e i cui condivisibili ideali di evangelica fratellanza si mescolano ad altri incongrui slogan, quali il rifiuto del censimento, del matrimonio civile e del sistema metrico-decimale. Di questo si rende conto l’anarchico e rivoluzionario irlandese Galileo Gall (il quale è un po’, con il giornalista miope, la coscienza critica del romanzo) nelle sue riflessioni ideologiche sulla natura al contempo eversiva e restauratrice di Canudos, cosa che non gli impedisce però di schierarsi, pur profondamente ateo come si sente, con questa originale esperienza di lotta anti-capitalistica. Il cuore di Vargas Llosa di certo non batte per i politici dello stato di Bahia, i quali non esitano a strumentalizzare quello che resta pur sempre un episodio sociale circoscritto pur di ricavare biecamente e opportunisticamente qualche guadagno in termini di potere. Il candidato dei repubblicani, Epaminondas Gonçalves, arriva addirittura ad ordire un finto complotto per poter accusare il partito rivale capeggiato dal barone di Canabrava di connivenza col nemico, e questo a sua volta cerca di riguadagnare il favore del governo centrale e dell’esercito simulando un finto entusiasmo di fronte all’operazione militare destinata a stroncare la rivolta e riportare la pace nel sertao. Lo stesso Galileo Gall, che si trova sballottato tra il fantomatico complotto di Epaminondas Gonçalves e una prosaica e un po’ ridicola storia di onore e di corna, non arriverà mai a vedere l’agognata Canudos, vittima, più che di macchinazioni politiche, di una natura e di un mondo arcaico e primitivo, in cui gli istinti emergono violenti e prepotenti ad annullare ogni differenza ideologica e di classe. Questo mondo del sertao, inospitale ed ostile eppure percorso da un incomprimibile flusso di vitalità, percorso da predicatori e banditi, da reprobi e mendicanti, è in fondo il vero protagonista del romanzo. Antonio il Consigliere, che rischia di apparire un personaggio grottesco e fuori del tempo, è in fondo l’espressione più profonda di questo universo, in cui il messianesimo d’impronta millenarista mescola l’intransigenza e la spietatezza con la profonda umanità riversata su tutti gli afflitti, i disperati e gli scherzi di natura, i quali per la prima volta sono in grado di sentirsi esseri umani alla stregua di chiunque altro e per questo sono disposti a condividere le sue drammatiche sorti fino alla morte. Se il Consigliere è un po’ il simbolo maschile del sertao, quello femminile risulta essere un po’ a sorpresa quello di Jurema, la donna silenziosa, modesta e tenace, di cui nessuno si accorge ma capace con la sua inconsapevole sensualità di sconvolgere le esistenze degli uomini che incontra: forestieri come Galileo Gall, intellettuali come il giornalista miope, aristocratici come il barone di Canabrava o jagunço come Pajeu sono tutti misteriosamente attratti da lei, pronti a dannarsi e a morire per il suo incomprensibile fascino. E’ proprio questo magmatico trionfo della natura, degli istinti e dei sensi che fa allontanare "La guerra della fine del mondo" dalle sue peculiarità di romanzo storico, per donargli invece quelle ineffabili suggestioni magiche e fantastiche che ne fanno un libro di pagina in pagina sempre più singolare, emozionante e sorprendente.

(*) Nel dialogo tra il barone e il giornalista si fronteggiano anche due differenti reazioni alla tragedia di Canudos, quella di dimenticare a tutti i costi l’evento luttuoso, configurandolo come un’anomalia irripetibile (lo stesso potrebbe valere per tanti altri avvenimenti storici più vicini a noi, come l’Olocausto), e quella opposta di testimoniare ai posteri ciò che è accaduto, anche se sgradevole o inopportuno. In questa seconda posizione Vargas Llosa intende collocare il ruolo dello scrittore impegnato, il cui compito consiste spesso nel tirare coraggiosamente fuori dall’oblio vicende esemplari che altrimenti verrebbero cancellate per sempre dalla memoria collettiva. E’ per questo che quello del giornalista miope è l’unico personaggio del romanzo che fa oscillare l’imperturbabile neutralità dell’autore a favore di una sorta di appassionata rivendicazione ideologica.

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"Il grande sertao" di Joao Guimarães Rosa
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    18 Gennaio, 2018
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SERTAO EPICO E SELVAGGIO

Contiene spoiler

“Vossignoria sa: sertão è dove comanda chi è forte, con le astuzie. Dio stesso, quando verrà, che venga armato!”

Quale straordinario piacere per gli occhi e per la mente è leggere Grande Sertão per la prima volta, senza conoscere del Brasile altro che il Carnevale di Rio o la spiaggia di Copacabana! E’ un po’ come guardare Ombre rosse o Sentieri selvaggi senza mai avere avuto sentore del West o della Death Valley. Si rimane letteralmente incantati di fronte a un paesaggio di selvaggia e primordiale bellezza, raccontato con affetto e nostalgia, certo, ma anche con grande sincerità, senza edulcorazioni o imbellettamenti posticci. Il sertão di Guimarães Rosa è un gigantesco ossimoro, vale a dire è tutto e il contrario di tutto: affascinante e spaventoso, pietoso e crudele, pieno di vita e solitario, pacifico e ribollente di odio. “Il sertão è confusione in una grande eccessiva calma… Tutto qui è perduto, tutto qui è trovato” (pag. 371). E’ in queste terre smisurate (“Il sertão è grande come il mondo”), tra aridi altipiani e oasi fertilissime, montagne scoscese e foreste impenetrabili, fiumi impetuosi e paludi malsane, che si aggira, con la sua banda di jagunços, il protagonista Riobaldo, in un incessante e apparentemente casuale girovagare in cui i combattimenti sono rari intermezzi di una esistenza peregrinante, monotona e disagevole, allietata solo dal cameratismo dei compagni e dall’orgoglio di una scelta di vita estrema e radicale. Il tutto è raccontato in un ininterrotto monologo di quasi cinquecento pagine, che per la sua titanica grandiosità rimanda ad altri capisaldi della letteratura contemporanea, come Il tamburo di latta o I figli della mezzanotte. In questa lunghissima rievocazione, il narratore Riobaldo, ad onta di una memoria sedicente ondivaga e lacunosa, viviseziona il suo passato come un rasoio affilatissimo (“volto al ricordo con uno specchio di lumi raddoppiati”), fino a far emergere le più minute vibrazioni interiori di ogni esperienza vissuta, quasi a voler tirar fuori da essa una qualche misteriosa e imponderabile verità. E’ così che il primo incontro di Riobaldo ragazzo con i jagunços o l’attesa notturna di un combattimento vengono descritti con una vividità impressionante, quasi che nella sua memoria fossero rimasti impressi, come accadeva al borgesiano Funes, ogni singolo minuto, ogni singolo dettaglio, ogni singolo nome e ogni singolo, apparentemente insignificante, accadimento della propria vita. Eppure, nonostante la precisione del racconto, il romanzo è pieno di periodi sconnessi in cui il protagonista si smarrisce di fronte all’impenetrabile mistero della propria anima (si vedano a mo’ di esempio le pagine 256-259): Grande Sertão