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IL SAPERE NON È MAI FACILE
Saggio di recente pubblicazione (giugno 2018) scritto a quattro mani, da Giuseppe Benedetti, docente e studioso di didattica della lingua, e da Donatella Coccoli, giornalista specializzata nel mondo della scuola. Ben suddiviso in dieci chiari capitoli, ha il pregio di enucleare il pensiero gramsciano secondo un sotteso criterio cronologico- la data dei singoli scritti- riunendo in macro concetti gli innumerevoli interventi che hanno caratterizzato la produzione del grande pensatore nelle diverse tappe, alcune molto drammatiche, della sua esistenza. Una produzione che si sa essere estremamente frammentaria e a tratti apparentemente ripetitiva ma che, riportata scrupolosamente al contesto culturale e individuale che la ha originata, vive sempre di una sua rinnovata originalità. Il pensiero gramsciano infatti stupisce precipuamente per questa marca di originalità e di contemporaneità, dunque per il forte carattere anticipatorio rispetto ai tempi coevi o meglio per lo spessore intellettuale che trascende le epoche e i luoghi, rendendosi valido in ogni dove, universale appunto. E questo a dispetto del fatto storico attribuibile alla sua personalità: il suo pensiero è stato letto, interpretato, condannato, strumentalizzato a fini politici, come quello di nessun altro pensatore. L’intellettuale non è stato scisso dal partito e dalla sua ideologia benché, a una lettura attenta dei suoi interventi (si rimanda al lavoro di Gerratana sui Quaderni), sia invece chiara la sua estrema indipendenza intellettuale. Viene giustamente ricordato anche il contributo di Giuseppe Fiori che primo nella sua Vita di Gramsci osò scindere quel connubio Gramsci-Togliatti così comodo, così intoccabile. In realtà tutto il saggio è basato su uno scrupolo storico e filologico che lo rende un ottimo testo propedeutico alla conoscenza del pensatore sardo, riporta infatti ampie citazioni degli scritti gramsciani e si nutre di un’eccezionale bibliografia, puntualmente citata a piè di pagina, in modo molto comodo, e nella nota bibliografica finale. L’obiettivo del saggio appare dunque quello di riscattare appieno il pensiero gramsciano cogliendo puntualmente tutti i nuclei teorici che oggi dovrebbero essere studiati a scuola per la scuola, da docenti e da discenti, insieme. La conoscenza di questo originale, innovativo e sempre valido pensiero fungerebbe così da spunto per invertire la marcia all’interno del sistema scuola riappropriandosi contemporaneamente della sua duplice funzione, quella educativa e quella istruttiva, mai scindibile. E oggi, a ben guardare, le derive più imminenti sono proprio quelle riconducibili all’educazione e alla conoscenza. Ci vuole Cultura per far rivivere la scuola. Senza sapere, senza comprensione, senza teoria e prassi, senza crescita, senza sapere disinteressato, senza umanesimo, senza disciplina, senza una classe politica di cultura, senza pensiero critico, senza creatività, senza storia, senza la difficoltà di imparare MA DOV’È CHE VOGLIAMO ARRIVARE? Buona lettura. Salutare. Indispensabile, corroborante.
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Sempre valido
“Tra i valori che vorrei fossero tramandati al prossimo millennio c’è soprattutto questo: d’una letteratura che abbia fatto proprio il gusto dell’ordine mentale e dell’esattezza, l’intelligenza della poesia e nello stesso tempo della scienza e della filosofia, come quella del Valéry, saggista e prosatore…”
“(….)la grande sfida della letteratura è il saper tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima, sfaccettata del mondo”.
“Solo se poeti e scrittori si proporranno imprese che nessun altro osa immaginare la letteratura continuerà ad avere una funzione.”
Nel 1985, alla fine di un millennio, Calvino si interroga sulla letteratura, sulla sua sorte e su quella del libro nell’era cosiddetta tecnologica industriale. Indaga la specificità della letteratura, la sua qualità e i valori di cui si nutre cogliendo, il primo fra gli italiani a cui fu rivolto, il prestigioso invito dell’università di Harvard a tenere le Charles Eliot Norton Poetry Lectures, sei conferenze a tema libero nel corso di un anno accademico. La morte lo colse con cinque di esse pronte e la sesta in via di definizione, proprio quella sulla consistenza, quella che avrebbe dovuto aprire gli interventi e che è a me la più gradita. Leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità sono i restanti temi di cui si occupa. Che mix! Presi così, come dei semplici sostantivi, alcuni di essi, associati alla letteratura parrebbero quasi dei disvalori. Come può essere leggera la letteratura? O rapida? E poi quando è esatta sfiora la tediosità. Visibile? Se lo augurano tutti gli autori. E molteplice? Con la dirompente specificità dei moduli narrativi che la contraddistingue? A entrare nel vivo degli interventi si acquisisce invece un’idea ben precisa e circostanziata di ognuno di questi valori ritrovandosi, di fatto, a calcare l’intera produzione di Calvino che lui stesso cita in maniera autoreferenziale, senza che ciò disturbi ma, al contrario, sorprenda, ritrovandosi piacevolmente, il conoscitore della sua produzione. Il lettore ha ora in mano la cerniera fra la produzione artistica e l’estetica che l’ha nutrita, in modo chiaro e preciso come non può accadere leggendo solo i testi. Ad ogni valore segue precisa definizione, dopo ampia trattazione costellata di puntuali riferimenti bibliografici che spaziano nella vasta cultura letteraria dell’autore da Dante a Cavalcanti, passando per Boccaccio, Lucrezio, Ovidio, James, Dickinson, Shakespeare, Diderot, Sterne, Leopardi, Valèry, Gadda e tanti altri. Su tutti spicca Borges che pare compendiare queste caratteristiche. A noi lettori, di quella letteratura che è stata prodotta dopo, non resta che chiederci quali di questi valori incontriamo, se li incontriamo, e se le capacità creative e immaginative riescono a tener testa all’ipertrofia delle immagini che sovrapponendosi nel nostro cervello confondono quello che esperiamo con quello che vediamo non rendendoci capaci di comprendere quando invece stiamo creando usando semplicemente la nostra immaginazione.
Per me è difficile dare risposta, più facile cercare rifugio nella letteratura classica o riconoscere letteratura, nella produzione contemporanea, in quella scrittura che sa far vibrare mente e cuore con contenuti universali restituendomi la mia condizione umana, molto facile da perdersi.
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Intelligenza politica
Leggere Giuseppe Fiori è una garanzia, certi il piacere della lettura, la completezza delle informazioni, il rigore documentaristico delle sue biografie; dopo quella dedicata a Gramsci è giunta la volta, per me, dell’altra pietra miliare della storia sarda: Emilio Lussu. E non vada oltre, con atteggiamento da snob, chi pensa si tratti di passione regionalistica; qui siamo di nuovo di fronte alla storia italiana, europea, a tratti extraeuropea, che ha caratterizzato il secolo scorso.
La vicenda umana di Emilio Lussu è racchiusa tra il 1890, anno della nascita ad Armungia, paese del Gerrei, sud Sardegna, e il 1975 anno della morte a Roma, in miseria a ottantacinque anni. Una vita intensa che abbraccia i natali presso una famiglia di alto rango, gli studi, la laurea all’alba dell’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale, la guerra con la gloriosa Brigata Sassari, il passaggio dall’interventismo alla condanna del conflitto, il disagio del reduce, le prime esperienze politiche, la nascita del Partito Sardo d’azione, il fascismo, l’antifascismo, il confino, l’evasione da Lipari, l’antifascismo all’estero, in perpetuo esilio e in perpetua fuga, l’amore di Joyce, la guerra civile, la Resistenza indipendente durante la seconda guerra mondiale, l’attività di scrittore, la ricostruzione dello stato postfascista, l’attività da parlamentare, la svolta socialista. Un raro esempio di rettitudine, coerenza, intelligenza politica che termina il suo percorso esistenziale proprio quando l’Italia ne avrebbe avuto ancora estremo bisogno.
La biografia è dunque densa di eventi e puntellata di importanti snodi ideologici che permettono di comprendere il pensiero politico di Lussu, le esigenze che lo animano, il contesto storico che lo nutre e lo respinge. Vengono citati, fra gli altri, i romanzi Un anno sull’altipiano e Marcia su Roma e dintorni, e il racconto Il cinghiale del diavolo ad arricchire l’aspetto biografico mentre i saggi chiariscono il pensiero e la sua evoluzione, rendendo il profilo dell’uomo ancora più elevato rispetto all’azione che non certo si risparmiò. In particolare “Tirannicidio e terrorismo”, con la ricusazione di ogni forma di violenza anche contro il tiranno, benché, al di là di ogni ipocrisia, l’impresa di uccidere un dittatore sia moralmente sentita come grande. La capacità di riflettere sul terrorismo come atto politico e di non scinderlo dal mero atto fuorilegge, da evitarsi dunque, oltre alla capacità di intuire la potenza inversamente proporzionale rispetto all’obiettivo primario, il prestigio del dittatore aumentando, rendono la dissertazione una lezione dall’alto valore civile e morale. Utile anche la riflessione contenuta nello scritto “La ricostruzione dello stato”, e la lucidità di pensiero che lo caratterizza teso al rinnovamento di tutta la classe politica all’insegna dello stato democratico e repubblicano. Emerge un pensatore dal grande pragmatismo, poco compreso dai contemporanei, capace di analizzare il fenomeno italiano del comunismo e di sorridere dell’“anticomunismo epilettico”, così lo definiva, che non permetteva aperture ideologiche ai socialisti. Il socialista più comunista che si sia mai visto, guai però a chiamarlo tale, arriva ad abbandonare il Psi, già aveva lasciato il Psdaz, non accettando la scelta di Nenni di collaborare con la Dc. Coerente fino alla tomba.
Ottima lettura, per tutti e per ogni tempo.
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Una nota stonata
È un racconto lungo, scritto in modo magistrale e giocato su un climax ascendente che ne rende veloce e bramosa la fruizione. Si vuole infatti conoscere la motivazione che induce un uomo ad uccidere la moglie, fatto che ci viene anticipato dall’uxoricida dichiarato, durante un tragitto in treno condiviso col narratore, ben presto scalzato dal suo ruolo dal monologo- confessione che terrà scena fino all’epilogo. Non che l’assassino sia impunito, o meglio lo è, perché pur avendo confessato all’autorità giudiziaria è stato assolto in virtù dell’adulterio compiuto dalla moglie, e questa sia dunque la storia di un fuggiasco, no, affatto, è però la storia di un uomo che deve comunque convivere con l’irreversibilità del gesto compiuto a causa della gelosia, ossessionante al punto tale da rendere, per noi lettori, dubbiosa perfino la condotta fedifraga della moglie.
L’intero scritto nasce dall’intento dichiarato, dopo le prime richieste di delucidazione da parte dei suoi lettori, contenuto nella postfazione che segue il testo: fare una critica ai costumi sessuali della sua epoca, all’istituto del matrimonio, al fine di argomentare la tesi, secondo lui convincente, che l’atto sessuale tra gli umani sia da disdegnare, e che sia da preferirgli una sobria castità. Lascia alquanto perplessi; la lettura della postfazione l’ho interrotta quando la posizione mi è parsa fine a se stessa e insostenibile, affacciandosi poi Freud alla mente per una frazione di secondo, ho preferito fermarmi con un atteggiamento simile a quello che si ha quando si è di fronte ad ogni genere di estremismo. Il tutto poi si intuiva già in modo chiaro attraverso la maglia narrativa, quando si parla di eccessi sessuali in gioventù, del rapporto sessuale di coppia, delle dinamiche del disamore collassate in odio reciproco a causa della convivenza brutale alla quale il matrimonio costringe. I figli, frutto di questa unione sessuale, si badi bene non d’amore, un ulteriore tormento. Lo scritto appartiene alla fase finale della produzione del nostro e si inserisce nella biografia dell’autore, abbandonò in vecchiaia la moglie e la famiglia, e nel nascente tolstojsmo. Lascia di stucco. Un debole epilogo, questo sì più riconducibile all’etica cristiana del perdono, lo rende appena più digeribile dopo aver nel frattempo dimenticato le pagine dedicate alla musica che mi sono parse anch’esse stucchevoli, tendenziose e funzionali ad una tesi non convincente. Credo nell’amore tra uomo e donna, resistente a qualsiasi matrimonio. Di questi tempi però penso che le sue argomentazioni possano risultare gradite a tanti e condivisibili, resta il fatto, a scanso di equivoci, che non c’è giustificazione alcuna dell’atto violento rappresentato. La lettura è almeno utile per approcciarsi alla Sonata a Kreutzer di Beethoven, magistrale, eppure anch’essa anticonformista e poco gradita ai contemporanei, faceva dialogare violino e pianoforte come mai si era sentito prima. Se il racconto è una nota stonata, la sonata proprio no. Ascoltatela.
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Quante verste hai percorso nella tua vita?
Quante verste hai percorso nella tua vita?
Bella domanda, vero? Non scervellatevi a trovare una risposta ora. Sarebbe del tutto inadeguata. Siete sulla montagna adesso, giusto? Vivete, più o meno soddisfatti, e certo, il lavoro potrebbe andare meglio, i rapporti con il coniuge soffrono degli alti e bassi tipici delle più classiche unioni matrimoniali, vi siete tolti qualche sfizio e tutto sommato, dai, non avete fatto mai del male a nessuno. Qualche volta nel vostro percorso di vita vi soffermate a pensare al mistero della vita, magari proprio quando essa si interseca con la sua antagonista , Signora morte. Ma è sempre la morte di un altro, per quanto vicino, per quanto essa sia sconvolgente; il binario della nostra vita scorre inesorabile e noi lo inseguiamo dopo brevi battute d’arresto. Ci proponiamo anche, chi più chi meno, rinnovamenti esistenziali, sulla base delle disgrazie altrui. Eppure continuiamo a sbagliare, a vivere di debolezze mentre la vita passa. E se si fermasse, oggi? All’improvviso, proprio oggi la vostra vita, con una piccola e insignificante deviazione, condannandovi a poco tempo residuo e a un incontro ravvicinato con la morte, allora cosa fareste?
Questo racconto lungo ci permette di sapere cosa succede a un morituro, Ivan Il’i?, ripercorrendone le principali tappe esistenziali. A ritroso dal momento della sopraggiunta notizia del suo decesso fra la cerchia di amici e di conoscenti. Una narrazione circolare che ci porta progressivamente ai suoi ultimi rantoli dopo le grida disperate, una presa diretta sulla morte sugli effetti che essa produce sulla mente ancora lucida e vigile, attenta a scansare la nemica per rendersi progressivamente conto che il baluardo difensivo non ha bisogno di armi e di torri merlate ma di un'altra visione, quella che in vita ci è sempre sfuggita.
L’incontro con la morte, la consapevolezza che si muore soli, la menzogna che alimenta il tabù della morte, il ricordo, la rivelazione finale ad affrancarci finalmente dal velo di Maya, sono i principali nuclei tematici abilmente intrecciati in questa rappresentazione dallo stile fluido, essenziale e sobrio . Da leggersi in poche ore, senza interruzione alcuna.
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Stoner
Nostalgia canaglia
In una bella mattina del 1829 un ex ufficiale napoleonico, il comandante Genestas, percorre una valle incantevole della Savoia, arriva da Grenoble ed è in cerca del dottor Benassis; vi è spinto dalla sua fama ed è apparentemente in cerca di cure a favore della propria persona. Il paesaggio , grandioso nei suoi scorci paesaggistici, lo incanta ma ogni cenno di presenza umana lo disorienta e progressivamente lo riporta ad uno stadio atavico di sviluppo. La civiltà non è ancora arrivata in questi luoghi eppure tutti lavorano e la mendicità non è di casa. La visione borghese dell’organizzazione sociale, civile e progredita,- puro schema mentale- viene lentamente sostituita da un insieme di incontri : uomini , donne e bambini vivono nell’indigenza incomprensibile e intollerabile, loro unico sollievo è il medico di campagna, il dottor Benassis.
