Opinione scritta da Bruno Izzo

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    02 Settembre, 2015
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Il sentimento della giustizia

ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER

Stephen King ha scritto libri che hanno venduto milioni di copie, tradotti in tutte le lingue, dai suoi romanzi sono stati tratti film diretti dai grandi della regia, conta milioni di appassionati in tutto il mondo che ne hanno decretato, giustamente, il successo di pubblico e di critica; la sua firma, quindi, garantisce da sola ingenti profitti librari ed enorme richiamo cinematografico.
Eppure, per un certo periodo, essenzialmente per motivi contrattuali, King ha pubblicato alcuni suoi romanzi celandosi dietro uno pseudonimo, quello di Richard Bachman.
Tra questi “L'occhio del male”, che parecchi considerano forse il meno riuscito dei libri di King a firma Bachman.
Tuttavia, anche se fosse, “L'occhio del male” è in ogni caso un libro importante della bibliografia kinghiana, è un romanzo in ogni caso utile per approfondire la conoscenza dello scrittore del Maine.
Perché uno scrittore, qualunque scrittore, profonde sempre parte di sé nelle sue opere, ciascun romanzo parla, a saperlo leggere, anche del suo autore.
Ce ne indica il talento, certo, e l'attività più o meno abile di pensare storie, immaginarle, rimaneggiarle, e sopratutto riversarle sulla carta in maniera gradevole ed intelligibile ad un tempo. Se ne fa arte, quindi, e come tale indica un messaggio, un pensiero; ma contemporaneamente riflette anche l'essenza di chi scrive, e ne rivela perciò gusti e preferenze, simpatie ed idiosincrasie.
Lo diceva già Gustave Flaubert, allorché, riferendosi al suo romanzo "Madame Bovary", esclamava: "Madame Bovary sono io!", intendendo con ciò che quando si scrive ci si rivela, non è possibile altrimenti, perché ognuno scrive in maniera diversa, scrivere è un segno caratteristico, un po' come le impronte digitali, perciò s'inventa, si mente, si falsifica, ma lo si fa scrivendo ciascuno a suo modo, ed ogni modo è rivelatore di qualcosa che appartiene esclusivamente all'animo di chi scrive.
Ebbene, “L'occhio del male” ci rivela, in sintesi, come la pensa King a proposito, per esempio, della giustizia in America, del modo, assai parziale, di com'è amministrata la giustizia negli Stati Uniti.
Il libro rivela lo sdegno dello scrittore, giacché il suo animo e la sua sensibilità sono pervase da un sentimento sinceramente democratico, che lo spinge, a modo suo, con i mezzi e gli archetipi di tipo orrorifico che utilizza normalmente per la sua letteratura, a dar luogo, sulla guisa di un thriller alla John Grisham ante litteram, alla critica del sistema giudiziario statunitense, e in un respiro più ampio, alla critica di tutto un modo d'essere e di agire di gran parte dell'opulenta borghesia americana.
Come solito del costume yankee, il sentimento della giustizia americano è pesantemente di tipo classista, per questo la legge è uguale e garantista per tutti, in particolar modo per i bianchi, anglosassoni e protestanti, professionisti impegnati e ben forniti di dollari, e la stessa legge è un po' meno uguale e molto punitiva nei confronti dei neri, delle minoranze, dei poveri, ed è infine cinicamente indifferente nei confronti dei moderni paria della società, dei diversi, degli emarginati, crudelmente segnati a dito come possono essere, per esempio, gli zingari.
King indica in questo libro il suo pensiero politico, dunque, svela le sue scelte democratiche, si schiera apertamente contro un modo ingiusto di considerare le persone.
William Halleck, protagonista del romanzo, è il prototipo del benpensante ricco, professionista affermato, colonna della piccola comunità in cui vive, una persona rispettabile e cristallina, un paladino della giustizia con la maiuscola, si tratta, infatti, di un brillante avvocato.
Felicemente, almeno all'apparenza, coniugato con Heidi, padre esemplare della piccola Linda, insomma un uomo indicato come raro esempio di virtù e di affidabilità. Soffre della malattia tipica dei paesi opulenti, l'obesità: pesa, infatti, oltre 110 chilogrammi, mal portati, ma è un particolare trascurabile in confronto a tutte le sue doti, in fondo alla moglie piace così com'è.
Tanto che gli piace, che i due decidono per un rapporto sessuale un po' trasgressivo, in realtà più stupido ed incosciente che sopra le righe: viene, infatti, consumato nel momento che Halleck è alla guida della sua autovettura.
L’inevitabile distrazione che ne consegue trasforma la stupida leggerezza in una tragedia annunciata, giacché l'affermato avvocato tira sotto le ruote una donna uccidendola.
Giustizia vorrebbe che venisse, se non arrestato, senz'altro processato per omicidio colposo, data la sua lampante responsabilità.
Sennonché, l'avvocato William "Billy" Halleck è uno dei membri più importanti ed in vista della comunità; non solo, ma il particolare che fa pendere, concretamente ed altrettanto ingiustamente, il piatto della bilancia in suo favore, è che la vittima è una miserabile zingara.
Uno di quei diversi brutti, sporchi e cattivi; e la parte lesa è rappresentata dai parenti suoi simili, un gruppo di nomadi additati sempre con sospetto, nell'immaginario collettivo sempre dediti al furto, all'accattonaggio, al rapimento dei bambini, anziché essere considerati, per una volta almeno, esponenti d'etnia e cultura diversa.
E in ogni modo meritevoli di un trattamento equo e paritario da parte di una giustizia che dovrebbe garantire, a maggior ragione, i più deboli ed indifesi.
Ma tutta la comunità non desidera altro che vederli sloggiare al più presto, nel suo bagaglio termini come giustizia e tolleranza sono dedicati solo a chi conta; e l'omicidio commesso da Halleck diventa poco più che un incidente, spiacevole, forse, ma nulla che possa macchiare l'integrità morale dell'illustre concittadino, mandato completamente assolto dalle autorità del posto, giudice e polizia, buoni amici, tra l'altro, del presunto innocente.
Halleck è salvo, dunque, e tranquillo: mal gliene incoglie, poiché un vecchio zingaro gli lancia addosso un'antica maledizione: “…dimagra…”.
Comincia per Billy un vero incubo, dapprima avvertito solo come una sorta di disagio e poi come un'angoscia via via sempre più pressante, scandito nei tempi e nelle ansie dall'inarrestabile indietreggiare dell'ago di una bilancia, in un drammatico e particolare conto alla rovescia.
Billy, infatti, comincia a perdere peso, dapprima lentamente, e poi sempre più velocemente, in un'inarrestabile consunzione, scandita dai buchi supplementari, applicati lentamente ma inesorabilmente, alla sua cintura, e tale tragicomico progredire della fila di fori nel cuoio rappresenta la sua condanna e la sua punizione. In principio, egli crede di essersi buscato "solamente" il male del secolo; ma dopo visite mediche, e dopo una breve indagine che lo porta a scoprire come anche i corresponsabili dell'ingiusta assoluzione sono stati colpiti da analoghe orrende metamorfosi, il giudice, infatti, si sta ricoprendo gradualmente di squame ed il poliziotto sta letteralmente marcendo, egli si convince definitivamente di essere stato effettivamente colpito da un'irrazionale, ma non per questo meno efficace, maledizione gitana.
Sono queste le pagine meglio riuscite del libro; qui troviamo per esempio l'abilità descrittiva che ha reso famosa la prosa di King nell'accurato ritratto che egli fa del luminare della scienza medica il quale, dopo tutti gli esami e le analisi a cui ha sottoposto il suo paziente, non riuscendo in alcun modo a spiegare razionalmente il drammatico calo di peso, se n'esce con una dotta e fumosa dissertazione sui misteri del metabolismo o sugli ancora ignoti meccanismi d'azione di una banale medicina come l'aspirina, una logorrea e prosopopea tipica dell'arrogante classe medica quando vede minato il proprio carisma di demiurgo.
Ancora, particolarmente indicative sono le pagine in cui King descrive, e molto bene, tutti i rituali, le strategie, le pecche delle persone obese: per esempio, il fatto di pesarsi senza monetine nelle tasche, meglio ancora senza i vestiti, con intestino svuotato, nel disperato tentativo di rientrare in uno spettro di peso dignitoso; le giustificazioni alla guisa di "grasso è bello" che gli obesi s’inventano mentendo a se stessi, l'impaccio con il quale si è costretti a muoversi sentendo un peso che tira la cintura; sono pagine che ci danno precise indicazioni di come King senta perfettamente il problema, sa benissimo di cosa sta parlando, ed egli stesso ha o ha avuto problemi con il giro vita.
Per cui il "dimagra" del vecchio zingaro ha un sapore beffardo: da un lato crea angoscia ed un crescendo di tensione, dall'altro crea un'inconscia soddisfazione in chi, finalmente, rientra in uno jeans attillato. Ed è un modo di fare giustizia che non crea scandalo, dà quasi l'idea di una giustizia superiore, molto più equa e solidale di quella degli uomini, ed alla quale non è possibile sottrarsi.
Fa scandalo invece il modo con cui Billy reagisce a quella che egli, paradossalmente, ritiene un'ingiustizia; l'avvocato tutto di un pezzo, rispettoso delle regole, non esita a rivelarsi nella sua vera abietta ed egoistica essenza, non si fa scrupolo di usare i mezzi illegali, appannaggio dei clienti che era uso difendere in tribunale, pur di ripristinare il suo assai discutibile diritto, quello di continuare a vivere dopo aver privato di una vita un altro essere umano suo pari, che lo voglia o no, senza nemmeno rendersi conto che la sua miserabile esistenza non è, a questo punto, più degna e di valore di quella della sua sfortunata vittima.
E ricorre ai servizi del gangster Ginelli, e con i mezzi tipici delle intimidazioni mafiose, ottiene dal vecchio stregone magiaro non il ritiro della maledizione, cosa impossibile, poiché questo rito una volta avviato non può essere fermato, ma la sua deviazione su un bersaglio diverso.
E la maledizione è così rinchiusa in un dolce casalingo, ed il cinico Billy decide di destinarlo alla moglie, e già s'immagina una nuova vita, un nuovo futuro, con tanti ingombranti chili in meno, con una moglie altrettanto ingombrante fuori dei piedi, in compagnia dell'adorata figlia, l'unica persona per cui Billy nutra veramente amore, l'unica per cui ha sentimenti umani, gli unici che gli sono rimasti.
Il finale è uno dei migliori mai scritti da King, a cui la maggioranza dei critici rimprovera una certa piattezza nelle pagine finali dei suoi romanzi.
Ancora una volta, interviene un alto sentimento della giustizia, una giustizia vera, democratica, equa ed imparziale, che ha nome destino, caso, coincidenza, Dio o semplicemente Giustizia, con la maiuscola. Perché ad assaggiare il dolce fatale non è solo la moglie, ma anche l’adorata figlia; e Billy, di fronte all'irreparabile, affronta finalmente il proprio destino senza più fuggire, accetta di pagare il fio delle proprie colpe, con un ultimo gesto catartico e di redenzione, si assume scientemente la propria responsabilità e sceglie di restare fino all'ultimo accanto alla propria famiglia, servendosi l'ultima fetta di dolce.
“L’occhio del male” è quindi, per tanti versi, un libro che ci dice molto di Stephen King, non ultimo il suo amore per la famiglia, indirettamente enfatizzato nella scelta finale del protagonista.
Ma il mondo interiore di King è ricco d'altri aspetti, d'altre cose che desidera condividere tramite le pagine dei suoi libri, cose più magiche e spesso legate ai ricordi della propria giovinezza; e di lì a poco dopo la pubblicazione di questo romanzo, lo scrittore del Maine lo farà più compiutamente nelle opere della sua piena e raggiunta maturità.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    27 Agosto, 2015
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Conflitto d’interessi.

In un futuro quasi prossimo, o in un presente già attuale, il potere politico ed economico in un’ipotetica società comprende anche il dominio totale dei mezzi di comunicazione di massa: ne consegue un vero e proprio conflitto d’interessi.
Privo di un minimo di controllo, di censura, d’informazione imparziale, il potere politico diventa allora assoluto, svolge opera di persuasione occulta e d’influenza subliminale, trasforma ed elabora la cronaca e le notizie a proprio uso e consumo, deteriora l’umanità, la libertà di scelta e di conoscenza, la consapevolezza dei cittadini, trasformandoli in semplici, obbedienti, consumatori di beni e di servizi, del tutto asserviti e plagiati dal potere centrale, che quotidianamente e metodicamente, compie un vero e proprio lavaggio del cervello, utilizzando ai propri esclusivi fini il potere dei media.
Quest’appena descritta non è, come si potrebbe credere, la succinta descrizione della società a suo tempo profetizzata da Orwell nel suo “1984”, e nemmeno un sunto della spinosa questione se non vi sia conflitto pericolosissimo per la libertà, rischiosa contrapposizione quando chi detiene una leadership politica risulta, putacaso, anche un imprenditore principe dei media, se questo particolare inficia o influenza il consenso politico in maniera più o meno occulta.
Trattasi invece dello scenario in cui è ambientato “L’uomo in fuga” di Stephen King, uno dei romanzi “minori” dello scrittore del Maine, a suo tempo edito con lo pseudonimo di Richard Bachman. Considerata l’epoca non sospetta in cui fu scritto, presenta un’ambientazione alquanto originale, singolare e nello stesso tempo difforme dagli scenari classici delle più conosciute opere kinghiane. In questo romanzo King immagina che, nell’ordine delle cose appena descritto, le autorità utilizzano il mezzo principe, la televisione, come un vero e proprio persuasore occulto, propugnando agli spettatori l’equivalente moderno del “panem et circenses” dei tiranni romani. Pertanto, a fianco all’onnipresente e martellante pubblicità che invita all’acquisto e al consumismo sfrenato e ossessivo, visti come unica ragione di vita, sono propinati spettacoli via via sempre più crudi, assurdi, sanguinari ma che appunto, essendo l’equivalente moderno dei cristiani sbranati vivi dai leoni nel Colosseo, stimolano e appagano esclusivamente gli istinti più bassi e triviali della massa che fa audience, accattivandosene l’attenzione e la simpatia, permettendone il controllo e lo sfruttamento.
Ben Richards, il protagonista, ha conservato ancora una parvenza di dignità e di capacità di giudizio, ma i casi sventurati della vita, una figlia gravemente ammalata, la disperazione della disoccupazione, una moglie costretta a prostituirsi per garantire, in qualche modo, la sussistenza della famiglia, lo spingono a partecipare al più cruento dei giochi del network dominante, ed anche quello più ricco in montepremi: “L’uomo in fuga”, appunto. Braccato non solo dai cacciatori di taglie professionisti al soldo del potere costituito, ma in pratica da tutti gli abitanti del pianeta in possesso di un apparecchio televisivo, Ben deve riuscire a non farsi trovare per un periodo sufficientemente lungo e per incrementare il montepremi e per rimanere in vita, giacché il gioco, efferato e crudele, non prevede regole e tutti i mezzi sono leciti. Ma lo sono soltanto ed esclusivamente per i cacciatori, perché, con stupefacente ed agghiacciante abilità, i media manipolano fatti e notizie trasformando l’innocente Ben nel classico mostro in prima pagina, trasformando un’efferata caccia all’innocente in una santa opera di giustizia collettiva.
Il finale non è hollywoodiano, a conclusione felice: ma nello stile del primo King, quello di “Cujo” e “Carrie”, avrà un epilogo tragico e catartico. Ben Richards scoprirà le magagne del potere, classicamente finirà per trasformarsi da preda in cacciatore e il suo sacrificio, forse, non sarà stato vano, permetterà la diffusione, in qualche modo, di brandelli di quello che è il bene supremo dell’umanità: la verità.
Scritto sulla falsariga di un altro romanzo bachmiano quale “La lunga marcia”, a questo assomiglia per il genere, la fantasy fiction, e per le caratteristiche comuni dei protagonisti.
Il Garraty de “La lunga marcia” è, come il Richards de “L’uomo in fuga” un eroe controcorrente, un banale protagonista del quotidiano che, in un sussulto di dignità, prova a riscattare, in un anelito di libertà, la propria umanità brutalizzata e standardizzata da una tecnologia crudele e assurda che non è, come da presupposti, al servizio del benessere dell’umanità, ma è strumento fine e aberrante dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Di King si ritrovano le atmosfere, la maniacale descrizione dei personaggi e degli intrecci, l’interiorizzazione totale nelle vicende e nei pensieri, ancora però abbozzati, ancora non compiutamente e magistralmente espressi, come da lì a poco farà lo scrittore del Maine con le opere della raggiunta maturità.
Perché “L’uomo in fuga” è, per King, un banco di prova, un esercizio di scrittura, un saggio delle sue capacità artistiche; esso può leggersi secondo ottiche diverse, si possono riconoscere temi cari al King uomo e scrittore.
Lo Stephen King cresciuto ed allevato dalla sola madre, che compenserà questa privazione creandosi una propria, solida famiglia con la moglie Tabitha ed i tre figli, si ritrova nell’amore che Ben Richards porta ai propri cari; l’animo democratico di King che si sdegna per la manipolazione della verità emerge nella sottile denuncia allo stile americano di vita, troppo legato ed influenzato dal potere dei media.
Ma soprattutto emerge, inarrestabile, la gran voglia di scrivere, il desiderio fortissimo di King di mettere in ogni caso nero su bianco, di sfornare storie per il piacere prima di tutto suo e poi del suo pubblico, che è il motivo fondamentale, la molla principale che proietta letteralmente King come un uomo in fuga verso il meritato successo.
Di cui tuttora gode presso generazioni di lettori in tutto il mondo che la sera, dopo gli impegni quotidiani, preferiscono senz’altro la compagnia di un libro del Re del Maine alla dose, sempre uguale, di scempiaggini trasmesse dagli ubiquitari ed onnipresenti network.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    26 Agosto, 2015
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Il tabù più grande

Possiamo inquietarci, spaventarci, morire di paura leggendo e vedendo le pellicole con i temi dell’orrore classico, i più comuni, il vampiro, l’uomo lupo, lo zombie, il fantasma, ma in fin dei conti tutto l’orrore che si può provare, tutti gli spaventi, le palpitazioni, i salti dalla sedia, possono tutti indistintamente ricondursi alla paura per l’orrore più grande, indefinibile, nascosto finanche a se stessi, quello di cui non si parla mai, almeno in pubblico, quasi a volerlo celare ed esorcizzare nello stesso tempo: la morte.
In “Pet Sematary” Stephen King affronta, appunto, il gran tabù, l’orrore principe di cui tutti hanno paura, lui stesso compreso: la leggenda vuole che King abbia avuto più di un ripensamento prima di dare il proprio assenso alla pubblicazione di questo suo romanzo, giudicandolo il più inquietante parto dalla sua fantasia.
In effetti, “Pet Semetary” è un romanzo inquietante, nel senso che lascia un che d’indefinito, di spiacevole, al lettore: ma è, a ben pensarci, un effetto voluto, diretta conseguenza del modo come l’argomento della morte è dibattuto.
La storia, di per sé assai semplice, e che tuttavia ben si presta alla tecnica solita dello scrittore del Maine di introdurre un elemento insolito, perturbatore in una situazione di banale e ordinaria routine, vede protagonista, ed anche questa non rappresenta alcuna novità nella produzione di King, una famiglia rappresentativa della middle class della piccola provincia americana, costituita dal dottor Louis Creed, giovane e valente medico, un dottor Kildare sui generis, pare creato apposta sullo stampo del mitico dottor Manson d’alcuni fortunati romanzi di Cronin, sua moglie, Rachel, una classica e saggia massaia, di cui è innamorato pure dopo anni di matrimonio, la figlia Ellie, una bambina dolce e delicata, il figlio più piccolo Gage, un bambino vispo e vivace, e naturalmente, il “pet”, il classico ed immancabile animale domestico di casa, un membro della famiglia a tutti gli effetti, amato e coccolato da tutti gli umani della famiglia, nella fattispecie non il più comune cagnone tenerone alla Cujo, ma il più infido gatto Church, il cui nome (chiesa) è già tutto un programma.
A questi si aggiunge il vecchio Jud Crandall, il vicino di casa che a Louis, cresciuto senza padre, appare come il genitore, la guida che non ha mai avuto.
Ma anche i genitori, anche le guide, possono sbagliare strada e sentieri, ed è questa casuale conoscenza che porterà il dottor Creed a conoscere gli effetti magici, o meglio diabolici, del locale cimitero degli animali, gravato da un’antica maledizione indiana, che restituisce alla vita gli esseri viventi riposti in quel luogo per breve tempo. Li restituisce a una parvenza di vita; non li trasforma in zombie, fa di più, li trasforma in puri e gratuiti concentrati d’indifferente malvagità, in esseri senza anima, senza sentimenti, senza discernimento, poiché il ritorno alla vita è in realtà una tragica beffa, il prezzo pagato per questa rentrée non vale lo spettacolo in scena, non ha nulla di sacro e di benigno, è agli antipodi per esempio rispetto alla cristiana resurrezione dei corpi o al risveglio ed incarnazione in una dimensione migliore, in una nuova positiva esistenza.
Quello che lascia sconcertati, che crea l’inquietudine che serpeggia sottilmente e magistralmente in tutte le pagine del romanzo, è proprio l’assurdo comportamento di Louis Creed.
Louis, lo ripetiamo, è un medico: come tutti i medici, ha dimestichezza con la morte, sa che essa è un evento, non è un “mostro”, è un accadimento, talora imprevisto, precoce, accidentale, e tuttavia inevitabile, naturale, parte intrinseca del corso delle cose. Per la morte, tutti i medici hanno rispetto; la combattono, la respingono, talora la maledicono, eppure nessun medico si sogna di dileggiarla, deriderla, sminuirne il valore, l’importanza, il mistero. Un buon medico, un qualunque medico, si limita a curare, anche parossisticamente, intensivamente, cocciutamente, ma non si accanisce inutilmente, non tenta mai, con presunzione ed arroganza, di osare l’incredibile quando sa, con umiltà ed umanità, di essere giunto ad una soglia oltre la quale non è permesso, non è di questo mondo, nemmeno è giusto ed umano provare a ritornare, e perciò il suo sforzo è vano, deleterio, finanche demoniaco.
Louis Creed pecca, e pecca per cieco egoismo: non intende rassegnarsi con umiltà, accettare i propri limiti, essere leso come tanti altri nei propri affetti, si ammanta senza neanche accorgersene di superiorità e di presunzione, e perciò nemmeno intende riconoscere alcuna valenza catartica, salvifica, consolatoria al dolore umano, anche a quello più atroce e più intimo, e forse soprattutto a quello, non ha rispetto per il mistero, il tabù per eccellenza, e ne infrange la sacralità. E riporta alla vita, alla grottesca parvenza di vita, prima il gatto, poi il figlio, e altri via via, in una sorta di diabolico, vampiresco deja vù, un delirio di folle onnipotenza di creazione e resurrezione alla Frankstein, con un finale magistralmente lasciato in sospeso, onde non sminuire la tensione, l’inquietudine che è la caratteristica unica e principe del romanzo.
Un buon romanzo quindi sul tabù, vero o presunto, della morte, al solito un buon romanzo di King; ottime le descrizioni dei luoghi e degli ambienti, le caratterizzazioni dei protagonisti, profondi ed intimi i pensieri e le considerazioni sugli eventi, scorrevole il tragico dipanarsi della storia; sarebbe stato un romanzo ancora migliore, tuttavia, solo se il dottor Louis Creed, e per lui Stephen King, avesse avuto conoscenza diretta o immediata memoria delle parole dello scrittore argentino Jorge Luis Borges: “La morte è un’usanza che tutti, prima o poi, dobbiamo rispettare”.

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ed è un Fedele lettore di Stephen King.
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    13 Agosto, 2015
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Il colpo di fortuna

La vita non è altro che un susseguirsi continuo di eventi, di emozioni diverse e contrastanti, d’incontri, di circostanze; per chiunque l’esistenza è difficile e faticosa, per fortuna a volte ci soccorrono momenti di quiete, di pace, di tranquillità, per i più fortunati frammenti di pura felicità.
La maggioranza, saggiamente, si accontenta della semplicità e della serenità dell’esistenza, sa che la felicità è rara e cieca, come la fortuna, sono troppo aleatorie perché si presentino spesso e puntualmente. La vita è una battaglia, non giorno per giorno ma minuto per minuto; e come dice la vecchia storiella d'origine africana, ogni giorno che Dio manda in terra, non è importante che tu sia cacciatore o preda, ma vedi di darti una mossa, corri, perché la vita stessa questo esige continuamente, che tu sia vitale, attivo, in movimento perenne con rari, talora unici, momenti di sosta, di requie, per ritemprare le energie.
Ne consegue che, più spesso di quel che pensiamo, ci assale la tentazione di possedere qualcosa, la classica bacchetta magica, o, più prosaicamente, qualcosa di altrettanto fiabesco e molto improbabile, quale può essere ad esempio l'altrettanto classica supervincita al superenalotto, che di un sol colpo risolvano le problematiche insite nell'affannoso travaglio quotidiano.
Oppure, va benissimo anche l'acquisizione di un potere, magico e grandioso, di origine fortuita e paranormale, quali, e facciamo un esempio non casuale, la premonizione, il sapere e vedere in anticipo ciò che riserva il futuro, il conoscere non ciò che è, ma quello che sarà con altrettanta precisione del presente: rappresenta certamente una tentazione irresistibile e piena di attese. Appunto perché si considera un mezzo facile e artificioso, ma terribilmente affascinante, che in qualche modo semplifichi e faciliti la propria esistenza, cancelli o mitighi l’angoscia e l’affanno del vivere quotidiano.
La vicenda, terribilmente umana e paranormale a un tempo, dello sventurato John Smith, il protagonista de “La zona morta”, uno dei romanzi migliori di Stephen King, dimostra invece che l'acquisizione di un simile, sinistro potere di premonizione, precipita il protagonista da una comune, semplice e banale esistenza di piccolo borghese, già insita nel nome comunissimo tra la classe media americana, in un'altra dimensione.
Una dimensione grigia e terrificante, nella quale Johnny è condannato a sapere ciò che accadrà prima ancora che succeda, è letteralmente scagliato in una zona morta nella quale gli eventi mancano del carattere di imprevedibilità, di sorpresa, di conquista, di successo, di sconfitta tipiche dell'umana esistenza.
John Smith non è stato gratificato dall'acquisizione del suo potere, ne è stato condannato, la sua dote non è un privilegio, è una maledizione, al giovane è stato tolto il sale della vita, l'esistenza per lui è qualcosa già noto, già visto, già conosciuto, una pietanza insipida.
Un libro già letto, senza chiaroscuri, ma con sole zone morte.
John Smith è stato depredato del bene più prezioso dell'uomo, quello per il quale, dagli albori della civiltà, gli umani hanno sempre combattuto e a esso hanno sempre anelato: il libero arbitrio.
In questo senso, "La zona morta" è un libro sulla libertà.
La libertà di essere, di agire, di lottare, di soffrire; la libertà di amare, di odiare, di porsi un obiettivo, talora neppure tanto evidente, e di gioire nel raggiungerlo o precipitare nell’angoscia di vederlo svanire all'ultimo minuto.
La libertà di essere se stessi e unici padroni e artefici del proprio destino, la libertà di cambiare le cose fidando sulle proprie forze, la libertà di sfibrarsi per cambiare ciò che non si può tollerare oltre, sostenuti dalle proprie illusioni, perdendosi dietro di esse.
La libertà di scegliere il proprio destino, senza sapere quale esso sia, la libertà di correggere in corsa le proprie scelte, di rinnovarle o rinnegarle, di cambiare e di cambiarsi, la libertà di confermare o sovvertire il valore delle proprie scelte, senza conoscerne l’esito in anticipo.
Da questo potere che straripa e che come un turbinoso fiume in piena lo trascina nelle zone morte dell'esistenza, Johnny cerca di difendersi come può, cerca giustamente di trarne del bene, e, ad esempio, prevede incendi e aiuta la polizia nelle sue indagini; ma non può comunque salvare se stesso, schiavo del suo potere, non può o non riesce a mutare il suo destino o a illudersi di farlo: esso a lui solo, unico dannato, è già noto.
Come Re Mida, è vittima dal suo potere; come un tossicodipendente il quale, con un artifizio chimico, s’illude di cambiare la realtà ma rimane invischiato dalla sua droga, John Smith è in possesso non di un elisir ma di un veleno, che lo intossica e lo conduce, inevitabilmente, a un tragico finale. Tragico solo nelle apparenze, trattandosi in realtà di una storia a lieto fine.
Infatti, ci si chiede a un certo punto se, potendo tornare indietro, si spazzerebbe, per esempio, Hitler dalla faccia della terra. John Smith risponde in prima persona, e, infatti, non è lui a porre fine alla carriera e al pericoloso arrivismo di un cinico politicante simile hitleriano dei nostri giorni, anche se indirettamente, con il proprio sacrificio, ne sancisce l’inizio. Non sono le mani di Johnny a colpire, non diventano mani di assassino, per questo la storia finisce bene. Perché la Storia, quella vera, non è la storia degli individui, anche se taluni incidono su di essa, ma è la storia delle masse, dei popoli, è una storia di lotte di classe.
Per esempio, fosse stato assassinato Hitler, al posto del miserabile acquerellista di Monaco si sarebbe creato un nuovo Führer, portato al potere dalla stessa classe sociale che aveva appoggiato ed innalzato Adolf, la classe degli speculatori, degli industriali della Ruhr, dei Krupp e dei fabbricanti di armi, della classe agraria bisognosa di nuovi pascoli e spazi vitali, dei finanzieri che studiavano da anni il modo per estromettere gli ebrei dai vertici delle banche e dell’economia tedesca, saldamente in loro mani.
Molto più giusto, più democratico, più umano, è creare le condizioni sociali per cui certe situazioni non accadano, non nascano, non crescano, non si giunga a un punto di non ritorno arrivati al quale si richiede solo il pagamento di uno spaventoso tributo in vite umane per ricominciare.
Non servono i killer politici, ma il lavoro sulle coscienze; e la vita è troppo preziosa perché privi chicchessia, in nome di una giustizia presunta che è solo arroganza e dittatura, tipica degli autoritarismi.
Nessuno tocchi Caino.
E, per terminare, nella miglior tradizione dei libri di Stephen King, “La zona morta” è anche una storia d’amore.
L’amore di coppia, certamente, ma King esamina qui anche altri tipi d’amore; quello tra padre e figlio, per esempio, e soprattutto una specie d’amore che King, per vissuto personale, dà mostra di conoscere benissimo: quello tra professore e allievo, tra maestro e alunno, tra docente e discente. Non me ne vorranno coloro che, sfortunatamente per loro, della scuola e degli educatori non hanno buona esperienza, eppure il rapporto tra chi insegna e chi impara è, quando svolto bene, prodigo di affetto, di sentimento, di umanità per l’una e l’altra parte. Educare, tirare fuori il meglio da un bambino, da un adolescente, da una persona, è un’arte, e questa, quando è buona arte, è anche amore. Ancora una volta, ci accorgiamo che Stephen King è un artista.
Un grande artista, che ama i suoi lettori, come loro lo amano.