è infatti paradossalmente, nonostante l’ambientazione esotica e le gesta epiche, un romanzo per così dire psicanalitico, in cui il personaggio che dice io va alla ricerca delle motivazioni dei suoi atti, in una ricerca estenuante dell’origine delle sue scelte etiche. La semplicità, la superstizione e la primitività del protagonista fanno sì che la lotta tra il bene e il male che dilaniano la sua interiorità vengano narrate quasi fossero delle storie dell’Antico Testamento, con Dio e il Diavolo che quasi si materializzano per contendersi la sua anima e un velleitario appuntamento notturno con il demonio (“Credo che non volevo esattamente nulla, di tanto che volevo solo tutto… Rimasi assente. Quello fu un grande buco nel tempo… Ubriaco di me, rovesciato all’incontrario, svuotato dei miei intimi,… stavo lì, di mia volontà, per affrontare uno slancio così smisurato. Da far arrestare i miei occhi in un’immensità di niente”) che segna una fatidica svolta esistenziale per il iagunço Riobaldo, di lì a poco destinato a diventare il capo-banda Urutù Bianco. Grande Sertão, in questo senso, è soprattutto una minuziosa confessione, in cui il narratore, di fronte a un anonimo ascoltatore (che potrebbe anche essere – perché no? - un prete), cerca di rintracciare nel passato ogni possibile ragione di innocenza per allontanare da sé l’allucinante sospetto di avere venduto la propria anima al Maligno e di avere, in un posto dove (nel libro lo si ripete spesso) “vivere è una faccenda molto pericolosa”, contribuito suo malgrado a far trionfare il male sul bene.
Ma Grande Sertão è anche, sorprendentemente, un romanzo d’amore. Anche se il sentimento amoroso parrebbe inconciliabile con l’universo di questi rudi banditi, che cavalcano tutto il giorno e bivaccano sotto le stelle, Guimarães Rosa riesce a introdurre, all’inizio quasi di soppiatto ma poi gradualmente facendone addirittura il fulcro emotivo del romanzo, l’elemento melodrammatico, nella forma del tenero rapporto di affetto tra Riobaldo e Diadorim: rapporto mai consumato, anzi costantemente negato (in quanto contrario al rigido codice virile dei jagunços), sempre in bilico sul sottile confine dell’amicizia tra compagni d’arme, eppure riconoscibilissimo in tutte le sue manifestazioni (basti pensare alle schermaglie di gelosia quando Riobaldo si innamora di Otacilia, la giovane figlia di un fazendeiro), fino al clamoroso epilogo (un vero e proprio coupe de theatre, degno di un feuilleton) in cui Diadorim, ucciso in combattimento, rivela davanti agli occhi sbigottiti di Riobaldo (“il dolore non poté più della sorpresa”) di avere un corpo di donna, per anni dissimulato accuratamente sotto i vestiti e il taglio di capelli maschili. Il rimpianto di non avere mai avuto il coraggio di confidare all’amato il proprio sentimento, di non aver saputo approfittare dei momenti di intimità per aprire il proprio cuore, i piccoli cedimenti (come il sensuale contatto di una mano nella mano) subito rinnegati e puniti con settimane di scontrosità, di silenzi o di lontananza, impregna tutto il romanzo di una tristezza, di una saudade, che contrasta con il corrusco vitalismo delle battaglie, delle cavalcate e della dura ma eccitante vita dei jagunços.
Se anche avesse un impianto letterario tradizionale, Grande Sertão sarebbe un grande romanzo. Ma Guimarães Rosa è anche uno scrittore di genio, capace di marchiare la sua opera con uno stile inconfondibile, allo stesso tempo popolaresco e raffinato, impressionista e barocco, incisivo e prolisso, ricco oltretutto di innumerevoli invenzioni linguistiche, le quali rimandano a un altro gigante della narrativa del Novecento, Carlo Emilio Gadda. I neologismi sciorinati dallo scrittore brasiliano (“sbaraondare”, “chiaracque”, “scaramucciato”, “insemprato”, “diavolarmente”, “sufflagare”, “inzupposo”, “prescioloso”, “pezzettinuccio”, “gambereggiare”, “vespare” per citarne solo alcuni tra i tanti) sono in grado di mandare in sollucchero il lettore più esigente, così come le caratteristiche giustapposizioni di termini usate per intensificare i concetti (“gli avvenuti avvenendo”, “i tuoni tuonando”, “in sì gran numero numerosa”, “buona mira ottima”, “le cose sono molte di troppo”, “fortissimo esatto”, ecc.) e soprattutto il modo originalissimo di descrivere in una parola il comportamento degli animali o di utilizzare il bestiario del sertão per rappresentare un fenomeno umano o naturale (gli uccelli che “gallineggiano”, le zanzare che “infernizzano”, il bestiame che “braveggia”, gli aironi che “aironano” e il merlo che “merleggia”, le pallottole che “colibrarono”, ecc.). L’importanza per l’economia del romanzo di quel macrocosmo particolarissimo che è il sertão la si intuisce quindi già dall’utilizzo del lessico, il quale rivela una profonda e non scontata conoscenza dell’autore dei posti di cui parla, conoscenza (e amore, aggiungerei) che si rivela anche nel loro utilizzo simbolico (le veredas, i buritìs, il manuelzinho del greto) e metaforico (si prenda ad esempio questo brano: “Diadorim – lui andava da una parte, io dall’altra, diversa; così, come, dalle paludi dei Gerais, si stacca una vereda che va a oriente e un’altra che va a ponente, ruscelletti che si separano di colpo, ma correndo, chiaramente, nell’ombra dei loro buritìs” – pagg. 444-445). Trascendendo la geografia dei luoghi, e superando gli esiti pur ragguardevoli raggiunti da altri scrittori sudamericani come Arguedas, Vargas Llosa e perfino Garcia Marquez, Guimarães Rosa ha saputo fare del sertão e della sua esuberante natura l’incontrastato protagonista di un’epopea di ineffabile e rara bellezza.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    17 Gennaio, 2018
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UN AFFASCINANTE ROMANZO-PUZZLE

Già dalle incalzanti pagine del prologo, che descrivono il “rapimento” di due bambine indios da parte delle suore missionarie di Santa Maria de Nieva e dei soldati che le scortano, si chiarisce la straordinaria novità ed originalità dello stile di Vargas Llosa: la simultaneità delle azioni, che si intrecciano all’interno della stessa frase senza che neppure la punteggiatura intervenga a dividerle, esprime alla perfezione la concitazione dell’episodio, magistrale esempio di scrittura in tempo reale, quasi si trattasse della traduzione letteraria di un piano sequenza cinematografico. La prosa di Vargas Llosa usa spesso metodi di derivazione cinematografica: a volte i tempi della narrazione si confondono e i flashback si intrecciano al presente senza alcun preavviso; altre volte a legarsi indissolubilmente tra loro in un complesso montaggio parallelo sono azioni diverse, distanti spazialmente oltre che cronologicamente; altre volte ancora assistiamo a monologhi interiori che hanno una grande affinità, oltre che con lo “stream of consciousness” di joyciana memoria, con le ben note soggettive filmiche in cui la macchina da presa assume il punto di vista del protagonista. Nelle oltre trecento pagine de “La Casa Verde” c’è un incredibile alternarsi di registri stilistici, che rende la lettura stimolante e ricca di spunti critici.
