Opinione scritta da Mian88

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    17 Agosto, 2022
#1 recensione  -  

Indagine al tempo del Covid

Petros Markaris è uno di quegli autori che non mancano mai di porre l’accento sul giusto e sull’informazione. È uno di quegli autori che osservano il mondo circostante e che per questo lo fanno proprio, ne eviscerano e snodano i caratteri e per mezzo delle parole e di una trama fittizia e immaginata lo riportano a galla invitando così il lettore a riflettere, meditare e ponderare su quelli che sono i meccanismi di un universo in costante evoluzione ma la cui Storia tende a ripetersi. Ed è questo su cui egli, in particolare, focalizza. Perché la storia non debba o possa ripetersi ma anche affinché certi meccanismi non prendano campo.

«Il gregge inizia con il colonialismo. Che cos’era il popolo di un paese africano per i colonialisti? Nient’altro che un gregge di cui potevano fare quel che volevano. Lo stesso obiettivo avevano le guerre. Che cos’era l’esercito in queste guerre? Gregge. Un gregge che combatteva contro un altro gregge. Alla fine della guerra, gli eserciti erano diventati greggi di affamati e quelli che avevano fatto scoccare la scintilla si erano arricchiti. Oggi che la possibilità di far divampare un conflitto si è indebolita a causa delle armi di distruzione di massa, il gruppo di invisibili che continua a dominare e a governare il mondo ha scoperto i virus, e ci addolcisce la pillola con l’immunità di gregge.»

Ed è proprio dalla disinformazione che ha inizio l’opera. Disinformazione mixata a complottismo, ideologie estremiste, pandemia, mancata libertà e malessere. Ecco, dunque, che ha avvio una nuova indagine che vede il commissario Kostas Charitossi coinvolto in una congiura che si muove dal bisogno di una libertà che è stata tolta e ridimensionata a causa anche della pandemia.
Markaris ancora una volta riesce a fotografare quella che è la realtà della Grecia e a mostrarci il volto dei greci durante il periodo pandemico. Il pari del nostro Montalbano ma di origine greca dovrà entrare nel tessuto sociale di Atene bloccata appunto dal Covid e poi da qui l’indagine si sposterà su una seconda indagine che riguarderà un gruppo terroristico che mira prima a distruggere i vaccini e poi a colpire i medici che nei programmi televisivi divulgano le conoscenze mediche spronando alla vaccinazione.
Un romanzo molto attuale che è accompagnato dal canonico stile attuale di Markaris, scorrevole e lineare, non troppo impegnativo o farraginoso. Una indagine che parte lenta, con il dovuto incedere e i dovuti intervalli, con pochi ma essenziali elementi che riportano anche all’inquietudine del personaggio principale che questa realtà la vive e abita. Da circa metà dell’opera il ritmo narrativo aumenta e accelera e a questo si aggiunge una riflessione inerente alle ideologie che smuovono le masse e sono in grado di creare coesione e alle ideologie estremiste che portano fame, divisione, morte, ingiustizie, amarezza. Un buon capitolo delle avventure dell’eroe che solletica la curiosità e conquista soprattutto per temi e argomenti trattati.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    16 Agosto, 2022
#1 recensione  -  

Spadafora e la prima indagine

«Morto. Ne era certo. Lo aveva percepito immediatamente come avrebbe fatto chiunque avesse visto, anche una volta sola, un morto.»

Siamo a Brescia, è caldo, l’estate non accenna a mitigare il suo incedere di afosità e calura. In questo contesto chi è fortunato si reca in località balneari o montane alla ricerca di ristoro o refrigerio, viceversa chi resta in città si arrabatta in quel che resta a disposizione. È in un clima come questo che per Roberto Spadafora, capitano dei carabinieri, ha inizio l’indagine. Eh sì, perché proprio in questi giorni di festa del Ferragosto, ecco che si risveglia la città con la scoperta di un omicidio efferato: Marco Piovani è stato assassinato da un colpo d’arma da fuoco alla nuca ed il corpo è stato rinvenuto sul luogo del lavoro. Sulla scena alcuna traccia del colpevole e, ancor meno, è evidente o ravvisabile un presunto perché di questa morte. Quale potrebbe essere il movente? Cosa e chi si cela dietro la sua morte? Chi avrebbe potuto trarne profitto o vantaggio?
Roberto Spadafora, dal carattere eclettico ma l’acume unico, si ritrova a dover indagare su un mistero non semplice da risolvere e che in più occasioni lo riporterà anche al passato, a un passato fatto da un terrorismo “a cinque punte” e a fantasmi di una vita forse non così tranquilla.
Quello proposto da Gian Luca D’Aguanno è un giallo/poliziesco davvero piacevole che si struttura in un crescendo costante che appaga e soddisfa il lettore. È bene precisare che l’indagine e il protagonista potrebbero far tornare alla mente il Vicequestore Rocco Schiavone e che quindi, per chi già ha amato la serie di Manzini, certamente questo primo capitolo delle avventure dedicate a Spadafora non deluderà le aspettative, ma la maestria del romanziere è anche quella di sapersi staccare dall’idea di un personaggio più noto donando autorevolezza, corpo e spessore ma anche autenticità a un protagonista che saprà far parlare di sé anche in futuro.

«Spadafora tacque per qualche istante fermandosi a meditare sulle parole di Lopez. In effetti, chi altro poteva essere stato? Pensò fra sé.»

A far da cornice una Brescia da scoprire, una serie di personaggi che ben fanno da spalla, una vicenda intrigante e un ritmo narrativo ben ponderato e cadenzato che cresce piano piano, poco alla volta. La curiosità nel lettore di leggere ancora dell’autore resta, dunque, a quando il prossimo Spadafora?

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    15 Agosto, 2022
#1 recensione  -  

Non scontato e sempre attuale

«Un'altra cosa diversa, a quei tempi, era che imparavi a conoscere cose come la morte quand'eri ancora molto giovane. Non c'era niente da fare. Si cresceva ammazzando galline e maiali, cacciando e pescando; perciò, te la trovavi sempre davanti agli occhi, come in questo caso [*]. E penso che noi avevamo più rispetto verso la vita di quanto molta gente dimostri di averne oggi, e non potevamo tollerare le sofferenze inutili.»

Nonostante siano trascorsi vent’anni dalla sua prima pubblicazione in Italia e ventidue da quella statunitense, “In fondo alla palude” di Joe Lansdale sa dimostrarsi e confermarsi un thriller attuale e dai connotati duri, crudi, crudeli e spietati. Non deve dunque stupire se nello scorrere delle pagine dell’opera è per il lettore sempre più presente quel connotato di attualità che fa riemergere e riflettere su temi quali discriminazione, razzismo, pregiudizi tanto da restare altrettanto basiti al pensiero che le vicende narrate sono radicate in quello che è un arco temporale a noi distante ormai quasi un secolo. Lansdale, infatti, ci riporta alla Grande Depressione, uno dei periodi più bui e complessi della storia americana. Qui a far da padrone sono l’arretratezza socio-culturale ma anche le difficoltà economiche, le difficoltà dei raccolti, delle tempeste, dei crimini compiuti dal Ku Klux Klan. Ed è da queste brevi premesse che ci spostiamo a Marvel Creek, Texas. Qui vivono Harry e Tom, fratello e sorella che, come ogni sera, si addentrano nel bosco con Toby, il cagnolino. Tuttavia, quando meno se lo aspettano, quella notte succederà qualcosa che cambierà per sempre le sorti dei due volti. I due si imbattono in un cadavere martoriato nella raduna di spine. Sono spaventati, scappano, fuggono, tornano a casa e nel loro fuggire scorgono un’ombra, un Uomo-Capra, terrificante quanto famigerato e noto. Ma chi è l’Uomo-Capra? Chi si nasconde dietro al suo volto? Chi si nasconde dietro al serial killer della palude che si accanisce sempre più con le donne della città infierendo loro e violandone i corpi?
Iniziano così le indagini condotte dal padre di Harry e Tom, Jacob. Barbiere ma anche agente di polizia locale della cittadina, sarà lui a scoprire, appunto, che il corpo in cui si sono imbattuti i giovani non è l’unico. Ognuno presenta un denominatore comune al momento del ritrovamento dato da un pezzo di carta accartocciata rinvenuto su ogni cadavere.
Non sarà semplice indagare e venire a capo della matassa. Siamo in una realtà retrograda, rurale. Le tradizioni sono arcaiche, tutti bene o male si conoscono nel paese. In più, ad aggravare la cosa, il fatto che alcune vittime siano di colore. Perché prendersi la briga di scoprire chi è l’assassino di una donna di colore e pure prostituta? A chi importa di una donna di colore e prostituta, sono le reiette della società, l’assassino potrebbe quasi aver fatto un piacere alla comunità, sembra passare come pensiero.
Attraverso gli occhi di Harry il lettore arriverà a toccare di infamie e bassezze dell’animo umano senza eguali.

«Il tempo lavora così. Specialmente quando si è giovani. Può sistemare un sacco di cose, e ciò che non si aggiusta lo si dimentica, o almeno lo si nasconde, e salta fuori solo in certe occasioni. Ed è quello che mi è successo ogni tanto, poco prima di essere rapito dal sonno.»

Non è un giallo/thriller qualunque “In fondo alla palude”, vincitore altresì dell’Edgar Award nel 2001. Razzismo, rispetto, tolleranza, misoginia e tanto tanto altro ancora sono i temi che vengono trattati in questo scritto cruente quanto spietato che nulla risparmia. Un romanzo di formazione che parte da un Harry anziano che torna indietro nel tempo e poi si sposta sino a ricostruire vicissitudini che poi riportano a interrogarsi e a interrogare. Ecco perché questo è uno scritto che oltre che ad avvincere dovrebbe essere letto dai più giovani, perché nella sua verità feroce riporta a dogmi di tolleranza e rispetto che spesso e senza remore vengono dimenticati o dati per scontati o, peggio ancora, riconosciuti solo ad alcuni ma non egualmente a tutti.

«Solo la nostra memoria fa si che certa gente sia esistita. Che siano stati importanti o no.»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    14 Agosto, 2022
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Ideologia e lotta di classe

Lotta di classe, ideologia, resistenza. Sono questi, se vogliamo, gli ingredienti alla base di “Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR” di Alessandro Bertante, edito da Baldini+Castoldi e candidato all’ultima edizione del Premio Strega 2022. È un romanzo corposo, stratificato, un ottimo mix tra finzione narrativa, storia e realtà. Uno scritto che parte appunto dal concetto di ideal-resistenza e lotta di classe passando anche da quella che fu la strage di Piazza Fontana. Non mancano, ancora, aspetti introspettivo/psicologici su quella che fu la dimensione brigatista con tanto di memoriali inerenti.
Ma cos’è l’ideologia? Perché oggi come oggi quando riflettiamo su questo concetto ci rendiamo conto di quanto questo sia stato svalutato e di quanto, altresì, sia giunto a un vero sfacelo anche quello politico? Perché è venuto meno anche il pensiero critico tanto che il popolo finisce con il cercare, anche letterariamente, il dogma del non complesso ma del semplice e lineare? Cosa ne è stato degli anni Settanta, delle lotte, delle assemblee, di tutti quei fattori che proprio in quegli anni hanno rappresentato le basi dell’ideologia e che dovevano avere anche la funzione di porre le basi per quello che sarebbe stato il futuro? Come si è arrivati a questo? Cosa ha scatenato tutto cià e perché? Scioperi, assemblee, arte, una coscienza collettiva stratificata, a sua volta, che collideva con lo Stato e la dimensione del sistema.
Ecco allora che siamo nel 1969 a Milano, che conosciamo Alberto Boscolo, che scendiamo con lui nei cortei, nelle fabbriche, negli anni della parabola eversiva per mezzo del volantinaggio, nei collettivi politici, nella militanza, di fedi rosse, laiche e proletarie. Anni di prime lotte che poi diventano lotte dure, senza paure, senza timori. E poi arrivano gli anni Ottanta del neoliberismo, della democrazia, della demitizzazione del termine e concetto di ideologia. Una demitizzazione sempre più forte e sgretolante che segue e sussegue negli anni, che si porta avanti e si manifesta e palesa senza troppe remore risvegliandosi da processo “in corso” in “concreto divenire”. Questo è un effetto innegabile, ormai concreto. Lo dimostrano le nuove generazioni, ed anche le meno nuove, che non riescono a far proprio questo concetto, che difficilmente lo conoscono e che difficilmente riescono a cogliere le sfumature di quella Storia che si ripete sempre e ciclicamente.
“Mordi e fuggi” è un romanzo tra cronaca vera e realtà romanzata. È uno scritto dolente, che aiuta a riflettere e che rappresenta una buona base per chi a quegli anni vuol avvicinarsi e conoscere. È un elaborato con le sue pecche, con i suoi difetti, con le sue lacune ma anche con i suoi punti forti. Un componimento che talvolta resta troppo in superficie non entrando nel vero profondo ma che nei suoi intenti vuol spronare alla riflessione ma anche alla curiosità. Per chi già conosce il tema non rappresenterà un vero approfondimento ma una diversa prospettiva di analisi con le dovute annesse considerazioni. Per chi non conosce il periodo potrà rappresentare una buona base di partenza per poi approfondire con altri scritti. Un lavoro nel complesso interessante.

«Mordi e fuggi, scrivevamo aggredendo il presente. Colpire e scomparire per poi colpire di nuovo più forte, facendo breccia in un mondo ostile che poteva e doveva essere cambiato […]. Ci sbagliavamo, eppure dovevamo provarci, lasciare un segno che fosse duraturo e memorabile […]. Se no cosa ci restava da fare? Diventare come loro, oppure come tutti che poi è la stessa cosa. Dovevamo provarci per rispetto della storia e al suo divenire, per tutte le ingiustizie del mondo e per tutto quello che abbiamo subito e perché ci deve essere un invasato che sbaglia pur avendo ragione […]. Rifarei tutto allo stesso modo. Brigate Rosse, solo il nome fa accapponare la pelle.»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    14 Agosto, 2022
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Un King d'intrattenimento

Billy Summers è un cecchino. Reduce dalla guerra in Iraq si trasforma e reinventa sicario su commissione seppur con le sue regole “deontologiche”. Esperto e specializzato in quelli che sono “lavori fatti da lontano” accetta solo e soltanto casi che riguardino “persone cattive”, persone che finiscono su qualche libro nero per colpa e per colpe accumulate negli anni e nel tempo dalla loro condotta moralmente deprecabile. Per Billy, apprendiamo nelle prime pagine, quello che sarà il ruolo e fulcro centrale del romanzo, sarà anche l’ultimo caso perché ha ormai deciso di dedicarsi a vita privata e “riporre le armi”. Ma si sa, non tutto è semplice e ancor meno è intuibile così come tutto non sempre va come vorremmo. Il caso in questione sarà sì ben remunerato ma, certamente, non si rivelerà essere per lui il più semplice a causa di una serie di componenti di non poco conto. Deve mischiarsi con i vicini, mimetizzarsi, attendere. Anche trasferirsi in una piccola città del Sud degli Stati Uniti in cui si fingerà un aspirante scrittore impegnato a finire quella che rappresenta la sua opera prima. Billy ama leggere, è un lettore incallito che oscilla tra Thomas Hardy ed Émile Zola e più di una volta ha auspicato di scrivere. Che sia la volta buona? In ogni caso, meno le persone sanno di lui e meglio è, meglio far finta di leggere fumetti, meglio dare informazioni anche fuorvianti ma ben impersonare quel volto che è necessario nell’attesa del suo bersaglio.
Quello proposto da King è un romanzo d’intrattenimento, puro e semplice. Senza troppe pretese, senza troppi fronzoli. Il lettore vi si avvicina con curiosità e con curiosità lo legge seppur non riesca a farsi travolgere completamente. Questo, almeno, se da King cerca i titoli dei tempi d’oro ma, anche, se cerca uno scritto dal maggior carattere corposo. La storia è narrata al presente ma oscilla con il passato ed anche tra vita vera e finzione. Le due realtà quasi si sovrappongono, in più punti. È un elaborato chiaro, semplice, lineare. Senza infamia, senza gloria. Non sempre riuscite le scene d’azione talvolta inverosimili o eccessive, interessante il finale per i possibili ulteriori e futuri retroscena. Nel complesso ben poco evocativo. Consigliato a chi cerca un romanzo da cui non aspettarsi chissà cosa ma con cui trascorrere qualche ora di distrazione. Intrattenimento, come anzidetto, nulla più.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    13 Agosto, 2022
#1 recensione  -  

Città immaginate, città immagazzinate

«Viaggi per rivivere il tuo passato? – era a questo punto la domanda del Kan, che poteva anche essere formulata così: Viaggi per ritrovare il tuo futuro? E la risposta di Marco: - L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.»

Perché leggere Italo Calvino? Perché leggere “Le città invisibili”? Quante volte ci chiediamo il perché del nostro essere o non essere attratti da un’opera o da un autore, quante altre ci avviciniamo a quello stesso autore anche o solo per “dovere” per poi ritornarvi in età diversa, anche adulta, e riscoprire completamente una prosa narrata. Tante volte non sappiamo spiegarci il motivo. Altre cerchiamo comunque delle risposte che potrebbero trovare fondamento in una caratteristica intrinseca del titolo, delle descrizioni, o anche solo del nome. Tuttavia, però, spesso e volentieri un vero perché non c’è, è l’autore come il libro a chiamarci. E allora non è semplice nemmeno trovare un perché alla scelta di “Le città invisibili”, scritto classe 1972, dove prevale la tecnica combinatoria e dove ad essere protagoniste sono città poetiche, fantasiose, avveniristiche ed ancora le riflessioni su molteplici temi che si susseguono tra loro.
È innegabile quanto l’opera sia intrisa e influenzata dalla semiotica e dallo strutturalismo. A far da padrone una serie di intrecci con baluardo il dialogo tra Marco Polo e Tartari Kublai che avvia e apre ogni capitolo. La narrazione si dipana tra città reali mescolate ad altrettante frutto dell’immaginazione, dei sogni, dei viaggi, della fantasia. L’imperatore deve essere attratto, incuriosito, trattenuto. Imperatore che, a sua volta, lo riempie di domande. Da qui una struttura in apparenza composta da nove capitoli che si suddividono internamente in 55 città con nome di donne e a loro volta suddivise in altrettante 11 categorie, dalle città della memoria sino a quelle nascoste. “Le città invisibili” è nel concreto un poliedro che consente a ciascuno di vedere il proprio preferito finale. E non è forse così già la vita stessa nonché la lettura che essendo soggettiva a un suo diverso finale di volta in volta? Ed ancora, è possibile dare un vero ordine alla realtà per natura in disordine? Trovare il proprio posto, il proprio ordine nel mondo, realizzare i propri obiettivi?