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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    11 Agosto, 2015
Top 50 Opinionisti  -  

"Vedere" voci

Questo libro essenzialmente, in maniera garbata, sottile, discreta, parla di donne, tratta di violenza sulle donne, racconta di donne picchiate, maltrattate, violentate, discute di donne umiliate e brutalizzate dagli uomini, di bambine rapite a scopo di libidine e ritrovate massacrate, allude all’incesto, riflette sui minori abusati, offesi proprio nel luogo, la famiglia, che per definizione dovrebbe essere per le piccole vittime il rifugio più sicuro, protetto, tutelato, dove dovrebbero essere soltanto semplicemente amati e dove invece sperimentano l’inferno in terra.
Sono tutti argomenti di cui si parla maggiormente in questo periodo, quello della violenza sulle donne è un tema che quasi quotidianamente apre i titoli di giornali e telegiornali.
Tuttavia, è questa la sua particolarità, non è un libro fresco di stampa, non è un romanzo basato sui fatti d’oggi, è un romanzo, infatti, pubblicato nel 1994, oltre venti anni fa, eppure sempre attuale.
Già venti anni fa un’autrice colta e sensibile come la Maraini sentiva il bisogno di scrivere e di denunciare il femminicidio, il fenomeno era già preoccupante venti anni fa; questo deve farci riflettere. Il libro è attuale non tanto perché la pur brava Dacia Maraini ha, in un certo senso, precorso i tempi, ma perché la violenza sulle donne è un fenomeno antico, non è nato ora come qualcuno crede ma è profondamente e tenacemente radicato da secoli, ed è terribile e terrificante insieme: in quasi tutte le società tradizionali, le donne rispetto agli uomini hanno sempre vissuto situazioni di subordinazione e discriminazione. Imposte sempre con la violenza, di tutti i generi: fisica, psicologica, sessuale. Sempre, e continua ancora oggi.
La società evolve, cresce, matura, ma questi delitti non diminuiscono, anzi, oggi questi fatti di violenza sono, purtroppo, drammaticamente in aumento.
Non è però un romanzo crudo, non descrive cinicamente le scene di violenza nella loro efferatezza, non indugia nell’esposizione dei particolari macabri e morbosi, piuttosto la Maraini si esprime, non meno efficacemente, in un sussurro, in un sommesso mormorio di voci, un raccontare a bassa voce; eppure la storia coinvolge, angoscia, emoziona, è la scrittura rapida ed incisiva, attenta ai particolari, ad alzare il tono delle voci. La singolarità del romanzo sta proprio in questo, nel fatto che la storia si evolve, in forma di giallo, e cioè attraverso il racconto dell’assassinio di una giovane donna, non tanto con l’usuale descrizione d’indagini poliziesche, resoconti, immagini, ma attraverso “voci”, voci di cui la protagonista fa attento ascolto quotidiano, fa impiego per motivi professionali, è infatti una giornalista della radio.
Voci che la protagonista, la giovane Michela Canova, incide su un registratore; sono voci delle interviste delle persone coinvolte o interessate, voci che lei raccoglie, magari pure a loro insaputa e nonostante la loro reticenza, e riascolta, filtra, pulisce, voci che dichiarano ciascuna una propria verità, voci che dissimulano, che piangono, che urlano, che ricordano, che giustificano.
Voci mai univoche, voci che rappresentano i vari aspetti della realtà, ciascuna a suo modo: le anime tormentate delle vittime danno voce alla propria angoscia, quelle dei colpevoli negano la verità a se stessi, con voce non meno chiara ed accorata.
Non si urla, in questo libro, non si alza la voce, è un libro di voci sussurrate, il volume non è alto, ma il frastuono, l’eco, il rumore della violenza e dell’ingiustizia, ci sono, sono presenti e assordanti, grandi, come grande è il dolore descritto: più che l’orecchio allenato è la sensibilità della giornalista, che ascolta con il cuore e con l’anima anziché con le orecchie e l’udito, che le permette di differenziare le voci che esprimono il tormento delle vittime da quelle che declamano le assurde scusanti giustificative dei colpevoli diretti ed indiretti. Più colpevoli, quindi: perché non c’è, né può esserci differenza o graduazione di colpa tra chi commette un abuso e chi quell’abuso permette con la propria inerzia ed il proprio silenzio consenziente.
La protagonista di "Voci", la giovane radio giornalista Michela Canova, si trova coinvolta casualmente nell'omicidio della sua vicina di casa, una donna molto carina, semplice, riservata, che pure aveva incontrato poche volte nella sua vita, incrociandola casualmente in ascensore.
Contemporaneamente, le viene anche affidata un’indagine radiofonica sulla violenza sulle donne.
Le due storie procedono quindi parallelamente, intersecandosi inevitabilmente tra di loro tramite il comune denominatore della violenza dell’uomo sulle donne, e nel corso delle sue indagini e delle sue inchieste, la giornalista raccoglie le voci degli interessati a vario titolo nelle storie.
Dall’analisi delle voci la giornalista intravede le incrinature, le distonie, le dissonanze, non si fa ingannare dal tono caldo, melodioso e del tutto sincero della voce con la quale si possono finanche esporre le giustificazioni più assurde e inverosimili dei propri atti nefandi consapevolmente portati a termine, Michela conscia dell’uso distorto che si può fare della voce, giunge alla soluzione dell’assassinio, una soluzione banale ma non meno terribile e dolorosa, che lascia l’amaro in bocca, che lascia senza voce.
“Voci” possiamo dire, in definitiva, che è un romanzo sonoro, è un libro che, tramite la scrittura, ci fa “sentire”: ci permette di udire, con la parola scritta, i rumori di fondo, i toni, i frusci, i calpestii, i fremiti, i sospiri, i borbottii…e poi la verità, l’amarezza, il dolore, la vergogna, la bugia, la rimozione, la menzogna.
Forse “Voci” non è tra i romanzi maggiori della Maraini, tuttavia vale certamente la pena di leggerlo.
Perché Dacia Maraini è una grande scrittrice, che sa farci sentire le voci usando i segni della scrittura. Sentire le voci con i segni: come dire, “vedere” voci.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    11 Agosto, 2015
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Un saggio

Un comune insegnante d’inglese diventa uno scrittore di successo, vende milioni di copie dei suoi libri, è amato da generazioni di lettori affezionati.
Come questo sia potuto accadere, Stephen King lo spiega indirettamente nel suo “Danse Macabre”.
“Danse Macabre” non è un romanzo, è un saggio sulla scrittura, antesignano del più tardo e specialistico “On writing “, sempre a firma dello scrittore del Maine.
Sarebbe troppo affermare che si legge come un romanzo, ma nemmeno ha qualcosa di un saggio propriamente detto. Piuttosto, ricorda molto, e ne assume lo stile colloquiale e confidenziale, delle quattro chiacchiere che King usa scambiare con i suoi lettori nelle prefazioni ad alcuni suoi libri, in modo particolare raccolte di racconti o romanzi brevi, in cui si dilunga da un lato su ricordi personali che in qualche modo hanno influenzato il suo desiderio di scrivere, e dall’altra sulla genesi e la struttura dei suoi libri.
E, in effetti, anche in questo saggio King alterna il racconto di fatti propriamente biografici a una vasta, accurata, attenta e appassionata disamina dell’orrore, del fantasy, della fantascienza.
In qualunque modo questi generi siano espressi: cominciando dal racconto orale, ad esempio la classica storia dell’uncino, il progenitore di tutte le storie che si raccontano per esempio tra i boy- scout, in genere di sera attorno ad un fuoco, quando si creano ad arte le atmosfere giuste per realizzare quella che King definisce la sospensione dell’incredulità, vale a dire uno stato d’incanto che permette di credere anche quello che, in stato normale, la mente rifiuterebbe sdegnosamente di accettare per vero.
Si passa poi all’analisi delle pionieristiche riviste dei racconti del genere, sulle quali si sono fatti le ossa generazioni di giovani narratori, prima di passare all’analisi minuziosa dei cosiddetti racconti del tarocco, i tre libri, si riferisce a “Dracula” di Bram Stocker, “Frankestein il moderno Prometeo” di Mary Shelley, e “Lo strano caso del dottor Jekill e Mr. Hyde” di Stevenson, che hanno costruito i tre archetipi ai quali si può far ricondurre tutto quanto si è detto e scritto dell’orrore e del soprannaturale, con l’aggiunta del quarto archetipo, quello del fantasma, particolarmente evidente, a detta dello scrittore del Maine, nel libro “Ghost story” di Peter Straub.
Naturalmente, ci si dilunga anche sulle trasposizioni cinematografiche con i quali questi archetipi sono stati portati alla conoscenza del grosso pubblico, ma lo scrittore non dimentica l’insegnante che è in lui e si attarda sui testi scritti, in dotte ed accurate, ma per nulla noiose, dissertazioni del perché dell’orrore, in che modo agisce su di noi, i tre livelli in cui esso si suddivide, l’orrore, il terrore, la repulsione, la contrapposizione tra apollineo e dionisiaco presente in ciascun’opera del genere e che sta alla base dell’effetto voluto.
Ci si ricorda della radio, con i programmi “Suspense”, “Dimension H” e il mitico “The war of the worlds “ di Orson Welles che trasse in inganno tantissimi americani tanta la verosimiglianza con un’autentica invasione aliena.
Si arriva alla televisione, nei suoi splendidi albori, con l’analisi particolarmente attenta di trasmissioni cult come la serie “Ai confini della realtà”, indagata non solo nelle trame e nelle sceneggiature, ma anche negli autori e nei registi.
Si affronta la lunga filmografia dell’orrore, includendo i film maggiormente conosciuti, per esempio “La notte dei morti viventi” e “Rosemary’s Baby”, “Alien” e “L’esorcista”, “La cosa da un altro mondo” e “Gli invasati”, “l’invasione degli ultracorpi” e “Lo squalo”, ma anche quelli meno fortunati, talora girati con mezzi di fortuna, quelli dove, per dirla con King, è possibile vedere la chiusura lampo sulla schiena del mostro.
E si arriva all’immensa bibliografia dell’orrore: partendo da Shirley Jackson si va da Ira Levin a Ramsey Campbell, da H.P. Lovecraft a Richard Matheson, da E.A Poe a Harlan Ellison, da Ray Bradbury a Robert Heinlein, da Jack Finney a James Herbert, da Anne Rivers Siddons a John Mc Donald, tanto per limitarci a qualcuno dei soli autori citati e, soprattutto, esaminati dettagliatamente nei loro libri e in tutta la loro produzione letteraria.
Si badi, parli di televisione, di film o di libri, King esamina con lo stesso rigore sia capolavori indubitabili che autentiche patacche.
Che riflessione ci induce questa descrizione del testo di King?
Esso è un libro non eccessivamente voluminoso, l’autore riesce a fare in modo che la lettura sia scorrevole, mai noiosa o accademica, è talora intrigante e coinvolgente, riesce a interessare, anzi a suscitare desiderio d’approfondimento, anche in chi non ha stretta predilezione del genere in esame.
Un testo difficile? Sì. “Danse Macabre” è un testo difficile….per chi lo ha scritto.
Basta guardare l’appendice, per rendersi conto, forse solo in minima parte, della fatica che è costata all’autore. King dimostra di conoscere a fondo ogni film, ogni titolo, ogni autore che ha citato.
Di chiunque e di qualunque cosa ha a che fare con il genere horror, King ne è espressamente a conoscenza, con somma dovizia di particolari.
Non solo, ma il suo è un libro scritto contemporaneamente con rigore da studioso e con il sentimento dell’innamorato.
Stephen King con “Danse Macabre” non ha scritto un saggio, si dimostra egli stesso un saggio, inteso nel senso di sapiente, di chi sa.
Lo scrittore del Maine è perfettamente a conoscenza di che cosa parla e della materia prima del suo lavoro. Ha impiegato tempo, lavoro, fatica per apprendere la conoscenza di cui fa sfoggio nel suo libro. Questa sapienza, che egli ha accumulato con sacrifici nel tempo e con una certosina e amorevole applicazione, rappresenta una pietra per affilare, una mola.
Su questa mola, su questa fatica, su questa sapienza egli ha nel tempo, con l’esercizio continuo, affilato la lama rozza e abbozzata del suo talento, fino a farne un bisturi affilatissimo, che incide mirabilmente l’animo del suo lettore, lasciandogli dei segni magici, indelebili, affascinanti.
Questo è il modo con cui un comune professore d’inglese diventa uno scrittore di successo, vende milioni di copie dei suoi libri, è amato da generazioni di lettori nel mondo.
Come “Danse macabre”, egli è un saggio.

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Stephen King, of course. Ma anche no!
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    09 Agosto, 2015
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Il semplice segreto di una donna innamorata

Dopo “L’amica” questo è il secondo romanzo del giovane scrittore fiorentino Nicola Ronchi.
Il lettore non si lasci fuorviare dalla copertina in stile “Grand Guignol”, il romanzo non è semplicemente un thriller “sensu strictu” o una banale storia horror lugubre e angosciante, tutt’altro.
Certo, non mancano autentici momenti di pura suspense, pagine in cui l’accorto fluire della narrazione, avvalendosi del sempre valido artificio di evidenziare in corsivo i dialoghi più intriganti, provoca curiosità, attenzione, e fiumi di adrenalina si riversano in circolo invogliando il lettore a scorrere le pagine più in fretta per “…sapere quanto prima che succede, come va a finire…”.
Sono momenti mai fini a se stessi, piuttosto inseriti ad arte nello schema narrativo con logica e razionalità, diciamo subito che non si rinvengono nessun inutile orpello paranormale o una facile fuga nell’inspiegabile o non detto. Ronchi non mente, non bara e non depista: narra con onestà intellettuale, e racconta bene, come ogni buon scrittore dovrebbe fare.
Se proprio occorre catalogarne il genere, operazione sempre assai ardua, allora “Il segreto di Elena” è un thriller psicologico, un romanzo alla Wulf Dorn, per intenderci, e soprattutto i lettori che già conoscono lo scrittore tedesco capiranno perfettamente il riferimento nello specifico. Intendiamoci subito quindi, l’ultima fatica di Ronchi è un buon libro, ma non ha niente a che fare con storie alla “non aprite quella porta”, nessun bagno di sangue o serial killer, gli amanti del genere faranno meglio a dirottare altrove le loro scelte. “Il segreto di Elena”, dirò di più, non è solo un buon romanzo, è soprattutto una bella storia d’amore, per quanto possa apparire strano e per la copertina e anche dopo una rapida scorsa al prologo e alle prime pagine, esso è un romantico, sensibile e quanto mai reale racconto d’amore, l’amore che quando è davvero tale, travalica ogni logica e ogni apprensione, insiste, persiste, si ostina per salvaguardare l’amato bene. A costo di farsi male in prima persona. Ronchi ci offre una intensa, tenera, delicata storia d’amore, intricata e intrigante. Certo, forse può apparire una storia strana, originale, rara per non dire unica, ma non è vero, non è neanche tanto vero. Se solo ci soffermiamo un attimo a considerare quanto sia stressante la nostra esistenza, quanto siano logoranti, nevrotici e schizofrenici, i tempi in cui viviamo, quanto ci costa in termini nervosi la nostra corsa quotidiana, appesantiti da tutti gli inutili ma pesantissimi fardelli per il cui possesso siamo quotidianamente condannati a consumarci, allora ci rendiamo conto che tutta la nostra vita e i nostri affetti risentono di questa incessante usura e neanche l’amore, quello vero, è immune da certe forme di cattiva influenza che ormai tutto avvolge e con cui tutti dobbiamo aver a che a fare.
Inutile nasconderlo, la violenza, specie quella domestica e nell’ambito familiare, e ancora il femminicidio, gli abusi di tutti i generi, fisici e psicologici, gli omicidi per futili motivi, il bullismo, la pirateria stradale, il sesso fine a se stesso, il terrorismo, i soldi facili, la droga, la generale decadenza dei valori della solidarietà e della condivisione, tutto questo riguarda tutti, è un velo di follia neanche tanto velato vicino a tutti noi, nessuno escluso, fa parte del nostro vissuto, ne è intrisa la società moderna, e tutti dobbiamo farne i conti. Perciò la storia di Ronchi non è un caso unico e particolare, è cronaca reale e quotidiana, ciò che racconta accade e può accadere, più spesso di quanto si creda. E’ poi inevitabile che la storia ci commuova o almeno ci coinvolga emotivamente, se l’unico talismano in grado di raddrizzare una situazione nata storta e cresciuta sbilenca è un cristallino sentimento di amore, amore vero, puro, immenso, amore senza fine, amore stile adolescenziale, quell’amore che ti spinge a voler condividere la tua esistenza per sempre con la persona amata. Non a caso la colonna sonora del romanzo è la citata e quanto mai azzeccata “Ti sposerò perché”, vecchio successo degli anni ottanta di Eros Ramazzotti.
Per davvero intendono sposarsi, e presto anche, i protagonisti del romanzo Dario Ferrini ed Elena Coralli: sono una coppia di ragazzi come tanti, già conviventi da un paio d’anni e innamoratissimi a ogni istante di più. Impiegato lui, trentacinque anni, piccolo, pacifico, serioso e paffutello, trentenne restauratrice di quadri lei, bellissima, allegra, solare, propositiva, si incontrano casualmente ad un corso di informatica, e per quanto diversi nel fisico e nello spirito, come spesso succede proprio per questo sono inevitabilmente attratti l’uno dall’altro. Subito è amore a prima vista, un grande amore e un amore grande, stile “a te” di Jovanotti, per intenderci. Vanno ben presto a convivere nella casa di lui, nel suo paesello natale, un tipico paesino della campagna toscana, dove tutti conoscono tutti, un paese quieto, pacifico, sonnacchioso e vitale insieme.
La loro esistenza scorre placidamente, tra il lavoro e gli amici del cuore, la top model Alessia per lei e per lui il cugino Alessandro, maestro di tennis e playboy del paese, e il meccanico Alberto, l’amico d’infanzia, nonché i soliti amici del bar, Picchio e Serra, figure usuali, stereotipi in questo contesto piccolo provinciale. I due giovani si amano, senza dubbio alcuno, seriamente e intensamente: per quanto possano essere diversi e differenti, per vissuto e origine, sono legati inestricabilmente loro malgrado dall’antica alchimia che da sempre regola, con leggi misteriose ed ineffabili, l’andamento del mondo. Né vale a scioglierlo questo legame eventi casuali come l’intimo, esclusivo e assoluto rapporto tra Elena e Alessia, che Dario non ha ancora neanche mai vista e conosciuta, oppure l’evento delittuoso che ha inciso indelebilmente l’animo di Dario adolescente, allorchè i suoi genitori furono barbaramente uccisi in una presunta rapina andata a male. Nemmeno ci riescono le piccole baruffe e gelosie tra amici, in effetti, sia Alessandro sia Alberto sono anche loro intimamente e segretamente innamorati di Elena: difficile non esserlo, trattandosi di una ragazza fuori dal comune, tanto semplice quanto elegante, tanto solare quanto discreta, e più di uno si chiede come possa una ragazza eccezionale, splendida e splendente come lei, così unica e speciale, parecchio sopra le righe, legarsi tanto a ragazzo tanto bravo quanto insignificante come Dario.
Ma tant’è, l’amore come detto è una chimica misteriosa e inspiegabile, ed i due progettano a breve il loro matrimonio e la creazione di una propria famiglia. Sennonché un evento fortuito e disgraziato insieme, apre all’improvviso uno squarcio nella tela di un’esistenza del tutto normale e prevedibile, risucchiando i protagonisti in un vortice che ben presto si rivela un vero e profondo gorgo di un incubo tra i peggiori. Elena si ferisce accidentalmente con un rasoio, Dario si precipita precipitosamente insieme con lei al pronto soccorso, e il banale incidente svela all’improvviso un mondo sconosciuto, inquietante e incredibile a un tempo, racchiudibile in un solo termine: autolesionismo. Sul corpo di Elena la presenza di tagli, antichi e recenti, testimonia il ricorso a una tecnica assurda, infliggere delle ferite al corpo di modo che il dolore fisico occupi il posto di quello mentale. Un segno di grave sofferenza psicologica che ha sempre gravissime e profonde motivazioni, un macabro rituale cui, come dicono i medici prontamente consultati, occorre reagire con sedute di psicoterapia volte a ricordare, riconoscere e rimuovere il disagio, e che comporta anche il ricovero in clinica di Elena e la parziale separazione dei due giovani. Come ovvio, si tratta di un duro colpo per i due protagonisti, proiettati all’improvviso e brutalmente in una realtà atipica e sconvolgente, che li obbliga a un percorso di recupero del loro vissuto, un’immersione in tutto quanto di sgradevole rimosso coscientemente o meno a fini salvifici dalla propria psiche, e la cui rielaborazione appare indispensabile per la completa guarigione. Questo rivelarsi, questo scoprirsi, questo rielaborare, è un iter doloroso e disperato, e soprattutto Elena non esita a metterlo subito in atto, spinta dall’amore estremo per il suo uomo. Per amore si lotta, si sopporta, ci si sacrifica, ci si ostina a guarire e a guarirsi, e solo una donna sa farlo fino all’estremo. Il segreto di Elena consiste semplicemente nel suo essere una donna veramente innamorata, come solo una donna sa esserlo. E’ un vero e proprio viaggio nei fantasmi del passato, è un aggirarsi nei meandri più bui e lugubri della mente umana, ha sbocchi imprevedibili, macabri e orrorifico, ma è l’amore che trionfa, di là dalle apparenze è sempre l’amore che vince, l’amore rigenera sé stesso, non muore mai. L’amore non muore, cambia ma si ripresenta sempre uguale, magari sotto altre, insospettabili sembianze, l’amore scintilla perchè è un astro di luce propria, non un riflesso sulla lama di un rasoio. Un bel libro, dicevamo, anche ben scritto; può apparire lezioso, con uno stile ricercato, invece è uno stile molto accurato, l’autore ha lavorato di lena, non diremmo di rasoio, ma di cesello, su quanto la sua fantasia gli suggeriva. Ronchi si rivela un artista eclettico, e sensibile, riversa su carta il proprio bagaglio artistico, non disdegnando però il duro lavoro di riscrittura e rifinitura accurata che in ogni buon scrittore deve necessariamente accompagnarsi al talento: la luce che scintilla sulla lama del rasoio è un’immagine suggestiva che può fungere da pretesto narrativo, ma la luce ci vuole. Nicola Ronchi la luce l’ha, è questo il suo segreto.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    07 Agosto, 2015
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La vita per amica

Conosciamo davvero i nostri figli?
Sappiamo effettivamente chi sono, cosa pensano, cosa desiderino per davvero, specie in quell’età magica, e terribile, che va dall’adolescenza alla prima giovinezza?
Sappiamo davvero crescerli, educarli, instillare in loro forza, idee e valori?
In questa nostra epoca ipertecnologica, i nostri figli non sono mai con noi, anche se con noi vivono: la loro realtà, ormai, è puramente virtuale, essi vivono su internet, sul social network, condividono gioie emozioni e momenti in chat, e i genitori sono più spesso reclusi letteralmente in un’altra stanza, esclusi.
Sappiamo essere una presenza “amica” nella loro esistenza?
E i figli, a loro volta i figli conoscono per davvero i loro genitori?
Sic et simpliciter, “L’amica” di Nicola Ronchi parla di questo, attraverso una storia alquanto insolita e abilmente ben confezionata Ronchi ci offre un’interpretazione “sopra le righe” dell’eterno rapporto, e dualismo, genitori-figli, un dualismo direi portato all’eccesso.
La protagonista Emma Barbaro è una giovane ventiquattrenne di buona, anzi ottima famiglia, più che benestante, ed è l’unica figlia di una coppia dell’alta borghesia veronese: il padre un valente imprenditore, la madre una dolce e devota casalinga dedita alla cura della casa e dell’unica figliola.
Emma ha quindi, in apparenza, tutto per essere felice: giovane, carina, ricca, fresca di laurea in psicologia dopo un eccellente iter di studi, amata a dismisura a maggior ragione perché è figlia adottiva, venuta ad allietare l’esistenza dei coniugi impossibilitati ad avere figlioli propri.
Tuttavia, come troppo spesso accade, felice non è: è un’anima tormentata, instabile, contraddittoria, la ragazza si è creata un vero e proprio scudo di granito tutto intorno al suo animo, impermeabile agli affetti e ai sentimenti.
Emma è quella che si dice “una viziata figlia di papà”, ha tutto e tutto le è stato sempre dato: a tal punto però che la ragazza si è fatta un’idea distorta di tanta fortuna occorsole, pretende senza mai dare, è convinta che tutto le sia semplicemente dovuto in virtù di una sua presunta superiorità intellettiva e concettualistica nei confronti dei genitori adottivi, che mal sopporta e che, specie la madre, sono il bersaglio del suo sarcasmo, della sua cattiveria, del suo disprezzo per un modus vivendi che considera antico, alienante, spento, disutile, vuoto di senso e di interesse.
Emma non si cura dei genitori che tanto hanno fatto per lei; non parla con loro, non considera se stessa la figlia e la sua una famiglia, li vede semmai come semplici mezzi, pedine per ottenere quanto di materiale può servirle, poiché in realtà disprezza loro e tutto quanto loro rappresentano, sono antitetici a ciò che la ragazza desidera.
Perciò Emma è diversa e controcorrente: è bravissima a scuola ma fredda e scostante con chiunque, si laurea col massimo dei voti e in tempi brevi, ma ha il corpo ricoperto di piercing e spille in pure stile punk, va in giro di nera vestita e con un pauroso coltellaccio in cintola, destando sconcerto in chiunque la avvicini e nei suoi un’ormai rassegnata disapprovazione.
Difficile dire chi ha maggiori colpe, se Emma chiusa nel suo egoismo e nella sua immaturità essenziale, o i genitori che tutto le hanno dato senza considerare che il troppo storpia.
Emma ha ben impresso un suo motto: nella vita per sopravvivere bisogna essere cinici e spietati, e la ragazza si attiene scrupolosamente a questa massima, che sintetizza l’essenza del suo vivere.
Non solo, ma il suo “andare contro”, essere diversa rispetto ai canoni stereotipati della ragazza di buona famiglia, la porto a prediligere modi e concetti di stile orrorifico, predilige libri e film del genere horror, con un nick alquanto caratteristico è attiva su una chat di appassionati del genere.
Proprio su una di queste chat fa la conoscenza di Veronica, un’amica che condivide i suoi gusti e che è un po’ il suo alter ego. Veronica la invita in vacanza nel suo paese, le due ragazze sono tanto diverse, solare vivace ed esuberante Veronica, dark cupa e in nero Emma, ma proprio per questo finiscono per legare, e altro non si aggiunge per non togliere il piacere della lettura, tranne che rilevare che Ronchi ha avuto una bella idea, ci detta una storia diversa dalle solite, ha uno suo stile originale di scrittura, asciutto, stringato, molto descrittivo. Usa pochi tratti, ma li usa bene. Già nei primi capitoli ci presenta una vera e propria sinossi, tout court ci dice subito chi è la protagonista, che fa, con chi l’ha, chi sono gli stringati personaggi principali, tracciando i punti salienti fisici e caratteriali con pochi tratti essenziali ma incisivi.
Ha un modo”fiorentino” di scrivere, niente a che fare con i toscanacci come Marco Vichi e Leonardo Gori o anche come Marco Malvaldi, non stiamo qui a fare confronti che non hanno motivo di essere, si sente però l’essenzialità dei nativi sull’Arno, quel modo stringato e preciso di scrivere, di appuntare, di incidere in fretta nell’immaginario di chi legge.
Al punto che talora sembra non funzionare per niente il meccanismo della “sospensione dell’incredulità”, quel patto non scritto che permette a un comune lettore di appassionarsi alle storie per esempio di Stephen King, arrivando a credere ciecamente senza nutrire alcun dubbio che esistono veramente tutt’oggi i vampiri nelle moderne cittadine americane, o anche mostri neutri e amorfi, in inglese “it”, divoratori di bambini e allegramente scorazzanti nelle fogne delle stesse cittadine. Ma è un artificio voluto! Ronchi, infatti, crea ad arte lo scetticismo nel lettore, portato a credere che la storia che sta leggendo sia banale e fa acqua da tutte le parti; e invece tale scontato stato d’animo è l’obiettivo prefissatosi dall’autore, che vira di colpo la rotta sull’imprevisto “coup de theatre” di ogni buon thriller psicologico.
In conclusione, un buon libro, una buona lettura, facile, scorrevole ed intrigante…e che magari ci induce a riflettere: il nucleo della storia è questo, nella vita per sopravvivere bisogna essere cinici e spietati, ma cinici e spietati possono diventare tutti, se provocati, con le conseguenze del caso.
La vita è piena di problemi, ostacoli, sofferenze, ma l’unica maniera di uscirne è passare attraverso queste prove, affrontarle, superarle, anche a costo di appurare che una presenza che crediamo “amica” tanto amica non è, anche a costo di armarsi di santa pazienza e aspettare finanche diciotto anni prima di una qualsiasi catarsi….Si cresce anche così, se vogliamo. Si rinasce anche così, e la vita ritorna ad essere…l’amica.

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...giovani autori emergenti, o che almeno ci provano! Ad majora, ragazzi!
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    07 Agosto, 2015
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Lo squallore della commedia umana

Quanti lutti, quanto dolore e quanti danni procuri la guerra, qualsiasi guerra, in ogni tempo ed in ogni luogo, è cosa nota a tutti. Non ci si sofferma mai abbastanza a riflettere sui guasti che le guerre continuano ad arrecare anche nel dopoguerra, e di come i diretti protagonisti degli eventi bellici tornino dal fronte, se e quando ne fanno ritorno, mutati nel fisico, ma soprattutto nell’animo, non sono più le stesse persone di prima, ma neanche lo sono cose e persone che sono stati costretti a lasciare per i campi di battaglia, e quindi a volte, se non spesso, il loro ritorno nei luoghi di origine, ai loro affetti, alla vita pre-guerra è come lo sbarco di un alieno in terra straniera.
Perché la guerra, con le sue miserie, muta lo stato delle cose, e questa mutazione è uno delle sue conseguenze più nefande.
Perché tutto cambia, anche i valori in cui si è nati, cui ci si è sempre ispirati, e per la difesa dei quali si è partiti per la guerra, e non sempre i valori cambiano in meglio, talora si restaurano quelli meno etici, ed adattarsi non è da tutti.
In estrema sintesi, questa è la trama del “Colonnello Chabert” un romanzo breve, o racconto lungo che dir si voglia, di Honoré De Balzac, contenuto nella sua opera più conosciuta, e anche più ambiziosa, la celebre “Comedie Humaine”, raccolta di romanzi, racconti e opere varie con le quali Balzac vorrebbe descrivere tutto ciò che è proprio dell’uomo.
Il romanzo, ambientato a Parigi nei primi anni dell’800, subito dopi i fasti dell’era napoleonica, inizia nello studio dell’avvocato Derville, offrendoci da subito, con la descrizione dettagliata dello studio, degli ambienti, degli impiegati che vi lavorano, dei loro dialoghi, degli atti che si preparano, uno spaccato immediato, visivo, particolareggiato della vita francese dell’epoca, non a caso Honoré De Balzac è ritenuto uno dei fondatori del romanzo moderno, in quanto fa dei suoi racconti uno strumento mirabile con il quale fornisce un’analisi sottile, puntigliosa, sconcertante della società francese dell’epoca, illustra usi, costumi, morale del tempo.
E in questo studio si presenta un uomo di una certa età, in cui è evidente che i fatti certo negativi della sua vita l’hanno letteralmente stravolto e impresso su di lui il loro pesante marchio: è una persona dignitosa ma magra, dismessa, poveramente vestita, fatto oggetto di scherno dagli impiegati, trattato con sufficienza perché presumibilmente non remunerativo per lo studio.
Dotato tuttavia di una certa fierezza, di un certo nobile e disciplinato portamento, e con pazienza e cocciutaggine insieme riesce finalmente a farsi ricevere dal titolare dello studio al quale racconta la propria esistenza.
Questa persona dismessa si rivela in realtà come un personaggio famoso, si tratta, infatti, di una gloria patria, egli è il colonnello Hyacinthe Chabert, uno dei più conosciuti ufficiali dell’esercito napoleonico, apprezzato e ammirato dall’Imperatore stesso, una vera gloria nazionale.
Durante la sanguinosa battaglia di Eylau egli è visto cadere e calpestato dalla cavalleria nemica, e pertanto creduto certamente morto; in realtà il suo cavallo, stramazzato al suolo, l’ha in un certo senso protetto; ma a causa di una grave ferita alla testa, è seppellito vivo in una fossa comune. Qui, con toni sempre più macabri e drammatici, il povero uomo racconta come sia riuscito a sopravvivere, utilizzando gli spazi tra i cadaveri per respirare la poca aria a disposizione, e servendosi dell’arto spezzato di un morto come di una clava riesce a risalire alla superficie, a pezzi, ferito, febbricitante ma vivo.
Da questo momento in poi, il racconto dell’uomo si snoda nei lunghi anni trascorsi a guarire dai guasti fisici e psicologici affrontati, e dall’urto contro l’ostacolo insormontabile che ancora si frappone alla sua completa riabilitazione sociale: il riappropriarsi della propria identità personale. Confusa, incerta e problematica è, infatti, la comprova di quanto affermato: per tutti il colonnello Chabert è morto, il colonnello Chabert è un valoroso ufficiale dell’esercito napoleonico scomparso in battaglia, è scomparso con onore, è certamente scomparso malgrado il suo corpo non sia mai stato ritrovato.
Il colonnello Chabert è morto per tutti, è morto per la sua stessa moglie, la contessa Ferraud, che si è risposata con l’omonimo conte, da lui ha avuto figli, a lui ha portato in dote i beni di Chabert.
Il colonnello Chabert è morto, benché vivo e ben presente davanti a Derville, anche perchè nessun avvocato vuole impegnarsi per un uomo povero che ha ben poche speranze di potersi rivalere in tribunale su personaggi potenti come i conti Ferraud.
Una causa persa, dunque, e per Derville anche un dilemma di natura deontologica, perché egli è anche legale della contessa Ferraud.
Tuttavia Derville è un giovane idealista, egli rappresenta la Francia nuova, la Francia moderna, la Francia rispettosa di ciò che è stato Napoleone e il periodo napoleonico, perciò Derville prenderà a cuore il caso Chabert, presterà del denaro all'eroe decaduto, verso cui nutre un’istintiva fiducia e rispetto, ma nonostante tutto il suo impegno, dovrà fare i conti con le manovre della contessa Ferraud, una donna che non ha nessuna intenzione di rinunciare alla sua nuova posizione, e suscitare scandalo e derisione a Parigi con la storia di una bigamia.
E per raggiungere i suoi scopi, la donna prova a sedurre il vecchio colonnello, perché firmi una rinunzia ai suoi beni, perché rinneghi quanto pretende, perché sparisca dalla sua esistenza, malgrado debba il suo elevarsi sociale proprio al matrimonio con l’eroe di Napoleone.
Il vecchio colonnello si accorge di tali piani, ma benché sdegnato, accetta di andarsene, di sparire di scena, rinuncerà ai suoi diritti, non per mancanza di armi legali, ma per la disillusione nei confronti di un mondo feroce, in cui sente di non aver più posto, un mondo in cui gli ideali di lealtà, onestà, cavalleria, onore sono stati spazzati via dall’egoismo, dalla sete di ricchezza sfrenata, dalla falsità, un’epoca splendida è finita, come è finito Napoleone a Sant’Elena.
Il colonnello Chabert capisce che lui è riuscito a risorgere uscendo tra i cadaveri di una fossa comune, ma ciò che lui rappresenta non risorgerà più, capisce che è per sempre tramontata la grandezza di una nazione, e che termini come lealtà, onore e coraggio abbiano trovato i loro sostituti in denaro, relazioni e menzogna.
E sparisce, termina i suoi giorni in un ospizio, dove lo rincontrerà alla fine Derville, il vecchio colonnello è ancora più vecchio e misero, ma sempre più fiero, dignitoso, ricco di onore.
La storia del colonnello Chabert è quindi la descrizione di una Francia che si risveglia disillusa dopo il sogno napoleonico, anni in cui aveva conosciuto una guerra perenne contro il mondo intero, dal Manzanarre al Reno, ma anche aveva nutrito l'illusione di rappresentare un faro nuovo per l’umanità, di esportare ovunque la luce dei lumi ed i nuovi, ancora velati concetti, in embrione, di libertè, egalitè, fraternitè...
Il risveglio è amaro: la nuova società non è ancora pronta, ella è rappresentata ancora perfettamente dalla contessa Ferraud, è una società che privilegia l'avidità e la rapacità, campioni di essa sono i Ferraud, proprio coloro che meno hanno qualità morali.
In definitiva, con “Il colonnello Chabert” Balzac ci mostra perfettamente i meccanismi che guidano le azioni nella commedia umana.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    31 Luglio, 2015
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La meglio gioventù

