Opinione scritta da Laura V.
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Figlia del vento e della brughiera
Prima biografia in assoluto dedicata a Emily Brontë, l'opera pubblicata da Agnes Mary Robinson nel lontano 1883 viene ora tradotta per la prima volta in Italia, per la Casa Editrice L'ArgoLibro di Agropoli (2018), restituendo al pubblico un ritratto intimo, appassionato e, sotto certi aspetti, inedito della grande autrice inglese scomparsa appena trentenne nel 1848 e di cui ricorre quest'anno il bicentenario della nascita.
Erano quindi trascorsi soltanto trentacinque anni dalla sua morte quando venne dato alle stampe questo lavoro che, proprio in virtù della vicinanza temporale all'epoca in cui vissero le tre celebri sorelle, risulta particolarmente prezioso poiché la Robinson (1857-1944), nome di spicco all'interno degli ambienti culturali europei, ebbe occasione di raccogliere la testimonianza di alcune persone ancora viventi che avevano conosciuto direttamente la sfortunata famiglia del reverendo Brontë. Come precisato nell'introduzione, lo scopo della biografia fu quello di tributare il giusto e doveroso omaggio al talento allora ancora misconosciuto di Emily, con la speranza di squarciare quel velo di dimenticanza e disinteresse che a fine Ottocento sembrava ormai avvolgerne la figura, facendo conoscere e finalmente apprezzare la sua opera che, finché la scrittrice era in vita, non ottenne riconoscimenti significativi di critica e di pubblico. Il successo a livello internazionale del libro della Robinson, che tra i suoi lettori poté vantare addirittura la poetessa americana Emily Dickinson, contribuì a riscattare l'autrice di “Cime Tempestose” e a consacrare romanticamente le sorelle Brontë come “figlie del vento e della brughiera”.
Tra queste pagine, ricche di una prosa a tratti piuttosto aulica, ma nel complesso appassionante e coinvolgente per il lettore, ecco dunque emergere una Emily che dall'infanzia fino alla “triste età adulta” restò sempre visceralmente legata ai familiari e alla propria terra (un angolo sperduto e solitario dello Yorkshire) dalla quale, fatta eccezione per un periodo di studio trascorso a Bruxelles, non si distaccò mai; una Emily molto riservata, dedita ai lavori domestici, amante delle lunghe passeggiate nel silenzio della natura, affezionatissima fino all'ultimo ai suoi cari animali.
“Mia sorella Emily […] non era una persona di carattere estroverso, né una nei cui recessi della mente o dei sentimenti anche coloro che le erano più cari o vicini potessero intromettersi senza permesso”, scriveva Charlotte che, poco prima della fine così continuava a descriverla: “Più forte di un uomo, più semplice di un bambino, la sua natura si ergeva solitaria. La cosa terribile era che, pur piena di pietà verso gli altri, non aveva pietà di sé stessa; lo spirito era inesorabile verso la carne, richiedeva alla mano tremante, alle braccia indebolite, agli occhi annebbiati la stessa efficienza di quando era stata in salute.”
Parlare di Emily significa però al tempo stesso dedicare imprescindibile spazio anche alla numerosa famiglia al cui interno lei era nata, in particolar modo alle sorelle Charlotte (1816-1855) e Anne (1820-1849), con le quali, nel 1846, pubblicò una raccolta di poesie sotto pseudonimo, e al fratello Patrick Branwell (1817-1848), a sua volta talento artistico notevole ma rovinato purtroppo dall’abuso di alcool e oppio, stando all'impietoso ritratto ricostruito dalla penna della biografa.
Ben due capitoli, di cui uno alquanto corposo, sono stati dedicati a quello che viene unanimemente considerato il capolavoro di Emily Brontë, nonché unico romanzo della sua produzione letteraria: “Cime Tempestose”. In esso, tutto il piccolo tormentato mondo dell'autrice che le ispirò ambientazione e personaggi; l'aver esposto la trama fin nei dettagli oggi potrebbe essere considerato un sovrappiù, un inutile appesantimento del racconto biografico, ma all'epoca ciò risultava in effetti funzionale al proposito della Robinson di diffondere il più possibile la conoscenza della vita e dell'opera di Emily Brontë.
Attenta curatrice del libro è Maddalena De Leo, docente di inglese e socia di lunga data della Brontë Society, di cui rappresenta la sezione italiana; a lei si deve un prezioso lavoro di traduzione che contribuisce alla piacevolezza della lettura. Non nuova a sfide editoriali di tal genere, la Professoressa De Leo ha pubblicato, sempre per L'ArgoLibro, “Storie di geni e di fate” di Charlotte Brontë in occasione del bicentenario della nascita e, per le Edizioni Ripostes, altri testi bronteani ancora inediti nel nostro Paese. Nel 2012 ha ideato il Premio Letterario Nazionale De Leo-Brontë, ulteriore lodevole iniziativa volta a rendere omaggio alla memoria e al genio delle tre legatissime sorelle.
Un grato plauso, dunque, a Maddalena De Leo e anche all'Editore per aver proposto un libro consigliabile sia a chi già ama poesia e prosa di Emily sia a coloro che volessero iniziare a farne la conoscenza.
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Viaggio nella memoria
Il peso dei ricordi e della nostalgia, il dolore di più di un'assenza, un amore ferito e interrotto bruscamente... Sono alcuni degli ingredienti del nuovo romanzo di Antonella Di Martino, pubblicato di recente dalla piattaforma editoriale Bookabook.
Scritta con uno stile narrativo convincente e coinvolgente, la storia ripercorre la vita di Eleonora, prendendo le mosse da un'affascinante congiunzione tra la luna, Giove e Venere, comparsa nel cielo luminoso di una sera come tante, che sembra preannunciare alla protagonista un evento improvviso di grande importanza.
Intanto, si fanno largo, preziosi ma nel contempo dolorosi, i ricordi dell'infanzia che finiscono per travolgere la giovane donna come un fiume in piena: ecco quindi ripresentarsi gli anni della scuola, quando per la piccola Eleonora, così introversa e povera di sorrisi, era cosa semplice primeggiare nello studio ma troppo difficile farsi degli amici ed essere, secondo le pretese di sua madre, come tutti gli altri bambini; gli anni in cui le maggiori crudeltà provenivano da parte degli stessi coetanei e compagni di scuola; ma soprattutto l'anno nel quale era esplosa la bomba, pronta a spezzare impietosamente legami di sangue e d'amicizia lasciando nell'anima ferite insanabili. E poi, dopo tanto soffrire, quando il tempo iniziava a portare lontano e a dare qualche sicurezza, ecco l'amore a regalare un po' di serenità e a strappare qualche sorriso in più, ma che, seppur profondo, veniva inevitabilmente messo a dura prova, come spesso accade, da incomprensioni e da una certa apatica rassegnazione alla vita quotidiana che fa sbiadire la poesia dei sentimenti.
Una vicenda narrata con particolare maestria e grande sensibilità dalla penna dell'autrice, nonché caratterizzata da una prosa ben curata che offre una piacevole lettura scorrevole e un'ottima introspezione psicologica dei personaggi. Originali, e suggestivi, i riferimenti al sistema solare e ai pianeti come incipit di ogni capitolo.
Un viaggio nella memoria fin nel cuore di una storia colma di dolore, non però avara di speranza poiché la vita, chissà perché, congiunzioni astrali o meno, riesce sempre a sorprenderci nei momenti più impensabili donandoci un nuovo inizio e una seconda possibilità di cui far tesoro.
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Bambola sì, ma non troppo
Un testo teatrale molto interessante, questo del norvegese Henrik Ibsen, considerato sin dalla fine dell'Ottocento – la sua pubblicazione risale ormai al lontano 1879 – a favore della causa femminista.
In realtà, Nora Helmer, protagonista dell'opera, nonché rispettabile signora di buona famiglia borghese, non sembra affannarsi troppo dietro aspirazioni da donna emancipata e padrona di se stessa, come ha messo in luce la critica più autorevole. Già dalle prime battute, l'immagine che di lei si percepisce è quella di una persona particolarmente preoccupata (e in un certo qual modo ossessionata) per il lusso e il sempre apprezzato vil denaro, una moglie che esulta per l'imminente prospettiva di ben più cospicui guadagni da parte del marito, fresco di nomina di direttore di banca, facendosene addirittura vanto con chi conosce.
“Già a capodanno entrerà nella Banca e avrà un lauto stipendio. Da oggi possiamo vivere molto diversamente... proprio come vogliamo. Cara Kristine, come mi sento felice! È davvero una gran bella cosa avere molti quattrini ed essere senza preoccupazioni.”
A prima vista, una signora alquanto frivola e insulsa che non lascia di sé un'impressione positiva per buona parte dell'opera, così come insulsa, in verità, appare anche la figura del consorte, Torvald, che, con tutta evidenza, non le risparmia un trattamento da giocattolino sensuale e mero oggetto di proprietà consacrato dalla sacra morale del matrimonio borghese né vezzeggiativi (“lodoletta”, “scoiattolo” e altri di gusto discutibile) che la dicono lunga sulla sua considerazione del quoziente intellettivo di una moglie che – parole sue – “consuma mucchi di quattrini”. Pian piano, tuttavia, viene a galla l'illecito di cui la rispettabile signora si è macchiata e, soprattutto, il motivo a cui è imputabile tanta sventatezza. E allora s'inizia a intuire che la stessa donnetta frivola e insulsa è pronta a rischiare per il marito molto più di quanto quest'ultimo, preoccupato soltanto di salvare la faccia e la propria miserabile rispettabilità, sia disposto a fare per lei come si scoprirà tristemente alla fine.
Ma è nelle ultimissime pagine che Nora si riscatta pienamente agli occhi del lettore, trasformandosi da bambola, ruolo che in fondo non le era poi così dispiaciuto interpretare, in “creatura umana” pensante e riversando pacatamente su un sempre più inebetito Torvald discorsi più esplosivi di una bomba.
Torvald: Lasciare la tua casa, tuo marito e i tuoi figli! Pensa: che cosa dirà la gente?
Nora: Questo non può riguardarmi. So soltanto che per me è necessario.
Torvald: È rivoltante. Così ti sottrai ai tuoi doveri più sacri?
Nora: Quali sarebbero secondo te i miei doveri più sacri?
Torvald: Devo dirtelo io? Non sono i doveri verso tuo marito e verso le tue creature?
Nora: Ho altri doveri che sono altrettanto sacri.
Torvald: Non è vero. Che doveri potrebbero essere?
Nora: I doveri verso me stessa.
Torvald: In primo luogo sei moglie e madre.
Nora: Non lo credo più. Credo d'essere prima di tutto una creatura umana al pari di te... o almeno voglio tentare di diventarlo. So bene, Torvald, che il mondo darà ragione a te e che qualcosa di simile si legge nei libri. Ma ciò che dice il mondo e ciò che si legge nei libri non può più essere norma per me. Io stessa devo riflettere per vederci chiaro nelle cose.
Torvald: Possibile che tu non ci veda chiaro nella tua posizione, nella tua famiglia? Non hai in queste cose una guida infallibile? Non hai la religione?
Nora: Oh, Torvald, non so neanche esattamente che cosa sia la religione.
La signora Helmer, infine, rinuncia alla sua casa di bambola, dove lascia una fittizia felicità coniugale, marito e figli piccoli, poiché colui che riteneva il proprio compagno di vita, e invece non è altro che un estraneo, alla prova dei fatti non si dimostra abbastanza uomo, abbastanza protettivo, abbastanza rassicurante né, ancor meno, si offe d'immolarsi per lei.
Non importa se Nora non incarna il femminismo che, a torto, si è visto in questa importante pagina del teatro ibseniano; è comunque una donna che dà prova di coraggio, coerenza, dignità e questo è sufficiente a consacrarla al pantheon dei personaggi più emblematici e degni di ricordo della grande letteratura senza tempo.
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L’amaro sapore della vita
È l’America rurale delle fattorie isolate e degli sperduti villaggi lontani dai rumori assordanti delle grandi città, l’America dei boschi magicamente rischiarati dalla luce dei falò e degli affascinanti laghi ghiacciati, delle stazioni di servizio e delle strade polverose dove corrono stancamente i pick-up e la malinconia delle vecchie canzoni country, quella ritratta con assoluta maestria in questa bellissima raccolta di Nickolas Butler.
Al suo interno, dieci racconti, dieci piccole storie che trasudano una umanità tormentata e disillusa, spesso smarrita, talvolta rabbiosa e violenta, ma anche desiderosa d’amore o, almeno, di un sogno o un ideale in cui credere.
Una scrittura incisiva, semplice e priva di fronzoli, a tratti essenziale e ruvida quanto le stesse storie narrate, ma non meno magnetica e coinvolgente, fin da subito trasporta chi legge nel vivo di vicende intense e struggenti che la penna dell’autore statunitense riesce a esporre con poche sapienti pennellate. Se scrivere racconti è un arte rara e preziosa non comune a tutti, allora Butler è un vero artista poiché, in uno spazio pur sempre limitato anche nel caso dei testi più lunghi, dimostra di saper concentrare un tale intreccio di sentimenti ed emozioni da non far rimpiangere affatto il più ampio respiro tipico del romanzo.
Forse, come ha scritto Le Monde recensendo il libro, “ogni racconto di questa raccolta riesce a imprimersi nell’anima del lettore come un pezzo della sua esistenza”; di certo, in molti di essi si possono ritrovare frammenti di sé, delle proprie inquietudini, paure, speranze. Tra le storie più belle che meritano di essere citate, “Acqua piovana”, “Sotto il falò”, che ha dato il titolo all’intera raccolta, “Petrolio dolce”, capace tra l’altro di somministrare una dose di suspense non di poco conto, “Nelle contee occidentali” e “La gente dei treni va piano”, tutte dal finale che rimane amaramente aperto e con personaggi spesso scandagliati nel profondo; le ultime tre, in particolare, per trama e stile narrativo, sono meritevoli come minimo di cinque stelle ciascuna, piccoli capolavori che parlano di donne e uomini in cerca di giustizia, sia pure sommaria, o semplicemente di una strada da seguire.
Nativo della Pennsylvania e cresciuto nel Wisconsin, Nickolas Butler è un scrittore vincitore di prestigiosi premi nel suo Paese e ora molto apprezzato anche in Europa. In Italia, la casa editrice Marsilio ha già pubblicato “Shotgun Lovesongs” (2014) e “Il cuore degli uomini” (2017), a cui adesso si aggiunge questa nuova pubblicazione che, considerando l’alta qualità del contenuto, non tarderà – è ipotizzabile – a ottenere significativi riconoscimenti di critica e pubblico.
“Rimasero sedute insieme nel vento, i capelli coprivano i loro volti. Le imbarcazioni da carico sul lago si muovevano piano formando delle creste bianche che si infrangevano contro i moli e le scogliere.
Sopra di loro, silos per il grano ormai abbandonati si stagliavano nel cielo blu e uno stormo di piccioni si muovevano in cerchio. Videro un cane a tre zampe trotterellare in mezzo a una distesa di camioncini arrugginiti, il naso nero ad annusare nell’aria la brezza d’acqua dolce.”
(Dal racconto “Nelle contee occidentali”)
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“Il tiranno si nutre di ciò che biasima.” (IV. II.
L'inflessibile severità di un vicario caduto ipocritamente nello stesso “crimine” che si propone di punire; la testa ormai in bilico di un giovane condannato a morte per amore libero testimoniato dal ventre gravido della fidanzata; una lotta senza quartiere contro ruffiane e frequentatori di bordelli; l'onore di una novizia a rischio al fine di salvare la testa del fratello dalla scure del boia; la lungimirante astuzia e il buon senso di un capo di stato travestito da frate...
Sono questi i principali ingredienti di “Misura per misura”, assai divertente opera dei primi del XVII secolo con risvolti squisitamente da commedia, sebbene essa venga annoverata fra i drammi della vasta produzione shakespeariana. Avrebbe potuto benissimo recare anche il titolo “Tutto è bene quel che finisce bene”, rubandolo a un altro bel lavoro del Bardo, tanto viene spontaneo così commentare al termine di questo “dramma” ricco di gustosi guizzi e colpi di scena che contribuiscono a tenere piacevolmente deste l'attenzione e la curiosità di chi legge.
Giustizia per tutti e magnanima remissione dei peccati, anche per chi avrebbe meritato di essere giudicato (e giustiziato) sulla base dello stesso metro che riservava agli altri, inducono a plaudere all'autentico genio di Shakespeare che, attraverso l'ingegno di un personaggio come quello del Duca di Vienna, ribalta una situazione paradossale in cui, alla fin fine, tutti salvano qualcosa (chi la testa, chi l'onore) senza restare nel contempo nemmeno a mani vuote; persino chi era destinata al convento finisce per non farvi più ritorno rimorchiando inaspettatamente un marito (e che marito!) e i galeotti impenitenti trovano perdono e possibilità di vita nuova.
Non avrà certo il tenebroso ed enigmatico fascino di “Amleto” né quello romantico di “Romeo e Giulietta”, ma “Misura per misura” resta un piccolo capolavoro – e forse neanche tanto piccolo – dove, finalmente, non si disperdono copiose lacrime e dal profondo il cuore ringrazia perché, in verità, abbiamo tutti un disperato desiderio di umanità e buoni sentimenti.