Quando finalmente i due si incontrano Genestas verrà reso edotto da Benassis del suo vero ruolo all’interno di questa comunità che quando vi arrivò era ridotta ad un pugno di esistenze afflitte dalla piaga del cretinismo. Il medico racconta dunque il suo operato e gli esiti felici di civilizzazione che egli ha ottenuto. Oltre al resoconto dei progressivi sviluppi, pare quasi di assistere alla rinascita del genere umano, ad una nuova Genesi, ascoltiamo l’esposizione di un vero e proprio pensiero politico. Non nego di essere rimasta affascinata da questo programma politico utopico e dalla sua realizzazione e dalla rieducazione morale che esso comporta. Spesso mi è venuto in mente che un buon politico o anche un semplice amministratore dovrebbe conoscere quest’opera di Balzac, eppure alla lunga l’utopia stanca e il pensiero subisce un’involuzione quando Benassis lo esplicita in una conversazione con il parroco della comunità. Al bando il suffragio universale e il principio dell’elezione, il proletariato viene relegato alla sua operosità perché incapace di partecipazione politica come lo sarebbe un minorenne che ha ancora bisogno di tutela. La massa non può sfornare leggi, perché un eccesso di legislazione produce assenza di legislazione ( qui , ammetto, che il pensiero alla selva legislativa italiana, mi ha per un attimo , quasi convinto della teoria politica del nuovo Machiavelli) e ancora il privilegio governativo ristretto solo a uomini istruiti e intelligenti ( anche qui mi viene da sorridere pensando al nostro attuale scenario politico) : “Il deputato intelligente sente la ragione di stato, il deputato mediocre scende a patti con la forza”. Si arriva infine a tessere l’elogio del potere in mano ad uno solo cui segue una mitizzazione di Napoleone, che mi disgusta non poco. Le parti finali dello scritto restituiscono un minimo impianto narrativo, niente di originale, funzionale all’economia generale dello scritto.
Se vi dicessi infine che quest’opera nasce in seguito ai tentativi ripetuti di farsi eleggere deputato, quali considerazioni ne trarreste?
Nostalgia canaglia.
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o romanzi all'ombra del mito napoleonico
Dov'è di casa la moralità?
È il romanzo del successo, quello avvertito dall’autore nella fase creativa e che lo portava a dire, mentre entrava in casa della sorella: ”Salutatemi perché sono semplicemente sul punto di diventare un genio”, e quello del pubblico che, dopo aver letto il romanzo a puntate su rivista, lo accolse con grande calore nella prima pubblicazione in volume.
Al centro della narrazione il triste destino di Papà Goriot, “l’ultimo dei miserabili”, padre di una contessa e di una baronessa, unica ragione di vita di un vedovo che da pastaio era riuscito a trasformarsi in un industriale senza però acquisire nella scala sociale uno stato diverso da quello di novello borghese. Ciò non basta, Parigi nel primo ventennio del diciannovesimo secolo è spietata e crudele e ancora incredibilmente nobile: una società, sì ampiamente stratificata ma oltremodo elitaria, come prima della Rivoluzione. Lui riesce a maritare le figlie con dote e rendite generose, l’una sposa un banchiere, l’altra un esponente della piccola nobiltà, tra di loro però si instaura un conflitto fatto di gelosie, di arrivismo supportato dalla generosità paterna che progressivamente si spoglia di ogni avere per non negare alle figlie ingrate un abito, una festa, un eccesso. Papà Goriot subisce il suo declino mentre è ospite di una pensione borghese, Casa Vauquer, tra il Quartiere Latino e il Faubourg Saint-Marceau.
Lì è ospite, tra una girandola di casi umani, anche il giovane provinciale venuto dal sud per studiare in città a spese di grandi sacrifici della sua famiglia, è Rastignac, anima nobile destinata a supportare le ultime pene di papà Goriot, nel frattempo cerca con tutti i mezzi di insinuarsi nella tana del lupo. Usando una lontana parentela, entra in contatto con le due figlie del pensionato, ne scopre il legame paterno quasi taciuto, nascosto e proibito dai due generi , frequenta il bel mondo parigino, ne scopre gli abissi, ingoia amaro e si fa fagocitare. Ne conosceranno, i lettori, i destini in altri capitoli della Commedia.
Questo è infatti anche il romanzo che tesse le trame fra i diversi volumi, restituendo personaggi memorabili, come il bandito Vautrin, in sviluppi successivi che meritano sicuramente una ulteriore passeggiata letteraria. A leggere l’opera di Balzac ci si ritrova infatti come davanti al grande schermo, una spietata carrellata di immagini, di episodi, di destini , col gusto tutto moderno di eccitarsi a ritrovare uno dei protagonisti in puntate successive, meccanismo molto noto a noi utenti della moderna cinematografia. Ma sarebbe davvero riduttivo parlare di Balzac in questi termini perché alla base della sua opera c’è in realtà un vero e proprio linguaggio teatrale, in questo romanzo in particolare, nell’ultima delle sue quattro ampie sezioni si sta come a teatro, si assiste a dei veri e propri movimenti scenici che da soli mi ripagano di una certa insofferenza patita a metà dell’opera quando il divario cronologico mi ha particolarmente distanziato dalle falsità del bel mondo parigino, arrivando a tratti ad annoiarmi.
È inoltre, questo, il romanzo dei luoghi, quelli borghesi contrapposti a quelli aristocratici o dei nuovi ricchi, la descrizione della pensione è imperdibile, è anche il romanzo ancora una volta delle illusioni, anticipatorio del successivo ”Illusioni perdute”, è inoltre il romanzo delle vanità che accendono e nutrono le passioni.
La moralità non vi abita, se non in rari casi, schiacciando l’essere umano costretto a soccombere, anch’egli disilluso. Spietato realismo con qualche pennellata da melodramma a rendere il tutto appena un po’ più umano, la corruzione dell’animo non salva nessuno.
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Oltre le illusioni
Nella complessa produzione di Balzac, questo romanzo del 1833 è uno fra i titoli più noti e apprezzati , il tredicesimo, e insieme uno degli episodi più celebri del successivo e colossale progetto affidato alla “Commedia Umana”.
È un fedele ritratto della società francese abilmente focalizzato su uno dei personaggi più memorabili della letteratura : Félix Grandet e sull’intero nucleo familiare composto da una moglie sottomessa, una figlia ingenua e una devota donna di servizio. Eugénie, la figlia, riveste però nell’epilogo un ruolo salvifico e catartico, rispetto all’economia generale dei fatti narrati e delle implicazioni etiche che se ne deducono. Appare il contraltare di un mondo che è governato dalle leggi del guadagno, dalla produzione, dai titoli nobiliari ancora da inseguire benché al lavoro sia riconosciuto il ruolo salvifico nella misura in cui è proporzionale ai guadagni che permette di realizzare. Non importa a quale prezzo. Non importa se al dio denaro si sacrifica tutto, se l’amore passa in secondo piano o non viene più contemplato come unico motore. Le stesse relazioni , nella provincia rappresentata, sono il mezzo per aspirare a mantenere o a migliorare la propria condizione sociale.
La lettura -molto gradevole- porta a concentrarsi sul padre di Eugénie, l’avaro per eccellenza, mirabilmente rappresentato, eppure ad uno sguardo più attento penso non possa sfuggire che la vera protagonista è appunto colei alla quale è intitolato il romanzo, dietro la quale si celerebbe la Maria della dedica iniziale, l’amante provinciale con cui lo stesso Balzac ebbe una figlia. È lei, la vinta, la vittima di un disordine sociale cui corrisponde una rettitudine morale senza pari ma che non restituisce quelle illusioni, perdute appunto, che un breve tempo della sua esistenza le avevano regalato.
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IL MONDO È UN LUOGO ASSURDO
Recentemente ripubblicato da Fazi Editore, il primo volume della trilogia dedicata alla famiglia Aubrey, per chi non conosce l’autrice Rebecca West, è una ghiotta occasione di lettura da non farsi sfuggire. Restituisce l’opera come già apparsa nell’edizione Mattioli 1885 e fa entrare il lettore in una dimensione di lettura gradevole, fresca e insieme appassionante.
Non ci si aspetti, a dispetto delle sue oltre cinquecento pagine, un susseguirsi di eventi spalmati in un ampio ventaglio cronologico; i fatti narrati da Rose, una delle figlie dei coniugi Aubrey, godono di una prospettiva difficilmente inquadrabile in una trama specifica o in un mero susseguirsi di eventi: gli episodi salienti si contano sulle dita di una mano. Tutto scorre in una straordinaria quotidianità che esula dai parametri sociali conclamati, accettati e inseguiti nei primi anni del Novecento inglese. Tutto ha il sapore di un sano e, agli occhi degli altri, eccentrico anticonformismo. La famiglia, un padre dissipatore delle residue fortune, mente aperta e anticipatoria dei declini delle epoche successive; una madre, talentuosa pianista dedita all’educazione musicale dei suoi quattro figli; la poco dotata violinista e primogenita Cordelia; Mary e Rose, le gemelle, virtuose pianiste, e il maschietto, ultimogenito, al quale pare essere concesso strimpellare solo il flauto dolce, è un mondo a sé stante. Gradevolissimo e nelle sue storture invidiabile.
La coppia genitoriale è in perenne conflitto ma capace anche di grandi riavvicinamenti, la loro sorte in questo volume appare sospesa e destinata a risolversi in successivi sviluppi e lo stesso ingresso nell’età adulta dei loro figli genera speranze di forti riscatti rispetto all’estrema miseria e instabilità subita durante l’infanzia. Ciò che colpisce è però quanto il modello educativo attuato in questa famiglia, lo si intuisce senza averne diretta conferma, sia destinato, nonostante le avverse fortune, ad essere un modello vincente perché basato sulla cultura. A lettura ultimata scatta un meccanismo di immediata nostalgia e naturale curiosità rispetto all’evoluzione dei singoli destini, rispetto all’avvolgente voce narrante affidata ad una prosa limpida e chiara e a un romanzo che ha il dono di un’estrema efficacia e naturalezza. Da leggere e da ascoltare nelle numerose suggestioni musicali suggerite tra pianoforte e violino.
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Stile comunista?
Romanzo dalla storia editoriale nota, censurato in patria, osannato nel mondo, viatico per un Nobel, a mio avviso meritato. È un romanzo imperfetto eppure bellissimo, perfetto compendio di vita e di storia, sintesi di queste arcane forze motrici la cui mobilità non è dato scorgere nel suo divenire, venendo invece a palesarsi in un breve attimo, quello capace di rendere consapevoli dei cambiamenti.
Si poggia su un nutrito e complesso sistema di personaggi, ruota però intorno al suo protagonista, vera forza centripeta. Si può provare un senso di smarrimento rispetto alla gestione di questi personaggi anche perché l’autore nella prima parte del romanzo li presenta, li mette in scena, li fa interagire fra di loro e ne intreccia le relazioni presenti e gli sviluppi futuri per poi tirare sapientemente le fila, regista mirabile, nella seconda parte. Un altro scoramento nel lettore può derivare anche dalla ripartizione interna delle due parti, suddivise in grandi sottosezioni a loro volta scandite da brevi capitoletti che possono giungere anche al numero trenta. Eppure, proprio questa struttura permette di superare la prima parte per immergersi poi nella seconda, stupenda, incalzante, decisiva.
È la storia personale di Jurij Andrèevic Živago, un uomo dentro la Storia, con la Storia, contro la Storia, inghiottito da essa e sputato, vuoi per il suo sapore disgustoso, vuoi per la sua essenza indigesta. Un orfano di padre ricchissimo , caduto in disgrazia e morto suicida; entra in scena bambino quando gli sta morendo la madre, cresciuto grazie allo zio che gli instilla un certo tolstoismo, una matrice pacifista, uno spirito indipendente e avulso da ogni velleità rivoluzionaria. È il racconto della sua evoluzione come uomo fuori e dentro la Storia, da essa segnato e forse anche vinto, dei suoi grandi amori, impossibile ridurre tutto a Lara, della sua passione per la scrittura, del suo slancio creativo disperso nel nulla storico, della sua misera fine e della sua bella vita.
La realtà storica è quella che vede svanire i sogni utopici, tramutati in abominevoli e cruente violenze, senza che si riesca a fermare l’apparente immobilismo della Storia stessa: le prime barricate del 1905, la guerra mondiale, la rivoluzione, la guerra civile. Si vive storditi nella grandezza storica del momento, incapaci di aderire al nuovo stile, lo stile comunista. Tutto è cambiato, soprattutto per chi dall’agiatezza è sprofondato nella miseria più nera, come gli altri, come tutti. Qualcuno nel frattempo sogna invece di fare la Storia, ma nessuno fa la Storia, nessuno la può fare, ci si ritrova solo in mezzo. Intanto la Natura segue i suoi ritmi, supera le stagioni, ne insegue delle altre, e su tutte trionfano i rigidi inverni, impietosi o le brevi primavere incapaci di far maturare un germe di grano e la terra è rotta, sconquassata, attraversata da lupi famelici. Quale forza può far sopravvivere un uomo in tali circostanze, se non viene ucciso dalla più pericolosa minaccia che altro non è se non la razza umana?
Semplice! L’amore.
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Il bene e il male
“Hai pronunciato le tue parole come se tu non riconoscessi l’esistenza delle ombre, e neppure del male. Non vorresti avere la bontà di riflettere sulla questione: che cosa farebbe il tuo bene, se non esistesse il male? E come apparirebbe la terra , se ne sparissero le ombre? Le ombre provengono dagli uomini e dalle cose. Ecco l’ombra della mia spada. Ma ci sono le ombre degli alberi e degli esseri viventi. Vuoi forse scorticare tutto il globo terrestre, portandogli via tutti gli alberi e tutto quanto c’è di vivo per il tuo capriccio di goderti la luce nuda? Sei sciocco.”
L’ospite non invitato, Levi Matteo, viene apostrofato da Woland, il Demonio, nelle battute finali del romanzo e queste poche, significative parole, sono per me il sugo di tutta la storia.
Che storia? La potrei definire una capriola dell’immaginazione , un tuffo carpiato con doppio avvitamento, una sospensione delle categorie spazio temporali e di qualsiasi certezza della quale si nutre la nostra razionalità.
Il lettore che voglia procedere con la lettura di questo atipico romanzo dovrà per forza mettere da parte la razionalità e procedere quasi affidandosi anch’egli all’unico motore dell’azione: il Demonio appunto. Egli irrompe nel maggio russo e rosso del più marcato stalinismo e mette tutto a soqquadro. Che vada tutto al diavolo, appunto. Niente più certezze, né rigidità , un po’ di sana fantasia in questa città morta dove ogni cittadino vive nel terrore di una perquisizione, di una delazione, di una denuncia. Tutto deve rimanere immobile per garantire serenità ma, si sa, l’uomo è essere perfettibile e basta un nonnulla per fargli modificare la visione. Eppure l’arrivo del Demonio, sotto le sembianze di un mago con un seguito picaresco, compreso un gatto dalle movenze umane, è cosa dura da far digerire. Lo scetticismo impera, lo sconfinamento nella pazzia segue, il caos è totale. Solo Margherita, anima in pena per la scomparsa del Maestro, scrittore incompreso, suo amante, è in grado di comunicare efficacemente col diavolo in persona, gli rende perfino dei servigi e in cambio verrà ricompensata.