«L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.»

Tra sogni, desideri, paure, immagini che nascono nell’immaginario e che seguono regole assurde con altrettante differenti prospettive. Ancora una volta a far da padrone è il ricordo, tema caro all’autore. Cos’è il tempo, cos’è la morte, cos’è il desiderio? Tematiche, queste, che sono consone al narratore e che non mancano di far breccia e tornare nei suoi scritti. Ed esattamente come per ogni opera a sua firma, ancora una volta, siamo davanti a un componimento da gustare un poco alla volta, senza fretta, senza dover correre. Un viaggio che si lascia gustare ed assaporare, un viaggio che si scandisce in un intercedere semplice e con un ritmo ben cadenzato che non delude le aspettative e che trattiene, ancora una volta, tra sogno e realtà.

«È delle città come dei sogni: tutto l'immaginabile può essere sognato
ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni
sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un'altra.
- lo non ho desideri né paure, - dichiarò il Kan, - e i miei sogni sono composti o dalla mente o dal caso.
- Anche le città credono d'essere opera della mente o del caso, ma né l'una né l'altro bastano a tener su le loro muro. D’una
città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.
- O la domanda che ti pone obbligandoti a rispondere, come Tebe per bocca della Sfinge.»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    05 Agosto, 2022
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Il sentirsi “fuori luogo sempre

«Perché non abbiamo fatto così anche noi, Pietro? Perché non li abbiamo lasciati entrare a sfasciare tutto, a prendersi la loro vendetta? Perché non ci siamo uniti alla loro rabbia e al loro dolore? Quel giorno abbiamo perso tutto anche noi.»

Pietro Benati non aspetta altro che scomparire. Nel suo appartamento di Pisa tra quadri e strumenti musicali che si affacciano sulla Torre pendente, attende. Attende che la maledizione faccia il suo corso, che come ogni uomo della sua famiglia anche lui che è un codardo pauroso di prima categoria scompaia. Il primo fu il nonno, disperso durante la guerra in Etiopia, poi fu la volta del padre Berto nel 1988 che scommettitore per definizione torna a casa senza il mignolo della mano destra dopo un mese di assenza. Eppure non è Pietro, alla fine, a scomparire, quanto suo fratello maggiore Tommaso, la promessa del calcio nonché genio dei numeri e del calcolo matematico. E per Pietro la vita sempre quella è: un fallimento. Un fallimento fatto di una madre ipocondriaca, di un successo musicale che non arriva, di un padre che non riesce a tenere lontano, di una università che non riesce a portare avanti. Ma come sempre accade è l’incontro che può cambiare la vita. Nel suo caso con Laurent, gigolò amante delle nuotate notturne e di non indifferenti quantità d’alcol, e Dora, appassionata di film horror con un dolore diametralmente opposto al suo.
Un romanzo, Randagi, che parte dal raccontarci quindi la vita di questo giovane infelice ma che non è solo la storia della sua vita quanto la storia di una generazione, quella a cavallo fra la Generazione X e la Generazione Y, i Millennial. Ed è per tramite della loro voce che la storia si sviluppa riportandoci ai primi anni Novanta sino ai primi anni Duemila. La forma che assume lo scritto è dunque formativo-generazionale, è uno scritto di formazione che ci mette in evidenza tanto i sogni e i progetti quanto anche le aspettative e il bisogno di evadere, emergere ed affermarsi per quel che si è sino a rimarcare il proprio posto nel mondo.
Temi multi-variegati che toccano anche i legami familiari, l’esistere, l’essere, il vivere. Da qui ha inizio un percorso di crescita e maturità del personaggio che si rende sempre più persona, tra paure e debolezze ma anche protagonista di quel gioco d’incastri che è la vita.
Come in “La straniera” della Durastanti e “Spatriati” di Desiati anche in “Randagi” non manca una componente di autofiction che risulta però essere più mitigata e dunque meno incisiva tanto che sia per gli avvenimenti che per la ricostruzione, lo scritto viene percepito sempre più quale lontano alla fiction e vicino alla realtà. C’è la componente della finzione, c’è chiaramente il mix tra vero e non vero, ma l’essenza del romanzo prevale perché tra i tanti intenti di Amerighi vi quello di cercare di dare una spiegazione a uno dei più grandi misteri della vita: cosa vuol dire diventare adulti.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    05 Agosto, 2022
#1 recensione  -  

Chi sono davvero gli spatriati?

I premi letterari sono una chicca per i lettori, da sempre. Sono un modo per scoprire nuovi scritti, sono un modo per riuscire anche a conoscere nuovi volti del panorama letterario da poi, magari, riscoprire ancora una volta anni dopo quali autori, perché no, pluri-affermati con successi e successi alle spalle. Tuttavia, negli ultimi anni, sono proprio i premi letterari ad aver perso maggiormente di forma, forza e intensità. Come se la stessa lingua italiana si fosse adattata e piegata a un nuovo uso e una nuova conoscenza del pubblico medio, più consuetudinario e meno formale, meno erudito e meno incline alla scelta del testo complesso prediligendo quello più “preconfezionato”.
Piccola ma doverosa premessa che ci porta a “Spatriati” di Mario Desiati, opera interessante per gli intenti, parzialmente riuscita nella trama e nel contenuto, formalmente dubitante di se stessa.
Già in “Candore”, classe 2016, ad essere oggetto di trattazione erano stati i corpi, la loro scoperta, la loro riaffermazione. Corpi mixati a pensieri e parole, a uomini che hanno varcato la soglia delle fatidiche quaranta candeline, corpi che si immaginano sposati e consci delle loro responsabilità ma che si dimostrano l’esatto opposto. In Spatriati a incontrarsi sono Claudia e Francesco, a scuola. Lei che si veste da uomo con cravatte e abiti dissonanti con l’epoca attuale, lui con i suoi perché, il suo essere ramengo.
È bene premettere che siamo innanzi a un romanzo volontariamente e chiaramente di autofiction che, per molti aspetti, ricorda la Durastanti con la sua “La straniera”. Ecco, dunque, che la scena si apre con i genitori dei due giovani e il sospetto di una presunta relazione coniugale in cui si ipotizza che il padre di Claudia sia l’amante del padre di Francesco. Nasce dal pettegolezzo il loro legame. Per lei che già si è spostata nel milanese è diverso vivere rispetto a lui e alla realtà di Martina Franca, governata dalla maldicenza

«Di forza per reagire non ne avevo, non rispondevo, ma mi alzavo e me ne andavo, sperando di trasmettere almeno un po’ del fastidio che Claudia avrebbe provato a sentire quei discorsi.»

È possibile uscire da quel piccolo Mondo? Berlino può essere davvero una via d’uscita? Quale strada scegliere? Essere tra coloro che restano e pagano le bollette perché mai si farebbero mantenere da amici e conoscenti berlinesi o scappare, essere tra chi vive dell’avventura, ma solo per raccontarne a chi resta? Chi sono davvero gli spatriati? Sono i senza casa, i senza radici, i disorientati, i ramenghi, sono coloro che se ne vanno davvero o sono coloro che si avvicendano per l’Europa o nel mondo da qualche amico ma per poi tornare, inevitabilmente a casa? Un po’ come quel leitmotiv mencherealliano che ci ricorda il sempre tornare, perché costoro tornano sempre. Non siamo, forse, alla fine un po’ tutti spatriati? Sia chi parte che chi resta?
Tante le premesse, tante le idee, tanti i punti da voler affrontare in un testo che però solo parzialmente arriva. Sia perché a prevalere è un po’ troppo l’autofiction, sia perché a governare queste pagine sono personaggi che arrivano solo in parte, che non coinvolgono pienamente, che sono caratterizzati da un non riuscire a trattenere. A ciò si aggiunge lo stile troppo costruito, poco naturale, artefatto. Un libro che si prefigge di raggiungere i più ma che nel concreto non riesce a lasciare molto e che per questo rischia anche di far dubitare dei premi letterari.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    28 Luglio, 2022
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Serge, Jean, Nana

Sono tre i fratelli Popper: Serge, Jean e Nana. Tre figure completamente diverse, tre anime e volti agli antipodi. Uomini e donne che non hanno alcunché in comune, che sono esposti a una memoria condivisa. E rivivono. Rivivono nelle parole di Jean ora alla soglia dei sessant’anni, rivivono nel suo parlare e proporsi. Rivivono nelle loro contraddizioni, ancor più dopo la dipartita della madre, Marta, unica capace di tenere in piedi quella sgangherata famiglia.
Ciascuno con una sua prospettiva, ciascuno con un rapporto logorato. È Jean a narrare, come anzidetto. Parte dalle sue paure, dal suo temere per il futuro ma anche sul presente e il passato. Dai rapporti con i fratelli, talvolta precari e ancor più fragili e disattesi. Serge, primogenito, è colui che è il condottiero, lo spericolato, l’antieroe. Nana è la cocca di casa, la prediletta e la ruffiana. Jean è il gregario, il figlio di mezzo. Senza spina dorsale, senza personalità. Colui che è trascinato dalle onde e che è “vittima” del sistema. L’uomo nella facciata, il ragazzino perenne pieno di dubbi e titubanze nell’anima.
Eppure, a prevalere, è il senso di appartenenza. Un senso di appartenenza che non ha basi, che non ha una storia di famiglia alla base, che non ha affetti e individualismi da trasmettere. Ciascuno dei figli è emblema di caratteristiche diverse come, ad esempio, l’egocentrismo per Serge o il senso di incompiutezza e incompletezza per Jean.
A far da cornice un ebraismo che è più di facciata che di verità. Radici dissolte, famiglie sgretolate, malattia e storie personali che si esprimono come fallimentari e frutto di frammenti ricostruite.
I tre fratelli vivono ciascuno con le proprie domande e risposte, ciascuno cercando un punto comune anche se agli antipodi. Come Serge e il suo egocentrismo mixato a egoismo e Nana, al contrario altruista seppur cocca di casa. Nemmeno il viaggio ad Auschwitz riuscirà nell’intento di farli riavvicinare e riconciliare. Nemmeno Jean con i suoi tentativi, mossi dal suo senso di fallimento e inconcludenza e che lo vedranno essere trascinato l’una volta da Serge, l’altra da Nana, riuscirà nell’impresa. Al contrario raggiungerà l’unico risultato di una maggiore distanza, lontananza e separazione.

«Riprendiamo a girovagare nei vialetti del campo. Ricordati. Ma perché? Per non rifarlo? Ma lo rifarai. Un sapere che non è intimamente in relazione con sé è vano. Non ci si deve aspettare niente dalla memoria. Questo feticismo della memoria è un simulacro. […]
Questi onnipresenti filari di pioppi! Probabile che in inverno offrano lo spettacolo di un’aridità più dignitosa. È pulita questa caserma, geometrica, ben tenuta. È un museo. Un quadrato di limbo riorganizzato a beneficio del visitatore contemporaneo. Un nobile gesto che opacizza.»

Ad essere ricostruiti sono tutti questi accadimenti e lo sono in un flusso di coscienza che va avanti senza sosta e senza fermarsi al fine di ricostruire un puzzle più grande anche autoalienante.
Il risultato finale è quello di uno scritto solido e compatto che si snoda in una dimensione temporale in cui non è più il tempo a scandire il ritmo ma l’evento in quel che è un flusso ininterrotto ma costante. Il più grande merito è però quello di aver ricostruito volti e vite di uomini e donne che giungono al lettore con tutte quelle che sono le imperfezioni del vivere quotidiano. Dell’esistere. Ed ancora dei legami e del loro svilupparsi in un rapporto talvolta incomprensibile quanto indecifrabile. Ma cos’è la vita davvero? Cos’è l’esistere, il fluire? Identità, famiglia, memoria. Eccoli gli ingredienti di “Serge” di Yasmina Reza. Tra memoria e tempo.

«Non ho saputo comportarmi emotivamente in questi luoghi dai nomi cosmici, Auschwitz e Birkenau. Ho oscillato tra la freddezza e una ricerca di commozione che altro non è che un certificato di buona condotta. Allo stesso modo, mi dico, tutti questi ricordati, tutte queste furiose ingiunzioni di memoria non sono forse altrettanti sotterfugi per spianare l’evento e riporlo in buona coscienza nella storia?»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    20 Luglio, 2022
#1 recensione  -  

Divorzio anaffettivo

«Sua madre non aveva mai imparato a incassare i colpi, si dimenticava ogni volta che il destino le presentava la sua versione dei fatti. I suoi schiaffi non facevano male, Jojo li temeva, ma il vero pericolo erano le parole. Dora non ci badava.»

Il divorzio non è sempre e solo quello che comporta una separazione a livello sentimentale. Talvolta quando facciamo riferimento a questo facciamo riferimento non tanto a quello a quello affettivo ma anche a quello correlato alle nostre radici, a quei luoghi che rappresentano il nostro essere e il nostro vivere in un tempo scandito dalle esigenze di una vita che scorre.
Ed ecco allora che “il divorzio” assume una forma diversa, una sfumatura che muta nel suo essere. Jana Karsaiova ci insegna proprio questo e cioè che questo può essere anche altro, può essere correlato al nostro vivere, a quel che siamo e ci circonda, a una frattura delle nostre radici e della nostra storia.
Conosciamo dunque tra queste pagine volti e persone. Volti di uomini fatti di umanità, legami e affetti. Spezzati, disincantati, ricostruiti, persi. Una storia che prende campo dalle scissioni che si manifestano nella realtà della famiglia, una famiglia che scopriamo essere unita solo in apparenza. La storia prende campo proprio dalle scissioni che si manifestano per un disamore, per episodi, incontri, emozioni che tornano ad affiorare. In un bisogno costante e impellente di accoglienza sia culturale che sociale che umano.
Tra i finalisti del Premio Strega di questa edizione 2022 è “Divorzio di velluto”, opera scritta da una autrice slovacca che ha scelto di vivere in Italia e che si propone in uno scritto che rimarca una impostazione scenografica e sceneggiata. Una sceneggiatura in piena regola dove ogni tassello si ricostruisce un poco alla volta, passo dopo passo. Forse, questo, anche per il passato in ambito teatrale della stessa. La lettura scorre rapida, tuttavia non riesce a coinvolgere completamente. È come se tra lettore e scrittore ci fosse un filtro, un vetro invisibile. Piacevole ma non indimenticabile. Una buona prova che suscita riflessioni seppur con i suoi se e ma.

«[…] un matrimonio il cui apice sarebbe stato un divorzio, battezzato anche quello di velluto. Come la rivoluzione dell’89, la Rivoluzione Gentile la chiamavano gli slovacchi, di Velluto, ribattevano i cechi.»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    16 Luglio, 2022
#1 recensione  -  

Asma ed Esodo

«Perché sei entrata nell’osso del cuore e non mi riesce levarti più.
Il cuore non ce l’ha l’osso.
Il mio sì.»

Il suo nome è Asma e cerca la sua mamma. Sa che da un giorno all’altro arriverà anche lei, che la riconoscerà subito perché forse è così che si riconoscono le persone. Dalle menomazioni, dalle mancanze. E lei con la sua mano vizza e menomata lo sa molto bene. Crede anche di riconoscerla quando quel giorno la vede arrivare. È lei, non può che essere lei. Non deve che essere lei. È come lei. Uguale in tutto, anche nelle ferite fisiche oltre che nell’anima. È condotta da lui, Esodo. Colui che per molti altri non è che un galoppino, un servo della dittatura. Eppure Esodo, quando vede la bambina che Asma è, sa che deve salvarla. La scuote, le scatena dentro quel tornare a voler vivere che ancora esiste in lui, a differenza e disappunto di tutto quel che poteva pensare o sperare.
È il 1976 e siamo dentro Casa Libertà, una comune, dove tutto è ammesso e dove si svolgono e celebrano atti di dubbia moralità e ancor meno legalità. Perché tutto è ammesso dal bene superiore, anche la punizione per il misfatto compiuto. Non ci sono limiti a quelle che sono le punizioni, i peccati da estirpare per le proprie colpe. Asma non è mai uscita da Casa Libertà, è una bambina all’inizio del romanzo. Quando incontra Laura crede davvero di aver trovato una madre per lei, mai però avrebbe pensato di incontrare anche lui. La realtà dei fatti è così diversa da quel che pensiamo, in questa Italia del 1976 in cui tutto è schiavo di una dittatura, un regime militare che si è imposto sul paese. E ancora, c’è l’arte. Una arte che emerge nella seconda parte dello scritto quando tra passato e presente la storia si ricompone, i tasselli del puzzle iniziano a combaciare, i volti a esistere in modo più concreto e uniforme.

«Ero capovolto. Il fare di Asma mi rifletteva come il pelo dell’acqua, mentre a me non era mai riuscito vedermi per bene nemmeno allo specchio. Questa consapevolezza divenne lampante: Asma era una cosa mia. Una bimba, il fine di tutto. Da diventarci matti.»

Romanzo d’esordio di Valentina Santini è “L’osso del cuore”, scritto edito dalla casa editrice E/O che fa il suo ingresso in libreria in questo trascorso mese di giugno. E quello di Valentina è un esordio davvero degno di nota. Uno scritto forte, emotivo, empatico e che non poteva che essere narrato così. Nulla risparmia Valentina ai suoi personaggi, né nella prima parte, né nella seconda. Solo e soltanto con questo stile e con questa vividezza l’opera avrebbe potuto rendere la sua componente emotiva, solo così essa sarebbe potuta davvero arrivare a quel lettore che, battuta dopo battuta, è trattenuto e rapito dalla storia ma anche colpito e segnato da questa. Uno scritto veramente bello, uno di quei libri che leggi per curiosità, perché intrigato dalla trama e che invece rappresentano un gioiello da non perdere. Che resta, che segna, che marchia il cuore, che coinvolge e fa riflettere. Una grande e potente storia d’amore e non solo.