“Maledetta primavera”, romanzo d’esordio di Paolo Cammilli, desidera offrirci uno spaccato della “meglio gioventù” italiana; come sono comunemente considerati oggi, nell’immaginario collettivo, i nostri giovani. Cammilli descrive il nuovo stereotipo sui giovani italiani, i giovani non proprio “sensu strictu”, comprende nel numero anche gli universitari trentacinquenni fuori corso.
In particolare si sofferma sui nuovi “vitelloni”, quelli della placida e sonnacchiosa provincia italiana, che una volta si definiva “sana provincia” ma che oramai di sano non ha più niente, neanche il torrente che attraversa il paese dell’hinterland milanese scenario della storia, e da cui si leva il gracidare degli ultimi malridotti rospi superstiti.
A modo loro, e molto a modo loro, questi giovani sono meglio di quanto appaiono.
Giovani in apparenza vuoti, disamorati, senza valori, cinici e bari, aridi e materialisti, perennemente immersi in un vivere da puro gossip, quasi come se la realtà quotidiana fosse davvero, identica e perfettamente sovrapponibile, a quella descritta dai vari “chi” e “novelle” variamente patinate.
Perciò ritroviamo nel romanzo, seppure con altri nomi, i protagonisti veri o presunti del vivere “sotto le luci”: calciatori, attricette, veline, magistrati d’assalto rigidi e severi, intrattenitrici televisive dell’high audience. Non si fatica a riconoscere per esempio nei personaggi tratteggiati da Cammilli i veri, e verissimi, Bobo Vieri con l’universo di stelline gravitanti nell’orbita intorno ai divi del pallone, alla Fanny Neguesha, per intenderci, l’ex compagna di Mario Balotelli; e ancora citiamo Alberto Tomba e Maria De Filippi, nonché le veline, le letterine, o le meteorine che siano, bionde o more, tutte tese a eguagliare l’inarrivabile mito Belen.
Finanche si citano nel libro criminologi di fama ed esperti a vario titolo della psicologia criminale; questi ultimi frequentatori assidui dei vari salotti televisivi, che per un perverso gusto del macabro si moltiplicano esponenzialmente ogni qual volta si verificano nel Paese efferati e sanguinosi delitti.
I giovani descritti da Cammilli sguazzano in un’Italia divisa e diversa da nord a sud, e da città e provincia, accomunata oramai solo dal macabro interesse per gli eventi di cronaca nera.
Quelli più ambigui, efferati, misteriosi, quelli che permettono di schierarsi in fazioni, innocentisti e colpevolisti, gli unici eventi che senza soluzione di continuità e distinguo di luoghi e regioni, si susseguono incalzanti a ritmo pressoché quotidiano.
Disgraziatamente, appaiono gli unici, sventurati accadimenti capaci di destare ancora emozione e interesse, palpiti e attenzione, seppure per motivi morbosi, perversi, fuori da ogni logica di buon senso, gli unici che distraggano da qualcosa che, per una volta, almeno per una volta, non sia rappresentato dagli usuali abiti firmati, le automobili super, i gadget ultratecnologici, i lussuosi locali alla moda, con il corollario dei paradisi artificiali di vario genere ed intensità, indispensabile corredo di tale fasullo divertimentificio.
Ne viene fuori un romanzo sociale, se così vogliamo definirlo, un romanzo a più voci, in cui il vissuto dei protagonisti s’intreccia in un guazzabuglio solo presunto tale, le vite e le vicende di ciascuno s’intersecano, presto o tardi, in quelle degli altri, come normalmente accade, e sempre più spesso nell’epoca della globalizzazione, dando luogo a una storia dai ritmi altalenanti, a volte assurda e inverosimile, uno sparare cazzate a tutto spiano, per intenderci, provate a immaginare un campione di sci nordico diventato tale quasi per caso, e per di più originario da un paese di mare, per poi virare di colpo e bruscamente su binari intriganti e coinvolgenti.
La storia talora diviene misera e violenta, talaltra velatamente ironica per non dire comica, uno sfondo beffardo permane dalla prima all’ultima pagina; per un tratto la storia levita romantica e intensamente sentimentale, poi diviene ipocrita, meschina, laida, infine con un finale in crescendo, agghiacciante e del tutto verosimile. E tutto sommato è il finale che valorizza il tutto, a tutto dà un senso, il finale fornisce in poche pagine la misura e la motivazione dello scrittore toscano, il finale, benché ristretto, ci permette di valutare il talento di Paolo Cammilli.
Intendiamoci bene, a parer mio la lettura di questo romanzo non è tutta in pregevole discesa, buche nell’asfalto, curve strette e brusche frenate ce ne sono, e più di una, rendendo il percorso accidentato, il viaggio turbolento, ma certamente sono intoppi superabili, con tempo, esperienza e un più accurato ripasso del testo, prima di darlo alle stampe.
Il linguaggio, in particolare, ha bisogno di controllo, di accorta rifinitura: spesso non è un libro di facile lettura, oliato a puntino, scorrevole, fluido.
Talora è confuso, contorto, farraginoso, in certi punti banale; perché Cammilli si esprime, insiste ad esprimersi, in maniera colloquiale, quasi fossero chiacchiere da giovani “per definizione”, chiacchiere estemporanee da bar come da intenzione, che invece suonano come battute preconfezionate “da copione”. Il punto debole è questo, a mio modesto parere, il linguaggio, “riporta” il modo di esprimersi dei giovani, ma lo riporta solo, dimenticando che si sta scrivendo.
Dimenticando che andrebbe “tradotto”, si fa per dire, suonerebbe meglio rifinito, lavorato, cesellato, giacchè scrivere, raccontare, significa anche “tradurre” in maniera chiara, concisa, esauriente, riportando sì il parlato ma esprimendolo in forma scritta.
Voglio dire, uno slang riportato pari pari disorienta il lettore, va “intriso” nella lingua comune.
Ne consegue quindi un dialogo talora un po’ “a cocktail”, s’intrecciano vari modi di dire le cose, anche per questo viene meno la definizione di uno stile proprio.
Cammilli mescola tutto e il contrario di tutto, un po’ ricorda “Branchie” del primo Ammaniti, per poi defluire in “Amore 14” di Moccia; un po’ ancora gigioneggia alla Simenon, ma non essendo, non ancora almeno, ma glielo auguriamo volentieri di divenirlo, né Ammaniti né gli altri citati, il libro un po’ ci perde. Non perde invece in motivazioni o idee ispiranti, queste davvero ben tracciate.
Infatti, sembra suggerire Cammilli, se questi nostri giovani sono davvero così, se vivono trascinando la loro esistenza esattamente quasi fossero in un reality show, o in una casa del grande fratello, o protagonisti effimeri di uno qualsiasi dei programmi della tv spazzatura, allora siamo veramente alla frutta, allora siamo veramente messi male.
La gioventù è la primavera della vita, per definizione; se questi giovani, il nostro futuro, sono tutti così, vuoti, insulsi, incapaci, se per loro l’amore si dimostra solo con un cerotto anticoncezionale bene in mostra su una spalla, e la vita è un fottersi, letteralmente e no, in tutti i sensi, allora la loro primavera non è più una stagione, ma un perenne stato d’animo nefasto, un malanimo, una maledetta primavera. Per fortuna Cammilli lo vede, e lo dice, che così non è, per grazia.
Forse siamo alla frutta, ma per fortuna dopo c’è il dolce.
Lo dice a ragion veduta, lo dice perché è giovane e conosce i giovani, lo afferma convinto da giovane intrinseco nel mondo dei giovani, cittadino a pieno titolo del web, regno reale dei giovani e molto più realistico di quanto si creda. I giovani sono sempre molto meglio di quanto appaiono.
Possono bere fino a stordirsi, ma applicarsi spasmodicamente allo sfinimento per risolvere un efferato delitto. Possono essere ricchi, arroganti, presuntuosi e prepotenti, ma rifuggire sdegnati da una facile e impunita violenza carnale, anche se è su un soggetto a lungo ambito.
Possono cedere e portarsi a letto la migliore amica della donna che si ama, perché gli uomini sono cazzari che fanno cazzate, ma anche cercarla, considerarla, venerarla sempre e comunque, corteggiarla in tutti i modi possibili ed immaginabili, inginocchiandosi con un anello in mano come il principe azzurro dei bei tempi andati, o più prosaicamente finanche facendole recapitare quotidianamente il suo pollo arrosto preferito della coop.
Altri, ben altri, e non i giovani, che sono invece più spesso vittime delle generazioni precedenti, altri sono il male dell’attuale società italiana, con il loro assurdo e misero comportamento omissivo, illecito, fraudolento, con il loro esempio malevolo, nefasto e nocivo, altri sono colpevoli, ferocemente colpevoli e responsabili, e non sono più giovani o non più tanto giovani: per loro sì, per loro, e solo per loro, la primavera è maledetta, maledetta primavera che origina tale progenie.
“Maledetta primavera” di Paolo Cammilli in fondo solo questo afferma, e non altro, con amarezza, ma con evidente chiarezza. E tutto sommato, come dargli torto.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    27 Luglio, 2015
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Meneghino, tutto di un pezzo

Il genere che ha dato fama duratura al prolifico scrittore Giorgio Scerbanenco, è il giallo, che negli anni ’60, si afferma gradualmente in Italia con caratteri tutti suoi originali, ben diversi dai gialli americani in voga fino allora, con gangster con mitra e Borsalino, in lotta contro duri investigatori privati con whisky e sigaretta.
Il genere giallo però è più che altro un pretesto, un artifizio attraverso il quale Scerbanenco descrive Milano, città da lui amatissima, e in generale l’Italia degli anni ‘60.
Non sono gialli pieni di sparatorie come quelli americani, dunque, non sono sottili enigmi per menti acute alla Poirot dei gialli inglesi, sono romanzi nostrani, noir diciamo casarecci, racconti che neanche presentano chissà quali misteri da investigare e scoprire, quasi che non serve il mistero in questi gialli, quasi bastasse la miseria umana di per sé a presentare una trama già abbastanza intrigante così. Sono storie semplici, dunque, crimini usuali, quasi banali, cose di tutti i giorni, cronache dalla grande città. Scerbanenco più che scrittore di gialli è un cronista, è un testimone attento di quegli anni, la propria dura e amara esperienza personale di vita, la propria sensibilità forgiata dalle mille difficoltà incontrate, dai mille ostacoli superati, fa sì che è un testimone imparziale, obiettivo, senza paraocchi o veli rosati a schermare la realtà.
Descrive la realtà di tutti i giorni per quella che realmente è, legge nel cuore degli uomini, intuisce i loro tormenti, non si fa abbagliare dal falso ottimismo di un boom economico che caratterizza gli anni ’60 in cui vive e in cui fa agire i suoi protagonisti.
Dietro la fittizia opulenza apparentemente accessibile a tutti, si nasconde in realtà un vuoto di valori, una decadenza morale che vanamente si cerca di compensare con il largo diffondersi di beni di consumo, la televisione, la lavatrice, l’automobile.
Scerbanenco descrive il difficile risalire la china di generazioni disilluse, fiaccate da anni di caos e di ristrettezze fisiche e morali, generazioni di uomini e donne che chiedono il ripristino delle regole troppo spesso infrante e disattese nel recente passato di dittatura, di guerra, di difficile dopoguerra, il rispetto delle regole non solo dei codici giuridici ma delle regole morali, quelle più importanti, le regole del vivere civile.
Regole che la delinquenza, la malavita, infrangono spesso e volentieri, perché il crimine è materialista, e quindi imperversa nel boom dei beni materiali; la Milano di Scerbanenco è una città dura, cinica, rispecchia la Nazione intera, infettata dal crimine.
Perciò il male, i ladri, gli assassini, gli sfruttatori di prostitute, tutto l’universo del crimine sono come patologie, alcune subdole e nascoste, altre lievi, altre ancora altamente infettive, altre profondamente cronicizzate, ed il bene, i buoni, la polizia, i giusti, sono come i medici, i dottori, i sanitari, coloro che devono curare e possibilmente guarire queste malattie, devono sanare l’organismo, la società, da tali malanni, o almeno provarci, anche se molti mali sono ben radicati o inestirpabili, anche se certe patologie sono dure da sconfiggere. Più che giustizia, si parla di guarigione, più che processi si somministrano cure, farmaci, medicinali, che spesso neanche valgono a guarire. Delinquere è una forma di deficienza mentale, e il poliziotto è il neurologo che fa interdire il reo per impedirgli di nuocere ancora. Non a caso, perciò, nei gialli più conosciuti di Scerbanenco, il protagonista, l’eroe, oltre che poliziotto e investigatore, è realmente un medico, di nome Duca Lamberti.
Ne “I milanesi ammazzano il sabato” giunge a Lamberti un padre disperato da mesi per la scomparsa della figlia, inutilmente la polizia ha intrapreso le consuete ricerche senza esito alcuno.
Con crescente stupore, Duca apprende che la scomparsa, la presunta “bambina” come si ostina a chiamarla il suo papà è in realtà una bella ragazza di ventinove anni, anche se parecchio particolare.
Come infatti spiega il papà, Amanzio Berzaghi, un milanese tutto di un pezzo, ex autista ed ora impiegato in una ditta di trasporti, la propria figlia Donatella è una ragazza bella, molto bella e molto sviluppata da un punto di vista fisico, statuaria, perfetta, bionda, occhi azzurri, è alta quasi due metri e pesa 95 chili, ma tali insolite misure sono dovute purtroppo ad una rara sindrome ereditaria, l’elefantiasi, che le ha causato anche un grave ritardo mentale, ha infatti l’intelligenza e la capacità di una bambina di pochi anni.
Amanzio Berzaghi è un vero milanese, un uomo che non si lascia annichilire dalle difficoltà della vita, una persona che ha fatto del lavoro, della dedizione al lavoro, del rimboccarsi le maniche e dell’andare avanti con determinazione e cocciutaggine un modo di essere, e pur essendo vedovo resta un meneghino tutto di un pezzo, bada da solo e con perizia alla propria figliola.
Figliola che è costretta perennemente in casa, letteralmente rinchiusa nella propria abitazione come in una cella, giacché lo stesso papà ha badato a dotare porte e finestre di serrature che le impediscono di uscire. Questo perché, in conseguenza proprio della sua malattia, la ragazza soffre anche di ninfomania, è vittima inconsapevole d’impulsi compulsivi e ingovernabili di fare l’amore, per tanto tende a sorridere agli uomini e ad assentire a qualunque loro richiesta.
Va da sé che il padre, nelle ore di lavoro, dovendo lasciarla sola e incustodita, per sottrarla alle mire di sporcaccioni senza scrupoli, è costretto a rinchiuderla in casa, dove la giovane trascorre il tempo in attesa del suo ritorno in attività casalinghe precise, ossessive, compulsive di pulizia, di cucina, ecc., oppure gioca con le sue bambole, proprio come una bambina piccola, ascoltando di continuo dischi di musica leggera.
Malgrado ogni precauzione presa per evitare ogni ragionevole pericolo, un giorno però la ragazza scompare. Semplicemente Amanzio Berzaghi non trova più in casa la sua Donatella, sparita, dissolta, volatilizzata nell’aria. Nessun segno di scasso o di violenza, nessuna traccia, in pieno giorno, nessuno che ha visto niente, nessuno, neanche la portinaia l’ha vista uscire o qualcosa d’insolito, e si che la ragazza non è certo tipo da passare inosservata.
Passano i mesi, ma Amanzio Berzaghi non si rassegna, tutti i giorni si reca dalla polizia a richiedere notizie o indagini più estese, più approfondite, cocciutamente il povero padre si ostina perché la sua bambina venga ritrovata. Duca Lamberti indirizza le indagini logicamente sul ratto a fine di libidine o di avviamento alla prostituzione, escludendo con pragmatismo ogni altra ipotesi, come i fini di estorsione, date le modeste possibilità economiche dell’ex-camionista, o eventuali rancori o vendette o altri possibili moventi. Dalle indagini su un rapimento Lamberti deve ben presto occuparsi di omicidio, poiché viene trovato il cadavere della povera Donatella, massacrata a colpi di pietra. Lamberti si immerge allora nella ricerca del o degli assassini, perviene alla verità di quanto accaduto, lo appura con certezza un venerdì…ma come spesso realmente accade nella vita reale, le situazioni s’intersecano.
Duca Lamberti indaga e scopre tutta la verità il venerdì, e intanto ad Amanzio Benzaghi, diligentemente al lavoro dal lunedì al venerdì, come ogni buon milanese, giungono quasi per caso i nomi dei colpevoli, il loro indirizzo. Tutto accade di venerdì, e Amanzio non sa che fare, è confuso, indeciso, infine si decide, l’indomani è sabato, per la settimana corta è libero dagli impegni di lavoro, non deve assentarsi forzatamente, non deve perdere la giornata di lavoro, si decide e si reca all’indirizzo e come nulla fosse, bussa alla porta dei colpevoli.
I criminali hanno sempre la coscienza sporca, hanno la coda di paglia, sono furbi ma mai intelligenti. Potrebbero negare, scappare, fingersi sdegnati e onesti cittadini, rigettare le accuse senza prove, potrebbero fare qualsiasi altra cosa, ma sono criminali, tarati, minori, e fanno sempre e soltanto quella sbagliata: la loro violenta reazione è come una chiara confessione per l’onesto Amanzio, forte e onesto lavoratore temprato da una vita di lavoro e sacrificio, ed un uomo onesto reagisce con furore altrettanto onesto e giustificato, reagisce con pari violenza.
A mani nude il milanese Amanzio Benzaghi si scaglia sui delinquenti, a mani nude, le stesse grosse mani con le quali si è sempre onestamente guadagnato il pane.
Poi cade ferito, nello stesso istante in cui sopraggiungono Duca Lamberti e i suoi.
Duca è amareggiato, è stanco e desolato da questa storia, una storia assurda, una storia deprimente. E l’epilogo è altrettanto freddo, cinico, assurdo come assurdi sono i tempi moderni: Duca chiede ad Amanzio perché è andato nel covo dei sospetti, perché invece non ha chiamato la polizia.
Il dottor Lamberti si attende risposte tipo la sete di vendetta o il bisogno di giustizia; ma il sangue gli si ghiaccia nel sentire la risposta di Amanzio Benzaghi: perché è sabato, perché non è andato a lavorare, perché se per esempio fosse accaduto di mercoledì, avrebbe rimesso le cose alla polizia, perché lui non avrebbe avuto tempo, sarebbe stato impegnato ad andare al lavoro.
Come dire: i milanesi ammazzano il sabato.
Una motivazione fredda, assurda, cinica; come fredda, cinica e assurda è la Milano di Giorgio Scerbanenco.


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Giorgio Scerbanenco, e la sua creatura Duca Lamberti.
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    24 Luglio, 2015
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Un pasticciaccio che poteva venire meglio

Uno dei maggiori best seller degli ultimi tempi. Un vero e proprio caso editoriale.
Milioni di copie vendute nel mondo, altrettanti lettori entusiasti. Ne hanno fatto anche un film di successo. Non è quindi un brutto libro, pare, può essere pure divertente ed avvincente, insieme a “Angeli e Demoni”, anche questo vendutissimo e trasportato al cinema, che hanno lo stesso protagonista, un professore un po’ particolare.
Però…non mi convince in pieno, dico la verità, mi ha incuriosito, ma nulla più, per quanto la storia e l’idea ispiratrice sia anche carina, ma in genere vorrei che lo scrittore curasse un pochino meglio la similitudine di quello che scrive.
Voglio dire, un bravo narratore sa ottenere nei lettori la sospensione dell’incredulità, cioè riesce a fargli credere, anche se solo per il tempo che impiega a leggere, che ciò che legge sia più o meno realistico, in qualche modo più o meno verosimile. Gli fa credere che sia possibile.
Ci riescono perfettamente Stephen King, con i suoi romanzi “horror” per esempio, o Ken Follet, che fa interagire i suoi personaggi di fantasia con figure e fatti storici reali, o in Italia Giovannino Guareschi, che addirittura rende in qualche modo plausibile e reale che il semplice parroco Don Camillo parli direttamente con il Cristo sulla Croce.
“Il Codice da Vinci” è una carrellata di assurdità, di cose più assurde che mai mi sia capitato di leggere. Va bene le licenze poetiche, ok sulle invenzioni letterarie, capisco la fantasia e la libertà del narrare, ma Dio buono, alla fessaggine umana ci deve pur essere un limite.
Perché il romanzo è tutto qui, un mucchio di fandonie.
Errori, sciocchezze, falsi storici, tutto spacciati per veri e con poca similitudine.
Sorvoliamo sugli errori storici. Facciamo finta che i Merovingi abbiano fondato Parigi.
Facciamo finta che il Papa abbia gettato nel Tevere le ceneri dei templari in un periodo in cui il papato stava ad Avignone (avrà preso il suo jet personale, con quel preciso intento…nel medioevo).
Facciamo finta che il Priorato di Sion sia stato fondato nel 1090 con lo scopo di proteggere la discendenza di Gesù Cristo, e non nel 1956 a scopo di frode, e che i documenti depositati alla Bibliothèque Nationale siano autentici e non dei falsi riconosciuti.
Facciamo finta che Costantino sia stato pagano fino alla sua morte.
Facciamo finta che nell'anno mille in Francia ci fossero adoratori di Iside con un tempio personale. Sorvoliamo sugli errori tecnici. Facciamo finta che la Smart faccia 100 km con un litro.
Facciamo finta che la Pyramide du Louvre sia costruita con 666 lastre di vetro.
Facciamo finta che si possa parcheggiare giusto sotto la finestra del museo (anche col dislivello di 50 cm che separa la struttura del Louvre dalla strada).
Facciamo finta che per andare dal Louvre a Rue Haxo si debba passare per il Bois de Boulogne. Facciamo finta che una giovane donna possa tirar giù da un muro un quadro di un quintale senza nessun problema.
Sorvoliamo sugli errori teologici.
Facciamo finta di essere rimasti all'eresia monofisita e che Gesù abbia la sola natura divina e non *anche* quella umana (vabbè, è morto sulla croce, e allora? Probabilmente fingeva).
Facciamo finta che Amon e Iside fossero sposati, facciamo finta che le Olimpiadi si tenessero ogni cinque anni in onore di Afrodite e non ogni quattro in onore di Zeus Olimpio, facciamo finta che il Buddha sia nato da un fiore di loto, e non molto tradizionalmente da suo padre il re e sua madre la regina col nome di Gautama Siddharta nel VI secolo a.C.
Sorvoliamo su quelle che, se non sono errori, sono sicuramente pecche stilistiche.
Sorvoliamo sulla trama scontata, sugli indovinelli da seconda elementare, sui personaggi monodimensionali, sull'assoluta imperizia narrativa dell'autore, sulla completa infondatezza di quelli che pubblicizza come dati storici. C'è però una cosa su cui invece, in un atipico slancio di veterofemminismo, non mi sento di sorvolare.
Allora, tutto il libro è incentrato sull'idea che la Chiesa non ha fatto altro, per secoli, che reprimere il "femminino sacro". Perfetto.
Ma analizziamo un attimo questo. Cos'ha di sacro la femminilità, secondo l'amico Brown?
A quanto pare, due cose: la capacità di dare figli, e la capacità di portare ad una maggiore conoscenza del divino tramite l'atto sessuale.
La capacità di dare figli ALL'UOMO e di portare L'UOMO ad una maggiore conoscenza del divino tramite l'orgasmo DELL'UOMO (di quello della donna non si fa menzione: evidentemente non è rilevante).
Non riesco proprio a concepire come qualsiasi donna si possa essere sentita "onorata" o "appagata" da un discorso del genere (eppure è così, molte donne amano questo libro).
Non salta forse agli occhi che si tratta di una visione maschilista, subdolamente maschilista, ESTREMAMENTE maschilista?
Non salta agli occhi che è la peggiore riduzione della donna a ruolo di oggetto che si possa fare, e che in confronto veline e letterine varie sono l'emblema dell'emancipazione femminile?
Non salta agli occhi che dando ad un individuo la funzione di mezzo e non quella di fine gli si toglie esplicitamente la qualifica di essere umano?
No, evidentemente no, da nessuna parte si è presa seriamente in considerazione la cosa.
Ecco, “Il Codice da Vinci” poteva essere un buon libro, scritto meglio, l’idea di partenza si poteva gestire diversamente…così com’è, mi sa di presa in giro solo per fare soldi. E vabbè, leggiamolo sotto l'ombrellone, va.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    23 Luglio, 2015
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Solo per Fedeli Lettori doc

Diciamo subito che il romanzo di Stephen King, “Doctor Sleep”, non è una storia per tutti.
Non è un’opera per chi non ha mai letto nulla dello scrittore del Maine, non è il testo più adatto da cui iniziare per conoscere il Re dell’Horror, è quanto di meno indicato, direi controproducente, si rischia di disaffezionarsi dall’inizio al percorso di conoscenza di uno dei più acuti osservatori della realtà sociale della piccola e media borghesia americana, e della squisita maestria con il quale sa scrutare nel profondo dell’animo di tutti i suoi personaggi, in particolare predilige i preadolescenti, spesso protagonisti.
Stephen King ha un talento enorme, un’abilità unica e stupefacente di scrivere e di descrivere, un permearsi completamente nei suoi personaggi, che insieme con un’esemplare disciplina e competenza professionale lo rendono, a ragione, il Re.
Il Re è accattivante con i suoi seguaci, li ammalia con rapidità dopo breve corteggiamento e li fa innamorare di sé e delle sue storie, ma certamente non cominciando da qui, da questo romanzo.
“Doctor Sleep” è un libro del sonno, il sonno ristoratore, l’ebbrezza onirica che si può assaporare avendo ben vissuto altro da svegli: bisogna pur aver vissuto, aver conosciuto l’altro, il vissuto, per riviverlo sotto forma di sogno. Il sogno rispecchia la vita, non viceversa. Serve vivere per sognare.
Non è una lettura adatta nemmeno a chi King, bene o male, già conosce, non è sufficiente aver letto solo alcuni dei suoi libri, neanche basta aver bene impresso il ricordo di “Shining”, libro o film, più volte citato ed indicato come il prequel di “Doctor Sleep”, ma in realtà i due libri in comune hanno ben poco, solo il protagonista prima bambino e ora adulto, e qualche altro particolare.
No, “Doctor Sleep” è un libro per kinghiani doc, e con questo non voglio asserire che esiste, ed io certamente non ho né spocchia nè presunzione per affermarne di farne parte, una consorteria di seguaci di Stephen King che, come in una religione, venerano l’autore e ne celebrano ritualmente le opere. Assolutamente: intendo semplicemente dire che questo è un romanzo della tarda maturità di Stephen King, e come tale contiene in sé i temi, i modelli, gli argomenti, tutto quanto già ampiamente trattato nella vasta bibliografia precedente dello scrittore, non ci sono in questo romanzo nulla di cui Steve non abbia già descritto e discettato in precedenza. Il suo dire è un ribadire, il suo raccontare è un rivedere, lo snodarsi della sua prosa riconduce a un Nodo, un nucleo di fatti e situazioni già noti ai fedeli lettori, che solo chi dell’opera omnia kinghiana ha vasta conoscenza, può apprezzare in pieno.
King non spiega, allude a quanto già detto: e chi non sa cosa disse a suo tempo, non può, non riesce ad apprezzare ora il tutto insito in “Doctor Sleep”.
Perché in “ Doctor Sleep” c’è tutto di King: ci sono vampiri immortali che scorazzano in camper sulle strade americane, come in “Salem’ Lot”, ci sono mostri che vivono delle emozioni genuine di bambini provvisti di una sensibilità particolare, come in “It”, cibandosene come se inalassero un vapore; ci sono violenze domestiche, come in “Rose Madder”, ci sono vecchi, come in “Insomnia”, ci sono ragazzine terribili, come in “Carrie”, ci sono poteri paranormali come nella “Zona Morta” o Il Miglio Verde”, ci sono fantasmi come in “Shining” o “Mucchio D’Ossa” o “Duna Key”, ci sono trenini come in “Joyland”, eccettera. Occorre aver letto, e possibilmente apprezzato tutto questo, davvero. Perché se no è inutile, si leggicchia a fatica una storia per certi versi assurda, assai inverosimile, una storia in cui non funziona affatto quella “sospensione dell’incredulità” di cui Stephen King è maestro e che induce il fedele lettore a leggere con convinzione, fede e certezza assoluta di essere nel vero, resoconti strabilianti di vampiri che scorazzano allegramente in un moderno villaggio della provincia americana o amorfe creature che vivono nelle fogne di un’altra altrettanta moderna cittadina e che prendono magicamente le sembianze dei più comuni babau dell’infanzia.
“Doctor Sleep” è un libro per gli esperti, non per il neofito; è un romanzo per iniziati, non per babbani, è un volume per i fedeli lettori, per coloro in cui il processo di fidelizzazione tra lettore e scrittore è stato da qualche tempo sancito con un giuramento sacro. Questo libro è per chi aspetta con fiduciosa e trepidante attesa ogni nuova uscita del nostro, e centellinano la lettura per gustarla più a lungo possibile quasi fosse nettare d’ambrosia, ritrovando la magia, le emozioni, e il piacere della lettura quale che sia il titolo o il tema trattato, anche nelle opere meno riuscite.
Stephen King, un nome, una garanzia, ma soli per veri intenditori.
Di cosa tratta “Doctor Sleep”? Essenzialmente, come già troviamo nei titoli più conosciuti come “It”, “Salem’ Lot”, “L’ombra dello Scorpione”, King discetta dell’eterna lotta del Bene contro il Male. Il Bene, di per sé, non è appannaggio di eroi, come comunemente si è indotti a pensare, anzi, spesso il Bene ha sembianze un po’ banali, può incarnarsi in un comune pediatra di famiglia, una ragazzina sveglia ben più matura di tante altre coetanee, un vecchio guidatore di trenini da parco giochi, e anche in un giovane ex alcolizzato, un ragazzo già in là con gli anni, un po’ attempato come tanti altri, sopravvissuto quasi per caso ad un padre a sua volta alcolista e parecchio fuori di testa. Ma il bene in ogni caso è Bene, e perciò è luminoso, “luccica”; la “luccicanza”, lo “shining”, è una prerogativa di certi buoni un po’ più buoni degli altri, e perciò sensibili, pronti a “recepire” pensieri e emozioni nella testa altrui, a spingere un pochino sulla volontà altrui perché l’individuo un po’ traballante si rimetta sulla retta via, e dia conforto e coraggio a chi è in difficoltà oppure ha bisogno di essere accompagnato e consolato al momento del gran passo verso il sogno eterno.
Dan Torrance, il piccolo Danny di “Shining” a distanza di trenta anni, questo fa, accompagna i vecchietti dell’ospizio in cui è inserviente a compiere con serenità e dolcezza il loro commiato da questa esistenza, ed ecco perché è detto “Dottor Sonno”, “Doctor Sleep”.
Il potere, o la maledizione, da cui è affetto, è un qualcosa difficilmente definibile in parole: tramite questo Dan vede un luccichio che gli dice qualcosa, talora molto, su chi avvicina; gli legge i pensieri, ne indovina l’indole, vede sprazzi del loro futuro, comunica “mentalmente” con altri provvisti della stessa capacità. Questa luccicanza è ben più diffusa di quanto si ritiene, spesso è riposta in forme esaltanti in preadolescenti, ragazze e ragazzi nel pieno di quell’età magica e fantastica in cui non si è più bambini ma non ancora ragazzi, un’età breve dai confini sfumati in cui non si crede più alle favole ma si è disponibilissimi a credere ed a gestire fenomeni magici ma non favolistici come la telepatia, la telecinesi eccettera. Dotati di questa capacità non sono solo i buoni, giacchè al mondo non esistono solo i buoni, ne sono provvisti anche i cattivi.
I cattivi in questo caso sono individui che dallo “shining” traggono esclusivo personale ed egoistico giovamento e sostentamento, rubandolo a coloro che, per lo più giovanissimi, ne sono in largo possesso; agiscono come vampiri, come parassiti, così come il sangue ristora e giova ai vampiri, a costoro la luccicanza funziona da cibo, da manna, da linfa vitale, rendendoli non immortali ma longevissimi. Sennonché per procurarselo, in gran quantità e di massima qualità, non basta rubarlo, occorre letteralmente estrarlo, e il metodo di estrazione è crudele e disumano, letteralmente costoro aspirano a forza, e con violenza, inalano come fosse un vapore questo fluido particolare, incuranti se tale estrazione avviene, deve e può avvenire, solo tramite torture indicibili, violenza e dolore inenarrabile. Gli sfortunati bambini in possesso di questa facoltà divina di premonizione, la “luccicanza” che gli consente di espandere luce sul buio dell’esistenza altrui, sono rapiti e sottoposti a un rito crudele, lungo, doloroso, che porta a distillare il loro potere, a estrinsecarlo sotto forma di vapore che i vampiri inalano e così cibandosene perpetuano se stessi e la loro zombiesca esistenza. Un vapore, tant’è che può essere conservato in bombole per i periodi di magra. Un vapore, destinato ad esaurirsi, e quindi da rinnovare in perpetuo, ecco quindi i nostri viaggiare in lungo e largo il paese, a bordo di camper, caravan, roulotte, del tutto simili per aspetto e sembianze alle migliaia di persone non più in età di lavoro ma ancora giovani per godersi il loro paese perlustrandolo, e così perfettamente mimetizzati, confusi nella scenografia delle grandi arterie americane, alla continua ricerca sia di vittime che di nuovi adepti.
Il loro peregrinare disegna tragitti intricati, un continuo andare su e giù con traiettorie sempre diverse che disegnano una ragnatela del Male, che riportano a un Nodo, un nucleo centrale cui il Male giunge e da cui il Male riparte, da cui i vampiri nascono e cui finiscono per tornare.
I vampiri moderni non sono tali per definizione, spesso lo sono diventati loro malgrado; può capitare che uno di loro, per esempio, non sia che una povera vittima di un padre incestuoso, lo scempio cui è sottoposta nel corpo e nella psiche da parte di chi più di tutti al mondo avrebbe compito di tutelarla e proteggerla, porta la piccola “Andi Serpente” a divenire una cattiva sui generis.
E il Nodo, i suoi membri, il suo capo Rose Cilindro sono affrontati dal Bene, e dal Bene sbaragliato, come in tutti i buoni romanzi a lieto fine: come dire, tutti i nodi vengono al pettine.
Coloro che militano nel Bene, non sono eroi, e neanche paladini senza macchia e senza paura; il loro elemento di punta è Ambra Stone, una ragazzina terribile, il prototipo della brava ragazzina americana di buona famiglia che è in realtà un autentico peperino, un osso duro: ma non è certamente una eroina casta pura e immune da difetti, non esita per esempio a usare i suoi poteri incazzandosi di brutto a seguito di un rimprovero dei genitori per una sua mancanza o ragazzata.
Il Bene è comunque bene, comprende valori come amore, onestà, e famiglia, i grandi valori della sana provincia americana, in particolare qui si indugia sul rispetto dovuto agli anziani, per i propri avi spesso dimenticati ed abbandonati negli ospizi: si parla perciò anche di intrecci familiari, si parla di persone assai avanti negli anni e pure ancora, e fino all’ultimo, in grado di dare briciole di utilità a quanti rimangono, si parla della morte, e di come sia rincuorante affrontarla con qualcuno che ti tiene amorevolmente la mano e ti aiuti ad andarle serenamente incontro. Il sentiero è scuro, ma lo “shining”, la luccicanza, t’illumina, ti fa vedere dove mettere i passi: un conforto questo che un vero buono non nega a nessuno, nemmeno a un suo nemico, come fa Dan nel finale.
Dan Torrance, il “Doctor Sleep”, l’ex alcolista Dan Torrance, il Danny di “Shining”, non è un santo, ma un ex bevitore, ai tempi brutti ruba dei soldi ad una tossica abbandonandola con il suo bambino, ai tempi belli sbaraglia il Nodo e tutto quanto rappresenta.
Dan è il prototipo del comune americano medio, in grado, con pari probabilità, di essere e divenire buono o cattivo, secondo quale via intraprende, secondo le proprie scelte. Se sceglie la retta via, la sua esistenza luccica, altrimenti è un groviglio, un nodo di brutture.
La vita non è altro che la conseguenza delle proprie scelte.
Il tema di “Doctor Sleep” è tutto qui: e si rinviene costantemente in tutti i romanzi di Stephen King.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    17 Luglio, 2015
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Il potere della parola scritta