A tratti divertente, magicamente surreale, il romanzo offre anche uno scritto nello scritto, il romanzo appunto del Maestro incentrato sulla Passione del Cristo, pagine di una bellezza raffinata che sole valgono tutta la lettura. I due scritti paiono a tratti uno complementare all’altro nell’economia totale e strettamente connessi alla biografia dell’autore, alla travagliata storia editoriale dello stesso romanzo, apparso postumo, e alla storia della Russia. Di esso sono state offerte svariate chiavi di lettura, la mia è quella della citazione iniziale, un invito appunto a contemplare il Bene e il Male come necessarie forze contrapposte sì ma indissolubili.
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Il segreto
Corposo romanzo della seconda metà dell’ Ottocento, pubblicato a puntate su rivista, per volere d Dickens. Regalò grande fama all’autore e viene generalmente riconosciuto come la sua opera migliore. Si incentra su un iniziale mistero che tende progressivamente a tramutarsi in un segreto, perdendo così i tratti iniziali che sono di grande impatto e portando il lettore a bramare per giungere alla soluzione del caso. Eh sì , da uno degli iniziatori del genere poliziesco, questa evoluzione è ben gestita ma ha, a mio avviso, il limite di fare di questo scritto un ibrido, l’avrei sicuramente lasciato dentro il modulo del noir, mi aspettavo, date le premesse, qualcosa di più vicino alla scrittura di E.A. Poe.
Purtroppo, dopo l’inizio molto promettente, la lettura si è trascinata anche se devo dire con una certa celerità perché la prosa è fluida e gli avvenimenti incalzanti sono studiati ad arte per creare nel lettore un alto grado di dipendenza. Non ha suscitato il mio interesse visto che tendo a perdermi nel particolare e che l’epilogo è artificiosamente diluito tanto da suscitare in me una certa irritazione. Pochi gli stimoli di riflessione offerti al lettore anche se l’ambientazione sociale è squisita e porta a serie considerazioni sul ruolo della donna nell’Ottocento inglese.
Due sorelle, o meglio sorellastre, Laura e Marian, vivono in una bella dimora rurale nella campagna inglese, in compagnia di un loro eccentrico zio; accolgono per un certo periodo Walter Hartright, un maestro di disegno, e fra lui e Laura nasce una corrispondenza di amorosi sensi che mai espressa esplicitamente va però a essere di disturbo per il compiersi del destino di Laura, promessa sposa a Sir Percival. Walter viene gentilmente allontanato dalla dimora quando sta cercando di risolvere il mistero legato alla donna in bianco che si aggira in quei paraggi, e che lui ha fortuitamente aiutato senza sapere chi fosse, ora la ritrova intenta a mettere in guardia Laura dal matrimonio impostole dal volere del defunto padre. Della donna misteriosa si sa che assomiglia a Laura in modo sorprendente e che si è allontanata dal manicomio in cui è stata segregata, inoltre che conosceva la mamma delle due giovani donne...
La trama si disperde in infinite variazioni e porta dentro il Conte Fosco e sua moglie, bellissima e diabolica coppia, oltre ad altri personaggi minori che diventano anche i narratori della vicenda, la quale, ricostruita a posteriori, si avvale del punto di vista dei numerosi protagonisti assumendo i tratti di narrazione condivisa e corale sotto la regia del narratore primario, Walter Hartright.
Se si ha una certa pazienza il libro potrebbe piacere, in molti lo apprezzano, se ci si ritrova nei miei personali limiti, consiglierei di passare oltre. A voi la scelta.
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Nessuno è perfetto
Iza è una figlia brillante, l’orgoglio dei suoi genitori, è diventata medico e ha riabilitato la sua famiglia, occupando nella società ungherese degli anni sessanta un posto di rilievo dopo lo stalinismo che aveva condannato il padre, un giudice giusto, poi riabilitato.
Vince ed Etelka sono i suoi genitori anziani, lei è amorevole nei loro confronti, i due sono riusciti finalmente ad avere una casa di proprietà, a farla studiare e l’hanno tenuta vicino a loro, condividendo l’abitazione con lei, anche in seguito al matrimonio con Antal, giovane provinciale con un passato di miseria, divenuto anch’egli medico.
La nuova coppia sembra ripercorrere i binari di una vita coniugale felice, pari a quella dei genitori di lei fino a quando Antal, così stimato e amato da tutti, lascia inspiegabilmente Iza.
La giovane non riesce più a vivere nella casa dei suoi genitori in provincia perché è ancora profondamente innamorata del marito e decide di spostarsi a Budapest, da lontano continua comunque a occuparsi di loro.
Vince si ammala e in pochi mesi muore, Iza si occupa della mamma e la sradica brutalmente dal suo universo e pensando di fare il suo bene, la porta con sé in città.
Gran parte del romanzo si incentra su questo sradicamento e ci permette di vivere il disagio di Etelka, abilmente sposta tutta la nostra attenzione sull’anziana e sulla sua sofferenza e solo lentamente converge su Iza, onnipresente, brillante, efficace, premurosa, abbandonata e totalmente dedita al benessere degli altri, i suoi pazienti, i suoi cari. Mai una sbavatura nella sua condotta.
Nel corso della narrazione vengono disseminati tanti indizi utili a inquadrare i personaggi fino a quando lo sviluppo narrativo assume un andamento doloroso e inaspettato di grande impatto emotivo. La lettura si tramuta allora in un’esperienza dolorosa, i pregi e i limiti dei personaggi incastrati nelle relazioni familiari assumono i contorni dell’esperienza personale, ognuno ci si ritrova, penso, pur non avendo vissuto quei fatti. Ed è bruciante la sensazione di impotenza che assale, leggendo, e che può essere la stessa che si avverte quando si apre una distanza con i propri cari, quando pur volendo bene non si riesce a volersi bene reciprocamente, quando gli egoismi hanno il sopravvento, quando amare non significa più comunicare, dare e ricevere insieme.
Bellissimo romanzo, da condividere in famiglia.
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Rieducazione
Per chi ha già letto altre opere di questo autore lituano, naturalizzato francese, e per chi ne conosce un minimo la biografia, leggere questo romanzo d’esordio significa ritrovare il sapore di una lettura dai tratti ben riconoscibili e con essa la storia di un uomo, l’autore, che ormai è sigillato nel mio immaginario come una persona profondamente intristita dalla vita, da essa piegata benché abbia provato con tutte le sue forze, tramite la sua scrittura, a consegnarci la speranza per un mondo migliore.
Come ne “Gli aquiloni”, anche qui si narra di guerra e di resistenza durante la seconda guerra mondiale; e ancora una volta è centrale, come accadeva tra l’altro nel romanzo “La vita davanti a sé” il ruolo di una persona che si sta affacciando alla vita, un bambino o un ragazzo, naturalmente un senza famiglia, un deprivato che però trova nel buio del mondo adulto una comunità accogliente e educante, sempre rigorosamente fuori da ogni schema tradizionale. È la volta di Janek, dodicenne lasciato in una buca dal padre medico, nel cuore di una gelida foresta polacca, con un sacco di patate utile a farlo sopravvivere per mesi, freddi e bui, appena rischiarati dal tenue lumicino di speranza della battaglia di Stalingrado e con il monito di non fidarsi degli uomini, o di farlo solo se si dovesse trovare in estrema difficoltà, rivolgendosi ai partigiani.
Yanek matura il suo apprendistato tra i partigiani, lì cresce, conosce la vita, l’amore, la guerra, la morte e elabora la certezza del suo destino di orfano; purtroppo il suo atto di crescita ha la cifra negativa dell’eroismo di un sabotaggio, della crudezza di un omicidio, della consapevolezza di essersi macchiato del peggiore dei crimini ma anche dell’orgoglio di aver fatto pure lui la sua parte. È il passaggio dalla musica alla violenza a scandire il suo farsi uomo, la convivenza in lui di due linguaggi differenti e opposti che solo la drammaticità della guerra può far coesistere. Le barriere, quelle del bene e del male, vacillano, crollano, il linguaggio universale dell’arte pare l’unico capace di ergersi al di sopra di tutto e di mantenere vivo l’uomo, tedesco o polacco. Spesso nel romanzo, si affida all’arte, musica o letteratura, questo ruolo salvifico. Le notti in foresta sono scandite dai racconti scritti dal compagno che col modulo della fiaba mantiene intatto il naturale candore dell’animo umano o lo risveglia se si è affievolito prima che si tramuti in dura corazza. E ancora nell’oralità del narrare di quel mitico partigiano, il loro capo, che si alimenta la speranza per una pedagogia capace di rinnovare i più alti ideali dell’Europa intera verso la rieducazione di quella gioventù segnata e sacrificata.
Ancora una volta Romain Gary spiazza il mio giudizio di lettrice, apprezzo i contenuti che tratta e la spinta ideale che li nutre, così come alcune pagine isolate che hanno l’immediata capacità di toccare il cuore commuovendomi o l’arguzia di certe sue frasi che si ergono allo stato di aforismi, eppure la sua prosa non mi coinvolge totalmente lasciando sempre in me una sensazione di imperfezione e un andamento di lettura generalmente discontinuo. Non mi do per vinta, qualcuno mi ha detto che ha scritto di meglio…
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Saper leggere
Saper leggere significa dunque conoscere? Conoscere significa saper leggere?
Prendo Anna Karenina, mai letto Tolstoj, e letto, rispolvero la biografia, impellente il bisogno di conoscere, inizio a farmi un’idea della sua produzione non per titoli ma per temi e a capire, ma ormai il romanzo è già letto e il danno è fatto: nella mia memoria di lettrice vi si stamperà con queste prime impressioni che, nel tempo, mi appariranno ovvie, scontate, spicciole e del tutto incongruenti rispetto alla complessità dell’autore che ancora non conosco per lettura diretta e integrale. Diamo tempo al tempo; allo stato attuale questo è il mio sentire.
È un romanzo fresco e moderno per stile e per contenuti eppure è ambientato a fine Ottocento tra Mosca e Pietroburgo, con ampie digressioni sulle condizioni socio-economiche della Russia imperiale di Alessandro II in un’epoca di grandi trasformazioni, una per tutte l’abolizione del vecchio retaggio feudale della servitù della gleba e la conseguente emancipazione dei servi. La modernità risiede nella sua fruibilità nonostante si presenti con la corposità, in termini prettamente numerici circa le pagine, tipica dei romanzi russi; ma è il contenuto che più mi sorprende e con esso la capacità del russo di indagare l’animo umano con rispetto e correttezza riuscendo a consegnare al lettore un ampio ventaglio di casi umani, di sentimenti, di emozioni, di punti di vista, di affascinanti misteri individuali, quali tutti noi siamo. Sono stata impressionata in modo favorevole da questo complesso lavoro di rappresentazione dell’umanità, ho ammirato la capacità dell’autore di dare al lettore la possibilità di farsi una sua personale opinione senza sentirsi influenzato dagli eventi anche quando essi si ponevano con tutta la loro carica emotiva, non sempre positiva. Esco dalla lettura con Levin e Kitty nel cuore, il trionfo della normalità e della semplicità, con un senso di noia rispetto ad Anna pur dispiacendomi il suo destino e la sua parabola di vita, con un misto di rispetto, di commiserazione per suo marito e ancor più per i due figli di Anna, con la consapevole e intelligente rassegnazione di Dolly e con un senso di meraviglia circa la restituzione dei delicati equilibri tra i due sessi soprattutto quando essi sono uniti nel vincolo matrimoniale. Ho spesso pensato che Tolstoj abbia espresso in queste pagine una piena consapevolezza dello schiacciamento sociale subìto dal gentil sesso nel contesto rappresentato e che abbia parteggiato per le donne. Non so se ciò corrisponda al vero, questo ho captato e questo riporto. Mi è piaciuta inoltre l’economia dello scritto, il suo andamento per quadri giustapposti, funzionali a interiorizzare le singole vicende tra esse connesse da una fine rete parentale o dalla frequentazione o dall’appartenenza sociale. Insomma un romanzo perfetto al quale mi sembra difficile attribuire imperfezione alcuna. Non so se ho saputo leggerlo e se una conoscenza più approfondita dell’autore sarebbe stata più funzionale alla lettura, in ogni caso la piacevolezza non può essere dettata da questo aspetto, l’opera si fa amare per la sua essenza che è quella di ogni classico che trascende lo spazio e il tempo per essere sempre apprezzato.
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Una vita in fontiera
Romanzo breve del 1937, appartenente alla fase finale della produzione dell’autore e interamente dedicato ad un personaggio emblematico, un verificatore di pesi e di misure, perso in una dimensione geografica sospesa tra frontiera e assurdità, molto kafkiana. È la storia di una involuzione, di una discesa negli abissi, quasi contrapposta a quell’esaltante e amorale ascesa che invece caratterizza il protagonista di uno dei suoi romanzi brevi d’esordio, “La tela di ragno”. Anche qui troviamo un ex militare nostalgico, che per accontentare la moglie dismette i panni da sottufficiale in carriera da ben dodici anni, e si fa reintegrare dalla società civile. Gli spetta un incarico di diritto: sarà un verificatore di pesi e di misure a Szvaby, una sperduta cittadina di frontiera della Moravia. Qui inizia la sua storia, qui si compie la sua involuzione.
“Gli uomini muoiono per lo più senza sapere un solo granello di verità su se stessi. Magari la sapranno nell’altro mondo. Ad alcuni però è concesso, ancora in questa vita, di conoscere che cosa sono realmente. Lo conoscono di solito all’improvviso, e ne rimangono spaventati. A questo genere di uomini apparteneva il verificatore Eibenschütz”
In uno scenario ambientale ostile, fatto di stridenti disgeli dopo impietosi inverni e di fugaci estati, ruota un pugno di esistenze dedite al commercio, falsato da unità di misura utili alla mera sopravvivenza. Ad un peso falso corrisponde un inganno e ad esso un istinto di autoconservazione, su tutti impietoso il ligio e temuto impiegato statale. Il suo essere e il suo operare uno scontro fra etica e morale, fra legge e giustizia raccontato con uno stile sobrio e maturo. Per lui un occhio buono solo quando mostrerà le sue debolezze sprofondate nell’alcolismo, bellissime pagine anticipatorie dell’ultimo lavoro postumo dell’autore, “La leggenda del santo bevitore”. Lo consiglio per congedarsi da Roth se si ha una sufficiente conoscenza della sua produzione e se si predilige in essa la restituzione di un mondo sperduto là in qualche posto di frontiera nel cuore dell’est europeo.
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RAPSODIA ANTICIPATORIA
L’ex sottotenente Theodor Lohse terminata la grande guerra torna ai ranghi: è ora uno studente di legge e un precettore inadeguato presso la ricca famiglia ebrea Efrussi. Fuori dalle gerarchie militari perde la sua identità, non c’è una regola cui riferirsi e la disciplina è un derivato della miseria di chi non può ambire a posizioni migliori. L’anonimato lo schiaccia e si nutre di sogni grandiosi di rivalsa. La stessa che anima chi non può soggiacere ai trattati di Versailles, la stessa che non può veder soccombere l’impero, la stessa che agogna la Repubblica, la stessa che vorrebbe la rivoluzione, la stessa che imputa ogni scacco agli ebrei. Odia e diventa violento. Si insinua negli ambienti che cospirano e tramano, cospira, trama, sospetta, tradisce e supera qualsiasi ideologia, fa sue certe posizioni, le impara perfino a memoria, con esse attira le folle ma lui lavora solo per se stesso. E l’odio cresce, si autoalimenta, straripa. Lui vuole la gloria, il suo nome sui giornali, il nazionalsocialismo è d’altronde solo un’idea, lui vuole il denaro, lui vuole essere come l’ebreo e comprarsi perfino uno come lui. Lui vuole il potere…
Tremendo affresco rapsodico di una scalata individuale alla ricerca di un ordine nuovo, terribilmente individualista e senza morale.