«Pagine piene di scrittura per capire che la versione alternativa non esiste. I fatti sono conseguenze di azioni, di scelte. Avevo deciso. Stabilito eventi dall’inizio, senza saperlo»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    16 Luglio, 2022
#1 recensione  -  

Poirot e il primo mistero da risolvere

«Il grande interesse suscitato nel pubblico da quello che a suo tempo fu battezzato "Il Caso Styles", è ormai scemato. Ciononostante, data la risonanza che ha avuto, sia il mio amico Poirot sia la famiglia interessata mi hanno pregato di scrivere il resoconto dell'intera vicenda. In questo modo si spera di mettere a tacere i pettegolezzi che ancor oggi capita di ascoltare.»

Correva l’anno 1919 quando John Lane, co-fondatore de The Body Head Ltd notò l’opera della Christie. Primo tentativo concreto della scrittrice su spinta e scommessa con la sorella, non unico in famiglia stante i precedenti della madre ma anche i tentativi stessi di Agatha con lavori minori, è solo in questo anno che ella riesce a vedere uno spiraglio di luce per quella che è la sua passione di scrittrice e questo lavoro intitolato erroneamente dalla casa editrice “The Mysteriuous affair of Styles” (che si potrebbe tradurre “Poirot di Styles Court” e di poi noto con “Poirot a Styles Court). Ed ancora, vuoi per l’inesperienza dell’autrice, vuoi per il format, vuoi per le parti rivisitate e modificate tra cui quel famoso capitolo 12 ricostruito oggi solo e soltanto per mezzo di bozze e riferimenti ma al tempo modificato e rappresentante quello che sarà di fatto il successo del personaggio e il modus operandi della narratrice, che lo scritto viene per la prima volta pubblicato nel Regno Unito in quel del 21 gennaio 1921. Prima opera di una serie di cui la Christie aveva già scritto ben due sequel, prima opera che portò a recensioni entusiaste ancor più dei pareri pre-pubblicazione. Un’idea nata su proposta della sorella mentre la Christie lavorava nel dispensario dell’ospedale locale, lei che in quel luogo ha appreso della conoscenza dei veleni di cui era appunto grande esperta.
Ed ecco allora che una morte misteriosa si consegue a Styles Court, forse un avvelenamento, forse una morte misteriosa senza un vero perché ma pur sempre una morte. Un rebus, un incastro di domande e risposte, un cluedo in cui e per cui ci viene fornita anche una piantina per ricostruire luoghi e sposamenti e in cui il lettore stesso è chiamato a interrogarsi e interrogare i personaggi sul misfatto. Per risolvere l’arcano e comprendere della dipartita è Hastings, narratore in prima persona, a decidere di coinvolgere Hercule Poirot. Un uomo alto meno di un metro e sessantacinque ma dal portamento eretto e dignitoso, Hercule. Un uomo dalle labbra a forma di uovo, la testa costantemente inclinata di lato. Le labbra, ancora, ornate da un paio di baffi rigidi da militare e un abbigliamento a dir poco inappuntabile. Uno dei funzionari, al tempo, più in gamba della polizia belga capace adesso di indignarsi e arrabbiarsi per qualsivoglia granello di polvere.

«La fantasia è un'ottima serva, ma una pessima padrona. La spiegazione più semplice quasi sempre si rivela esatta.»

Come anticipato, a narrare la vicenda, è Hastings, amico dell’investigatore che casualmente è ospite della proprietà di Styles Court che appartiene alla matrigna del suo caro amico John Cavendish. Ed è suddetta donna colei che viene resa attrice e protagonista proprio del delitto. Lei che di recente ha sposato Alfred Inglethorp, lei che con quest’uomo più giovane al fianco attira le antipatie di tutti coloro che abitano nella villa per paura di perdere i vantaggi economici ad essa correlati. I sospetti si incentrano sin dal principio su un indiziato numero uno ma Poirot non si fermerà alle apparenze e, pagina dopo pagina, ricostruirà quella che è la vicenda narrata.
Chi potrebbe aver avuto interesse ad avvelenare la matrigna? Lawrence? John? È coinvolto nella vicenda anche il dottor Bauerstein, amico tossicologo? E che ruolo ha Cynthia? Tanti volti, tanti incastri, tanti dubbi e tante domande per un romanzo che si snoda pagina dopo pagina e che porta il lettore a immedesimarsi nei panni dei protagonisti e degli investigatori. Il tutto è avvalorato da una penna precisa, metodica, scrupolosa ma anche ironica. Non mancano gag esilaranti e divertenti soprattutto per quel che riguarda gli scambi di battute tra Hastings e Poirot. La Christie dimostra sin da subito il suo grande talento narrativo e niente, si conferma una delle più grandi romanziere del tempo, scrittrice da cui inevitabilmente ma anche conseguentemente hanno preso ispirazione in molti del contemporaneo.

«L’istinto è una cosa meravigliosa» continuò Poirot. «Non può essere spiegato, né dev'essere ignorato.»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    10 Luglio, 2022
#1 recensione  -  

Molly

Decidere di avvicinarsi alla lettura di un libro quale “La cameriera” di Nita Prose significa scegliere un titolo che potrà avere delle tinte di giallo ma che è bene precisare non essere la linea guida e il vero focus dello scritto. Infatti è vero che l’opera ha quale oggetto un omicidio che avviene in un hotel e che vede coinvolta una cameriera ma è anche vero che ciò che più ha un risvolto in questo è l’aspetto sociale, la dinamica sociale sottesa ivi compresa inerente alla malattia. Vi è dunque una componente “gialla” ma se il lettore si aspetta solo questa o prevalentemente questa, resterà deluso.
Molly è la protagonista dello scritto, lavora come cameriera in un prestigioso hotel e da sempre ha vissuto con una nonna che ha edulcorato il mondo per lei. Adesso che la nonna è morta ella si ritrova sola, non ha amici, è considerata stramba perché non riesce ad avere rapporti sociali, è anaffettiva, non riesce a comprendere quello che è lo stato d’animo di chi le sta davanti, è esageramene precisa, cosa anche controproducente, non ha consapevolezza della realtà che la circonda. Eppure, nonostante ciò, ha anche tutti i suoi rituali, le sue abitudini e ama il suo lavoro proprio per quella meticolosità che comporta.
Quando Molly ritrova il corpo, non resiste nel compiere una piccola azione. Tuttavia, durante l’interrogatorio, a insospettire è però il suo atteggiamento. Ha un temperamento forte nonostante la sua incapacità emozionale e relazionale, questo la porta a essere una sospettata. A ciò si aggiungano le risposte che spiazzano gli agenti ma anche una rete fatta di inganni che vede Molly protagonista e vittima sacrificale perfetta stante la sua ingenuità.
Tuttavia c’è chi vede la vera Molly e decide di aiutarla. Il portiere dell’hotel e la figlia Charlotte, avvocato, o ancora il lavapiatti Juan Manuel, coinvolto in modo speculare nella storia, desiderano e decidono di prestarle aiuto. Ecco allora il risvolto che esula dal giallo perché la protagonista decide di far leva sulla situazione per renderla propria e in particolare per sfruttarla come occasione di crescita.
Ci saranno alti e bassi, aspetti più o meno interessanti, una protagonista che si amerà o si odierà, il tutto per uno scritto narrato in modo semplice, che non ha particolari pretese che ha anche una impostazione simil sceneggiatura. Non stupisce l’intento di realizzarne una trasposizione in pellicola e i diritti già ceduti al fine.
Un libro che non colpisce dunque per il giallo quanto per le riflessioni sottese sul pregiudizio, l’autenticità, la diversità, l’accettazione e che per questo può deludere le aspettative. Non si può certo gridare al bestseller, al romanzo da non perdere, al libro più bello mai letto e anzi, il lettore avvezzo, qualche domanda sui motivi del suo spopolare e del suo successo, viene naturale porsela.
Un romanzo, dunque, che per suo contenuto divide. O lascia un senso di retrogusto un poco amaro, di insoddisfazione, di qualcosa di sfuggente e incompleto o conquista e trattiene tra le sue pagine tanto da portare il conoscitore a desiderare di leggere ancora altro della narratrice. In ogni caso una lettura rapida e non troppo impegnativa.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    10 Luglio, 2022
#1 recensione  -  

Michele, caro Michele

«Ne ho rimorso. Ma è vero che a un certo punto della nostra vita i rimorsi li inzuppiamo nel caffè la mattina come biscotti.»

Corre l’anno 1973 quando Natalia Ginzburg osserva, ripete, riporta. Dolori, anime, pensieri. Un grigio realismo con cui viene trattenuto e dipinto il vivere di una realtà borghese fatta di anime e pensieri stratificati tra loro. Ecco allora che il realismo prende forza e campo, che i personaggi di questo titolo non vanno “né avanti, né indietro” che l’umanità si cristallizza in piccole azioni del quotidiano in un ricostruirsi di schegge e frammenti, in un puzzle che prende forma sino al dramma finale.
E cos’è, se non la solitudine, ciò che respira ogni singola voce tra queste pagine? In un silenzio che lascia grida inutili di impotente desolazione.
Ed è a Michele che avviene la confessione. Una confessione fatta di una esistenza appassita ed orfana, una confessione che vede un figlio sbandato e balordo che fugge per motivi politici essendo un po’ compromesso in moti di estrema sinistra in questi anni agitati ma di fatto senza veramente sapere un perché. Adriana sa di non essergli stata davvero madre. Se lo ripete e glielo confida, fa proprio quel moto malinconico, quella solitudine di una separazione con il marito e con un senso di non appartenenza che nel ripetere a lui, ricorda a se stessa. Sta a Londra adesso Michele. Ed è qui che sono destinate le lettere dall’Italia. Lettere ad alcune delle quali risponde e che delineano un quadro complesso sia dal punto di vista psicologico che umano.
Michele altro non è che il canale che ricostruisce la narrazione, che riporta a galla una rete, che è destinatario di flussi di vita che nemmeno sempre lo riguardano. Tanto che potrebbe dirsi non essere nemmeno il vero protagonista dell’opera, Michele. A queste voci si sommano anche le sorelle di Michele quali Angelica, che gli vuol bene seppur le sue complicazioni affettive, c’è Mara, donna semplice e c’è Osvaldo, amico si vecchia data, o forse qualcosa di più, c’è Ada, l’efficiente ma pratica moglie separata.
Il racconto si apre nel dicembre del 1970 e si chiude nel 1971, accompagna i lettori tra caldo e freddo, a far da teatro e scenario è solo la memoria. Ancora una volta a essere narrato non è il presente quanto un passato che non lo è mai davvero. Ed è l’anno 1973 quando questo romanzo in forma epistolare “misto”, misto essendo le missive alternate da un narrare e narrato in terza persona, che fonde il raccordo dell’avvenire con la gergalità della missiva, prende forma e riconferma le grandi capacità della romanziera. Una lettura che lascia il segno.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    04 Luglio, 2022
#1 recensione  -  

Tra luci e ombre di Stoccolma

Autore venuto alla ribalta grazie al sequel scritto del la trilogia di “Millennium”, David Lagercrantz si stacca adesso dalla formula nota e propone ai suoi lettori una nuova saga inedita. Lagercrantz, infatti, si è rifiutato di proseguire la serie di Larsson e torna ora in libreria con un thriller che vede quali protagonista il duo composto da Hans Rekke e Micaela Vargas.
Siamo nel 2003. L’Iraq è stato da poco invaso dagli USA quando a Stoccolma viene trovato il cadavere di un arbitro di calcio di origini Afghane, un uomo picchiato a sangue sino alla morte. Il sospettato numero uno altro non è che Giuseppe Costa, padre di uno dei giocatori, uomo irascibile e dal carattere iracondo, il soggetto perfetto per commettere un omicidio, un caso aperto e chiuso in brevissimo tempo. Ma Costa non accetta questa sentenza di condanna a priori, si professa innocente, reclama la sua non colpevolezza a gran voce. Da qui il capo della polizia decide di consultare Han Rekke, esperto di tecniche di interrogatorio la cui fama ha rilevanza mondiale.
E sarà proprio Rekke a rimettere tutte le carte in tavola. L’indagine preliminare verrà ben presto scartata, le sorti di Costa rimesse in gioco, la polizia si ritroverà senza piste e Micaela Vargas, poliziotta della comunità di Husby, sarà l’unica a non voler lasciar perdere. Rekke non risponde a ogni tentativo di suo contatto ma i due sono destinati a rincontrarsi seppur non in circostanze felici quanto drammatiche. I due inizieranno così una indagine serrata volta a risolvere l’arcano. Tra CIA, guerra ai talebani contro la musica, attualità. Ma chi era davvero l’arbitro? Era una vittima oppure dietro mentite spoglie era un carnefice?
Una storia che tiene bene il ritmo è quella proposta da Lagercrantz. Una storia che si legge rapidamente e che si lascia divorare senza difficoltà. Una storia, ancora, che ricostruisce il volto di un paese ancora oggi molto misterioso e di una Stoccolma multi faccia e multicolore, piena di ombre e non solo luce. I personaggi sono ben descritti, la trama ben sviluppata. Non forse il thriller più bello che abbia mai letto ma certamente consigliato a chi ama il genere e a chi ha voglia di leggere opere leggere con cui trascorrere ore liete.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    04 Luglio, 2022
#1 recensione  -  

Ma i killer vanno in pensione?

«Sapeva che i suoi successi erano commisurabili proprio alla loro anonimità. Ci vuole una bella resistenza per reggere a questa prova, e Walter se ne era dimostrato capace.»

Francesco Recami torna in libreria con un nuovo titolo molto attuale nei contenuti e molto accattivante nella sua strutturazione. Quello che abbiamo modo di leggere con “I killer non vanno in pensione” è un romanzo multi faccia e dove niente è come appare in quanto tutto muta, cambia e si plasma a seconda delle necessità e delle evenienze a cui le voci narranti vanno incontro.
Conosciamo prima di tutto Walter. Walter Galati che altro non è che un misero e meticoloso impiegato dell’INPS, un uomo senza speranza di carriera, bistrattato dai colleghi, sfruttato da questi che per indole e modus operandi sono nullafacenti e corrotti tanto da essersi aggiudicati il titolo de “La band dei Quattro” tante sono le somme che maneggiano e che malversano ma sottomesso e soggiogato anche negli ambienti della famiglia dove la moglie Stefania lo schiaccia con le sue pretese. Rancorosa e prepotente la donna non manca di sottolineargli le sue mancanze e di tradirlo con un gigolò. È sconfortato e affranto Walter. Lui che è condannato a un futuro tutto uguale, lui che da quella situazione sembra non riuscire a venirne fuori. Eppure, eppure, eppure, Walter nasconde un segreto, un segreto che lo vede in realtà essere un killer professionista assoldato da un’agenzia segreta e profumatamente pagato. Ma i killer possono andare in pensione? Sembra essere infatti giunto al suo incarico l’uomo.
Ed ecco il litorale veneto in quel della Treviso contemporanea a far da scenario con quel che è il cambiamento idrologico e ancora Monaco di Baviera dove Walter non è più Walter ma Marko Untersteiner di Bolzano, poliglotta dai modi eleganti e dal fascino misterioso.

«Walter lo sapeva che prima o poi sarebbe toccato anche a lui. Che quella di Procida fosse soltanto una trappola?»

Uno stile rapido che conduce per mano e che conferma ancora una volta le capacità di un autore che difficilmente delude le aspettative. Solido anche l’intreccio, ben cadenzato e dal ritmo ben ponderato. Buona anche la caratterizzazione dei personaggi e i temi trattati che riportano l’attenzione su scenari contemporanei che ben si fondono con quello che è il panorama attuale del nostro vivere.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    26 Giugno, 2022
#1 recensione  -  

Bergelon e l'esistere

Geroges Simenon ha da sempre dimostrato le sue doti di narratore, tanto nelle opere con protagonista Maigret, quanto in quelle che si distanziano dal personaggio principale. Caratteristica, questa, che gli ha permesso anche di sviluppare trame attorno a figure femminili che si contrappongono con il modello di donna dell’epoca e che appaiono sin dal principio come figure forti, carismatiche, furbe e astute.
Ne “Il dottor Bergelon” ci riallontaniamo dal personaggio principale e conosciamo Berlegon, Cosson, Cecile, Germaine, i quali vengono mostrati senza filtro alcuno al lettore. È una tranquilla realtà quella che viene messa in subbuglio, quella del primo attore, Bergelon, medico condotto trentenne, coniugato e con due figli. Egli si trova a metà. A metà tra chi brulica ai piani alti di un’esistenza agiata e chi invece negli anfratti degli invisibili. Si gode quella calma data dalla consuetudine, lui che viene da una famiglia fatta da un padre alcolizzato e tanti tanti tanti fantasmi di un passato che non sempre sembra celarsi.
A gestire l’economia familiare è la moglie, minima la sua voce in capitolo nella gestione super parsimoniosa e talvolta anche ingiustificata. Portando i suoi clienti dal ricco dottor Mandalin c’è un rovesciamento di giochi e ruoli: la discesa nel ceto sociale più basso dei suoi stessi clienti è inevitabile. Da qui non mancheranno alcol, prostituzione e le sirene.
Jean Cosson, giovane suo cliente, ve lo trascina dopo la morte di moglie e figlio a causa di una approssimativa gestione del parto della primpara nella clinica. Si sviluppa una forma di ossessione di questo verso Bergelon. Arriva a minacciarlo, lo ritiene responsabile. Arriva a desiderarne la morte. Bergelon stesso che pensa alla morte però non muore e anzi rinasce. Inizia perfino a nutrire attrazione verso il suo persecutore. E se questa essenza non fosse altro che la sua natura più intima e celata?
Ed ecco che “Il dottor Bergelon” si presenta nella sua essenza per essere un romanzo in cui quel che è l’oggetto principale è la natura degli uomini. Una natura fatta di meschinità, di umanità, di difetti, di pregi. Bergelon nonostante il legame coniugale finirà con il legarsi con una prostituta, si legherà in modo ancora più forte all’uomo che vuole ucciderlo, attende – quasi – pazientemente che porti a termine il suo proposito, cerca di staccarsi dalla monotonia di una vita sempre e fino ad ora non vissuta.
E non solo il medico sarà oggetto e soggetto di queste avventure e riflessioni, lo saranno anche gli altri protagonisti, seppur comparse ma pur sempre delineati con le loro emozioni e le loro imperfezioni. Sarà grazie a queste che li ricorderemo; non tanto per il loro aspetto quanto per il loro essere felici o infelici, speranzosi o rassegnati, demoralizzati o indolenti, arrabbiati o sognatori, malinconici o desiderosi.
Un altro romanzo a Georges Simenon che ci dimostra la forza narrativa di uno scrittore che non è mai stato solo Maigret. Anche Maigret.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    26 Giugno, 2022
#1 recensione  -  