Gli assiomi che seguono li ha ripetuti più volte lo stesso Stephen King, in diverse circostanze ed in tempi differenti: per scrivere occorrono talento, inteso come predisposizione innata a quell’arte, e la buona, persistente, tenace volontà di lavorare per farlo emergere, quel talento.
Occorre poi la passione senza fine, e con questo termine si vuole indicare la determinazione, quasi cieca cocciutaggine, che spinge l’autore ad esercitare mano e mente nello scrivere, incurante dei disagi inerenti a quest’assoluta dedizione, senza nemmeno curarsi se tale sforzo verrà alla fine in qualche modo premiato o meno, la passione di scrivere per lo scrivere in se.
Infine, buon ultimo ma non meno importante particolare, serve la conoscenza, non tanta l’esperienza teorica acquisita di ciò che si scrive, ma quella diretta, pratica, vissuta: insomma, è una verità parecchio evidente, e King non si stanca mai di suggerirlo, che si scrive meglio se si sa perfettamente di che cosa si sta scrivendo.
Non a caso quindi Stephen King ha scritto alcuni dei suoi libri migliori allorché ha riportato ciò che sa perfettamente, ha dato il meglio di sé allorquando i suoi personaggi principali sono, come lo è lui stesso, degli scrittori, mirabilmente ritratti e caratterizzati perciò nel loro veritiero essere.
Citiamo, ad esempio, lo Jack Torrance dell’ottimo “The shining”, il Ben Mears del magistrale “Salem’s lot”, è uno scrittore, e per giunta uno scrittore etichettato come maestro del genere horror, uno dei Perdenti del fantastico “It”; pure è uno scrittore il protagonista, tale Paul Sheldon, di quest’altro superbo lavoro di King, dal titolo “Misery”.
“Misery” è il nome di battesimo dell’eroina ottocentesca protagonista dei romanzi, del genere polpettoni rosa, editi a firma dello scrittore Paul Sheldon, che nel romanzo è un autentico alter ego di Stephen King.
Paul Sheldon è uno scrittore, come King nella realtà, premiato dal successo di pubblico e di vendita: è, infatti, uno scrittore di best seller, idolo di fedeli ed affezionati lettori d’ogni ceto e condizione sociale, appassionatissimi alla saga da lui stesso creata e che ha al centro l’eroina Misery Chastain.
Una saga dipanatasi tra diversi volumi, come tipico del genere, e che ha riportato tantissimo successo al punto che i fan letteralmente scandiscono il conto alla rovescia all’approssimarsi d’ogni nuova uscita del nostro.
Insomma, Sheldon non ha niente di cui lamentarsi, è a pieno titolo un membro dello star system, categoria scrittori: ha un ricco conto in banca, è amatissimo dal suo pubblico, che anela di conoscere quanto più possibile di lui, anche gli aspetti più personali e riservati, è questo il tipico dovuto prezzo da pagare da parte d’ogni celebrità.
Egli è, infatti, ad esempio, sempre braccato, riconosciuto ed inseguito dai fans, pressoché accerchiato ad ogni sua uscita pubblica, proprio come un divo del grande schermo, ed insomma, tutto sommato egli stesso ammette che, tra qualche disagio, Misery Chastain gli ha semplificato parecchio l’esistenza, assai più piacevole, invero, rispetto agli stentati inizi della lunga, dura, classica gavetta.
Il pubblico identifica pienamente Paul Sheldon con Misery Chastain, come soleva fare con Sir Arthur Conan Doyle rispetto a Sherlock Holmes o come Rex Stout rispetto a Nero Wolfe, ed insomma, nell’immaginario collettivo di un certo tipo di lettori, su cui la fantasia fa maggiormente presa, s’installa sempre più la credenza, assurda ma indelebile, che Misery Chastain è una realtà in carne ed ossa, anziché la trasposizione cartacea dell’immaginario dello scrittore.
All’ormai appagato Paul questo tipo di successo non è, però, più sufficiente; egli è stanco di scrivere dell’eroina che oramai l’ossessiona e che ha cominciato a detestare con tutto il cuore, egli sa di poter scrivere di meglio, di poter scrivere di più e meglio, di poter ambire, finalmente, ad un successo di critica, e non solo di pubblico, desidera ottenere un riconoscimento culturale, e non più solo di cassetta, del suo talento.
La critica ufficiale e seriosa dei soloni della letteratura, si sa, storce sempre un po’ il naso, avvilisce gli autori di successo popolare, etichettandoli come autori di letteratura che si vende, si, e però è “minore”; e Sheldon intende finalmente ottenere la “patente” di scrittore propriamente detto, i cui testi, magari, saranno un domani inclusi nelle antologie per le scuole.
Nell’ultimo romanzo della serie perciò, d’imminente uscita nelle librerie, Paul fa morire Misery, ne decreta lucidamente la fine, volutamente, e non senza un certo piacere, n’architetta e n’organizza la morte, decretando così la fine della saga e nel contempo dando inizio ad una nuova fase del suo iter artistico, decretando la nascita del nuovo Paul Sheldon, scrittore serio e maturo, che ha appena terminato “Bolidi”, il suo primo romanzo “adulto”, il suo primo senza Misery, senza la maledetta Misery che ne condizionava ormai lo scrivere e le idee, un romanzo quindi di tutto altro genere.
Mal gliene incoglie, deve fare infatti i conti con…i suoi fan numero uno.
Per intenderci, si racconta che quando, esausto per la dedizione che il suo personaggio richiedeva, Conan Doyle fece morire il suo eroe Sherlock Holmes, fu costretto a farlo risorgere ben presto a furor di popolo, scatenando una vera e propria rivoluzione degli appassionati delle avventure del detective inglese, che arrivarono a minacciare pesantemente lo scrittore, se non poneva rimedio a quella vera vigliaccheria, commessa non tanto nei loro confronti, ma invece contro l’amatissimo poliziotto privato, investigatore cocainomane e pessimo violinista, mai esistito nella realtà.
Accade lo stesso a Sheldon, messo brutalmente alle strette da una, chiamiamola così, sua fan particolarmente accesa.
Paul Sheldon utilizza allora il potere che risiede nelle dita d’ogni vero scrittore, allorché queste fluttuano sui tasti di una tastiera, una lettera dopo l’altro, seguendo l’estro, incantandosi in stato di trance e rilevando, dal centro di un buco nero, le lettere che magicamente s’infileranno sulla carta, in fila una dopo l’altra, lungo il rullo, dando senso compiuto all’immaginario dello scrittore.
Paul Sheldon utilizza magistralmente il potere della parola scritta, appannaggio e privilegio degli scrittori di razza.
Grazie a queste parole scritte, all’uso che ne fa, alla maniera in cui le tira fuori e le mette in un certo ordine, in quel particolare ordine, lo scrittore trasmette emozioni tramite le lineette tracciate sulla carta, Paul riesce nell’impresa di far rivivere Misery Chastain, ma di resuscitarla bene, in maniera credibile, fattibile, reale, senza ricorrere ai miseri trucchetti da deus ex machina, tipico delle avventurette riempitive dell’intervallo di un film in un cinemino da terza visione.
Paul scrive e scrive bene, sa che può farlo e lo fa, fa arte delle parole, e perciò le ammanta di magia, e conferisce a loro un potere irresistibile che avvince ed incanta il lettore, come ogni buon scrittore deve saper fare.
Con lui Stephen King, che ricorrendo all’artificio del corsivo, scrive un libro nel libro, ci permette di seguire in contemporanea la storia tragica, assurda ed irreale di Paul e la sua fan numero uno Annie Wilkes e quell’improbabile, retorica e romantica di Misery Chastain, avvincendoci con entrambe, come solo gli scrittori migliori sanno fare.
“Misery” è la dichiarazione d’amore ufficiale di Stephen King nei confronti del suo mestiere, è un atto di stima, di gratitudine, di riconoscenza che King tributa alla propria arte.
Un’arte difficile ed ingrata, che solo una gran passione permette di coltivare, di là delle difficoltà contingenti; ed ecco allorché la vecchia macchina per scrivere messa a disposizione da Annie comincia letteralmente a perdere i pezzi, saltano via i tasti delle lettere più usate, pure Paul Sheldon continua testardamente a scrivere, con cocciutaggine scrive e immette a mano le lettere mancanti, ed in questa determinazione, in questo fermo proposito di scrivere per lo scrivere, il lettore non può non intravedere la stessa forza d’animo e di proposito di scrivere in ogni caso del giovane e allora sconosciuto Stephen King, professorino d’inglese privo di mezzi, impiegato in una lavanderia per sbarcare il lunario, residente in una roulotte, privo di macchine per scrivere e word processor ma ricco di talento e della cieca determinazione che saranno gli ingredienti indispensabili per decretarne il successo.
Misery è un buon libro, con una struttura diversa dalle grandi storie corali, a più voci e più vicende intersecatesi, al quale lo scrittore del Maine ci ha in un certo senso abituato.
Ha una struttura più limitata, claustrofoba ed angosciante, che si svolge in pochissimi ambienti e con pochissimi personaggi, di cui due soli principali ed in scena la maggior parte del tempo.
In esso è messo all’indice tutto il meccanismo dello star system, l’estrema esagerazione di un sistema di profitto che, pur di accontentare gli utilizzatori dello spettacolo, gli acquirenti dei prodotti, crea veri e propri miti assurdi, rituali pericolosi, ossessioni, esagerazioni, fanatismo di cui possono restare vittima gli stessi primi attori.
Di cui anche King è stato vittima, ed in “Misery” egli con coraggio non esita a denunciare quest’oppressione e persecuzione di cui è fatto oggetto dai suoi fan più accesi, pure a rischio di inimicarsi i fedeli lettori.
Tuttavia, di fronte a cotanto autore, dobbiamo ammettere che noi stessi ci sentiamo di dichiararci senza remore “…il suo fan numero uno”.


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e a chi piace lo "scrittore" Stephen King, niente a che fare con il "re dell'horror".
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    16 Luglio, 2015
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Letture sotto l'ombrellone

La popolazione del nostro pianeta è in continuo aumento.
La Terra conta miliardi di abitanti, e il loro numero è destinato a crescere, sia per l’aumento demografico in sé, sia per i progressi della scienza medica, che allungano i tempi di vita, rendendo le persone più longeve.
Se qualche organismo, mettiamo il caso l’Organizzazione mondiale della Sanità, si preoccupa di arginare l’aumento demografico, specie nei paesi più poveri, dando il via ad intense campagne di diffusione di elementari, comuni nozioni di contraccezione, con la distribuzione gratuita di profilattici, ecco che paradossalmente altre istituzioni come la Chiesa Cattolica, al contrario, lanciano i propri anatemi verso tali metodiche o analoghe volte al controllo dei nuovi nati.
Tutti questi miliardi di persone interagiscono con il loro biosistema: vale a dire essi consumano le risorse del pianeta per la loro sopravvivenza. Queste risorse non sono inesauribili o rinnovabili oltre certi limiti: la diminuzione delle riserve alimentari, la difficoltà di reperimento dell’acqua pura, l’erosione delle coste, l’inquinamento, il cambiamento del clima, il buco dell’ozono, tutto fa pensare che quanto prima l’intero sistema potrebbe implodere.
Quanto detto non è una novità, già Malthus lo aveva previsto: la popolazione tende a crescere in progressione geometrica, quindi più velocemente della disponibilità di alimenti, che crescono invece in progressione aritmetica.
Ne consegue uno scenario apocalittico, un vero e proprio inferno sulla terra; e poiché tutto quest’idea iniziale dà forma ad un romanzo ambientato per la maggior parte a Firenze, questa idea dell’inferno non può non richiamare il capolavoro di Dante Alighieri, la “Divina Commedia”.
In estrema sintesi, questo è il filo conduttore dell’ultimo romanzo di Dan Brown, “Inferno”.
Non un cattivo romanzo, anzi io lo considero tra i migliori tra quelli che hanno come protagonista il professore universitario Robert Langdon, noto personaggio creato da Brown e presente nei fortunatissimi romanzi “Il Codice da Vinci” e “Angeli e Demoni”.
Brown su quel concetto iniziale cui abbiamo appena accennato ha scritto un ennesimo best seller, un romanzo che descrive una vera e propria caccia al tesoro, una caccia frenetica, turbolenta, spesso ingannevole, un tutti contro tutti che si snoda per i percorsi artistici di Firenze prima, toccando poi anche Venezia ed Istanbul.
Sennonché Brown ha il vizio di favoleggiare, di correre senza fermarsi a rifinire, correggere, smussare i punti più difficili da accettare.
Brown come nei suoi romanzi precedenti tende a creare situazioni davvero molto inverosimili, a tirare un po’ troppo per i capelli certe tesi, insomma non riesce a creare in pieno quell’atmosfera di sospensione della credulità che è indispensabile in un romanzo che mescola fantasia e realtà, che certo riesce a vendersi bene per la suspense, i colpi di scena, il ritmo frenetico, ma gli manca un qualcosa, gli difetta la qualità della verosimiglianza, non guasterebbe un buon lavoro di rifinitura, eliminando grossolani errori e scene inverosimili.
Se ogni scrittore mette del suo in qualcuno dei suoi personaggi, ebbene Brown somiglia al Rettore, un tizio che in “Inferno” dichiara candidamente: “Io mi guadagno da vivere con l’inganno, la menzogna, la disinformazione, la mistificazione”, e il rettore sa bene che una bugia, per apparire credibile, è preferibile sia un misto di vero e falso.
Solo che in Brown questa miscela non è mai giusta, ben dosata, a volte eccede, in un verso o nell’altro. Manca un pizzico di qualcosa, proprio quel pizzico che rende gradevole il tutto.
Un libro da leggere? Tutto sommato direi di sì: è una lettura non troppo impegnativa, una lettura da vacanza, un libro sotto l’ombrellone.
Ed ha un merito, almeno a me ha fatto questa gradevole impressione: mi ha fatto venire voglia di rivedere Firenze ed i suoi tesori d’arte, luoghi principali del libro e opere citate.
Ponte Vecchio, il Duomo, il Corridoio di Vasari, l’Inferno di Botticelli, il Battistero…per un romanzo non è un merito da poco.

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...gli altri fantavolumi di Dan Brown, con Robert Langdon protagonista.
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    13 Luglio, 2015
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Il cane di famiglia

Sorprende solo chi non lo conosce sapere che Stephen King, superficialmente etichettato da molti tra lettori e critica come il “re dell’horror”, annoveri tra la sua primissima produzione romanzi in cui l’horror “sensu strictu”, inteso come presenza e protagonismo di mostri, streghe, zombi, vampiri, sia completamente assente: è il caso di “Carrie”, di “La zona morta”, di “Stagioni diverse”, giusto per fare qualche titolo, e appunto di “Cujo”.
In realtà King non è uno scrittore “dell’horror”.
Innanzi tutto egli “è” uno scrittore, con tutti i crismi dell’ufficialità, avendo le basi, la sapienza e la maestria per fregiarsi a buon merito di tale titolo.
Non gli occorre alcun’altra etichetta, in qualche modo riduttiva e, in certi casi, con chiari intenti dispregiativi, derivanti indubbiamente dal fatto che, oltre a saper scrivere, e inventare buone storie, a saperle confezionare ed esternare, doti che, sembra strano, non tutti gli scrittori hanno, King sa anche venderle a un numero sempre crescente d’appassionati: lo stesso King ammette di avere, per sua fortuna, una “ossessione” di scrivere che, in più, si vende bene.
Pertanto King può dirsi, al più, uno scrittore “con l’horror”, in altre parole che utilizza, quando è presente, l’horror classico, e quindi mostri, fantasmi, vampiri, ecc., come uno strumento, un mezzo, per enfatizzare gli orrori reali, questo sì, che non sfuggono al suo acuto spirito d’osservazione.
Perché questo è Stephen King: un acuto osservatore di una realtà che, per vissuto ed esperienza, egli conosce bene. Questa realtà è la piccola provincia americana; costituisce il tessuto e il nerbo di tutta la società americana, un microcosmo nel quale si rispecchiano e risplendono vizi e virtù dell’americano medio, di quel “borghese piccolo piccolo” che può facilmente, nel mito tutto americano, e spesso fasullo del self made man, assurgere all’olimpo degli eroi. Questo perché il microcosmo provinciale agisce come un’enorme cassa di risonanza, e perciò quando s’incappa nella normale malvagità dell’animo umano, questa si trasforma in un vero e proprio mostro.
La maestria di King è tutta qui, nel trasportare l’horror nella quotidianità del vivere, e i suoi autentici mostri si chiamano indifferenza, ipocrisia, cattiveria gratuita, egoismo, e i mostri classici, volutamente confrontati con quelli reali, ne escono sminuiti, quasi assurdamente redenti, purificati.
In estrema sintesi, per Stephen King è più terrificante un pedofilo, che non un licantropo, questo al confronto con il primo appare al più come un lupacchiotto un po’ nervoso.
Gli autentici protagonisti dei romanzi di King sono gli innocenti, quelli ancora non contaminati dai guasti della maturità, i puri di cuore, i bambini o meglio ancora i primissimi pre-adolescenti.
Per una serie di ragioni, non ultima per una malinconica nostalgia che King prova, ricordando i tempi in cui egli stesso era un bambino, viveva in una cittadina di provincia, leggeva libri di Poe e andava al cinema a vedere B-movie come “Il mostro della laguna nera”.
Questi film e queste letture gli forniranno, in età adulta, il mezzo con il quale egli si esprimerà: ma il mezzo, non il contenuto.
Perché il contenuto sarà ciò che egli conosce, la provincia e la media borghesia, e la maestria invece gliela forniranno la poesia e la magia del suo sapersi ancora conservare bambino.
Sotto quest’ottica consideriamo “Cujo”, la storia un po’ banale di una famiglia che sta sfaldandosi, priva di valori morali o in ogni caso d’idee, pensieri, emozioni di pura umanità per cui valga davvero la pena vivere.
Il padre Vic completamente preso dal lavoro di pubblicitario che sta andando a rotoli e dai suoi nevrotici problemi di carriera; la madre Donna, frustata e inconcludente, che non trova di meglio che finire a letto con il rubacuori del paese, e il piccolo Tadder, spaventato dai mostri della solitudine, dell’indifferenza, della sordità alle sue richieste di conforto e attenzioni, autentici mostri questi, assai più reali e dolorosi di quelli ipotetici che si nascondono furtivamente nel ripostiglio delle coperte...
E altri personaggi, e altri mostri, popolano la cittadina, sotto una patina d’apparente rispettabilità borghese: il cattivo e alcolizzato Jo Chambers, sua moglie che trova in una piccola vincita alla lotteria, il coraggio di allontanare il figlio dalla nefasta influenza paterna…Che cosa manca ancora in questo scenario? C’è il paese, il mitico Castle Rock, il bar ritrovo dei pettegoli e perdigiorno, il Mellow Tiger, c’è Evvie, la vecchia del paese, c’è la famiglia con il padre, la madre, il bambino…
Manca qualcuno? Ma il cane, naturalmente!
Il buon vecchio cane di famiglia!
Quel tenero amico di bambini: e non può essere un Lassie o un Rintintin, troppo aggraziati, deve avere un che di contadino, o provinciale, deve all’occorrenza trasformarsi in un mostro, per nascondere ben altre mostruosità.
Ecco Cujo, un S. Bernardo di oltre cento chili, che contrae la rabbia per il morso di un pipistrello.
Cujo rappresenta il pretesto con il quale possiamo ammirare tutta la maestria di King: innanzi tutto nella descrizione precisa e particolareggiata della patologia e dell’incalzare della sintomatologia con l’aggravarsi dell’infezione.
Una competenza medica che, poiché King medico non è, rappresenta il risultato di un certosino e laborioso e scrupoloso lavoro d’accurata ricerca che ci prova, semmai ne avevamo bisogno, come King prenda maledettamente sul serio il suo lavoro, prendendosi la briga di informarsi particolareggiatamente come dovrebbe fare ogni scrittore degno di questo nome.
La scrittura non è solo piacere, è anche fatica, e King non si tira indietro, non bara, non si concede ”licenze poetiche”, egli scrive solo di ciò che sa, e se non lo sa si informa.
Ciò che suscita sentimenti d’autentica ammirazione, ciò che lascia stupefatti per tanta abilità, è l’immedesimarsi nel personaggio, quell’essere tutt’uno con la propria creatura, quel parlare e pensare ed essere effettivamente come lui.
King letteralmente si “trasforma” in Cujo, avvalendosi dell’artifizio di scrivere in maiuscolo i pensieri del cane, pensa come il cane, ci fa vedere letteralmente i pensieri e la logica di Cujo come se fossimo dentro il cervello dell’animale e ne vedessimo scorrere i ragionamenti, le idee, la sofferenza, come su uno schermo luminoso.
Questa particolare abilità di King, questo suo riuscire a “sentire oltre” i suoi personaggi, lo ritroveremo tante altre volte: il suo “essere” perfettamente il personaggio è uno dei motivi che ne fa uno scrittore, un grande scrittore.
Cujo non è un mostro, l’assenza di sentimenti, il vuoto di valori, questi sono i veri mostri, e faranno la loro vittima. E questa è il piccolo Tadder, naturalmente, che finisce vittima non della rabbia di Cujo, ma muore tragicamente “asciugato”, disidratato dall’assenza di sentimento.
La morte del bambino non è un caso, non è mai una banale coincidenza, la morte di nessun bambino: e su questa morte Vic e Donna potrebbero trovare la forza per rimettere insieme i cocci della loro vita; ma ciò non ha alcuna importanza ormai per Tadder, che galoppa nei cieli mitici dell’infanzia a cavallo di…lasciatemi vedere bene…sì, di Cujo.

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Stephen King, of course, o a chi ha intenzione di iniziare a leggerlo.
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    09 Luglio, 2015
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Urla nel silenzio

“Mandami a dire” tuttora è tra i romanzi dello scrittore triestino Pino Roveredo quello che piace di più, sebbene ne abbia scritti diversi davvero belli e toccanti, d’altra parte egli raggiunse subito un buon successo di pubblico e critica fin dall’esordio con il romanzo “Capriole in salita”.
Altre sue opere sono “La città dei cancelli” e “Caracreatura”, proprio scritto così, tutto attaccato.
La scrittura di Roveredo, e più che la scrittura ciò che egli scrive, è un qualcosa che colpisce diritto allo stomaco.
Ti lascia amareggiato, dispiaciuto, avvilito, impotente davanti a un’umanità speciale, speciale perché ultima, dimenticata, misera e miserabile, ultima tra gli ultimi, l’umanità dei vinti, dei dispersi, degli sconfitti, dei solitari, dei disperati, eppure sempre tutti malinconicamente e pervicacemente pervasi da aneliti di speranza, da un disperato e struggente bisogno d’amore.
Pino Roveredo, infatti, ha avuto quel che si vuole definire, quasi sottovoce, una vita difficile: per diverse ragioni, esistenziali, caratteriali, fortuite, ha condotto, suo malgrado, un’esistenza dura, precaria, alienante, spesso brutale, finendo negli abissi dell’alcolismo, degli stupefacenti, facendo diretta esperienza degli ambienti e delle comunità dei devianti, prima tra tutte le carceri e le comunità per i disturbi mentali.
Da tali abissi, da tali orrori, egli si salva con la scrittura, quasi che rendere su carta le sue dirette e amare esperienze funge da catarsi, la scrittura compie una redenzione, e da qui Roveredo riparte, facendo delle amare esperienze di vita materia per racconti struggenti di malinconia, desiderio spasmodico di affetto, di amore, di fiducia, che rappresentano in fin dei conti le carenze principali che portano una persona a discendere nei gorghi della depressione, nella solitudine, nello stato catatonico dei senza speranza con conseguente ricerca di paradisi alternativi.
E così Roveredo, attraverso la sua sensibilità poetica forgiatasi direttamente in quelle situazioni che egli ha vissuto di persona sulla propria pelle, ci narra ad esempio di un ipotetico difensore innamorato di una sua simile altrettanto disperata, che vive a distanza dalla sua amata e le scrive, con il tono premuroso di una persona innamorata, e con il tono da “supereroe” di fumetti, le raccomanda di non preoccuparsi se alcuno volesse farle del male, di avvisarlo, le dice “mandami a dire” se qualcuno la minaccia, ci penserà lui a provvedere…è la rassicurazione effimera ed illusoria di un patetico e disperato superoe, eppure non privo di una sua tenera poesia.
Ancora, nello stesso modo struggente e realistico, eppure pudico, discreto, con voce che si avverte roca eppure calda insieme, Roveredo descrive la realtà delle carceri, una realtà fatta di cancelli messi quasi, più che a rinchiudere gli afflitti a scopo di redenzione o recupero, a negarli, a nasconderli, ad annichilirli, a disconoscerli.
E infine, un figlio perso nella dipendenza delle droghe, per la propria mamma resta sempre il condensato dell’amore universale, efficacemente rivelato in quel “caracreatura” detto tutto attaccato, in fretta, quasi nel timore che il rivolgersi con tono lento all’oggetto del suo amore ti distragga, ti faccia perdere tempo, ne provoca la perdita, la caduta irrefrenabile nei gorghi della tossicodipendenza…
Roveredo non è facile a leggersi, ed è crudo e avvilente a leggersi, ma comunica.
Comunica bene: e magistralmente descrive qual è la condizione d’animo che il suo cuore desidera, come vorrebbe essere, dopo tanto penare. Con le sue mani, con le dita di ciascuna dischiuse nel numero tre, le porta a livello delle spalle e discende lentamente verso il basso, scorrendo lungo i fianchi, nel gesto che in LIS, la lingua italiana dei segni, usata dai sordi, intende: “Tranquillo”.
Sa segnare la LIS, infatti. Pino Roveredo è il figlio udente di una coppia di sordi segnanti.
Viene dal silenzio, e scrive nel silenzio; ma le immagini che ci rimanda, assordano.

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...da Pasolini e i suoi ragazzi di vita fino ai bambini nelle fogne di Bucarest, tutto un mondo di urla nel silenzio.
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    09 Luglio, 2015
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Nessun segno di vita

Il sordo non sente, l’udente non ascolta. In estrema sintesi, questa è la logica conclusione al quale perviene questo bel saggio di Donata Chiricò, docente di etica della comunicazione nell’Università degli Studi della Calabria. Il sordo non sente, ma è comunque perfettamente in grado di esprimersi utilizzando la sua lingua madre, la lingua dei segni, e con questa crescere, comunicare, studiare e realizzarsi compiutamente come persona. L’udente non ascolta, infatti, non vuole sentire ragioni, semplicemente non intende neanche minimamente sforzarsi, per interesse proprio o per ignorante presunzione, di capire cosa significa davvero essere sordo; in virtù del fatto che la maggioranza linguistica dominante è oralista, l’udente pretende l’equipararsi a forza alla sola modalità oralista anche di coloro che, assurdamente, egli stesso ha definito sordomuti, e quindi per sola definizione impossibilitati a farlo. La storia della sordità è paradossalmente la storia di un annoso conflitto che insiste tutt’ora, una diatriba che ha i connotati di una guerra di religione.
Un vero e proprio “vizio assurdo”, un modo suicida di analizzare la questione, che da secoli contrappone coloro che dissertano tra la lingua dei segni, la lingua nativa di chi nasce privo di udito e di conseguenza di parola, da sempre e naturalmente usata come lingua madre dalla comunità sorda di tutto il mondo, a quelli che invece indicano nell’apprendimento forzato dell’oralismo l’unico passaporto per l’ingresso dei sordi nella presunta “normalità” sociale. La sordità non è una malattia, al limite è una conseguenza di quella; più precisamente, è una condizione, e differisce da persona a persona al variare di diversi parametri. Ha un rapporto diretto con l’acquisizione della lingua: normalmente il bambino sente e ripete la lingua cui è esposto. Se non la sente, se non acquisisce, e non per sua colpa, il concetto di sonoro, è lapalissiano che mai e poi mai potrà ripeterla. Intendiamoci, non tutti i sordi sono uguali. Esistono sordi divenuti tale a età diverse, con caratteri più o meno accentuati, con differenti vissuti ambientali e familiari e abilità diverse, che hanno conservato residui uditivi, mantenuti sufficientemente in essere e sfruttati con vari artifizi, dalla protesizzazione all’impianto cocleare, e quindi raggiungono un’oralità più o meno efficace. Altri invece sono sordi congeniti, che non hanno nozione alcuna di suoni, parole, articolazioni, all’origine della loro esistenza mancano dell’udito, lo strumento principe per l’apprendimento oralista. Utilizzano allora un altro canale, un’altra lingua; se per assurdo tutti i sordi del mondo nascessero in un unico stato, in una sola nazione, svilupperebbero naturalmente la loro lingua, la lingua dei segni, dando luogo ad una civiltà pari se non superiore a qualsiasi altra sorta sul nostro pianeta e che utilizza una lingua oralista, e nessuno avrebbe nulla da eccepire. Una siffatta società con maggioranza o totalità linguistica dominante sorda e segnante, certamente eccellerebbe in particolare nelle arti figurative, dati la predilezione per le immagini e per il canale sensoriale prioritario, la vista. Questa ipotetica civiltà sorda e segnante non produrrebbe certo sublimi direttori d’orchestra, o capolavori impareggiabili come le sinfonie di Mozart o Beethoven, ma sarebbe comunque una civiltà viva, artistica, d’immagine, con eccellenze espresse nella propria lingua madre, la lingua dei segni. Non è fantascienza o utopia: tutte le volte che nella storia si è espressa una reale emancipazione dei sordi, questo è successo grazie al fatto che essi sono stati messi nelle condizioni di poter studiare, comunicare, utilizzare la loro lingua madre, e con questa crescere e divenire uomini. Invece no: questo non accade, e il sordo non può, non deve dar segno di vita. Nessun segno, nessun segno di vita. Donata Chiricò pone l’accento su questo dilemma, ne rileva le origini, indica gli antichi, primitivi eroici educatori che per la prima volta affrontarono il pianeta sordità dal punto di vista del sordo nativo, i loro studi e le loro osservazioni pedagogiche sul campo, “in vivo”, i loro sforzi, e soprattutto i loro fattivi risultati che restituirono al sordo la propria valenza, dimostrando con i fatti che, solo se gli si permetta di esprimersi nella loro lingua madre, la persona sorda nulla ha da invidiare al normodotato. Si sofferma in particolare sulla figura, icona della comunità sorda mondiale, dell’abate Charles-Michel L’Épée, che a Parigi, in pieno illuminismo, si rese conto che i sordi possedevano un modo naturale, spontaneamente appreso, di comunicare: i segni. Erano segni, una lingua di segni, non un linguaggio, una mimica, una pantomima; questi segni avevano una propria struttura, sintassi, grammatica. Avevano i propri vocaboli, era una lingua viva e vitale, e come tutte le lingue si arricchiva e si sviluppava con l’uso. Allora la organizzò, la insegnò, la diffuse; in tal modo i bambini impossibilitati a sentire con le orecchie e a non poter ripetere quello che non sentivano, crescevano guardando anziché ascoltando, e segnando anziché sforzare inutilmente gli organi fonatori benché integri, sviluppavano così una crescita neuronale nella norma senza accumulare ritardi cognitivi, educativi e comportamentali, come invece succedeva in passato costringendo a etichettarli come ritardati e idioti irrecuperabili…cosa che accade ancora oggi, in verità. Perché ancora oggi la sordità è vista sempre come una malattia, e non come una condizione. Ancora si affronta solo con i medici, gli audiologi, i logopedisti, le protesi, gli impianti cocleari, e via così, poiché la sordità è, tra l’altro, anche occasione di profitto per gli udenti; poiché invece essa è una condizione, come tale va affrontata dal punto di vista culturale, etico, educativo, linguistico. Perciò paradossalmente il punto cardine non è la sordità in sé, e neanche la consequenziale incapacità di ripetere un’esperienza che congenitamente non è acquisibile, ma proprio l’ottusa, pretestuosa e ostinata volontà di impedire il segno. Ostacolare il sordo sembra essere la parola d’ordine, l’imperativo categorico della comunità udente, esclusivamente per partito preso. Guai al sordo che naturalmente apprende e intende comunicare con la lingua dei segni, anatema contro coloro che segnano o riconoscono nella lingua dei segni la dignità e la struttura di una qualsiasi lingua parlata sul pianeta. Nessun segno di vita deve restituire il sordo all’esterno, in caso contrario va esposto immediatamente alla pubblica gogna ed etichettato a vita come diverso, ritardato, minorato, impedito, escluso dalla scuola e dal divenire sociale, condannato all’ignoranza e al disbrigo lavorativo di attività semplici, ripetitive, inferiori, esattamente com’è da tutti considerato.
Non vale ripetere che questo tipo di sordità è una condizione estrema, radicale, che riguarda solo poche migliaia d’individui, considerati alla stregua dei più pigri, ignavi, incapaci, disinteressati per proprio comodo o arretratezza culturale a perseguire l’apprendimento del verbo e preferiscono stupidamente esprimersi con la sola lingua dei segni. Questo è una falsità; chiunque, anche un sordo, è in grado di capire quanto ti facilita l’esistenza l’oralismo. Tuttavia, se non ci si riesce, non si è colpevoli per questo più di quanto non lo sia nascere con un colore di pelle diverso. Per questo, non ha alcun senso l’ostracismo imperante degli udenti contro la lingua dei segni. Il libro indaga sulle motivazioni storiche, etiche, filosofiche, morali, alla base di tale disputa, e giunge, quasi il fluire pacato ma determinato di un fiume, alla sua naturale foce: la lingua dei segni è la più semplice, la logica risposta di una comunità di persone che, avendo impedito, per motivi vari ma con incisiva e significativa gravità, il canale sensoriale audio verbale, necessariamente utilizzano quello integro visivo gestuale, comunicano efficacemente con quella che è la loro lingua nativa, crescono e si sviluppano intellettivamente al pari dei loro analoghi normodotati. Non solo, ma possono anche, all’occorrenza, giungere all’oralismo in un secondo momento, apprendono cioè una seconda lingua, avendo però la vita facilitata dall’essere già padroni della propria, e risultano in vantaggio sociale appunto utilizzando i benefici del bilinguismo; esattamente come qualsiasi bambino che, dopo aver appreso l’italiano, viene esposto all’apprendimento della lingua inglese, o francese, o eschimese o qualsiasi altra esistente. Sia chiaro: nessuno, a iniziare dallo stesso abate L’ Épée, nega l’importanza dell’oralismo, certamente una persona sorda che sa comunicare compiutamente con la voce, è una persona che parte con il piede giusto per la propria completa integrazione sociale. Appunto come uno straniero che voglia integrarsi fuori dalla madre patria, impara la lingua del luogo che lo ospita; ma la sua lingua madre è un’altra. Magari, è la lingua dei segni. Donata Chiricò è una persona udente che si schiera apertamente a favore della lingua dei segni, ci consegna perciò un’opera imparziale, al di sopra delle parti, di cui se ne sentiva il bisogno. Un volume chiaro, esauriente, esaustivo; un saggio logico, incisivo, eticamente irreprensibile. Convincente e documentato: non c’è un solo rigo, un’unica affermazione che non sia dimostrata nelle ricchissime note a margine, o che non abbia un preciso riferimento bibliografico cui rimanda per successive precisazioni.
Quello che ci piace rilevare di più, è che accanto al rigore dello studioso, risalta l’interesse genuino, spontaneo, ingravescente dell’autrice man mano che prosegue nella sua ricerca. Commovente appare la passione, lo sforzo, l’interesse, l’applicazione dell’interessata, un vero e proprio graduale innamoramento e amore per la lingua dei segni, a maggior ragione perché trattasi di una persona udente, non direttamente coinvolta nella questione. Per questo il libro ha una valenza preziosa; dovrebbe essere maggiormente diffuso tra la comunità sorda, dovrebbe essere esaminato ad hoc in convegni e seminari indetti da quanti si occupano della questione, oserei dire che ogni persona sorda dovrebbe possederne una copia e divulgarne il contenuto, l’ENS dovrebbe farne un manifesto nella battaglia per il riconoscimento giuridico della LIS. Poiché l‘approvazione politica, giuridica, morale della lingua dei segni passerà, quando sarà, per il vaglio di persone udenti, poter contare sulle tesi a favore espresse chiaramente da una specialista udente di etica della comunicazione del valore di Donata Chiricò, è un vantaggio inestimabile, Donata Chiricò, e la sua storia della sordità, sono un segno di vita.