Romanzo storico-politico del 1923, tratteggia un’epoca, tutta vissuta da Roth, in una Berlino ben rappresentata, e anticipa un altro sogno tramutatosi in tragedia. Incompiuto, lascia il lettore in un crescendo di intrighi, complotti, attentati, fughe, invischiato e intrappolato come un insetto in attesa del ragno. Lui Roth, presentendo il fallimento della Repubblica di Weimer, vide lungo lasciando Berlino per Parigi.
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I pericoli del fanatismo
Romanzo d’esordio del premio Nobel, scritto in Yiddish e pubblicato a puntate su “Globus”, rivista letteraria di Varsavia, nel 1935, tradotto poi in inglese nel 1955.
Goray, piccola comunità polacca, risollevatasi dagli attacchi dei cosacchi che hanno sterminato e disperso la popolazione ebrea nel 1648, è ora una comunità pacifica guidata da un rabbino che a tratti quasi si annoia anche se fatica a incanalare i malumori dei membri della sua famiglia in perenne discordia. Progressivamente la comunità viene investita da straordinarie dicerie: prossima è la venuta del Messia e con essa la fine della lunga schiavitù del popolo ebraico, si avvicina il giorno della liberazione. E giunge l’anno 1666 e in piena aderenza ai calcoli cabalistici Shabbatay Tsevi si rivela come il Messia tanto atteso, egli chiede devozione totale al male in cambio della fine dell’esilio e della tanto agognata Terra d’Israele. Tutti gli sono devoti… In questa cornice storica si inserisce la vicenda romanzata di Rechele della quale si racconta la breve e triste sventura che accompagna il triste collassare degli eventi.
Le pagine si susseguono in un alternarsi di cadute e di risalite, di dannazioni e di resurrezioni, di grandi flagelli e di momentanee schiarite, di condanne e di pentimenti e con essi vacilla anche l’attenzione del lettore che arranca tra toni cupi ed eventi incredibili, consapevole comunque di avere tra le mani le pagine di un grande narratore, seppur all’esordio.
Consigliato se interessati alla storia degli ebrei nell’ Europa orientale del XVII secolo, all’esoterismo ebraico, alla cabala, al primo nucleo del futuro sionismo.
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UNA SPIAGGIA DI ARIDE COSE
Romanzo ambientato sulle rive del lago Maggiore, circondate da splendide ville che ospitano però esistenze sfatte nell’immediato dopoguerra, siamo nel 1946. “Una spiaggia di aride cose” come da Vittorio Sereni, citato in esergo.
Il protagonista e voce narrante di questo decadente scritto è un giovane di trent’anni, appena rientrato dalla Svizzera dove si era rifugiato per non combattere la guerra. Possiede un’imbarcazione e, una sera mentre attracca nel porticciolo di Oggebbio, in una delle numerose soste della sua ultima vacanza dalla vita prima di riprenderla in mano, viene avvicinato da un signorotto del luogo, un avvocato, ben ammogliato. Con una serie di pretesti Orimbelli, questo il suo nome, quasi lo circuisce e lo trascina dentro la sua esistenza fatta di sotterfugi, amanti, evasioni, in perenne atteggiamento godereccio e al tempo stesso furtivo, sleale, scorretto. Gli racconta segreti, gli presenta amanti, ma soprattutto ne anticipa le mosse, autonominandolo quasi il suo perfetto antagonista, nel sottile e antico gioco della seduzione e della conquista. Lo fa soggiornare nella stanza del vescovo nella sua villa, dove ospita anche la bella cognata Matilde, vedova di un ufficiale morto in Africa da dove lui è invece rientrato. Le uscite con la barca si moltiplicano in un crescendo di possibilità che coinvolgeranno a spirale tutti i personaggi, escludendoli o integrandoli, creando nuovi scenari tesi a collassarsi in un susseguirsi di eventi tragici. L’ambientazione lacustre è perfetta, a mio avviso l’aspetto più notevole dell’opera, le incursioni erotiche, sornioni ed efficaci e mai volgari, utili a caratterizzare personaggi e periodo storico, il modulo narrativo teso al giallo ma d’ambiente in un realismo efficace e molto italiano. Lo consiglio anche se "La spartizione" è per me decisamente superiore.
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Libertà
I luoghi, i tempi, gli eventi, i personaggi, gli stati d’animo, la vita, la morte, il destino e su tutto un’opera che è un inno alla libertà.
I lager, le izbe, la steppa calmucca, i gulag, lo scenario urbano collassato in trincee, i ricoveri, i bunker, i palazzi sinistri del potere: la “tundra della vita”.
La seconda guerra mondiale: descrizioni minuziose delle azioni militari. Russi e tedeschi, grandi pause narrative dedicate alle esistenze singole in un ampio ventaglio che va dal bambino al vecchio, dal graduato al civile, dal comunista convinto al compagno disilluso, sfiorando talvolta anche gli uomini del potere. Una grande galleria di figure tragiche a sottolineare una lampante verità: “Chi è unito da uno stesso destino è diviso da un diverso carattere” e allora c’è chi rimane convinto anche se non lo è, e chi palesa la sua interdizione, le sue perplessità, e chi lo fa solo con se stesso perché è pavido per poi scoprire che non ce n’era affatto bisogno. Il culto, l’esaltazione mistica, una guerra che muta persino le sorti del partito.
La vita, la morte e la burocrazia a decidere di esse. Il destino e l’uomo, con scopi diversi ma in un’unica strada del male, se non si ascolta la voce della libertà. Per dare voce alla libertà occorrono però parole cui far seguire azioni ma in certi sistemi ciò che nasce come soffocato grido di libertà si tramuta in schifosa delazione, la volontà è annullata, la libertà è annientata.
Poi la guerra termina e la vita lentamente fiorisce. “Così è il tempo: tutto passa, lui resta. Tutto resta, il tempo passa.” Cosa rimane poi? Il ricordo delle violenze.
E nasce questo romanzo, che anticipa la storia quando essa non è ancora attrezzata per accoglierlo. È un prematuro e coraggioso atto di scrittura oggettiva della realtà senza la supponenza che accompagna la denuncia. Essa è implicita negli eventi, in particolare nel crollo di un mondo di ideali che hanno generato disumanità. Lo sguardo di chi fu, non a caso, un reporter, si posa su questo mondo, lo sigilla e ce lo consegna quando ancora, nonostante tutto, palpita nei suoi estremismi ideologici.
È una voce stridente che, anticipando appunto la successiva condanna del totalitarismo russo, non può trovare cassa di risonanza. È un libro che era opportuno far tacere, mai visto edito dal suo autore, letto in occidente grazie ai microfilm fatti passare clandestinamente, oggi lo leggiamo sulla scorta dell’originale che finalmente è stato restituito agli eredi.
Un libro che è stato in prigione, parlava di libertà.
IMPERDIBILE.
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Compro la giustizia
Commedia tragica scritta nel 1955, grande successo di pubblico, generalmente riconosciuta come il capolavoro dello svizzero. Agli esordi nella lettura della sua produzione teatrale, ho all’attivo solo “I fisici” non sono in grado di avvalorare la tesi mentre posso asserire che mi troverebbe una spettatrice entusiasta e che già mi reputo una lettrice ampiamente soddisfatta. I testi teatrali di Dürrenmatt creano una dimensione surreale e grottesca al pari dei racconti di Buzzati o dei romanzi kafkiani ponendo al centro un individuo, all’interno di un microcosmo ben definito, in una totale condizione di annientamento mentre tenta invano di svincolarsi dalla morsa del caos e dalla pressione di un potere sempre ben individuabile.
È questa la volta di Alfred Ill, sposato, con figli, povero in canna come tutti i suoi concittadini che vivono in una tristissima cittadina, Güllen, un tempo centro di una attiva produzione industriale, ora caduta in miseria, quasi rassegnata al suo destino pestifero e grigio. La scena si apre nella stazione del paese, agli antipodi da qualsiasi rappresentazione della Svizzera verde, come da immaginario collettivo, e qui Alfred Ill ha la speranza di poter riscattare il suo misero destino e fare da tramite anche al riscatto dell’intera cittadina. È in arrivo Claire Zachanassian, illustre concittadina, MILIARDARIA, la stessa Claire che a suo tempo fu la sua amata, si è certi che non disdegnerà di aiutare i suoi miseri compaesani, ci si appresta dunque a preparare la migliore delle accoglienze. E lei arriva, ma in anticipo, ed è strana e bizzarra (non rivelo nessuna delle sue particolarità), la sua presenza si palesa con il suo essere, con il suo seguito, con la sua strana richiesta: donerà un miliardo da ripartirsi fra fabbriche e cittadini in cambio dell’amministrazione della giustizia. Vorrebbe istituita la pena di morte per uno solo di loro: Alfred Ill. Rivelare oltre sarebbe deleterio, non conoscendo affatto la storia, ho goduto di ogni singolo sviluppo, curiosa e speranzosa fino all’epilogo che naturalmente non ha tradito la poetica dell’autore.
Al centro ancora una volta la riflessione sulla giustizia, come in tutta la sua produzione, qui non negata ma comprata insieme all’etica, alla morale, alle debolezze umane. Il personaggio della ricchissima Claire è di una potenza diabolica, capace di racchiudere in sé tutti i mali del mondo, gioca perfettamente con le esistenze altrui semplicemente comprandole, perfettamente consapevole del potere del denaro, ribaltando così l’etica e la morale, rendendo perfida e distruttiva quella alimentata dalla povertà. Consigliatissimo. Buona lettura.
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A teatro
Nel salotto di una villa che ospita un sanatorio privato per malati mentali, in un luogo ameno, a riflettere l’agiatezza economica e della proprietaria, unica erede di un’immensa fortuna, e dei suoi illustri ospiti, c’è la polizia. A distanza di tre mesi è stato compiuto l’ennesimo omicidio, ancora una volta vittima è una giovane infermiera e assassino un paziente, uno dei tre che ancora vivono nell’ala vecchia del manicomio, sapientemente fatti convivere per comunanza di professione: sono fisici. Colui che ha appena ammazzato si crede Einstein, lo ha preceduto poco tempo prima chi reputa se stesso Newton e che ora, impunito in virtù della sua pazzia, è in scena col commissario; lo intrattiene argomentando sulla sua sanità mentale e asserendo di essere in realtà lui il vero Einstein e di fingersi Newton per non recare dispiacere al compagno.
Infine appare Möbius, entra in scena per ricevere la visita dell’ex moglie che con i suoi tre figli, ormai adolescenti, essendosi risposata con un missionario e volendo seguirlo in missione, è lì per far conoscere il padre ai figli. Ciò è pretesto per svelare anche la storia di questo giovane fisico che era ritenuto geniale e molto promettente nel suo campo fino a quando non iniziò a riferire di essere in contatto col re Salomone, di parlarci e di seguire i suoi consigli. Inizialmente appare come molto assennato e capace di comprendere le intenzioni della ex moglie ma al momento del congedo usa le sue eccezionali doti di fingersi pazzo- quelle che gli hanno permesso sì lunga dimora in manicomio- e ritorna nelle sue vesti permettendo con lo strappo generato dal comportamento pazzoide, un congedo più facile ai suoi. A questo punto tutto si fa molto interessante: realtà e finzione, pazzia e sanità mentale, scienza e coscienza e un terzo omicidio.
Dürrenmatt gestisce così le tematiche a lui più care: l’impossibilità della giustizia di essere funzionale a se stessa, riflettendo il caos insito nella Natura, l’ordine sovvertito -qui ben rappresentato dal sottile confine tra pazzia e “normalità- per volontà di un potere che ambisce al potere, in stretta contrapposizione al necessario rigore logico della fisica, infine il dissidio dell’uomo contro le sovrastrutture che lo inquadrano, lo inglobano e lo sfruttano minando la sua libertà.
Testo godibilissimo di cui non si può svelare di più, attenterei al filone giallo/ poliziesco che gli sta alla base e che vorrei avere la fortuna di vedere rappresentato perché è giocato su una serie di disvelamenti che lo rendono molto dinamico allontanandolo da quell’aura tragica che ne rappresenta invece l’essenza.
Il testo è inoltre supportato da 21 punti su “I fisici” che chiariscono in modo sintetico e brillante i capisaldi di un linguaggio drammaturgico giocato sul grottesco e il paradossale in un sovvertimento della realtà, necessario per rivelarla allo spettatore senza perciò obbligarlo ad affrontarla e tanto meno a risolverla. Pirandelliano, quasi…
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NOUS RESISTERONS
Un libro sulla Resistenza e ancor più sulla resilienza, molto particolare, al sapor d’infanzia e di ingenuità.
Resistono un postino rurale, costruttore di aquiloni, un cuoco nel suo ristorante e un orfano, povero e innamorato di una ricca polacca.
Perché resistere?
Perché i sogni trionfino sulla realtà, anche su quella cruda della guerra e dell’occupazione nazista e di ciò che verrà dopo.
Il postino, Ambroise Fleury, è lo zio del giovane Ludo, la voce narrante, e attraverso gli aquiloni simboleggia l’infanzia, il disincanto, il sogno, l’ingenuità e la fedeltà ai propri ideali. Il cuoco, Duprat, stoico nel suo servizio anche se a favore dei crucchi e dei loro palati, è il difensore del buon nome francese che neanche in guerra deve venir meno. La cucina rappresenta la passione, il cibo il patriottismo senza armi e senza violenza, con il sapore e il gusto dell’alta cucina. Cibo come veicolo di vicinanza, di convivialità e di amicizia anche tra nemici. Ludo è infine il resistente in amore e in guerra, schermato dalla follia quanto lo zio, è il partigiano francese, il simbolo dell’amore assoluto per la patria e per una donna.
È questo inoltre un romanzo sulla memoria, tutto giocato sulle straordinarie doti mnemoniche di Ludo/ Gary a dispetto di francesi che “cercano più di dimenticare che di ricordare”.
È anche un atto di riconciliazione estrema che salva il salvabile con pietà umana quando tutto ottunde, sbiadisce, vacilla, barcolla, cade e tradisce. Un inno alla follia idealista, quella capace di farti amare una donna, un ‘idea, il tuo paese, tramutandoli, quando sono prossimi alla realtà, in elementi finiti e imperfetti, senza che si realizzi l’agognata corrispondenza fra sogno e oggetto sognato.
Quando l’ideale si schianta con il reale, collima, trascende, diventa altro.
È anche un libro, infine, che nega il ricordo, paradossalmente, ma solo quello che tende a cristallizzare senza contemplare l’inevitabile cambiamento prodotto dagli eventi, dal tempo.
Bella lettura, fresca e ingenua, chiara ed edificante puntellata di ottime frasi, da citazione, capace di emozionare nel finale ma priva di quell’afflato necessario per renderlo un capolavoro.
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La scienza, la società, l'uomo
Dramma in quindici scene, compendia la vita di Galilei nel suo essere scienziato consegnandolo perfettamente aderente alla realtà storica, in modo quasi oggettivo, creando però un personaggio ben caratterizzato e al tempo stesso difficile da inquadrare nelle categorie del bene e del male.