Maigret e il Lettone

Corre l’anno 1931, un nuovo decennio del Novecento ha avuto inizio quando fa il suo ingresso nel mondo editoriale un personaggio inedito quanto di poi fortunato: Jules Maigret. Il commissario e la sua struttura fisica massiccia nel paradosso essendo egli enorme e ossuto, senza baffi, sempre rasato, senza scarpe rinforzate i suoi vestiti di stoffa fine, con una struttura plebea ma che eppure, vuoi per il suo essere, vuoi per la sua sicurezza, arrivava tutto d’un pezzo. Tanto che dal momento del suo giungere, tutto sembrava doversi spezzare contro di lui, lui e la sua pipa inchiodata alla mascella.
Maigret è un uomo con un carattere forte, burbero, di poche parole e buone. I modi sono bruschi, è sempre alla ricerca di calore negli spazi e nei luoghi e al contempo è placido, dichiaratamente pigro per poi di fatto non esserlo.
Ad essere oggetto dell’indagine è Pietr il Lettone, un uomo di età apparente di 32 anni, di statura pari a 169 centimetri, un uomo che si presume essere appunto lettone o estone, che parla correttamente il russo, il francese, l’inglese e il tedesco, un uomo molto istruito che sembra essere a capo di una banda internazionale specializzata in truffe. Una banda che è stata individuata a Parigi, ad Amsterdam, a Varsavia, in diverse città europee; luoghi che lo avrebbero visto come protagonista e che adesso lo vedrebbero approdare nella giurisdizione di competenza del commissario Maigret. Tra queste pagine, a far da padrone, è proprio il rapporto commissario/ricercato, un rapporto fatto da attese e da appostamenti ma che nel suo cadenzare e alternare la voci è anche molto attuale e riporta a tanti scritti del nostro vivere quotidiano e presente. L’indagine si scioglie tra un giusto grado di tensione e quotidianità che trattiene. A far da perno è il fulcro centrale dell’opera ovvero il focalizzare sul nesso psicologico, sulla condotta del colpevole, sulla sua psicologia.
Primo romanzo di Simenon in cui appare Maigret, “Pietro il lettone” è una sorta di episodio pilota che si avvicina molto più al thriller/poliziesco che al giallo canonico a cui poi si affezioneranno i lettori nei capitoli successivi. Questo lo rende un buon episodio per avvicinarsi al personaggio e scoprirlo ma anche per poi cogliere quelle che saranno le evoluzioni della penna, del protagonista e delle avventure sino alla sua maturazione definitiva. La lettura si presta a lasciarsi divorare, è un libro infatti che si legge tutto d’un fiato e che accompagna passo dopo passo. Degne di nota le descrizioni dei luoghi e della società che qui viene descritta in modo talmente vivido da essere percepita come concreta dal lettore. Ciò vale anche per il contesto storico, descritto e ricostruito magistralmente.

“Al punto in cui era la sfida sarebbe stato inutile fare tanti misteri. Maigret riprese il cammino e duecento metri più avanti trovò il Lettone, che non aveva tentato di approfittare di quell’incontro per sfuggire alla sorveglianza. E perché avrebbe dovuto? La partita si giocava su un alto terreno. Gli avversari si vedevano in faccia, quasi tutte le carte erano in tavola.”

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    22 Giugno, 2022
#1 recensione  -  

Lingua madre o Lingue madri?

Qual è la vera forza delle parole? Quando le parole hanno una forza tale da poter significativamente influenzare le radici e la vita di un uomo? Quando le parole, ancora, possono diventare nemiche? Paolo Prescher è il protagonista del romanzo d’esordio di Maddalena Fringerle, vincitrice del Premio Calvino del 2020. E Paolo sa bene quanto le parole possano avere una forza devastante e destabilizzante.
Siamo a Bolzano, luogo in equilibrio tra due realtà: quella tedesca e quella italiana. Paolo vi è cresciuto e da sempre sa che arriverà il momento in cui dovrà scegliere quale lingua parlare se vorrà costruirsi una vita e/o avere un lavoro. Però a Paolo questo gioco con la lingua proprio non piace. Non piace perché è consapevole della forza delle parole, di quanto queste possano abbellire o imbruttire un mondo, una realtà. Esistono parole sporche, ma esistono anche parole pulite.

«Le parole pulite sono così: dici una cosa e intendi quella cosa, sono vere e limpide, non ci sono associazioni mentali che le rovinano, che le macchiano o che le sporcano.»

Il loro uso è quanto di più devastante e pericoloso ci possa essere. Il padre di Biagio ne è la riprova. Soffre di afasia, è muto, eppure per il figlio questo suo silenzio è dettato dal contesto familiare fatto da una madre che negli anni si è lasciata troppo spesso andare all’isteria. Ed è quando il padre muore che sopraggiunge il desiderio di partenza e di abbandonare l’italiano per il tedesco. Che sia forse questo il giusto modo per salvare le parole pulite dall’assedio di quelle sporche?
Ha inizio così il viaggio di Paolo, un viaggio fatto di cadute e rialzarsi, un viaggio alla “Il giovane Holden”, un viaggio in cui si scappa da quel che si disprezza. È una voce a tratti disincantata, a tratti malinconica. Ma è una voce, ancora sola. Perché la realtà è che, per quanto adulto, egli resta sempre diviso a metà. Tra tedesco e italiano, in bilico esattamente come i personaggi di Salinger che sono tanto insoddisfatti quanto incapaci di comunicare sia soli che anche in compagnia.
Ecco allora che fa capolino la “Lingua madre”. Tra ossimori, riflessioni, ieri e oggi, senso di appartenenza e radici. È un libro che divide: o si ama o si odia. La narrazine al contempo trattiene ed irrita, lo scritto è molto autoreferenziale, talvolta si perde su se stesso, fatica a trattenere. Vince negli intenti ma non per questo anche sui risultati. Come anzidetto, divide e nel suo dividere lascia al lettore l’interrogazione sul senso della parola e della lingua in un mondo dove sempre più la parola è svalutata e depauperata del suo significato. A maggior ragione se complessa, stratificata.

«Erbe olfo facciamo blaun basta prego buono mettiti calzetti prendi freddo Regen prezzi appartamenti peggio Milano città calda Italia facciamo blaun montagne bilingui parchetto tu devi morire zweisprachig che castrone stazione schlimmer extracomunitari Kuhn blaun Erbe»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    20 Giugno, 2022
#1 recensione  -  

Lucio

«Ognuna di queste paure dice sempre la stessa cosa: ci ricorda che non siamo dei e che possiamo morire. Per la più piccola o la più grande impresa: noi possiamo morire, perché affrontandola scopriamo che non ne eravamo all’altezza, che quello non era il nostro posto nel mondo né il nostro destino né avevamo sufficiente abilità per sederci al tavolo di quel gioco. Se falliamo, moriamo. Io dunque credo che ogni paura sia un piccolo gioco con la morte: un avvistamento a cui possiamo decidere o meno di dare seguito: il cane che punta verso il cespuglio quando non sai ancora se lo asseconderai. […] Invece. Invece dal momento in cui il nocchiere ha detto: “Torniamo indietro”, io ho capito che l’unico modo per superare la paura è attraversarla.»

Il suo nome è Lucio ed è tramite la sua voce che conosciamo di questa storia narrata da Valeria Parrella con cui viene descritta la devastante eruzione del Vesuvio occorsa nel 79. d.C. La vicenda ha inizio in un lasso temporale antecedente e concomitante, una fase in cui conosciamo il protagonista ancora bambino e assistiamo al suo crescere, ai suoi sogni, a quel destino che sembra preordinato per lui. A quella vista, a quel difetto che lo porta ad essere vittima di un pregiudizio e di un destino stabilito da altri per lui. Pur tuttavia egli riesce a imbarcarsi su una quadriremi, “La fortuna”, flotta imperiale capitanata da Plinio il vecchio e stanziata a Miseno.

«Ognuno di noi dentro di sé sa cosa vuole, sempre, anche quando si professa disorientato. Ma quando si è molto giovani le possibilità della vita si partono da noi come raggi di una stella: sono tutti ugualmente splendenti, e per me quel bacio significava che uno di quei raggi sarebbe stato mio.»

Da queste brevi premesse ha inizio uno scritto che si prefigge di ricordare di una catastrofe ma anche di soffermarsi, con una vena lirista, su temi naturalistici.
Vi è infatti un prima e un consequenziale dopo l’eruzione. Tassello fondamentale per delineare le evoluzioni della storia. Tuttavia lo scritto non convince pienamente. Non si tratta d’altro che di un lungo racconto molto arioso, con ampia interlinea, margine e carattere, un racconto di appena 137 pagine che sono in realtà molto meno. Lo stile non ha mordente, tende ad annoiare, la vicenda è piacevole ma non riesce a trattenere. La scrittura è piatta, volutamente artefatta, lenta. Sfianca. Autocelebrativa. Peccato perché sarebbe stato un buon contributo per ricordare di un evento che ha segnato il mondo antico.

«L’idea che ci facciamo del mondo finché non ci diranno, no ce n’è un’altra porzione, no ci sono altre leggi, no non ci vedi bene – oppure non te lo diranno mai e allora ti crederai quel mondo finché non arriverà il sicario a rimetterti al tuo posto.»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    18 Giugno, 2022
#1 recensione  -  

Bujar

«[…] dovrei raccontare tutto nei minimi dettagli, mostrare i permessi e la carta d’identità, documenti che è come non fossero miei e mi porto addosso come adipe in eccesso, e dovrei motivare, spiegare e giustificare che non ho l’obbligo di divulgare il mio sesso a nessuno, che non sono responsabile di quello che la gente pensa di me, ma è una loro costruzione, una loro supposizione.»

Pubblicato da Sellerio nel 2020 con traduzione di Nicola Rainò, “Le transizioni” di Pajtim Statovci riprende ed estremizza il principio di Virginia Woolf presente in “Una stanza tutta per sé” per il quale «nel cervello dell’uomo l’uomo predomina sulle donne, e nel cervello della donna la donna predomina sull’uomo».
Tra queste pagine conosciamo Bujar, albanese, la cui storia si sviluppa tra il 1990 e il 2003. Tra ricordi, presente e passato. Partito dall’Albania per l’Italia con l’amico/amore Agim, si muove non solo tra diversi paesi ma anche tra diverse identità. Si muove tra Italia, Finlandia, Stati Uniti, Spagna, ricerca il suo posto nel mondo ma anche la sua identità. Questo soprattutto dopo aver rinnegato le sue origini albanesi. Non è semplice però integrarsi. Non è semplice entrare a far parte di un nuovo contesto sociale soprattutto se ci si sente diversi, se ci si rinnega (rifiuta e rinnega le sue origini) e si è additati come tali. Perché questo significa non avere identità, non avere radici, non avere origini, non avere punti fermi da cui crescere e svilupparsi.
Ma cosa racconta “Le transizioni” se non, in primo luogo, l’attraversamento nel tempo e nello spazio di un protagonista che cerca una identità anche a livello sessuale oltre che etnico.
È un attraversamento fisico e morale ma anche temporale e spaziale. Un attraversamento che è spaziale quando ha abbandonato l’Albania ma anche quando si sposta di paese in paese. È temporale quando si osserva il tempo farsi liquido e scorrere. Ed ancora è liquida quando sono assunte più identità nell’aver perso quella etnica.
A definire il protagonista sono i rapporti con gli altri ma anche la menzogna e l’invenzione. Perché inventare una identità presuppone la morte del proprio essere. Se inventi una nuova identità necessariamente devi rinunciare alle precedenti.
Un romanzo stratificato, complesso, filosofico e mentale. Un titolo che porta il lettore a interrogarsi sul concetto di identità non solo metaforica ma anche concreta, liquida, fluida. Una identità che non accetta e ammette categorizzazioni. Non importa il risultato della realizzazione quanto l’esistere e il vivere le vite che si desiderava vivere, essere liberi, essere umani vivi nel mondo.

«Sono un uomo che non può essere una donna, ma che volendo potrebbe sembrarlo, ed è meglio che so fare, giocare a travestirmi, e decido io quando iniziare e quando smettere. […] Posso scegliere cosa sono, posso scegliere il mio sesso, la mia nazionalità e il mio nome, il luogo di nascita, semplicemente aprendo la bocca. Nessuno è tenuto a rimanere la persona che è nata, possiamo ricomporci come un nuovo puzzle.»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    12 Giugno, 2022
#1 recensione  -  

Lucy e il suo Wiliam che fu

«E sembrava che non ci fosse niente da fare. E niente infatti si fece. Perché io non riuscivo a parlarne, e William diventò meno felice e si andava chiudendo in tanti piccoli modi, accadde davanti ai miei occhi. Con questa consapevolezza continuammo a vivere le nostre vite.»

Avvicinarsi alle opere di Elizabeth Strout è sempre una esperienza di grande prosa narrativa e stilistica. Sia che si tratti di opere autobiografiche, racconti che di opere di narrativa focalizzate su storie di grande intensità e contenuto. Vincitrice del Pulitzer del 2008 con “Olive Kitteridge”, ogni sua pagina sa essere intrisa di eleganza e padronanza. Grazia e vita, empatia e speranza. Un caleidoscopio di emozioni che ogni volta sopraggiunge con diversa intensità nel lettore. Talune volte con maggiore incisione, altre con minore forza evocativa ma pur sempre mantenendo quel centro narrativo capace di lasciare al conoscitore interessanti esperienze di lettura. Questo perché in primo luogo i suoi narrati sono storie di vita, traumi, ricordi di vissuto, miserie del quotidiano ma anche fratture mixate a fragilità e perdita e solitudini. Sono storie di persone.
Torna ad essere protagonista Lucy Barton dopo “Mi chiamo Lucy Barton” e “Tutto è possibile”, opere che già la vedevano protagonista (Einaudi, traduzione a cura di Susanna Basso). Lucy ha adesso sessantaquattro anni. È una donna matura esattamente come mature sono le sue riflessioni. Sul primo marito William con cui esordisce in questo scritto, su quei ricordi che la vedevano convalescente in un letto d’ospedale in attesa della visita delle sue bambine con il papà che poi ha lasciato per i tanti tradimenti. Ed è importante dire che adesso Lucy è una donna di successo, con una carriera consolidata, con delle figlie con cui ha mantenuto un rapporto forte e premuroso, e ora anche vedova perché da un anno ha perso il secondo adorato marito, David. William dal suo canto di anni ne settantuno ed è sposato con la terza moglie, Estelle che di anni ne ha ventidue meno di lui. Ha una carriera di scienziato agli sgoccioli e una vita da vivere ancora.
Ed è proprio questo “Oh William” di cui al titolo a reggere la narrazione. Perché sarà proprio questo rapporto bonario con il primo marito a suscitarlo ogni volta con una diversa accezione. Ed è proprio di questo matrimonio che ora Lucy ci parla. Di un uomo che è stato prigioniero di guerra, di un tedesco, di lavori forzati, di una fattoria di patate nel Maine in cui si innamora, di un segreto mai svelato dalla madre e della madre. Ma soprattutto, Lucy per mezzo di Elizabeth, ci racconta dell’intimità e della distanza che caratterizza ogni persona e ogni legame con l’altro. Anche e soprattutto quando ci si sente in bilico, inadeguati, invisibili, irriconoscibili. Quando la distanza prende e la fa da padrona anche se noi vorremmo che così non fosse.
Non mancano ancora riflessioni sulla classe sociale, sulla realtà americana, su quella mobilità sociale che spesso è solo parvenza ma non anche verità. Non dimentichiamo che è proprio la Strout che per prima ha parlato della “white trash” i cd. bianchi poveri e cioè quella classe sociale senza possibilità d’appello e voce. Tra presente, passato, solitudine e insicurezze. Ancora, invisibilità. Perché la protagonista persiste a sentirsi tale. Nonostante la sua vita piena, un affresco di un doppio matrimonio, un equilibrio tra le figlie, un vivere denso e ben cadenzato.

«Va detto però che non ho mai afferrato i meccanismi del sistema di classi americano, perché io arrivavo dal fondo assoluto e quello è un marchio che non ti levi più. Voglio dire che non sono mai riuscita a superare le mie origini, la miseria, credo sia questo.»

“Oh William” è uno scritto di gran contenuto riflessivo, che conferma le capacità dell’autrice, che descrive e delinea un’altra fase della vita della protagonista che ha accompagnato le letture di molti conoscitori, ma è uno scritto che talvolta è un poco ridondante, che tende in parte ad arrovellarsi su se stesso. Questo per i fatti narrati, per l’età descritta, per lo stile narrativo volutamente scelto che è sempre elegante e ben strutturato ma che in questo caso finisce con l’essere anche ripetitivo tanto da rallentare la lettura e renderla a tratti più difficoltosa soprattutto nel ritmo che perde di intensità.
Nel complesso resta un buon titolo, uno scritto che approfondisce tematiche care alla romanziera, uno scritto che tocca corde intime e che non teme di mettersi a nudo. Perché alla fine ciascuno è un mistero, un mistero di se stesso, per se stesso e per il mondo di fuori.

«E poi ho pensato, Oh William! Ma quando penso Oh William!, non voglio dire anche Oh Lucy!? Non voglio dire Oh Tutti Quanti, Oh Ciascun Individuo di questo vasto mondo, visto che non ne conosciamo nessuno, a partire dai noi stessi? Tranne forse un pochino, un minimo sì. Però siamo tutti misteriose costellazioni di miti. Siamo tutti un mistero, ecco che cosa voglio dire. Potrebbe essere l’unica cosa al mondo che so per certo.»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    12 Giugno, 2022
#1 recensione  -  

Miriam & Diego e il mondo dentro e fuori

«Negli occhi nerissimi teneva il coraggio che l’aiutava a campare fuori, nel rione e per le strade di periferia nell’esistenza precaria di ogni giorno, in quegli occhi Miki riconobbe il suo stesso convincimento, quello che tocca agli sfortunati: che l’altro sia il nemico da sconfiggere, e che dentro ogni essere umano ci sia un diavolo impossibile da estirpare. E sentì ancora una volta di trovarsi dalla parte sbagliata, lui prigioniero come lei, anche se in maniera diversa, prigioniero del suo lavoro, del passato, della famiglia, dei muri che la vita, il carceriere più crudele, gli aveva alzato attorno, della diffidenza costante che consuma e ti fa triste, solo, e morto, quella diffidenza che spesso basta a giustificare l’inganno altrui, perché chi in nessuno crede da nessuno verrà creduto.»