“Chi vuole impugnare la spada del cielo,
dovrebb'essere non meno santo che severo;
fare di se stesso un esempio,
avere grazia per resistere e virtù per agire;
punire gli altri nella stessa misura
con cui valuta le proprie colpe.
Guai a lui, se i suoi colpi spietati uccidono
per delitti che egli stesso vagheggia!
[…]
Uomo, cosa non puoi nascondere
in te sotto apparenze angeliche?
Una buona reputazione costruita sul delitto
prospera nella prassi dei nostri tempi,
e la legge, tenue ragnatela, cattura i moscerini,
Ma i colpevoli di maggior peso la spaccano.”
[“Misura per misura”, III. I.]
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Rinascere da capo
Titolo ambiguo, “Cattiva”: lo è la madre, cattiva, con i propri pensieri disperati che urlano silenziosi, o la figlia, con i suoi pianti improvvisi senza apparente motivo? O forse lo sono in egual misura entrambe, ciascuna portatrice a suo modo, seppur a livello inconsapevole, di bisogni egoistici?
Attraverso una scrittura intima, inquieta, priva di edulcorazioni di sorta, a tratti anzi quasi sfrontata e coraggiosamente schietta, si anima la vicenda narrata nel nuovo romanzo di Rossella Milone, edito da Einaudi. Una piccola storia che si rivela grande come non può che esserlo ogni volta il miracolo della vita che si rinnova e si affaccia inerme e incosciente al mondo.
Una coppia di genitori, Emilia e Vincenzo, da un lato, una bimba di appena due mesi dall'altro. Con sensibilità e delicatezza tutte al femminile, viene posta al centro di queste pagine l'esperienza della maternità e, in particolare, la nascita del primo figlio, vera e propria rivoluzione nella vita di una donna che, per ovvi motivi, risulta sempre maggiormente coinvolta (e sconvolta) da un evento come questo rispetto a ciò che invece succede alla figura paterna. Un groviglio di sentimenti, emozioni, sensazioni, capitolo dopo capitolo, trova precise e intense descrizioni, mentre a poco a poco emerge il convincimento che nella cura della prole ci sia qualcosa di ancestrale, istintivo, addirittura “animalesco”; e allora non ci si stupisce neanche più pensando di essere una lupa o qualsiasi altra bestia di cui sopravvive appunto l'istinto nella parte più recondita delle nostre cellule. Del resto, come l'autrice ben sottolinea, non vi è niente di razionale nei primi mesi di vita di un bambino, semmai è tutto molto illogico, imprevedibile, profondamente materico e corporeo.
“E allora mi chino su di lei, le accarezzo la fronte, le ficco la mia gola sul viso, una preda che si arrende e mostra la giugulare. Voglio che qualche parte di me che non conosco – i pori, il modo unico in cui si compongono le mie particelle invisibili di acqua e urea – sappia cosa si fa, sappia come calmarla, darle la sicurezza che pretende. Io non lo so. Ci sarà qualche parte dentro di me che ancora tiene le pinne, o la coda, che ancora tiene il sangue freddo dei rettili da cui provengo, che ancora si ricorda come si fa a tenere a bada un cucciolo che frigna, […] quella parte di me che sta assopita nel mio tempo perduto, sepolta come un fossile – saprà come si fa?”
La linearità della storia s'intreccia a ricorrenti e ampi flashback che ripercorrono talvolta l'infanzia, talaltra episodi dell'età adulta della protagonista, mentre il ricordo delle varie fasi del parto si snoda in parallelo con il proprio carico di ansia e dolore. Facendo ricorso a un io narrante davvero emozionante e coinvolgente, la penna della Milone ci consegna il ritratto di una giovane donna che cammina lungo il non facile percorso da seguire per diventare madre, pericolosamente in bilico tra feroci notti insonni e voglia di normalità, tra timore di allontanarsi troppo dalla propria figlia e inconfessabile desiderio di fuggire; su tutto, pesanti come macigni, incombono un senso di inadeguatezza ad affrontare la nuova situazione postnatale e quello di solitudine che sfocia spesso violento nelle forzate veglie notturne e permea fin da subito anche la vita di chi nasce.
“Quando uno nasce, nasce per sé, ed è in quel momento lì che l'individuo mette al mondo la propria solitudine: quando nasci, quando muori, il resto non conta, ché la fatica di nascere e di morire è la fatica di contenere tutto quello che c'è al centro, e gli altri non possono fare nulla, in quegli attimi fortissimi tutto quello che ti rimane è quello che sei.”
“I pescatori rimangono. Il mare rimane. C'è un pezzo di città che sta sveglio con me. A sentirmi meno sola non mi sento, la notte ha un suono troppo robusto, quasi ingombrante, ché anche se stiamo svegli – io e quegli uomini – ciò che condividiamo non è la veglia, ma una specie di isolamento.”
Particolarmente suggestive le immagini di Napoli e della sua costa in versione notturna, quella città di mare dove “[...] il sonno, si è perso nei vicoli strettissimi” e sulla quale aleggia sempre la presenza rassicurante del suo vulcano. Un bel romanzo originale incentrato sull'estrema fragilità femminile in un momento certamente unico e speciale nella vita di ogni donna, ma non per questo privo di sofferenza e sentimenti contrastanti che finiscono per provare psiche e corpo. Pagine che parlano dell'immensità di quell'amore che fa sì, quando viene al mondo una nuova vita, che chi è madre rinasca per buona parte una seconda volta.
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Incontri inaspettati
Una Torino grigia e immalinconita dall’inverno fa da sfondo alla vicenda narrata in questo breve romanzo di Giovanni Arpino. Un impiegato quarantenne e una novizia di vent’anni s’incontrano ogni sera, da tempo, alla fermata del tram; i due si cercano pur in assenza di parole e quando la scena degli incontri si sposta dalla strada al pianerottolo al quarto piano di un condominio – e lì sì che le parole diventeranno tante – finiscono per emergere del tutto due solitudini inquiete che si chiedono aiuto a vicenda al fine di salvare le rispettive esistenze destinate altrimenti a concludersi molto diversamente.
Pubblicato sul finire degli anni Cinquanta, “La suora giovane” è un testo, scritto pressoché sotto forma di diario, che fotografa piccoli scenari di quel decennio divisi tra città e provincia. Molto ben caratterizzato il protagonista maschile, Antonio, “quel niente travestito da uomo ammodo” che si porta dietro un eterno senso di infelicità e indecisione che gli corrode l’anima, mentre lei, Serena, la novizia prossima ai voti, colpisce fin da subito per la lucida iniziativa che, inseguendo semplici sogni di ragazza, condurrà a un finale inaspettato. Particolarmente suggestivi gli scenari di Piazza Vittorio Veneto, della Gran Madre e del Po, sapientemente ritratti tra queste pagine nelle loro atmosfere notturne.
Davvero una bella scoperta Giovanni Arpino, prolifico e poliedrico autore del Novecento e vincitore del Premio Strega nel ’64. Indubbiamente da approfondire.
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Terre promesse… mancate
È sempre bella la prosa di Milena Agus, così impregnata di malinconia e incanto. Anche stavolta si riconferma la piacevolezza della lettura, ma purtroppo essa non si accorda con quella della storia raccontata in questo nuovo romanzo non all’altezza, a mio parere, di precedenti suoi lavori, primi fra tutti “Mentre dorme il pescecane” e “Mal di pietre”.
Eppure quella della terra promessa sarebbe stata un’idea più che valida da sviluppare, così come il collaudato intersecarsi di Sardegna e continente, in un girotondo continuo di speranze e illusioni, si rivela, come pure in altri scritti, una carta letteraria vincente.
“Ma la verità è che nessuna terra promessa è all’altezza della sua fama”: si presenta immancabilmente uno scontento di fondo, un senso di non appagamento infine devastante, nonostante il fermo desiderio di lasciare la propria terra e le aspettative riposte insieme ai sogni nella nuova destinazione qualunque essa sia (l’Isola, il Continente, un altro continente, un nuova città…). Troviamo sempre quel che cerchiamo nell’odissea del nostro andare? Quasi mai, e ciò viene messo ben in luce dall’autrice. Molto promettente la prima parte del romanzo, decisamente più affrettata e un po’confusionaria la seconda, dove il susseguirsi dei personaggi ha qualcosa di discontinuo che non convince pienamente, anche se quello di Felicita, con la sua riflessiva felicità senza l’accento, colpisce piacevolmente.
Nel complesso, una lettura non certo imprescindibile nell’ambito della interessante produzione della Agus, ma che regala, ancora una volta, una bella scrittura e una manciata di sogni e riflessioni che, in fin dei conti, non guastano mai.
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La fine dell'infanzia
Stefan Zweig, di cui avevo già letto e apprezzato “Paura”, si conferma per me il sorprendente narratore che, in un limitato numero di pagine, riesce a concentrare una vicenda ricca di colpi di scena e stati d’animo in subbuglio.
È molto abile, l’autore austriaco, nel descrivere la psicologia dei suoi personaggi: Edgar, il giovanissimo protagonista di questo racconto, nel giro di pochi giorni, vivrà il passaggio dall’infanzia all’adolescenza attraverso l’improvviso intrecciarsi di sentimenti contrastanti a seguito di un flirt tra sua madre e un giovane rampante barone avvezzo alle facili avventure amorose. Tra curiosità, rabbia, sgomento e persino odio, prende forma quel “segreto” sfuggente alla piena comprensione del ragazzino, come una sorta di trauma che sentenzierà per lui la fine senz’appello dell’età spensierata dei giochi.
Incredibilmente, sono sufficienti a Zweig poche sapienti spennellate di parole per amalgamare interiorità e paesaggi: “Le ruote giravano sempre più in fretta, le serpentine facevano scendere a valle il treno, sempre più dolci apparivano le montagne, sempre più lontane […]. Ancora una volta si girò a guardarle, ed erano azzurre e indistinte, remote e irraggiungibili, e gli sembrava che là, dove lentamente svanivano nella foschia del cielo, stesse la sua infanzia.”
Una storia che, nonostante un inizio forse apparentemente monotono e privo di grandi significati, a un certo punto finisce per acquisire via via toni sempre più concitati sino alle battute conclusive, quando il “bruciante segreto” diverrà silenzioso patto di riconciliazione fra madre e figlio.
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Quando fare i maccheroni era un’arte
Una prosa delicata e arguta, intrisa di indubbia poesia e del fascino tipico dei racconti senza tempo, narra una piccola grande storia del Sud: una storia di lavoro e fatiche, di dignità e coraggio, nonché di tenace e ammirevole imprenditorialità.
Sullo sfondo, la grande Storia, quella che, abbracciando pressoché un secolo di vicende travagliate, ci fa intravedere l’ultimo sovrano borbonico del Regno delle Due Sicilie e Garibaldi, così come ci mostra, attraverso gli occhi di quei luoghi, la tanto discussa unità d’Italia portata a suon di cannonate e, pertanto, più subita che voluta da quelle parti, fino ad arrivare all’inizio del secondo conflitto mondiale.
Romanzo straordinario e sorprendente, “Francesca e Nunziata” vede per protagonista una famiglia di pastai che dalla costiera di Amalfi si sposta verso la zona di Napoli, per mettere salde radici alle falde del Vesuvio. È un racconto appassionato e appassionante di un’epoca e di una terra dove l’arte di fare la pasta non aveva eguali altrove, almeno fino all’avvento prepotente della moderna produzione industriale. Tra fusilli, orecchiette e altre specialità che, già a fine Ottocento, dalle assolate coste campane prendevano il largo alla volta dell’America, e che non tardarono ad apprezzare nemmeno gli stessi invasori piemontesi, si stagliano luminosi i paesaggi profumati di mare e vallate vegliati dal sommo Vulcano dai cui fianchi, “su memorie di lava, scendevano impeti di ginestre”.
Contraddistinta da una forte personalità, la figura di Francesca è quella di una donna imprenditrice come poche, eccezionale considerando il periodo storico nel quale opera, sicura di sé e irriducibilmente chiusa nel proprio ostinato rifiuto della legittimità del re piemontese; nel lavoro, seguirà le sue orme la figlia adottiva Nunziata che, seppure dal carattere più dolce e apparentemente remissivo, si distinguerà ben presto per idee e aspirazioni non meno determinate, come quando, giovanissima e prossima alle nozze, se ne uscì prontamente con un “Voglio due ‘ngegni per fare i maccheroni” non appena la madre le aveva proposto invece costosi gioielli in regalo. Intorno a loro, dall’infanzia di donna Francesca ancor prima di quel fatidico 1860-’61 fino alla morte di Nunziata nell’anno fascista 1940, una selva di personaggi tratteggiati ad arte: il nonno Giuseppe, che da semplice mugnaio, aiutato dalla miriade di figlie e nipoti che aveva in casa, diede avvio a una produzione artigianale di successo, lo scapestrato don Giordano, il giovane e idealista Federico, l’insostituibile e sempre indaffarata Mariuccia, soltanto per citarne alcuni tra i tanti che animano queste pagine intense che si lasciano gustare proprio come un bel piatto fumante di pasta condito con sole e aromi mediterranei.
Sebbene sia stato tra i romanzi finalisti al Premio Strega del 1995 e abbia avuto a suo tempo numerose traduzioni all’estero, oggi “Francesca e Nunziata” di Maria Orsini Natale, autrice di Torre Annunziata scomparsa meno di dieci anni fa, ha tutta l’aria di essere un’opera non particolarmente conosciuta. Un’opera, tuttavia, in odore di capolavoro!
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Islam tra Italia e Marocco
Ambientato tra Italia e Marocco, questo bel romanzo tocca non solo temi come l’emigrazione e l’estremismo religioso, ma anche l’amore e la solitudine dell’anima.
L’autore, Younis Tawfik, è uno scrittore e traduttore di origine irachena naturalizzato italiano e trasferitosi a Torino alla fine degli anni Settanta, nonché docente universitario e collaboratore di alcuni importanti quotidiani nazionali. Chi meglio di un immigrato (non so se, per di più, per motivi politici), può raccontare appunto l’esperienza dell’emigrazione in Italia e il non sempre facile adattamento alla realtà, anzitutto linguistica e culturale, del Paese di accoglienza? Mi è piaciuta molto, infatti, tutta l’impostazione della storia narrata, la cui protagonista è la giovane marocchina Karima che, sposando un italiano, lascia la propria terra, una forte delusione sentimentale e un passato di violenze in famiglia. Ma anche in Italia, trascorso l’idillio matrimoniale dei primi tempi, la vita per lei, preda di struggente nostalgia e vittima di facili pregiudizi in quanto musulmana (seppur senza velo e piuttosto laica), sarà tutt’altro che facile. Dario, suo marito, che si era convertito per pura formalità all’Islam soltanto per poterla sposare, finisce, paradossalmente, per accostarsi ad ambienti pericolosi e fanatici che, tra discutibili interpretazioni del dettato coranico e del concetto di jihad e veri e propri lavaggi del cervello, lo condurranno sulla strada senza ritorno del terrorismo. Il finale, naturalmente, non potrà essere lieto, ma non verrà comunque meno una piccola luce di speranza.
Con una prosa fluida e coinvolgente, e a tratti ricca di quella inconfondibile poesia araba, Younis Tawfik scrive una storia di grande profondità e anche molto dura sotto certi aspetti, senza abbandonarsi a scontati luoghi comuni né esasperare in modo ossessivo il sesso, come invece ho notato tende a fare talvolta (forse per meri interessi commerciali?) qualche penna femminile dal Golfo al Maghreb. Tra queste pagine, inoltre, ho trovato moltissimo del Marocco che conosco (luoghi, atmosfere, condizioni socio-economiche, mentalità, ipocrisie, addirittura sfumature di tramonti struggenti) e, con mia grande sorpresa, persino riferimenti letterari e musicali attuali.
Si mette molto ben in luce, oltretutto, qualcosa che ho notato da tempo e che concerne l’atteggiamento di numerosi convertiti italiani all’Islam: per ironia della sorte, spesso – faccio un discorso generalizzato, ma esistono ovviamente le eccezioni – questi diventano più intransigenti e tutt’altro che di larghe vedute rispetto a coloro che invece nascono in famiglie e stati musulmani! La cronaca è piena di esempi del genere; so addirittura di uomini, italiani, che una volta convertiti iniziano a farsi sostenitori all’improvviso di una rigida separazione tra i sessi rifiutandosi, per esempio, di stringere la mano a una donna, cosa che, sulla base della mia esperienza personale, tende a verificarsi sempre meno e in ben pochi casi persino negli stessi Paesi islamici. Tutto ciò, come si evidenzia pure nel romanzo, è indice di un Islam esasperato e manipolato da predicatori improvvisati animati da logiche e interessi sovversivi che danneggiano in primo luogo gli stessi musulmani. Insomma, nel complesso, importanti temi d’attualità ben inseriti all’interno di un’opera di narrativa. Per quel che mi riguarda, autore promosso e da approfondire!