La lettura del testo, scorrevole e apparentemente semplice, ha il merito di rievocare la nota vicenda umana dello scienziato senza sovraccaricarlo di inutili ideologismi, senza fare di lui un eroe, aprendo al contempo infiniti dilemmi. L’uomo Galilei è semplicemente un uomo che entra in scena lavandosi a torso nudo, che fa colazione, che ride e scherza con il figlioletto della sua domestica, che da anni insegna il sistema tolemaico ma è sempre in bolletta. È un uomo che burla il potere con un cannocchiale o che lo raggira assecondandone la boria mentre è perfettamente consapevole della frattura che le sue scoperte andranno a generare. Eppure la dicotomia fede e dubbio che alimenta la scienza pare non toccarlo, laddove la scienza smentisce i dogmi, lui non gioisce ma appura la supremazia della ragione senza per questo farsi tronfio di alcuna vittoria, anche quando il Collegio romano, istituto pontificio di ricerche scientifiche, conferma le sue scoperte. L’uomo, se non usa la ragione, in fin dei conti, è incapace di leggere il cielo quanto la Bibbia; e allora perché quello stesso Galileo che dopo essere stato intimato a non minare la fiducia della Chiesa in seguito all’inserimento della teoria copernicana nell’Indice dei libri proibiti, capace di tali parole: “No, no, no. La verità riesce ad imporsi solo nella misura in cui noi la imponiamo; la vittoria della ragione non può essere che la vittoria di coloro che ragionano”, abiura? E così troviamo infine il personaggio chiedersi quale sarà il giudizio dei posteri mentre sentenzia sull’evidenza che la pratica della scienza non possa andare disgiunta dal coraggio e che l’uomo di scienza dev’essere capace di reagire all’intimidazione del potente. È fuor di dubbio anche per il vecchietto ormai costretto al domicilio coatto, che però, abilmente, continua a tramare facendo passare la verità oltreconfine, sotto un mantello…
Il testo è impreziosito dalle note Sulla “Vita di Galileo” che permettono di inquadrare l’opera rispetto alle sue tre stesure e alla biografia del drammaturgo e poeta tedesco, rendendo questo gioiello letterario un testo di riflessione etica sul ruolo della scienza nella società, donandoci allo stesso tempo un irrisolto personaggio di straordinaria efficacia, capace di trascendere il tempo.
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"Che schifo, la giustizia"
Un delitto apparentemente archiviabile come un caso già risolto, l’assassinio opera in pieno giorno ed è riconoscibile dai presenti perché personaggio noto nella cittadina - si tratta del consigliere cantonale Kohler -, diventa il perno di una narrazione ambiziosa e articolata. Essa si apre in forma di memoriale con narratore un ormai fallito avvocato in preda ai rimorsi, confuso dall’abuso di alcool e fermo nel suo intento di fare a breve, con un altro omicidio, la necessaria giustizia che è finora venuta a mancare. Da Spät, questo il suo nome, conosciamo il primo livello narrativo di una vicenda complessa che lentamente andrà a delinearsi attingendo a successivi e indispensabili altri livelli narrativi. Una struttura articolata e farraginosa che alla lunga stanca e fa perdere il mordente all’azione, vero è, di contro, che chi legge Dürrenmatt non deve aspettarsi il classico modulo di genere, poliziesco o giallo, ma la sua perfetta antitesi. Durante la lettura, che dunque trae in inganno anche l’esperto lettore, illuso che con quest’opera ultima si stia addentrando in un bel noir, si fanno incontro tutti i temi e gli stilemi tipici dello svizzero. Colpisce il fatto che sul finire lo scrittore inserisca anche una sorta di autocritica, sapientemente celata nella finzione narrativa, rispetto a quest’opera che iniziata nel 1957, ripresa e conclusa nel 1985 per non darle l’identità di un frammento, non riuscì mai a eguagliare quell’ispirazione creativa che l’aveva appena abbozzata, non raggiungendo dunque il fulcro contenutistico che l’aveva animata virando per altre vie e assumendo l’aspetto di una summa di pensiero. E questo è in effetti il suo aspetto più interessante, al suo interno ricorrono riflessioni sulla giustizia e sulle probabilità che essa trionfi su una realtà contraddistinta da variabili tutte dettate dall’uomo e dalla sua imperfettibilità. La riflessione si estende all’ambito del possibile e del reale e dei loro orizzonti rispettivamente infiniti e molto limitati: “il reale è solo un caso particolare del possibile, e per questo è anche pensabile in altro modo”. Si giunge poi a negare le basi del diritto processuale penale affermando per esempio che non esiste un testimone obiettivo in quanto ogni persona percepisce un fatto a suo modo e lo rielabora secondo la sua memoria rendendolo dunque un fatto già diverso da quello oggettivo. Si prosegue inoltre con una critica caustica alla società elvetica, quella che oltre a produrre orologi di precisione, psicofarmaci, segreti bancari e neutralità perenne, è capace anche di sfornare uno pseudo uomo, un uomo artificiale, un prodotto di laboratorio che poi plasmato da principi educativi e da psichiatri altro non potrà fare che immergersi nel caos della vita dove essenziale è come nel biliardo, metafora su cui gioca a tratti la narrazione, sfruttare le sponde. In virtù di quanto detto l’opera è consigliabile ma non certo piacevole.
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Sciascia
La giustizia in pensione
Nella forma breve del racconto che raggiunge le vette della perfezione espressa in sintesi, Dürrenmatt è capace di dare vita ad una precisa poetica, non solo quella legata al tema suo più caro e ricorrente, la giustizia appunto, ma anche ad una precisa idea di letteratura, regalandoci al contempo un’amara riflessione sulla vita e sul caos che la domina.
Lo scritto rapisce subito il lettore con la riflessione iniziale sulla scrittura ancora possibile, sulle storie che ha senso ancora raccontare, laddove l’autore non volesse attingere ai filoni che tradizionalmente vengono percorsi e calcati. È possibile una storia trascendendo il racconto con allegata generalizzazione lirica del proprio Io? insomma quando uno scrittore non vuole parlare di sé allora non c’è più nulla da raccontare? O è ancora possibile farlo e con fatica, facendo emergere un “mondo di panne”?
L’avvio narrativo è infatti rappresentato proprio da una panne che obbliga il commesso viaggiatore Traps a fare una sosta involontaria lungo il tragitto della sua vita, una sorta di deviazione standard. Si ritrova ospite di un vecchio giudice che con altri tre amici, tra pasti luculliani e robuste bevute, è solito trascorrere le serate inscenando celebri processi della storia in pieno ossequio al cerimoniale, alla dottrina, ai codici, con l’unica variante che concede alla giustizia pubblica di trasformarsi in giustizia privata con intento puramente ludico e introducendo la pena di morte…
Traps così, in un crescendo di rivelazioni, si ritrova ad assolvere pienamente il ruolo di imputato con a carico un’accusa di omicidio. “Il giuoco minaccia di divenire realtà” … ora è possibile far trionfare la giustizia. In un climax ascendente sempre più teso il lettore è catapultato verso la sentenza mentre registra in Traps una metamorfosi che dal divertito stupore iniziale lo conduce al pieno assolvimento del suo compito del perfetto imputato: egli ha certo una colpa, non era affatto consapevole, e solo in virtù di essa e della relativa idea di giustizia può avviarsi alla giusta espiazione capace di infondere senso al suo vissuto.
Magistrale racconto che cova nell’assurdo il caos della vita.
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Il convitato di pietra
La nota arguzia verbale di Busi compie una acrobazia narrativa e inscena un’improbabile cena durante la quale lui, nei panni della guest star, attempata e sfiancata da una prostata capricciosa che lo obbliga a frequenti passaggi in bagno, apre bocca e tiene banco, in maniera sconcia e irriverente.
Ma chi ha voluto presso sé questo scomodo convitato di pietra?
“… a cenar teco m’ invitasti/ e io son venuto…”
Un ricco signore della buona società, uno con i soldi, uno con tanta gente che gli gira attorno, uno con tanto da coprire nel pubblico e nel privato, uno che attira a sé tutto ciò che sta stretto a Busi, un pretesto perfetto per sparare a zero tutte le sue idiosincrasie. Contro il mondo e tutti i suoi mali – in dimensione prettamente italica- che di riflesso, citando in esergo Parini de “La salubrità dell’aria” (“Stolto! E mirar non vuoi/ne’ comun danni i tuoi”) diventano i nostri. Processi migratori, leggi retroattive, lavoro nero, sistema contributivo, classe politica e relativa legge elettorale, editoria, bufale o fake news, mafie e clientelismo con l’intramontabile sistema delle raccomandazioni, omofobia diffusa e le banche e il loro sistema che regge il sistema… Non mancano anche personali considerazioni sulla politica europea, l’indipendentismo catalano, e un improbabile tour per mete poco raccomandabili per gli scenari che le caratterizzano. Non mi trova sempre d’accordo ma questo poco importa come il mio gusto a tratti offeso e risentito per i toni che gli sono usuali ma che l’invettiva della sua parola gli perdona facendomelo apparire come una voce che nonostante tutto è meglio sentire.
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Fifa blu ovvero la vita davanti a sè
“Mi sono fermato davanti a un cinema, ma era un film vietato ai minori. C’è perfino da ridere quando si pensa alle cose che sono vietate ai minori e a tutte le altre a cui hanno diritto”.
Ha da poco scoperto, Momò, il protagonista e disincantata voce narrante di questa storia, di avere quattordici anni, non dieci e di essere dunque, di colpo, invecchiato di quattro. È tutto tranne che un bambino o un minore. È un piccolo essere vivente che gode di molti diritti: quello di non avere una vera famiglia di riferimento o di essere immerso in una quotidianità indecente, o ancora di essere esposto al vissuto degli adulti presso i quali vive, ai margini del buoncostume o meglio dentro la peggior indecenza possibile. È tra i piccoli ospiti, talvolta assai numerosi, gestiti da un’anziana meretrice che li tiene in custodia a pagamento per conto delle madri impegnate nel mestiere. È arabo ed è allevato come loro da Madame Rose che invece è ebrea, scampata allo sterminio e ancora atterrita dalla famosa retata del velodromo.
È il più grande degli ospiti e quello al quale Madame Rose si è più affezionata, rimane l’unico quando le sue condizioni di salute precipitano in seguito al suo naturale processo di invecchiamento. Eppure non sarà mai solo, Belleville, il quartiere parigino nella periferia orientale della città, popoloso e multietnico, riporta nel mondo occidentale ciò che non c’è più: la rete di solidarietà del vicinato che sente, vive e condivide la sofferenza altrui. Spesso Momò lascia il suo mondo e si affaccia nei quartieri alti, dimenticando quel triste sesto piano del suo palazzo e tutta l’umanità che vi gravita attorno, ai limiti del buoncostume, ma dentro il sentire umano, quello che concede solo amore.
È dunque circondato da tanta umanità, tanto amore, oltre le leggi della natura, oltre le leggi del vivere civile, oltre le costrizioni e le regole in un mondo che le sue incursioni nella Parigi bene rivelano appunto sproporzionato nella distribuzione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto. Tramite Momò, disincantato e consapevole osservatore, conosciamo il pensiero dell’autore teso a far percepire con le sue opere questo inaccettabile dolore della vita, incapace di far godere a tutti un po’ di felicità. Molti dei pensieri toccano tematiche che sono tuttora di grande attualità quali il diritto all’eutanasia, l’aborto, la vecchiaia e la solitudine per citarne solo alcuni, temi che fanno apprezzare la modernità di questo romanzo con il quale R. Gary ricevette, all’ombra della sua decadenza, il secondo impossibile Premio Goncourt nel 1975, usando lo pseudonimo di Émile Ajar. Solo con la pubblicazione postuma di Vie et mort d’Emile Ajar si seppe con certezza quanto in tanti, negli ambienti editoriali, avevano da tempo comunque sospettato.
Primo approccio con l’autore che mi incuriosisce molto e per la vicenda biografica e per la produzione, romanzo scorrevole e originale nello stile, perfetto calco del vissuto rappresentato, a tratti amaro e disturbante, capace comunque di regalare una singolare storia d’amore filiale nutrendosi di una giusta e sentita ispirazione al sociale.
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LA BRECCIA
Ci sono alcuni libri che hanno la capacità di toccare, sfiorandole appena, alcune corde dell’animo e di farle vibrare in modo quasi impercettibile, eppure il moto che provocano ha un effetto profondo che acquistando vigore imprime un indelebile ricordo. Sono i libri che emozionano; questo è uno di essi. Da tempo non mi capitava di piangere in seguito ad una lettura ed è stato un pianto liberatorio e necessario tale la tensione che pagina dopo pagina si era accumulata.
È una storia di reciproca e faticosa accettazione di due donne: una scrittrice e una donna tuttofare che anima un quartiere di Pest, essendone il punto di riferimento per molti dei suoi abitanti, e che ora diventa l’aiuto domestico anche della prima. I loro mondi sono opposti, non tanto per collocazione sociale, quanto soprattutto per predisposizione d’animo, per capacità di donarsi agli altri e per la qualità delle relazioni che riescono a intessere nella loro quotidianità. A prima vista parrebbe che la scrittrice sia colei che riesce meglio a stare al mondo, progressivamente il lettore ne conoscerà le più intime debolezze intrise di egoismo, quello che ti difende dai dolori, mentre Emerenc è abilmente strutturata come un personaggio scorbutico, ricco di fisime, impenetrabile e a tratti insopportabile. Di lei, aperta al mondo ma con un’abitazione inaccessibile a tutti, ne tiene sempre chiusa la porta, si sveleranno nel corso della narrazione gli insondabili misteri dell’animo di cui la casa è simbolo e metafora.
La casa, inaccessibile anche ai parenti, è il fulcro della sua intimità e della sua essenza, aprirla significherebbe accettare di darsi completamente agli altri: non sempre è utile e proficuo farlo, altre volte risulta dannoso per se stessi e per esperienza si preferisce gestire le relazioni in modo meno convenzionale. Emerenc sa ciò che è bene per lei, quello che ignora è però che nessuno sfugge alle relazioni sociali e alle loro maglie e che dentro di esse, seppur molto intricate, si può trovare chi davvero capisce la tua essenza facendone sostanza oltre le apparenze.
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Che vita!
A settantasette anni da Losanna Simenon si racconta, ripercorrendo la sua intensa vita con un criterio cronologico, faticosamente perseguito, il quale spesso lascia il primato a una pura cronologia affettiva. Le vicende della sua esistenza sono infatti scandite dagli eventi che riempiono l’universo emotivo dei più: i rapporti d’amore, di amicizia, i matrimoni, la nascita dei figli. Sarebbe una lettura banale se non avessimo tra le mani i secondi, i minuti, le ore, i giorni, le notti, gli anni, i decenni che non solo hanno riempito la sua esistenza ma anche, di riflesso, quelle di chi ha percorso il secolo con lui, nato nel 1903 e morto nel 1989, o una porzione di esso. La vita sociale del secolo si riflette infatti nel suo vissuto così come l’evoluzione dei tempi, la sua vicenda esistenziale si intreccia con quella di uomini e donne che hanno caratterizzato l’epoca da Chaplin a Renoir, solo per citarne due, o con gli eventi storici, dai due grandi conflitti mondiali, all’antisemitismo, dal processo migratorio in America fino all’allunaggio o ancora con semplici fatti di costume, il passaggio per esempio dall’uso dei transatlantici all’aereo per gli spostamenti intercontinentali. La narrazione prende l’avvio dai natali in Belgio e ci conduce agli esordi come scrittore a ritmi insostenibili, già allora, da chiunque: otto racconti al giorno per confermarsi poi come uno dei più prolifici autori di tutti i tempi. Il tempo, il suo personale di scrittura, un’inezia rispetto a quello a disposizione nell’arco di una giornata: le prime ore dall’alba fino alle nove del mattino per poi dedicarsi alla vita. Viaggi, vacanze, vita sociale, famiglia, ma anche quotidiane incombenze da semplice padre di famiglia, un’esistenza errabonda a cavallo di Europa e America, dopo aver percorso tutti i continenti dai poli all’equatore. Una geografia facilmente rintracciabile nei suoi romanzi duri. Ancora una miriade di interessi coltivati con grande passione, su tutte la medicina perché il medico ha in comune lo stesso interesse per l’uomo che prova lui. La narrazione è caratterizzata al contempo da un sentimento intimo che accompagna spesso il ricordo non solo di gioie ma anche di grandi dolori: su tutti i più devastanti risultano essere il conflittuale rapporto con la seconda moglie D. e la morte da suicida della figlia Marie-Jo. Mai comunque livore alcuno accompagna il ricordo, affiorano invece dispiacere e delusione. Un piacere per il lettore delle sue opere sono poi i continui riferimenti alla sua produzione e la precisa collocazione temporale del processo di scrittura per ognuno dei suoi romanzi; peccato però che, a detta dello stesso Simenon, non ci sia alcuna corrispondenza tra biografia e opere. Il voluminoso scritto che supera le mille pagine è infine chiuso da altre duecento, una raccolta di scritti della figlia alla quale il padre rende omaggio pubblicando “Il libro di Marie- Jo”: componimenti infantili, canzoni, missive la cui lettura ho personalmente evitato. Biografia dunque consigliata non solo ai lettori del belga ma a tutti.