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..."Figli di un Dio minore", libro e film da esso tratto, e a tutti colori che si interessano di linguaggio, comunicazione, etica e umanità.
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    06 Luglio, 2015
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Le quote rosa

In estrema sintesi, “La Signora delle Camelie” è una grande storia d’amore, una delle più belle storie d’amore mai scritte, una commovente intensa storia d’amore vissuta dai giovani Armand e Margherita, ma in particolare è la descrizione magistralmente esatta, accurata, veritiera della sublimazione, della devozione, della coerenza dell’amore di una donna verso il proprio compagno, indica quali vertici può giungere l’amore di una donna, l’amore di tutte le donne verso il proprio compagno, in diretta contrapposizione invece all’uomo e alla sua frequente superficialità, volubilità d’animo e di umori, all’egoismo espresso spesso in una smania di possesso assoluto e totale dell’altra persona, dimenticando che l’amore è condivisione e non assolutismo.
Perché esiste, lo si voglia o meno, una sottile ma profonda distinzione in base al genere: le donne amano, e niente altro, e tutto ruota intorno al bene dell’amato; gli uomini invece si innamorano, e la loro amata deve ruotare esclusivamente intorno a loro.
E questa semplice verità viene sottolineata e ribadita dalla persona stessa di Margherita, è una giovane donna alquanto diversa dalle sue coetanee, ma come lo stesso Dumas ricorda nel rigo finale del romanzo, se la storia narrata, di per sé semplice, non fosse però fuori dall’ordinario, non sarebbe valsa la pena di raccontarla.
“La signora delle Camelie” è Margherita Gautier, è la storia raccontata di una donna che si fa amare da tanti ma ama uno solo, che è ambita, richiesta ed usata nel corpo da tanti ma appartiene davvero, compiutamente, intensamente ad un solo uomo, l’unica che lei ama, il solo ad essere davvero innamorato di lei. Margherita è il prototipo dell’amore, sic et simpliciter: dalla Venere dell’Olimpo greco alla Pretty Woman del cinema di oggi, la dama delle camelie ama come solo una donna può fare. Per sensibilità, per istinto, per cuore, per dna, solo le donne interpretano nella sua vera essenza la parola Amore: tale concetto, semplice in sé, è rafforzato proprio dal fatto che Margherita è diversa dalle altre donne della realtà ordinaria, perché Margherita è una cortigiana, una mantenuta, una ragazza allegra, insomma quella che oggi le recenti vicende simil-politiche italiane ci hanno insegnato a definire una “escort”. Le escort appartengono a tutti, ma anche le escort, quando si innamorano, amano come solo una donna sa fare, e l’uomo amato è realmente l’unico uomo degno della loro totale devozione.
Margherita è una celebrità nel suo campo, famosa e sempre presente nei posti migliori dei più celebri teatri parigini con tre ornamenti: il binocolo per osservare l’opera, raramente usato intenta com’è a rispondere ai saluti ed agli sguardi d’invidia, di omaggio, di adulazione dei membri d’ambo i sessi della buona società parigina; un sacchetto di dolci, in genere uva candita, che i suoi ferventi ammiratori fanno a gara di procurare negli intervalli delle rappresentazioni, ed un mazzo di camelie, i suoi fiori preferiti, che la caratterizzano: perennemente bianchi, solo rossi durante i giorni del ciclo mestruale, a simboleggiare i giorni di disponibilità al meretricio.
Dunque, una delle più conosciute ed apprezzate accompagnatrici della Parigi della metà dell’800, una ragazza sorridente, perennemente sorridente, presa dai vortici di feste, spettacoli, prime teatrali, malgrado la tisi di cui è affetta, protagonista assoluta della vita mondana della capitale francese, corteggiatissima, desiderata ed ambita da tantissimi, invidiata e imitata nell’abbigliamento, nella toeletta, insomma una protagonista trendy della jet-society dell’epoca, mantenuta nell’agio, nello sfarzo e nella ricchezza dal miliardario di turno a cui concede certamente i suoi favori, ma spesso, assai spesso, facendolo disperare, indispettire, rifiutandolo e umiliandolo.
Perché Margherita si vende per vivere, sì, e per vivere bene, sfruttando la propria bellezza, la propria gioventù, l’avvenenza, la sua contagiosa gioia di vivere e di divertirsi; le circostanze della vita l’hanno costretta a vendersi, e tuttavia ella non rinuncia alla propria indipendenza di pensiero e di agire, non vende che il proprio corpo, non già la propria anima e meno che mai il proprio cuore, ella può essere di tutti ma non appartiene a nessuno che non sia lei a scegliere.
Margherita non è una donna viziosa, ma è una donna costretta a vivere, suo malgrado, con il vizio, per il tramite di una vita licenziosa da mantenuta, perché solo questa opportunità la vita le ha concesso; ma ella non piange, non si commisera, non recrimina, prende quanto di bello e buono trova in questa vita perché sa perfettamente, ed in concreto, quanto peggio potrebbe essere l’esistenza.
Margherita è una donna reale perché è una donna pratica, accetta la vita per come è e non come potrebbe essere. Come tutti, vorrebbe tutt’altra vita, vorrebbe una vita normale, essere magari casta e pura e vivere per un solo amore, costruirsi una famiglia, dei figli. Così non è stato, ed ella si prostituisce per vivere: non ne fa una tragedia, semplicemente ne prende atto, però in qualche modo riesce ad evitare di insozzarsi, è una mantenuta molto richiesta, ma lo è più per il suo ridere, il suo saper essere di compagnia, la sua voglia di vivere, il suo amore vero e genuino per la vita che per i suoi favori. Margherita sa perfettamente di essere condannata a vita breve dalla tisi che l’affligge, vita che sarà maggiormente abbreviata dagli stravizi a cui il suo stile di vita la costringe, non ne fa un dramma, non è incosciente, con semplicità vive, prova a vivere al meglio delle sue possibilità.
Margherita non è richiesta tanto per il piacere che procura, ma per la gioia che concede.
Ma ecco che Margherita si innamora: non di un giovane particolarmente bello, certo non è affatto immensamente ricco come gli altri suoi spasimanti, ma ha qualcosa che lei come donna apprezza di più di ogni altra ricchezza o lusso o gioiello, ha sentimento, ha interesse per lei come persona e non come, o solo come corpo, ha un cuore che trepida e soffre per lei, soffre sinceramente perché desidera essere amato da lei…e queste sono cose che Margherita apprezza, si commuove, sono le sole cose che una donna, qualsiasi donna desidera per davvero. Margherita stessa lo dice chiaramente: se gli uomini sapessero quanto più potrebbero ottenere dalle donne con una sola lacrima che con ricchi gioielli!
Per questo lei si decide, abbandona senza indugio agi e ricchezze, e dona quanto di più prezioso è in lei, la sua anima, ad Armand, Margherita ama e amerà fino alla fine solo Armand, sarà solo sua, come sempre lo era stata. Anche a sua insaputa.
Ma l’amore vive nella vita reale, e Margherita conosce bene la vita, vede ciò che Armand non vuole vedere. Margherita ama nella realtà, vede bene anche se innamorata, Armand è innamorato, ma dall’amore si fa accecare. Non vede oltre, non sente ragioni.
Perciò Margherita ci prova a togliergli le bende dagli occhi, gli fa capire che l’amore non cancella la realtà, la rende tollerabile ma non elimina la verità dei fatti, con la vita reale i conti vanno fatti, prova a fargli vedere che lei è Margherita Gautier, e chiunque passi per strada può essere qualcuno che con lei si è accompagnato, e può dirlo, può sorriderne, può vantarsene, ha pagato un prezzo per questo: può Armand ignorarlo?
Può vivere come se nulla fosse, come fosse la loro una normale relazione? Certamente no, non per l’epoca, per i costumi, semplicemente no per la vita reale! La vita non è una favola.
Nessuna donna sceglie volutamente di essere una cortigiana, è costretta a scegliere di esserlo: e da quel momento, sa perfettamente che del mondo, non conoscerà mai l'amore con la A maiuscola, non è possibile, avrà solo amanti, e non amori, amanti che la cercheranno solo per soddisfare la loro vanità. Ma l’amore no. Non è per loro.
Per mantenere il suo stile di vita, di cui Armand è partecipe, per la realtà della sua esistenza, Margherita ricorre ai soli mezzi che conosce: può quindi offrirsi ad Armand solo come amante, un amante privilegiato, un amante gratuito, ma comunque sua solo nell’anima!
Armand non capisce, è roso dal dolore, dalla gelosia, vuole Margherita solo e soltanto per sé, come per tutti gli uomini per lui l’amore è possesso esclusivo da non dividere con niente e con nessuno, e non sa, non vede, non comprende, non capisce o non riesce a capire quanto maggiore è il dolore della ragazza, quanto più grande, più forte, più sublime e disinteressato è l’amore di Margherita!
Non è il solo a volere il possesso dell’altro! Anche lei, certo, lo vorrebbe solo per sé; anche lei lo vorrebbe, se solo fosse possibile rinascere, rivivere in un altro tempo, in un’altra dimensione dove lei fosse ancora la semplice Margherita ragazza di campagna, e non la cortigiana Margherita! Perciò ella vorrebbe essere solo la sua amante, fino al giorno in cui Armand, stanco di lei, può riprendere con tranquillità il suo posto ed il suo ruolo nella società, lasciandola con un pugno di mosche come spesso succede a quelle come lei! Margherita non è pessimista, è realista: non è infelice, è felice solo di vivere una breve parentesi con Armand, e niente altro: non chiede nulla al giovane, e gli offre tutto di sé, desidera e si preoccupa del bene presente e futuro di Armand. E perciò si preoccupa di lui, perciò tenta di spegnere la passione che è tra loro, perciò cerca di allontanare il giovane e di allontanarsi da lui: l’amore è un incanto ma Margherita è disincantata, perché il suo amore è reale, ed è reale perchè vive nella realtà. Sa bene come gli uomini, quando sono amanti, dimenticano presto e presto si procurano altre compagnie, e quando sono innamorati sono ciechi e accusano, e rinfacciano, e tormentano presi dalla loro smania di possesso assoluto. Si sentono traditi, sentono il passato dell’amata come un tradimento volutamente perpetrato nei loro confronti; e lo rinfacceranno, accuseranno alla minima contrarietà, lo tireranno fuori ingiustamente e crudelmente.
“La Signora delle Camelie” non è un romanzo da riassumere o da commentare: esso è semplicemente da leggere. Per commuoversi. Per piangere. Per capire cosa significa davvero amare.
Le pagine finali, in forma epistolare, sono talmente commoventi da non perderle assolutamente. Soprattutto per i lettori maschi. Aiutano a capire l’universo femminile, il migliore.
Lo dice chiaro Dumas:
"...da quel giorno non ho più saputo disprezzare una donna a prima vista".

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...un qualsiasi testo d'amore: questo ne è uno dei migliori in assoluto.
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Romanzi
 
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    03 Luglio, 2015
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Cronache di ordinaria follia

“La Ciociara” è un romanzo ambientato all’epoca dello sbarco alleato in Italia, con i tedeschi che ancora occupano metà della penisola fino a Roma e tentano di fermare in ogni modo l’avanzare degli alleati.
La protagonista, narratrice in prima persona, è Cesira, una “ciociara”.
In provincia di Roma con questo termine si intende in genere tutta l’agro pontino, una vasta zona agricola intorno a Latina, caratterizzata da un paesaggio collinare - montagnoso aspro e brullo, più propizio alla pastorizia che alla coltivazione dei campi: di qui il termine “ciocie”, vale a dire una tipica calzatura dei pastori locali, le stesse che ritroviamo ai piedi dei zampognari dei presepi, fatta di pelle di pecora, tanto comoda per i lunghi tragitti a piedi nella transumanza quanto povere e bruttine a vedersi, e certamente assai “burine”, vale a dire campagnole, cafone.
Cesira è una giovane donna originaria di quei luoghi, una povera contadina semianalfabeta, provinciale e sempliciotta sì, ma per nulla sciocca, sveglia, furba, arrivista, gran lavoratrice e determinata a migliorare la propria posizione sociale andando a vivere a Roma, dove si sposerà e avrà la sua unica figlia, Rosetta.
Rosetta diverrà il solo scopo di vita di Cesira, che questa figlia alleva e fa crescere con tutti gli agi, invogliandola a studiare e proteggendola e coccolandola come una leonessa con i suoi cuccioli, perché non le accada mai nulla di male che possa minimamente turbare l’animo buono e sensibile della bambina, ingenua, dolce, timida, così diversa d’animo e comportamento dalla madre.
Quando il marito muore, con l’avanzare della guerra e degli eventi collaterali, s’industria con sagacia e abilità; ma sempre più spesso Roma è bombardata dagli alleati, gli allarmi aerei si susseguono, così come le fughe nei rifugi.
Perciò Cesira decide di lasciare Roma con la figlia, almeno temporaneamente, fin quando la buriana non è passata, questione di mesi, come dicono tutti.
Lasciano Roma dirette nel cuore della Ciociaria, il “ventre della vacca”, i luoghi natali di Cesira, dove la donna ritiene saranno al sicuro dagli orrori della guerra.
Perché Cesira ha conservato la scaltrezza della contadina, sa benissimo che i beni di prima necessità che mancano in città sono di sicuro facile reperimento presso i contadini, naturalmente potendo pagare, e perciò per amore della figlia, volendo salvaguardarla a qualsiasi costo da ogni privazione, da qualsiasi trauma e orrore, si pone in viaggio. Cesira è convinta che la guerra sia un evento che non la riguarda e non può né deve toccarla, un evento transitorio al termine del quale potrà tornare a Roma. Questa guerra, invece, riguarda tutti, l’ultimo conflitto mondiale è quello che ha visto coinvolto direttamente in un modo o nell’altro non più le sole forze militari ma soprattutto i civili, malgrado tanti come Cesira trovino rifugio sui monti della Ciociara illudendosi di sfuggire alle conseguenze del conflitto. Come dice lei stessa, per vivere basta poco, farina e acqua per impastare e strutto per cuocere, e naturalmente i soldi per ottenerli: e lei li ha, e la guerra è solo un fastidio lontano, ormai da non temere oltre. Nel piccolo gruppo di sfollati spicca per indole un giovane, Michele, figlio di un rozzo bottegaio borsanerista, il quale si rivela un giovane istruito, colto, gentile, di animo sensibile e certamente assai diverso dagli altri membri della comunità di rifugiati, becera e ignorante, tra cui è costretto a vivere.
Il giovane, dichiaratamente antifascista, ha un animo timido e riservato ma fiero: è un ragazzo intelligente, anche se ritroso e a disagio con il genere femminile. La guerra purtroppo non risparmia né luoghi né persone, la guerra è un evento tanto improvviso quanto crudele, devastante e incisivo nella vita di chiunque. Gli alleati sfondano il fronte, e un gruppo di soldati tedeschi in rotta dispersi tra i monti, giunge tra gli sfollati, con la forza delle armi chiedono viveri per la fuga e si portano via Michele perché gli faccia da guida tra gli impervi sentieri montani portandoli in salvo.
Tutti rimangono muti, sbigottiti, straziati nell’anima da questo evento: la guerra da cui pensavano di essere scampati li ha raggiunti, una guerra che non li riguarda, che non capiscono e che neanche vogliono capire.
La partenza forzata di Michele sancisce la fine della permanenza tra i monti; ormai le notizie che giungono rivelano l’arrivo degli alleati a Roma liberata.
Così Cesira decide di ritornare nella capitale, certa che ormai non sussiste più alcun pericolo.
Compiuti i preparativi, le due donne si mettono in viaggio, e lungo il tragitto hanno modo di rassicurarsi ulteriormente assistendo al passaggio dei veicoli di trasporto delle truppe alleate: americani soprattutto, ma anche inglesi, francesi e i caratteristici goumiers con mantello e turbante, feroci e crudeli soldati di prima linea di nazionalità marocchina, incorporati nell'esercito francese.
Benché suggestioniate, le due donne si ritengono ormai al sicuro, dopotutto si tratta di truppe alleate, e ormai la guerra può dirsi conclusa; pertanto si apprestano a riposarsi trovando rifugio in una chiesa sconsacrata.
Ed è in questo luogo che esplode il dramma cruciale dell’intero racconto.
La guerra, quest’orrore, non è finita con l’arrivo di altri soldati, la guerra non finisce mai istantaneamente, lascia sempre strascico e dolore che colpiscono con costanza le vittime innocenti e le più deboli, le donne e le bambine.
Saranno anche soldati alleati, ma sono sempre uomini di guerra, feroci e crudeli, e come ebbe a dire Quasimodo, sono sempre uomini “…della fionda e della pietra” gli uomini del tempo di guerra: un gruppo di goumiers con mantello e turbante, quindi tra i più bestiali degli uomini, carne da cannone, feroci e crudeli soldati di nazionalità marocchina, incorporati nell'esercito francese, sorprendono le due donne e non esitano a farne brutalmente bottino di guerra, sottoponendole a forza ad un crudele violento e traumatico stupro di gruppo.
Il dopo…non esistono parole sufficienti a descrivere come si possono sentire le vittime di questo strazio, dopo.
In particolare quando ne è vittima una giovane illibata, ingenua, sensibile, inerme e indifesa come la giovane Rosetta, del tutto ignara di qualsiasi idea di sessualità.
Rosetta ne esce profondamente traumatizzata, a nulla valgono gli sforzi di Cesira di confortare la figlia o di chiedere giustizia per l’affronto subito.
E’ l’effetto deleterio della guerra: guasta gli animi, prima dei corpi, spegne le speranze, distrugge i sogni, sporca i sentimenti.
Solo un evento altrettanto traumatico può in qualche modo innescare una reazione di opposizione, di rabbia, di disperata ripresa nel credere che esista altro oltre l’orrore, che non si deve rassegnarsi al sentimento negativo che si sta impiantando nel cuore: e questo evento è l’arrivo della notizia della morte di Michele, fucilato dai tedeschi in fuga.
La morte del giovane rappresenta una catarsi, una purificazione, un chiodo scaccia chiodo, un dolore enorme che scuote le due donne e le spinge a lanciarsi in lacrime, scosse in un pianto disperato e di speranza insieme, l’una nelle braccia dell’altro, alla ricerca di un reciproco conforto, un giurarsi aiuto ed affetto l’un l’altra, nonostante e a dispetto dell’orrore subito.
Con “La Ciociara” Alberto Moravia, in definitiva, prendendo spunto con l’episodio dello stupro per opera dei goumiers, da un evento storico realmente avvenuto e che coinvolse centinaia di povere vittime esattamente nei luoghi citati, vuole denunciare la tragedia della guerra, la sua violenza, la sua crudeltà, e di come essa incide profondamente l’animo di chiunque, di modo che non siano più gli stessi. Per Moravia in guerra a essere stuprata è in realtà la speranza, i sogni, i sentimenti buoni e semplici, l’essenza stessa del vivere civile.
La rinascita, l’opposizione alla barbarie della guerra, sta nell’educazione, e perciò nella cultura, nel libro rappresentata nella figura di Michele.
L’allontanamento di Michele, la perdita della cultura si può dire, porta alla guerra, che in fondo non è altro che lo stupro della vita.
Mentre il recupero della cultura riporta con fatica l’uomo alla ragione….forse.
Solo forse: spesso l’uomo preferisce restare ancora quello della “…fionda e della pietra”.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    29 Giugno, 2015
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Cose fuori dal mondo

“Il mondo nuovo”, opera dello scrittore inglese Aldous Huxley, è il capostipite dei romanzi distopici, romanzi cioè che immaginano la società umana così come sarà in un futuro più o meno prossimo, con una visione alquanto pessimista circa il tipo di società che ci attende.
L'umanità qui descritta è in apparenza felice, libera dal bisogno, in pace.
La vita scorre tranquilla, preordinata, programmata per tempo, ciascuno ha il suo ruolo codificato, ciascuno è un membro con un compito e un valore ben definito, svolge una specifica mansione precisamente collocata nell’ingranaggio che gestisce l’intera società, lo stato stesso assicura sempre e comunque la felicità del singolo, all’occorrenza interviene prontamente somministrando elisir che garantiscono serenità e libertà da ogni preoccupazione.
In realtà “Il mondo nuovo” è una società sottilmente infelice, è un mondo privo di libero arbitrio, di sentimento, di amore; in definitiva, è certamente una società terrificante.
Esso è un mondo di pulsioni sessuali, ma non d’innamoramento e amore, è un mondo di unioni preordinate, ma non di famiglia, è un mondo molto tecnologico, ma non di arte, di lettere, neanche di scienza, perché la scienza ha un’etica, una filosofia, una cultura, la tecnologia ha solo fredde metodiche.
E’ un mondo che ha cura degli embrioni, che cura e seleziona per un risultato ottimale, ma non è un mondo di bambini e genitori.
Tutta la prima parte del libro è dedicata alla descrizione di questo mondo nuovo, i cui caratteri Huxley ha creato plasmando quanto di peggio la sua epoca effettivamente ha offerto.
Infatti, a quel tempo era in auge la metodica lavorativa di Henry Ford, creatore dell’omonima fabbrica di autovetture, non solo, ma creatore anche di un nuovo metodo di lavoro, la nota “catena di montaggio”. Com’è noto, con questo sistema l’operaio assembla pezzi e opera solo in uno stadio predeterminato della fase di costruzione dell’autovettura, con sveltimento dei tempi di produzione e quindi un aumento del profitto da parte del padrone della fabbrica. Questo sistema però provoca dei guasti enormi sia psichici sia fisici nella classe operaia, dando luogo tra l’altro al fenomeno dell’alienazione, poiché la ripetitività del movimento lavorativo, avulso dallo schema generale del lavoro, in quanto l’operaio neanche viene gratificato dal vedere il prodotto finito del suo lavoro, mette in moto, a lungo andare, a dei veri sconvolgimenti nel fisico e nell’animo dell’addetto alla catena di montaggio.
Nel mondo nuovo, invece, la catena di montaggio è la prassi ideale per tutto, a partire dal concepimento degli embrioni, che opportunamente modificati selezioneranno dal principio della vita gli individui distinti nelle varie classi in cui è rigidamente costituita la nuova società.
Tanto Ford, e il suo sistema, è tenuto di gran conto, che egli è idolatrato, e poiché applicò il suo sistema per primo alla produzione dell’autovettura “T”, questo segno ha addirittura sostituito la croce cristiana, amputando il braccio superiore verticale della croce, e finanche lo scorrere del tempo è indicato con “anno FORD” seguito da un numero che indica quanti anni sono passati dall’ avvento della catena di montaggio, insomma una specie di spartiacque come il nostro prima e dopo di Cristo.
Il fine ultimo è garantire un’uniformità d’individui e comportamenti rigorosamente prestabiliti, per cui facilmente controllabili, e ogni deviazione dalle regole rappresenta un errore di sistema anziché un valore di diversità.
Perciò la memoria storica è azzerata, per evitare spunti di riflessione: tutti, tranne i capi, sanno solo che prima esistevano solo caos e barbarie, ora, grazie ai capi, esistono l’ordine e la vera vita.
Il dio Ford è volutamente confuso con Freud, al punto che i bambini sono spinti a sfogare le loro pulsioni sessuali per evitare che da adulti si affezionino, e scelgano, un proprio compagno: la libera scelta, l’amore, in tal modo è negata precocemente a scopo preventivo, perché grave elemento di turbativa. Anche la procreazione è stata rigidamente sottoposta alle regole della catena di montaggio. Si concepisce e si porta il prodotto del concepimento in fabbriche, dove lo sviluppo si completa in maniera extrauterina, e quindi non più attraverso un corso naturale di crescita a seguito di un libero atto affettivo di procreazione, non esistono più madri, padri, fratelli, famiglie, ognuno appartiene a tutti, e quindi a nessuno, se non allo stato.
In questo modo è facile selezionare gli individui da suddividere in caste, identificate con le lettere dell’alfabeto greco, casta alfa, beta, gamma, ecc. via via a scendere fino ai gradini più bassi della scala sociale, quelle inferiori distinte dalle superiori modificando il quoziente di sviluppo ottenuto variando la percentuale di alimento e ossigeno concessa agli embrioni.
Si selezionano gli individui secondo le categorie e le mansioni cui sono destinati, attraverso un vero e proprio processo di costruzione dei membri del mondo nuovo, che avviene come in una vera e propria catena di montaggio.
Ogni nascita fuori dagli schemi è proibita, scoraggiata da pratiche contraccettive inculcate con l’educazione, in pratica è una società fondata sul sesso senza amore, sulla materia senza sentimento, sulle fredde rigide regole tecnologiche riproduttive anziché sull’affettività e sulla fantasia.
Poiché nessuno si lamenti o provi a opporsi a questo rigido inquadramento, tutti sono sottoposti a condizionamento mentale, anziché educare si usa plasmare, manipolare, con l’uso di varie metodiche di sottile influenza, come per esempio l’adozione obbligatoria di divise di diversi colori a sancire e rendere piacevole e orgogliosa l’appartenenza ad un gruppo anziché un altro.
Se proprio qualcuno dissente, si sente ancora diverso, costretto, privo di scelta, se il tutto gli appare per quello che è, una tragica coercizione dittatoriale, e perciò è triste e infelice, soffre per la libertà negatagli, allora lo stato prontamente interviene somministrando il soma, una potente droga antidepressiva, che riduce alla docilità l’infelice, restituendogli una parvenza soddisfatta: ma appunto, il soma è solo un’altra arma di subdolo controllo delle masse, a discapito del singolo.
Nel complesso, quindi, in definitiva, questo nuovo mondo appare nuovo solo perché è ben controllato, si tiene strettamente sotto controllo ogni deviazione dalla regola, ogni anelito di libertà, ogni tentativo di pensare con la propria testa ed estrinsecare i propri sentimenti: né più né meno, solo in maniera più perfezionata tecnologicamente, di quanto già non facessero i regimi assolutistici del passato. E’ un mondo facilmente ben controllato perché vive nell’ignoranza, ignora il passato, le esperienze precedenti, e quindi i pensieri diversi, le opinioni discordanti o le proprie personali valutazioni su ciò che è giusto o ciò che è sbagliato, per quanto originali possano apparire, da sempre l’ignoranza è un’arma di controllo delle masse, lo strumento preferito dai dittatori per controllare i dissidenti. Il mondo nuovo è un mondo rigorosamente schedato, suddiviso in caste dai limiti invalicabili, ciascuno fortemente condizionato a rimanere nel proprio recinto, cosicché è un mondo dove non esiste l’amico, il fratello, il papà, la mamma, la famiglia, e quindi manca il dialogo, il confronto, lo scambio, che sono l’humus su cui può crescere una riflessione, un dubbio, un impulso qualsiasi che spinga a ricercare se la vita non possa, e non debba, essere altro fuori dagli schemi, qualcosa di diverso, in una parola lo schematismo e l’irreggimento delle masse è solo uno strumento di limitazione della libertà individuale. Dove manca la libertà subentra l’infelicità, ma ecco intervenire come detto il soma che sì, galvanizza e rende placido l’individuo, ma è una droga, è un paradiso artificiale, è un surrogato, non dà la felicità, come per i tossici moderni la droga serve solo a posporre, a negare la realtà, rendendola tanto felice quanto fittizia.
Naturalmente, non tutte le ciambelle riescono col buco.
Della serie, il diavolo fa le pentole e non i coperchi, anche nel mondo nuovo esiste una pecca, un angolo oscuro, un luogo diverso popolato da diversi.
Per ironia della sorte, un angolo di mondo creato dagli stessi che hanno creato il perfetto mondo nuovo. Esiste, infatti, una regione del pianeta volutamente conservata così com’era prima dell’epoca d’instaurazione del nuovo ordine mondiale costituito.
Lasciata, diciamo così incontaminata, un po’ per motivi pratici, per risparmi economici e logistici, essa è una zona potremmo definire selvaggia, non civilizzata, l’equivalente di certi angoli inesplorati della foresta amazzonica dei giorni nostri.
Alla fine ha finito per rappresentare un’attrazione turistica, un parco zoologico, dove è possibile incontrare i primitivi nativi, che vivono come in una riserva indiana, con uno stile di vita “selvaggio”, come si viveva in epoca pre-moderna.
E qui vive il vero protagonista del romanzo, John, l’elemento “disturbatore” dello stile di vita “ideale” del mondo nuovo, che è figlio di due abitanti del mondo “fuori” della riserva, il papà anzi è un mammasantissima del sistema. Educato in questa riserva ai valori degli antichi indiani d’America e del moderno Cristianesimo, ha quindi tutto un altro modo di pensare e di vedere le cose. Non solo, ma ha anche appreso l’arte di leggere, e ha potuto crearsi una propria cultura sulle opere di Shakespeare, rinvenute nella riserva e scampate miracolosamente alla distruzione dei libri operata parecchio tempo addietro per ordine dei vertici del mondo nuovo in perfetto stile “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury. Non c’è niente da fare, cambiano tempi e luoghi, ma il potere proprio assolutistico non digerisce libri, cultura e conseguente libero pensiero.
Il mondo nuovo è una società impeccabile, ordinata, perfetta, senza dubbio, ma questa perfezione ha un prezzo, molto salato: nessuno è libero. La libertà non assicura ordine ma varietà, sentimento, fantasia; l’assolutismo invece pretende rigore, dedizione cieca e assoluta, obbedienza, e in cambio tiene conto di tutto, tutto quanto serve all’individuo, affrancandolo anche dalla fatica di pensare con la propria testa. John è un “selvaggio”, e come tale imperfetto, ha un’esistenza tribolata, non ha né può avere certezze assolute come un qualsiasi abitante del mondo nuovo, e pur essendo mosso da un insano desiderio di appartenere anch’egli a quel sistema, poiché si è irrazionalmente innamorato di un’abitante del mondo nuovo, non riesce, nemmeno può, dato la sua educazione, concepire un simile stile di vita, che letteralmente lo spaventa.
Il suo cuore di uomo di una volta, il suo pensiero “antico” gli suggerisce che la felicità di quel mondo non è reale, è finta, è apparenza, è artificio, nulla ha a che fare con il genuino sapore di una vita non “nuova, ma certamente libera.
“Il mondo nuovo” di Aldous Huxley è un bel libro, e quanto mai attuale.
Mai come oggi l’individuo è letteralmente bombardato da influenze, sottili o meno; e a questi condizionamenti possiamo ancora sottrarci con la cultura, con il pensiero, con i libri.
Almeno fin quanto qualcuno non deciderà di farli sparire, in perfetto stile “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury.

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Orwell, Bradbury, Atwood e gli scrittori distopici in genere.
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    26 Giugno, 2015
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Casa dolce casa

Opera prima di Italo Calvino, pubblicato poco dopo la fine della guerra, “Il sentiero dei nidi di ragno” è un romanzo sulla Resistenza, ma non è tanto, come si potrebbe pensare, un racconto basato sull'esperienza dello scrittore, una cronaca dettagliata sulla partecipazione dell'autore alla lotta partigiana, anche se certamente ne rievoca i fatti, e quei fatti, quelle esperienze lo hanno ispirato.
Esso è più propriamente un libro sulla guerra in sé, e sui guasti, sulla violenza, sullo stupro che essa esercita sull'animo, sulla sensibilità e nel cuore dei più deboli, sui bambini in particolare.
Se nella “Ciociara” di Alberto Moravia lo stupro descritto non è tanto quello reale cui soggiacciono le vittime innocenti della guerra, ma quello, assai più crudele, perpetrato dall’assurdità, crudeltà e follia della guerra nei confronti della speranza di una generazione, ebbene anche il libro di Calvino in fondo è la storia di uno stupro, della violenza perpetrata verso il candore e l’innocenza dell’infanzia, e forse quindi una barbarie ancora più intollerabile.
Un libro per l’infanzia, a favore dell’infanzia, quindi, in un certo senso, e come ebbe a commentare lo scrittore Cesare Pavese, “Il sentiero dei nidi di ragno” è addirittura un libro fiabesco, un vedere le cose della guerra da un punto di vista di una favola, di un gioco, un gioco assurdo, inutile e crudele di cui neanche si riesce a capire bene le regole, in definitiva è un libro che presenta un punto di vista “basso”, una visione dal basso come appunto è la prospettiva vista con gli occhi dei bambini.
In realtà invece i bambini vedono oltre, usano oltre gli occhi anche il cuore, l’anima, tutto il loro essere, è una visuale ben più alta di quanto si possa immaginare, una visione elevata e perciò privilegiata, nobile, come appunto nobile è l'innocenza dei bambini prima che essa venga stuprata dalle brutture degli uomini.
Per questo, in particolare, i protagonisti non hanno nomi propri ma nomignoli, soprannomi, nomi di fantasia, proprio come nelle favole, quasi a rimarcare il punto di vista del piccolo protagonista: per esempio i partigiani hanno nomi assai coloriti e caratteristici, Diritto, Lupo Rosso, Pelle, Cugino, Labbra di Bue, ecc.
Protagonista è Pin, appena dieci anni e già esperto, a modo suo, delle cose della vita.
Orfano di madre, privo di padre, abbandonato da Dio e dagli uomini e letteralmente costretto ben presto a cavarsela da solo e a badare a se stesso, cresciuto, si fa per dire, dall'unico affetto, la sorella, la Nera del Carrugio Lungo, che esercita la prostituzione, in particolare con i militari tedeschi, e perciò anche a rischio di collaborazionismo.
Pin è quello che si dice un ragazzo di strada, un monello, uno scugnizzo, un guitto; bisognoso di considerazione e affetto, bazzica per le strade liguri in cui vive, frequentando per forza di cose, più gli adulti che i coetanei. Con le logiche conseguenze. Sporco, lacero, cencioso e macilento, vive più per strada e nelle osterie che a casa o a scuola o nella bottega di calzolaio in cui è apprendista, trascorre assai più tempo a discutere e a litigare con i peggiori elementi adulti che a giocare con i coetanei. Pin elegge necessariamente gli adulti a unico esempio e li vede eroi, strani ma degni di fede perché adulti, e li imita, li scimmiotta, assorbe da loro il peggio dell’animo umano.
Eccolo tra i grandi nelle osterie invase dai fumi di sigaretta, eccolo tra gli uomini che annegano nel vino gli stenti e le preoccupazioni di una vita misera complicata e intristita dalla guerra e dall'occupazione tedesca, eccolo cercare di attirare se non l'affetto almeno l'attenzione e la considerazione degli adulti, la sua massima ragione di vita, cantando a voce alta canzonacce da osteria, usare un linguaggio sconcio adattissimo a quartieri malfamati ma non certo sulla bocca di un bambino. Eccolo raccontare storielle divertenti, ambigue e a doppio senso, eccolo prendere in giro tutti e tutto con la sua linguaccia maliziosa e irriverente.
Perchè Pin è piccolo, ma sveglio, è furbo, come tutti quelli costretti a crescere in fretta ed a cavarsela da soli ha la mente rapida e la battuta pronta, cerca in tutti i modi di farsi notare e di farsi apprezzare dal mondo degli adulti nel vano tentativo di mettersi pari a loro, senza invece capire che, in realtà, ha solo assorbito in questo modo quanto di più deleterio risiede nell'animo degli adulti.
E impreca e insulta, dice parolacce, spettegola, urla, canta a squarciagola, trascina la vita imitando chi rappresenta il suo mondo, e in cui testardamente tenta di entrare.
Senza considerare, e senza alcuno che glielo insegni, il suo essere comunque solo un bambino: canta canzonacce scurrili senza in realtà comprenderne il senso, declama la professione della sorella invitando gli astanti a frequentarla, senza capire però che gusto provino gli adulti nelle donne e nelle cose di sesso. Dal suo abituale cantuccio dietro un paravento, spia e sente nella massima normalità la sorella che s’intrattiene con i militari, ascolta, assimila, assorbe quasi fosse consuetudine comune, tutto ciò che di turpe esiste nell'animo umano, senza tuttavia comprenderne il senso, discernerne l'importanza, respingere l'influenza nefasta sulla sua mente e la sua crescita.
Pin è solo un bambino, e come tutti i cuccioli desidera solo, anche se non lo avverte coscientemente, affetto, amore, calore, quello che normalmente solo una casa, un affetto, una madre, un nido fornisce. Non ha casa in senso stretto, Pin, non ha affetto, ed ecco allora che nel suo vagabondare solitario nelle campagne s’imbatte in un sentiero, un sentiero un po' nascosto, un po' più difficile da trovare. E sul fondo di questo viottolo, in una strettoia un po' più nascosta e riparata, i ragni hanno tessuto le loro tele. Per Pin hanno fatto un nido, il nido dei ragni: poca importa al bambino se i ragni facciano il nido o meno, in realtà gli basta aver trovato un posticino riparato che sente solo suo, un posto segreto, un rifugio sicuro, un sentiero dei nidi di ragno, di cui lui solo è a conoscenza, la proiezione inconscia del proprio nido personale di cui sente tanto la mancanza, anche senza saperlo.
Un posto suo, un posto segreto, di cui lui solo è a conoscenza e di cui quindi può permettersi il lusso di condividerlo solo con chi nutre la sua assoluta fiducia.
Gli adulti continuano a considerarlo un bambino, più spesso un moccioso divertente o fastidioso a seconda dei momenti, che fa ridere con una canzonetta o una battuta, o ti irrita con qualche presa in giro stizzosa e crudele; e tuttavia non esitano ad usarlo, ad abusare di lui nella loro grettezza.
Così, quando gli adulti dell'osteria si vedono costretti dagli eventi bellici e dalle pressioni della Resistenza a schierarsi e a dar luogo ad azioni partigiane, non esitano a rivolgersi al bambino, stavolta trattandolo come un loro pari, perchè si appropri della P38, la pistola d'ordinanza del militare tedesco che abitualmente si accompagna con la sorella.
Il bambino, affascinato dai discorsi degli adulti, di cui assorbe avidamente quello che vede come un linguaggio segreto, per iniziati, come per esempio GAP (gruppi di azione partigiana) o Sten (mitragliatore di marca inglese), pur senza nulla comprendere, non esita a portare a termine il rischioso incarico, nascondendo la pistola all'insaputa di tutti appunto nel suo luogo a lui più caro, il sentiero dei nidi di ragno. La pistola rappresenta per Pin il suo personale talismano, il suo lasciapassare per il mondo degli adulti e della loro considerazione. Si vede come un eroe, un coraggioso, uno stimato partigiano invincibile, il fascino malefico dell'arma, provata su un povero rospo, capace di potere di vita e di morte, lascia il suo marchio anche nell'animo innocente del bimbo. Sennonché al furto segue il rastrellamento tedesco, e l'arresto di Pin, rinchiuso in prigione e maltrattato, torturato, picchiato come e più di un adulto, per carpirne informazioni che certo il bimbo non è in grado di fornire. Forse è la prigione il primo incontro di Pin con il lato più brutale e snaturato della guerra, tra le botte, le sofferenze e le torture a cui è sottoposto e quelle a cui assiste propinate ad altri, primo tra tutti il vecchio Pietromagro, il ciabattino suo vecchio datore di lavoro.
Perciò non esita a fuggire insieme al giovane partigiano Lupo Rosso, a nascondersi e a darsi alla macchia, incontrando prima un altro partigiano, Cugino, con cui instaurerà un affettuoso e fiducioso rapporto di confidenza, senza sapere, capire o finanche sospettare di trovarsi di fronte ad un vero e proprio misantropo, un killer partigiano, che eleggerà come amato e adorato unico amico, il surrogato del padre che non ha mai avuto, l’unico di cui è certo non sarà mai tradito né niente gli sarà mai nascosto. Si fida il piccolo Pin solo di Cugino, ed è felice di aver finalmente trovato questo che considera l’unico affetto veramente sincero della sua esistenza, al punto da “prestargli” a richiesta quella che considera la “sua” pistola. Senza sapere, il povero piccolo, che ancora una volta gli adulti forniscono prova della loro miseria, ancora una volta la mostruosità della guerra rende mostri gli uomini: Cugino chiede in prestito la pistola di Pin, assai meno ingombrante di un mitra, all’unico scopo di giustiziare freddamente con questa la Nera del Carrugio Lungo, la prostituta sorella di Pin, rea di collaborazionismo con i tedeschi, con cui in realtà si accompagnava per vivere.
Questo il bambino, voce narrante del libro, non lo sa, non lo dice.
Non sa che finanche Cugino l’ha ingannato, anzi continua il piccolo a sentirsi meravigliosamente felice che il suo unico, vero e sincero amico abbia rinunciato ad andare con la sorella per le incomprensibili cose di sesso per stare invece con lui, non sa il piccolo e innocente Pin che la guerra ha ingannato e stuprato la sua innocenza: e le lucciole nell'aria gli sembra che siano lì apposta per il solo scopo di illuminare il cammino che magari lo porterà, chissà, a un nido, a un suo nido, tutto suo, piacevole, caldo, accogliente, un nido qualunque sia, anche un semplice nido di ragni.