“La solitudine come una nube oscura avvolge i cuori e rende le persone diverse, nervose, estranee nel loro pellegrinaggio notturno attorno al tempio dei ricordi, nella loro danza silenziosa dentro l’infinita distesa della nostalgia. La solitudine uccide. Prosciuga le radici dell’anima, rende la mente secca come un albero abbandonato dal vento nel cuore del deserto.”
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I mondi di Allah tra quotidianità e rivoluzioni
Splendido volume fotografico in bianco e nero di Abbas Attar, corredato del diario scritto tra il 1978-1980 e i primi anni Novanta durante il suo viaggio alla ricerca degli Islam del mondo. Nome di spicco della prestigiosa Agenzia Magnum (quella fondata, tra gli altri, da Robert Capa e Henri Cartier-Bresson), Abbas è un fotoreporter iraniano trasferitosi in Occidente. Guerre e rivoluzioni, ma anche religioni e spiritualità sono le protagoniste privilegiate dei suoi scatti che, a partire dagli anni Settanta, hanno riempito le pagine di riviste e giornali internazionali.
Il titolo del libro, in questo caso, non poteva essere più appropriato e significativo (mentre quello dell’edizione originale era semplicemente “Allah o Akbar”): dalle antiche città-oasi dello Xinjiang nella Repubblica Popolare Cinese agli ombrosi vicoli delle medine e alle affollate spiagge atlantiche del Marocco, dalle periferie delle città industriali britanniche alle sabbiose rotte carovaniere che conducono a Timbuctù nel Mali, senza tralasciare le latitudini americane, si tratta per davvero di un viaggio nel cuore degli Islam del mondo. Già, perché non esiste l’Islam unico e univoco, se non a livello puramente teorico e forse neanche a quello, monotono e monocorde; esistono semmai tanti Islam almeno quanti sono i Paesi in cui si professa questa complessa cultura monoteistica dalle molte anime.
Un viaggio intenso, appassionato e appassionante che prende avvio tra le strade di Teheran durante e dopo la rivoluzione tradita, per concludersi al cospetto degli sconfinati cimiteri improvvisati di Sarajevo, cuore musulmano d’Europa straziato tanto dal genocidio serbo quanto dall’ipocrisia occidentale. Un viaggio nel quale l’obiettivo del fotografo ha saputo cogliere tolleranza e fanatismo, delusione e speranza, rabbia e dolore, vita e morte e tutte le infinite sfumature e contraddizioni dei luoghi dove cinque volte al giorno risuona, ora armonico ora invece stridulo, il canto del muezzìn.
Pagine palpitanti di Storia e storie che mi hanno profondamente rapita, ricordandomi infine che non c’è niente di meglio che viaggiare per poter conoscere, nonché per allargare i propri orizzonti, sempre tanto ristretti, purtroppo, da paure e pregiudizi.
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Iran
“Soltanto la conoscenza ci dà modo di estendere il nostro amore oltre i confini del noto e per conoscere è necessario saper ascoltare.”
Un bellissimo libro, scoperto per caso mentre curiosavo tra gli scaffali della biblioteca, nella sezione dedicata alla geografia e alle letture di viaggio! E infatti questo della spagnola Ana María Briongos è un libro che racconta un’esperienza di viaggio e soggiorno in un luogo per i più insolito, l’Iran, che in genere si conosce soltanto per l’oscurantismo dei suoi ayatollah col turbante alla Khomeyni, il nero del chador imposto alle donne e le forche penzolanti dalle gru a cui si rischia di essere appesi anche solo per omosessualità.
Ebbene, dimentichiamo per un attimo tutto questo, così come le folle urlanti dei fondamentalisti ostili all’Occidente e all’America in particolare, e lasciamoci guidare alla scoperta di un Paese davvero sorprendente e affascinante! Finora le tavole della fumettista Marjane Satrapi mi sono state utili, ma non esaustive per conoscere più nel profondo ciò che è oggi l’antica terra di Persia. Il viaggio della Briongos, la quale oltretutto studiò all’università di Teheran già prima della Rivoluzione del ’79, ci conduce di preciso a Isfahan, splendente città dell’Iran centrale, ricca di cupole turchesi, maioliche, arabeschi, viali alberati e giardini incantevoli; laggiù l’autrice fu ospite per qualche tempo di una famiglia locale, vivendo tra loro e come loro, frequentando luoghi pubblici e privati, allacciando legami di reciproco rispetto e amicizia. Naturalmente, l’ottima conoscenza della lingua del posto l’avvantaggiò moltissimo nell’indagare a fondo la società iraniana, cordiale e accogliente.
Il luogo dove lei trascorreva spesso gran parte delle sue giornate era il bazar cittadino e, all’interno di esso, quella che chiama “la caverna di Alì Babà”: un negozio di tappeti – montagne di tappeti rigorosamente e autenticamente persiani! – in cui lavora un team tutto al maschile e dove ogni giorno, transitandovi turisti e viaggiatori, s’incontrano lingue e culture diverse che finiscono sempre per ritrovarsi attorno a una tazza fumante di tè. Tante le storie legate al bazar che incuriosiscono il lettore, così come affascinano le descrizioni dei luoghi di Isfahan, prima fra tutti l’immensa piazza Naqsh-e-Jahan (letteralmente, “lo specchio del mondo”). Mi sono talmente appassionata a queste pagine da procurarmi una guida aggiornata Lonely Planet dell’Iran che ho consultato abbondantemente, scoprendo, grazie alle due letture incrociate, molte curiosità, come ad esempio il fatto (in verità, alquanto sconcertante dal punto di vista occidentale) che lì non è abitudine nazionale utilizzare la carta igienica… Persino i grandi alberghi sembrano essere restii a concederla ai propri clienti. Quindi, nel caso un giorno si decidesse di organizzare una vacanza in Iran, bisognerebbe ricordarsi di metterne in valigia qualche rotolo!
Battute a parte (e qualcuno che di recente ha visitato l'Iran mi ha assicurato che adesso la carta igienica si reperisce in loco con più facilità!), la Briongos non nasconde il suo grande amore verso questo Paese musulmano sciita e il suo popolo, ma ciò non le impedisce di puntare il dito contro le troppe cose che ancora non vanno a causa del regime teocratico e le infinite contraddizioni della società, costretta a piazzare di nascosto antenne paraboliche e a organizzare, altrettanto segretamente, feste tra ragazze e ragazzi abbigliati all’occidentale. Dall’epoca terrificante di Khomeyni molto è cambiato, in meglio per fortuna, tuttavia la strada delle riforme è ancora lunga e spesso ostruita da limitazioni in mezzo a cui la gente è stanca di vivere.
Un’ultima osservazione: dal momento che non conosco il farsi, avrei gradito un glossario ben più ricco di quello inserito alla fine del libro, anche se questo finisce per essere un difetto di poco conto di fronte al contenuto tanto interessante del testo. Chissà, potrebbe essere l’occasione per documentarmi un po’ e imparare qualcosa della lingua persiana, che si trascrive con le lettere dell’alfabeto arabo e, come ho già riscontrato, proprio dall’arabo ha preso numerose parole: è bello quando i libri suscitano curiosità e regalano nuovi interessi!
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Conoscenza e incontro possibili
“O gente, in verità noi v’abbiamo creato da un maschio e da una femmina e abbiamo fatto di voi popoli vari e tribù a che vi conosceste a vicenda […].” (Corano, 49:13)
Una bella domanda, quella posta fin dal sottotitolo in questo libro che parla d’Islam e dei suoi rapporti, nel corso dei secoli, con la Cristianità e l’Occidente in generale: un incontro possibile?
Rapporti che in passato non si sono limitati soltanto a crociate, guerre a vario titolo e incursioni corsare, ma hanno anche visto, complice quel “continente fluido” chiamato Mediterraneo, scambi diplomatici e commerciali e vivace curiosità culturale da ambo le parti.
Nonostante la sua pubblicazione risalga ormai a più di vent’anni fa, “Noi e l’Islam” di Franco Cardini si rivela, considerando l’argomento trattato, un testo di forte e spinosa attualità. Attraverso un lungo excursus storico a partire da Ismaele figlio di Agar, la schiava egiziana di Sara e Abramo (gli arabi, infatti, affondano le proprie radici nel medesimo biblico patriarca degli ebrei), l’autore ci conduce alla scoperta appunto della storia di questa cultura monoteistica perché, come ben si sottolinea, dalla conoscenza non possono prescindere un serio confronto e un dialogo costruttivo oggi più che mai auspicabili.
E così, con una certa meraviglia, si scopre che già al Medioevo risale la prima traduzione latina del Corano, seppur lacunosa e non troppo affidabile; che per iniziativa domenicana e francescana ebbero inizio gli “Studia Arabica” e che, all’epoca, diversi viaggiatori musulmani si spostavano in Europa. Per non parlare degli ammiccamenti da parte delle potenze europee – e qui ci si stupisce un po’ meno – in direzione di Istanbul ai danni di Stati nemici, sia pure europei e cristiani, allorché la supremazia turca soppiantò definitivamente quella araba in ambito islamico. In definitiva, un incontro (e non solo scontro) tra noi e loro c’è già stato e il luogo dove esso si è realizzato al meglio fu al-Andalus, la Spagna degli emirati arabo-berberi dove musulmani, ebrei e cristiani avevano imparato a convivere senza particolari problemi raggiungendo un livello di civiltà avanzatissimo sotto innumerevoli aspetti (a differenza di quanto avvenne dopo con l’intolleranza della Reconquista cattolica). Ma, se ci pensiamo bene, persino all’interno dei confini dell’impero ottomano, società cosmopolita e multiconfessionale di allora, le cose non andavano diversamente, almeno prima delle aberrazioni che vi si verificarono ormai al suo tramonto, poiché le minoranze religiose avevano diritto alla protezione statale e a vivere secondo i dettami della propria fede.
Anche se non ricorre nella trattazione di Cardini, mi piace citare il versetto coranico che ho riportato sopra: la migliore confutazione, a mio avviso, dei deliri degli odierni estremisti cosiddetti islamici che, spesso, del loro libro sacro hanno letto soltanto sintesi e interpretazioni discutibili pubblicate su internet.
Riporto, infine, la significativa risposta dello stesso Cardini alla sua domanda posta all’inizio in merito alla possibilità di incontro tra il nostro mondo e quello islamico:
“Lontana dalla logica dello scontro frontale e da quella della concordia basata sul reciproco ignorarsi […], quella dell’incontro e del confronto pare suscettibile di dar i risultati migliori; a patto di ricordarsi (e questo sfugge alla maggior parte dei musulmani) che cristianesimo e modernità non coincidono […]. Ai cristiani, ai musulmani e ai laici di buona volontà la storia fornisce il modello di tempi nei quali la convivenza era non solo possibile, ma franca e cordiale: dall’impero mongolo alla Spagna due-quattrocentesca al sultanato moghul di al-Akbar in India. Ma i modelli storici restano lettera morta, se non si afferma la volontà di seguirne i suggerimenti, di far vivere il seme che essi hanno piantato affinché fruttificasse nel futuro. Per il mondo musulmano, resta valido quel che ha scritto qualche anno fa l’egiziano Fouad Zakaria: « L’Islam sarà ciò che ne faranno i musulmani». Ma anche il mondo cristiano, l’Europa, il futuro saranno ciò che noi sapremo farne.”
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Semplicistico
Non mi è piaciuto e l’aggiunta della quasi terza stella è dovuta soltanto alla qualità della scrittura e all’idea di fondo da cui prende le mosse questa improbabile storia: la dichiarazione da parte dell’attuale sommo pontefice in persona, nel tradizionale discorso urbi et orbi in occasione della Pasqua, secondo cui “Dio non esiste”. Ecco, dunque, le tre parole che cambiano il mondo (o, meglio, dovrebbero cambiarlo), dal momento che, seppur pronunciate da una delle più alte autorità della cristianità, finiscono per coinvolgere anche gli ebrei, i musulmani e persino gli atei.
Peccato, questa novantina di pagine di piccolo formato avrebbe potuto raccontare il tutto diversamente; secondo me, pensare che i mali del mondo possano aver fine eliminando ogni religione e, di conseguenza, l’idea stessa di Dio (attraverso poi una specie di pozione fatta ingerire subdolamente a livello planetario) è semplicemente semplicistico! Il bisogno di spiritualità farà sempre parte della natura umana, piaccia o meno, e ciò ha prodotto anche buone cose.
È vero che in nome di Dio l’umanità si è scannata (e continua a farlo) abbandonandosi alle peggiori atrocità, ma dietro il pretesto della religione si nascondono in realtà altre motivazioni, anzitutto economiche. Per esempio, quando l’autore afferma che, senza più la nefasta influenza delle distinte fedi, si risolverà finalmente la questione israelo-palestinese, mi sono fatta due amare risate: come se finora, in Terra Santa, ebrei e arabi si fossero ammazzati tra loro per erigere sinagoghe o moschee! Laggiù, il problema è la terra, lo spazio vitale da cui si genera economia e quindi denaro, altro che religione! Le guerre vengono sempre scatenate per forti interessi economici, e qualcuno, non a caso, finisce per arricchirsi. I veri problemi del mondo, a mio avviso, si chiamano fame, mancanza di istruzione, corruzione, disuguaglianze, multinazionali che impoveriscono interi territori… Risolviamo questi e seminiamo giustizia. Che Dio esista o non esista poi sarà solo un piccolo dettaglio.
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- sì
- no
Il poeta alchimista
“… volevo far l’artista,/ e invece, senz’accorgermi, divenni un alchimista…”
In chimica, a scuola, ero un’autentica schiappa, giusto per usare un eufemismo. Non ci capivo un tubo, un’acca potrei anche dire; in verità, l’unica acca che comprendevo era quella della celebre formula dell’acqua (H2O), rimastami miracolosamente impressa, chissà per quale misteriosa simpatia e insondabile motivo, insieme al simbolo del sodio Na. Per il resto, ho rimosso tutte le nozioni di cui, in fretta e furia prima della fine dell’anno scolastico, facevo disperata indigestione soltanto al fine di evitare la scocciatura di dover riparare la materia a settembre.
Peccato non essere stata a conoscenza, all’epoca, di questo spiritoso e brillante libro di chimica in versi; l’avrei volentieri affiancato al tedioso manuale su cui, manco a dirlo, inutilmente studiavo. Affermare che mi avrebbe fatto amare la disciplina in questione sarebbe senz’altro un azzardo, una mera utopia; tuttavia, avrei potuto forse apprenderne i rudimenti in modo meno tristo e gramo.
Curioso personaggio, questo Alberto Cavaliere (1897-1967, https://it.wikipedia.org/wiki/Alberto_Cavaliere). Studente di chimica all’Università di Roma nel primo dopoguerra, non era certo un appassionato della materia e, a seguito della solenne bocciatura a un esame, s’ingegnò a rendere meno pesante il destino che gli era toccato riportando in versi quanto doveva studiare (si veda la citazione sopra riportata). Ne sono nate perfette ed eleganti quartine rigorosamente in rima con cui il bravo giovine espose la tavola periodica degli elementi, la chimica organica e quella inorganica. Semplicemente geniale, a mio parere!
Una lettura consigliata tanto ai chimici eventualmente poco attratti dalla poesia, quanto ai poeti per nulla inclini a maneggiare alambicchi, provette e formule chimiche. Ma anche a ogni lettore mosso da semplice curiosità, come la sottoscritta, pur senza saper nulla sia di poesia che di chimica e senza pretendere di apprendere, soprattutto di quest’ultima, chissà cosa. Perché, come sentenzia lo stesso Cavaliere…
"Chi di chimica è digiuno,
di comprendermi non speri:
non è facile afferrare
questi organici misteri."
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Noir nuorese
Marcello Fois è un autore – peraltro mio conterraneo – di cui da tempo desideravo di leggere qualcosa di più corposo, dopo averne apprezzato alcuni brevi testi.
Tra le sue opere forse più note, “Dura madre” è un giallo/noir ambientato a Nuoro, città che, sebbene rimanga sullo sfondo discreta e silenziosa, si riconferma set da grande letteratura. Uno strano delitto dà il via a un’indagine che, a poco a poco, finisce per svelare diversi sorprendenti retroscena (alcuni persino agghiaccianti), rimescolando abilmente passato e presente in un gioco continuo d’incastri che affascina e tiene ben desta l’attenzione del lettore. La penna dello scrittore intesse una trama nella quale s’incontrano le storie di molti; le porta con sé il vento o la notte che incombe su giornate d’ombre e ricordi: storie di feroci rancori e antiche vendette; storie di matriarche, il cui cuore è stato indurito dall’amara rassegnazione a una vita che si sognava diversa, e di una terra che, come durissima madre, ai propri figli non concede speranza né perdono.
Eccellente stile narrativo, capace di concedere le giuste pause e le altrettanto giuste digressioni fino a scivolare verso un epilogo in cui “tutta la verità è sulla bocca di tutti”, mentre il linguaggio, un italiano talvolta sobriamente intriso di sardismi, a tratti si fa essenziale, taciturno, quasi muto per raccontare quello che, in fin dei conti, sappiamo da sempre…
“Sappiamo, per esempio, che il pregiudizio è merce comune. Sappiamo che accontentarsi non è necessariamente un modo per arrendersi.