Ma nel romanzo di Vargas Llosa c’è di più. Anzitutto, la storia, o meglio le tante storie (di don Anselmo, di Fushia, di Lalita, di Bonifacia, ecc.) de “La Casa Verde” non hanno un andamento cronologicamente rettilineo. Se fosse stato un libro normale, avremmo probabilmente letto una saga generazionale affollata di personaggi: interessante e coinvolgente, senza dubbio, con tutti i suoi drammi e le sue passioni, ma nulla più di quello a cui tanta letteratura latino-americana ci ha abituato. Invece, Vargas Llosa “inventa” la non cronologicità degli avvenimenti, la quale rappresenta il vero valore aggiunto de “La Casa Verde” rispetto a tanti altri romanzi coevi. Presente e passato si intrecciano infatti in continuazione: in un capitolo un personaggio ci viene presentato nella sua situazione attuale, mentre in quello dopo c’è un improvviso salto indietro nel tempo, e, come se ciò non bastasse, lo stesso personaggio non è facilmente identificabile come tale perché, come capita con il sergente-Lituma e con Bonifacia-la Selvatica, ha magari un nome affatto diverso. “La Casa Verde” è un puzzle molto elaborato, il cui senso complessivo si comprende solo lentamente, tessera dopo tessera, capitolo dopo capitolo, spesso e volentieri attraverso un processo a comprensione ritardata (ad esempio, che la Chunga sia la figlia di don Alfondo lo si capisce chiaramente solo nelle ultime pagine), anche se qualche volta (ad esempio sulle origini della Casa Verde) ne sa più il lettore dei personaggi del romanzo.
Tutto ciò sarebbe probabilmente poca cosa se questo faticoso andirivieni temporale fosse usato esclusivamente per motivi estetici. Invece, il vedere i personaggi in momenti diversi della loro vita, conoscere il loro futuro prima del loro passato, o il loro passato congiuntamente al loro presente, determina un diverso atteggiamento morale nei loro confronti, permette di valutare le loro (spesso cattive) azioni in maniera più umana e comprensiva. Tutti quanti infatti si portano dietro un pesante fardello di dolori, di sensi di colpa, di disgrazie, spesso ignoto ai più, che li segna profondamente e irrimediabilmente, e la contemporaneità narrativa di passato, presente e futuro è lo stratagemma che consente all’autore (e con lui al lettore) di sfumare, e spesso invertire, l’iniziale giudizio etico di condanna, sostituendosi al punto di vista ubiquo e onnisciente di Dio. In questo modo, anche personaggi apparentemente malvagi come il Pantacha, Lituma e Fushia, diventano meno negativi ai nostri occhi quando veniamo messi al corrente delle loro sofferenze remote oppure ancora di là da venire. Da quanto detto deriva anche il tono malinconico del romanzo. La gioia per le nozze di Bonifacia e del sergente è infatti guastata dalla consapevolezza che la ragazza diventerà una prostituta e il marito andrà in prigione per la roulette russa con Seminario, mentre la dolcezza della storia d’amore tra Lalita e Nieves si stempera nel dolore delle disavventure future e nella prosaica immagine della splendida ragazza conosciuta all’inizio del romanzo che si trasforma nella grassa e butterata moglie del Pesado. Persino Fushia, che sembrava l’incarnazione stessa del male, riesce a catturare la nostra compassione, quando lo vediamo ridotto dalla malattia ad una larva umana, e il suo ossessivo scavare nella sabbia con l’unico piede sano è un gesto di straordinaria tristezza e di nostalgia per una vita ingiusta e incapace di mantenere le sue promesse.
Una grande novità, almeno per il lettore europeo, è rappresentata dall’ambientazione. Quattro sono gli scenari del romanzo. Il primo, che rimane sempre fuori campo, è Lima, la capitale lontana, centro del potere e simbolo della civiltà, che pochi personaggi hanno visto e che i più si limitano a sognare. Il secondo è Piura, città dove il progresso porta poco alla volta cinema, automobili e strade asfaltate, ma anche città al di fuori della quale c’è l’inospitale deserto e dentro cui la Mangacheria si ostina anacronisticamente a resistere all’avanzata della modernità. Il terzo è Santa Maria de Nieva, villaggio che sorge ai margini della giungla, abitata da “cristani” e “pagani” in precaria convivenza e avamposto estremo della civiltà grazie alla presenza della missione e del commissariato. Infine, ad un grado zero di civilizzazione, c’è la giungla selvaggia ed ostile, in cui mercanti senza scrupoli, banditi e rappresentanti dello Stato e della Religione fanno continuamente razzia di beni e di persone. Al di là delle indubbie notazioni pauperiste e terzomondiste che introduce nel romanzo, senza per questo trasformarlo mai in romanzo politico, Vargas Llosa sa descrivere meravigliosamente questi ambienti, e quasi sentiamo sulla pelle la pioggia di sabbia che il vento porta ogni giorno, immancabilmente, a Piura e i morsi delle zanzare e l’umidità intollerabile che rendono così penosa la vita di Santa Maria de Nieva.