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Calvino, Moravia e in generale a chi odia la guerra e i suoi orrori fisici e morali.
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    23 Giugno, 2015
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Meglio meschino che infame

“Il giudice meschino” è uno dei romanzi più conosciuti dell’ingegnere-scrittore calabrese Mimmo Gangemi; e la popolarità di questo pregevole romanzo è stata accresciuta dall’omonima fiction che ne è stata tratta, interpretata da Luca Zingaretti, l’attore che normalmente interpreta il Montalbano di Camilleri, passando qui da commissario a giudice, quindi.
Questo non è, come si potrebbe credere, un romanzo sulla ‘ndrangheta, la nota organizzazione criminale calabrese, o meglio non è solo un romanzo di cronaca malavitosa.
Certo, Gangemi è calabrese, nato e cresciuto nel cuore del territorio che alla malavita della Calabria ha dato vita, sviluppo e notorietà, tuttavia sarebbe semplicistico etichettare Gangemi come un cronista delle malefatte dei suoi concittadini, è riduttivo credere che Gangemi narri del fenomeno malavitoso endemico nella sua terra di origine, spiegandone magari i meccanismi, i rituali, la struttura o azzardando un’analisi sociologica del fenomeno.
Tutt’altro; la ‘ndrangheta per Gangemi, pur presente e con un peso non indifferente nel suo romanzo, è semplicemente un pretesto, un pretesto per parlare di ben altre nefandezze, ben altre meschinità. Perché il titolo si riferisce sì a un giudice “meschino”, il protagonista del romanzo Alberto Lenzi, interpretato sullo schermo da Zingaretti, ma allude, e fortemente, a ben altre meschinità. Alberto Lenzi è un magistrato in servizio presso una procura calabrese, ed è un indigeno, un nativo dei luoghi dove esercita la sua professione, quindi. E dei luoghi conserva tutti i tratti esteriori peggiori: è pigro, indolente, ignavo, tende a sorvolare sui fatti di evidente matrice malavitosa che avvengono sui luoghi della sua giurisdizione, ma non per cattiveria, cattiva professionalità o, peggio ancora perché corrotto o colluso con i mafiosi che deve indagare.
No: semplicemente perché il suo vivere a diretto contatto con l’ambiente lo ha reso in un certo qual modo assuefatto al modus vivendi dei luoghi, è innato in lui una certa rassegnazione, un certo tollerare, fingere di non vedere per quieto vivere, sminuire la portata penale di fatti ed eventi pressoché quotidiani del posto, conscio che certi comportamenti, lo sconfinare spesso e volentieri nell’illecito e nell’irregolare sono divenuti una vera e propria necessità dell’esistenza, un obbligo esistenziale nato dall’assoluta incapacità sociale di uno stato assente nei suoi presidi preventivi ed invece presente sul territorio con solo connotati repressivi. Ma una repressione più simbolica che reale, tanto è oramai soccombente alla struttura capillare malavitosa, al suo tenace permearsi nelle strutture politiche, dirigenziali, civili e sociali del territorio. Privo di altri mezzi, la malavita, almeno quella più lieve, è una necessità per i calabresi, non esistono alternative quando si nasce in certi luoghi, o così o la fame, tra l’altro endemica e secolare. Lenzi lo sa perfettamente, e perciò si adegua, lascia correre i piccoli reati, le piccole ruberie, le irregolarità di vario tipo, le truffe e gli imbrogli a cui troppo spesso per assoluta mancanza di alternative sono costrette a ricorrere i nativi per sbarcare il lunario. Perciò allora Lenzi è detto meschino, il giudice meschino; intendendo con ciò non tanto che è un povero di spirito, tutt’altro, è un uomo intelligente, capace, un uomo retto e con saldi principi morali, come lo sono in genere tutti i calabresi, persone fiere, oneste, degnissime di stima e di rispetto: no, il termine meschino sta qui a significare un uomo dalla moralità elastica, un uomo che riconduce la morale ad essere ridisegnata con un profilo più basso di fronte a certe circostanze tutto sommato riconducibili ad un livello accettabile.
Alberto Lenzi è un uomo superficiale, ma non leggero o incosciente; è un donnaiolo, ma non privo di sentimento; è capace e intelligente, ma sa come spesso occorre girare la testa dall’altro lato.
Meschino in questo senso, tollerante per forza di cose: ma quando il limite è superato, quando si esce drammaticamente e crudelmente fuori dal seminato, ma non più per bisogno ma per avidità, non per vivere ma per lucrare sull’esistenza altrui, ecco che Lenzi perde il suo essere placidamente e fatalisticamente accondiscende e rivela la sua vera essenza di calabrese tosto, intransigente e tenace come la dura roccia aspra montana. Il giudice più caro amico di Lenzi è brutalmente assassinato, e il giudice meschino si scuote, si tuffa a capofitto nelle indagini: non più inefficiente, scarso, limitato, superficiale nelle piccolezze al punto da apparire vile e spregevole, ma deciso, pervicace, onesto, schierato apertamente dalla parte giusta. E si lancia nelle indagini, e si ritrova, a proprio rischio, coinvolto in una storia purtroppo non nuova, quello di un traffico illegale di rifiuti radioattivi.
Evento non nuovo, ma certamente non ancora ben reso evidente nei suoi contorni all’epoca in cui il libro fu scritto. E Gangemi a questo fa riferimento nel suo libro: ad essere meschino non è tanto il piccolo calabrese coinvolto in piccoli traffici poco puliti, esiste ben altra meschinità, esiste ben altra infamità Esiste una malavita organizzata assai più immorale di quella endemica a San Luca, a Piatì, nella piana di Gioia Tauro o al Santuario di Polsi, è una malavita immonda, lercia, insana, composta da politici, da persone fuori dalla Calabria, dei quartieri alti delle capitali, insospettabili, persone perbene eppure pesantemente intrise di malvagità ed infamia, che non esitano a fare della Calabria, una regione che potrebbe essere un paradiso incontaminato, dare pane e lavoro legittimo ai suoi onorati nativi, una discarica per gli interessi MESCHINI, queste sì, veramente meschini, di società di autentico malaffare. Se la ndrangheta calabrese è una società meschina, chi avvelena deliberatamente un’intera regione con rifiuti tossici, facendone una pericolosa, immensa discarica abusiva e assassinandone gli abitanti, soprattutto i bambini e i più deboli con le conseguenti radiazioni, è un infame, un immenso infame, disprezzato finanche dai capi onorati dell’antica ndrangheta.
Questo Alberto Lenzi lo sa, perciò preferisce schierarsi ed essere, semplicemente, il giudice meschino.

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Mimmo Gangemi, Gioacchino Criaco, Corrado Alvaro, e a chi ama questa terra stupenda che è la Calabria.
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    22 Giugno, 2015
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L'anima immacolata della Calabria

“Anime nere”, da cui è stato tratto l’omonimo film, è il romanzo d’esordio di Gioacchino Criaco.
Criaco è uno scrittore calabrese; anzi, di più, è originario dall’essenza stessa della Calabria, poiché è nato alle pendici dell’Aspromonte, che della Calabria è il simbolo, questa montagna è la personificazione eccellente della Calabria, il suo emblema di fierezza e impenetrabilità insieme.
I giovani protagonisti del romanzo, la voce narrante in particolare, sono anch’essi nativi della montagna, sono letteralmente forgiati dalla dura roccia aspro montana.
L’Aspromonte è quindi la vera protagonista assoluta del romanzo; è un massiccio montuoso dell’Italia meridionale ricoperta di foreste intricatissime, percorsa da sentieri nascosti inaccessibili ai più, intrisa da una rete di rivoli provenienti da letterarie sorgenti di chiare e fresche e dolci acque.
Per lo più, è pascolo esclusivo di greggi di capre, unico insediamento produttivo del luogo.
“Anime nere” non è, come si è facilmente indotti a credere, lasciandosi fuorviare dal titolo, un banale racconto di vita e malavita, di bisogni e disperazione, di n’ndrangheta e delinquenza, non è la descrizione dell’escalation criminale di giovani dalle vite perdute, costretti al delinquere e alla violenza dalla necessità e dal bisogno.
Questi temi entrano nel romanzo di straforo, ma sono per lo più un pretesto, un input narrativo, qui si parla essenzialmente di una sola anima, di un’”anima bianca” e immacolata, la Calabria appunto.
Si discetta della sua intima essenza, la montagna, come detto quell’aspra montana in particolare, s’indugia sulle sue pendici che sono pascoli, certosinamente distribuiti tra i pastori locali, che sono i veri autentici “calabresi” sensu strictu, uomini bronzei che non a caso oggi, come letteralmente emerso dalle acque di Riace, sono l’icona della Calabria.
L’Aspromonte, la Locride, Africo, San Luca, Polsi, la piana di Gioia Tauro, questi più che le città e più dello stesso capoluogo, sono i centri maggiormente rappresentativi della “vera e autentica” Calabria, terra arcaica e fantastica, di selve e di rocce.
E lo ripetiamo, di pura roccia, inaccessibili, intransigenti, fieri e leali custodi di valori arcaici di elevata levatura morale, forgiati dalla fedeltà e dall’osservazione maniacale di antiche leggi e infrangibili codici d’onore, ne sono di conseguenza i nativi.
Una stirpe di uomini duri e temprati conseguenti proprio alla durezza dell’esistenza, e alla necessità vitale di trasformarsi, all’occorrenza, da pacifici pastori a bravi guerrieri, possibilmente vincenti, poiché diversa scelta al soccombere miseramente non esiste.
I nativi, intrisi di etica e della nobiltà a questa connessa, sono in genere pastori da tempo immemorabile.
I pastori dell’Aspromonte sono gli unici, veri, nobili padroni del loro territorio.
Essi soli entrano in simbiosi con la natura fiera e selvaggia di questo territorio, vi s’immergono diventando elemento essenziale della montagna, e lei li accoglie, da sempre normalmente ostile con tutti, benevolmente accoglie coloro che unici riconosce intrinseci alla sua essenza. E li elegge i suoi figli prediletti: i figli dei boschi, i figli di una terra che nella notte dei tempi fu detta Ausonia, per la fertilità straordinaria del suo suolo, e successivamente avrebbe preso il nuovo nome di "Italia", passato poi per estensione alla penisola intera.
Sono pastori di capre; poiché solo le capre, animali intelligenti di per sé, possiedono non solamente l’agilità richiesta dall’asprezza dei sentieri, ma la nobiltà necessaria per averne l’onore di accudirle.
Si disprezzano invece le pecore, bestie docili ma ottuse, si evitano le mucche, dotate di estrema sensibilità, e pertanto vagamente inquietanti.
Le pendici sono ricoperte fittamente di boschi, ma anche qui la montagna seleziona naturalmente gli alberi più adatti, generando foreste fittissime di pini e larici e castagni, assai di meno le querce, alberi possenti ma che assorbono troppe risorse desertificando il territorio; non solo, ma fruttificano ghiande di cui sono ghiotti i cinghiali che rovinano le colture sottratte ai pascoli e faticosamente lavorate. Negli ovili si alleva oltre le capre un unico e solo maiale, quello necessario con le sue carni ad aiutare a superare il rigore dell’inverno.
Per quanto splendida e meravigliosa, questa non è, però, una terra facile, a stento si sopravvive.
Questo sarebbe il meno. Il problema è un altro, e viene dall’esterno.
La Calabria è, e resta, una terra mirabile, stupenda, nobile, meraviglioso il territorio e splendidi di umanità i suoi abitanti, insigni e eleganti discendenti diretti dai primitivi Osci, che fin dai tempi più remoti vivevano tranquillamente in questi luoghi, godendosi in pace un autentico paradiso di latte e di miele.
Crearono una città del sole, una comunità reale e non utopica, dove tutti si rispettavano e si aiutavano vicendevolmente, seguendo poche e infrangibili regole etiche impresse a fuoco non nei libri o nei codici imposti dai propri simili, ma nel proprio codice genetico.
Ognuno aveva il proprio territorio, ognuno il proprio ovile, ciascuno viveva in pace nei valori della famiglia e del rispetto reciproco, e chi sconfinava, chi prevaricava, chi s’impossessava con la forza o con la frode di altro e di altri, sapeva a cosa andava infallibilmente incontro, al temuto biasimo e alla giusta punizione da parte dell’intera comunità, a cominciare da quelli a lui più vicini, i suoi stessi familiari. Non c’era pena peggiore e maggiormente temuta.
Poi…
Poi vennero i Greci, distrussero questo paradiso, costringendo i nativi, per sopravvivere, a isolarsi e a ridurre al minimo gli scambi con l’esterno, accogliendo solo i pii religiosi e i monaci devoti letteralmente alla regola.
Non bastò. A loro seguirono i Borboni; e i viceré e chi per loro, con furbizia, capirono che l’asservimento di un popolo così fiero e unito poteva ottenersi solo con le defezioni, con i tradimenti, con le calunnie, con le faide, rompendo l’unità e favorendo la divisione.
Applicarono perciò l’antico detto di Cesare, “divide et impera”, creando una sorta di società segreta strettamente intrecciata nel tessuto sociale, che in apparenza contrastasse il regime, ma in realtà era a esso sottoposto, e con esso collaborava e collabora tutt’ora ai nostri giorni, a distanza di secoli, immutato, preservato e conservato senza differenza alcuna rispetto al passato, per il mantenimento dello status quo, consistente essenzialmente nello sfruttamento di terre e persone.
Risale a quell’epoca la genesi della’ndrangheta, il cui termine, usato pubblicamente per la prima volta nel 1950 da Corrado Alvaro, fa riferimento alla parola “‘ndrina”, che sta a indicare la famiglia di appartenenza, e significa grosso modo “uomo valoroso”, in senso però negativo, come il corrispettivo termine napoletano guappo.
Con metodi violenti, brutali, con omicidi, assassini, faide decennali, gli “uomini valorosi” della ‘ndrangheta svergognano e disonorano questa terra e questi pastori agli occhi del mondo che non sa, non capisce, non si accorge che le anime nere sono ben altre, vengono da altrove, sono nate ben lontano dai territori che infettano.
La società dei “pungiuti”, così sono detti gli appartenenti a tale delittuosa confraternita, a causa del rituale di affiliazione che comporta la puntura di un dito per siglare un patto di sangue, è quindi un sotterfugio creato ad arte dal potere dominante, e tuttora sussiste a esserlo.
Perciò non esiste la legge, non il lavoro, non la giustizia, per queste terre lo Stato è presente e rappresentato solo dalle impronte degli scarponi della Benemerita sulle porte delle abitazioni, alla ricerca di quelli ora definiti latitanti, un tempo definiti briganti.
“Anime nere” sic et simpliciter, ha una trama diremmo banale, è solo all’apparenza la descrizione di una escalation criminale: esso è in realtà un preciso atto di accusa verso le vere anime nere responsabili di tale sfascio, che grida vendetta agli dei dell’Olimpo.
Parla di tre giovani liceali, figli di pastori, e perciò “Figli dei boschi”.
Fosse solo per questo, si intende che si tratta di giovani mirabili, nobili e fieri ma colpevoli di essere nati in Calabria.
E che proprio a causa di quello che la loro regione è stata volutamente fatta diventare, gli studi devono pagarseli da soli, o in alternativa finire sottopagati come apprendisti, o pastori, o emigranti.
Affrontano allora gli studi, e la maturità, con impegno, come tutto quello che fa parte della loro vita: e perciò provvedono, sentono di dover provvedere, anche ai bisogni delle madri, delle sorelle, delle famiglie proprie e degli amici dove manca il capofamiglia, così come deve fare chi ha la cultura e l’intelligenza necessaria a capire la vera essenza delle cose vissute.
Tutto il resto allora è una conseguenza; entrano per forza di cose nel tragitto di una vite senza fine, che gira indefinitamente sempre in un verso, un verso negativo per definizione.
Un vortice progressivo di violenze, omicidi, vendette, creano perfette organizzazioni a delinquere.
Cominciano aiutando i loro padri a custodire, dietro compenso, un “porco”, la vittima di un rapimento a scopo di estorsione, approfittando dell’intima conoscenza del loro impenetrabile territorio; s’impratichiscono dell’uso delle armi, rapinano banche ed uffici postali, gradualmente, come chiunque, da ragazzi che sono crescono e diventano uomini, ma la loro è una maturazione particolare, diversa dalla maggioranza dei giovani coetanei.
Scelgono una vita che comprende momenti di gioie e dolori familiari insieme a un’escalation progressiva e ingravescente che li porta nell’Italia settentrionale, ai vertici della criminalità organizzata; tornano come tanti in vacanza nei luoghi natii a riassaporare gli odori e i sapori delle loro radici, e intanto primeggiano nel traffico internazionale delle droghe; restano fedeli agli amici di una vita e ai valori intrisi nel loro tessuto esistenziale, e contemporaneamente sono intenti a impegolarsi in pieno negli intrighi del terrorismo internazionale e degli inganni politici.
E muoiono, e morendo chissà forse tornano, riescono solo morendo a tornare ai loro monti, ai loro boschi, alle loro floride capre brucanti su pascoli verdeggianti, tornano al loro paradiso.
Tornano immacolati al loro immacolato paradiso, così com’era prima che altri lo rendessero un inferno. Altri, e non loro. Altri, loro sì, anime nere.

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...la storia d'Italia, quella vera, non quella edulcorata da un'idea distorta di nazionalismo e becero patriottismo.
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    21 Giugno, 2015
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Libere di.

Femminicidio, stalking, violenza di genere, sono temi ricorrenti nella cronaca quotidiana, e che vedono, purtroppo, un numero sempre maggiore di donne vittime della presunta superiorità, della prepotenza e della protervia maschile, instillata da secoli di retrograda educazione maschilista.
Da sempre la donna è vittima degli uomini, da sempre la donna per motivi di convenienza e di sfruttamento ora antropologico, ora culturale e religioso, è posta volutamente e fraudolentemente, a prescindere da qualsiasi spiegazione logica che non sia d’interesse di genere, su un gradino inferiore all’uomo nella scala gerarchica del potere, di qualsiasi potere.
Appare quindi quasi logico che un romanzo basato sulla sottomissione, umiliazione e sfruttamento della donna non possa mancare nell’ambito della letteratura distopica.
Come sappiamo, i romanzi della distopia prospettano una realtà che è esattamente l’inverso di un’ideale utopia; essi cioè non sono romanzi di fantascienza in sé e per sé, ma descrivono il grigio futuro della società umana, composta non con paesaggi strabilianti e meraviglia ipertecnologica, ma con più prosaici caratteri, esattamente quelli più deleteri del nostro presente, portati all’esasperazione inverosimile nella futura società.
Un romanzo della distopia al femminile è, dunque anche “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood, dove tutto quanto la donna è costretta ancora a subire nel nostro presente, malgrado i tanti progressi dell’emancipazione femminile, è esasperato al massimo in un futuro non meglio precisato, sorto subito dopo l’usuale catastrofe ecologica – nucleare, che caratterizza spesso l’inizio di questi scenari futuri, tutti post apocalittici.
In un’ipotetica repubblica del tutto sovrapponibile a una moderna città americana vive la protagonista del romanzo, una giovane donna di nome Difred.
Si tratta, e si capisce già dopo poche pagine, di una città, un paese, retto da un regime dittatoriale, le strade sono pattugliate da giovani in assetto di guerra, i Custodi, agisce una polizia segreta, gli Occhi, ai muri penzolano, a perenne monito, i corpi giustiziati dei ribelli, di quanti cioè si sono macchiati di qualche crimine contro il regime.
Un’auto accompagna Difred presso la sua nuova destinazione, la casa del Comandante Fred.
Sì, perché Difred, completamente vestita di rosso, tranne che per due paraocchi bianchi che la coprono agli sguardi indiscreti dei non autorizzati, come il suo abbigliamento monacale la identifica, come fosse un’alta divisa, è “un’ancella”, dove con questo termine s’indica una donna che è diventata una rarità nel nuovo mondo, sorto dalla catastrofe nucleare.
L’ancella, a differenza delle più, è ancora in grado di procreare, di mettere al mondo bambini. Infatti, la stragrande maggioranza delle donne è ora sterile, non è in grado di perpetuare la specie, perciò le poche donne fertili sono una rarità, un bene prezioso.
E come sempre accade, le cose più preziose sono appannaggio solo di chi può permettersele, dei ricchi e dei potenti, in questo caso e in questo tipo di società i potenti sono le alte leve che dirigono e occupano i punti nevralgici, i centri di potere e di comando del regime, i Comandanti.
Le poche donne fertili ancora esistenti quindi sono obbligatoriamente assegnate ai Comandanti, volenti o meno, costrette ma più spesso plagiate e influenzate, addestrate allo scopo con appositi corsi e lavaggi del cervello.
Le ancelle sono costrette a vivere nelle ricche e lussuose abitazioni dei Comandanti, ma soprattutto con loro sono costrette ad accoppiarsi nella speranza di donargli un figlio, la prole accresce la forza e il prestigio del comandante.
Le ancelle sono, per quanto riverite e considerate, anche se protette, tutelate, soddisfatte in ogni bisogno e in ogni richiesta purchè lecita e consentita, poco più che schiave sessuali, mirate alla procreazione che non al piacere in sé, sono letteralmente ancelle, oggetti di uso personale, e per meglio rilevare questo concetto, tanto aberrante quanto usuale, nessuna di loro ha un nome proprio, ma un nome che indica a quale potente, a quale comandante appartiene, di chi è proprietà, con chi deve ubbidientemente giacere.
Difred quindi non è più una donna, una persona, un essere libero, pensante e cosciente, ma una cosa che procrea, di assoluta proprietà del Comandante Fred, è Difred, appunto.
Esistono altre donne, certo, non fertili, fertili lo sono solo le ancelle, ma le altre donne hanno anche esse un loro ruolo, sempre sottostanti agli uomini: ci sono le Mogli, sempre vestite di azzurro cielo, sono le donne al vertice della piramide del potere al femminile, sono le mogli legittime dei Comandanti, ubbidite e rispettate da tutte le altre, ancelle comprese.
Esse sono per carisma, importanza e autorità pari ai mariti, solo che non essendo fertili, assicurano la discendenza per interposta persona.
Si rifanno cioè all’episodio biblico per cui una donna sterile invita il marito ad accoppiarsi con la sua ancella; alla nascita si prenderà cura lei del nascituro, come fosse il suo, e in tal modo assicura la discendenza al suo uomo.
Da tal episodio biblico, ripetutamente e ossessivamente citato ad esempio dalle autorità, è nata proprio la figura dell’ancella, in questo nuovo mondo.
Un mondo che, più che una dittatura in sé e per sé è una teocrazia, che predica un ritorno ai valori “tradizionali”, e quindi sono vietati l’aborto, il divorzio, i rapporti promiscui, sono valori pregnanti la castità e la morigeratezza, l’umiltà e l’obbedienza, la sottomissione e la mitezza.
Valori da sempre “tradizionalmente” utili ad asservire le donne.
Come le dice una volta la sua Zia, colei che l’addestra a divenire una brava ed ossequiosa ancella, una volta le donne era libere DI; nel senso che erano libere DI vestirsi con minigonne, libere DI uscire liberamente, libere DI frequentare qualsiasi uomo, ma anche, e come conseguenza, e giusta punizione divina, libere DI essere picchiate, libere DI essere violentate, libere DI essere brutalizzate, come meritavano per non essersi comportate da donne pie e caste e pure, destinate ai giusti, come la teocrazia al potere pretende e obbliga.
Le povere vittime di queste violenze sono addirittura costrette a fare pubblica ammenda di quanto subito, come se davvero fosse la punizione divina su di loro, per i loro costumi poco castigati.
Ora invece le donne sono libere DA; nel senso che sono libere DA qualsiasi obbligo, DA qualsiasi bisogno, DA qualsiasi incombenza, come per esempio pensare con la propria testa, leggere, istruirsi, scegliere, vivere.
E questa condizione DA è certamente da preferire, anche perché la sola concessa.
Come spesso succede alle vittime, anche per Difred scatta, dopo qualche tempo, quel meccanismo denominato “sindrome di Norimberga”, per cui l’incarcerato, il rinchiuso, finisce per affezionarsi alla prigione e ai suoi carcerieri.
Difred comincia a sentirsi “a casa” nelle stanze in cui è confinata nell’ampia casa del Comandante Fred, cui gradualmente si affeziona, perché i regimi assolutistici questo hanno di pericoloso: con il tempo ci si abitua a qualsiasi aberrazione.
Con “Il racconto dell’ancella” Margaret Atwood semplicemente richiama l’attenzione sulla condizione femminile ancora oggi, nonostante tutto, pervasa d’ipocrisia. Ancora oggi, per le donne, c'è tanto cammino ancora da compiere.
Perché non si giunga mai ad una società, dove le donne, fertili o no, sono ancelle. Sono di.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    17 Giugno, 2015
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Buono come il pane

Buono come il pane, si dice.
E con questo modo di dire, s’intendono varie cose.
Per esempio, si può definire così uno stile di vita improntato a valori semplici e solidi a un tempo, antichi come l’uomo ma sempre validi e attuali.
Studiare, crescere, cercarsi “…una bona fatiga” (così si esprime un boss mafioso all’inizio nel libro), lavorare, trovarsi un partner e mettere su casa e famiglia, crescere figli nel solco di una buona educazione, di una sana tradizione, insomma, vivere una vita dignitosa, normale, onesta, chiara, trasparente, godendo dei piaceri leciti, affrontando con pazienza e forza d’animo le difficoltà inevitabili dell’esistenza, ma sempre con rettitudine, sempre perseguendo uno stile buono…buono come il pane, appunto.
E come si fa il buon pane casareccio? Quello il cui profumo inebria, quello che rammenta l’infanzia, quello che sa d’impasto lavorato a mano e di forno a legna?
Ma con la farina doppio zero, naturalmente.
Sennonché, l’epoca moderna ha perso gran parte dei valori di un tempo, sostituiti da altri, assai meno nobili. Alla fatica, all’impegno, al conquistarsi il pane quotidiano si è sostituita la smania del tutto e subito, dell’arricchimento sfrenato, ottenuto con mezzi illeciti, senza guardare in faccia niente e nessuno, senza alcun rispetto per nulla e meno che mai per la vita umana, l’amore, la dignità, l’onestà sono stati sostituiti dal potere, dal sesso, dal dominio cieco violento ed assoluto, dal disporre liberamente ed impunemente con la forza e la violenza delle vite altrui, trascurabili e trascurate in nome della ricchezza smisurata, immensa, lorda di sangue innocente, ma non per questo meno ambita, conquistata a prezzo di guerre sanguinose, autentiche guerre con tanto di impiego di militari e di mezzi di sterminio di massa.
Quale può essere allora il simbolo costitutivo di questo nuovo modo di essere, assai più allettante del povero pezzo di buon pane fatto con farina doppio zero?
Naturalmente, visto che gli si dà un valore maggiore, avrà uno zero in più: zero zero zero.
“Zero zero zero” è il nuovo libro di Roberto Saviano, e con questo termine si intende il grado di purezza medio della cocaina da spaccio.
Perché il libro di Saviano è questo, è insieme un saggio, un romanzo e un’inchiesta sulla cocaina. Perché la cocaina è il nuovo “status symbol” della nostra epoca moderna. Un’epoca nella quale, per assurdo, sempre più persone smettono di fumare, consapevoli dei rischi e dei pericoli del tabagismo, riscoprono la cura del proprio fisico, affollano palestre e le sale d’attesa dei chirurgi plastici, si votano ad alimentazione vegetariana ed a più sani stili di vita…e consumano cocaina.
La cocaina non ti rende uno zombi, come l’eroina, non ti fuma il cervello come la marijuana o l’ectasy, semplicemente la cocaina fa in modo che…fai di più, sei di più. Fai più l’amore, lavori di più, ti stressi di più, vedi di più, senti di più, pensi di più, farnetichi di più…e poiché il tuo corpo ha un limite, viene il momento che non ne può più, e si rifiuta di fare qualsiasi altra cosa che non sia assumere cocaina in dosi sempre maggiori ma senza più gli effetti travolgenti dei primi tempi, rendendoti nevrotico, paranoico, esaurito, un povero demente esausto e perennemente fuori di testa. Di cocaina non si muore subito, si impazzisce prima e bastano poche dosi per renderti dipendente irreversibilmente, senza che neanche te ne accorgi.
Già nella fantastica introduzione, Saviano indica chiaramente che tutti, ma davvero tutti, dal politico importante all’operaio in fabbrica, dal manager in carriera all’impiegato, dallo sportivo all’artigiano, e se proprio non tutti tantissimi, soprattutto insospettabili, consumano cocaina.
La cocaina è la droga universale, i cui effetti sono rapidi, immediati, così come la dipendenza assoluta, e l’assunzione manifesta può anche essere celata pur protratta nel tempo, è una droga diciamo così invisibile, ma non per questo meno dannosa, anzi, è mortale, ma prima ancora ti brucia il cervello, te lo fonde, ti fa impazzire. Ma provoca dipendenza talmente rapida e potente: ed è per questo che il mercato della cocaina è un mercato a crescita esponenziale, il consumo di cocaina aumenta inesorabilmente con il passare del tempo. E di conseguenza, aumenta la produzione.
Il mercato della cocaina, il “business” della cocaina, è quanto di più lucroso si possa immaginare.
Non esiste mercato, non esistono azioni o prodotti che possano offrire il reddito che invece garantisce il mercato della cocaina: investendo mille euro in cocaina all’origine, prodotta per pochi centesimi dai contadini delle aree dell’America Latina tra le più povere del pianeta, si può acquistare un chilo di cocaina purissima. Questa, una volta contrabbandata negli Usa e in Europa, viene tagliata ed edulcorata trasformandola in circa 3 chili di cocaina, pronta per lo spaccio al minuto. Un grammo di cocaina, una minima dose media giornaliera costa in genere 70 euro, cifra accessibile ai più, con tre chili quindi si ricavano 210.000 euro; in pratica, tolte le spese di filiera e il rischio d’impresa, l’investimento iniziale di 1000 euro non rende mai meno di 100.000 euro: niente rende altrettanto, e altrettanto in fretta. E reinvestendo i ricavi, ecco che si accumulano in fretta ingenti capitali, reinvestiti stavolta a scopo di riciclaggio in attività lecite: interi centri commerciali, immobili, fabbriche, concessionarie, industrie, banche, azioni, giornali, finanziarie, e si creano di conseguenza posti di lavoro, si gestiscono persone, si indirizzano preferenze politiche, si crea un cartello, un sistema, una mafia, una oligarchia criminale in perenne e crudele guerra tra i suoi componenti per l’egemonia del cartello mondiale, data la posta in palio, ingentissima; ma di chiunque sia il predominio, comunque l’oligarchia è virale, dannosa, nefasta, diabolica, influenza pesantemente e negativamente l’esistenza di tutto il genere umano.
Ecco di cosa parla “Zero zero zero”, un libro crudo ma reale, tenero e violento, fantastico ed allucinante, e lo fa in forma di saggio e di reportage insieme, magari romanzato ma non romanzesco, descrive con tanto di nomi, cognomi, soprannomi e curricula una realtà vera, una cronaca veritiera, verificabile, affabulatoria, affascinante: Saviano sa scrivere benissimo, e sa, conosce bene, di cosa sta scrivendo. Magari è un libro tosto, “pesante”, ricco, troppo ricco di fatti, nomi vicende accadute lontano. Ma sono descrizioni necessarie, molto accurate proprio perché sono reali. Si capisce subito che dietro c’è un certosino lavoro di ricerca, c’è stata un’intensa fase preparatoria d’indagine, d’incontri, di riscontri, ma poi l’autore declama quanto appreso in modo incantevole, per niente saccente o didascalico, ma nella forma scorrevole del racconto.
E svolge un’opera meritoria, altamente meritoria, così come fece in precedenza con “Gomorra”.
In quel libro Saviano parlava essenzialmente di Napoli: e ne parlava con amore, rispetto ed indulgenza, non come una Sodoma, ma come una Gomorra, appunto.
Parlava dei suoi luoghi natali, parlava di Napoli, di una città che era stata una capitale europea, e della capitale conserva la magnificenza, ma è purtroppo una capitale senza impero.
Quando non c’è impero, mancano le risorse; senza risorse, abbondano i lazzari, è comune questo a tutte le metropoli senza reddito perché depredate dalle sue risorse da generazioni di classi dirigenti e da politici inetti, corrotti, disonesti, delinquenti.
Sono lazzari particolari, i napoletani, certamente Lazzaro in senso lato lo è la stragrande maggioranza dei napoletani: sono lazzari ingegnosi, fantasiosi, tutti tesi nello sforzo di abbattere il luogo, assai comune ed ingiusto, del napoletano poco incline alla fatica. Niente di più falso: il napoletano, dove il lavoro non c’è, se lo inventa. Solo che anche alla fantasia c’è limite.
E dove non c’è impero, non c’è nemmeno ordine e quindi autorità costituita. Quando lo stato latita, inevitabilmente il suo posto è preso da un altro stato, uno stato dittatoriale, antidemocratico, ingiusto, che utilizza metodi di coercizione violenta, ed è retto, utilizzando la paura, dalla specie peggiore di lazzari, lazzari questa volta diversi, assai diversi, questi sì, brutti, sporchi, cattivi, lazzari pericolosi, delinquenti, animali selvaggi, individui che hanno costruito il loro personaggio frequentando posti particolari, le patrie galere.
E cosa si fa in galera, specie se condannati a lunghe detenzioni per reati gravissimi, e quindi sottoposti a regimi carcerari duri come il famoso regime del 41 bis? Si gioca a un gioco antico che si svolge a mani nude: forbice che taglia carta che avvolge il sasso che rompe la forbice…La morra. In carcere duro molte persone sono dedite, viziosamente, a un gioco antico, la morra.
Di qui, l’indicazione di quello che se la fa con gente di malaffare, con i giocatori di morra, con la morra, “cca’morra”, la camorra, la mafia napoletana, ma non solo napoletana.
Ed è questa mafia che ferisce Napoli, la violenta, la uccide, è la camorra che vorrebbe trasformarla in Sodoma, ma la città è bella, resiste, e riesce a mantenersi solo…Gomorra.
Con “Zero zero zero” questa volta Saviano ci parla dell’intero pianeta: stavolta ad essere Gomorra sono gli altipiani colombiani, le grandi metropoli americane, il confine tra Messico ed Usa, l’Africa, l’Europa, il meridione italiano, tutti pervasi dall’inferno bianco della cocaina.
Roberto Saviano scrive bene, ed ha il coraggio di scriverlo. Si dice che scrive di cose che tutti sanno, che tutti conoscono: scrive di camorra e di cocaina.
Certamente, sono cose che tutti noi sappiamo, ma Saviano le scrive, le descrive, le comprova, le sottolinea, le ricorda, le ribadisce; e non è da tutti farlo, perché occorre considerare i rischi, la paura, il “…chi te lo fa fare” che ti suggeriscono tutti. Saviano ha paura, come tutti ha paura, ma diversamente da altri le scrive, ha il coraggio di aver paura, e le scrive.
Le scrive personalmente, le sue storie, esponendosi in prima persona.
E per questo rischia di persona, vive blindato, scortato, sacrificato, ma scrive.
Ha paura ma scrive, perché Roberto Saviano è un uomo buono.
Buono come il pane.

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le cose buone e giuste che scrive Roberto Saviano
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    17 Giugno, 2015
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Femminicidio e simili, in epoca non sospetta.