Di fronte allo scatto ineluttabile, al click automatico dei collegamenti naturali, sappiamo abbassare la testa.
Sappiamo che gli altri sanno e che noi impariamo.
Ma ci costa. Ci costa passare per quelli che sopportano, per quelli che comunque capiscono.
Sappiamo che ci piacerebbe non capire, dare sfogo alla rabbia.
Ma siamo tenuti a freno da ceppi antichissimi, troppo pesanti. Strati su strati di teste chinate, di ragionamenti, di comprensione.
[…] Sappiamo che c’è chi ha deciso per noi e che il nostro posto è segnato.
Questo lo sappiamo…”
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Perle di saggezza
Alcuni brevi se non addirittura lapidari, altri molto prolissi; alcuni sorprendentemente attuali, altri ormai superati; alcuni condivisibili, altri onestamente contestabili.
Molto ricca questa raccolta di aforismi di Oscar Wilde, tra le cui pagine c'è davvero di tutto: donne e uomini, vecchi e giovani, vizi e virtù.
Tra i vari che mi hanno colpita in modo particolare, riporto i seguenti:
"Quanto sono fortunati gli attori! Sta ad essi scegliere se vogliono aver parte nella tragedia, o nella commedia, se vogliono soffrire o godere, ridere o spargere lacrime; non così nella vita vissuta. La maggior parte degli uomini e delle donne sono costretti a recitare parti, per le quali non hanno alcuna inclinazione. Il mondo è un palcoscenico, ma le parti vi sono male distribuite."
"Date alle donne occasioni adeguate ed esse possono far tutto."
"In questa nostra epoca non vi è altro di necessario che il superfluo."
"Vivere è la cosa più rara nel mondo. Molta gente esiste: ecco tutto."
"La tragedia della vecchiaia consiste non nel fatto di essere vecchi, ma nel fatto di sentirsi ancora giovani."
"Quale rovina per l’uomo è il matrimonio! Esso lo abbrutisce quanto le sigarette, e costa molto di più."
Nel complesso, una piacevole lettura, magari per iniziare a prendere confidenza con un autore geniale come Wilde.
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Dappertutto c’è del bene, dappertutto c’è del male
Chi non ha mai guardato le luci nelle case degli altri, invidiando anche solo per un istante l’apparenza di perfezione e d’ordine che crediamo di scorgere nelle vite altrui?
La piccola Mandorla le guarda, quelle luci, e per lungo tempo, nonostante lo faccia dall’interno di quelle stesse case, le sembra di vederle sempre da fuori, senza sentire che gli altri, con cui vive quotidianamente, le appartengano per davvero.
Bello, bellissimo romanzo questo della Gamberale, che già avevo apprezzato per il ben più modesto “L’amore quando c’era”. Una storia sorprendente capace di far tenere il fiato sospeso fino alle ultime pagine e, letteralmente, fino all’ultima riga. Già, perché sarà solo allora che si comprenderanno tante cose e, soprattutto, si svelerà il mistero attorno al quale si ritrovano a ruotare d’un tratto tutte le luci nelle case degli altri.
Una lettura che per giorni mi ha fatto immergere nel condominio di via Grotta Perfetta 315, rendendomi familiari infine tanti personaggi e le storie che ognuno di essi si trascina appresso, facendomi capire perché “viviamo tutti all’oscuro di qualcosa che ci riguarda”, non solo Mandorla.
Ci ho trovato tanto, di bello e di brutto, luci e ombre appunto. E soprattutto la menzogna di una madre che regala alla propria figlia la verità più bella: l’amore sincero non di una sola, ma di tante famiglie bisognose a loro volte di quell’amore.
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Il profumo del peccato
Molto interessante questa accurata ricostruzione, sulla base della documentazione storica, della vita di suor Virginia Maria, al secolo Marianna de Leyva, meglio nota come la Signora o, semplicemente, la Monaca di Monza. Una figura, la sua, che ha fatto gridare allo scandalo e discutere a lungo, al di là del proprio tempo, senz’altro una delle più celebri tra quelle femminili della Storia, anche grazie alla rappresentazione che ne diede Alessandro Manzoni ne “I promessi sposi”; quest’ultimo, tuttavia, inserendola negli anni della carestia e della peste (intorno al 1630) in realtà la posticipa, mentre all’epoca la sua peccaminosa vicenda s’era già conclusa.
Nata nel 1575 da una casata d’antica e prestigiosissima nobiltà spagnola che, tra l’altro, aveva ottenuto il feudo di Monza, la de Leyva fu forzata a farsi monaca dal padre, il quale se la tolse dai piedi defraudandola abilmente della ricca eredità che le aveva lasciato la madre morta anzitempo quando lei era ancora piccolissima. Si fa presto, oggi, a dire che avrebbe potuto opporsi, rifiutarsi di prendere i voti, ma in casi come quelli, in cui i calcolati interessi del clan familiare venivano prima dei desideri e delle aspirazioni dei suoi singoli membri, era praticamente impossibile non dire sì a quanto veniva deciso dall’alto, specie se si era donne e per di più giovanissime: “[…]; lo ripeté, e fu monaca per sempre.” (A. Manzoni, I promessi sposi, cap. X)
Forse, come si lascia intendere anche nel libro, fu il desiderio di ribellarsi anzitutto all’autorità paterna che la spinse ad allacciare la relazione proibita con uno dei vicini del convento di clausura dov’ella aveva preso forzata residenza, tale Gian Paolo Osio, un pendaglio da forca come l’avrebbe probabilmente e non a torto definito Tex Willer, e della peggior specie. Circa dieci anni durerà la loro tresca di cui, a quanto pare, tutte le monache del convento, dalla superiora all’ultima delle novizie, erano al corrente e nella quale verranno coinvolte attivamente (in ogni senso) altre monache: suor Ottavia, suor Benedetta, suor Silvia e persino una certa suor Candida – solo di nome, naturalmente – già amante del sacerdote titolare della chiesa attigua al monastero delle care sorelle.
Già, perché bisogna sapere – e questa è la cosa più sconvolgente – che all’epoca i chiostri, sia maschili che femminili, erano per la gran parte tutt’altro che santi luoghi di ritiro spirituale, piuttosto ricettacolo di vizio e lussuria più sfrenata. Insomma, avrebbero potuto competere a testa alta con i pubblici bordelli in virtù dell’intensa attività sessuale che vi si svolgeva! Del resto, che cosa ci si poteva aspettare da persone, donne e uomini, costrette dalle famiglie a votarsi a Dio senza reale convinzione? Il Concilio di Trento della metà del XVI secolo aveva cercato di correre ai ripari per siffatta corruzione dei costumi, ma un conto è inasprire le pene, un altro è riuscire ad applicarle dal momento che era ben tesa e fitta una rete di connivenza difficilmente estirpabile poiché tutti e tutte temevano gli scandali che avrebbero potuto nuocere ai rispettivi ordini religiosi.
La vicenda della Signora di Monza e Gian Paolo Osio fu però qualcosa che andava al di là del pur comprensibile mancato rispetto del voto di castità monacale: in breve tempo divenne infatti un mix pericoloso di sesso, promiscuità (anche due delle sopraccitate colleghe della de Leyva finirono nel letto dello scapestrato giovane, o meglio fu lui a finire nei loro… camerata unica…), sangue e intrighi delittuosi. Pertanto, quando ci scappò il morto, anzi i morti, poiché furono più d’uno, il bubbone purulento non poté che esplodere. E nel peggiore dei modi… Il triste epilogo è noto.
Mi ha molto sorpresa però la conclusione a cui giunge l’autore, alla quale francamente non avrei mai pensato: chi fra i due, oltre a metterci la carne, ci mise anche il cuore, e tanto, fu Gian Paolo, il quale dopo le prime volte, ottenuto ciò che voleva, avrebbe potuto non rimetter più piede in quel convento; donne, non monache, ne aveva quante ne voleva al di fuori. Invece, non seppe rinunciare a lei che considerava a tutti gli effetti la sua donna e che amava sinceramente, anche attraverso la bambina che nacque dalla loro relazione. La Signora, dal canto suo, più che vittima (come cercherà di apparire agli occhi dei vicari criminali che la interrogheranno dopo l’arresto), fu parte attiva e consenziente, coinvolta più dal piacere dei sensi e del proibito che dal sentimento allo stato puro.
Comunque, al di là di tutto, resta il ricordo di una povera vita infelice a cui non può non essere rivolto un profondo senso di compassione, non certo di condanna.
«Il profumo del peccato è delizioso, anche, anzi soprattutto, se a emanarlo è chi non dovrebbe mai commetterlo. Il vizio, del resto, ha sempre sedotto gli uomini più di quanto la virtù li abbia edificati.»
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Noia
Due stelle, non di più, a questa raccolta di racconti (presunti) erotici di Anaïs Nin.
Non vedevo l’ora di archiviarne la lettura, che ho voluto comunque portare avanti fino alla fine per farmi una mia idea di questo famoso libro: trame inconsistenti e, come si può facilmente immaginare, molto ripetitive, personaggi che vivono esclusivamente nel loro mondo fatto di sesso (etero, omo e di tutto e di più) e sregolatezze appunto sessuali e che, secondo me, non sono destinati a lasciare traccia nella memoria dei lettori; sì, c’è qualche abbozzo di introspezione psicologica per qualcuno dei protagonisti in particolare dei racconti più lunghi, ma su tutto prevale infine un opprimente senso di noia che non invita certo a riprendere in mano il libro con impazienza.
Più che di erotismo, forse, in questo caso, sarebbe meglio parlare di pornografia, viste le minuziose, ossessive e reiterate descrizioni di atti sessuali qui presenti. Erotici ho trovato invece i racconti de “I fiori splendenti nell’abbraccio degli amanti”, letti qualche tempo fa, del medievale e musulmano ‘Ali al-Baghdadi, così come alcune parti de “La figlia di Mistral” di Judith Krantz che romanzo erotico di per sé non è ma che, a questo punto, batte alla grande questi scritti della Nin che, insomma, non ho apprezzato. Inoltre, c’è un’aggravante: l’autrice scrisse questi racconti su richiesta di un committente disposto a pagare. Fare un mestiere di talento e passione per la scrittura è un conto; un altro è scrivere per far soldi, cosa che non premia né in qualità né in soddisfazione personale.
Mi riservo di leggere in seguito almeno un’altra opera di questa scrittrice per avere modo di valutarla meglio.
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Accettazione dell'altro
“È molto facile accettare e amare chi è uguale a noi, ma con qualcuno che è diverso è molto difficile” (Luis Sepúlveda)
Non è poi così strano che, al termine di questa lettura, mi siano tornate spontanee alla mente le parole di Sepúlveda, che, a suo tempo, mi avevano già dato modo di riflettere, poiché “La porta”, nel grande turbinio di sentimenti che solleva, è un romanzo che parla di accettazione dell’altro, con tutte le difficoltà che essa comporta.
Magda ed Emerenc: la scrittrice e la portinaia, l’intellettuale e la popolana. Due donne, due vite lontane anzitutto per età, due storie molto differenti, di cui una, in particolare, intrisa di profondo dolore e solitudine. Tra loro, come a sancire un confine più mentale che fisico, una porta chiusa, imposta senz’appello dall’una e subìta malvolentieri dall’altra; una porta che diventa simbolo, struggente metafora di un’esistenza molto provata, se non di un cuore indurito dalle pietre degli anni. È un rapporto conflittuale quello che da subito lega le due donne, e tale resterà sino alla fine.
Pragmatica e sicura di sé, a tratti sfacciatamente indisponente, Emerenc si rivela uno di quei personaggi destinati a rubare la scena agli altri e a restare a lungo impressi nella memoria. In tutto il corso della narrazione, la presenza di questa vecchia domestica dal capo perennemente coperto che non lava i panni al primo che capita è costante, persino quando scompare dietro la sua porta chiusa per occuparsi del proprio piccolo mondo popolato di gatti clandestini o s’incammina lungo la via del quartiere insieme all’amato cane Viola.
Lapidari i suoi giudizi, incrollabili le sue convinzioni che la portano a dividere il mondo in due semplici categorie di persone: chi ha una scopa in mano e chi no, ovvero chi obbedisce e chi comanda. Statisti e intellettuali, uomini di chiesa ed educatori del popolo – tutti rientranti nella seconda categoria – non hanno alcuna presa su di lei che ha attraversato talmente tanti decenni di storia del proprio Paese da aver visto abbastanza ed esserne rimasta forse schifata fino all’indifferenza. Già, l’Ungheria: seppur discretamente, essa si staglia sullo sfondo del romanzo e non è da escludere, tra le righe, anche un significato sul piano politico-sociale (uno dei capitoli più interessanti, non a caso, s’intitola “Politica”). Del resto, l’assoluta mancanza di patriottismo di Emerenc non potrebbe esprimere una condanna della situazione vissuta da quello che era pur sempre – non dimentichiamo – uno degli Stati a destra della cortina di ferro? Ai lettori più ferrati in materia l’ardua conferma.
“Effettivamente lei non aveva bisogno di un paese, non desiderava stare dalla parte di quelli che ordinano di scopare, non pretendeva niente, ma non si rendeva conto che persino il suo eterno negare era un modo di fare politica.”
E dietro la porta chiusa, infine, che cosa c’è? Non molto, a parte l’estrema caducità della vita e la nostra incapacità a vivere e gestire i sentimenti, con l’assurda pretesa, per giunta, di voler cambiare gli altri. Una prosa coinvolgente, una storia narrata con grande maestria da cui, ho scoperto, è stato tratto un film alcuni anni fa di cui segnalo il link:
https://www.youtube.com/watch?v=fU5fgaWhfqQ
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“E l’ommini accusì viveno ar monno…”
È la Roma papalina della prima metà dell’Ottocento, quella immortalata nei sonetti di Giuseppe Gioachino Belli: popolani e nobili, servi e padroni, pontefici, cardinali e monsignori, preti, fraticelli, padri confessori, boia, meretrici, ebrei del Ghetto, santi e dannati, giacobini e carbonari.
Un grande affresco di cui ogni singolo sonetto costituisce un colorato vivacissimo quadretto, dove risuonano non soltanto preghiere in processione e benedizioni papali, ma anche (e soprattutto) imprecazioni, volgarità e schietto vociare di piazze e mercati dell’Urbe. Per chi, come me, non è madrelingua, il romanesco del Belli potrebbe non risultare a tratti troppo scorrevole, al contrario di quello di Trilussa, ma di certo è sempre spassoso. L’autore, acuto osservatore e testimone del suo tempo, non risparmia niente e nessuno, puntando il dito contro la corruzione morale e materiale insita anzitutto nel clero fino al massimo vertice; nei suoi sonetti, irriverenti, dissacranti, licenziosi, a loro modo filosofeggianti, a parlare sono per lo più popolani d’ogni risma che riflettono su come va il mondo e le ingiustizie della vita, senza lesinare un pensiero nemmeno a chi occupa il soglio di san Pietro…
La vita der Papa
Io Papa?! Papa io?! fussi cojjone!
Sai quant’è mejo a ffà lo scarpinello?
Io vojo vive a modo mio, fratello,
e no a modo de tutte le nazzione.
Lèveje a un omo er gusto de l’ucello,
inchiodeje le chiappe s’un zedione,
mànnelo a spasso sempre in pricissione
e co le guardie a vista a lo sportello.
Chiudeje l’osteria, nègheje er gioco,
fàllo sempre campà co la pavura
der barbiere, der medico e der coco:
E’ vvita da fà gola e llusingatte?
Pe mé, inzin che nun vado in zepportura,
maggno un tozzo e arittoppo le ciavatte.
16 novembre 1833
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Piccole storie
Breve o lunga che sia la storia, non importa: ogni volta la scrittura di Michela Murgia ha il dono d’incantare e sorprendere, confermandosi profondamente semplice e straordinaria allo stesso tempo. Quella raccontata ne “L’incontro” è una Sardegna che, in verità, non si sa se esista ancora da qualche parte: un’Isola dove il significato della parola comunità, in cui il singolo trovava armonica collocazione, non era astruso né sconosciuto e il conseguente “noi” che ne scaturiva non lasciava spazio a individualismi di sorta; dove l’infanzia aveva il sapore di giochi a perdifiato per la strada e dove le sere d’estate, per chissà quale naturale prodigio, si tingevano di basse sedie di paglia, posizionate a mo’ di platea davanti agli usci di casa, e di storie di anime inquiete sussurrate dalle voci più anziane depositarie di leggende e realtà ormai tra loro inscindibili. Da ogni angolo di quel vissuto, lontano appena una manciata di lustri, la narrazione fluisce lieve, riportando alla memoria l’odore del tempo e atmosfere sfumate per molti di coloro appartenenti alla generazione di Maurizio, il protagonista, che a metà degli anni Ottanta era un bambino di dieci primavere e si compiaceva della dimensione sociale di cui era parte. Un racconto che palpita di amicizia e parentele di vicinato più forti di quelle di sangue, mostrando come “l’altro”, in fin dei conti, sia frutto di frontiere invisibili tracciate anzitutto nella nostra mente.