Grande scrittore di posti e di paesaggi, Vargas Llosa non è da meno nella descrizione dei personaggi. Alcuni di essi sono davvero indimenticabili, per la grande umanità e verità psicologica con cui sono disegnati e per l’immediatezza ed il realismo con cui si muovono e, soprattutto, parlano (dai suoni gutturali degli indigeni ai borbotti irosi di padre Garcia nell’osteria di Angelica Mercedes fino alle sconnesse parole di seduzione pronunciate da don Anselmo nei confronti della piccola Antonia). Tutti i personaggi sono caratterizzati benissimo, anche quando (come Aquilino, il Pesado, il Joven Alexandro, il Pantacha o suor Angelica) hanno a disposizione solo poche pagine o addirittura poche righe per mettersi in evidenza. Di molti tra essi rimangono però impresse, più dei memorabili ritratti, alcune singole, folgoranti immagini capaci di stagliarsi vividamente, indelebilmente nella memoria: gli occhi di Bonifacia come bestioline verdi che scrutano sospettosamente, lei nata nella selva, il nuovo ambiente nel quale è stata catapultata dopo il matrimonio, il lamento di Lalita come il grido di un gufo quando si vede portare via il marito dalle guardie, la gentilezza ombrosa e selvatica di don Anselmo quando si aggira per le chicherias di Piura, e tante altre ancora, autentiche perle di un romanzo capace di sorprendere ad ogni pagina.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    17 Gennaio, 2018
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IL PRECURSORE DEL POSTMODERNISMO

Le perizie, opera d’esordio di William Gaddis pubblicata nel 1955, è un’opera immensa, sia per la mole (1037 pagine la versione digitale che ho letto, ma la copia cartacea, che credo sia praticamente introvabile, supera le 1600 pagine) sia per l’importanza che ha avuto nella storia della letteratura del ‘900 (Gaddis è considerato il precursore del romanzo postmoderno, quello – tanto per intenderci – di Pynchon, De Lillo e Wallace). E’ un libro che incute un forte senso di soggezione, per l’erudizione che sfoggia, le conoscenze culturali che presuppone e il frequente ricorso a simbolismi e a intraducibili giochi di parole, ma che, se si ha la pazienza di portarlo a termine (magari con l’ausilio dell’utilissima “A reader’s guide to William Gaddis’s The recognitions by Steven Moore”, agevolmente rintracciabile in internet), è capace di regalare incomparabili momenti di godimento intellettuale. Certe parti del romanzo sono oggettivamente difficili, soprattutto i capitoli in cui compare il protagonista Wyatt (personaggio sconnesso, disturbato, che si esprime quasi a monosillabi, e che a un certo punto del libro – tanto per rendere le cose ancora più ardue – l’autore smette di chiamare per nome) o quelli ambientati nel New England, che descrivono la discesa nella follia del reverendo Gwyon (talmente piene di riferimenti mitologici e di rimandi ai riti religiosi primitivi, che bisognerebbe conoscere alla perfezione Il ramo d’oro di Frazer per capirli appieno). Eppure ne Le perizie ci sono anche moltissime occasioni di divertimento. Ricordo di aver riso fino alle lacrime leggendo la scena in cui Otto fissa con il padre, che non ha mai visto e conosciuto prima d’allora, un appuntamento nel bar di un hotel ma, per una serie di bizzarre coincidenze, al suo posto incontra Frank Sinisterra, un falsario il quale a sua volta lo scambia per la persona a cui deve consegnare un pacco di banconote false: un perfetto ed esilarante esempio di commedia degli equivoci!
Il trait d’union del romanzo è costituito dal tema della falsificazione. Sono falsi i quadri dipinti da Wyatt (il quale rinuncia fin da piccolo a creare opere originali in quanto condizionato dagli insegnamenti della bigotta zia May secondo cui “Il Signore è l’unico vero creatore, e solo i peccatori cercano di emularLo”). Ma falsi sono anche i soldi spacciati da Sinisterra, false sono le identità con cui Wyatt e Sinisterra si aggirano per l’Europa (e che costeranno la morte a quest’ultimo), falsi sono i lavori di cui si vantano gli sciocchi intellettuali del Village per pavoneggiarsi nelle loro serate mondane, falso è perfino il corpo della piccola santa spagnola inviato a San Pietro per la canonizzazione (e che in realtà è il corpo della madre di Wyatt, riesumato per sbaglio dalla tomba vicina). Gaddis mette in discussione qualsiasi cosa, anche la stessa religione cristiana, come dimostra la parabola esistenziale del reverendo Gwyon il quale, dedicandosi intensamente allo studio degli antichi riti pagani, finisce per confondere sempre più la prima con i secondi e per impazzire (“Non passava giorno festivo senza che il reverendo Gwyon lo paragonasse cupamente a qualche cerimonia pagana, tanto che i suoi parrocchiani […] si agitarono, indignati e a disagio, dopo aver ascoltato la nota storia di una nascita da una vergine avvenuta il venticinque dicembre, mutilazione e resurrezione, solo per scoprire che non erano stati al servizio di Cristo ma di Bacco, Osiride, Krishna, Budda, Adone, Marduck, Balder, Attis, Anfione o Quetzalcoatl”). Gaddis arriva perfino a suggerire, con le parole di Wyatt che il falso è addirittura preferibile all’originale: “Quel romantico morbo, l’originalità, tutt’intorno vediamo l’originalità di idioti incompetenti, non saprebbero disegnare nulla, dipingere nulla, perciò il pasticcio che fanno è originale…”. Se questo è vero cos’è allora la bellezza? Forse è soltanto un’aspirazione ideale, un’utopia irraggiungibile (come l’amore, la purezza o la grazia) che la vita si premura prima o poi impietosamente di ridicolizzare, come dimostra la sorte beffarda che Gaddis riserva nell’epilogo alla maggior parte dei suoi personaggi.