Il suo nome è Miriam. È una giovane e bella donna dagli occhi scuri e il carattere forte che mai mostra la sua fragilità al mondo che la circonda. Anche adesso, ancor più adesso. Adesso che la sua vita è approdata in un Icam, Istituto di detenzione attenuata, insieme a Diego il figlio di nove anni. La condanna, detenzione illegale d’armi, per proteggere forse altri, quel padre ancora più assente di cui il figlio ha ben poco ricordo. Diego che di anni ne ha nove e che non ha artigli per difendersi in quel mondo fatto di rione e strade, Diego che è troppo buono per il quartiere napoletano in cui è cresciuto e in cui è stato deriso per i suoi piedi piatti, gli occhiali e la pancia. Diego che tra queste mura cambia, cresce, acquista sicurezza in sé, Diego che impara a sua volta l’universo delle parole che la cara Melina annota e trascrive perché le “parole belle” devono essere custodite, Diego che muta volto, forma e faccia perché in quel mondo fuori ci deve ritornare. Lui che già conosce l’esclusione e l’isolamento. E ancora Miriam che non riesce a fidarsi del prossimo, soprattutto degli uomini. Che sente una morsa strapparle il respiro ogni volta che sente l’occhio maschile sul proprio corpo, Miram che non può mostrarsi debole e ancor meno può cedere. Miriam che non si fida e ancor meno affida. Una madre che cerca di tirar su forte e duro quel figlio che, al contrario, sorride a chi incontra perché nelle persone vede il buono.

«[…] Giacomo si chiese se l’accesso di rabbia che l’aveva pervaso non fosse solo invidia per Gramigna, che s’era liberato del desiderio di vivere, che rende inevitabilmente schiavi.»

E così, pagina dopo pagina, impariamo i ritmi di una vita dietro le sbarre. Una vita fatta da una parvenza di quotidianità, una vita tra divani e sbarre alla finestra perché pur sempre una condanna deve essere scontata. Ed ancora Melina che è una bambina fragile che ama le “parole belle”, le annota e cerca un ordine per quel mondo così disordinato e caotico. Ancora Amina fuggita dalla Nigeria che la vuole schiava. E Dragana che nei pensieri belli non riesce a credere. Anime devastate a cui si affiancano altrettante rose dai propri incubi. Tra queste vi è Miki, abbreviazione di Michele, che con la sua Tilde divide la vita ma che è schiacciato tra demone e desiderio, Greta con la sua ferita che non sembra aver ancora trovato una cura, Antonia che rifugge dalla monotonia. E Giacomo che rappresenta il confine tra mondo di fuori e mondo di dentro.

«[…] Capitava spesso negli ultimi tempi che la tristezza scendesse improvvisa sulle cose, a rubarsi il sorriso della mamma e il buonumore suo, allora in quelle occasioni lui strizzava gli occhi e provava a immaginarsi lontano, sul camion del babbo, a percorrere con lui una strada dritta in un giorno di festa, il vento d’estate che entrava dai finestrini, e suo padre allegro che mordeva un panino alla mortadella tenendo il grosso volante con una sola mano.»

Nato dall’esperienza diretta occorsa nel 2021 dall’autore in un Icam in provincia di Avellino (Icam di Lauro), “Le madri non dormono mai” è uno scritto meditato e cadenzato in cui si è protagonisti e non solo spettatori. Si cerca lo stesso abbraccio nell’altro, si cerca la possibilità di fidarsi e affidarsi, si osserva il paradosso del “mostro” che è sempre in agguato, pronto a coglierti di sorpresa. C’è ancora Napoli con i suoi paradossi fatti di arroganza, violenza e mancanza di opportunità mixata a una cordialità corale. C’è un dolore misto a speranza, ci sono silenzi che sono pause necessarie. Ci sono volti vividi e vivi che sono delineati con verità e concretezza.
E c’è la riflessione. Perché quando si è davvero liberi? Quando si è invece prigionieri? Qual è il confine tra prigionia e libertà? È possibile essere prigionieri anche in quello che è un mondo apparentemente libero e senza sbarre?
Lorenzo Marone torna in libreria con un romanzo con un grande obiettivo: quello di sensibilizzare il lettore e spronarlo a riflettere su tematiche importanti che vanno dalla detenzione penale, alle carceri, alla maternità, alla libertà.
Non mancano le assonanze con altri titoli del medesimo genere, anche di recente pubblicazione, non manca un ritmo ben cadenzato anche se talvolta più lento rispetto a quella che è la narrazione complessiva. Nel complesso una piacevole lettura in cui si ritrovano alcune tematiche care allo scrittore ma altrettante frutto di una chiara e ponderata meditazione dettata dall’esperienza in prima persona. Un buon prodotto per chi ama questo format.

«Te l’ho detto che la gente è cattiva, ma forse non è manco cattiva, è che non se ne fotte di niente, la gente, non se ne fotte se cambi o muori, se tieni paura o no, se tieni fame o stai bene. La gente, io ho capito questo, tiene a pensare solo ai cazzi suoi. E però ho capito pure un’altra cosa, che la gente non se ne fotte niente perché non conosce, perché quando incontri una persona e le vuoi bene allora te ne importa. Anche io ti ho incontrato, e ti ho conosciuto, e ora ci tengo assai a te. E quindi penso che bisogna muoversi e incontrare a tutti quanti nella vita perché se no non vuoi bene a nisciuno, ma allora che campi a fare? […] Vorrei essere più grande, così potrei venirti a cercare. E vorrei pure che tutti tenessero la dolcezza tua, perché il mondo sarebbe un posto bello assai. E invece così non ho l’ho capito se mi piace. Però quando mi viene la tristezza apro il quaderno e leggo le parole belle una a una e mi pare di vederle, mi pare di sentire il loro odore nel naso e davanti agli occhi mi appari tu e mammà, e anche quei giorni belli, e così la tristezza mi passa. Ciao Melina mia, ti mando un bacio sulla fronte, come facevo in carcere. A volte mi pare che quella cella è stata l’unica casa che ho avuto.»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    07 Giugno, 2022
#1 recensione  -  

Due sorelle

«Ora so che è per questo che io sono rimasta. Per raccontare la storia di tutti noi. Chiano chiano – come diceva nonna Assunta –, partendo dal principio. “E da dov’è che inizi?” mi domanda mio padre. […] “Dalla malalegna” gli rispondo. È di lì che devo partire. Da quando si è insinuata nelle nostre vite.»

Due donne. Due sorelle. Due volti intrisi di malalegna, del pettegolezzo. Due sorelle che conoscono fin troppo bene il significato di una parola velenosa pronunciata da persone che non hanno scrupoli e che danno adito al proprio animo umano. Persone che colorano queste pagine con vividezza. Teresa, la maggiore delle due figlie di Caterina e Nardino Sozzu, che ci accompagna con la sua voce narrante in questa Puglia fatta di dipinti e immagini vivide, in quel di una Seconda guerra mondiale giunta al termine e di un arco temporale che raggiunge gli anni ’50, e la sorella Angelina, la minore.
Due donne così diverse ma così vicine e lontane al contempo. Una memoria personale quanto collettiva, un vivere che rappresenta forza e che è intriso di resilienza. Riscatto, vitalità.
E se Angelina sin da bambina ha una scintilla di ribellione a caratterizzarla, Teresa è pacata ma anche calma e riflessiva. La più giovane che è così coraggiosa e talvolta sconsideratamente irruenta si affianca la pacatezza di una maggiore così silenziosa da essere quasi invisibile.

«Quanti anni sono passati, Angelina? Quanto intensamente ti ho amato? Se da bambine le comari avessero provato a descriverci, io sarei stata quella incompresa, taciturna, schiva, la spettatrice. E tu? Tu, Angelina saresti stata il sole.»

Al tutto si aggiunge una narrazione scorrevole, composta da una prosa abbastanza chiara anche se non sempre chiarissima a causa di un continuo alternarsi temporale che rende la lettura a tratti caotica o comunque incapace di rendere e trattenere lo stesso ritmo narrativo.
Un titolo che si legge con piacevolezza, forse ancora un poco acerbo e con una tematica spesso ritrattata ma che consente al lettore di trascorrere alcune ore liete. Certamente adatto a chi ama storie di questo genere e a chi desidera approfondire della tematica del pettegolezzo legato alle piccole realtà nostrane.

«Nonno Armando aveva il dono della narrazione. Mio padre quello del silenzio. Nonna Assunta la saggezza contadina. Mia madre e mia sorella, la bellezza. Io? Il mio dono lo dovevo ancora scoprire. Per gran parte della mia infanzia sono stata solo a guardare.»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    31 Mag, 2022
#1 recensione  -  

Colpevolezza e non colpevolezza dell'essere umano

«Ho avuto un’educazione all’antica, e non avrei mai creduto che un giorno mi si potesse ordinare di uccidere una donna. Le donne non si toccano nemmeno con un fiore, non si arreca loro danno fisico e quello verbale va evitato il più possibile, sebbene loro non ricambino quest’ultima attenzione.»

Chi già ha letto di Javier Marìas, o che già conosce le sue opere, sa di trovarsi davanti a un grande scrittore. Berta Isla è solo uno dei tanti scritti che lo caratterizzano e definiscono. Con “Tomàs Nevinson” (Einaudi, 2022), egli realizza una sorta di sequel di Berta Isla, uno scritto in cui il focus si focalizza in particolar modo sul terrorismo basco, l’Ira e l’ETA. Il fulcro è dunque incentrato e concentrato su quelli che sono stati gli anni bui che hanno coinvolto i paesi della Spagna, Irlanda del Nord e dell’Ulster.
I fatti sono narrati in prima persona, descritti da un protagonista che con chiaro incedere accompagna il lettore pagina dopo pagina per l’intero scritto.
Da qui l’agente segreto Tomas Nevinson, bilingue e dalla doppia personalità, madrileno per nascita ma inglese per formazione e segreta professione, torna a Madrid. È qui che vede la moglie Berta e i due figli Guillermo ed Elisa. Incontri saltuari e occasionali che alterna con il lavoro all’ambasciata. È l’Epifania del 1997 quando sopraggiunge una telefonata in cui il suo ex capo, Tupra, lo richiama al servizio. Per un favore personale dovrà raggiungere il Nord Ovest e con l’identità di Miguel Centurion, insegnante d’inglese, dovrà osservare e conoscere tre donne, una delle quali è una agente dormiente del terrorismo, una donna colpevole di crimini atroci che lui dovrà uccidere dopo averla identificata.
Si tratta soltanto di sei mesi e poi potrà tornare alla sua vita normale, alla sua quotidianità. Tuttavia i dubbi non mancano di prendere il sopravvento. Stabilitosi a Ruan, città così chiamata nell’opera, conosce Celia, Maria e Inès. L’unica single è Inès e con questa intraprende una relazione sentimentale. Sono tutte molto diverse tra loro.
Ad arricchire la narrazione i molteplici riferimenti letterari e le riflessioni filosofiche sottese. Cosa farà Tomas? Una volta scoperta l’identità della terrorista, porterà a termine la sua missione? Oppure la lascerà vivere? Chi è lui per uccidere? Sarà capace di colpire a morte una donna benché colpevole? Chi ha avuto l’occasione di uccidere Hitler, si chiede ancora, e non lo ha fatto, a sua volta è colpevole? Come il principio si applica per l’una si applica anche per l’altro.
Tanti gli interrogativi che accompagnano queste pagine e che portano il lettore a interrogarsi e riflettere su tematiche profonde che acquistano forza e autorevolezza. Ed è da qui che emergono le emozioni di uno scritto intenso e tormentato, di un testo diverso dal precedente “Berta Isla” ma che dal suo canto ha una capacità evocativa e narrativa forte e pungente.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    27 Mag, 2022
#1 recensione  -  

Barbara & Nicola

«Acqua, penso? Nicola, significa molte cose: quella salata del mare che aveva seppellito il mondo, quella stagnante del bacile della cantina di piazza San Filippo utile per sopravvivere, quella simile a un abbaglio che spingeva la ragazza a infilarsi in una nave sconosciuta.»

Non sempre la vita è chiara nel suo agire a maggior ragione quando ci troviamo davanti a una tragedia che non sappiamo spiegarci ma che, nel suo essere devastante, si tramuta in una occasione possibile di rinascita. Ed è Nadia Terranova a farci destinatari di una storia di questo tenore con il suo “Trema la notte”, Einaudi (2022).
Siamo nella notte tra il 27 e il 28 dicembre 1908 tra Messina e Reggio Calabria. Una notte che la popolazione non potrà mai dimenticare perché il sisma più devastante della storia in Italia in quel del ventesimo secolo colpisce e annienta senza sosta e senza remora, senza nulla risparmiare. La Terranova riesce a offrire ai lettori un’ottima ricostruzione storica che ben si affianca e avvalora di personaggi solidi e ben costruiti.
Due sono i protagonisti: Nicola, bambino di appena undici anni che vive a Reggio Calabria e Barbara, ventenne originaria di un paese sito vicino a Messina, Scaletta Zanclea. Durante quella notte atroce la giovane donna si trova nel capoluogo siciliano in visita alla nonna per assistere, oltretutto, a una rappresentazione dell’Aida di Verdi. Ma quella notte tutto cancella. Sogni, speranze, ambizioni. Vite parallele si incrociano e finiscono con l’essere accomunate da uno stesso impensabile destino.
Nei primi capitoli assistiamo a un tessuto familiare che viene descritto nei dettagli, conosciamo i protagonisti, le loro prospettive per il futuro, per il divenire. E ci coccoliamo e crogioliamo in un calore dato da un senso di famiglia che spesso oggi non sentiamo o non conosciamo. Un senso di calore non sempre ben vissuto soprattutto dai due protagonisti. Ma scopriamo anche della mentalità chiusa di un paese radicato in superstizioni, in una mentalità che non accetta aperture e compromessi, che non accetta schemi diversi dai precostituiti.
Nicola è figlio di Vincenzo Fera, noto imprenditore della regione per la produzione di profumi al bergamotto. Maria, la madre, è una donna molto più giovane del marito e originaria del Veneto. La famiglia vive a Reggio Calabria ed è rispettata da tutti. Nicola è l’unico figlio della coppia, fortemente voluto dalla madre che, come retaggio dell’epoca, temeva di non poter avere figli. Ha talmente paura di perderlo, ne è talmente ossessionata che lo fa dormire in una sorta di cantina appena fuori dall’abitazione, un luogo in cui si giunge per mezzo di una botola e che è sporca, piena di animali, umida e in cui egli dorme su un catafalco legato mani e piedi dalla genitrice stessa. Qualcuno potrebbe portarselo via, fargli del male, lei deve proteggerlo. Questa è l’unica forma d’amore che Nicolino conosce. Un amore fatto di indifferenza dal padre che è interessato solo al mantenimento della sua posizione sociale, che tradisce la moglie sposata solo per convenienza e da una madre che vorrebbe poter controllare di più quei due uomini che ha in casa.
Barbara Ruello è figlia di un uomo di origini semplici che manda avanti la famiglia con lavori umili. La madre è scomparsa invece prematuramente a causa di una malattia. La protagonista non ha fratelli, sogna di scrivere e sente la mancanza della figura materna che avrebbe voluto conoscere meglio. I suoi sogni di studiare, di andare all’università si scontrano con la mentalità chiusa del padre che la vorrebbe sposata con un uomo benestante capace di garantirle agio e benessere economico. Cerca anche di combinarle un matrimonio proprio con un giovane che a suo dire rispecchia questi canoni.
Questo ciò che in sintesi e per sommi capi accade prima della tragica notte che tutto cambierà.

«C’è qualcosa di più forte del dolore, ed è l’abitudine.»

Quella notte tutto cambierà e per mezzo di un episodio Nicola e Barbra si incontreranno. Entrambi ignoravano l’esistenza dell’altro; eppure, per mezzo di una torpediniera chiamata Morgana, usata per i soccorsi, si incontreranno. Nicola ha appena lasciato Reggio Calabria a bordo della nave per raggiungere Messina quando all’arrivo si imbatte in Barbara che sale a bordo temporaneamente per cercare dell’acqua da bere. La giovane verrà scambiata per la zia del bambino e con questa scusa subirà una violenza inaudita. Una violenza che mai nessuno dovrebbe subire.
Ancora una volta le storie tornano a scorrere parallele, passano anni, entrambi sono costretti a ricostruire le loro vite. Perché la perdita non risparmia alcunché. Né da un punto di vista economico, che affettivo, che emozionale.
Da qui prende adito e campo la seconda parte dello scritto, una sezione dedicata alla speranza. Perché il dolore per quanto terrificante e devastante ha bisogno della speranza, non riesce a rinunciarvi. Non deve rinunciarvi per alcun motivo.
Il risultato è quello di un romanzo storico ben tratteggiato e delineato, uno scritto forse piccolo nelle dimensioni ma ampio nel contenuto, un testo in cui sono soprattutto le figure femminili a tratteggiare i confini principali della scena. Un esempio è la nonna paterna. Ma anche la stessa madre di Nicola che con le sue paure e timori diventa schiava della paura stessa.
Tante voci per un libro ricco di luoghi, storia, scenari anche macabri e violenti, una tragedia che non è solo sfondo ma a sua volta anche protagonista, una Italia che ancora una volta viene descritta con le sue criticità e le sue forze. Ventitré capitoli ciascuno dei quali prende il nome dalle carte dell’Arcano dei tarocchi ma che non temono di raccontare una storia a più voci che si snoda tra le bellezze della nostra terra, di Messina e di Reggio Calabria.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    25 Mag, 2022
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Ancora con noi, PIer Paolo

“Caro Pier Paolo” di Dacia Maraini, Neri Pozza, 2022, è un titolo che ha quale obiettivo quello di rendere omaggio e ricordare il poeta, saggista, scrittore e sceneggiatore Pier Paolo Pasolini di cui quest’anno ricorre il centenario dalla nascita (Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975). In questo contesto viene altresì inaugurato anche il nuovo format podcast di Neri Pozza che vede proprio Dacia Maraini leggere alcune delle lettere qui contenute.