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Messinscena isolana
Coinvolgente e disincantato, “Assandira” è tra i romanzi più noti di Giulio Angioni. Vi si racconta la vicenda di un anziano pastore il cui figlio, dopo l’esperienza dell’emigrazione in Nord Europa, ritorna in Sardegna con una bella e intraprendente danese e l’entusiasmante progetto di aprire un agriturismo tra le terre e l’ovile di famiglia.
La coppia, allettata dall’idea di fare soldi, costringe il vecchio a prendere parte alla messinscena ben orchestrata a uso e consumo dei turisti, disposti a pagare profumatamente pur di vivere, seppure per il tempo di un breve soggiorno, alla maniera dei pastori antichi. Capanne di frasche a forma di nuraghe, canto a tenore e ballo tondo, abbigliamento arcaico degno del miglior folklore, immagini banditesche, pecora a cappotto e rituali pastorali…: tutta una mascherata!
“Sembrare. Assandira era tutto un sembrare. E sembrare era tutto.”
L’uomo si ritrova così, suo malgrado, dopo una vita di duro (e vero) lavoro appresso alle greggi, a vestire per finta i panni del pastore; deve persino indossare cose sorpassate, come i gambali e la berritta, l’antico copricapo sardo che forse nemmeno suo nonno aveva mai messo in testa.
Con uno stile degno di un grande narratore, l’autore ben evidenzia il disagio di chi è incapace di adattarsi a compromessi dettati da certe logiche, così come punta il dito contro l’esotica e paradossale immagine della nostra isola che viene spesso diffusa con troppa leggerezza. Temi che fanno molto riflettere. Non svelo altro, se non che l’epilogo, dopo tanti (amari) sorrisi strappati dalla narrazione, sarà drammatico.
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Il fascino letterario di Nuoro
Se qualcuno ora mi chiedesse di quale luogo io abbia letto di più negli anni passati, non avrei alcuna esitazione nel rispondere: Nuoro!
Non che abbia preso in mano chissà quali e quanti volumi sull’argomento, ma è la città che ho trovato (in parte cercandola) maggiormente protagonista nelle mie letture di alcuni anni fa; già, perché essa stessa, in un modo o nell’altro, finisce per essere l’ineludibile protagonista delle storie a cui fa da sfondo. Dalla Nuoro del passato, nel contempo rurale e monumentale, immortalata da Salvatore Satta e Mario Ciusa Romagna a quella odierna di Alessandro De Roma il salto temporale è notevole, ma, a mio parere, il fascino a tratti struggente della piccola città sarda tanto letterariamente celebrata rimane del tutto immutato.
È stata una bella sorpresa questo romanzo, così il suo autore che non conoscevo, e ringrazio l’amica a cui già devo non poche importanti scoperte… lei sa!
Cinque stelle è il voto che attribuisco al libro, ma mi riservo di aggiungere un meno per il finale che lascia davvero un senso di amarezza e, non so se mi esprimo bene, d’incompiuto. La scrittura, fin dall’inizio, è perfetta: profonda, profondissima, dura, non meno ironica e rabbiosa. Rabbiosa come spesso può esserlo soltanto l’età dell’adolescenza, della quale, ci piaccia o no, forse ci trasciniamo sempre qualcosa pur nell’avanzare impietoso degli anni: speranze, illusioni, delusioni… Anche una certa dose di egoismo e cattiveria.
Ho trovato molto in questa storia, non da ultimo le salite all’Ortobene fino alla imponente statua del Redentore, di cui non posso non conservare memoria con un po’ di malinconia, così come gli splendidi scatti della natura di un’isola ammaliante che a chi ci abita, nonostante tutto, è capace di regalare ancora indescrivibili emozioni.
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Capolavoro!
“[…] i morti sono sciolti da tutti i problemi, meno che da uno solo, quello di essere stati vivi.”
È la storia dei Sanna, dei Mannu e dei tanti “don” che, a torto o a ragione, vivono circondati da un alone di nobile prestigio, ma anche di modesti preti e maestri di scuola, di contadini e pastori e di tutti quei disgraziati che stanno al mondo soltanto perché c’è posto.
È la storia di solitudini e infelicità sepolte, alla pari di molte donne, dietro imposte perennemente chiuse; la storia di miserie, non esclusivamente materiali, e ricchezze centellinate e agognate, anche se, come dice qualcuno, ricco è solo il cimitero; di certezze del passato e illusioni del futuro che, sfiorandosi, incombono entrambe su un presente in bilico precario tra padri e figli.
Sullo sfondo la Nuoro del primo Novecento, nient’altro che “un nido di corvi, […] come e più della Gallia, divisa in tre parti”, la quale, talvolta con stupore (come per l’avvento della luce elettrica), talaltra con orrore (come in occasione dello scoppio improvviso della Grande guerra che famelica reclama al fronte giovane carne da macello), scopre a poco a poco di essere parte di un mondo più grande che va ben oltre le strade polverose e diffidenti che corrono tra il Corso e i borghi di Sèuna e San Pietro.
Un affresco monumentale, altro aggettivo mi par poca cosa, di una città, di un’epoca e di una umanità travagliata, evocata affinché si liberi del proprio fardello di memorie in un pietoso ed eterno giorno del giudizio.
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Ce prodige de Maupassant... !
In attesa di decidermi a leggere finalmente "Bel-Ami", ho fatto la conoscenza di Guy de Maupassant attraverso questi suoi "Contes de la bécasse", racconti dapprima comparsi su quotidiani e riviste, poi raccolti in un libro nel 1883.
Diciassette piccole storie, per lo più d'ambientazione normanna o comunque collocabili nella Francia settentrionale (spesso, sullo sfondo, il dramma della ottocentesca guerra franco-prussiana), per una scrittura davvero incisiva, a momenti spettacolare! Se scrivere racconti brevi è un arte, allora Maupassant è un vero grande artista: con pochi essenziali tratti delinea personaggi e situazioni di diversa natura, dicendo con poco moltissimo. La sua prosa è semplice, ma affascinante e ricca di emozioni e sfumature, anche là dove il francese si fa più colloquiale con espressioni tronche e forse un po' dialettali.
Dal serio al faceto, dal dramma allo scherzo, senza tralasciare l'ironia e persino la licenziosità, questi testi, che non disdegnano affatto la dimensione popolaresca, narrano episodi o vite intere con uno stile coinvolgente che cattura da subito il lettore. Molto divertente "Ce cochon de Morin", tristissimi "Un fils" e "La rempailleuse", inquietanti per la violenza e la crudeltà inaspettatamente descritte "Saint-Antoine" e "La folle", mentre le bellissime pagine de "L'aventure de Walter Schnaffs", che chiudono la raccolta intrecciando abilmente elementi tragici e comici, si propongono come una meravigliosa condanna della guerra, colossale fregatura per tutti i poveri diavoli di ogni tempo e luogo cosretti a combattere e mandati a morire come carne da macello per la presunta gloria di chi ha sempre predisposto a tavolino l'avanzata degli eserciti.
Sono ormai dell'opinione che, molto spesso, leggendo un autore in traduzione si perda parecchio. E credo proprio che, al momento opportuno, mi dedicherò anche a "Bel-Ami" in lingua originale. Ce prodige de Maupassant... !
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La fragile Antonia
Da diverso tempo sentivo parlare di Antonia Pozzi (1912-1938), poetessa lombarda precocemente scomparsa.
Questa pubblicazione, peraltro molto ben curata, può essere un valido punto di partenza fare la conoscenza dell’opera della Pozzi, la quale scriveva non soltanto in versi e coltivava una sentita vocazione artistica che abbracciava addirittura la fotografia.
Colta e indipendente, era una giovane donna senz’altro avanti rispetto all’epoca in cui viveva, ma anche un’anima fragile e molto tormentata stando alla sua biografia e alla lettura dei suoi scritti.
La solitudine, la morte, un senso di tragico incombente sono i temi che affiorano dalle poesie presenti in questa raccolta dal sapore intimistico; non manca l’amore, seppur dipinto con tonalità deluse e rassegnate, né il vuoto di una maternità mai sbocciata.
Antonia Pozzi morì suicida alla fine del ’38: in tempo per non assistere allo scempio del secondo conflitto mondiale, ma troppo tardi per non averne conosciuto le drammatiche premesse. Un’autrice su cui hanno scritto numerosi autori, tra i quali addirittura Eugenio Montale, ma ancora non particolarmente conosciuta e meritevole perciò di maggior attenzione e promozione.
www.antoniapozzi.it
Canto della mia nudità
Guardami: sono nuda. Dall'inquieto
languore della mia capigliatura
alla tensione snella del mio piede,
io sono tutta una magrezza acerba
inguainata in un color avorio.
Guarda: pallida è la carne mia.
Si direbbe che il sangue non vi scorra.
Rosso non ne traspare. Solo un languido
palpito azzurrino sfuma in mezzo al petto.
Vedi come incavato ho il ventre. Incerta
è la curva dei fianchi, ma i ginocchi
e le caviglie e tutte le giunture,
ho scarne e salde come un puro sangue.
Oggi, m'inarco nuda, nel nitore
del bagno bianco e m'inarcherò nuda
domani sopra un letto, se qualcuno
mi prenderà. E un giorno nuda, sola,
stesa supina sotto troppa terra,
starò, quando la morte avrà chiamato.
Novembre
E poi – se accadrà ch’io me ne vada –
resterà qualchecosa
di me
nel mio mondo –
resterà un’esile scìa di silenzio
in mezzo alle voci –
un tenue fiato di bianco
in cuore all’azzurro –
[…]
Unicità
Io credo questo:
che non si può cambiar volto
alle creature già nate
nel cuore.
E perciò il nostro bimbo
unico
sarà quello
che noi sognammo
nei mattini di giugno
[…]
Dopo
Quando la tua voce
avrà lasciato la mia casa
ritorneranno di là dal muro
parole rauche di vecchi
a nominare nell’oscurità
invisibili monti.
Udirò greggi
traversare la notte:
il vento – curvo
sul letto dei torrenti –
scaverà
incolmabili valli nel silenzio.
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La chiave del proprio sé
Se finora ho letto, purtroppo, pochissimi autori latino-americani di lingua spagnola, non mi era ancora capitato di imbattermi in uno di lingua portoghese. Tatiana Salem Levy, classe 1979, è una scrittrice e traduttrice brasiliana che può però vantare la nascita a Lisbona, “in esilio” come lei scrive, e un’ascendenza turca di origine ebraica. Un nome, il suo, di grande suggestione che, in verità, evoca tutt’altri luoghi rispetto a quello d’oltreoceano dov’è cresciuta.
Proprio queste origini familiari dell’autrice stessa sono al centro de “La chiave di casa”, suo romanzo d’esordio. Un esordio ben felice, a mio giudizio, poiché in quest'opera prima scorre una scrittura già matura, affascinante, a tratti di una profondità di pensiero che lascia interdetti e induce a riflessioni che s’aprono nel cuore tremende come voragini.
È la storia – autobiografica, peraltro – di una giovane donna che intraprende un lungo viaggio tenendo in tasca una chiave affidatale dal nonno con il compito di ritrovare la vecchia casa di famiglia nella città turca di Smirne, da cui lui si era imbarcato molti decenni addietro alla volta del Brasile in cerca di futuro. Sarà un viaggio non soltanto in senso geografico, ma anche (e forse soprattutto) interiore, mentre piani temporali e luoghi diversi s’intrecciano meravigliosamente in una narrazione che si compone, tassello dopo tassello, come un sorprendente puzzle.
Un libro di memorie, smarrimenti, dolore (“Il dolore è in tutto, […] in tutti gli angoli di noi stessi.”), sentimenti e intenso erotismo, a tratti crudele, che lascerà indicibile amarezza e ferite profonde nell’anima della protagonista. In queste pagine trova ampio spazio un dialogo mai interrotto tra madre e figlia, così come risulta appassionante la storia della prima quando, da ragazza, venne arrestata e torturata durante gli anni della dittatura militare in Brasile. Molto affascinante, inoltre, il ritratto che emerge della città di Istanbul, con le sue strade e piazze affollate, le porte, gli hammam e le moschee.
Una bellissima lettura che mi ha particolarmente colpita: certi libri, talvolta, sembrano capitare nella nostra vita all’improvviso ma al momento giusto, svelandoci qualcosa di noi che non avevamo considerato pienamente e dando infine risposte inaspettate alle nostre domande. Cinque stelle e quasi lode!
"[…] sento una voce che inonda la piazza, la città. Una voce che sembra provenire da nessun luogo, da un luogo distante, sconosciuto. Il suono sembra graffiato, malinconico, un vero e proprio lamento. Ho la sensazione di averla già sentita prima, ma anche la certezza di non averla sentita mai. Vedo le persone affrettarsi, correre da un lato all’altro. Deve essere questo, allora, il richiamo alla preghiera.[…] Il canto continua, si prolunga ancora quattro volte, echeggiando in modo inatteso in qualche parte arcaica del mio corpo, qualche memoria che ignoro. La voce – un gemito, un lamento – si espande per tutta la città fino a cessare. Allora, Istanbul sembra morta e sento che c’è in me qualcosa di molto antico che comincia a rinascere.”
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Evitabile
Uno dei libri peggiori che abbia mai letto!
La seconda stella è dovuta (oltre che alla pietà della sottoscritta lettrice) a qualche sprazzo di narrazione accettabile che, di tanto in tanto, s'incontra negli ultimi capitoli. Della protagonista si scopre il nome soltanto a partire dal capitolo cinque, mentre la sua triste vicenda, che si svolge sullo sfondo di un Kuwait che non gode di alcuna descrizione particolare che possa arricchire il romanzo (scarsissimi, praticamente quasi inesistenti i dettagli che richiamino una società islamica), viene narrata davvero male; soprattutto la prima parte più che da un'autrice di una certa età e, a quanto pare, apprezzata nell'area del Golfo, sembra essere stata buttata giù da una ragazzina a giudicare dallo stile di scrittura. Tutta colpa della traduzione? Non credo. Pesantissimo, inoltre, il ricorso alle metafore, a lungo andare abominevoli!
Storie di questo tipo, relative alla condizione della donna musulmana, certamente accadono e devono essere raccontate, ma almeno che ce le raccontino bene! D'un tratto, al confronto, ho rivalutato "La mandorla" di Nedjma, romanzo che certo non brilla per alcun merito nell'ambito della letteratura dei Paesi arabi, se non per essere stato abilmente spacciato come un caso letterario giusto per vendere qualche copia in più. Pure in questo caso, credo che la logica non cambi. Lettura che non consiglio, anzi: non buttate né soldi né tempo, voi che potete!
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Casi letterari
È la storia di Badra, una donna marocchina che, giovanissima, viene data in moglie a un uomo con più del doppio dei suoi anni che desidera soltanto avere figli. Dopo un lustro di sterile e schifoso matrimonio, salta su un treno e arriva fino a Tangeri, dove trova ospitalità presso una zia emancipata che, a suo tempo, ha già lasciato il marito nello stesso villaggio dell’interno. Nella grande città cosmopolita la protagonista troverà, per la prima e unica volta, anche l’amore, appassionato e sensuale come mai avrebbe immaginato potesse esistere. La riscoperta del suo corpo e della sessualità le permetterà di acquisire una nuova consapevolezza della propria individualità femminile.
Come recita la quarta di copertina, si tratta di un racconto erotico, addirittura molto spinto. Il titolo stesso è un riferimento sessuale che lascia poco spazio all’immaginazione. Il libro è scritto bene e si legge altrettanto bene, ma questo erotismo portato all’eccesso (l’autrice avrebbe potuto risparmiarci qualcosa), a mio parere, lo appesantisce e impoverisce nel contempo, togliendo spazio ad approfondimenti su tematiche socio-culturali legate nello specifico al contesto marocchino in cui si svolge la storia. Mi aspettavo infatti un po’ di più da questo romanzo, a partire dalle descrizioni della stessa Tangeri che rimane soltanto sullo sfondo, senza che la narrazione si addentri veramente tra i vicoli antichi della sua medina, così ricchi di Storia e storie, né si soffermi a lungo tra boulevard e café della città nuova.