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LO SPECCHIO DEI TEMPI
Sdegno, rabbia, orgoglio, ferocia ed energia. Giovinezza e ambizione. Il mito napoleonico irripetibile e non più imitabile, un contesto sociale ostile, classista e irraggiungibile, fatto di privilegi e di privilegiati. Una Francia all’ombra della seconda Rivoluzione.
La storia di una scalata sociale? La storia di un fallimento? L’emblema di un’epoca? Chi è Julien Sorel? L’ideale che si scontra con il reale? L’ipocrisia fatta persona? Uno squarcio anacronistico nella storia?
Difficile rispondere. Basti questo: un personaggio memorabile che si imprime nell’immaginario del lettore a dispetto di qualche sgambetto sornione che gli tende il suo autore. La materia di un romanzo complesso che tra il serio e il faceto restituisce un’epoca ai suoi contemporanei, in tempi non facilissimi.
Un universo complesso e mutevole, difficile da decifrare ma che Stendhal ha riproposto con realismo disarmante, con gradevole ironia, attingendo da diversi moduli narrativi: romanzo politico, romanzo storico, romanzo psicologico con a capo un plebeo ribelle, un fallito dongiovanni, lo specchio dei tempi che vive come il romanzo che lo rappresenta: “Eh, signori, un romanzo è uno specchio che viene trasportato lungo una strada maestra. Ora vi rimanda l’azzurro del cielo, ora il fango dei pantani…”
Infine, la storia di una vita, eroica e disperata, ricca e vacua, un’eterna dicotomia, un oscillare opportunista tra il rosso e il nero in un esempio perfetto di mirabile trasformismo che si risolve nell’autodistruzione.
Un libro sempre attuale. Da leggere.
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UN UNIVERSO DI VOCI
È tra gli scrittori europei più importanti del nostro tempo, è il portoghese Lobo Antunes e ha scritto il presente romanzo nel 2012; esso appare ora nella collana “I Narratori” della Feltrinelli.
Si tratta di un’opera divisa in tre grandi sezioni, composte da dieci capitoli ognuna, dedicate rispettivamente ad un venerdì, un sabato e una domenica dell’agosto del 2011. Ogni sezione termina con un cambio di “voce narrante”- laddove in realtà non c’è narratore- con lo scopo di modificare il punto di vista e di migliorare al contempo la comprensione della vicenda. Ed è questo l’aspetto più conturbante della scrittura, per molto tempo non si riesce a capire che cosa si sta leggendo; non c’è narrazione o meglio non c’è il classico narratore che ci mette a parte di una storia, eppure vicenda e narrazione ci sono. Esse vengono a galla costituendosi progressivamente grazie ad un lungo flusso di coscienza , discontinuo, difficile, tratteggiato da una punteggiatura originale ( Saramago, a questo punto, di più facile fruibilità) e, se non bastasse, intervallato ripetutamente dalle voci del passato. Una narrazione sincopata, disturbata, ma soprattutto voci, frasi, motivi ricorrenti che vi si inseriscono concorrendo a delineare i vari personaggi che puntellano la storia. È un universo familiare racchiuso nella mente della protagonista, una donna cinquantaduenne che torna nella casa al mare per venderla e da essa congedarsi, tentando al contempo di dare una giusta collocazione soprattutto al suo personale vissuto trascorso in quella casa e di riflesso al resto della sua esistenza. Lei bambina, orecchini da principessa e petali alle unghie, lei e la sua amica; loro, così diverse per estrazione sociale, lei gentaglia: un padre alcolizzato, una madre irrisolta, tre fratelli; il maggiore reduce dall’Angola, perso in seguito alla guerra nel suo straniamento, un fratello suicida, un altro, il piccolo, sordomuto, frutto di una relazione extraconiugale. Parlano in molti: la madre, il padre, il marito, i fratelli, la nonna, il nonno, la vicina d’ombrellone; questa coralità frammentata è l’essenza della vita della donna.
Ed è condivisibile la tesi di fondo o almeno quella che io vi ho scorto, ricordo che l’autore è uno psichiatra ormai dedito alla scrittura, siamo un io frantumato in una miriade di voci, di frasi, di parole che ci sono state rivolte ed che hanno veicolato fin dalla nostra infanzia una serie di messaggi aperti in un ampio ventaglio dal linguaggio dell’amore fino a quello della riprovazione. Dentro questo ampio spettro si sono poi insinuate tutte quelle parole che abbiamo solo percepito in un contesto di conversazione che non ci vedeva gli immediati destinatari dei messaggi; eppure essi si sono insinuati in noi, hanno concorso a formare la nostra lettura della realtà, hanno giudicato, inveito, pianto.
Primo approccio con Lobo Antunes, nonostante l’estrema difficoltà di lettura riscontrata non posso che riconoscere l’abilità dello scrittore che ha saputo efficacemente alienarmi dalla parola scritta, regalandomi comunque una storia e delle interessanti suggestioni.
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Una sporcizia insanabile
Una donna giunge in una bettola. L’ abbigliamento stride con il locale, abiti di eccellente taglio addosso e calze smagliate a testimoniare uno strappo evidente. Che ci fa in compagnia di quel dottore tossicomane, sposato, noto al resto dei disadattati che frequentano un improbabile cenacolo di campagna, lì a Versailles? Estrema periferia del mondo parigino: luogo che accoglie e perdona e forse offre un’altra opportunità…
È già in evidente stato di ebbrezza, Laure la salva dalle grinfie del medico e la fagocita nelle stanze del suo albergo, da quando è vedova ha lasciato l’alto mondo signorile dove torna di quando in quando, al momento la nuova vita le è più congeniale. Mentre assistiamo al recupero (?) di Betty, veniamo gradualmente messi a parte dell’antefatto, non solo le ultime tre notti fuori casa, dal fattaccio, ma tutta la sua esistenza, trent’anni appena.
In una eccellente ambientazione claustrofobica, impreziosita dalla descrizione dei deliri dovuti all’abuso di alcol, col ritmo martellante di pensieri sconnessi e iperbolici, con proiezioni che frammischiano vissuto, sogni e identità, con un alternare presente e passato, formuliamo ipotesi di sviluppo della vicenda e prendiamo atto della sua evoluzione che altro non è se non l’ennesimo schiaffo duro dell’abile belga. All’aria finzioni sociali e perbenismo, maschere e ruoli, qui si pareggiano i conti : ognuno sia quel che è!
Gradevole e veloce lettura, a tratti spiazzante per l’intreccio narrativo che potrebbe tranquillamente e in qualsivoglia riga prendere un andamento diverso, come la vita appunto; qui è il trionfo della volontà e perfino, sul finire, della sincerità … che poi non vadano di pari passo con la perfezione e l’ipocrita morale del modello borghese è tutta un’altra storia.
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MONDI LONTANI
In un mondo lontano, ancora troppo in simbiosi con la sua appartenenza geografica, nella sperduta contea di Värmland, in Svezia, la tradizione incontra e forse accoglie l’innovazione per rimanere ancorata alla sua appartenenza culturale e da essa venire schiacciata, aspettando un domani forse più promettente. A niente è valso l’arrivo di una giovane americana che scuote gli animi e li coinvolge in un progetto collettivo: orchestrare da dilettanti “L’Oratorio di Natale” di Bach; lei muore alla vigilia del concerto preparato da un decennio. Con la sua morte si infrange la speranza di un cambiamento e tutto involve per tornare quella situazione di partenza che è una sorta di fatalistica accettazione del luogo dove si è stati gettati a vivere. Aron, il marito , è il primo a spogliarsi di quella nuova identità che aveva con lei faticosamente costruito; solo si sente perso e nulla pare più appartenergli: né la casa in campagna, né la sua faticosa gestione, né i figli. Sidner e Eva- Liisa che crescono dunque, a loro volta, risucchiati da questa involuzione. Eppure il loro è un destino di crescita, per naturalezza almeno cronologica; il rischio è quello di dover subire un destino amaro. La narrazione segue il percorso di Sidner e solo a tratti fa riferimento a Eva- Liisa la quale, per il fatto di essere appena una bambina all’epoca dell’incidente della madre, è meno esposta al devastante dolore. Esso si insinua invece, prepotente in Aron, il padre, e di riflesso nel figlio, Sidner. Per entrambi si creeranno delle prospettive di redenzione ma entrambe verranno disattese pagando lo scotto della propria e dell’altrui follia. Il dolore questo ha generato: visioni, proiezioni, giustapposizioni improbabili e speranza di rinascita. Ogni volta che si spera in un attimo di felicità questo svanisce producendo sgomento e dispiacere, assenza e perdita, e in ultimo rinnovato dolore. Lo stesso contesto sociale nel quale sono inserite queste focalizzazioni individuali non è da meglio: tutti soffrono, tutti hanno un’interiorità complessa o disturbata, la follia aleggia nelle strade deserte e silenziose, dentro le abitazioni, nei luoghi di incontro, è parte integrante della vita e non viene scansata né negata. Ci si abitua a una realtà complessa e si tenta, in alcuni casi, di allontanarsene alla ricerca di un’identità che non ne può però prescindere. Il romanzo è particolare non solo nella trama ma anche nella struttura che gli regala una certa complessità intrigante rispetto a formule narrative più convenzionale, è inoltre ammantato di un accento onirico e a tratti surreali, funzionale alla vena matta che lo percorre. È un buon libro per niente piacevole.
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TRA AMICI
Apparsa per la prima volta nel 1994, quest’opera si basa su un dattiloscritto facente parte del Lascito dell’autore, morto a New York nel 1976, ormai dimenticato. Si presenta come una biografia di Roth ma sfocia , e in questo il sottotitolo “Ricordi” anticipa, in un disegno più ampio che va a collimare con la stessa esistenza di Morgenstern e insieme a lui con il ritratto di un’epoca. Insomma ci si ritrova a soddisfare la curiosità primaria rivolta a Roth e contemporaneamente, almeno nel mio caso, a scoprire l’interessante figura di Morgenstern. Egli scrive in qualità di amico, quello che fu per Roth durante la sua breve , ma non incompiuta, esistenza.
Non si tratta di un’amicizia facile né tantomeno edulcorata, anzi è un rapporto che matura nel tempo, nato in maniera fortuita, esacerbato da sostanziali differenze etiche e morali, dalla condotta di vita, in cui l’unico collante è il medesimo destino storico: essere originari della Galizia, sudditi della vecchia Austria, novelli polacchi poi cittadini della nuova Austria per subire l’infausto destino di divenire dei profughi, rifugiati dapprima a Parigi, lì Roth morì, e poi in America.
“Essere amico di un uomo per tutta la vita significa aver mangiato insieme a lui un sacco colmo di sale”, questo ribadisce Morgenstern a più riprese nello scritto, quasi a sottolineare la fatica che gli costò questa amicizia messa a dura prova dalle differenze sostanziali fra i due, dalla personalità di Roth estremamente istrionica, a tratti infantile e complessa . Basti pensare che questo caro amico ha rivisitato più volte i suoi cenni biografici, in vita, modificando di volta in volta il luogo di nascita, l’identità paterna ed è arrivato perfino a tacere la morte della moglie, schizofrenica, della quale diceva di essere ancora il maggiore sostentatore , soprattutto delle sue cure psichiatriche. Non bastasse questo, il rapporto è stato devastato dall’etilismo di Roth a cui Morgenstern dedica numerose pagine, dal suo lento insorgere fino alle crisi più acute intervallate da qualche timido tentativo di disintossicazione. Diventa impossibile per lo stesso amico scindere la persona dall’alcolizzato e dallo scrittore; emerge quasi una sorta di predestinazione alla dipendenza da alcool: l’unica possibilità che Roth si diede per non soccombere alla costante ricerca della sua identità minata dall’assenza della figura paterna, per non farsi schiacciare dal suo tempo storico e dalla perdita dei suoi ideali, per sopportare il costante stato di fuga al quale si era votato. Una vita sotto i riflettori, da giovane l’esperienza militare (mentì clamorosamente anche su quella restituendo il suo grado di sottotenente dopo l’invasione dell’Austria!), poi l’esperienza di giornalista inviato in diversi territori, le prime pubblicazioni in qualità di romanziere, seguito e acclamato in vita, costantemente in debito con qualcuno ma mai senza soldi, ai quali non attribuiva alcuna importanza, circondato da profughi, lavorava e beveva alla luce del sole facendo degli alberghi e delle loro sale di lettura, la sua dimora, il suo studio, la sua sala di ricevimento. Convinto monarchico lavorò affinché potesse essere restaurato l’impero affiliandosi agli indispensabili cattolici che riuscirono infine a impossessarsi delle sue spoglie, dopo la morte in ospedale per presunta polmonite, e a seppellirlo con rito cattolico, lui nemmeno battezzato.
Le memorie sono ricche e corpose e sono preziose per la restituzione del tempo storico che le caratterizzò, io mi sono soffermata sulla figura di Roth, in realtà si legge tanto anche di Zweig, Musil e Kraus; ci sono puntuali riferimenti alla storia dell’Austria dell’intermezzo fino all’Anschluss, sono ben evidenziate le differenti posizioni ideologiche dei tre amici ; ai due di cui sopra occorre aggiungere il troppo pacifista e privilegiato Zweig, a detta di Roth. Ad arricchire la narrazione anche le curiosità circa la genesi dei romanzi più noti del nostro, con qualche curiosità rispetto al combaciare di alcuni personaggi con le persone che gravitarono intorno a lui e in ultimo una lettura circostanziata de “La leggenda del santo bevitore” che si vedrà non può affatto prescindere da questa biografia appena gustata. Su tutto, amichevole e impietoso il giudizio di Morgestein che reputava Roth un brillante giornalista e non un brillante romanziere, capace solo di magistrali descrizioni ma lontano dall’essere un narratore organico. Il volume, arricchito da un sostanzioso apparato di note, si chiude con uno scritto di Ingolf Scultz: “Soma Morgenstein. L’autore come sopravvissuto” , indispensabile e prezioso per capire questo autore di cui Adelphi promette nuove pubblicazioni.
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La storia come espressione del nulla?
Come la nebbia diradandosi permette di mettere a fuoco i contorni di un paesaggio e di farlo apparire ai nostri occhi per l’oggettiva bellezza che gli è propria e che, fino a qualche minuto prima, pareva inimmaginabile, così il romanzo di Vassalli squarcia la dimenticanza e fa affiorare un vissuto particolare perso nella Storia. Il sole dirada la nebbia e restituisce la visione del Monte Rosa, la scrittura, unita all’indagine storiografica, precisa e puntuale, riporta in vita uno scorcio di primo Seicento, di cui oggi non è rimasta traccia visibile ma solo documenti scritti. Lo storico riesuma la storia , lo scrittore la romanza e la ammanta di una personale visione, dura come la constatazione dell’assoluta assenza di Dio. La storia è quella di una comunità intera, Zardino, paese della bassa novarese e con essa di Antonia, giovane esposta, adottata da una famiglia del piccolo borgo e condannata al rogo in qualità di strega. Un ventennio appena , quello contenuto fra il 1590 e 1610, per ritrarre una singola esistenza e con essa un’epoca , nel tentativo, ben chiarito dall’autore, di sopprimere il chiassoso presente echeggiante di voci individuali ed egoistiche, rumoroso e inutile, cercando una verità nella storia del passato. A lettura ultimata, il congedo però richiama ancora quel nulla della premessa in una costatazione amara e feroce : tutto è finito, non c’è verità, non c’è niente, niente; le pagine della storia, rumorose e crudeli si aprono e si chiudono con assordante disinvoltura che evolve poi nel nulla silenzioso.