Le perizie è un romanzo epocale, un romanzo-mondo, in cui le traiettorie di decine di personaggi, alcuni addirittura anonimi ma ugualmente indimenticabili (come il critico dalla camicia verde o la donna alta), si incontrano, si intrecciano e si ramificano, lasciando nel lettore un senso di stupore e di gratitudine per le infinite possibilità che la fluente narrazione di Gaddis lascia intravedere. Una narrazione che tocca secondo me il suo apice nella descrizione delle riunioni mondane newyorkesi, in cui l’autore si diverte a prendere in giro gli intellettuali del Village, stupidi, inetti, snob e vanesi (Otto gira addirittura per settimane con un braccio fasciato per far credere a tutti di essere stato ferito durante il suo viaggio nell’America Centrale, dal momento che fa molto intellettuale “engagé”, e Mr. Feddle non esita a mettere una finta copertina sopra L’idiota di Dostojevskij per convincere i colleghi di essere riuscito a pubblicare un libro di poesia). In questi party Gaddis dà prova di un virtuosismo sopraffino, riuscendo a restituire perfino il senso delle voci che si sovrappongono e si accavallano le une sulle altre (come al cinema anni dopo avrebbe fatto Robert Altman). Questa scrittura polifonica è solo uno dei tanti lasciti di William Gaddis alla narrativa americana dei decenni successivi. Molto altro ci sarebbe da dire a proposito de Le perizie, ma in questa sede mi limiterò a dire che l’opera d’esordio di Gaddis è un capolavoro impervio ma imprescindibile, che andrebbe letto almeno una volta nella vita, come l’Ulisse di Joyce o la Recherche di Proust.

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L'arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon
Infinite jest di David Foster Wallace
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    16 Gennaio, 2018
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UN'EPOPEA STORICA E FANTASTICA

Ricordate Forrest Gump, il protagonista dell’omonimo film di Robert Zemeckis del 1994 che attraversava involontariamente e con la sua candida ingenuità gli avvenimenti più importanti del dopoguerra americano, dalla guerra in Vietnam allo scandalo Watergate, uscendone miracolosamente e paradossalmente trionfante? Ebbene, Saleem Sinai, la voce narrante de I figli della mezzanotte, è una sorta di Forrest Gump alla rovescia: anche lui si trova presente in prima persona a tutti gli eventi cruciali della travagliata storia indiana degli ultimi trent’anni, ma, a differenza del suo omologo americano, egli non ne esce affatto indenne, subendo fino in fondo tutti i rovesci e le umiliazioni inflitti dalle guerre, dagli odi religiosi, dai colpi di stato e dalle persecuzioni politiche in cui si trova suo malgrado coinvolto. I figli della mezzanotte è infatti un romanzo in cui le esistenze dei personaggi procedono parallelamente alle date importanti della Storia (a partire dalla nascita di Saleem avvenuta nel giorno, anzi nell’ora precisa – la mezzanotte - dell’indipendenza della nazione indiana), l’individuale si mescola al collettivo, il privato al pubblico, sino a tracciare con questa ininterrotta sovrapposizione un quadro acuto e nient’affatto convenzionale (per non dire polemico) della recente storia dell’India (più o meno dal primo dopoguerra al governo di Indira Gandhi). Ci troviamo quindi di fronte a un romanzo simbolico? Certamente, anche se non in un’accezione propriamente tradizionale. Il Saleem che influenza direttamente la storia indiana (ad esempio, con il suo improvvido incidente in bicicletta egli scatena una serie di eventi che porta ai sanguinosi scontri di piazza tra manifestanti di fazioni contrapposte e alla spartizione dello Stato di Bombay), e la cui faccia (come sarcasticamente gli fa notare il perfido insegnante di storia) sembra la carta geografica dell’India, è fuor di ogni dubbio una metafora in cui si possono leggere in controluce le tare di una nazione ambiziosa ma imperfetta, alla ricerca di un ruolo di primo piano sullo scacchiere mondiale ma tristemente destinata a rimanere relegata ai margini del mondo sviluppato, e inoltre i sensi di colpa per i conflitti armati, le violenze occulte e le sopraffazioni di cui si è nutrita una democrazia troppo simile al regime coloniale che l’ha preceduta, l’oblio e l’amnesia come rimozione della vergogna per le molteplici mutilazioni (di parti del corpo così come di stati) subite dai potenti di turno, l’abbandono al fatalismo e all’inevitabilità di una condizione immutabile nonostante le periodiche e immotivate crisi di ottimismo, ecc. C’è però in questo simbolismo a tratti fin troppo esplicito un carattere nuovo e insolito, e cioè la lucida consapevolezza che Saleem ha della propria natura metaforica. Ad un certo punto (pagg. 274-275) egli ad esempio discetta ironicamente sui modi di connessione (le combinazioni attiva-letterale, passiva-metaforica, passiva-letterale e attiva-metaforica) da cui è contrassegnata la sua vita, il che dà al suo diario (una rievocazione scritta, non a caso) una profonda valenza meta-testuale, di riflessione cioè sui modi in cui lo scrittore (“doppio” evidente del narratore) può legare storie individuali e Storia collettiva. Il protagonista attribuisce inoltre al proprio racconto (e alla propria mentalità) caratteristiche più propriamente letterarie, come quelle “descrizioni realistiche del bizzarro, nonché il loro opposto, vale a dire le versioni intensificate, stilizzate del quotidiano” (pag. 253) che sono espressione della scrittura ossimorica di Rushdie.
Ma torniamo a Saleem Sinai, il bambino della mezzanotte. Il suo racconto-diario, un po’ romanzo di formazione, un po’ monologo psicanalitico e un po’ libro picaresco e d’appendice, percorre i territori più svariati, dall’esotismo avventuroso (“Nel Sundarbans”) al fantastico e al parapsicologico (le sue proprietà telepatiche e i prodigiosi talenti degli altri “figli della mezzanotte”), e ha innumerevoli sfumature, non ultima una vena patologica che, pur contraddetta dall’apparente verosimiglianza della narrazione, si fa sotterraneamente largo pagina dopo pagina, man mano che la congiura della Storia contro lui e gli altri coetanei nati nella mezzanotte del 15 agosto 1947 inizia a prendere forme e contenuti fanta-politici. Viene da chiedersi se tutto il romanzo non sia in fondo il frutto malato della mente di un folle con un gigantesco complesso di persecuzione. A pensarci bene, Saleem ha una mentalità un po’ paranoica: è convinto che la guerra indo-pakistana sia scoppiata col solo scopo di sterminare la sua famiglia, un fascicolo intravisto nelle mani di suo zio con la sigla “MCC” gli fa sospettare che lo spionaggio governativo sia sulle tracce della fantomatica Conferenza dei Bambini della Mezzanotte (di cui le tre lettere costituiscono l’acronimo in lingua inglese), si attribuisce persino la responsabilità indiretta della morte di Nehru; in aggiunta a ciò, ci sono intenzionali inesattezze storiche, volute dimenticanze e persino l’ammissione di una falsificazione (la morte dell’alter-ego Shiva). Tutte queste ambiguità, pur senza nulla togliere al carattere metaforico del romanzo, e oltre a creare uno schermo protettivo per l’autore (il quale è estremamente polemico tanto nei confronti dell’establishment politico indiano quanto del fanatismo religioso, sia esso induista o musulmano, e quindi gli può tornare utile celarsi dietro a un personaggio farneticante e psicopatico), creano anche un sorprendente equilibrio tra verità e invenzione, tra fantastico e reale, tra grottesco e naturalistico, per cui non sappiamo mai qual è l’autentico registro del racconto, il quale fino alla fine si fa beffe di qualsiasi classificazione, sgusciando bellamente attraverso le larghe maglie di ogni banale tentativo critico e interpretativo.