Infine, qualche perplessità: perché l’editore parla di “caso letterario unico” che viola “la regola del silenzio sulla vita matrimoniale e sessuale delle donne arabe”, se la protagonista stessa si definisce espressamente berbera e non araba? Meglio sarebbe allora parlare di donne musulmane più in generale, evitando le solite equazioni forzate. E poi perché “caso letterario unico” che affronta lo scottante argomento del sesso? Mi tornano in mente i libri ormai datati di Jean Sasson sulla vita dietro le quinte (e dietro il velo, giusto per riprendere uno dei suoi titoli più noti) delle donne della famiglia reale saudita, libri nei quali non si taceva su temi quali matrimonio e sessualità, sebbene non fossero di genere erotico. Non ho ancora letto Fatima Mernissi, ma dubito possa essersi astenuta dal toccare identici argomenti quando scriveva dell’altra metà del cielo nell’Islam. Inoltre, se penso alla principessa arabo-andalusa Wallada e alle poetesse a lei contemporanee (si veda una delle mie precedenti recensioni: "Cammino orgogliosa per la mia strada "), allora ho la certezza che il medesimo antico tabù sia stato rotto, sfacciatamente e serenamente, già mille anni fa. E a noi, oggi, continuano a rifilarci come “casi letterari” storie di donne anzitutto maltrattate in nome di Allah e del suo Profeta e raffigurate in copertina rigorosamente velate perché ciò, con buona probabilità, fa aumentare le vendite; il tutto, magari, condito con abbondanti e piccanti retroscena sessuali. C’è spazio per tutto, per carità, ma a quanto pare non per le storie di ordinaria quotidianità, quelle senza eccessi né in un senso né in un altro che esistono persino all’ombra dei minareti delle moschee. Storie come possono essere quelle della impiegata di banca di Amman che cerca di conciliare lavoro e famiglia o della tessitrice berbera di tappeti che, in un remoto villaggio scendendo verso il deserto, decide di non sposarsi o, ancora, della casalinga di Marrakech che all’occorrenza mena il marito sbattendolo fuori di casa fino a nuovo ordine. Ne esistono di tal genere, ma queste, si sa, sono vicende che non fanno rumore e, se anche raccontate in qualche romanzo, chissà in quanti le leggerebbero.
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- sì
- no
Morire due volte
«Enfin, toutes les horreurs que les romanciers croient inventer sont toujours au-dessous de la vérité» : è una delle amarissime considerazioni pronunciate dall’avvocato Derville al termine di questo breve romanzo di Honoré de Balzac che ebbi occasione di scoprire, qualche anno fa, grazie a “Gli innamoramenti” di Javier Marías (per la serie, quando i libri suggeriscono, inaspettatamente, altri libri!).
Una storia davvero triste, quella del povero colonnello Hyacinthe Chabert, eroe di guerra e fedele servitore della Francia napoleonica, che riappare all’improvviso nel nuovo quadro della Restaurazione. Dato per morto durante la sanguinosa battaglia di Eylau (1807), combattuta contro l’esercito russo, è invece sopravvissuto miracolosamente alle gravi ferite riportate e alla fossa comune dove, in modo alquanto sbrigativo, era stato gettato e ricoperto da una montagna di cadaveri. Un dramma nel dramma, considerando gli inevitabili problemi burocratici da affrontare nel tentativo di rivendicare il riconoscimento della propria identità e, per di più, la cupidigia e l’arrivismo della vedova che nel frattempo, dopo aver ereditato a norma di legge tutta la notevole fortuna del marito, è convolata a nuove nozze con un giovane conte da cui ha avuto due figli.
Anche Chabert, dunque, “ancora vivo per la morte e morto per la vita”, proprio come un Mattia Pascal ante litteram; soltanto che, a differenza del futuro personaggio pirandelliano, il povero colonnello in questione avrebbe preferito non ritrovarsi in questa sorta di morte civile.
Con grande e forse inimitabile maestria, la penna di Balzac inizialmente tratteggia un uomo in apparenza insignificante, partendo dal suo vecchio cappotto ormai fuori moda, per poi mostrarne l’alta statura morale attraverso le emozioni e i sentimenti emersi pagina dopo pagina: il risultato sarà quello di un eroe tuttavia sconfitto dai suoi stessi princìpi che, di fronte a un mondo di lupi e volpi, lo porteranno a scegliere di relegarsi, sua sponte, ai margini della società, miserevole tra i miserevoli. «[…] je dois rentrer sous terre», affermerà infine questo morto vivente, eroe tragico della sua epoca e, in definitiva, emblema di tutti i senzatetto, senza famiglia e sans-papiers di ogni tempo e luogo. Una prosa davvero intensa e commovente, gustata appieno in lingua originale, sebbene il francese di Balzac mi sia apparso meno semplice rispetto a quello di altri autori letti durante i mesi scorsi (Maupassant e Verne, per esempio).
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Il solito inconfondibile Vitali…
… ma sempre spassosissimo!
Anche se le sue storie ambientate in quel di Bellano possono sembrare spesso un po’ ripetitive, alla fin fine, tuttavia, riescono sempre a sorprendere piacevolmente facendo leva su trame orchestrate con indiscutibile maestria e una invidiabile vis comica a tratti irresistibile.
Stavolta la vicenda (che in realtà appare come l’esito dell’incastro perfetto di tantissime vicende di altrettanti personaggi) si svolge sullo sfondo del fascistissimo ventennio e vede tra i protagonisti un ambizioso podestà, i cui sogni di gloria finiscono per inabissarsi miseramente nelle placide acque del lago di Como al pari dell’idrovolante che avrebbe dovuto realizzarli. Una storia che, tra un colpo di scena e l’altro e improponibili nomi che puzzano lontano un miglio di naftalina (chissà poi da dove vengano riesumati…) sancisce – caso mai ce ne fosse ancora bisogno! – che il mondo è dei furbi, figlia del podestà in testa. Quattro stelle e ½! Consigliatissimo. Ideale per sfuggire a malumori e malinconie del quotidiano vivere.
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Capolavoro?
Travagliatissima fu la vicenda editoriale di questo romanzo che non so se possa essere definito un capolavoro, né mi sento di poter giudicare in tal senso. Per alcuni aspetti potrebbe esserlo, per altri forse meno.
Lasciando ad altri lettori l’ardua sentenza, posso però affermare che “L’arte della gioia” di Goliarda Sapienza è un libro inatteso, intenso e sorprendente, sia per contenuto che per stile narrativo. Tra queste pagine palpita la storia di una donna che, con il suo carisma e la tenace rivendicazione della propria libertà (anche di tipo sessuale), attraversa i decenni sullo sfondo della grande Storia e di una Sicilia sempre indiscutibilmente affascinante. Quella di Modesta, la protagonista, è una figura che a poco a poco emerge nella sua straordinarietà: un personaggio certo sfortunato, ma che ha saputo giocare al meglio le carte del destino, riuscendo a costruire un'esistenza vissuta e assaporata appieno, senza apparenti rimorsi né rimpianti, senza cedere ai ricatti né dei vecchi né dei giovani, fino a scoprire che gli anni della maturità sono di gran lunga migliori rispetto a quelli acerbi e inquieti della giovinezza. Inutile addentrarsi nella trama, sia pure a grandi linee: occorre leggere il libro, dall’inizio alla fine, non ci sono anticipazioni che possano spiegare l’essenza di un’opera come questa.
Ricca di un fascino per buona parte – oserei dire – quasi ottocentesco, sebbene l'ambientazione temporale rientri pienamente nel secolo scorso, la prosa intreccia in perfetta armonia insieme all'asettica e più convenzionale terza persona un io narrante intimo e suggestivo che sembra dare al lettore la sensazione di accedere alle emozioni e ai pensieri più profondi di chi racconta. Numerosi i personaggi che ruotano attorno a quello della “principessa”, e diversi quelli degni di nota; per quanto mi riguarda, ho apprezzato in modo particolare le figure di Beatrice e di Carmine, portatrici, ciascuna a modo suo, di elementi che impreziosiscono le vicende narrate.
Un romanzo-fiume, dove tanti sono i temi trattati, alcuni dei quali avranno forse fatto storcere il naso a quegli editori che, in un ventennio di ferrei rifiuti editoriali, s'erano degnati di leggere almeno in parte il corposo dattiloscritto nel quale l'autrice, fermamente convinta del valore del proprio lavoro, aveva riposto molte speranze. Purtroppo per lei, il libro è stato infine pubblicato postumo e il successo in patria è giunto soltanto dopo la sua scoperta all’estero. Nel complesso, una storia che mi ha molto colpita e che per giorni mi ha tenuta letteralmente incollata alle pagine; tuttavia, non posso nascondere che, se la lettura mi ha assorbita completamente fino a oltre la metà del libro, tant’è che mi dispiaceva interromperla pure per dormire, da un certo punto in poi della terza parte la narrazione in generale, a parte qualche eccezione, non è riuscita a tenere desta la mia attenzione come in precedenza. Peccato, mi sarebbe piaciuto accendere anche la quinta stella.
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Una storia d'Africa
“Lo straniero è come un fratello che non hai mai incontrato”
È una storia piccola e preziosa, quella racchiusa tra le pagine del romanzo “Aìli che voleva correre”. Una storia sospesa tra sogno e realtà, una di quelle che le drammatiche cronache del nostro tempo non ci raccontano né mai potranno farlo, poiché ci vuole cuore per guardare lontano, oltre i confini della miseria, oltre le assolate rotte di sabbia e acqua, oltre i rovinosi naufragi che inghiottono la speranza di chi si mette per mare così come la nostra indifferenza.
Aìli è una giovanissima donna a cui viene restituita la dignità di un nome e di un ricordo. Figlia di un angolo dell’immensa terra d’Africa, la ragazza incarna i palpiti di un continente intero che vive quotidianamente vecchi drammi e contraddizioni, sempre in cammino alla inquieta ricerca della propria strada verso un futuro migliore. L’Africa, dunque, al pari di Aìli, è la protagonista di questa storia, con il suo essere un po’ madre e un po’ matrigna, con il suo mosaico di genti e culture, i suoi grandi spazi aperti e cieli sconfinati, la bellezza struggente dei suoi tramonti, le sue antiche fiabe, i suoni, i profumi e i colori che rapiscono l’anima con il loro fascino; protagonista fino in fondo, l’Africa, fin sui barconi “carichi di volti e di corpi, di sguardi e di sorrisi, di dolori e di speranze” che, infine, coraggiosi attraversano quel grande cimitero che è ormai diventato il Mediterraneo.
Bellissimo romanzo, che non ha deluso le mie aspettative. Un ottimo esordio per l’autrice Adriana Pillitu, la cui scrittura, oltre che perfetta, è intrisa di una delicatezza profonda e dalla quale traspare una sensibilità particolare che, in tempi di muri e barriere di filo spinato antimigranti, rappresenta qualcosa di estremamente prezioso come la stessa vicenda narrata. A far da cornice a quest’ultima temi di non poco conto, quali la rapina delle terre, il traffico d’armi e di uomini, vecchi e nuovi colonialismi, su cui la spesso tronfia società occidentale dovrebbe riflettere di più, dal momento che essa – historia docet – ha nei confronti del continente africano gravissime colpe e responsabilità ben precise. Riflessione e azione, in verità, sarebbero auspicabili. Prima che sia intollerabilmente troppo tardi. Prima che la storia di Aìli possa ripetersi all’infinito e la sua corsa sognante si fermi per sempre alle porte della fortezza Europa, tra le onde di un mare che dovrebbe essere, di nuovo e soltanto, un ponte tra popoli e civiltà.
“Si lasciò andare, Aìli, e trovò quasi consolatorio l’abbraccio delle onde, che l’avvolgevano e la trascinavano. Si racchiuse su se stessa, piegò le ginocchia e si raccolse. Era un ventre materno che, invece di darle la vita, a poco a poco gliela portava via. Il suo sogno si infranse proprio lì, ingoiato dalla violenza del mare.”
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“Mi ha portato qui l’illusione.”
Non solo dell’illusione, ma anche del sogno e di uno stato continuo di dormiveglia questo romanzo ha tutte le sfumature.
Proprio per via della sua dimensione onirica, a tratti evanescente, “Pedro Páramo” non è un romanzo come tanti; Juan Rulfo, autore messicano del secolo scorso, inaugurò un nuovo modo di scrivere, influenzando altri scrittori sudamericani, come per esempio Gabriel García Márquez che, stando alla sua diretta testimonianza, lesse per ben due volte il libro in questione nel corso della stessa notte. Non a caso, cattura molto la lettura di queste pagine, dove sogno e realtà s’intrecciano, vita e morte si confondono, passato e presente si amalgamano in una dimensione atemporale dal fascino e dalla suggestione straordinari. Splendide le descrizioni di ambienti e paesaggi che finiscono per coincidere con stati dell’anima scanditi dallo scrosciare della pioggia, dal rincorrersi di albe e tramonti, dal palpitare delle stelle e dall’incedere delle notti più buie durante le quali si accendono spesso le voci e i sussurri di un villaggio ormai muto e disabitato ma pur pieno di echi.
Una storia di umane passioni e miserie sullo sfondo di lotte e rivendicazioni sociali. Per me un filone senz’altro da approfondire, questo della letteratura latinoamericana, di cui, fatta eccezione per un assaggio di Sepúlveda, ancora non conosco granché.
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Au pays
Quello dell’emigrazione è uno dei temi particolarmente cari alla scrittura di Tahar Ben Jelloun. Del resto, in quanto marocchino emigrato in Europa da decenni, anche se non certo per svolgere lavori di bassa manovalanza come molti suoi connazionali, non potrebbe essere altrimenti.
Anche Mohamed, il protagonista del suo romanzo "L'ha ucciso lei" (titolo italiano, a mio parere, non troppo felice, al quale preferisco quello dell'edizione in lingua originale che ho letto: “Au pays”, Éditions Gallimard 2009) ha lasciato il Marocco molti anni addietro per andare a vivere e lavorare in terra francese. Una vita semplice, la sua, fatta anzitutto di onesto lavoro, famiglia, sincera devozione religiosa e ferie estive trascorse immancabilmente nel paese nordafricano, tra la gente del suo sperduto villaggio d’origine in cui non sono ancora arrivate né l’elettricità né l’acqua corrente dentro casa. Arriva il momento della pensione, che però Mohamed vive con crescente angoscia, temendo di ridursi a condurre un’esistenza vuota e priva di utilità. È allora, come per sfuggire quella che ai suoi occhi appare l’anticamera della morte, che inizia a considerare l’idea di far ritorno al suo paese per costruirvi una grande casa dove riunire la famiglia al completo, senza tuttavia essere certo se i suoi cinque figli, ormai adulti e indipendenti, e soprattutto abituati a stili di vita più da francesi che da marocchini, siano o meno propensi a lasciare tutto e trasferirsi laggiù. Riuscirà il pover’uomo a realizzare il suo progetto?
Con la consueta maestria del grande narratore, Tahar Ben Jelloun ci regala un romanzo che parla di emigrazione e (non completa) integrazione, di radici e sradicamento, di speranze e illusioni. Molto ben caratterizzato, il personaggio di Mohamed incarna alla perfezione l’immigrato di prima generazione che, seppur lontano da qualsiasi forma di estremismo religioso, tollerante e formalmente integrato, non riesce ad andare oltre certe frontiere culturali e sociali che lui stesso s’impone (noi-loro) e a distaccarsi pertanto da logiche legate al clan familiare (e nazionale) d’appartenenza; il venir meno di queste ultime provoca in lui disorientamento e timore di perdere la propria identità, mentre le seconde generazioni imparano presto a mantenersi in equilibrio, anche se talvolta precario, tra due culture diverse. Particolarmente intense le pagine che rievocano la partenza e il lungo viaggio dell’allora giovane Mohamed alla volta di quella che lui chiamerà sempre, con rispetto e spesso anche con un pizzico d’ironia, “Lalla França” (“lalla”, traducibile con “signora”, in Marocco è un titolo da principesse), dove la gente va di fretta e ad accoglierlo c’è soltanto la solitudine del silenzio.
“Il n’arrivait pas à s’imaginer qu’il n’allait pas retrouver la tribu, la famille, ce bled qui faisait partie de son corps et de tout de son être. Il sentait que quelque chose se détachait de lui, que plus le train avançait, plus le village qu’il avait quitté devenait minuscule jusqu’à disparaître entièrement. […] Il ne savait pas qu’il était en trai de passer d’un temps à un autre, d’une vie à une autre. Il changeait de siècle, de pays et d’habitudes.”
Attorno a quella del protagonista ruotano altre vicende, alcune delle quali non dissimili, altre invece di totale disadattamento, come quelle della giovani generazioni nate e cresciute nelle banlieue che insensatamente danno fuoco alle auto parcheggiate per le strade del quartiere. Una piccola storia ricca di spunti di riflessione, a tratti addirittura commovente, sullo sfondo di una Francia dove chi arriva, inevitabilmente, si porta dietro molto della propria terra d’origine e, nel contempo, di un Marocco, ancora per buona parte rurale e arcaico, dove chi ritorna non sarà mai più lo stesso di quando era partito.
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“Cosa significa essere matti?"
“E questa malattia, che non si sa se è una malattia, la nostra superbia ha denominato pazzia.”
Non un romanzo, ma una sorta di diario, di cronaca, attenta e profondamente umana, della vita tra le mura di un ospedale psichiatrico nelle vicinanze di Lucca, quello di Maggiano alias Magliano, presso il quale l’autore lavorò a lungo come medico.
Mario Tobino, di cui non avevo letto ancora niente e che ho scoperto letterariamente prolifico, mi si è svelato come un grande scrittore, capace di raccontare un mondo per buona parte nascosto e sconosciuto ai più. Tante le vicende che rivivono tra queste pagine, piccole storie non soltanto di pazienti (e non esclusivamente donne), ma anche del personale in servizio presso quella struttura. Il manicomio stesso, sospeso in una dimensione temporale perennemente al presente, emerge come un microcosmo dove, in definitiva, il confine tra follia e sanità mentale non sempre è così netto. Ma la pazzia esiste davvero? E qual è il senso del suo esistere? Non ho potuto fare a meno di soffermarmi su alcune riflessioni dell’autore, compresa quella che ho riportato come titolo:
“Cosa significa essere matti? Perché si è matti? Una malattia della quale non si sa l’origine né il meccanismo, né perché finisce o perché continua.”