L’approccio al romanzo è stato molto positivo proprio per la potenza della sua premessa che è di una bellezza nostalgica e poetica, l’avvio della vicenda interessante anche se progressivamente ha perso di interesse ai miei occhi ai quali, prepotente, si affacciava il modello manzoniano. Delusa forse dalla mancata caratterizzazione della giovane Antonia, a tratti venendo rapita dalla descrizione d’ambiente, ho attraversato fasi di interesse vivo, alternate a fasi di stanca e di piatta assoluta. Quando, infine , la vicenda particolare di Antonia si è imposta prepotente, con la narrazione del processo, della carcerazione, della condanna e del rogo, ho goduto pienamente di questa lettura.
Non dico di essere ancorata al modello provvidenziale del Manzoni nella visione della storia ma questa veduta nichilista mi ha deluso e fatto rimpiangere l’ironia manzoniana sorniona e utile ad alleggerire la finitezza del mondo e dell’uomo. Ho bisogno inoltre di proiettare, come dice Vassalli, la mia immagine e tutto il mio essere in quel buio che non posso associare al nulla.
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Giustizia!?
Chiaro e lineare e conturbante; senza l’epilogo mi avrebbe posto nell’imbarazzo di chi generalmente non capisce i gialli, pur sforzandosi con tutto il suo essere di carpirne la logica che li sorregge. Posso trionfalmente asserire che ho capito chi è l’assassino! Grazie Agatha per la gentile concessione.
Tolto questo peso, esprimerò alcune considerazioni in merito alla piacevolezza: sono infatti perfettamente consapevole di essere stata finora tra quei pochi che non conoscono la trama nel dettaglio; rispetto però i superstiti e non ne parlo.
Il romanzo si legge velocemente e ha un ritmo serrato, a spirale, che echeggia il dipanarsi dell’extratesto sul quale è basata la trama: la filastrocca. Tende a morire col suo naturale evolversi in un ritmo decrescente da dieci a zero. Questo ritmo, purtroppo, non lascia spazio a nessuna introspezione psicologica e allora quando, all’inizio, muore la governante della villa rimango interdetta dalla mancata reazione emotiva del marito che continua tranquillamente ad assolvere le sue funzioni volte a garantire la massima ospitalità a nome del misterioso padrone della villa. Successivamente questa sbavatura viene brillantemente oscurata dalla maestria con la quale la scrittrice riesce ad alimentare un crescendo di tensioni, di paura, di sospetto fino a giungere al tutti contro tutti , pertanto l’ombra svanisce e mi rimane un giudizio finale che all’opposto riconosce proprio ciò che misconosceva.
La trama è inoltre basata su uno spunto riflessivo che mi intriga e che altri autori da me apprezzati hanno, con mezzi e fortune diverse, percorso: il valore della giustizia terrena, la sua imprecisione, la sua finitezza, la sua assurda fallibilità. E allora a catena si va a indagare gli spettri nei vissuti e nelle coscienze altrui, di quelle persone che per circostante fortuite e casuali riescono ad eluderla, la giustizia. Emerge infine la figura di un giustiziere che altro non può essere se non un pazzo, mitomane e pure narciso. Buona lettura.
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Sciascia
Intimismo
Romanzo intimista in forma di lunga epistola, testimonia il percorso di una lotta vana contro il perbenismo per evitare di sfilacciare un mondo di relazioni che impedisce all’omosessualità di palesarsi senza remore e senza tema di sentirsi, per questo, rifiutati. A parlare è un giovane nato e cresciuto all’ombra della Montagna Bianca, in una città, Presburgo, oggi corrispondente sulle carte a Bratislava, città all’epoca dei fatti narrati coinvolta nello sfacelo dell’impero austro- ungarico. Parte della vicenda si svolge anche a Vienna e racchiude, complessivamente, il primo tentennio del XX secolo. Alexis nella missiva si rivolge alla moglie e le confessa la sua inclinazione omosessuale, le spiega come essa fosse stata da lui sempre avvertita e di come sia stata vissuta, prima del matrimonio, senza compromettere i legami familiari e le apparenze sociali. Le scrive dopo averla già abbandonata.
Esordio narrativo della Yourcenar apparso nel 1929, ha il merito di aver trattato in modo esplicito un tema che all’epoca risultava ancora un tabù; quando agli inizi degli anni ’60 lo riprese in mano, l’autrice, pur essendo consapevole del mutato quadro sociale, non apportò nessuna modifica, ritenendo l’opera di per sé sigillata nel tempo che la vide nascere. Devo ammettere che per tutta la lettura ho pensato che gli intimi tormenti del giovane Alexis non siano poi diversi da chi sta maturando e costruendo la sua ricerca d’identità e che di conseguenza trascende tranquillamente la stessa tematica principale. L’opera risente inoltre di illustri influssi, dichiarati dalla stessa autrice e rintracciabili in Gide e in Rilke che lei, giovane ventiquattrenne , leggeva e il cui debito è da ravvisare nell’appartenenza alla medesima epoca più che alla tematica trattata.
Complessivamente piacevole e già maturo stilisticamente.
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Compendio di una vita da insegnante
Eraldo Affinati in questo nuovo romanzo pare fare i conti con se stesso.
Si ferma un attimo- lui attivissimo nella pratica didattica come insegnante di letteratura e fondatore della scuola gratuita per immigrati “Penny Wirton” , oltre che studioso di storia e instancabile viaggiatore alla ricerca delle proprie radici e di quelle di tutti noi attraverso il percorso dei luoghi storici dei grandi eventi e dei luoghi biografici dei grandi letterati- e riflette.
Richiama alla mente ventisei nomi, non solo ex allievi ma attraverso loro un esercito di altri individui, e così facendo gli dà la parola per poter richiamare il loro vissuto personale, offrendogli una capacità espressiva che in realtà non hanno mai raggiunto ma che è necessaria per rendere a noi italiani chiari i loro vissuti.
Si tratta di storie di guerra, di povertà, di miseria, di prostituzione, di viaggi della speranza, di ricostruzione, di devianza e talvolta di morte. La lettura risulterebbe davvero pesante se non fosse stata inserita da Affinati la figura di Ottavio, suo ex allievo, il quale parlando solo in romanesco, smorza i toni, livella la realtà e dà qualche dritta al professore idealista che pare faticare ancora ad accettare le storture del reale. Egli dal canto suo è consapevole che il mondo non lo può cambiare ma sa anche che può sicuramente modificare la traiettoria di qualche vissuto individuale, agendo, dando una possibilità, comprendendo, aiutando, testimoniando anche in modo autoreferenziale la propria attività se poi da ciò deriva l’innesto per altre possibilità, per altri aiuti, per altre comprensioni, ampliando di volta in volta il numero di scuole e di volontari che aiutano i giovani immigrati.
La lettura è gradevole, l’esperienza raccontata forte ed esemplare. Consiglio la lettura a chi ancora fatica ad accettare i nuovi scenari sociali che vanno via via delineandosi in seguito all’intensificarsi dei flussi migratori per comprendere le ragioni umane che stanno dietro queste decisioni : sono tutto tranne che scelte.
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Se tuto gnènt
Se tuto gnènt ( è tutto niente) sono queste le parole di un uomo, Mario Rigoni Stern che, ormai prossimo alla morte, redarguiva la moglie la quale tentava di tenere viva la fiammella della vita mostrandogli le copertine per le nuove edizioni delle sue opere. Queste parole vengono prese in prestito da Mauro Corona che, dialogando con Luigi Maieron, altro friulano dedito però alla musica, le usa per sintetizzare una filosofia di vita, raggiunta faticosamente e ancora in divenire, in questo lavoro editoriale che altro non fa se non cristallizzare una buona chiacchierata con un amico.
E di cosa si può parlare con un amico se non delle proprie comuni radici? Per poi arrivare pian piano a parlare delle nostre esperienze di vita a partire dal ruolo avuto dai nostri genitori, del nostro carattere, delle storie che abbiamo sentito e di cui ci siamo nutriti, o ancora della Storia che si è affacciata alla nostra storia minima e immancabilmente della nostra terra.
Veniamo così a conoscere due vissuti interessanti che si intrecciano con la storia locale coprendo l’arco temporale di due generazioni per assistere al deturpamento della bellezza montana, al lento declinare di saldi principi morali che aiutavano i giovani a venir su senza tante lagne e poi, da adulti a stare in piedi, senza tacere però le brutture che caratterizzavano quella società patriarcale e violenta, in molti casi. Si inneggia ai sogni , al valore della vulnerabilità, a quella che attualmente chiamiamo intelligenza emotiva, alla lealtà, alla libertà, all’essenzialità e all’ appartenenza sociale, chimere oggi in un mondo che pare avviarsi in direzione opposta.
Le pagine scorrono veloci e in alcuni tratti ripetitive per cui si rischia prima della metà di perdere interesse nei loro confronti, in ogni caso si prosegue con la curiosità di sapere se ci sarà qualche altro gustoso aneddoto che potrà ridestarci. Così avviene, fra alti e bassi. Piacevole e scorrevole, nulla di più.
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INSTACABILE TESTIMONE
È notizia di questi giorni la nomina a senatrice a vita di Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz e da quasi trent’anni instancabile testimone pubblica della Shoah. Lo è diventata quando in lei è maturata l’esigenza profonda di condividere la sua esperienza, prima aveva taciuto ma ovvio dirlo mai rimosso. Era ormai una donna adulta, una sessantenne, una famiglia felice a coronare la sua tranquillità. E proprio in quel momento ha deciso di muoversi, di visitare una scuola una volta alla settimana, dapprima proponendosi lei alle istituzioni e poi gradualmente venendo così invasa dalle richieste da dover diventare selettiva, nel numero degli ascoltatori (il maggiore possibile), nelle motivazioni dell’invito ma soprattutto nella predisposizione necessaria per vivere un’esperienza del genere. Nessuna superficialità o mediocrità tollerabili. Serietà e compostezza dovute ad una persona che racconta un vissuto unico col solo intento di pagare il debito verso chi dai lager non è mai tornato e passare il testimone alle nuove generazioni, per ricordare, per non dimenticare, per rendere tutti meglio consapevoli del proprio vissuto, qualunque esso sia. La sua decisione è ben argomentata nella seconda sezione di questo libro e devo dire che mi ha profondamente scossa conoscere la genesi, l’origine di un così nobile intento e tutte le difficoltà che esso comporta, compresa la distanza che si viene a creare, paradossalmente, con i propri cari, con le persone più intime, salvo scoprire che in realtà loro, marito e figli, quello hanno indirettamente respirato, ogni giorno, nutrendosene e arricchendosi mentre lei cercava di proteggerli. La prima parte è invece il doloroso resoconto di un’infanzia rapita, deformata, mostruosamente deviata dall’esperienza delle limitazioni subite a causa delle leggi razziali, dal tentativo di fuga in Svizzera, dall’incarcerazione a San Vittore, dall’internamento nel campo di sterminio, dalla sua funzionale ed efficiente organizzazione, dalla sopravvivenza a tutto questo e dalla bulimica ripresa della vita, ancora più pericolosa. La normalità, la devianza, dentro tutto ciò che ti può distruggere, la sopravvivenza durante ma soprattutto dopo, nell’immediato e poi giorno dopo giorno a ricostruirti, a rieducarti e infine ad educare gli altri. La terza parte contiene infine una selezione di lettere inviate da chi ha sentito dal vivo la testimonianza della signora Segre, non solo ragazzi.
Consiglio vivamente la lettura a tutti ma in particolare ai ragazzi perché questo è il racconto di una ragazza e non c’è voce più potente per loro di quella di un loro coetaneo. Sapere che oggi ha ottantasette anni e che il nostro Presidente le ha conferito la nomina di senatrice a vita a mio parere è un motivo di orgoglio per la nostra Italia.
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La morte
Il segreto di via Saterna - Spiegazione dell’aldilà - Le canzoni di Orfi - Eura ritrovata .
Sono le quattro parti che compongono la trama di una narrazione atipica, didascalica come quella del fumetto, per sua natura semplice ed esplicativa, e di una manifestazione poetica e dunque estremamente sintetica ma complessa e articolata.
Si tratta di una serie di tavole che accompagnano e condensano, richiamando il mito di Orfeo e di Euridice, un universo poetico, quello buzzatiano, originale, articolato, immaginifico, surreale.
Per immagini.
Atmosfere cupe, distorsioni della realtà, aberrazioni, misteri,sovrapposizioni, replicanti, linee curve, fitte rette, sederi abnormi, seni nudi e provocanti, dettagli, visioni d’insieme, verde, arancio, mattone, giallo, giallo ancora, arancione, rosa, bianco e nero.
Scale, girotondi, affollamenti, una giacca surreale, geometrie, prospettive.
Un calligramma.
Il babau.
Le montagne, le notti, Milano.
Gli incubi.
La realtà e la fantasia.Interni borghesi, erotismo trasudante.
Scorci cittadini, ingranaggi.
Puntinismo.
Per concetti.
Si muore. Punto.
Per chi ama Buzzati.
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Ad armi pari?
Rivisitazione in chiave ironica e dissacrante dei principali episodi biblici aventi per protagonista , trasversale nel tempo e nello spazio, l’emblema della cattiveria per eccellenza: Caino. A spasso per la Bibbia a comprovare una cattiveria ben più evidente , quella di Dio, per giungere infine al nulla assoluto originato da un epilogo nichilista che mette in scena un duello ad armi pari tra Dio e l’uomo.
La tesi di fondo dell’ormai attempato Premio Nobel è la vittoria del male sulla terra in una visione cupa e disperata che , sebbene celata da un’ironia sempre gradevole, impaurisce per la portata negativa che le è implicita. L’uomo è bene e male insieme, l’umanità un concentrato di male puro, il Dio a cui si rivolge un bizzarro e capriccioso giocoliere.
Da Adamo ed Eva in poi, con la cacciata dall’Eden, al fratricidio e alla conseguente condanna ad una vita raminga ma sotto la protezione divina, spaziando nello spazio ma soprattutto nel tempo vivendo episodi collocabili nel futuro, ci si ritrova a rivivere i principali episodi biblici nei quali Caino diventa però parte attiva, modificando il corso degli eventi senza che ciò sia più riferibile al misericordioso intervento divino. Ecco, mi pare che Saramago stavolta si sia spinto troppo oltre rispetto al precedente contenuto nella riscrittura dei Vangeli, era bello lì dubitare insieme a lui incapaci di capire la contraddizione insita in questa accozzaglia di bene e male che è l’uomo, che è il mondo, intuire la sua ricerca tutto sommato di un perché e forse della fede. Ma qui , a mio avviso si è spinto oltre, il finito usurpa l’infinito e due termini si annullano vicendevolmente. L’uomo si sostituisce a Dio e “la storia è finita, non ci sarà nient’altro da raccontare”. Benché più disturbante per me rispetto al “Vangelo secondo Gesù Cristo”: oltre misura la sua carica blasfema, gli riconosco ancora un’originalità stilistica ricalcante il modulo di punteggiatura che gli è consono, sebbene qui sia decisamente più fruibile e mai al limite della illeggibilità e della mancata comprensione, e un intento tuttavia nobile, seppur disperato e rassegnato, di farci riflettere sul nostro caos odierno. Esso non si nutre più delle iperboli narrative contenute in quella che è fondamentalmente una scrittura mitologica, va ahimè ben più oltre saziandosi ancora del sangue degli innocenti, dell’ingiustizia, della povertà in una dimensione certo che è stridente e difficile da accettare ma che spetta ancora all’uomo cambiare. Credo nell’uomo, non posso dubitare di Dio tanto meno metterli sullo stesso piano.