Qualcosa su I figli della mezzanotte è comunque possibile dirla, le sue affinità letterarie più prossime, per esempio. I referenti obbligati del romanzo di Rushdie sono Gabriel Garçia Marquez per il modo di narrare vicende surreali con un tono distaccato e impassibile, come se fossero le cose più normali del mondo, e più ancora il Günther Grass de Il tamburo di latta per la prosa ironica, dissacratoria e politicamente scorretta, per non dire iconoclasta. Ma la scrittura di Rushdie è soprattutto fortemente, prepotentemente personale: il suo stile è fluente, immaginifico e barocco. Lo scrittore indiano è straordinario nel tenere una materia narrativa “eccessiva” in un mirabile equilibrio di forma e contenuto per più di cinquecento pagine, tirando alla fine i fili della lunghissima ed elaborata rievocazione del passato di Saleem in una sintesi dal sapore quasi felliniano, con la dissoluzione del protagonista in una miriade di pezzi che rappresentano l’intero popolo indiano. Una vera e propria moltitudine sono i personaggi del romanzo, racchiusi tra i due Adam dagli occhi azzurri come il cielo del Kashmir, il nonno e il figlio di Saleem, e Rushdie è bravissimo a non perderli per strada, a portarseli dietro, a tenerseli stretti (insieme a ricordi, odori e sensazioni, come la sputacchiera d’argento e al chutney di Mary Pereira), convinto come il suo protagonista che “per capire una sola vita dovete inghiottire il mondo”. Un altro accorgimento stilistico di Rushdie è l’uso inusuale dei flashforward: fugaci e impercettibili accenni ad avvenimenti che devono ancora accadere (ad esempio, “e qui, nella solitudine del tempo arrugginito, feci paradossalmente i miei primi passi esitanti verso quel coinvolgimento nei grandi eventi e nelle vite pubbliche da cui non mi sarei mai liberato… se non quando la Vedova…” – pag. 202 – o ancora, “se Evie non fosse venuta a vivere in mezzo a noi… non ci sarebbero stati né un climax nella pensione di una Vedova, né una chiara prova del mio significato, né una coda in una fumante officina,… Ma Evie Burns venne sulla sua bicicletta argentea e mi permise non solo di scoprire i bambini della mezzanotte, ma anche di provocare la spartizione dello Stato di Bombay” – pag. 211), i quali accenni creano, a dispetto del tono del racconto, una sottile curiosità (per non dire addirittura suspense) che tiene avvinto il lettore fino all’ultima riga. Salman Rushdie possiede inoltre la stupefacente abilità di ipostatizzare gli stati d’animo e i sentimenti, in linea con quella vena metaforica che in fin dei conti consiste nell’accostare cose concrete (fatti, personaggi, ecc.) ad entità astratte (il destino, il significato, e così via): così rancori, risentimenti, gelosie, invidie e sensi di colpa si trasferiscono sui cibi cucinati (il chutney del rimorso di Mary Pereira) o sui corredini per bimbo fatti a mano (impregnati del desiderio di vendetta della zia Alia). Infine si può citare una capacità molto più tradizionale, quella di disegnare con raffinata semplicità personaggi splendidi e indimenticabili, che si imprimono - anche quelli secondari - nella memoria del lettore grazie a un intercalare tipico (lo spassoso, e ripetuto a sproposito in ogni discorso, “comesichiama” della Reverenda madre) o un tratto fisico distintivo (la faccia da Pulcinella di Zulfikar). Grazie a questi (e a molti altri) meriti letterari, I figli della mezzanotte è qualcosa di veramente unico nel panorama letterario del ‘900, un romanzo che, non solo perché si propone di essere lo specchio di una nazione nell’arco di molti decenni, si può a buon diritto definire epocale.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    14 Gennaio, 2018
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LA STORIA SECONDO SARAMAGO

Sono tanti i romanzieri (Manzoni e Tolstoj, ad esempio, per citare i più significativi) che hanno cercato di raccontare la Storia mettendo fianco a fianco personaggi famosi e personaggi di fantasia, Napoleone Bonaparte e Andrej Bolchonskij, il cardinale Borromeo e Renzo Tramaglino, ma nessuno ha mai portato questo procedimento alle sue conseguenze più estreme e feconde come José Saramago. Quella di Saramago è una vera e propria contro-Storia, in cui gli episodi storici sono riportati in maniera tutto sommato veridica e fedele, ma ad essere messi in discussione sono le loro motivazioni e soprattutto i loro effetti collaterali. Lo scrittore portoghese è un po’ come il correttore di bozze della “Storia dell’assedio di Lisbona” (un romanzo che può essere considerato come l’approdo teoricamente più consapevole e avanzato della sua ideologia), il quale sa benissimo che la Lisbona moresca è stata espugnata dal re del Portogallo, ma ciononostante non resiste alla tentazione di verificare (aggiungendo un semplice “non” nel libro che sta correggendo) come sarebbero andate le cose rovesciando l’ipotesi storica di partenza, quella cioè che i crociati hanno aiutato i portoghesi nell’impresa: cambiati i fattori, interpolato arbitrariamente quel “non”, il prodotto, ovviamente, non può cambiare (Lisbona cadrà comunque nelle mani dei cristiani), eppure, a ben guardare, tutto risulta diverso, perché la diversa prospettiva, il mutato punto di osservazione, ha costretto finalmente a prendere in considerazione aspetti della Storia – sociali, religiosi, psicologici, umani – che normalmente non si è abituati a vedere. E ciò che sembrava frutto, da parte di sovrani, principi e condottieri, di geniali intuizioni strategiche, disinteressata generosità o eroica abnegazione, si trasforma alla fin fine in calcolo meschino, in violenza cieca, in fanatismo retrogrado, mentre solo la gente comune, la soldataglia e le donne del popolo, i contadini e i mendicanti, sono in grado di acquistare una inattesa e inopinata dignità, in forza di una scrittura che, funzionando come una straordinaria lente di ingrandimento, li porta per la prima volta alla ribalta.