“[…] i matti non hanno né passato né futuro, ignorano la storia, sono soltanto momentanei attori del loro delirio che ogni secondo detta, ogni secondo muore, appunto perché fuori del mondo, vivi solo per la pazzia, quasi avessero quel compito: di dimostrare che la pazzia esiste. Incomprensibili piante senza radici, ombre che blaterano parole senza senso e senza memoria.”
A parte un paio di rapidi accenni all’elettroshock e vari riferimenti alla nuda cella dove venivano rinchiuse per giorni le malate più esagitate, il libro non parla delle cure psichiatriche cui si ricorreva all’epoca, come se certe cose, forse per deontologia professionale, non dovessero fuoriuscire; del resto, non si dimentichi che correva l’anno 1953 quando l’opera fu pubblicata: si era ancora lontani dalla presentazione della Legge Basaglia e all’interno dei manicomi non era certo un gran bel vivere. Forse Tobino ha fatto bene a non essersi addentrato nello specifico delle terapie; c’è già abbastanza dolore in ciò che ha scritto, non c’era bisogno di aggiungerne dell’altro, rischiando, per di più, di cancellare la poesia che si respira nella sua prosa pacata e malinconica, come quando si sofferma sul canto delle cicale e sullo scorrere imperturbabile delle stagioni intorno al colle del manicomio.
“Le libere donne di Magliano” è uno di quei capolavori silenziosi e discreti da leggere con profondo rispetto per la vita e la morte che vi scorrono dentro, ricordandoci sempre dell’estrema fragilità della nostra esistenza.
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La saggezza degli antichi
Piacevole da leggere e sorprendente sotto vari aspetti, “L’arte d’amare” di Publio Ovidio Nasone è un’opera poetica che si distingue subito per contenuto ed eleganza stilistica, considerando la metrica utilizzata (intreccio di esametri e pentametri) e i copiosi e sempre affascinanti richiami al mito.
È un poema che invita all’amore libero, c’è poco da girarci intorno. Un vademecum per libertini, di libero stato civile o già uniti in matrimonio che siano, uomini anzitutto ma anche donne dal momento che l’ultima parte dell’opera si rivolge direttamente ed inequivocabilmente alle “tenere fanciulle”.
Come tutte le arti, anche quella di amare va appresa, studiata e applicata; Ovidio stesso si erge al ruolo di “magister” con la benedizione - dice lui - delle divinità a cui, pur essendo tali, non sono certo ignoti i piaceri dell’eros.
Gli oltre duemila versi del poema sono suddivisi in tre libri; eccone i contenuti:
- Libro primo: destinato agli uomini, esso illustra dove e come rimorchiare. “…non c’è donna al mondo che non possa divenire la tua: e tu l’avrai, purché tu sappia tendere i tuoi lacci”. Siccome la manna non scende dal cielo, ci si deve pur dare una mossa e fare qualche fatica per andare a cercarla, specie nei posti giusti: quelli pubblici principalmente, come portici, templi, teatri e dove si svolgono le corse dei cavalli, senza trascurare mense e banchetti presumibilmente presso case private. Una volta individuata la donna, attirarla con la giusta parlantina che però non l’annoi, con lusinghe, con la pazienza e, naturalmente, con promesse, promesse, promesse… “Prometti molto: le promesse attraggono a sé le donne”. E non ci si scordi di spergiurare, invocando come testimoni i sommi dei ché pure Giove, adultero incallito, è solito giurare il falso alla divina consorte. Non tralasciare poi di piacere al marito della donna in questione né d’ingraziarsi la sua ancella (e valutare bene se valga la pena di togliersi qualche voglia pure con quest’ultima, ma, nel caso, sempre dopo aver concluso prima con la padrona). Se si vuole fare colpo, meglio curare igiene e aspetto personali, senza però rischiare di apparire troppo effeminati come coloro che, tra gli uomini, si arricciano col ferro i capelli o si depilano le gambe. Ultimo sincero consiglio: in amore guardarsi da amici e parentame vario poiché, a quanto pare, in molti si candidano a soppiantare chi troppo loda la propria amante.
- Libro secondo: destinato anch’esso a un pubblico maschile di lettori come il precedente, erudisce nell’ardua impresa di conservare a lungo la conquista, giacché “il mantenerla è frutto d’arte fina”. Non perder tempo con magie e filtri d’amore, ma “sii amabile, se vuoi essere amato”. Aggiungere “doti d’ingegno” alla bellezza che da sola poco può fare, vista la sua caducità. Evitare i litigi, abbondando in dolcezza (soprattutto chi non può fare doni materiali); magari comporre per lei “teneri versi”, ché, a quanto pare, con la cultura qualcosa si rimedia sempre. Non risparmiarsi nemmeno in lodi e adulazioni, così come non domandare mai l’età ed evitare lo scandalo. Ma, in particolare, “fai solo e sempre tutto ciò che vuole” e sopportare tutto, ingiurie, percosse… persino le temute corna!
- Libro terzo: forse un tentativo da parte dell’autore di accattivarsi anche le simpatie del pubblico femminile, dal momento che questa parte che chiude la sua “Ars amatoria” è a uso e consumo delle donne. Non fosse mai che queste, nella nobile arte, non potessero vantare un maestro pari a quello degli uomini. “Godetevi la vita” e “cogliete il fiore”, esorta loro Ovidio ché non è mistero quant’è bella giovinezza. Tutto sommato, i consigli non sono dissimili da quelli dispensati ai colleghi maschi: curare la pulizia e l’aspetto personali, trucco e parrucco; ma - attenzione! - mantenere segreta l’arte con la quale ci si rende belle, fatta com’è di pratiche e intrugli mica tanto belli da vedersi. Per accalappiare un uomo è buona norma imparare a cantare, suonare la cetra, danzare e - perché no? - conoscere i poeti greci e latini: su come la cultura possa rivelarsi utile in certe circostanze già si è disquisito. Mostrarsi socievoli, al bando l’ira e la superbia, così pure la gelosia. Ogni tanto tenere la porta chiusa all’amante e imparare alla svelta a eludere la sorveglianza del marito, tanti trucchetti esistono apposta. Infine, all’occorrenza, fingere di raggiungere il piacere nell’amplesso.
Qualsiasi commento sembra superfluo. Del resto, si sa, la saggezza degli antichi è indiscutibile!
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Un Gabriele d'Annunzio inedito
“La morte non mi appare se non come la forma della mia perfezione.”
È un d’Annunzio sotto vari aspetti inedito quello che prorompe dalle pagine del “Notturno”, senz’altro diverso rispetto al romanziere e al poeta dalle voluttuose raffinatezze conosciuto da quanto letto finora.
Edita nella sua versione definitiva nel 1921, l’opera si caratterizza fin dalle prime battute come prosa personale, intima, sofferta: una sorta di memoriale dove non ci sono più lo spregiudicato esteta Sperelli, il tormentato Aurispa o il miserabile Episcopo, protagonisti di alcuni tra i suoi romanzi più noti, né la raffinata voce lirica dell’ “Alcyone” che canta di sere fiesolane e di “tamerici salmastre ed arse”. Qui c’è solo lui, Gabriele, un uomo di mezz’età, un soldato della Grande Guerra ferito e costretto, per un certo periodo, alla cecità pressoché totale a causa di un incidente aereo che, nel 1916, gli ha causato la perdita dell’occhio destro; un uomo che, di colpo, si ritrova nelle tenebre, in balia di febbre e deliri, di visioni e brandelli di vita lontana. In tutto quel buio, l’occhio perduto è come un cratere che fiammeggia aizzato da un demone, il letto viene avvertito come una bara e la morte, specie nelle prime settimane, è una presenza invadente che gli alita sul collo.
L’opera, composta durante la convalescenza, è stata scritta dall’autore bendato su numerosissime liste di carta (circa diecimila) approntate ad arte per permettergli di scrivere pur in quella condizione; essa si compone di tre lunghi capitoli denominati “offerte” cui si aggiunge un’annotazione finale del ’21. Ad assistere d’Annunzio, sia come convalescente che come “scriba”, secondo la sua stessa suggestiva definizione, la figlia Renata che il padre chiama teneramente “la Sirenetta”. È lei a porgergli i cartigli del cui riordino lui poi si occuperà personalmente in quanto riluttante a darli in seguito all’editore per la stampa, ritenendo trattarsi di memorie troppo personali da far conoscere al suo pubblico. Per quanto riguarda questa unica figlia femmina nata da una relazione extraconiugale, il “Notturno” svela una paternità dolce e amorevole, a tratti pure orgogliosa, che in genere non è tra gli aspetti più conosciuti del Vate e che non si riscontra invece nel caso dei tre figli maschi legittimi. Molto belle le pagine dedicate alla Sirenetta; toccanti quelle che rievocano, quasi fosse un fantasma, la figura della madre del poeta. Un d’Annunzio padre e un d’Annunzio figlio, dunque, tra le sorprese di questa lettura.
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Delicato
Se dovessi attribuire un aggettivo a questo romanzo, forse non ne troverei uno più immediato e spontaneo: delicato. Delicata è la figura di Imi, il giovane protagonista, delicati i suoi sogni; delicata anzitutto la penna dell’autore. Malgrado la storia narrata.
Nicola Lecca vola lontano dalla sua terra, isolana e naturale location per tanti altri autori locali, lungo le rotte europee di quelli che sono, in definitiva, i suoi stessi viaggi. Attraverso queste pagine ci racconta emozioni e speranze infantili di un povero orfanotrofio di confine, la fredda cortesia, l’indifferenza e il vuoto esistenziale di adulti smarriti, chi per una ragione chi per un’altra, in una città opulenta e sfavillante ma non per questo meno povera d’orfani, così come ci svela l’incanto – e il suo diretto disincanto – di un mondo apparentemente perfetto, dominato da infallibili gerarchie e leggi di mercato e dalla omologazione persino del cappuccino servito nelle grandi catene di caffetterie alla moda.
Un romanzo scritto con amore, ha dichiarato da qualche parte l’autore, e si sente.
Una piccola grande storia, semplice pur nella sua complessità.
Un libro profondamente bello, come tutti quelli che, nell’assurdità del nostro tempo, sanno ancora regalare un’emozione e far comprendere che quello della felicità è un segreto che, in fin dei conti, tutti potremmo scoprire se non ci ostinassimo a inseguire sempre e a ogni costo l’effimero e il materiale che non si possiede.
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Tortura
Quando, tempo fa, venni a conoscenza dell’esistenza di questo libro, non immaginavo che avrei avuto occasione di reperirlo e leggerlo tanto presto. Ne trovai un accenno tra le note de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni, all’interno del capitolo XXXI per la precisione, mentre nella narrazione dilagava la peste.
Ed è proprio da questo capitolo che prende le mosse il libro di Sciascia, un ottimo saggio-racconto che riconsegna alla Storia una piccola e anonima vicenda destinata altrimenti, al pari di chissà quante altre, a restare sepolta nell’oblio. La piccola storia in questione è quella di Caterina Medici, “strega professa” dalle demoniache frequentazioni secondo chi la giudicò e condannò, ma più che avvezza a pratiche magiche e ad amplessi con Belzebù la donna era rassegnata a fare il bucato, strigliare i pavimenti e tenere aperta la porta della propria camera da letto per chiunque avesse voluto godere della sua intima compagnia, dal momento che la sua condizione di domestica sembrava autorizzare padroni e servi ad approfittare di lei.
Mentre al Manzoni bastò chiamarla semplicemente “povera infelice sventurata”, senza per nulla dilungarsi sul suo caso, a costei Sciascia ridà nome e dignità, ricostruendone, sulla base degli atti del processo istruito a suo carico, la triste e sfortunata vicenda umana terminata anzitempo su un patibolo in quel di Milano. Il 4 marzo del 1617, esattamente a distanza di un mese dalla fine del processo, Caterina venne strangolata e messa al rogo, dopo essere stata esposta al pubblico ludibrio e generosamente dilaniata con una tenaglia rovente a bordo di un carro che percorreva le vie e i quartieri principali della città. Inutile dubitare della partecipazione della folla milanese (e forse anche di quella della provincia) al terribile e diabolico (quello sì!) spettacolo; del resto, è presumibile che fosse intenzione delle autorità politiche dare un forte monito in materia di stregoneria professionistica e, nel contempo, non distaccarsi dal saggio dettato di romana memoria del “panem et circenses” (oggi si continua a non farci mancare almeno i secondi).
Sono rimasta colpita dall’accento posto sulla questione della tortura, argomento che mi porta ad accostare questo libro a un’altra nota pubblicazione del Manzoni ovvero “Storia della colonna infame”: streghe da una parte e untori dall’altra, tutti presunti e creati ad arte più che reali, creature forgiate dal pregiudizio, dall’oscurantismo e dall’ignoranza dei tempi; ma anche dagli stessi trattamenti coercitivi (e la mente umana sì che ne ha partoriti fin dalla notte dei tempi) che inducevano persino i più resistenti ai dolori del corpo a confessare crimini inverosimili mai commessi e chiamare in causa complici mai avuti. Possibile che di questo difetto della tortura nessuno fra coloro che la prescrivevano con tanto zelo, manco si fosse trattato di una medicina, fosse consapevole? Essa veniva davvero considerata un mezzo infallibile per scoprire la verità nient’altro che la verità?
Senza dimenticare che la tortura non è un vecchio e sbiadito ricordo del passato ed esiste purtroppo ancora oggi, per rispondere a tale quesito niente di meglio delle stesse parole dell’autore…
Ma “la tortura non è un mezzo per iscoprire la verità, ma è un invito ad accusarsi reo ugualmente il reo che l’innocente; onde è un mezzo per confondere la verità, non mai per iscoprirla”: e questo i giudici lo sapevano anche allora, si sapeva anche da prima che Pietro Verri scrivesse le sue Osservazioni sulla tortura, si è saputo da sempre. Nella mente e nel cuore, in ogni tempo e in ogni luogo, ogni uomo che avesse mente e cuore l’ha saputo: e non pochi tentarono di comunicarlo, di avvertirne coloro che scarsa mente e poco cuore avevano.
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Niente è come appare
È stata una lettura faticosa per me, tanto che, almeno in un primo momento, pensavo di attribuire a questo libro soltanto tre stelle: lento, in più punti noioso, tremendamente e forse, in vari capitoli, inutilmente prolisso.
Poi, all’improvviso, più o meno a metà, la narrazione si è ripresa - anche abbastanza bene, devo riconoscere - e le pagine hanno iniziato a scivolare una dopo l’altra, incalzate dalla mia curiosa ingordigia di leggere come sarebbe andata a finire la vicenda che coinvolge María, Javier, Luisa e, per quanto irrimediabilmente defunto già dopo i primissimi capitoli, pure Miguel. Comunque, quattro stelle non raggiunte pienamente per via della prolissità che qui non abbandona mai la scrittura di Javier Marías, dialoghi che si perdono e trasmutano in monologhi spesso pieni di idee, congetture, elucubrazioni, periodi lunghissimi e tante pagine fitte fitte che agli occhi del lettore non concedono neppure la sosta (e la consolazione!) di qualche capoverso qua e là: tutti elementi che mi scoraggiano dal prendere in mano, almeno a breve termine, altri libri dello stesso autore.
Tuttavia, nel complesso, il romanzo mi è piaciuto, ricco com’è, pur nella sua prolissità, di intime e sottili riflessioni sulla vita e la morte, sull’amore e l’innamoramento. Tra i vari, ho sottolineato i seguenti passi:
“L’innamoramento è insignificante, la sua attesa invece è sostanziale.”
“La correzione dei sentimenti è lenta, esasperantemente graduale. Ci si installa dentro di essi e diventa molto difficile uscirne, si acquisisce l’abitudine di pensare a qualcuno con un pensiero determinato e fisso - si acquisisce anche quello di desiderarlo - e non si sa rinunciare a questo dalla sera alla mattina, o per mesi e anni, tanto lungo può essere l’attaccamento. E se quello che c’è è delusione, allora la si combatte al principio contro ogni verosimiglianza, la si sfuma, la si nega, si tenta di cacciarla lontano.”
“Ci attirano molto alcune persone, ci divertono, c’incantano, ci ispirano affetto e addirittura ci inteneriscono, o ci piacciono, ci trascinano, riescono anche a renderci pazzi momentaneamente, godiamo del loro corpo o della loro compagnia o di entrambe le cose, […] Persino, alcune, ci diventano imprescindibili, la forza delle abitudini è immensa e finisce per supplire a quasi tutto, e al limite per sostituirlo. Può sostituire l’amore, ad esempio; ma non l’innamoramento, conviene fare distinzione tra i due, anche se si confondono non sono la stessa cosa… Quel che è molto raro è provare una debolezza, una vera debolezza per qualcuno, o che costui la produca in noi, che ci renda deboli. Questa è la cosa determinante, che ci impedisca di essere oggettivi e ci disarmi in eterno e ci faccia arrendere in tutte le contese, […] In generale la gente non prova questo con un adulto, né in realtà lo cerca. Non aspetta, è impaziente, è prosaica, forse neppure lo vuole perché nemmeno lo concepisce, cosicché si unisce o si sposa con il primo che gli si avvicina, non è così strano, è stata la norma per tutta la vita, vi sono quelli che pensano che l’innamoramento sia un’invenzione moderna venuta fuori dai romanzi.”