“Caro Pier Paolo, i ricordi saltano come cavallette. Sembravano corpi morti, e invece eccoli vivi e vegeti, che si agitano per farsi sentire e vedere”.

Ed è con la solita e immancabile delicatezza di Dacia Maraini che conosciamo dell’autore, del legame tra i due narratori, dell’intima condivisione di pensieri e riflessioni che li hanno accompagnati negli anni e che li accompagnano ancora oggi, a distanza di una morte che ha separato le strade.
Ancora oggi misteriose le circostanze che hanno portato alla dipartita di PPP, un uomo ricordato come mite e pacato, dedito al proprio essere nel rispetto della propria vita privata. Un uomo paziente, dolce e anche mansueto. A dispetto, questo, di quel che le persone da esterne credevano e pensavano.
Pensieri, parole, un flusso di coscienza che scorre senza fermarsi in un turbinio di emozioni e riflessioni che coinvolgono, trattengono, scuotono. Eppure, a distanza di così tanti decenni, la memoria è ancora vivida, il ricordo torna e si fa presente. Ed è vissuto in tutto il suo struggimento. Questo sino a ricordare di Sabaudia, il luogo dove Pier Paolo Pasolini, Moravia e Dacia Maraini hanno affittato casa alla fine degli anni ’60. Con quelle dune bellissime e selvagge, con quei legami che solo la vita sa dare. E togliere.

“Ora che sei in pace e cammini sulle dune celesti, non credi di potermi dare ragione? Ho in mente una bellissima fotografia di te, solitario come al solito, che cammini, no forse corri, sui dossi di Sabaudia, con il vento che ti fa svolazzare un cappotto leggero sulle gambe.”

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    23 Mag, 2022
#1 recensione  -  

Assenze e presenze nelle assenze

«Raccontava di quando gli avevano messo i punti; era stato tenuto fermo da tre infermieri. Insomma, si atteggiava a ometto. Uno che ha visto mezzo mondo e te lo racconta con poca voglia tenendosi per sé il più bello, perché tanto non sapresti capirlo mai.»

Piccola ma doverosa premessa: Sacha Naspini torna in libreria con “Le nostre assenze”, opera classe 2012 che volontariamente è stata riampliata e riformulata per la inedita pubblicazione con E/O, casa editrice che si sta prodigando di ripubblicare tutti i titoli dell’autore precedentemente usciti con altri marchi editoriali. Questo ha comportato una rilettura dell’opera in chiave più matura e una conseguente rielaborazione della stessa. Per questo, arriva adesso tra gli scaffali in una formula completamente rinnovata.
Premetto di aver letto in passato l’edizione a cura di Elliot editori e di essere rimasta altrettanto affascinata dall’edizione 2022 a cura delle Edizioni Est/Ovest. Naspini ha la grande e unica capacità di riuscire ad arrivare ai suoi lettori con grande empatia e forza narrativa. Questo dipende anche dal fatto che lo scrittore introduce all’interno dei componimenti tanto di sé. Come, appunto, in “Le nostre assenze” dove il riferimento autobiografico è chiaro e inequivocabile.
Tra queste pagine a parlare è un ragazzino. Un giovane di nemmeno dieci anni che vive in quel della Toscana, teatro e scenario consono alle varie opere, senza nome effettivamente conosciuto, che vive in una realtà familiare disfunzionale. Se la madre lo ha avuto in giovanissima età, il padre è fin troppo spesso assente e la nonna, Bina, è l’unica ad essergli vicina. Anche nei momenti di dispetto maggiore. Sovrappeso, dispettoso, irruento, è il giovane, in particolare nei confronti di Michele che vive in una specie di discarica alimentandosi delle merendine che gli fornisce il protagonista e abbigliato con i suoi abiti smessi. I piccoli antieroi vivono nel territorio per eccellenza dei tombaroli cacciatori di tombe e reperti etruschi. Lo stesso padre del ragazzino non è da meno in questa arte. E come può il figlio insieme al succube Michele sottrarsi al sogno di trovare quel tesoro capace di assicurare ricchezza e prestigio? Non desideriamo forse tutti trovare quel tesoro sepolto che possa darci serenità, gioia, felicità e appagamento? Quel tesoro che ci completi e renda pieni e satolli di emozioni?
La storia prosegue con rapidità, con tono drammatico, con forza. Si lascia il paese, ci si sposta a Follonica, poi ancora a una dinamica famigliare che sarà oggetto di legami e sentimenti. Un fatto sconvolgerà il giovane ma rappresenterà per lui anche un momento di rinascita.
Una storia violenta, complicata ma anche di grande impatto emotivo. Al tutto si somma una penna che scava nel profondo, che tocca le corde più intime e oscure, che non fa sconti. Il tutto con una visione lucida e cristallina.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    16 Mag, 2022
#1 recensione  -  

Lily e Ryle

«Una bambina di due anni avrà lo stesso nome a qualunque età. I nomi non sono simili ai vestiti. Non diventano mai troppo piccoli, Lily Bloom.»

Elegante, garbato, intelligente. È questa la prima impressione che ha Lily Bloom, ventitreenne, di quel misterioso medico chirurgo che conosce su quel tetto proprio nella serata in cui più cerca solitudine essendo reduce dalla morte del padre e da un discorso funebre alquanto fallimentare stante che l’uomo per anni ha maltrattato la madre senza mai farle mancare vessazioni di ogni genere e dunque lei proprio non è riuscita a parlarne positivamente. Vessazioni a cui Lily ha assistito ma a cui non ha mai posto realmente fine. Osservando, cercando di entrare nella stanza nel momento del misfatto ma spesso limitando a ciò il suo intervento. Ryle Kinclad è un medico neurochirurgo ambizioso a livello sociale. Tra i due nasce immediatamente un gioco di verità nude e crude che li porta a confessare un certo reciproco interesse. Interesse che non confluisce in altro perché lui è alla ricerca di avventure di una notte, lei del suo Santo Graal.
Da qui le loro strade si dividono. La ragazza, laureata in economia, decide di inseguire il suo sogno e per farlo si dimette dall’azienda di marketing in cui lavora per aprire un negozio di fiori. Siamo a Boston, la sfida sembra improponibile eppure vuol provarci. Ad aiutarla ci sarà Allysa che niente di meno scoprirà essere la sorella di Ryle. Si rincontreranno per una caduta fortuita dopo ben sei mesi dal loro primo incontro e da questo momento, anche se serviranno altri mesi, sarà chiaro che tra i due vi è un’attrazione irresistibile che li porterà a legarsi.
Lui sembra essere il ragazzo dei sogni. Lei rivive gli anni dei suoi primi amori leggendo un vecchio diario dedicato a una sorta di amica immaginaria (la conduttrice di un noto programma televisivo) e in una serata come tante lo rincontra, quel suo primo amore. Atlas che al tempo era un senzatetto adolescente di diciotto anni è adesso un uomo con un lavoro e una relazione. Tra Ryle e Lily tutto sembra essere perfetto, lui si dimostra essere l’uomo dei sogni di ogni donna. Caratterialmente affascinante nel suo essere “nudo e crudo”, fisicamente bellissimo, professionalmente perfetto. Un Edward Cullen non vampiro dopo che avrà riconosciuto i suoi sentimenti, si potrebbe dire. Eppure, qualcosa porterà Lily a dover rivalutare l’uomo che credeva essere privo di imperfezioni, l’uomo che scoprirà avere un’ombra alquanto cupa ad offuscarlo. Ed ecco allora che un passato non così lontano tornerà a farsi vivido nella realtà di Lily, ecco allora che forse quell’agire della madre non sarà così lontano da lei.

«Siamo semplicemente persone che a volte fanno cose cattive. […] Ciascuno di noi ha una parte buona e una cattiva.»

Colleen Hoover dona ai suoi lettori uno scritto che si prefigge di parlare d’amore ma anche di violenza domestica e di tematiche di grande attualità. Preme fare una piccola premessa: la Hoover ha vissuto in prima persona una situazione di violenza domestica, senza rivelare quale, che l’ha condotta a voler scrivere in merito per trasmettere un messaggio molto importante. Per farlo ha “responsabilizzato” il suo personaggio portandolo a prendere una decisione non semplice.
Lo scritto scorre rapido e negli intenti riesce, nella struttura, tuttavia, perde. Non si può negare infatti che l’autrice abbia il merito di cercare di sensibilizzare il lettore su una problematica troppo spesso celata o omessa ma, al contempo, c’è una certa dissonanza nella lettura.
Lo stile narrativo, che all’inizio può essere conforme alla voce narrante ventitreenne, a lungo andare stona perché non matura e resta al pari di un linguaggio adolescenziale che non riesce a suscitare il completo coinvolgimento in chi legge. Senza contare la naturale crescita dei personaggi a cui appunto sarebbe corrisposta una maturazione espositiva. La prima parte, ancora, si dilunga tra una serie di diari in cui conosciamo Atlas ma senza nel concreto riuscire a comprendere le ragioni di certe decisioni di Lily e al contempo, stante che lei già si sta frequentando con Ryle, risultano essere quasi una forzatura. Questo a maggior ragione se in parallelo con l’epilogo. Ryle è prima l’uomo perfetto e poi il demone celeste preda dell’irascibilità? Per quanto gli intenti siano ammirevoli, per quanto spesso certe figure possano effettivamente rivelarsi mostri, vi è una rottura dell’incanto narrativo che non viene percepita come concreta e veritiera e che quindi porta a porsi diverse domande. Sinceramente il mutamento che introduce la romanziera sembra un po’ una forzatura e come tale viene percepita.
Se la prima parte si legge con rapidità e senza sosta in un pomeriggio, la seconda arranca. Da un lato Lily sdubbia, dall’altro l’evolversi della vicenda e quel che poi verrà “scelto” non convince. In alcuni punti si rivela prevedibile e/o scontato. Questo a prescindere dalla categoria narrativa di appartenenza.
In conclusione, lo scritto ha un buon potenziale ma mal sfruttato. Questo perché troppo romanzato, questo perché in alcuni passaggi è reso quasi fiabesco. Si presta a una lettura gradevole, ci mancherebbe, rapida e facilmente conclusiva (in un giorno e mezzo si inizia a conclude a prenderla larga) ma per chi già ha letto del tema non apporta alcunché di nuovo. Al contrario, non mancano i canonici cliché. Per chi vuole avvicinarsi alle problematiche sottese potrebbe essere un sufficiente trampolino.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    11 Mag, 2022
#1 recensione  -  

La madonnina

«Madunina ghe scapa nient. Nulla può sfuggire ai suoi occhi. Dalla cima del Duomo scruta la vita ma osserva anche la morte.»

Luca Crovi rende omaggio al commissario De Vincenzi, creatura di Augusto De Angelis, con due libri che aprono le fila a “Il gigante e la madonnina”. In questi, “L’ombra del campione” e “L’ultima canzone del Naviglio”, conosciamo del personaggio e delle prime avventure.
Ma veniamo a noi. Siamo nel 1932, siamo a Milano e il presunto suicidio di Clotilde, apparentemente gettata giù dal Duomo, scuote gli animi. Ad indagare è Carlo De Vincenzi che, detto “il poeta del crimine” proprio per il suo amore per i classici e i libri in genere, non è così convinto di questo scenario. La vittima, d’altra parte, era stata maestra, ricamatrice, impiegata ed istitutrice. Era forse irrequieta ma anche espansiva e vivace, aveva anche lavorato in una rubinetteria e ora, con la nuova occupazione, era felice. Perché dunque suicidarsi?
Al contempo la città attende con ansia il ritorno sul ring di San Siro di primo Carnera, il boxeur detto “la montagna che cammina”. E se qualcuno volesse ostacolare questo evento?
Giorni ambigui, fatti di mistero e cupezza, dove ogni azione può essere intrapresa e interpretata in modo diverso e in cui il commissario dovrà agire per trovare una verità oscura e intricata in una matassa i cui nodi non sembrano volersi sciogliere.
Al giallo milanese ambientato nel passato si somma uno stile fluido e magnetico che trattiene e coinvolge tra descrizioni di ambienti e scenari e situazioni che si snodano con rapidità. Forse non il migliore della serie ma un degno nuovo capitolo che ben lascia spazio a ore liete e che dona ai lettori spunti di riflessione e un intreccio ben costruito. Tra presente e passato, tra giallo e mistero, in una Italia che mostra un volto diverso da quello che oggi conosciamo.

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Romanzi storici
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    07 Mag, 2022
#1 recensione  -  

Gli anni della guerra, nulla è eterno

«E poi cercare quelli come te, cercare senza farti scoprire, cercare in silenzio. Anche qui ci sono le regole, le regole della clandestinità. Anche qui bisogna obbedire, ma almeno si può discutere. E poi sono gli ideali in cui credo.»

Walter Veltroni torna in libreria con Rizzoli e propone ai suoi lettori un piacevolissimo romanzo storico intitolato “La scelta”. Classe 1955 lo scritto ci riporta agli di una guerra tanto “sporca” quanto devastante, una guerra che i nostri nonni e i nostri padri hanno vissuto sulla propria pelle. Ed è per mezzo del Secondo conflitto mondiale che egli torna a toccare temi quali la libertà, l’autodeterminazione, dei popoli, i valori, la dittatura che schiaccia e opprime, la spensieratezza che viene meno in un mondo che si crede invincibile perché nessuno bombarderà la città eterna e che poi, appunto, quale credo viene smentito e disarmato dalla consapevolezza della verità che nulla è esente dalla guerra.

«Ribellarsi è giusto.
È così che voglio vivere.»

Anno 1943, tre gli avvenimenti che si succedono. Lo sbarco in Sicilia per mezzo degli alleati nelle coste siciliane in quel 9 luglio del 1943, il conseguente obiettivo di aprirsi al fronte continentale europeo, la sconfitta della Germania nazista. È qui che vivono le voci che animano l’opera e che pensano che la città mai potrebbe essere oggetto di bombardamento. Eppure i bombardamenti statunitensi nulla risparmiano come quelli avversari. Il 19 luglio è la data del primo attacco USA con obiettivo lo scalo ferroviario di San Lorenzo. Questo avvenimento fu artefice di questa nuova consapevolezza di vulnerabilità. Il Duce si trovava a Feltre per l’incontro con Hitler e nella notte tra il 24 e il 25 luglio fu esautorato dal Gran Consiglio del Fascismo e dopo deposto dal re Vittorio Emanuele III di Savoia.
La famiglia De Dominicis vive in un quartiere popolare. Ascenzo, il padre, è fervido sostenitore di Mussolini da sempre. Lavora come usciere in via Propaganda presso l’Agenzia Stefani, l’Agenzia stampa fascista e attuale Agenzia Ansa. Manlio Morgagni, amico e ammiratore di Mussolini, ne dirige i vertici e in rispetto al Duce a tutto sarebbe disposto, anche a togliersi la vita. Nel mentre, Arnaldo, il figlio di Ascenzo è un antifascista convinto. Un padre e un figlio in disaccordo per una ideologia politica e che come altri nella storia del nostro vivere si sono allontanati per questo. A far da contralto, Margherita De Dominicis, quattordicenne che in quei giorni si riscopre donna, che ha paura e che proprio in quel lasso di tempo scopre cosa sia la realtà della guerra.

«Voglio essere sicuro che Margherita e io cresceremo in un mondo senza bombe, senza nemici, senza guerre.»

Un romanzo di grande intensità che non manca di trattare temi della famiglia, i rapporti tra padri e figli ma anche gli scenari di un conflitto che da sempre e per sempre ha segnato il nostro passato, presente e futuro. Walter Veltroni accompagna con molta semplicità e rapidità il lettore, lo porta a risvegliarsi con gli stessi protagonisti che da un momento all’altro scoprono di questa verità.
Perché è da questo momento che ogni famiglia dovrà fare “la scelta”. Tra trasformismi, eroismi e pensieri che si sostituiscono a violenza, odio e divisione precedentemente dettati dal regime.
Un romanzo che invade, resta e sorprende. Con genuinità e con rapido incedere.

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Racconti
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    30 Aprile, 2022
#1 recensione  -  

La mia Africa

«Per dare più verità al mio nuovo libro, avevo bisogno di sentire il posto, di rivisitare i ricordi, di ascoltare le voci di strada. Avevo bisogno di vedere la città.»

Quella di Mia Couto è una scrittura atavica. Da sempre le sue opere colpiscono il lettore per la capacità introspettiva e la propensione all’analisi critica di un mondo circostante che nel suo essere delineato non risparmia e non perdona. È uno stile, dunque, che si conforma al narrato e che con la sua unicità definisce i caratteri e i connotati del vivere quotidiano e del costante abitare. Già in “Confessioni di una leonessa” ciò veniva messo in evidenza, in quello che era uno scritto che riguardava la caccia ma che al tempo stesso riguardava il quotidiano relazionarsi in un universo di disuguaglianze e istinti primordiali.
Questa volta Couto torna a interrogarsi sulla sua Africa ma in modo diverso. Tutto ha inizio da una città, la città natale che nel 2019 viene devastata da un ciclone tropicale. Questo primo aspetto è l’elemento che più consente al lettore di iniziare a interrogarsi perché è da qui che lo scrittore si sposta su quelle che sono le inefficienze dei governanti africani.
Ed ancora si sposta sull’anima di quei luoghi che sono dotati di forza straordinaria. Con quei crepuscoli senza fine, con una memoria senza tempo che sembra essere scolpita in una operazione dolorosa che riguarda un intero popolo.
Sono infiniti i luoghi del ritorno. Sono luoghi imposti da dittatori sanguinari e da, spesso, assenza di coordinazione e legalità.

«In nome della sicurezza mondiale sono stati imposti e mantenuti al potere alcuni dei dittatori più sanguinari di cui si abbia memoria.»

In una completa assenza di legalità. In una completa abnegazione dei problemi sociali e una diseguaglianza che non tarda ad emergere e manifestarsi. Quasi come se esistesse un autismo dal resto del mondo verso questo continente silente eppure urlante.
Che ruolo può avere in questo contesto la convivenza civile? Che ruolo può avere in questo contesto la parola, la libertà, l’esistenza? Che ruolo può avere la morale? Può questa essere la letteratura?
Parole quelle presenti tra queste pagine che ci ricordano chi siamo ma che soprattutto ci ricordano che tutti possiamo fare. Recuperando le storie di chi abbiamo accanto, custodendole. Ricordando i passati, dei vinti ma anche delle minoranze. Rivivendo un territorio sin dalle sue origini. Più semplicemente ancora, costruendo e contribuendo a costruire quello che può essere un mondo migliore. Per tutti.