Sette anni prima della “Storia dell’assedio di Lisbona”, e con esiti artistici ancora più ragguardevoli, Saramago ha scritto “Memoriale del convento”. Qui gli anni della costruzione del convento di Mafra, del regno di Giovanni V, del soggiorno di Scarlatti a Lisbona fanno magicamente da sfondo alla storia di Baltasar e Blimunda, e, insieme a loro, di una sterminata moltitudine di uomini e donne che non troveremo mai sui libri di storia, ma che proprio per questo - perché dimenticati e sofferenti, perché oltraggiati e vilipesi dalla vita – Saramago ha tanto a cuore, al punto di attardarsi spesso a descriverli, a dire in due parole quello che fanno e da dove vengono, anche quando sono del tutto ininfluenti dal punto di vista narrativo (come il gobbo Pequeno, la cui faccia arriva all’altezza del muso dei buoi che governa, ma che è contento così, perché “quando un uomo entra intero nell’occhio di un bue, si può finalmente riconoscere che il mondo è ben costruito”, o Manuel Milho, che racconta ai compagni di lavoro storie che non riesce a capacitarsi come gli possano essere entrate nella testa, o il vecchio Joao Elvas, che nel viaggio di ritorno al suo paese natio si trova casualmente a scortare il re e il suo imponente seguito insieme a una folla di mendicanti e di straccioni), a volte citando solamente il loro nome, affinché di essi non si perda la memoria.
“E’ ben vero che Dio sceglie i suoi favoriti, pazzi, difettosi, eccessivi”. Come una divinità laica, se mi si perdona l’ossimoro (poiché l’autore può essere a tutti gli effetti considerato, in merito alla propria creazione, un vero e proprio dio), Saramago prova una profonda pietà e una autentica compassione per le vittime della Storia, quelle che nessuno ricorda quando si celebrano le vittorie o si ammirano i monumenti, ma che col loro sudore, con la loro dedizione quasi bestiale all’umile lavoro e al mestiere ingrato, a volte persino con la loro morte, hanno consentito ad altri, ai pochi, agli eletti, di raccogliere gli onori e la gloria, e che, come se ciò non bastasse, hanno sopportato stoicamente persecuzioni, ingiustizie e violenza. C’è un inequivocabile sottofondo moralista nell’opera di Saramago, il quale, dietro l’atteggiamento distaccato, neutro e spesso ironico dello storico, nasconde una vena polemica che non risparmia i potenti da una parte e Dio dall’altra (o, per meglio dire, l’idea che di Dio è stata imposta e affermata nel mondo), quali responsabili degli innumerevoli lutti dell’umanità. Dietro le paludate cerimonie nei palazzi reali e le sfarzose processioni del Corpus Domini, dietro i sermoni ammonitori e i terrificanti auto-da-fè ,si cela infatti la vera realtà che regge il Potere e la Religione, e cioè l’eterna oppressione dell’uomo sull’uomo.
Saramago è un incrollabile umanista e un ateo convinto, ma in aggiunta a ciò egli è anche un fervente fautore del sogno, e di tutto ciò (la musica, l’amore) che solo è in grado di riscattare l’uomo dalla sua infima condizione e dalla durezza della vita. I personaggi di Saramago, anche quando sono immersi fino al collo nel fango dell’esistenza, sono infatti degli inguaribili sognatori. “Che ne sarebbe di noi se non sognassimo?”, afferma Saramago, e, come gli eroi dei romanzi di Baricco che dedicano tutta la loro vita a un ideale (costruire una ferrovia che non va da nessuna parte oppure un palazzo di cristallo, per citare “Castelli di rabbia”) quando sentono nell’intimo che quello è il loro destino, così padre Bartolomeu Lourenço, Baltasar e Blimunda si gettano anima e corpo nell’impresa apparentemente impossibile di fabbricare una macchina per volare. Anche qui sembra che Saramago abbia attinto ad autentiche fonti storiche per creare il personaggio del Volatore, ma lo scrittore portoghese è riuscito a trasfigurare poeticamente la realtà per elevare un inno appassionato ed entusiasta all’inesauribile fantasia e all’incrollabile determinazione dell’uomo (non a caso sono le volontà delle persone, raccolte da Blimunda e racchiuse in una boccetta di vetro, a consentire alla macchina di sollevarsi). Quelli che per un re sono puri e semplici capricci (costruire un convento che possa gareggiare in grandiosità con la basilica di San Pietro), per i personaggi di Saramago diventano obiettivi per i quali mettere in gioco la propria tranquillità e sicurezza, ancorché precarie, traguardi da perseguire a tutti i costi contro l’ottusità di coloro che non credono che l’uomo possa ergersi al di sopra dei propri limiti, spesso fino all’annientamento, al sacrificio e alla morte. Anche l’amore, alla pari del sogno, è un fuoco che divora e consuma, una lotta impari contro il tempo e contro la finitezza dell’esistenza, eppure è l’unica cosa per cui valga la pena di vivere, oltre che l’unica occasione di vera giustizia che c’è al mondo, perché l’amore va al di là della miseria e della malattia, della ricchezza e del censo, tanto è vero che quello di Baltasar e Blimunda (che, non dimentichiamolo, sono due “diversi”, monco lui e dotata di strani e inquietanti poteri lei) è uno degli amori più belli, perfetti e commoventi che mai siano stati raccontati.