Ciascun uomo, inteso in senso maschile, può considerarsi come un pianeta, parte di un sistema solare che è invece giustamente coniugata al femminile; dopotutto, ciascuno di noi viene al mondo per un tramite femminile, quale privilegio può essere superiore?
Ecco allora che Stephen King decide un giorno di rendere omaggio alla propria “galassia” femminile, di scrivere dei libri per le donne, e con donne protagoniste, dedicandoli alle donne salienti della sua esistenza, la madre, in primo luogo, e poi la moglie, le figlie, le cognate, insomma tutte quelle donne che sono normalmente presenti nella sua esistenza quotidiana, con le quali ha contatto, dialoghi, confidenza, e per mezzo delle quali si avvicina “all’altra metà del cielo”.
Tramite loro s’immerge in una diversa realtà, tenta di capirne l’essenza, si rende consapevole di quali soperchierie il genere uomo si è reso capace nel corso del tempo nei confronti della controparte, e ancora continua, in misura nemmeno tanta celata.
E di come le donne riescano in ogni caso vincitrici in virtù del loro coraggio, della loro forza d’animo, della fantasia, della creatività, dell’ingegno, che pare appannaggio, proprio perché emerge nei momenti meno probabili e insperati, esclusivamente del vero sesso forte, quello femminile.
Tutti sanno essere forti, insomma, ma le donne lo sono davvero solo quando veramente occorre tanto coraggio, ed in ciò è la loro grandezza.
Ecco quindi la genesi d’alcuni testi di King, per qualcuno costituiscono una vera e propria trilogia, e sono “Gerald’s game”, “Dolores Claiborne”, e appunto “Rose Madder”, i primi due platealmente legati tra loro da un certo intreccio nella trama.
Tuttavia, più di una trilogia, occorrerebbe indicare un poker, poiché dovrebbe aggiungersi “A bag of bones” (Mucchio d’ossa).
Se “Il gioco di Gerald” affronta il problema dell’incesto e delle molestie, “Rose Madder” quello della violenza domestica coniugale, e “Dolores Claiborne” è un palese omaggio a tutte quelle donne, ultime e umili all’apparenza ma dotate di una grande forza d’animo, una cristallina dignità e una fierezza eroica, pronte ad ammazzarsi di fatica tutta la vita per amore di figli, e quanto del ricordo che ha King della propria mamma traspare in queste pagine, allora al gruppo va aggiunto anche il romanzo, che non è una storia d’amore sic et simpliciter come appare, ma non altro che la descrizione dell’estremo insulto, la violenza carnale, che la bestia uomo è in grado di infliggere al sesso opposto, umiliandola e depauperandola della propria dignità, riducendola in un misero “Mucchio d’ossa”, appunto.
In “Rose Madder” King attinge, come in “Insomnia”, alla mitologia classica; e la descrizione della violenza fisica e morale di cui è vittima Rosie Mc Clendon è il pretesto per descrivere ben altra violenza, quella sottintesa nella società americana, che dietro una facciata d’opulenza e perbenismo nasconde un vero vermicaio.
Una società nella quale pullulano, significativamente, i centri d’aiuto alle donne maltrattate, tanto necessari e tanto importanti, che giustamente la presidentessa di uno di questi centri può ben sperare di essere eletta personaggio dell’anno.
Una società bigotta e ipocrita, governata dal dio denaro: tanto indicative le pagine in cui la fuggitiva Rosie non sa decidersi di quale somma prelevare con il bancomat del marito, appunto per la spropositata importanza che assume il dollaro nell’immaginario americano.
Un bel libro, con pagine di un lirismo e di un’inventiva straordinarie; come per esempio quando Rosie inizia la sua nuova vita, affrancandosi con una modesta indipendenza economica raggiunta attraverso l'umile lavoro di cameriera: ma questo lavoro misero s’ammanta di poesia, perché, come riporta lo scrittore del Maine, permette alla protagonista di assaporare il gusto dolce del pane guadagnato con le proprie forze, e dolcissima e gustosa è la cioccolata calda che si concede alla fine del turno di lavoro.
Un’inventiva che colpisce: la carriera di Rosie evolve, come i suoi guadagni, e la professione scelta per questa promozione è insolita eppure reale, lettrice d’audiolibri, segno questo di un King attento e arguto osservatore della realtà quotidiana.
Il marito di Rosie è una bestia, e come tale merita di essere trattato, e come una bestia e con una bestia finire; ma poiché è una bestia depravata ed indegna di essere accostato a qualsiasi essere vivente, giacché nemmeno la belva più feroce si comporta parimenti, occorre ricorrere ad una bestia diabolica, sì, efficace nel confronto, ma esistente solo nell’immaginario, da qui il ricorso al Minotauro.
C’è da dire però che il ricorso alla mitologia, al fantastico, al paranormale o come altrimenti si voglia chiamare, appesantisce, e non poco, l’intera opera.
Questa è una cosa che accade spesso allo scrittore del Maine: eccelle moltissimo nella storia, e nella descrizione, ambientazione, psicologia e caratterizzazione dei personaggi; ma paradossalmente, chi è indicato come il re dell’orrore nell’orrore si perde, e molto perde, quando appunto infila l’elemento “straordinario” nelle sue storie, a scopo di enfatizzare ulteriormente il suo dire.
E utilizza il paranormale, il mostro, magari anche “l’alieno” come nell’“Acchiappasogni”, ma ottiene invece di appesantire l’opera, depauperarla, svilirla alquanto.
Ma rimane in ogni caso il migliore.

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Stephen King, e a tutti coloro che rispettano le donne come se stessi.
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    16 Giugno, 2015
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Uno con i capelli bianchi

“La tentazione di essere felice” del napoletano Lorenzo Marone è un agile, scorrevole romanzo, che vede per protagonista un comune “borghese piccolo piccolo”, l’ultrasettantenne Cesare Annunziata, un vecchietto sui generis, un po’ diverso da quello che l’immaginario collettivo descrive in genere.
Anziché vegetare come quasi tutti i suoi pari età davanti alla tv, bofonchiando e rimpiangendo, lamentandosi con e dei parenti prossimi, scivolando nell’inevitabile autocommiserazione e deprimendosi in attesa dello scontato epilogo esistenziale, Annunziata della sua veneranda età ne fa invece utile paravento, la erge a posizione privilegiata, ci costruisce un osservatorio senza remore e censure, per riflettere e discettare lucidamente sui fatti e le persone del suo vivere quotidiano.
Vedovo e con due figli più che adulti, il protagonista ammanta le sue osservazioni e le relative considerazioni con cinismo e freddezza, facendosi alibi del rispetto che inconsciamente insorge in chiunque ha a che fare con un innocuo vecchietto.
Per lui la vecchiaia, quindi, è quasi un’età d’oro, un periodo della vita in cui ad un individuo viene spontaneamente elargito da chiunque quel rispetto che tutti cercano di guadagnarsi arrabattandosi per una vita intera. L’età avanzata è quasi una medaglia al merito, un simbolo sacro,un segno distintivo di onore e rispetto, a prescindere dall’individuo in sé.
Cesare Annunziata è quello che si dice “uno con i capelli bianchi”, e perciò degno di apprezzamento e decoro, anche perché sinonimo di innocua e benevola presenza, un po’ dura di comprendonio. Ma dietro l’apparente placidità, il protagonista sa essere lucido e realista, cinico e perspicace: e tratta del proprio figlio, che sa essere omosessuale malgrado il giovane non abbia mai rivelato il suo differente orientamento, ci racconta della figlia, intrigata in una relazione extraconiugale, descrive la gattara del suo quartiere, si sofferma sull’enigmatica Emma, nuova condomino del suo fabbricato, e via così. Con cinismo, forse, ma anche, se non soprattutto, con dolcezza ed affezione. Perché questo non è un romanzo sulla terza età, è invece il racconto della consapevolezza che l’uomo giunge alla felicità solo tramite e con i suoi simili; è un romanzo di compartecipazione, di pietà, di umana compassione, le sole che danno un senso alla propria esistenza. E’un romanzo d’amore, e la tentazione d’amore, di essere felici, non ha età. Non può averne.

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Marone, e a chi desidera farsi stupire dalla vita a qualsiasi età.
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    16 Giugno, 2015
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Tutto un mondo di perdenti

“It” rappresenta, com’è noto, l’opera meglio conosciuta dello scrittore americano Stephen King, forse quella di maggior successo di pubblico e di critica, un tipico romanzo indissolubilmente legato al nome del suo autore, così come, per esempio, “Lord of the rings” sta a Tolkien oppure “For whom the bell songs” sta ad Ernest Hemingway.
Ed a ragione: si tratta, infatti, di un tomo poderoso, oltre mille pagine, che racchiudono, in sintesi, tutto l’immaginario dello scrittore del Maine.
Con “It” King si sbizzarrisce, libera tutta la propria fantasia, rende reale e concreto quel di fantastico ed incantevole racchiude il suo mondo interiore, fa uso a piene mani di tutti gli stereotipi della letteratura horror di cui certa critica lo ha indicato come il campione assoluto, descrive e fa rivivere magistralmente tutte le angosciose creature che turbano l’immaginario in special modo d’adolescenti e preadolescenti.
Prendono vita nelle pagine del romanzo tutti i mostri “classici”, così come milioni di persone di tutto il mondo li hanno conosciuti, grazie alla specifica letteratura e, ancor di più, grazie ad un tipo ben preciso di cinema “minore”: rivivono, grazie a King, nella realtà dei nostri tempi, i vampiri, le mummie, i mostri della laguna nera, i ragni giganti, tutti i differenti modi di essere e di apparire, di mostrarsi e però di rendersi visibile solo agli occhi di chi desidera veramente vederlo, che assume ogni e qualsiasi babau per eccellenza. Ciascuno ha, si può dire, un mostro personale, e pertanto non sintetizzabile solo in un modo ed in un genere, ma amorfo ed intricato ad un tempo, non riconducibile ad una sola categoria, potendo assumere forme e nomi diversi, e pertanto l’insieme di questo caleidoscopico mostro è indicato con un più appropriato termine neutro, “It” appunto.
Ma “It” non è, non può essere solo, un romanzo horror: giacché King non è uno scrittore dell’horror in senso stretto, ma egli è invece, come ormai ampiamente assodato anche dalla critica più severa, un osservatore attento di un’epoca della vita che egli considera la migliore del corso dell’umana esperienza, quella più tenera e delicata, più magica e poetica, più sensibile e delicata, più fine, più tenera, più emotiva: l’età della primissima adolescenza. Guarda caso, è l’età anche più impressionabile dell’umana esistenza, e perciò l’età in cui la curiosità è particolarmente pungente, la fantasia fervida, la voglia di sapere, di conoscere, di vedere oltre le apparenze, sono fortissime, tenaci, in un’ottica non più infantile ma non ancora freddamente razionale, tipica dell’età adulta, e si cede perciò facilmente e docilmente al fascino dell’horror.
L’horror spaventa, ma affascina; l’horror terrorizza, ma incuriosisce; ed i maggiori consumatori dell’horror in tutte le sue forme sono proprio i ragazzini della prima adolescenza, perché non credono più alle favole, certo, e però credono ancora nelle storie “strane”, non sono più bambini, vero, ma nemmeno abbastanza grandi da limitarsi ad etichettare come illusorio ciò che non arrivano ancora cocciutamente a spiegare solo con la ragione.
Perciò King indirettamente scrive di horror, ma lo fa non per impaurire il lettore e come attività fine a se stessa, ma utilizza l’horror come un artifizio, come un pretesto, uno specchio riflettente che appunto riflette ben altra realtà e considerazioni.
Utilizza l’horror per parlare di valori umani, di sensazioni, di particolari stati d’animo, d’affetti, di passioni, e del suo personale convincimento che questi sentimenti raggiungano l’apice della pienezza, si realizzano compiutamente solo in un ben preciso arco temporale. Un’età della vita in cui non si è più bambini ma non si è stati ancora guastati dall’indifferenza, dall’aridità, dall’egoismo che quasi inevitabilmente si accompagnano all’età adulta.
King attraverso l’horror di cui sono abituali utilizzatori i giovani, descrive il loro mondo: elogia la prima adolescenza come l’età migliore dell’uomo, quella in cui i valori dell’amicizia, completa e disinteressata, in primo luogo, e poi anche l’amore, la solidarietà, la tolleranza, giungono ad estremi mai più toccati, e spiega come questa consapevolezza, la coscienza della graduale perdita della visione pura e cristallina attraverso questo terzo occhio che va atrofizzandosi con la crescita, è l’origine della malinconia e del rimpianto con cui l’adulto ricorda l’io adolescenziale, tanto diverso e sempre migliore dell’attuale.
King allora parla spesso di ragazzini, sono di frequente ragazzini i protagonisti dei suoi libri, da Carrie White di “Carrie” a Danny Torrance di “Shining” a Charlie McGee di “Firestarter”; sono adulti ma con la purezza, l’onestà, l’innocenza e la capacità di credere e vivere in pieno certi valori, con l’entusiasmo travolgente tipica degli adolescenti, gli Stu Redman ed i Larry Underwood di “The Stand”; sono ragazzini infantili mai arrivati all’adolescenza o arrivateci male, anche certi personaggi negativi, sfortunati, vittime loro malgrado come l’Annie Wilkes di “Misery”.
Poiché King sa scrivere bene, e poiché tutti siamo stati ragazzi, ecco uno dei motivi del suo successo: siamo stati tutti ragazzi, è vero, possiamo tutti riconoscerci in quel che King magistralmente ci fa ricordare, quei giochi e quel candore, quegli amici e quelle paure, quelle emozioni e quei rituali, quel tempo fatato, diverso certo per esperienza ed esperienza per ciascuno, e però a tutti comune per identica sensibilità, capacità di vedere le cose della vita ammantate da un alone magico, con fede cieca e vivida speranza, con una tale fantasia, una tale innocenza, un tale garbo, uno stato di grazia come mai più si ripresenterà nell’esistenza.
Perciò in “It” King in fondo parla di se stesso, parla degli amici della sua personale primissima adolescenza, parla della vita e del costume dei favolosi anni cinquanta della sana provincia americana, parla d’epoche e luoghi che conosce a menadito: e poiché oltre a conoscerla bene, sa anche ben riprodurla, ecco che si realizza compiutamente l’equazione, scrivere bene di ciò che si conosce altrettanto bene, e poi è il suo talento a rendere un capolavoro la storia banale di un mostro nascosto nelle fogne di una città.
Il giovane preadolescente è a metà di un guado, non più bambino, non ancora adulto, né carne né pesce: è perciò più fragile, non ha ancora compiutamente realizzato se stesso, non ha ancora precisa identità, meno che mai ha indipendenza, in particolare la prima e più importante, quell’economica, è pertanto debole, cagionevole, dipendente dagli estri degli adulti, dagli egoismi parentali, dalla cattiveria dei bruti, finanche dai primi sconvolgimenti ormonali, insomma i giovani della prima crescita sono, per definizione, dei perdenti.
Ed il gruppo dei sette perdenti riflette l’essenza stessa del mondo magico prediletto da King.
Il capo carismatico del gruppo è William “Bill” Denbrough, ragazzo quanto più simile allo stesso King, guarda caso anche lui da adulto diventerà uno scrittore horror.
Bill è un ragazzo sensibile, buono ed onesto, un amico come pochi: eppure la pochezza degli adulti non esita a ferire, seppure inconsapevolmente, l’animo nobile del giovane adolescente, che si vede respinto, rifiutato dai suoi stessi familiari in lutto per la perdita del piccolo di casa, senza pensare, chiusi nel proprio egoismo che in ogni caso nessun dolore giustifica, che quello stesso lutto ha effetti altrettanto spaventosamente sconvolgenti sull’animo del sensibile ragazzo, a maggior ragione trattandosi di un giovane non ancora formato.
Bill non ha, non può necessariamente avere, i meccanismi d’elaborazione ed accettazione di un lutto, pertanto la scomparsa del fratellino gli lacera l’anima, lo fa sentire ingiustamente in colpa, non è minimamente aiutato dai suoi cari nella triste e difficile, ma necessaria, opera di recupero e ricomposizione dell’affettività traumaticamente infranta. Ed il disagio del giovane si rivela nell’incespicare allorché tenta, timidamente, di violare la cortina di indifferenza ed abbandono in cui i suoi stessi cari lo hanno rinchiuso.
Bill “Tartaglia” smette di balbettare solo quando dimentica, e dimentica solo quando è pervaso da amore, l’amore puro e disinteressato, spontaneo e sincero dei suoi amici: come tutti noi, non n’avrà mai più d’amici così, in tutta la sua vita.
E quanti guasti possono fare la grettezza e l’egoismo degli adulti, lo dimostrano visivamente Ben Hanscom, Ben il ciccione, deriso dai bulli della scuola e capace di partorire versi di straordinaria poetica intensità per la ragazza per la quale spasima; e Eddy Kaspbrak, con l’eterna bomboletta di spray antiasma tra le dita.
Ambedue soffrono di patologie psicosomatiche, l’obesità per Ben e l’asma presunta d’Eddy, ma più che patologie sono esempi di quali guasti gli adulti possano produrre in nome di un malinteso senso dell’amore o di troppo amore: in realtà si tratta solo d’egoismo, d’egoistico e meschino senso di “possesso”, che induce la madre di Ben a rimpinzare il figlio di cibo anziché più impegnative attenzioni di tempo e dedizione, di cure semplici ma affettuose, d’educazione all’autonomia ed al rispetto per se stesso e gli altri, e quella d’Eddy a spacciare acqua canforata come miracoloso rimedio per una malattia esistente solo nella testa del ragazzo, in cui è stata inculcata a viva forza per rafforzarne la dipendenza materna. E soffre ingiustamente Mike Hanlon, con la sensibilità tipica degli adolescenti, per le discriminazioni di cui è vittima per il colore della sua pelle.
Reagisce invece assai argutamente e maliziosamente alla grettezza degli adulti Richie Tozier, Richie Boccaccia dalla lingua lunga e dalle battute fulminanti, beep beep Richie, in realtà giovane assai timido e sensibile che per reazione e difesa scimmiotta il mondo degli adulti, con le sue imitazioni che mettono alla berlina il loro mondo assurdo, i loro modi di dire incongruenti, stereotipati, stantii.
Quanto invece più simile agli adulti è Stan Uris, Stan l’ebreo, un piccolo ometto più che un ragazzo, non per niente è detto pure Stan L’Uomo, forse quello meno privo della magia degli adolescenti, e proprio questa mancanza sarà alla base del suo arrendersi troppo presto alla cruda evidenza della realtà: Stan non possiede compiutamente la fede cieca degli adolescenti nella magia, nel fantastico, nell’improbabile ma possibile, preferisce cedere alla freddezza del reale.
Beverly Marsh, l’unica ragazza del gruppo, è il personaggio tramite il quale si rivelano chiaramente le peggiori turpitudini del genere umano adulto: è una ragazzina fresca, vivace, in gamba, ha un mondo interiore tenero, romantico, sentimentale, una personcina pratica ed equilibrata, assai carina in ogni senso, più matura della sua età come lo sono sempre le femmine rispetto ai maschi in quell’epoca.
Questa bella anima innocente rischia di essere insozzata dalle peggiori invenzioni della razionale maturità adulta: la pedofilia, l’incesto, la violenza carnale, dalle quali scampa con l’intelligenza, la rapidità d’intuizione, l’istinto squisitamente femminile.
Beverly è il simbolo, al quale King tributa il massimo rispetto, della femminilità, con il suo candore, la sua pudicizia, la sua limpidezza ma pure con la sua saggezza, il suo coraggio, la sua forza d’animo, qualità che troppo spesso suscitano l’invidia dell’universo maschile, che ci prova quindi malignamente ad infrangerne l’incanto e la bellezza.
Una storia d’adolescenti, quindi, una storia di perdenti…che poi tanto perdenti non sono.
Perché in contrapposizione al loro mondo, c’è appunto “It”, tutto un altro universo, quello degli adulti, quello dei cosiddetti vincenti, dei maturi; un mondo assolutamente privo di tolleranza, che non esita a sbarazzarsi dei diversi, per esempio degli omosessuali, scagliandoli oltre il parapetto di un ponte.
Un mondo privo di pietas umana, se un intero paese partecipa al sanguinoso ed inutile massacro di una banda di rapinatori in fuga, sostituendosi brutalmente e selvaggiamente alla legge dell’ordine costituito.
Un mondo assolutamente privo d’amore, fratellanza, senso della comune appartenenza al genere umano, se gode del disastroso incendio di un locale nel quale sono soliti riunirsi “solo” persone di colore.
Un mondo ignobile nel quale si massacrano bambini mutilandone i corpi e si lasciano nell’abbandono sanitario e sociale i disadattati, i “cattivi” come Henry Bowers…ridendo di tutto questa con la risata sguaiata, sardonica, falsa di un clown.
Tutto questo mondo è “It”, è il condensato di quanto più negativo esiste nell’animo adulto, “It” riflette quanto d’immorale genera la maturità.
Ed il male è subdolo, ma intelligente, è pervicace e perciò ritorna ciclicamente, fa parte della storia dell’uomo fin dalla sua comparsa sul pianeta terra: il male è abile, capace, affascinante, non a caso è femmina, e perciò in grado di moltiplicare se stesso.
Allora il gruppo dei perdenti, con tutto il loro bagaglio di buoni sentimenti, è in realtà quello che prevale, a maggior ragione se conserva nella memoria quei buoni sentimenti anche nella crescita, e sa recuperarli, nel bene e nel male.
E perciò i perdenti da adulti ripetono nel male la loro adolescenza, per esempio Bev sposa un individuo meschino quanto più simile all’infido e violento padre, e Eddy ha una moglie possessiva come lo era la propria madre, ma anche e di più nel bene, sanno ritrovarsi, sanno riunirsi per far fronte comune alle avversità ed alle nefandezze della vita ciclicamente ripresentatisi, sanno fronteggiare ancora “It” pur nell’età adulta appunto recuperando i valori sinceri, autentici, basilari dell’esistenza, l’amicizia, la fratellanza, la bontà, magari anche l’incoscienza ed il coraggio di correre a perdifiato in bicicletta o in equilibrio assai instabile su uno skateboard, ed in definitiva tutto quanto di buono e genuino c’è nel loro animo, quello illibato della loro adolescenza.
E poiché “It”, come abbiamo detto, è femmina, lo contrasta efficacemente solo un’altra femmina, Beverly, è lei il vero leader, nemmeno tanto misconosciuto, dell’intero gruppo dei perdenti, è lei che, con intuito tutto femminile, risolve con un atto d’amore compiuto, totale, omnicomprensivo, l’eterna diatriba tra il bene ed il male che è il fulcro dell’intera storia.
La cui morale è che, se davvero si voglia, tutto lo splendore dell’animo adolescenziale può davvero conservarsi anche oltre quel limite temporale, può con un personale sforzo comune sorvolare ogni barriera di razza, religione, egoismo, di spazio e di tempo siderale assumendo le sembianze non più solo esclusivamente giovanili ma finanche quelle rugose e bonarie di una vecchia tartaruga.

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Stephen King, ovviamente, ma anche a chi desidera avvicinarsi per la prima volta non al Re dell'Horror, ma a un grande scrittore, uno con i controfiocchi: garantito doc!
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    15 Giugno, 2015
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Pensieri e parole

Tutti noi, ogni giorno, svolgiamo una serie di attività quotidiane, ripetitive, abitudinarie. Azioni che scandiscono il tempo della nostra esistenza.
Le più comuni, sono quelle di svegliarci, prepararci, recarci a scuola, all’università o al lavoro. Qui giunti, svolgiamo al meglio le nostre attività, incontriamo colleghi, clienti, ci interfacciamo con persone, cose, luoghi.
Facciamo spese, vediamo gli amici, andiamo al cinema o a un concerto, pratichiamo uno sport, amoreggiamo, ridiamo, scherziamo, viviamo.
E per la maggior parte del tempo abbiamo a che fare con gli sconosciuti, il più spesso la nostra vita, senza neanche che ce ne rendiamo conto, trascorre a contatto con altri di cui non sappiamo nulla, né nome né tono di voce, né origine o problemi o caratteristiche particolari.
Sfioriamo incessantemente le vite degli altri, entriamo nel cono di luce delle esistenze altrui, senza nulla notare, o sapere, di questa luce, che colori abbia, che toni, che gradazione.
Spesso le vite degli altri, che non conosciamo, sono magari quelle dei vicini incontrati tante volte, ma di cui ancora non sappiamo il nome, o i negozianti che hanno i loro locali lungo la strada dove ci rechiamo a passeggiare, o i commessi che si premurano di accontentare le nostre richieste.
Tuttavia, i luoghi dove con maggiore frequenza sfioriamo le vite degli altri sono i mezzi di trasporto pubblico, la metropolitana in particolare.
I vagoni della metropolitana rigurgitano normalmente di persone, un tragitto in treno, specie il metrò di una grande città come Parigi, significa sfiorare, volente o nolente, le vite di altre innumerevoli persone, significa entrare, magari solo un attimo, nell’aura, nello spazio vitale di un altro.
Magari di quel tipo curioso lì vicino, un ometto simpatico con un sorrisetto ironico ma taciturno, e anche un po’ incapace, uno di quelli che ostacola il deflusso dei passeggeri in entrata e in uscita, pesta involontariamente i piedi a un po’ di persone, e insomma, non diresti che ha un problema particolare e invece…e invece uno ne ha, semplice e banale, eppure tremendo, almeno per lui, prova ad affrontarlo con coraggio, e sfoga la sua frustrazione per non riuscirci…ostacolando gli altri nel metrò, magari senza parere.
Su quest’assioma, semplice e intrigante insieme, è basata tutta la storia di “Io, te e le vite degli altri” di Vincent Maston, edito per i tipi dell’editore Salani.
Si tratta di un bel romanzo, insolito, divertente, dissacrante.
Protagonista è il trentenne German, cassiere in un negozio di high tech.
German è una persona gentile, cortese, uno di quelli simpatici a prima vista, e la gente in coda alla cassa per regolare i propri acquisti quando, giunto il proprio turno, nota il cartello appeso al registratore in cui a chiari caratteri il cassiere prega di avere pazienza con lui perché…è muto, si commuove e prende ulteriormente in simpatia il giovane con tale handicap, che passa imperturbabile, ovviamente senza pronunciare sillaba, l’articolo sullo scanner limitandosi a indicare con un cortese cenno del capo sul display il prezzo del prodotto.
In realtà, German non è muto, il cartello è solo un espediente da lui escogitato, per non essere costretto a fare uso della parola, ma è come se lo fosse, perché soffre di una tremenda balbuzie.
Un handicap tanto potente da influenzarne la psicologia, da condizionarne miseramente l’esistenza. Al punto che il giovane anticipa gli orari dei suoi pasti in mensa, per non incontrare i colleghi con i quali inevitabilmente sarebbe costretto a scambiare qualche parola, con risultati penosi, umilianti e imbarazzanti per il povero giovane, che per causa e per colpa del suo difetto cade letteralmente nel panico anche quando deve sbrigare le operazioni più semplici con l’uso di parola, come rivolgersi alla cameriera per l’ordinazione.
German svolge il suo lavoro con professionalità e competenza, tuttavia è conscio, data la sua preparazione, che potrebbe aspirare a qualcosa di meglio, non fosse questa balbuzie che gli rende impossibile una normale vita di relazione.
Il suo miglior amico, forse l’unico, è il suo capo Renaud, che inutilmente prova a far uscire German dal suo gusto, organizzando cenette a casa sua così da combinare di far incontrare German con qualcuna delle amiche della moglie.
German ha altro in testa, ha in mente una persona con cui s’incontra regolarmente tutti i giovedì, è di cui è perdutamente innamorato: Clotilde, la sua logopedista.
German trascorre l’esistenza fantasticando il momento giusto per dichiararle il suo amore, sente di non esserle indifferente, ma la sua inguaribile balbuzie non gli permette di manifestare mai il suo sentimento.
E si sfoga German con i tragitti in metrò in cui, senza parere, ostacola le persone, pesta involontariamente i piedi ai vicini…
Tutto il romanzo, sarcastico, coinvolgente, molto verosimile si svolge su questa falsariga: le vite degli altri hanno un proprio fascino, e spesso basta poco per avvicinarsi per uno scambio empatico, ognuna delle esistenze altrui nasconde sorprese, se si trova una reciproca chiave di comunicazione, si rivelano sentimenti purissimi, incanti, colori nuovi, insolite esperienze, delicate sensazioni, intense emozioni.
Scoprire l’umanità altrui spesso significa trovare tesori di umanità, che ti arricchiscono, e senza bisogno di parole.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    10 Giugno, 2015
Top 50 Opinionisti  -  

Lo spirito guida

Milioni di persone in tutto il mondo il mattino, ciabattando per la casa ancora imbambolati di sonno, mentre aspettano che venga su borbottando il caffè, danno un’occhiata fintamente distratta al giornale, aguzzano le orecchie alla radio o alla tv, cercando lo spirito guida della loro giornata, l’oroscopo!
Tutti indistintamente, se interrogati, dichiarano di non credere assolutamente al presunto influsso delle stelle e dell’attrazione dei pianeti sulle loro esistenze; e tutti immancabilmente si precipitano a consultarlo.
Perché il vero, autentico e indispensabile motore dell’esistenza di ciascuno di noi è la speranza, il desiderio di sentirsi predire avvenimenti lieti, novità straordinarie, svolte importanti, non sono altro che l’espressione dei nostri più reconditi desideri, tutti noi aneliamo all’amore, al lavoro, alla ricchezza, in breve alla felicità. E l’oroscopo si presta alla libera interpretazione di comodo di ciascuno. Alice, la protagonista di “Guida astrologica per cuori infranti”, l’ultimo romanzo di Silvia Zucca, avrebbe invece tutti i buoni motivi per dissentire: infatti, nonostante il suo oroscopo annunci felici prospettive in amore e nel lavoro, valutandone le probabilità in scala con il numero massimo di stelle, la sua vita sta letteralmente andando a rotoli.
Piantata in asso dal suo fidanzato, con il quale finalmente, dopo tante storie deludenti, pensava di aver trovato la persona giusta con cui formarsi una famiglia, rimasta tristemente l’ultima single nel gruppo di amiche storiche, e per di più con serie prospettive di essere licenziata dal suo peraltro poco gratificante lavoro presso una piccola emittente televisiva privata, Alice quando legge il suo ottimistico oroscopo viene semplicemente presa dallo spasmodico desiderio di contattare l’estensore delle previsioni astrologiche per riempirlo di insulti, contumelie e minacce di denuncia.
Sarà con l’amore, quello vero, improvviso e imprevedibile che Alice imparerà a sue spese che sì, forse gli astri influiscono sulle nostre esistenze, ma per riallineare efficacemente i pianeti della propria esistenza, non serve l’universo e le sue costellazioni.
Può bastare un’unica buona stella, ne esistono tante proprio perché a ciascuno ne tocca una.

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libri romantici e sentimentali, sì, ma soprattutto a chi ama storie semplici, vere, ben scritte, fluide, per una lettura allegra e rasserenante.
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    17 Mag, 2015
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Il colore viola

Franco Bordelli, commissario di pubblica sicurezza in servizio presso la Questura di Firenze nei primi anni ’60, è il personaggio protagonista assoluto dei più conosciuti tra i romanzi dello scrittore fiorentino Marco Vichi: lo ritroviamo in “Il Commissario Bordelli”, “Il nuovo venuto” “La forza del destino”, e altri ancora. Intendiamoci: Vichi è uno scrittore vero, non un giallista sui generis, o meglio non solo un giallista, scrive bene e scrive anche di altro, insegna a scrivere nei suoi corsi di scrittura creativa nelle università, ma a Bordelli deve fama e notorietà. Diciamolo subito, e chiaro: i suoi libri non sono romanzi gialli classici, niente misteri impenetrabili, analisi scientifiche molto raffinate, fini approfondimenti psicologici della mente criminale o simili. Sono invece meglio definite come ritratti, ritratti d’ambienti, di cose, di persone, permeate tutte dalle comuni difficoltà dell’esistenza e dalle azioni e passioni umane che talora, quando spinte al parossismo, pervengono al delitto. Bordelli ne prende atto, e con calma, nello scorrere del quotidiano, rimette ordine nel caos indotto dall’atto criminoso: esamina, indaga, riflette, e intanto indulge nel suo essere un “maledetto toscano”, tra un discorrere con il suo giovane, e troppo serio, subordinato sardo, tra le troppe sigarette fumate, le riflessioni con la sua amica del cuore, una ex prostituta letteralmente dal cuore d’oro e dalla mise pacchiana ed inverosimile, ed i pasti pantagruelici della buona, e pesante, gastronomia fiorentina servitogli dal suo oste prediletto.
E alla soluzione perviene, una soluzione semplice, razionale, una soluzione sempre costantemente insita nelle tipiche debolezze umane, il denaro, il sesso, le morbose depravazioni ed inclinazioni dell’individuo.
Dicevamo che Vichi è, in un certo senso, un ritrattista, disegna e descrive al meglio ambienti, cose e persone. E poiché è un fiorentino, ecco che dalle sue pagine emerge Firenze, la Firenze degli anni sessanta, la Firenze ancora rustica e genuina, la Firenze della pappa col pomodoro e dei tavolacci di legno rustici d’epoca medievale. Intendiamoci, è sempre la Firenze della Signoria, città d’arte e meta dei turisti di tutto il mondo, con i suoi monumenti, i musei, l’Arno e Ponte Vecchio, eppure è anche, e soprattutto, nei romanzi di Vichi, la città vera, la città con i suoi quartieri, Campo di Marte, Fiesole in collina, Rifredi, Careggi, San Frediano, le sue strade, i suoi vicoli, le sue botteghe, gli artigiani, i passanti frettolosi, i ragazzi intenti alle loro bischerate, le ragazze con negli occhi lampi di malizia e timidezza insieme. Vichi è il cantore della “fiorentinità”, esplora la sua città, ne saggia gli umori, gli odori, le atmosfere, la fissa nei colori color seppia di una vecchia foto in bianco e nero, quasi volesse preservare lo spirito fiorentino autentico, prima che questo venga diluito dai tempi. Anche per questo, la Firenze di Vichi è la Firenze degli anni ’60, e Vichi sta a Bordelli come Camilleri sta a Montalbano, se quest’ultimo scrittore di Porto Empedocle è il cantore della sicilianità, Vichi stende invece l’elogio di Firenze e della sua essenza. Se la Sicilia è solarità, platealità, omertà e fierezza, Firenze è spontaneità, praticità, schiettezza e altrettanta fierezza.
Fieri e ostinati, uomini comuni ma forti della loro semplicità sono Montalbano e Bordelli, ambedue alfieri di quello status di servitori dello stato, di custodi di leggi da far rispettare, senza per questo rinunciare alle caratteristiche di umanità, buon senso e comprensione che fanno di un uomo di legge un buon poliziotto, un poliziotto che è prima di tutto un uomo, partecipe delle debolezze dei suoi simili spesso solo un po’ più sfortunati. La fiorentinità di Vichi percorre tutti i suoi romanzi: si nota nella fierezza con cui il nativo si rimira ancora e sempre il Duomo e Palazzo Vecchio, nella battuta sempre pronta, nella genuinità sobria delle persone, fatte come una pagnotta di buon pane senza sale, nel mangiare le pappardelle al sugo di cinghiale o i crostini fatti con i fegatini, nello sdrammatizzare tutto con una battuta sarcastica o salace, secondo i casi, nel buon senso imperante che li porta ad ammirare le cascine come un bel parco di giorno e starsene alla larga di notte.
Bordelli è un fiorentino, uno di quelli tosti, ritagliato da Vichi sull’impronta “del su’ babbo”, e si vede dalla tenerezza ed il rispetto con cui Vichi lo descrive.
Bordelli è in questi libri ritratto alle soglie della pensione o quasi, non è vecchio per la sua età, non per i criteri attuali, oggi sarebbe tranquillamente in servizio e per parecchia anni a venire, in età da pensione lo è forse per l’epoca in cui vive, ma è soprattutto “vecchio” della vita, è quello che si dice un uomo vissuto, uno che ne ha viste parecchie delle miserie umane, e di queste appare in un certo senso permeato. La guerra da poco terminata, su di lui, come su tanti, ha lasciato i suoi segni: è stato un valoroso combattente dell’eroica Brigata San Marco, prima nell’esercito regolare e poi, dopo il ribaltone, nella san Marco badogliana, a fianco dei partigiani. La guerra, combattuta su ambo i fronti, e da tutti i punti di vista, l’ha lasciato…svuotato, stanco per i troppi lutti e per le profonde ingiustizie di cui troppe volte è stato testimone, ed il suo servire la legge è un po’ sopra le righe, volte più a correggere eventuali smagliature che a rappezzare gli stravolgimenti del codice penale.
In “Morte a Firenze” Bordelli indaga sul peggiore dei delitti, lo scempio di un ragazzino, violentato e ucciso, un classico e casuale omicidio a scopo di libidine perversa.
E quasi a voler annegare questo scempio, a rimuovere con una caterva d’acqua e fango simile barbarie, ecco che si aprono le cateratte del cielo, l’ Arno gonfio e minaccioso straripa inondando la città in quella che verrà definita l’Alluvione, con la a maiuscola e senza necessità di altri aggettivi.
L’alluvione di Firenze è lo scenario di questo romanzo, e a fianco alle scene nobilissime e magistralmente descritte dei soccorritori pervenuti dall’ovunque a mettere in salvo ostinatamente e coraggiosamente e le persone e le cose preziose dell’antichità, Vichi descrive lo svolgersi dell’indagine, rimarcando come il limo, il fango, il sozzume non è tanto quello depositato nelle cantine e nei piani bassi delle case della città, ma quello, ben più putrido, che si aggira nell’animo umano. Nel bottegaio che vende bistecche al sangue come nel giovane di buona famiglia, nel giovinastro come nel cardinale, la melma è nel cuore di tanti insospettabili; Bordelli scava a piene mani, aiuta lo sgombero delle acque della città e intanto perviene, immerso nel fango fino a mezza coscia, mentre altro fango, ben più venefico, gli avvelena l’anima e il cuore, alla soluzione e ai colpevoli. Ma certi eventi, certe persone, sono veramente come una calamità naturale: colpiscono e fanno male, a chi tocca tocca, e poi si ritirano incolpevoli ed impuniti. Tocca anche crudelmente Franco Bordelli, colpito nei suoi affetti, e brutalmente, e impotente contro il disastro…almeno in questo libro. La resa dei conti, non una vendetta ma una catarsi finale, sarà nel romanzo successivo a questo.
In definitiva un buon libro, un bel romanzo da leggere. Piacerà in particolare a chi è di Firenze e a chi Firenze ama, e sono tantissimi, non è difficile capirlo, Firenze è una città unica, nel cuore di tutti coloro che l’hanno potuta vedere almeno una volta in vita loro.
Piacerà molto di più a chi ricorda l’Alluvione, e si commuove ripensando a quei giorni, a quei telegiornali in bianco e nero e a quelle immagini di giovani corsi da tutte le parti del mondo a mettere in salvo i tesori e le opere d’arte appartenenti non tanto ai Medici ma a tutta l’umanità intera. Incoraggiandosi a vicenda, ridendo e scherzando, aiutandosi con amicizia e solidarietà, schietti e sinceri sotto la pioggia, buggerandosi dell’Arno che premeva minaccioso contro i piloni di Ponte Vecchio, con la lingua pronta e bischerate a biffezze, facendo vivere, evidenziando con chiarezza, pur nel pericolo, anzi sbeffeggiando il pericolo, quello che chiamiamo, solennemente, fiorentinità.