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Romanzi storici
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    24 Aprile, 2022
#1 recensione  -  

Nuvole, mito, fantascienza e leggenda

Meritatamente vincitore del Premio Pulitzer per la narrativa con “Tutta la luce che non vediamo” (classe 2014) nel 2015, Anthony Doerr torna in libreria con “La città fra le nuvole”, opera ambiziosa e con un fine e un disegno molto grande e chiaramente complesso da perseguire. Doerr, già riapprodato in libreria dopo il grande successo del Pulitzer, non sempre è riuscito a mantenere la stessa capacità empatica ma mai ha disilluso per temi o argomenti trattati. Ha saputo commuovere e coinvolgere ma anche far riflettere e meditare. Questo in ogni suo scritto. Che si trattasse di una raccolta di racconti o di un elaborato più strutturato.
Ed è proprio questa la forza di Doerr e cioè raccontare storie ambientate tra presente e passato senza troppa difficoltà. Come in “Tutta la luce che non vediamo” in cui eravamo negli anni della Seconda guerra mondiale ma anche in luoghi lontani come ne “Il collezionista di conchiglie” ed ancora di storie di vita quali in “A proposito di Grace” in cui David Wincler, cinquantanovenne, prendeva una decisione tale da cambiare completamente la propria vita. Storie di grande capacità contenutiva ma anche di grande attualità. Storie che ci riportano al nostro legame con la Terra.
“La città tra le nuvole” è uno scritto dalla mole importante e dalla grande ambizione, come anzidetto. Settecento pagine che sono costruite sull’impostazione di una serie di voci narranti tra loro incastonate e delineate al fine di realizzare un unico puzzle.
Le storie che si susseguono tra queste pagine toccano archi temporali più ampi ma toccano e abbracciano anche secoli così come luoghi completamente differenti e con l’aggiunta di una narrazione alternata. Il tutto sino a creare dei microcosmi e microorganismi che fondano generi e realtà diverse.
Conosciamo Konstance che vive su una nave interstellare in un viaggio di circa cinquecento anni verso un mondo completamente nuovo dove abbracciare la speranza di un nuovo inizio.
Zeno e Seymour si incontrano invece nell’Idaho di oggi. Zeno Ninis è un uomo di anni ottantasei residente nella ridente Lakerport, paesino dell’Idaho ed orfano di madre sin da piccolissimo ma anche di padre all’età di 9 anni. Poche le gioie che conosce, tra queste la lettura e il mito. Ha un sogno, Zeno. Un sogno che consiste nel mettere in scena una rappresentazione teatrale con i bambini del luogo e che vorrebbe che potesse avere quale protagonista “Nubicuculìa” di Diogene (romanzo inventato abbinato ad autore esistente, n.b.). Testo, questo, ritrovato nella biblioteca di Urbino nel 2019 e scritto in greco antico. Ed è qui che si narra di una meravigliosa città fra le nuvole e delle imprese di un pastore, Ètone, che pare averla raggiunta in forma di cornacchia. È la lettura dei classici greci che nel concreto è ciò che lo ha salvato. Da sempre.
Omeri e Anna si scrociano e incontrano, invece, nella Costantinopoli del 1453. Un mito lega le voci dei protagonisti realizzando un’opera che oscilla tra narrativa, romanzo storico e fantascienza. Il tutto alternando fatti realmente accaduti con altrettanti frutto della fantasia.
Cinque protagonisti (Konstance, Zeno, Anna, Seymour, Omeri) che costruiscono il disegno di Doerr con tutte le loro caratteristiche differenti. Quel che davvero contraddistingue lo scritto è il messaggio, un messaggio che ruota attorno alla lettura e alla sua capacità di renderci liberi quando questa è totalizzante e completa nel suo svilupparsi.
Un testo che quindi offre tanto nella sua costruzione e nel suo lascito, un testo che non manca di avere dei grandi punti di forza nel suo essere evocativo e pungente ma che tuttavia presenta anche dei punti di debolezza non indifferenti. Tra questi uno degli ostacoli più grandi è l’alternarsi non tanto e solo di lassi temporali quanto di voci narranti. Il lettore si lascia trascinare dal testo, si lascia incuriosire ma questo avvicendarsi costante e continuo alla lunga stanca, perde di forza onirica, rallenta la lettura. A ciò si aggiunge una costruzione permeata su troppe voci narranti che tra loro non riescono a mantenere di intensità coinvolgendo in modo maggiore (e in questi casi la lettura accelera) o minore (caso in cui subentra un rallentamento non indifferente dello scritto) il conoscitore che in parte perde di interesse. Si crea come una frammentarietà, una difficoltà intrinseca nel mantenere vivida ogni narrazione e per effetto, vi è la perdita di pathos e forza narrativa.
Nel complesso resta un libro meritevole di lettura, un esperimento narrativo che abbraccia tre filoni e con un messaggio di fondo davvero bello. Forse un po’ prolisso, forse alle volte un po’ dispersivo, ma da leggere e godere con tranquillità e serenità.

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Romanzi
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    19 Aprile, 2022
#1 recensione  -  

Massimo e Checco

Già con “I guardiani” Maurizio De Giovanni aveva tentato di staccarsi dalle tematiche sue solite e care ma anche tendenzialmente seriali. Purtroppo con un tentativo che ha riscosso scarso successo. Con “L’equazione del cuore” l’autore torna in libreria con un nuovo romanzo ancora una volta non seriale. A esser padrone di queste pagine è Massimo De Gaudio un insegnante di matematica in pensione che ha fatto della materia il suo vivere a trecentosessanta gradi e che proprio all’inizio dell’opera rincontra un vecchio studente che ne esalta e ricorda le gesta. La matematica ha ricoperto tutta la sua esistenza, la sua dimensione. Questo lo ha reso anche un uomo freddo, distaccato. Ha perso la moglie e con la figlia i rapporti si sono incrinati. Vivono lontani e i rapporti si limitano a brevi conversazioni del più e del meno. Canoniche e ripetitive quanto paradossalmente sporadiche.
A causa di un evento nefasto e imprevisto la vita di Massimo sarà messa in discussione ed entrerà in scena Checco, il nipotino che finirà con il prenderlo come punto di riferimento. Questo anche se ciò è stato raffreddato da una distanza che non è stata solo chilometrica.
Quello che si apre ai lettori è un romanzo piacevole. Un romanzo che ha quale obiettivo quello di far trascorrere ore liete al conoscitore ma anche di consentire allo scrittore di staccarsi da quel formato e trend a cui spesso si è conformato portando avanti personaggi e storie tra loro consequenziali.
Non può definirsi l’opera prediletta e migliore di De Giovanni ma lascia gradevoli emozioni e si presta a una lettura rapida, che si esaurisce in poche ore senza troppe pretese. Un prodotto ben costruito in funzione delle esigenze di marketing del momento e a uno specifico target di riferimento destinato. Non un romanzo, ancora, indimenticabile ma capace di solleticare riflessioni in chi legge.

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Fantascienza
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    18 Aprile, 2022
#1 recensione  -  

Un disegno troppo ambizioso

Hanya Yanagihara torna in libreria con un’opera che ha un grande intento purtroppo, solo in parte, riuscito e questo probabilmente anche a causa di una mole non semplice da gestire. E questo purtroppo ha influito sulla struttura di un’opera che sin dal principio fatica a decollare e al contempo a conquistare.
La Yanagihara ha una ambizione molto grande con il suo voler delineare una trama che attraversa tre secoli tra un presente, un passato e un futuro e tracce che si susseguono tra epoche che vengono accomunate da taluni denominatori comuni quali le voci narranti. Alla base la ricerca di un luogo, di un sogno da realizzare, di un mondo in cui essere amati, sentirsi desiderati, sentirsi liberi. Questo soprattutto in un mondo che sembra essere stretto, incapace di lasciare possibilità e donare realizzazione alle anime. Che sia l’Ottocento come un futuro prossimo. Ciò sembra essere una costante, quasi come se si volesse rimarcare il dato quale imprescindibile e improcrastinabile.
Ci spostiamo nell’Ottocento, siamo in America, una America divisa tra liberi e non liberi e dove l’omosessualità è perseguitata e chiaramente non accettata. David Bingham è un giovane di buona famiglia, eterno indeciso nel suo non decidere, se vogliamo, che decide – nel paradosso – di andarsene. Per trovare il coraggio di dare realizzazione ai suoi desideri. Alla base la convinzione che questi sono realizzabili se lontani dalle proprie radici e da una famiglia che spesso ostacola più che sostenere. Magari è proprio quell’altrove il luogo dove poter amare liberamente.
Manhattan, fine del ‘900. L’AIDS è la piega che domina nei luoghi e che non risparmia. È una condanna, un marchio. La rabbia, il desiderio di nascondersi, un amore per un uomo molto più grande, caratterizzano David. Colui che ha lasciato le sue origini, la sua casa, alla ricerca, ancora una volta, di riscatto e libertà. Legami con un padre, ancora, che non accetta e rema contro, sono alla base del suo vivere.
Ventunesimo secolo. Epidemie, pandemie, distruzione e morte. Un futuro – prossimo – che non sembra donare amore e che non è capace di offrire un avvenire alle nuove generazioni. Non vi è spazio per sentimenti, emozioni, altruismo, gratitudine. Le malattie devono essere controllate e non esiste più forma alcuna di umanità. Complottismo, frontiere chiuse, ostruzionismo, centri di contenimento e ricollocamento. Uno scenario angusto, tetro e dove non vi è spazio per qualsivoglia forma di attività perché tutto sarà legato in questo divenire dalla passività costrittiva dettata dalla paura. Paura per la malattia, per la fine, per il soffrire. E i sogni? Esisteranno ancora i sogni e i desideri in un siffatto scenario?
Una narrazione che si sussegue purtroppo in modo disarmonico nonostante gli intenti di farla ruotare, a prescindere dai molteplici salti temporali, su un unico filo conduttore. Una narrazione, ancora, che perde di pathos, di forza nel suo svilupparsi, che fatica a trattenere e questo probabilmente anche per la difficoltà di gestire una mole di pagine molto ampia in virtù di un altrettanto grande progetto. A far da cornice temi diversi che si susseguono quali la solitudine e il soffocamento della prima storia, la nostalgia di un tempo che è stato nella seconda, una richiesta di ritorno all’empatia nella terza. Temi e problematiche che si perdono in quel narrare scostante e distaccato, in quell’alternarsi temporale che finisce con lo stancare il lettore che ha come l’impressione che non si giunga mai a fine. Sorge quasi spontaneo chiedersi quale fosse il vero obiettivo della romanziera, il fine ultimo, lo scopo, l’obiettivo a cui voleva condurci nel suo disegno iniziale ma anche finale. La domanda e la perplessità che perpetra pagina dopo pagina purtroppo tende a nono trovare risposta. La lettura si presenta come farraginosa e incompleta, conquista solo in parte, disincanta nel suo non incantare.

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sì = se vi piace il genere ma senza auspicare alle emozioni di "Una vita come tante"
no = se il genere non è di vostro gradimento e non avete apprezzato nemmeno le precedenti opere dell'autrice.
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Racconti
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    17 Aprile, 2022
#1 recensione  -  

Ti attendo in quella sera d'inverno...

«Vorrei che tu venissi da me una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.»

Avvicinarsi a Dino Buzzati è sempre un’esperienza che lascia il segno. Questo sia che si tratti di romanzi che di racconti come nel caso de “La boutique del mistero”. E non è mai semplice, questa scelta. Il racconto, per effetto ed esperienza, è una delle forme narrative in assoluto più complesse e difficili da realizzare in quanto proprio per la struttura in sé rappresenta una delle formule più ardue da gestire al fine di mantenere costante l’attenzione del lettore.

«Ogni vero dolore viene scritto su lastre di una sostanza misteriosa al paragone della quale il granito è burro. E non basta una eternità per cancellarlo.»

Ne “La boutique del mistero” ci troviamo davanti a 31 racconti che hanno la grande capacità di riportare alla luce quelle che sono le tematiche più care al narratore. Passando tra realtà e fantasia, tra mondo immaginifico e concreto, tra fantasia e quotidianità ma anche tra esistenzialismo e realtà. Ogni racconto è molto breve ma nella sua brevità racchiude una potenza evocativa notevole.
Tra le problematiche narrate non poteva mancare quella della morte, cara e riproposta spesso dall’autore in altre opere, e che viene affiancata da illusioni, fede, mancanza di fede e abbandoni e sconfitte. I personaggi sono ben costruiti e delineati tanto che non faticano ad entrare in empatia con il lettore. Ciascuno a suo modo, ciascuno per le sue caratteristiche, ciascuno per le sue non caratteristiche. Questo anche quando i tratti salienti sono accennati e non completamente costruiti. Questo anche quando sono le vicende a sorprendere per la loro evoluzione talvolta anche fuori dagli schemi più logici o più consueti che il lettore tende per effetto ad aspettarsi.
Tra dubbio e paura, morte e viaggio, malattia e guarigione, confine e confine oltrepassato, terrore e speranza. Il tutto è accompagnato dall’immancabile stile di un autore che spesso è stato sottovalutato ma che al contrario ha tanto da offrire. Da leggere e gustare un poco alla volta.

«Nessuno aveva capito; soltanto gli inconsapevoli soldati coronati di cento vittorie, quando marciavano stanchi per le strade della sera, verso la morte, cantando.»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    13 Aprile, 2022
#1 recensione  -  

Esiste l'omicidio perfetto?

Una libreria specializzata in libri gialli, polizieschi e thriller. Un gatto di nome Nero che ne è la mascotte. Un libraio a sua volta specializzato in gialli e per questo grande amante dei medesimi. Talmente amante da aver stilato, ben otto anni orsono, una lista di quelli che a suo dire e per sua esperienza di lettura sarebbero gli otto omicidi perfetti per eccellenza. Ed è proprio questo elenco uscito molti anni prima a incuriosire una detective dell’FBI che dopo aver trovato dei punti comuni con alcuni decessi apparentemente non collegati tra loro, si reca presso di lui. In parte per leggere le copie, in parte per avere delucidazioni in merito, in parte per trovare risposta a una domanda che da sempre incuriosisce e attanaglia: esiste davvero l’omicidio perfetto?

“Non mi fido dei narratori più di quanto mi fidi delle persone reali della mia vita. Nessuno dice mai la verità.”

Da qui ha inizio una narrazione che si sussegue con altalenante incedere e che porta a unire e fondere tra loro tante storie, ciascuna diversa, ciascuna eterogenea. Ma come riconoscere la verità quando si è circondati da falsità, quando attorno tutti mentono, tutti raccontano cose e versioni a loro modo, in modo ancora parziale o ancora omettendo e ricostruendo un qualcosa che potrebbe condurre a chiarezza definitiva? Ed è da questi assunti che si sviluppa un romanzo che si fonda su “realtà” e “finzione”, tra storie reali che si uniscono a quelle dei libri narrati, che incuriosiscono e guidano in un tempo e in una storia fatta di noir e tinte gialle.
Tuttavia, qualcosa non funziona nella narrazione. L’inizio dell’opera è caratterizzato da un meccanismo che porta a incepparsi, la scrittura non scorre, la trama non colpisce. Il lettore incuriosito comunque decide di procedere per vedere come potrà evolversi la vicenda, come potrà svilupparsi la medesima ma, eppure, finisce con il ritrovarla come un meccanismo mal oliato che non coinvolge nonostante l’idea di base originale e che in un certo senso sembra voler rievocare la Christie e gli altri grandi della letteratura.
Proseguendo ancora, lo scritto tende a diventare intuibile e perde, almeno in parte di pathos. Finisce con l’essere prevedibile e il conoscitore non fatica a comprendere l’epilogo. L’interesse per effetto scema. Un’occasione mancata di sfruttare un’idea originale. Un elaborato riuscito quindi soltanto in parte.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    11 Aprile, 2022
#1 recensione  -  

Il mio nome è Il Francese e queste sono le mie rag

«Quando fai quel mestiere, la prima regola è conoscere a fondo il mondo criminale che gira intorno alle tue puttane, perché prima o poi qualche fesso tenterà di portartele via. Anche solo per farti un dispetto. I malavitosi sono così: vogliono sempre dimostrare di avercelo più lungo.»

Toni Zanchetta è nato in una provincia veneta, non è davvero madrelingua francese anche se tutti lo conoscono come “Il francese”. Lui e la sua maison di 12 mademoiselle (premesso, la s finale che apparterrebbe alla lingua francese volutamente manca in quanto sta a rappresentare proprio il non conoscere della lingua della cui origine è appellato del protagonista) lavorano esclusivamente per una fascia medio-alta di clienti. Il giro è ben avviato e lui non si definisce un pappone, assolutamente non lo è, è un tramite tra le sue signore e la clientela, colui che le difende e che prende soltanto il 50% degli affari conclusi e nulla più. Il resto è delle ragazze, mica è un ladro o un pappone qualunque come quelli della mafia o criminalità locale, lui che approfittano e si puppano ben l’80/90% del fatturato. Non sia mai, lui alle sue ragazze tiene. Studia per loro un copione perfetto, sceglie con cura i clienti e da qui mette in scena i teatrini necessari affinché il pagatore di turno sia soddisfatto del servizio. Che voglia la casalinga formosa, o l’attrice d’altri tempi, lui ha sempre la ragazza giusta per l’occasione. Tuttavia, un giorno come un altro mentre accompagna una delle sue ragazze a un appuntamento ben retribuito con un habitué, ecco che un fatto strano accade: Claire, la ragazza, che viene lasciata davanti all’albergo non vi entrerà mai. Il cliente resterà insoddisfatto e di lei si perderà ogni traccia. Zanchetta non capisce cosa sia successo. Osserva le telecamere, sembra che qualcuno l’abbia chiamata, che lei sia tornata indietro. Pioveva ma è chiaro che la sua attenzione è rivolta a qualcuno che conosceva altrimenti mai si sarebbe fidata. Claire non era una sprovveduta.

«Non aveva capito che a volte servono concomitanze di eventi e convergenze di interessi per mettere in moto certi meccanismi.»