Una materia narrativa così ricca di storie e di tematiche, di riflessioni e di sentimenti, non poteva essere narrata se non con uno stile autenticamente personale. E quello di Saramago è uno dei più originali stili di scrittura in cui mi sia mai capitato di imbattermi: una prosa indubbiamente impervia, ostica, con quei lunghissimi periodi in cui sono aboliti punteggiatura, spazi, lineette per i dialoghi, senza neppure il conforto di un a capo, eppure incredibilmente affascinante se solo si riesce ad afferrarne l’intima musicalità e ad essa abbandonarsi, lungo pagine che a volte stridono come cacofonie e altre volte scorrono impetuose, senza soluzione di continuità. E’ davvero un’esperienza unica ed inebriante perdersi dentro a periodi che (come in occasione della processione del Corpus Domini) sono, come per magia, capaci di durare non meno di sei pagine. Non c’è in tutto questo una mera esibizione di virtuosismo tecnico, ma un metodo efficacissimo e funzionale per perseguire precisi obiettivi narrativi: così il tour de force sopracitato riesce a restituire il senso cronometrico della durata della processione, quasi che, in una sorta di piano sequenza letterario, essa fosse seguita dal lettore in tempo reale, mentre una sessantina di pagine prima un esperimento similare dà voce all’idea che tutto nella Storia è interrelato, il grande come il piccolo, e ben si può passare dall’infante don Francisco che spara (come in “Schindler’s list”!) sui marinai delle navi ormeggiate in riva al Tago, ai corsari francesi in Brasile, fino al prete scappato nudo da una casa di piacere e inseguito dalle guardie per le strade di Lisbona. Nella stessa pagina, cioè, c’è la Storia con la esse maiuscola e quella dei poveracci, c’è l’aneddoto e la polemica celata dietro la maschera dell’ironia, il giudizio moralistico di chi antepone la libertà terrena dell’uomo all’onniscienza divina del cielo e il giudizio di chi, non contemporaneo agli eventi come non nasconde di esserlo il narratore (così svelando l’artificio della scrittura), può permettersi divagazioni e commenti anacronistici (anticipando a volte la sorte di qualche personaggio minore oppure accostando il pionieristico volo dell’”uccellaccio” al primo volo dell’uomo sulla Luna). E c’è soprattutto, in questo straordinario romanzo, un grande rispetto per il lettore, il quale è invitato a vedere la Storia (tutta la Storia, non solo quella narrata nelle trecento pagine del “Memoriale del convento”, ma anche quella – perché no? – della costruzione delle Piramidi o della battaglia di Stalingrado) con occhi nuovi, per poter formulare su di essa il proprio autonomo e responsabile giudizio, non inquinato dai luoghi comuni e dalle opinioni consolidate né tantomeno dalle bugie e dalle omissioni dei libri di testo.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    13 Gennaio, 2018
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MONTAGNA MAESTRA DI SOLITUDINE

Da amante della montagna quale sono confesso di avere avuto qualche iniziale titubanza a prendere in mano il libro di Paolo Cognetti, temendo di vedere inesorabilmente deluse le mie alte aspettative. Invece la fatica e l’euforia delle salite, la ruvida umanità dei montanari, le vette apparentemente inaccessibili e i laghetti alpini su cui esse si specchiano, i canaloni e le pietraie, i suoni dei campanacci delle mucche nei pascoli e lo scrosciare dei torrenti che scendono dai ghiacciai, i colori dei tarassachi, dei larici e degli abeti, gli odori del letame e del formaggio di malga, e ancora il silenzio, le nebbie che avvolgono le cime, la prima neve di fine estate, le sommesse conversazioni serali nei rifugi, tutte queste sensazioni ed emozioni, che mi hanno fatto compagnia in decine di anni di frequentazione delle alte quote, le ho ritrovate tutte, con fedeltà impressionante, nelle pagine de Le otto montagne. E soprattutto ho ritrovato quella montagna “maestra di solitudine”, che porta i due protagonisti Pietro e Bruno a rifugiarsi spesso nella sua dura, ostile ma confortevole intimità, per isolarsi dal resto del mondo e ritrovare se stessi.
Si vede che il libro si nutre di autobiografia, che è un abito tagliato su misura delle passioni e delle conoscenze di Cognetti (l'unica riserva che mi sento di fargli è infatti che gioca un po', se così si può dire, “in casa”, e sarei curioso, non avendo letto nient'altro di lui, di vedere come se la cava “in trasferta”, magari alle prese con un romanzo metropolitano), e non si fatica a credere, come ha affermato l'autore stesso in un'intervista, che esso sia stato scritto quasi di getto, con inusuale velocità. La scrittura è infatti semplice, scorrevole, e la struttura del libro, di agevolissima lettura, è altrettanto essenziale, in quanto non esita a lasciare sullo sfondo l’attualità e la vita invernale in città per concentrarsi sui ritorni di Pietro in montagna, dove ritrova sempre il suo amico d’infanzia Bruno, figlio di montanari e montanaro a sua volta per vocazione. Nei due personaggi (che alla lontana mi hanno ricordato Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse) si incarna la parabola che dà il titolo al romanzo, la possibilità cioè di vivere conoscendo tutte le otto montagne che i buddisti nepalesi ritengono ci siano intorno al mondo (come Pietro, che si allontana frequentemente dalle Alpi per vivere ad esempio alcune stagioni ai piedi dell'Himalaya) o in alternativa di salire sull’unico monte che sta al centro di esso (come Bruno, solitario custode del Grenon). La montagna per Cognetti non è solo una mera scenografia, lo sfondo in cui viene ambientata la storia, ma è anche fonte di bellissime, acute metafore. Prendiamo ad esempio questo bellissimo passaggio. “L’estate cancella i ricordi proprio come scioglie la neve, ma il ghiacciaio è la neve degli inverni lontani, è un ricordo d’inverno che non vuole essere dimenticato.” A me, per esempio, ha fatto pensare a come lo scioglimento dei ghiacciai delle Alpi vada di pari passo con l’oblio della memoria collettiva e del passato storico che caratterizza tristemente, nell’era di internet, una gran parte delle giovani generazioni. Le otto montagne non è quindi un libro che vive sotto una campana di vetro, ma ci dice più cose sul mondo e sulla vita di quello che sembrerebbe a prima vista.
In questa asciutta e pudica storia di amicizia e di paternità, raccontata senza toni edulcorati (al contrario non esitando a mettere in primo piano sentimenti come il rimpianto per le occasioni perdute, la tristezza per chi non c'è più o la difficoltà di trovare il proprio posto nella vita), vi sono brani di struggente bellezza, come quando Pietro, cercando di recuperare in extremis un rapporto col padre defunto, va alla ricerca delle scritte da questi lasciate negli anni passati sui libri di vetta; oppure quando il protagonista, scendendo a valle alla fine dell’estate, immagina di vedere se stesso bambino mentre sale verso gli alpeggi insieme al suo giovane genitore. Una simile dichiarazione di elegiaco amore per la montagna mi fa tornare in mente le parole che Renè Daumal scrisse ne Il Monte Analogo: “Non si può restare sempre sulle vette, bisogna ridiscendere… A che pro allora? Ecco: l’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto. Salendo devi prendere sempre nota delle difficoltà del tuo cammino; finché sali puoi vederle. Nella discesa, non le vedrai più, ma saprai che ci sono, se le avrai osservate bene”. Da consigliare caldamente a tutti coloro che amano la montagna, a quelli che la ammirano senza ancora avere avuto la possibilità di conoscerla a fondo, e ancora di più a chi, non potendoci più tornare, prova la straziante nostalgia delle vette, dei rifugi e dei ghiacciai.

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