“[…] i resti del mio [di María] innamoramento; questi non finiscono mai di colpo, né diventano istantaneamente odio, disprezzo, vergogna o puro stupore, vi è una lunga traversia fino ad arrivare a quei possibili sentimenti sostitutivi, vi è un accidentato periodo di intrusioni e mescolanze, di ibridazione e contaminazione, e l’innamoramento non finisce mai del tutto fino a che non si passi attraverso l’indifferenza o piuttosto attraverso la noia, fino a che uno non pensi: «Che cosa superflua ritornare al passato”.
Infine, rimane un dubbio molto pesante da archiviare, in María come in chi ha letto la storia, perché niente è come appare, verità e menzogna si confondono e la verità stessa rischia di essere “sempre un imbroglio”… Anche gli innamoramenti?
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Storie di miniera
L'autore ci conduce con la maestria del grande narratore nel profondo delle viscere della terra, all’interno di un mondo buio e pieno d’insidie dove guadagnarsi il pane significa rischiare la vita ogni giorno. È infatti una storia di ambientazione mineraria quella che inizia a scorrere mentre si segue il giovane protagonista, Luisu Melas, le cui vicende finiscono per perdersi inevitabilmente tra quelle tumultuose della Storia con la esse maiuscola.
Era il tempo del “Taci, il nemico ti ascolta” e del carbone autarchico del Sulcis. La grande miniera di Serbariu raccoglieva braccia da ogni parte d’Italia sullo sfondo di Carbonia, città nuova e moderna che il regime fascista aveva fatto sorgere dal nulla solo pochi anni prima.
Luisu, vent’anni scanditi unicamente dai ritmi della vita contadina del paese immaginario di Fraus, vi giunge in groppa al puledro Baieddu quasi al termine del 1942, in pieno conflitto mondiale; per conto del padrone deve consegnare il cavallo, destinato a diventare bestia da traino nelle gallerie sotterranee, ma anche lui, trattenuto laggiù in qualità di “abile arruolato minatore” per assolvere il dovere della leva militare, è costretto a conoscere la traumatica discesa nel Pozzo Uno, tutto un altro mondo a ben centosettantasei metri sottoterra.
Luisu non ci metterrà molto a vedere con i suoi occhi campagnoli la miniera come un campo di battaglia, con tanto di morti e feriti da essere non meno pericolosa della guerra stessa.
Anche quella nuova realtà ha il suo cielo, anzi due: cielo doppio che alterna i suoi volti di buio e luce nell’eterno scendere e risalire dal pozzo; quello infido è il “cielo di sotto nero e basso, […] cielo che può cadere”, spazio angusto per corpo e mente dove il grisù, ancor più traditore, tende i suoi agguati di fuoco. Intorno a Luisu, che di sopra e di sotto percorre il suo personale percorso di crescita, si muovono altri personaggi, tra i quali il toscano anarchico, nonché confinato politico, Ferriero Dondi, il minatore-penitente tziu Macis e la figlia di quest’ultimo, Marialuisa, ragazza decisa dal bel nome d’erba.
Il libro di Angioni sa tenere viva l’attenzione del lettore dalle prime alle ultime pagine e solo allora, alle concitate battute conclusive, si comprenderà con amarezza che la fine del romanzo era già racchiusa nel suo inizio.
Una storia semplice e preziosa. Una lettura che ha il merito di farci voltare indietro ancora una volta per riscoprire, grazie all’intreccio inscindibile e ben dosato di finzione e realtà, un passato che ci appartiene e neppure tanto lontano.
Il professor Giulio Angioni se n’è andato, a causa di un male incurabile, lo scorso mese di gennaio. Faceva parte a pieno titolo di quel gruppo di scrittori sardi contemporanei il cui successo editoriale ha oltrepassato i confini isolani; era anzitutto un antropologo e i suoi studi accademici sono conosciuti anche nelle università europee. Per chi, come la sottoscritta, ha amato i suoi libri è stata una grave perdita, pensando a quante altre bellissime storie come questa di "Doppio cielo" avrebbe ancora potuto scrivere.
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Erotismo arabo… da ridere!
Chissà che reazione avrebbero di fronte a libri come questo i bacchettoni e i fanatici dell’Islam…
Nella migliore delle ipotesi, il rogo sarebbe la loro risposta a queste pagine; nella peggiore, tra le fiamme finirebbero pure gli incauti lettori. Fortuna che la feconda, multiforme e tollerante cultura islamica del passato, a dispetto della barbarie odierna, ha prodotto gioielli come “I fiori splendenti”, un’opera considerata un capolavoro della letteratura erotica araba.
La firma è quella di ‘Alî al-Baghdâdî (nessuna parentela con il sanguinario “califfo” dell’Isis), un autore arabo del XIV secolo probabilmente di origine irachena, come s’ipotizza dal nome, il quale visse per lungo tempo in Egitto, alla corte mamelucca del Cairo.
Mi sono regalata di recente – a distanza di un paio d’anni – una rilettura di questo libro, nel quale mi imbattei per puro caso mentre curiosavo in una vecchia libreria di titoli ormai fuori catalogo. Si tratta di una raccolta di oltre venti racconti: piccole storie raccontate con garbo, ironia e comicità, e anche con una buona dose di sana sfacciataggine che però non sfocia mai in volgarità gratuita, sebbene il linguaggio sia schietto e tutt’altro che censurato. L’oggetto del raccontare, elaborato sulla base di aneddoti raccolti dall’autore stesso forse a corte o durante i viaggi al seguito del sultano, è presto detto: il vivace, anzi vivacissimo ingegno delle donne.
“[…] un libro in cui raccogliere, per quanto sia possibile, le facezie, le burle, i giochi proibiti e le scene di sregolatezza, in modo da illuminare la fondatezza e il buon senso dei proverbi popolari, mostrando come tali creature possano cavarsela con risposte tanto pronte quanto appropriate”, scrive nella sua prefazione ‘Alî al-Baghdâdî, il cui intento, aggiunge, è quello di mettere allegria in chi legge e allontanarne così i crucci dell’esistenza. Non se ne dubiti, poiché si rischia per davvero di sorridere e ridere di gusto a ogni angolo di queste pagine ricche di quelle particolari atmosfere dell’Oriente che fu. Spassosissimi alcuni quadretti coniugali, non da meno quelli extraconiugali, dove mariti e amanti, puntualmente in odore di corna, fanno infine la figura dei poveri fessi dinanzi all’astuzie e alle trovate geniali delle loro compagne per mettere in atto e poi nascondere le proprie tresche: in certi casi, non soltanto traditi, ma addirittura felici di esserlo… Gli incontri sessuali vengono descritti con dovizia di particolari, ma, come detto, non c’è alcun intento volgare e il libro si propone come letteratura d’evasione.
Sebbene a più riprese, nel corso della narrazione, venga invocata l’infinita misericordia di Allah per non incappare nella ridicolaggine di simili situazioni, l’opera appare come un indiscutibile riconoscimento all’intelligenza e al valore delle donne, decisamente più scaltre degli uomini, quantunque confinate all’ambiente domestico. E la tanto temuta misoginia araba? In verità, qui non se ne trova traccia, così come viene scardinato d’un colpo l’ormai abusato stereotipo della donna musulmana sottomessa e priva di personalità: le rappresentanti della categoria in questione, protagoniste indiscusse in questo giardino dai fiori splendenti, sanno bene cosa vogliono e, soprattutto, come ottenerlo!
Una bella e divertente lettura che consiglio a chi voglia semplicemente farsi quattro risate, a chi sia curioso di leggere qualcosa di arabo, a chi abbia altrettanta curiosità di vedere un po’ più da vicino l’Islam per capire se esso sia veramente così tetro come le cronache del nostro tempo spesso ce lo raccontano.
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Mattatoio Beirut
Scoperto per puro caso e reperito inaspettatamente in biblioteca, questo libro a fumetti si è rivelato una vera sorpresa.
La vicenda al centro di queste tavole è una delle pagine più drammatiche e agghiaccianti della Storia recente: il massacro dei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila a Beirut, avvenuto nel settembre del 1982 a opera dei falangisti cristiani di Bashir Gemayel con il complice sostegno dell’esercito israeliano che all’epoca aveva invaso il Libano.
Tratto dall’omonimo film d’animazione del regista israeliano Ari Folman, che vi ha proposto la sua storia di giovane soldato testimone, suo malgrado, di quella mattanza, “Valzer con Bashir” è un fumetto intenso, duro, sconvolgente che denuncia l’assurdità della guerra; è israeliano anche David Polonsky, i cui disegni dal fascino particolare ben rappresentano le tragiche atmosfere degli eventi narrati. Molto importante, dunque, questa presa di coscienza da parte della società d’Israele, uno schiaffo all’arroganza e alla violenza dello Stato ebraico e di personaggi del calibro di Ariel Sharon (a cui sono state riconosciute precise responsabilità in quella vcenda) e di tutto il Likud che siede al governo. I morti di Sabra e Shatila, purtroppo, dai più anziani ai bambini ancora nel ventre materno, non avranno mai giustizia.
http://www.raistoria.rai.it/articoli/il-massacro-di-sabra-e-chatila/10852/default.aspx
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Silenzio…
È lui, secondo me, il principale protagonista di questo romanzo: il silenzio.
Quello che avvolge e scende dalla montagna, che grava spietato sui personaggi, che incombe indifferente sulle vicissitudini umane.
E di silenzio è fatta la straordinaria figura di madre che, seppur minuta e pressoché anonima nel suo abito di lutto perenne, campeggia tra queste pagine con il proprio muto dolore più assordante di tanti inutili discorsi. A lei, Mariangela, riuscito esempio di mater dolorosa, si contrappone la figura di prete Coi che, invece, in quella dimensione volutamente orfana di parole ci sta stretto e cerca allora di spezzarla, convinto che sia possibile; ma anche lui a quel silenzio si dovrà piegare, convincendosi che, alla fine, sia meglio tacere.
Mi è tornata alla mente la madre dell’omonimo romanzo di Grazia Deledda: una figura anch’essa imponente e tragica, scaturita dalla penna del nostro Premio Nobel meno di cinquant’anni prima. Tuttavia, quella de “Il disertore” è ancor più evocativa, ancor più impressionante, forse proprio per via di quel dolore silenzioso e composto che riempirà la vita della donna fino all’ultimo dei suoi giorni e serberà in eterno il suo segreto. Già, perché il silenzio sarà tutto ciò che infine resterà, al di là del tempo, nella vecchia capanna sul monte, custode di una tomba, così come per le vie polverose e inquiete del piccolo paese attorno al monumento ai caduti che, dopo tanto vacuo parlare, strepitare, urlare sarà esso stesso silenzio, profondo silenzio.
Sullo sfondo la Sardegna dell’immediato primo dopoguerra, della quale l’autore, da buon isolano, non si dimentica nei lunghi anni trascorsi nel continente: un’isola con le sue realtà, agropastorale e mineraria, le sue tensioni sociali, gli scontri tra rossi e neri, l’avanzata del fascismo a suon di bastonate e olio di ricino.
Un piccolo capolavoro con cui Dessì, del quale già avevo letto e apprezzato moltissimo il più famoso “Paese d’ombre”, si conferma un grande narratore. E anche una lettura ricca di spunti di riflessione - manco a farlo apposta - a cent’anni dalla Grande guerra.
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L’irreparabile fuga del tempo
Per ogni libro esiste un particolare periodo della propria vita.
Credo di aver letto questo romanzo di Dino Buzzati al momento giusto: non sono ancora così avanti negli anni, ma mi ritrovo comunque a un’età in cui è naturale fare un bilancio esistenziale e, pertanto, rivolgere più di un pensiero agli anni lasciati alle spalle; insomma, tutti cerchiamo di fare i conti con la vita e col tempo che passa, anzitutto per poter andare avanti. Ecco perché, fin dal principio, sono stata affascinata da “Il deserto dei Tartari”, che se avessi letto a quindici anni, probabilmente, non mi avrebbe coinvolta allo stesso modo né l’avrei potuto comprendere appieno.
È infatti il tempo il grande protagonista di questa storia tanto semplice quanto spiazzante. Né l’ufficiale Giovanni Drogo, consacratosi in toto alla carriera militare, né la Fortezza Bastiani, estremo baluardo di frontiera. No, soltanto il tempo, con il suo lento ma inarrestabile incedere, la sua fuga appunto irreparabile, i suoi silenzi che, indifferenti, si mescolano ad altri vasti silenzi solcati dalla voce del vento e dai sussurri notturni ammantati di stelle, così come essi si confondono col greve pallore della neve e col rosso vivo dei tramonti sempre uguali, con i palpiti di vita a primavera che lusingano gli animi facendo loro nuove e ingannatrici promesse. Quella di Drogo esemplifica al meglio la vicenda umana in generale: aggrappati a un presentimento più o meno vago di cose grandi, si aspetta la vita. Ma la vita, in verità, non aspetta e così il dolce sapore dei sogni e delle speranze si tramuta presto in quello amarissimo delle illusioni.
“Il tempo intanto correva, il suo battito silenzioso scandisce sempre più precipitoso la vita, non ci si può fermare neanche un attimo, neppure per un'occhiata indietro. "Ferma, ferma!" si vorrebbe gridare, ma si capisce ch'è inutile. Tutto quanto fugge via, gli uomini, le stagioni, le nubi; e non serve aggrapparsi alle pietre, resistere in cima a qualche scoglio, le dita stanche si aprono, le braccia si afflosciano inerti, si è trascinati ancora nel fiume, che pare lento ma non si ferma mai.”
Magnifico e portentoso romanzo, la cui narrazione, non estranea, a mio parere, a sfumature kafkiane, è calata in una perfetta dimensione spazio-temporale fantastica e indefinita.
Scrittura semplice e incisiva, per nulla prolissa, decisamente diversa rispetto a quella che si ritrova tra le pagine di “Un amore".
Un messaggio, quello lanciato dall’autore, che forse, alla luce di certi suoi passaggi, non è poi di assoluto pessimismo: se è vero che alla fuga del tempo non ci è possibile resistere, è però anche vero che questo stesso tempo, intanto che fugge, possiamo riempirlo di piccole grandi soddisfazioni quotidiane, senza ostinarci nella frustrante e inutile ricerca di successo e gloria a vario titolo; e, soprattutto, di affetti, amicizia e amore, affinché la nostra esistenza non diventi una landa arida e desolata come quella sconfinata del deserto dei Tartari.
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Ad alta quota
Scenari mozzafiato di valli e montagne fanno da sfondo alla vicenda narrata nel nuovo romanzo di Angela Freschi. Una perfetta “location” dell’anima, ammaliante e coinvolgente, con le sue atmosfere innevate e le sue nuvole buone che rapiscono a poco a poco il lettore.
La storia, veramente molto ben scritta, si riallaccia in parte a quella di “Venga il tuo regno”, già apprezzato libro d’esordio dell’autrice, riproponendo, e stavolta con un ruolo di primo piano, il personaggio del boss palermitano Stefano Marino che, con la sua vita disillusa e stanca di scelleratezze, finisce per nascondersi in un paesino tra le Alpi valdostane; sarà questo un luogo non soltanto di latitanza, ma anche di una nuova alba. E Alba, non a caso, è il nome della protagonista femminile, una giovane donna accompagnata da un vuoto interiore colmo di solitudine e un dolore indecifrabile che scava nell’anima e la cui vera essenza si rivelerà solo alla fine. Con lo scorrere delle pagine la prosa si arricchisce di una profonda introspezione psicologica, mentre nelle descrizioni del paesaggio, come ovattate da un velo di malinconica poesia, sembrano riflettersi sentimenti ed emozioni in un continuo interscambio tra natura e stati d’animo.
Quando dalle montagne del Gran Paradiso la narrazione si sposta verso il mare assolato della Sicilia e, ancor più lontano, tra le luci scintillanti di Bangkok, attraverso una serie di flashback che fanno da perfetto contorno al presente, s’incontrano altre realtà e altre piccole storie, per lo più di miseria e disperazione; ben caratterizzati anche i personaggi non principali, primo fra tutti quello dell’anziana Caterina, la medium della valle, la cui vicenda personale impreziosisce queste pagine. Su tutto e su tutti – che ci si trovi tra monti nostrani ricoperti di larici o sul lontano fiume Chao Praya – aleggia una costante dimensione onirica che conferisce alla storia un fascino molto particolare.
Un’altra ottima prova di Angela Freschi. Una scrittura, la sua, ora più matura che, a mio avviso, si riconferma per originalità di stile e soggetto, nonché per una sensibilità capace di abbracciare più orizzonti volando in alto proprio come le nuvole che corrono nel cielo del suo romanzo.
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