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La superiorità dell'artista
Successivo al romanzo “I Buddenbrook”, questo racconto lungo appartiene alla fase produttiva ricca e feconda, preparatoria peraltro del suo capolavoro, caratterizzata da racconti di evidente matrice autobiografica , romanzi e interventi di natura politica in un quadro storico culminante nel primo conflitto mondiale. Si tratta ad ogni modo di una connotazione autobiografica abilmente rivestita attraverso un registro letterario elevato che fa assurgere la materia privata a motivo di riflessione e sulla decadenza della classe borghese, come nel bellissimo suo romanzo precedente, e sul ruolo dell’individuo nella società. In particolare l’autoreferenzialità qui è rappresentata dal fatto che Il dissidio interiore di Tonio ricalca la vicenda privata dell’artista Mann. Gran parte del breve romanzo ruota intorno al binomio arte-vita, alla diversità dell’artista e al suo privilegio intellettuale, vissuto come condanna ma anche come altero motivo di orgoglio e di distinzione.
Tonio la sua alterità la contiene già nel nome dovuto ad una madre del sud, laddove la purezza dell’appartenenza al nord e ai suoi tratti distintivi, nei nomi e nelle fattezze fisiche, rappresenta di fatto un motivo di inserimento, di inclusione e di accettazione. E invece Tonio è diverso, nel nome, nell’aspetto fisico, nei comportamenti e nei pensieri e teme di esternare la sua vera essenza, almeno quella che si può mantenere celata, perché vive fin da giovane il sottile respingimento, alluso, mai diretto ma evidente, che fa di lui un diverso appunto. Al disfacimento della sua famiglia segue un cammino indipendente, staccandosi dal contesto di appartenenza e ricercando la sua affermazione individuale nell’attività artistica. E proprio l’arte lo fa vivere e gli nega la vita , lo afferma e lo condanna, lo nutre e lo annienta. Le pagine scorrono implacabili, pervase da un certo fatalismo in un itinerario che in fondo è la ricerca della propria essenza fatta di contraddizioni, come per tutti, di incertezze, di perplessità ma con una consapevolezza che rasenta l’altezzosità ; eppure questa alterigia di fondo la si sopporta di buon grado e la si soppesa con il tormento dell’artista su cui grava la maledizione della letteratura. Bello e utile a comprendere meglio questo genio della letteratura.
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Indipendenza ideologica
Candido è apparso nel 1977 a siglare la liberazione di Sciascia dall’ “attrazione” esercitata dal PCI su di lui in seguito anche alla constatazione della evidente flemma oppositrice del partito nel consiglio comunale palermitano. A questa disillusione, purtroppo non contingente, si affiancano così i perpetui crucci del nostro cantore di un tempo che, di fatto, non è ancora tramontato: quello della mediocrità, dell’assuefazione, della faciloneria, della furbizia, dell’eterna connivenza che è troppo comodo imputare solo alla mafia ma che fa parte della nostra piccola Italia. Riproponendo il modulo attinto dal Candido di Voltaire, si fa demiurgo di un novello Candido i cui natali vengono ascritti ad un piccolo mondo siciliano nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943 , quella dello sbarco, che avrebbe potuto liberare la Sicilia e l’Italia intera dall’oppressione fascista ma in generale dal suo malcostume. Così non sarà e Candido che andrà ad incarnare l’ideale intramontabile dell’onestà e della rettitudine si vedrà costretto in una dimensione familiare opposta. Un nonno che facilmente da fascista diventa antifascista e brillante candidato della Democrazia Cristiana, una madre superficiale ed egoista, un padre avvocato connivente col potere e costretto al suicidio per la lingua lunga del figlio che, dopo aver saggiato i vari gradi della mostruosità imputatigli dalla sua cerchia parentale , verrà dato per matto. Eppure l’esistenza di Candido, quando lo ritroviamo alla fine ormai trentaquattrenne pronto a stabilirsi in una Parigi sempre illuminata, illuminante e illuminista trova la sua definitiva affermazione, dopo aver candidamente appunto messo al palo un intero sistema, in quella distanza che non è solo geografica. Essa, infatti, permette di leggere la realtà del sogno fatto in Sicilia facendolo coincidere con la propria esistenza la quale ora può procedere ancora più liberamente sgravandosi del peso di tutti i padri del mondo, Voltaire compreso. Un inno all’indipendenza ideologica.
L’opera veloce e gradevole è in realtà molto più complessa e coglie le incongruenze de sistemi di pensiero che partendo da una data positività di fondo involvono in esperienze non sempre edificanti.
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Da leggere
Romanzo filosofico pubblicato nel 1759, mescola l’elemento fantastico con la riflessione filosofica. Trenta capitoli per ironizzare sulle filosofie ottimistiche e in particolare sul pensiero di Leibniz, il sostenitore dell’armonia dell’universo e della tesi che quello in cui viviamo sia il migliore dei mondi possibili nonostante l’esistenza del male dovuta all’imperfezione umana, male giustificato con l’idea che da un male individuale possa derivare un bene collettivo o che il male presente faccia derivare un bene futuro.
Candido, educato dal filosofo Pangloss alle teorie dell’ottimismo, pensa appunto di vivere nel migliore dei mondi possibili, fin quando una serie di peripezie non lo portano a scontrasi con il mondo e la realtà che sono invece dominati dal male: guerra, colonialismo, religioni, condizione della donna, chiesa. Una denuncia dei mali del mondo che si conclude con la massima “bisogna che lavoriamo nel nostro orto” a sottolineare che solo l’impegno personale nel quotidiano fa di noi degli uomini , veri cittadini del mondo, concorrenti a generare il benessere generale nonostante l’esistenza del male.
Perché leggere Candido?
Avrei una serie di motivazioni ma ognuno va a cercarsi la propria. Le mie sono queste. La prossima mia lettura sarà il Candido di Sciascia il quale tentò di sgravarsi della pesantezza del tempo che viveva e rappresentava riproducendo la velocità e la leggerezza del conte philosophique, era dunque necessario esperire l’originale. L’opera rappresenta inoltre un classico antologizzato in "Perché leggere i classici"di Calvino il quale risponde per me affermando che “leggere per la prima volta un grande libro in età matura è un piacere straordinario” che nasce dalla capacità di apprezzare maggiormente un testo rispetto alla giovinezza per via dell’esperienza del mondo e della lettura stessa di cui si è portatori e che, per le stesse ragioni, dona un sapore particolare alle riletture dei medesimi classici. Avrei inoltre la volontà di proseguire la lettura del testo di Calvino, insieme di brevi e preziosi saggi su testi classici avendone una conoscenza diretta della maggioranza fra quelli che tratta perché reputo inutile cimentarmi in uno studio critico senza conoscerne direttamente l’oggetto, consapevole del fatto che la lettura di un classico è lo scontro con una serie di resistenze (lettura impegnata, non fluida, costruzione di un sapere, ricerca) che tende a risolversi in una grande gioia e spesso, come suggerisce lo stesso Calvino, nel divertimento. Ecco Il Candido di Voltaire è l’esempio perfetto: una prosa veloce, chiara, lucida, una struttura snella, una trama rocambolesca fanno di questo testo una lettura piacevole e divertente. Se a questi elementi si unisce l’aspettativa di andare a compiere un giro del mondo in brevissimo tempo percorrendo continenti e avvenimenti storici di fine Settecento, utili a comprendere questo pazzo mondo, in un’ infinita serie di improbabili ma gustosissime agnizioni, allora penso che qualcuna delle mie motivazioni possa se non divenire la vostra almeno spingervi verso questo romanzo.
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La vera Anne
Il testo che mi appresto a recensire non è quello noto alla maggioranza dei lettori bensì l’edizione definitiva a cura di Mirjam Pressler approvata dall’ Anne Frank Fouds, curata per Einaudi da Frediano Sessi e contenente, fra l’altro, una prefazione di Eraldo Affinati, uno scritto di Natalia Ginzburg e in appendice un intervento dello stesso Sessi. Si tratta insomma di un testo ricchissimo di approfondimenti che permette di conoscere anche il contenuto dei nuovi fogli del diario, il ritrovamento dei quali nel 1998 produsse scalpore in tutto il mondo. Ritengo sia necessario e doveroso conoscere l’esito di questo lavoro che si pone come il più completo e fedele e che permette di evitare la lettura della complessa edizione critica. Il manoscritto, ovvero i manoscritti, sotto forma di diario, quaderni, fogli sparsi, sono stati nel tempo sottoposti a censure, tagli, revisioni che o per motivi strettamente personali ( quelli del padre Otto, unico superstite della famiglia e primo divulgatore del diario) o per motivi culturali ( quelli dei primi traduttori) ne hanno sicuramente snaturato il contenuto. La stessa prima revisione fu quella operata dalla sua autrice che, avendo sentito alla radio un appello il quale invitava a conservare tutte le testimonianze dell’orrendo periodo che si stava vivendo, e nutrendosi di aspirazioni letterarie pensò bene di limare il testo in vista di una sua futura pubblicazione. Insomma il diario così ricomposto assume oggi un altro significato soprattutto perché da esso emerge il vero ritratto della sua autrice. Ed è proprio questo che oggi farebbe felice Anna: la fedeltà alla sua identità. Sono felice dunque di avere fatto la sua conoscenza rimuovendo l’immagine triste che mi si era sedimentata nel cervello. Anna, giovine ragazza, caduta vittima di un tempo nefasto ma mai all’interno dei panni della vittima. Vivace, arguta, intelligente, insofferente, viva, acuta e presuntuosa e reale, vera, sincera. Il destino le ha negato l’età adulta e spesso, leggendo la profondità dei suoi pensieri, ho creduto che se non fosse morta avrebbe sicuramente segnato il suo tempo da viva e non come il simbolo di tutte le vittime del razzismo antisemita nazista. Andando oltre la cronaca di due anni di prigionia, il contenuto della quale cronaca implode di noia e di insofferenza, si scopre la vera essenza di questa testimonianza: l’universo emotivo e intellettivo di un’adolescente all’avanguardia, ricchissima di conoscenze e di cultura, in grado di dare una lettura precisa della realtà minima ( l’alloggio segreto) e della realtà storica ( la vita, gli uomini, la natura, la guerra) intrecciandole mirabilmente nella sua esistenza libera anche nella cattività forzata. Un vero esempio per tutti noi e non solo per gli adolescenti da educare, come vogliono le mode attuali, solo in occasione della Giornata della Memoria. Questo testo è universale, trascende la Storia, trascende l’orrore.
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La vita in espadrillas
Porquerolles è l’isola nella quale viene ambientato gran parte di questo intenso e , come al solito, amaro e struggente romanzo. È un non luogo, o meglio il luogo delle vacanze, quello dove le relazioni sono tutte da costruire, gli abitanti da studiare nella loro quotidianità, l’essere un turista di passaggio un affare dalla grande delicatezza. È un ambiente prevalentemente marino preso d’assalto da vacanzieri non sempre attenti, circondato da essenziali abitazioni e dove si respira la capacità di accogliere e di integrare. È insomma un delicato ecosistema dalla fauna variegata che si agita nei placidi e suggestivi fondali. È un luogo scomodo inoltre , fuori mano, estremo sud francese, ci si va una volta e basta. Non può pretendere l’ancor giovane dottor Mahè di trascinarvi oltre la sua famiglia, tantomeno per ben cinque anni. Cosa lo spinge verso quei fondali? Cosa va a cercare? Qual è il malessere che lo anima facendogli alimentare una atroce, inutile, fallimentare ossessione?
Quanta della sua inquietudine ha sfiorato lo stesso Simenon quando anch’egli vi dimorava per lunghi periodi, osservando, cogliendo i particolari del vivere quotidiano, in quel luogo che, per estensione, rappresenta la seconda isola più grande della Francia dopo la Corsica, persa lì , a sud di Tolone.
L’ambientazione è dunque la protagonista di questo scritto, fagocita il lettore e il dottore che, come tanti altri personaggi del belga, si specializza nell’evasione, nella fuga dalla propria famiglia, dal luogo natio, dalle certezze per, in sostanza, rigettare la propria identità, spesso artificiosa, precostituita e falsata da pressioni, oppressioni, incapacità di vivere o ancora prima di dare giusta lettura alla propria esistenza.
Suggestivo e malinconico, lo consiglio.
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UNA DOSE MORTALE DI ARSENICO
Una domenica d’estate nella bella villa di campagna dei fratelli Donge, Bébé, moglie di François, con gesti fermi e al tempo stesso naturali serve il caffè al resto della famiglia, la madre, la sorella, il cognato e quando arriva al marito addiziona la bevanda oltre che con la solita zolletta di zucchero anche con una dose mortale di arsenico. François, chimico, avverte il sapore inconsueto del caffè e in preda alle prime convulsioni corre nell’edificio della casa, in bagno, si procura il vomito, ha riconosciuto i sintomi dell’avvelenamento. Agisce con lucidità e riesce a farsi soccorrere dal fratello mentre in un’atmosfera statica in giardino tutto prosegue come al solito: i bambini giocano, la cognata è distesa mollemente sotto l’ombrellone, Bébé è imperturbabile.
Si avvia così quello che è il fulcro del romanzo, François, salvatosi, mentre la moglie è in attesa di giudizio , ripercorre i loro dieci anni di matrimonio restituendo al lettore la verità su Bébé e pervenendo alla ragione ultima di quel suo gesto. Si viene così trascinati abilmente dalle parti del torto, del tentato omicidio, pronti, in fondo anche noi a riconoscere attenuanti, a perdonare, a capire e infine a sperare in un verdetto favorevole. Ciò che suscita maggiore sconcerto è che Simenon mantiene una linea dura offrendoci nelle splendide pagine finali una lettura precisa della realtà, coerente, giusta infine, se si vuole mentre si apre un altro scenario di disperazione individuale. Non certo fra i migliori Simenon, rimane comunque una lettura gradevole.
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Canaglia!
Scritto a Cannes nel 1955 , pubblicato l’anno successivo e nel 1958 portato sullo schermo, in Italia anche censurato. È un romanzo atipico rispetto agli schemi abituali di Simenon, si tratta in sostanza di una sorta di diario privato che l’avvocato Gobillot, uno dei più celebri di Parigi, tiene dai primi di novembre al giorno di Santo Stefano. Lo scrive appunto in caso di disgrazia come se stesse istruendo, stavolta, la sua pratica personale e la scrittura è improntata allo stile caratteristico di tale linguaggio. In sostanza, ripercorrendo la sua vita e la brillante scalata sociale, priva di etica ed alimentata da un certo arrivismo, ci parla dello sconvolgimento che la sua stessa esistenza subisce in seguito all’incontro fortuito con la giovane Yvette. È un susseguirsi di udienze, impegni di lavoro, cene di rappresentanza organizzate dalla moglie e nei ritagli di tempo gli indispensabili incontri con la ragazza che presto si trova a difendersi dalla presenza invadente del suo ex. In realtà questo aspetto è volutamente enigmatico e su di esso, le vere intenzioni di Yvette, probabilmente si gioca l’interesse dell’intero scritto. La parte che avrebbe dovuto restituirci l’intima essenza del caro avvocato mi è parsa, purtroppo, mal gestita o forse disturbante per lo stesso ritratto che ne vien fuori. È comunque un personaggio negativo che non si imprime come altri personaggi del belga probabilmente perché, nonostante l’epilogo, cade in piedi mantenendo il suo ruolo di canaglia che difende le canaglie. A suo modo è comunque anch’egli un vinto ma, come dire, ne vien fuori imbattuto. Canaglia!
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- sì
- no
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