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Marco Vichi, e i suoi libri con protagonista Franco Bordelli. Ma anche, a chi semplicemente ama Firenze, la vera protagonista dei romanzi di Vichi.
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    17 Mag, 2015
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Vicequestore: i commissari non esistono più.

“La costola di Adamo” ha per protagonista un personaggio che tanto ha colpito l’immaginario dei lettori già nel romanzo d’esordio della serie, “La pista nera”.
Si tratta del vicequestore della Polizia di Stato Rocco Schiavone, vicequestore come si affanna ripetutamente a ripetere ai tanti che si ostinano a chiamarlo ancora Commissario, malgrado si danni a spiegare a tutti che, a seguito di apposita riforma, i commissari non esistono più.
Antonio Manzini è il creatore di Schiavone, un personaggio che già conta fan affezionati in virtù delle caratteristiche sue originali e particolari insieme.
È un poliziotto, e quindi un buono per definizione, sta dalla parte giusta, e in verità per lo più agisce retto da un sentimento di giustizia, tuttavia è un uomo estremamente pratico, cinico, disincantato. Un uomo che sa come si campa la vita, sa come vanno le cose, quasi mai nel senso giusto, sa che il confine tra malavitoso dichiarato dedito a piccoli traffici e il farabutto di alta classe colpevole dei più nefandi delitti è più spesso labile ed indefinito, e solo e costantemente i primi finiscono sotto la mannaia della legge.
La sua storia, il suo vissuto personale, con tratti tragici e drammatici, ha fatto sì che egli amministri la giustizia, svolge il proprio ruolo con un agire adattato, plasmato sul suo modo di essere e di vedere. Nato in un quartiere verace di Roma, popoloso e popolare insieme, cresciuto come si dice per strada, come dire cresciuto in fretta scafato e indurito, ha intrapreso la carriera in polizia mentre magari i suoi più intimi amici hanno preso strade diametralmente opposte. E tuttavia non li ha persi di vista, non li rinnega, l’amicizia, ma un sentimento di vera amicizia, un legame fortissimo di romanità, di unione, di condivisione di nascita, di intenti e di ideali, li lega per sempre.
Perciò Rocco Schiavone rispetta la legge e la applica, con intelligenza e determinazione, almeno per i reati più gravi, ma egli stesso la infrange quella legge, per esempio si concede uno spinello fumato quotidianamente nell’ufficio stesso della questura, oppure partecipa occasionalmente, e come capobanda, a qualche piccolo, lucroso e categoricamente incruento affaruccio con i suoi fedeli compagni di crescita, balordi solo presunti tali, ma in realtà anche loro solo costretti dalle umane vicende a sbarcare il lunario in maniera non proprio perbenista.
Antonio Manzini scrive bene, e attraverso il suo personaggio ci offre uno spaccato dell’Italia di oggi, un ritratto veritiero dello stato d’animo del nostro paese e di noi stessi.
Stanchi, insofferenti, logorati da un ritmo di vita asfissiante e angosciante insieme, che sempre più spesso ci spinge alla sfiducia nei confronti delle istituzioni e ci induce al venir meno alle regole per un minimo di vivibilità, di sostenibilità dell’esistenza.
Intendiamoci, Schiavone non è un corrotto, non è un Monnezza di cinematografica memoria, non un delinquente sensu strictu; diciamo che ogni tanto fa ciò che non dovrebbe fare.
Ma con i veri delinquenti, con i reati veri perché abietti, è inflessibile.
Non è un giustiziere; è solo un po’ duro, e parecchio cinico, ma non è un uomo privo di sensibilità e di sentimento, tutt’altro. È una persona ben capace di amare; tuttavia il destino gli ha sottratto in circostanze tragiche il suo amore, l’adorata moglie Marina, e da allora Rocco Schiavone continua la sua esistenza, non sempre in grado di mantenersi nei limiti, e di mitigare la rabbia, la furia innescata in lui dalle più spregevoli abiezioni umane.
Rocco Schiavone è un poliziotto, non può e non deve farsi prendere la mano, specie considerando il suo carattere impulsivo, le sue origini e i suoi trascorsi difficili, ma questo gli riesce spesso difficile, ora che gli è venuta a mancare colei che meglio di chiunque riusciva a umanizzare il suo carattere spigoloso e arcigno.
Così Rocco Schiavone si mette spesso e volentieri nei guai, prende iniziative poco ortodosse, al punto che, da romano purosangue com’è, amante perdutamente preso dalla città eterna, dal suo clima, dai suoi sapori, odori, dalle persone a lui intime dall’infanzia, si trova trasferito, per punizione, tra le nevi di Aosta, dove esercita comunque bene il suo ruolo di investigatore, anche se con insofferenza, con un lieve livore in realtà rivelatore di una tristezza, di una malinconia d’animo caratteristica del personaggio.
Che cosa ha fatto di tanto grave Schiavone a Roma, al punto da essere trasferito in una città agli antipodi della capitale, nonostante i suoi trascorsi di valente investigatore?
Niente di che; c’è un giovanotto che si diverte a violentare le ragazzine minorenni, magari massacrandole pure di botte. Rocco Schiavone interviene, e un qualsiasi poliziotto assicurerebbe il colpevole alla giustizia, rinchiudendolo nelle patrie galere. Non Rocco, che si accerta personalmente che il colpevole necessiti di sei mesi di ospedale, dal quale uscirà pure zoppo e semicieco da un occhio, insomma giusto per fargli provare lo stesso trattamento riservato alle vittime, e per rammentargli per il futuro che certe cose non si fanno.
Solo che certe cose nemmeno un poliziotto deve e può farle, in più, e certamente non guasta, il giovanotto è pure figlio di un politico, di un sottosegretario, che a Rocco gliela fa pagare con il trasferimento.
Così Manzini descrive l’Italia di questi tempi, il paese in crisi, logoro, marcio, corrotto dall’Alpe alle piramidi e da Roma alla valle d’Aosta, e che però si salva con i suoi figli migliori, i Rocco Schiavone che, pur fuori di ogni regola, riportano le cose sui binari di una accettabile moralità.
Ed ecco Schiavone arrancare tra le nevi di Aosta, ostinatamente legato alle sue amatissime Clarcks che si ostina a indossare anche se si tramutano in breve in due sacchi fradici d’acqua e di neve, il camoscio non è propriamente adatto al clima né impermeabile alla neve e all’acqua.
In “La costola di Adamo”, tra uno scazzo e l’altro con i superiori, tra un evitare grane con i colleghi e gestire il commissariato, sistemando gli agenti più inetti perché non facciano danno, Schiavone indaga su un presunto suicidio, poi rivelatosi come un omicidio a seguito di rapina.
Schiavone ha una fissa, paragona i suoi interlocutori ad animali a loro somiglianti, nelle fattezze fisiche e nei tratti caratteriali. Egli stesso si paragona a un segugio, giacché indaga e fiuta le piste; in realtà è più un plantigrado, ha l’indolenza, la pigrizia e l’incedere di un orso che, se provocato, si trasforma però in un feroce grizzly. O anche un elefante, di cui ha la delicatezza nella cristalleria, quanto si tratta di rapporti interpersonali, ma anche la prodigiosa memoria del pachiderma, che gli consente di svelare gli intrighi su cui indaga.
E l’intrigo questa volta riguarda l’altra metà del cielo, riguarda una donna, riguarda le donne che tanti, per esempio il violentatore di minorenni di cui dicevamo più sopra, ancora si ostinano a considerare un’appendice dell’uomo, come si dice, la donna fu creata da una costola di Adamo.
Tanti la pensano ancora così, tanti anche insospettabili, troppi pensa Schiavone.
Rocco Schiavone allora rimette le cose a posto, nel giusto ordine: con crudezza, con cinismo, con realismo. E con giustizia.
Dopotutto, è un poliziotto. Non un commissario, un vicequestore; i commissari non esistono più.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    05 Mag, 2015
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Ombre scure su una città solare

Maurizio De Giovanni è uno scrittore napoletano…così, quasi per caso.
Fino a pochi anni fa svolgeva tutto un altro lavoro, un impiego comunissimo: lavorava in banca.
Poi, costretto per scherzo dagli amici, qualche tempo fa partecipò a un concorso per giallisti esordienti, e da lì spiccò il volo, ora ha al suo attivo una dozzina di libri pubblicati e tradotti anche all’estero.
Quasi tutti gialli. Si tratta di gialli sui generis: il fatto delittuoso, l’enigma, l'omicidio narrato nei suoi libri è un mezzo, un espediente, attraverso il quale De Giovanni parla essenzialmente della sua città, e dei suoi abitanti, i suoi concittadini.
Parla di Napoli e dei napoletani attraverso i tempi, i suoi romanzi più famosi, con protagonista l’emblematico Commissario Ricciardi della Regia Questura, sono infatti ambientati nel capoluogo campano ai tempi del ventennio fascista, mentre i suoi libri più recenti, quelli del ciclo dei “Bastardi di Pizzofalcone”, sono invece localizzati temporalmente ai nostri giorni.
Un excursus storico partenopeo nel tempo, quindi.
Parla di Napoli, parla dei quartieri di Napoli, delle strade, dei vicoli, delle case, degli odori, i suoni, gli umori di questa città, parla anche dei Napoletani: e lo fa con rispetto, con amore.
Parla della città vessata da mille tormenti e da mille sventure, eppure sempre vitale, solare, una creatura viva ed energica nonostante le tante ferite, le innumerevoli cicatrici che ne solcano il corpo e l’anima, il suo “ventre” antico e dolente, ma capace anche di altro, nonostante tutto, in grado di saturarsi di gioia, passione e sentimento, così come lo descriveva Matilde Serao.
Parla dei napoletani, costretti da una fame atavica, da una miseria e un degrado millenari che non riguardano tanto il corpo, il vissuto in sé; la loro è una miseria esistenziale, intrinseca, tissutale, quasi come se un dio assurdo li avesse posti in un incantevole eden, e certamente un paradiso lo è la città del golfo, ma condannandoli però nel contempo a non poter mai usufruire per sempre ed in pace dei frutti di tale paradiso.
Un frutto succoso da non cogliere. Un pomo della discordia.
I napoletani sono angeli condannati perciò assurdamente e inopinatamente a non poter volare nei cieli del loro empireo: quei voli sono destinati ad altri, sono sempre stati depredati da altri, un dio assurdo, ingiusto, invidioso della loro bellezza spontanea nata dal mare e dalla terra insieme, e perciò vendicativo, ha represso le ambizioni e i desideri legittimi dei suoi abitanti per farne invece omaggio agli angioini, agli svevi, ai normanni, ai francesi, agli spagnoli, ai Borbone, ai Savoia, ai tanti e tanti stranieri ed alieni che si sono succeduti nei tempi a raccogliere tutto il bene di questa terra stupenda e martoriata insieme.
Lasciandone privi, defraudando con prepotenza e a forza color che ne dovevano essere i primi usufruttuari.
Condannando i napoletani alla precarietà, al degrado, ai limiti logistici e strutturali che ne condizionano alla nascita e per sempre l’esistenza, ed ai quali i napoletani reagiscono prontamente e con pervicacia con l’inventiva, l’intelligenza, i colori, la gioia di vivere e di assaporare con gusto tutto ciò che è vivo, caldo, ricco di umore e di colore, reagiscono con forza i napoletani con tutti i particolari che, in tutto il mondo, fanno dire a chiunque, ammirato, o invidioso, o semplicemente colpito: ecco, è un napoletano.
E tutto il resto è buio: in confronto a Napoli e ai napoletani, tutto il resto è buio.
Buio è il luogo dove nascono i delitti, dove semplicemente sono pensati, dove vivono gli assassini.
Napoli con i suoi mille crucci e problemi, e i napoletani laceri, distrutti, consunti dalla difficoltà di vivere, sono invece la luce.
Sempre nei romanzi di De Giovanni appare questa tenera, e stridente, contrapposizione.
“Buio” è il titolo di un romanzo di Maurizio De Giovanni.
Pizzofalcone è uno dei quartieri della Napoli centrale, uno dei più antichi e popolari.
Il commissariato di zona ha una triste storia: alcuni dei suoi membri, dei poliziotti, ben conosciuti e stimati dalla gente del quartiere, si sono macchiati in passato di una colpa gravissima: hanno tradito. Hanno tradito le leggi che avevano giurato di difendere. Hanno tradito la fiducia della brava gente del quartiere. Hanno, infatti, fatto commercio in proprio di un quantitativo di droga sequestrato alla malavita. Ne consegue uno scandalo enorme, e la perdita di stima e di affidabilità del commissariato, al punto che la questura rimugina di chiudere per sempre la sede del commissariato, ormai etichettato come il commissariato dei “bastardi di Pizzofalcone”.
E tale etichetta si applica pure, per transfert, per osmosi, anche a quanti chiamati a sostituire i poliziotti deviati.
Perché da quel momento la gente chiama i poliziotti del commissariato di Pizzofalcone, i “bastardi”. Sono stati chiamati da varie parti della città a sostituire i colleghi che hanno sbagliato, sono in un certo senso i reietti, gli esclusi, gli scarti degli altri commissariati della città, proprio per la nomea che colpisce chi esercita in quel commissariato, dove nessuno vuole giustamente essere trasferito.
Sono poliziotti ciascuno con i propri problemi, i propri limiti e incapacità.
Ma ecco che messi insieme, ecco che avviene l’incredibile, ecco che l’impossibile napoletanamente diviene possibile, reale, concreto, essi fanno spirito di corpo, messi insieme fanno una squadra, una squadra che vale, che funziona.
Tutti insieme fanno “i bastardi di Pizzofalcone”, ma con ben altro significato, stavolta, e restituiscono credibilità, efficienza, rispetto al commissariato, restituiscono dignità e onore all’intero corpo di Polizia.
In “Buio” i bastardi di Pizzofalcone indagano su uno dei reati più odiosi e oscuri del crimine: il rapimento di un bambino a scopo di ricatto.
Il romanzo si snoda su questo filo conduttore: un filo che nasce dal buio della grettezza e meschinità degli uomini, si svolge nel buio delle miserie umane, termina angosciosamente nel buio dell’efferatezza umana.
“Buio” di De Giovanni è la descrizione dettagliata della metà oscura dell’animo umano, una metà che non è di Napoli, o dei napoletani.
“I bastardi di Pizzofalcone” ci proveranno a portare luce in quel buio: ma come spesso accade, il buio non è solo una condizione transitoria, è un buco nero, assorbe qualsiasi luce.
Tanto afferma, con amarezza e pietà insieme, questo bel libro di Maurizio De Giovanni.


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Certamente a chi già conosce De Giovanni, ma adattissimo a chi vuole iniziare a conoscerlo.
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    05 Mag, 2015
Top 50 Opinionisti  -  

Tutti insieme appassionatamente

Quando gli chiedono se preferisce che si parli di lui come di uno scrittore sui generis o piuttosto di un giallista sensu strictu, Maurizio De Giovanni, con il garbo che lo contraddistingue, semplicemente risponde che lui si limita: “…a scrivere di sentimenti”.
E il suo ultimo libro “In fondo al tuo cuore” da senso e ragione a pieno titolo di quanto affermato: perché questo è un romanzo di sentimenti, direi di più, è il suo miglior romanzo, un romanzo emozionante, commovente per certi versi, sicuramente appassionante.
Rappresenta, a parer mio, il culmine della sua carriera, cominciata neanche tanti anni fa, un po’ per caso un po’ perché così era scritto.
Una splendida carriera, un magnifico iter che passo dopo passo l’ha portato meritatamente a “In fondo al tuo cuore”, e contemporaneamente in fondo al cuore di migliaia di lettori, ammaliati inguaribilmente dalle sue storie e dai suoi personaggi, che oramai aspettano con febbrile attesa ogni sua nuova uscita.
“In fondo al tuo cuore” è, in definitiva, il romanzo della raggiunta piena maturità dello scrittore napoletano, una vera e propria prova d’orchestra, un romanzo a più voci e perciò corale, il romanzo più lungo scritto finora da De Giovanni, un libro intenso e articolato, un romanzo d’amore senza limite.
L’amore, si sa, quando raggiunge, nel bene e nel male, certi parossismi, allora trasfigura nella passione; e la celeberrima canzone napoletana “Passione”, manco a farlo apposta, e certamente non per caso, è il leit motiv, il sottofondo musicale su cui si svolgono le vicende narrate.
Un libro di passione, quindi; e il romanzo è corale per questo, perché la passione non è mai unica ma spesso, se non sempre, multipla, un concentrato di emozioni, mille rivoli di sentimenti diversi ma ugualmente tumultuosi, che confluiscono a divenire un grumo via via sempre più ingravescente, fino a eruttare impetuosamente come lava da un vulcano.
E Napoli, col Vesuvio sullo sfondo, città di passione ed emozioni, metropoli controversa amata e odiata con pari intensità, diventa allora lo scenario ideale della storia, e i personaggi, che su questo scenario agiscono, benché unici e caratteristici, siano vari e variegati insieme, tutti insieme appassionatamente.
La lava è calda, bollente perchè viene dal profondo, ugualmente le passioni sono calde, bollenti, provengono dal fondo del cuore, ne consegue che i protagonisti vivono con passione i loro sentimenti; allora se un delitto c’è, se un omicidio si compie, è perché il caldo, quello vero, viene dall’inferno.
Inferno e passione si fronteggiano, dunque; la passione, quella vera, assume sembianze di un cuore d’oro, finemente secellato, sormontato da una fiamma: il cuore sta alla passione come la fiamma sta all’inferno.
Non a caso la vicenda è ambientata nell’estate più calda del secolo, un’estate infernale, nel mentre la città è impegnata febbrilmente, come se non bastasse, nella preparazione di una festa antichissima, calda e appassionata, la festa della Madonna del Carmine, con il corollario dell’incendio del campanile della chiesa e pittoreschi fuochi d’artificio: una festa attesa e preparata, ancora una volta, con passione, con delirio collettivo, esaltazione, febbre, e di conseguenza calore. Dicevamo che bisognerebbe parlare però, più specificamente di passioni, al plurale: e, infatti, “In fondo al tuo cuore” è un romanzo corale, un descrivere più voci, più sentimenti, più emozioni.
Più fatti, spesso avvenuti indietro nel tempo, più personaggi, diversissimi ma intimamente legati tra loro. Per questi motivi “In fondo al tuo cuore” non è solo l’indagine, in verità una storia semplice, un giallo ma neanche tanto intricato, condotta nella Napoli degli anni trenta dal Commissario Luigi Alfredo Ricciardi a proposito dell’omicidio tramite defenestrazione di un noto e stimato cattedratico del policlinico.
Luigi Alfredo Ricciardi, letteralmente un idolo dei fan di De Giovanni, è un personaggio fortemente singolare, provvisto di una speciale sensibilità, che egli stesso denomina “il fatto” e che gli permette di “sentire e vedere” gli ultimi momenti delle vittime di morte violenta.
Non un fatto paranormale di per sé, e spesso se non sempre di nessuna utilità ai fini delle sue indagini, ma invece una vera e propria lugubre condanna, una caratteristica unica della figura del commissario che fa da contraltare all’atmosfera cupa degli anni della dittatura, alla fame atavica che si respira a piene nari nei vicoli della città partenopea amatissima dallo scrittore, alla miseria disperata e assurda che avviluppa una città stretta tra la collina ed il mare, splendida e splendente, sconvolta e sconvolgente.
Lo stesso autore lo afferma, la sede di tutte le emozioni è il cuore, e in esso si riversano continuamente le emozioni, fino a farlo traboccare: cosicché i sentimenti più importanti, che sono anche quelli più pesanti, sedimentano sul fondo, in fondo al tuo cuore.
Conoscere una persona nella sua vera essenza, significa quindi scandagliare il fondo, giungere in fondo al suo cuore.
De Giovanni questo fa, e lo fa davvero bene: scruta nel cuore dell’umanità, descrive magistralmente le passioni che animano i suoi protagonisti, rendendoli perciò vivi e reali.
Descrive magistralmente, in particolare, le donne, le vere protagoniste di tutti i suoi libri: anche in quest’ultimo si rinviene una vera carrellata di figure femminili, le donne sono il fulcro, l’anima, il cuore della genialità narrativa di De Giovanni, e se le prime pagine espongono i pensieri di un uomo, è solo un particolare che non deve depistarci, si tratta di un illustre professore di ostetricia e ginecologia, come dire, un custode ed un curatore della femminilità.
Sono “femminili” anche i luoghi tipici della storia, il molo del porto detto dell’Immacolatella, da cui la genesi della storia, o la basilica del Carmine, sede di un solenne pegno d’amore.
“In fondo al tuo cuore” quindi non è altro, infine, che tutto quanto si rinviene nel cuore dei personaggi del libro, nel cuore del Commissario Ricciardi e della dolce Enrica, della splendida Livia, del Brigadiere Maione e della sua bellissima moglie Lucia, del “femminiello” Bambinella, del fascista Folco, del compianto prof. Iovine del Castello e dell’austera moglie Maria Carmela di cui a poco ricorre l’onomastico, di Peppino il Lupo e Rosinella, della giovanissima prostituta Sisinella, della vecchia madre aterosclerotica del valente orafo Nicola Coviello.
Maurizio De Giovanni a ben pensarci, dopotutto, è egli stesso un valente orafo; cesella delle magnifiche storie con la sua penna, rifinisce con tratti sapienti i sentimenti dei protagonisti, e ci regala non dei romanzi in sé ma delle emozioni, delle stupende emozioni, che poi sedimentano proprio dove devono stare i pensieri più cari: in fondo al tuo cuore.

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Tutto De Giovanni, in particolare la serie con il Commissario Ricciardi.
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    02 Mag, 2015
Top 50 Opinionisti  -  

E luce fu

ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER

E luce fu.
Così recita il verbo sacro, quasi a significare che la luce, nella sua intima essenza, è il vero, unico, assoluto emblema del potere divino.
L’elettricità, quel volgare e misteriosissimo flusso di elettroni che gli uomini di scienza s’illudono di imbrigliare e gestire a proprio piacimento, in realtà è qualcosa d’invisibile, d’ingovernabile, d’insondato, è strumento che solo il creatore assoluto, o chi per lui, può utilizzare e gestirne al meglio l’infinito potere, potere figurativamente ed efficacemente manifestato con il fulmine, non a caso da Giove in poi la saetta è l’unico scettro che identifica il Dominus onnipotente.
Vero o no che sia, ciò che conta è che ne è però intimamente convinto il reverendo Charles Jacobs, nuovo pastore di un piccolo borgo rurale nel New England, ambiguo e intrigante protagonista dell’ultimo romanzo di Stephen King.
Jacobs crede in Dio, confida ciecamente che il suo Dio sia unico, immenso, misericordioso, l’assoluto creatore del cielo, della terra, di tutte le cose visibili ed invisibili, è convinto che il buon Dio si manifesti nella natura e in tutto quanto da Lui creato, ed in particolare non esita a identificare i fulmini e l’elettricità come diretta emanazione del potere del Signore.
Al punto che, a fianco delle prediche e degli inni sacri, richiama alle funzioni le sue pecorelle, allettando specie i più giovani, allestendo piccoli artifizi elettronici, tipo un Gesù che cammina sulle acque di un laghetto di un plastico, scorrendo su rotaie invisibili, mosso ovviamente dalla corrente elettrica.
Niente di particolare, un semplice effetto scenico creato con un po’ di abilità manuale e un sapiente gioco di luci su un elementare scenario presepiale nelle cantine della chiesa, e che tuttavia sottende, nella sua semplicità, la passione e la fede cieca e assoluta in Dio, nella sua opera e nel suo potere.
Jacobs dovremmo dire meglio è in realtà coprotagonista, giacchè al suo fianco, e parallelamente alle sue vicende esistenziali, si snoda anche la vita del giovanissimo Jamie Morton, che è appena un bimbetto di sei anni allorchè la sua esistenza si incrocia indissolubilmente, e lo sarà per tutta la vita, con quella del giovane pastore di anime.
Sulla falsariga quindi dei migliori romanzi dello scrittore del Maine, che vede sempre un ragazzino al centro delle sue storie, e ricordiamo ad esempio i giovanissimi “perdenti” protagonisti di “It”, la liceale pirocinetica di “Carrie”, i giovani neopatentati di “Christine” ecc.
Il tutto non per caso, poiché “Revival” è a parer mio da ritenersi tra i migliori romanzi di Stephen King di recente produzione, ben superiore comunque ai precedenti in ordine cronologico “Mr Mercedes” e “Doctor Sleep”, malgrado quest’ultimo, per dirne una, addirittura sia stato spacciato come il seguito del celebre “Shining”, quando in realtà con quel piccolo capolavoro kinghiano non ha nulla da spartire, se non solo di sfuggita il protagonista.
“Revival” è da intendersi davvero come un ritorno all’antico di King, uno splendido ritorno ai fasti del passato.
“Revival” è un romanzo che ripresenta e riporta in auge il meglio della letteratura kinghiana, lo scrittore americano si rituffa nell’arco temporale che conosce direttamente per averlo vissuto in prima persona, quello dei favolosi anni ’60, con i suoi usi, costumi, gusti, tendenze soprattutto musicali, in particolare il rock and roll.
C’è tutto il meglio del mondo kinghiano in “Revival”: i bambini, i preadolescenti, la vita della piccola provincia americana, con i suoi valori semplici e assoluti, la dedizione al lavoro, alla fatica, gli anni liceali, l’università, i primi amori, la scoperta della musica diversa e dirompente del rock, il richiamo diretto ed esplicito a scrittori all’epoca riscoperti in pieno come Lovecraft, Poe e tutti i loro “altri” mondi sommersi e misteriosi, animati dalle forze terribili e dannate evocabili solo tramite le formule segrete di antichissimi leggendari testi esoterici come ad esempio il “De Vermis Misterya”.
E su tutto questo vissuto in qualche modo “normale” ecco l’imprevisto, ecco un “quinto elemento”, ecco il catalizzatore perturbatore che, si voglia o meno, fa da spartiacque all’esistenza di ciascuno, rendendo diversa, e affascinante, una storia di per sé comune.
Stavolta non si tratta come nei romanzi precedenti di King di una misteriosa creatura con sembianze di clown nascosta nelle fogne o di un insito potere paranormale che si esterna all’improvviso, bensì un avvenimento assai più prosaico e banale.
Un incidente stradale stronca all’improvviso, è il caso di dire proprio un fulmine a ciel sereno, l’esistenza della splendida moglie e dell’adorato unico figlioletto del buon pastore Charlie Jacobs.
Il luttuoso trauma ha un effetto sconvolgente nell’animo del buon Jacobs: dopo un periodo di comprensibile silenzio, ritorna a dir messa per il suo gregge che si presenta al completo speranzoso nel “recupero” del suo amato pastore.
Restandone però completamente spiazzato e disilluso: in un drammatico sermone, che sarà poi ricordato negli anni a venire con il termine di “predica terribile”, Jacobs abiura completamente il suo credo, il suo Dio, tutto quanto in cui ha sempre creduto, professato e predicato, con amarezza e cattiveria nega l’esistenza di un Dio buono e misericordioso affermando invece che è se un Dio c’è, esso è solo un Dio crudele, meschino, che irride e dileggia le sue creature.
Ne consegue quindi l’allontanamento del reverendo, e l’enorme dispiacere del piccolo Jamie, sinceramente affezionato, ricambiato, al giovane curato, la prima figura adulta rilevante della sua esistenza al di fuori delle figure parentali.
Segue quindi un lungo periodo di separazione, fin quando un giorno, per puro caso, Jamie, divenuto nel frattempo un buon musicista rock, e un’ancora migliore tossicodipendente di eroina all’ultimo stadio, incontra in un luna park l’ex reverendo Jacobs, che ora si è trasformato in un imbonitore da baraccone, guadagnandosi la vita girando tra fiere e mercati stupendo il pubblico, manco a farlo apposta, con piccoli prodigi di elettricità, foto “miracolose” e simili meraviglie di facile leva sul pubblico.
Un prodigio ancora più grande compie l’ex parroco prendendosi cura di Jamie colto da malore, sottoponendolo a un piccolo assaggio di elettricità con un marchingegno di sua invenzione, procurandogli una sorta di banale elettroshock rudimentale, che però repentinamente e definitivamente libera lo stupefatto Jamie dalla sua tossicodipendenza, letteralmente restituendogli la vita.
I destini dei due sembrano poi dividersi ancora una volta, per poi ancora una volta rincontrarsi: stavolta Jacobs ha letteralmente svoltato, ormai avanti con gli anni è diventato un classico, famosissimo predicatore via etere, uno di quei reverendi che tramite la televisione diffondono la propria immagine, il proprio credo, i propri sermoni ai quattro angoli degli USA.
Jacobs compie ora quelli che appaiono con tutta evidenza autentici miracoli, sempre avvalendosi di marchingegni spettacolari su base elettrica, restituisce salute e vigore a moltitudini di disperati, che ricambiano con generose offerte in denaro.
Quello che era un semplice curato di campagna si presenta ora come un mirabile santone, che predica di essere un semplice strumento di Dio, l’unico responsabile delle miracolose guarigioni, di cui egli è un semplice tramite.
Jamie però conosce troppo bene il suo parroco, sa perfettamente che mente, ricorda con esattezza il contenuto della “predica terribile” e ben presto si rende conto che Jacobs ha sempre solo e soltanto continuato i suoi studi sull’elettricità e le sue applicazioni.
Le immense ricchezze raccolte tramite i suoi interventi miracolistici hanno l’unico scopo di fornirgli i mezzi per proseguire ancora più in profondità i suoi studi sul potere tanto immenso quanto misterioso dell’elettricità, ormai giunti al termine.
Data la sua veneranda età, ha bisogno di un fidato aiutante, e si rivolge pertanto a Jamie perché lo assista nel suo ultimo esperimento, rammentandogli sia l’antico legame affettivo sia la guarigione dalla tossicodipendenza.
Jamie accetta, non tanto per sé, ma perché si rende conto che Jacobs, nella sua folle ricerca del potere assoluto dell’elettricità, in realtà cerca un altro potere, quello di schiudere la porta sul mistero dell’esistenza, una folle ossessione di dimostrare l’assenza del Dio buono in vece del Dio meschino artefice del suo immenso dolore. Non solo, ma Jamie ha scoperto come le “guarigioni” o presunte tali compite da Jacobs, compresa quella sua personale di disintossicazione rapida e definitiva dall’eroina, presentano molti e diffusi effetti collaterali, la gran parte spiacevoli e terrificanti.
Jacobs non ha, infatti, alcun potere sulla forza che manipola; la usa, ma non ne conosce i limiti, la sfrutta, ma senza riuscire a imbrigliarla, la desidera certamente, perché in essa vede il dominio del fulmine, e quindi il controllo del potere divino, l’accensione della luce che illumini la porta da varcare, esclusivamente per accedere alla centrale di comando e impadronirsene per i suoi scopi.
Novello Frankestein, Charlie Jacobs usa la forza e l’energia del fulmine, ma non per generare la vita in pezzi di carne inanimata, e neanche per richiamare in vita gli amori della sua esistenza brutalmente strappati al suo affetto, come sarebbe più logico; semplicemente, intende riportare a una parvenza di vita una persona deceduta per una delle poche malattie insensibili ai suoi poteri di guarigione, utilizzando un concentrato di energia mai sperimentato prima, perché parli, perché riveli cosa c’è oltre la luce, oltre la porta che tiene rinchiuso il buio e le sue terrificanti creature.
Jacobs non vuole la luce, anela invece al potere del buio, pretende il potere terrificante che è dietro la luce, non si rende conto che proprio perché è privo di luce deve essere negativo, deve per forza avere una valenza negativa, e sarà proprio Jamie, al quale aveva salvato l’esistenza, a far fallire il suo piano, decretando la sua fine, sarà Jamie a rinchiudere brutalmente il vaso di Pandora prima che sia riaperto liberando le ombre malefiche prive di luce.
Sarà Jamie, come forse così era scritto, già dai tempi che qualcuno pronunciò la frase fatidica: E luce fu.
“Revival” potremmo definirlo in definitiva un buon King, un King d’annata; quelli che l’autore indica come i suoi “fedeli lettori” ritroveranno in questo romanzo molti temi, atmosfere e soggetti già incontrati nella produzione pregressa dello scrittore americano.
Basta ricordare la citata Castle Rock e il “mitico” locale per i fedeli kinghiani denominato “Mellow Tiger”, e ancora l’antico dilemma sulla vita oltre la morte trattato per esempio in “Pet Cemetary”.
“Revival” è un libro quindi che piacerà, più di tutti, a coloro che King già conoscono, e profondamente, con devozione: appunto, i fedeli lettori.
I fedeli lettori già in trepidante attesa del prossimo lavoro del Re del Maine.

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Tutto Stephen King! Esclusivamente per fedeli lettori del Re!
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