Passano i giorni. Toni cerca tracce della giovane senza trovarne. Che sia stato un colpo di testa della ventitreenne? Che si sia innamorata? Perché era così taciturna? Avvertite le forze dell’ordine su sua indicazione da parte della coinquilina Maura, Zanchetta si ritrova ben presto ad essere il sospettato numero uno. O meglio, l’unico sospettato perché la Ardizzone, la poliziotta incaricata del caso, non ha dubbi sul fatto che sia stato lui a far sparire la sua protetta. E se anche potesse ammettere che non sia stato lui, lui ad ogni modo andrebbe punito per come si è comportato in presente e in passato con le donne che ha fatto entrare nel suo giro e in giri meno “puliti” di quando faceva parte di altre gang e/o lavorava al servizio di altri. In soldoni, come si giri la frittata, la colpa è sempre di Zanchetta per la Ardizzone.
Da qui ha inizio una trama solida, ben costruita, accattivante che ci propone un personaggio inedito, un magnaccia, che generalmente non rientra proprio nelle simpatie del pubblico e ancor meno è narratore di una storia che lo vede protagonista ma in una formula che lo fa entrare nelle grazie del lettore. Un antieroe per eccellenza che a suo modo si trasforma in un eroe, verrebbe da dire. A differenza della commissaria che resta, paradossalmente, restia a entrare in empatia con chi legge per il suo essere così ferma nelle sue posizioni da non vedere oltre al proprio naso o vagliare altra opportunità al fine di scoprire la verità.
Brevi premesse che però non si fermeranno al mero caso relativo a Claire ma che ci porteranno all’interno del Veneto, un Veneto fatto di poche luci e molte ombre, di molto nero, molta opulenza ma anche molta omertà. Un Veneto in cui tutti sanno ma anche tutti celano. A ciò si aggiungeranno anche altre tematiche quali ad esempio il concetto di sex worker. La forza di questo libro non è però soltanto il noir che viene a delinearsi quanto proprio nei protagonisti che ne colorano le pagine. Dalle mademoiselle (ancora singolare seppur sia plurale), alla Ardizzone ma, soprattutto, a Zanchetta. Si evince un lavoro di ricerca serrato da parte dell’autore per renderlo credibile, in particolare dal punto di vista manipolativo. Zanchetta, come ogni perfetto vero pappone del caso, deve essere simpatico, entrare nella mente dell’interlocutore e come riferito dal romanziere stesso in una recente presentazione, riuscire, a manipolare e portare dove vuole chi ha davanti e dunque chi legge. Ecco perché Carlotto ha un altro merito, ha creato un personaggio che lascia il segno e di cui si vuole leggere ancora perché assolutamente credibile. Un personaggio che non fa rimpiangere L’Alligatore.
Dunque, in conclusione, un romanzo che si legge in un pomeriggio, che in apparenza può far storcere il naso per i suoi protagonisti e per la trama ma che in realtà conquista, si chiude con un finale aperto che fa ben sperare per il futuro e invita il lettore a riflettere su un tema affatto scontato e spesso celato da una società bigotta a cui fa comodo sotterrare e non riesumare i tasselli scomodi. Da leggere.

«Voltare pagina, buttarsi il passato alle spalle significava affrontare il presente con un grande senso del futuro, lo aveva letto da qualche parte. Così come aveva orecchiato, ascoltando la televisione, che da soli non ce la si fa. Lui si era mostrato disponibile. Lei aveva rifiutato. Amen.»

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Romanzi storici
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    06 Aprile, 2022
#1 recensione  -  

Dora & Irene

«Dora continua a succhiare. Finalmente la piccolina riceve una carezza sulla testa, la prima della sua vita: non lo sa ancora, ma sarà la cosa di cui più sentirà la mancanza.»

Siamo a Mantova, è il 1918. La Grande Guerra è giunta al suo armistizio quando, a distanza di pochissime ore, nascono Dora, già orfana perché la madre muore di parto, e Irene, ultima di quattro figli ma prima figlia femmina, ultimogenita dei marchesi Cavriani. Due sorti molto diverse quelle che legano queste due giovani bambine, poi donne, che crescono appunto in un contesto sociale diametralmente opposto.
Dora perdendo la madre viene affidata dalla nonna Regina a un’amica di quest’ultima, Luisa, che però dopo pochi anni, circa tre, è costretta per volontà del marito, che vuole trasferirsi ma senza portarsi dietro una figlia non sua, a separarsi dalla piccola che ben presto dimentica delle premure della madre adottiva. Regina infatti non ha alcuna cura della nipote, l’unico suo interesse è che sia il più magra possibile in modo da suscitare ancora più pietà nel prossimo nonostante la sua innata e innegabile bellezza. Regina è convinta che la figlia, quando ancora in vita, si sia donata al primo venuto e da qui sia rimasta incinta, in verità la donna ha concepito la figlia con il marito disertore in quei pochi attimi di libertà che li hanno rivisti insieme prima della fine del conflitto e del tragico epilogo. L’anziana è una donna avida, anaffettiva, ambiziosa. L’unico suo obiettivo è avere la pancia piena e per lei l’unico figlio degno di essere chiamato tale è colui morto in guerra, la figlia femmina altro non era ai suoi occhi che un peso e una puttana. Ecco perché a maggior ragione Dora deve rendersi utile, essere produttiva di denaro e anche, per questo, fare l’elemosina. Con i suoi grandi occhioni non mancherà di impietosire il prossimo…
Dal suo canto Irene cresce negli agi e più volte incontra la coetanea alla quale fa appunto la carità. Tuttavia le sorti delle donne sono destinate a incontrarsi anche in futuro e questo perché all’età di 7 anni Dora entrerà a servizio presso i Benedini che la prenderanno a cuore soprattutto quando la bambina sarà vittima dell’ennesima violenza della nonna. Dora riuscirà anche a imparare a leggere e scrivere, a farsi una educazione e a sua volta inizierà a puntare in alto perché di quei salotti ella vuol far parte.

«Agata è nata nella modesta casa di un piccolo ambulante, non certo tra gli agi cui è abituata ora. Ma le pecche, quando sono proprie, vengono dimenticate in fretta.»

La vita delle due donne non è semplice seppur in modo differente. Dora fatica a farsi apprezzare da tutti, Agata ad esempio, moglie del capostipite dei Benedini non la vede di buon occhio anche se questa è la prima ad appartenere a origini più umili. Ad ogni modo nel crescere la protagonista fiorirà in tutta la sua già conclamata bellezza e si fidanzerà in segreto con Eugenio, figlio dei ricchissimi Arrivabene e cognato di Irene. Da qui le loro vite si incroceranno ancora una volta. In una dimensione non sempre capace di accogliere chi vi si affaccia a maggior ragione se quel qualcuno non appartiene sin dalle origini a una determinata casta e a un determinato ceto sociale ed economico.
A far da sfondo il Fascismo, Mantova, la Storia che non perdona e nulla risparmia e il volto di un mondo che non accetta riscatti sociali ma nemmeno la possibilità di nascere sotto “un cielo sbagliato”.
Al tutto si somma ancora una penna rapida, fluida nel suo scorrere, chiara ma anche empatica. Silvia Truzzi riesce infatti a toccare le corde più intime del lettore per mezzo di una storia che emoziona e coinvolge e che rappresenta anche una grande maturità della narratrice in particolare rispetto al precedente lavoro “Fai piano quando torni”. Il lettore non fatica a entrare in empatia con i personaggi e le vicende e al tempo stesso è coinvolto anche dall’aspetto storico accuratamente descritto e delineato. Si evince un gran lavoro di ricostruzione storica da parte della romanziera che a maggior ragione rende concreto lo scritto e grazie a questo ancora più appassionante.
Il ritmo è rapido, la lettura sinceramente godibile. Forse qualche piccolo rallentamento nello scorrere nella parte centrale ma per necessità dell’evolversi della narrazione. Il lettore che già conosce l’autrice resterà sorpreso di questa avventura e della sua capacità di coinvolgere e scuotere soprattutto in alcuni punti in cui viene spontanea la commozione, il lettore che al contrario ancora non ha mai letto della sua penna resterà sinceramente colpito e incuriosito.

«Infila il naso nel collo del padrone, chiude gli occhi e assapora un lungo momento di dolcezza clandestina. Oggi la sua vita può cominciare»

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Romanzi
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    03 Aprile, 2022
#1 recensione  -  

Theo & Robin

Richard Powers negli anni è riuscito sempre più a distinguersi nel panorama letterario per la sua componente naturalista e la sua capacità di far riflettere su quello che è il mondo della natura ma anche a sensibilizzare in merito. E a distanza di mesi dalla lettura credo che la sintesi di “Smarrimento”, edito da La Nave di Teseo nel mese di ottobre 2021, sia “consapevolezza”.
Se dal punto di vista stilistico l’opera si presenta estremamente scorrevole la trama non è da meno, si segue con rapidità ma non ne rappresenta, a mio modesto parere, la vera forza. La trama, infatti, è abbastanza intuibile e non presenta, almeno nella sua prima parte, grandi sconvolgimenti o colpi di scena – cosa che oltretutto da una tipologia di romanzi quali quella presentata è cosa della quale non ci si aspetta alcunché.
Partiamo dal presupposto che “Smarrimento” parte da dove si era interrotto “Il sussurro del mondo”, opera che si era conclusa con un paesaggio unico nel suo genere, quello della foresta vergine delle Smoky Mountains, parco naturale dell’Illinois dove sappiamo aver scelto di vivere lo stesso narratore. E proprio in virtù di questo concludere e ripartire non sfugge il vero senso dello scritto e cioè la volontà di sensibilizzare, di rendere consapevolezza, di sfruttare la leva scatenante per fare qualcosa di concreto sul clima, sul problema del riscaldamento globale e i cambiamenti climatici annessi. Da qui ci spostiamo all’altro punto focale e nodale dello scritto e rappresentato dalla forza esistente tra i due protagonisti principali, un rapporto tra un padre rimasto recentemente vedovo e un figlio “diverso”, quasi “alieno” – in termini affettuosi e non denigratori – rispetto a quella umanità circostante. Da questa relazione emergono le emozioni che più scuotono dal punto di vista empatico e cioè il dolore dell’assenza di una figura tanto coniugale quanto materna, la solitudine, il profondo e mai abbandonato senso di inadeguatezza, la difficoltà di essere un genitore solo alle prese con l’educazione di un figlio che purtroppo viene definito problematico e quel sentimento di amore e affetto che lega queste due figure così indissolubili. Ecco perché Theodore Byrne, astrobiologo, e suo figlio Robin, di nove anni e amante della natura, sono come i membri di un equipaggio spaziale, come superstiti in un mondo distrutto. Ecco perché amano leggere “Fiori per Algernon” di Daniel Keys, ecco perché rendono tributo a quella fantascienza che appassiona ma che si sofferma anche sulla dimensione neurologica. Due facce, alla fine, della stessa medaglia. Vi è anche una riflessione sul genere umano che trapela con tutto quel pessimismo e quella sfiducia dati dal disincanto.

«Lo capii, là sul margine dell’oscurità: aveva visto l’incontaminato cielo notturno. Aveva ammirato le stelle come nessun altro avrebbe mai fatto sulla faccia della Terra. Aveva visto il cambiamento e il tempo, i cicli e la diversità. La matematica e le storie, innumerevoli, astruse e varie come le costellazioni sullo sfondo nero. Mi chiamò, da oltre il confine permanente dell’oscurità. Papà. Papà! Non hai idea. Ma io ero bloccato nella luce e non riuscivo ad attraversare.»

A ciò si somma una narrazione che si snoda sui ricordi, ricordi tra loro sfalsati ma che nel loro sfalsare ricostruiscono e compongono proprio quello che è sfaldato e distrutto. Una narrazione a cui si sommano temi quali l’ecologia, le scoperte neuro-scientifiche sul cervello, il dilemma morale e il dilemma etico, il tema della famiglia e dei legami del vivere.
Un’opera che scuote, suscita interesse e invita a meditare e che lascia anche aperti spiragli alla propria libera interpretazione proponendosi come uno spunto di riflessione che nel suo dare non vuole volutamente rispondere a tutte le domande che suscita.
Volendo si può anche definire o ritenere una distopia dai toni “leggeri”, un tributo al genere che non eccede nel suo sviscerarsi e che nei suoi obiettivi mostra, ancora, il paradosso del nostro mondo che paradossalmente sembra essersi smarrito in se stesso. Uno “smarrimento” che pare essere destinato a essere definitivo perché il mondo ha perso il suo volto, ha perso se stesso e non sa più ritrovarsi. Non mancano poi i riferimenti a pilastri del genere quali “La strada” di McCarthy e/o i racconti brevi di Ted Chiang. Una lettura sinceramente godibile.

«Il Currier Lab stava esaminando ciò che veniva definito “neurofeedback decodificato”. Assomigliava all’ormai superato biofeedback, ma con l’imaging cerebrale per un feedback mediato da IA in tempo reale. Un primo gruppo di soggetti – i “bersagli”– entravano in stati emotivi in reazione a stimoli esterni, mentre i ricercatori scansionavano regioni pertinenti dei loro cervelli usando la risonanza magnetica funzionale. I ricercatori poi scansionavano le stesse regioni cerebrali di un secondo gruppo di soggetti – i “tirocinanti” – in tempo reale. L’IA monitorava l’attività neurale e trasmetteva segnali uditivi e visivi per pilotare i tirocinanti nella direzione degli stati neurali preregistrati dei bersagli. In questo modo, i tirocinanti imparavano ad avvicinarsi ai modelli di eccitazione nei cervelli dei bersagli, e, apprezzabilmente, cominciavano a riferire di avere emozioni simili.»

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    01 Aprile, 2022
#1 recensione  -  

Il ritorno di Penelope Spada

«Veniva ai giardini sempre di sabato o di domenica. Arrivava nella zona in cui di solito mi alleno, si sedeva su una panchina, non troppo vicina e non troppo lontana dagli attrezzi, tirava fuori un libro e un taccuino dallo zainetto, si metteva a leggere e di tanto in tanto prendeva appunti. Anche se faceva freddo. Qualche volta alzava la testa e si guardava attorno, con un’espressione incuriosita, come se si fosse reso conto solo in quel momento di dove si trovava.»

Nomen omen. Un vero e proprio caso di nomen omen è quello che coinvolge Penelope Spada, protagonista nata dalla penna di Gianrico Carofiglio e arrivata al grande pubblico con “La disciplina di Penelope”. Un personaggio particolare, Penelope. Una donna forte, provata dalla vita, una donna tenace ma astuta che negli anni ha imparato a guardarsi le spalle. Lei che in un’altra vita è stata Pubblico Ministero, lei che per quel misterioso fatto proprio del passato ha perso tutto e tutti tanto da trascorrere il suo tempo in compagnia di caffè corretti con Jack Daniel’s dopo notti con uomini diversi. Così l’abbiamo conosciuta. Ed è ancora lei che ben sa come funziona il sistema giuridico italiano, per punizioni e sanzioni talvolta inflitte quando l’unico obiettivo è o dovrebbe essere la ricerca della verità.
In “Rancore” tutto ha inizio dalla morte di un barone universitario. Pare, per cause naturali. Ma se non fosse così? Questo è il sospetto della figlia, Martina Leonardi, che in quella morte naturale proprio non crede. Una morte occorsa mentre la figlia era all’estero, una morte che proprio non la convince e della quale sospetta la nuova moglie del padre. Costui, dopo il divorzio dalla madre, si era risposato con una donna molto più giovane, due anni meno della figlia, ma che il giorno della morte era partita per un centro benessere in Toscana. Eppure Martina non ha dubbi. Troppi gli interessi sottesi, economici e non, legati alla morte dell’uomo chirurgo ma anche professore universitario. Per una legislatura anche parlamentare, un personaggio noto a Milano. Ma Vittorio Leonardi non è un personaggio sconosciuto per Penelope, anzi…

«Una regola tanto ovvia quanto ripetutamente violata anche da investigatori esperti: bisogna lasciar parlare il testimone, senza interromperlo, fino a quando non ha riferito tutto con le sue parole. Alla base c’è una ragione tecnica che molto spesso viene dimenticata: se l’investigatore, quale che sia il tipo di investigazione (privata, giudiziaria, addirittura – o forse soprattutto – psicologica), comincia subito a pretendere chiarimenti, precisazioni, a porre domande che esulano dal contesto dei fatti, quello che si determina è un effetto dannoso anche se poco intuitivo. Il teste, invece di riportare la sua versione genuina di una vicenda, è “addestrato” a rammentare solo ciò che interessa all’investigatore. E così vengono disperse, spesso in modo irrimediabile, informazioni importanti. Succede perché, dopo aver raccontato una storia in un modo, poi tendiamo a ripeterla sempre uguale, più che a recuperare la memoria di ciò che è davvero accaduto. Perciò è molto meglio lasciar parlare l’altro senza interrompere la sua narrazione e la nostra concentrazione. Ci sarà tempo in seguito per chiedere delucidazioni e avanzare congetture. Il problema è che tutti noi troviamo difficile ascoltare in modo attivo, cioè senza intervenire ma lasciando percepire che stiamo ascoltando. Immagino dipenda dall’insicurezza del proprio ego. Ci interessano le risposte alle nostre domande, più che la versione dell’altro. Ecco perché, come dicevo, perfino gli investigatori esperti non sono immuni da un simile errore. Naturalmente, fra coloro che, conoscono questa regola e talvolta la violano ci sono anche io.»

Un passo che riporto con la forza del ricordo di uno studio essendo questo uno dei principi base che vengono insegnati durante l’esame di Procedura Penale. In “Rancore” Carofiglio onora in primis Dostoevskij riportando quella che può ritenersi una propria e personale interpretazione de “Delitto e castigo”. Una versione, in questo caso, in ambito universitario.
L’opera si sviluppa con rapidità, è avvalorata dalla penna di uno scrittore che ci ha abituato alla forma precisa ed elegante di uno stile narrativo privo di sbavature e che con questo secondo capitolo porta avanti una serie che regala ore piacevoli.
E per quanto sia possibile intuire chi sia il colpevole, l’intreccio regge tra colpi di scena e sequenze che si susseguono rapide. I personaggi dal loro canto sono ben caratterizzati e solidi nella loro costruzione. Il lettore non fatica a immedesimarsi anche se talvolta l’immagine di Penelope tende ad essere più maschile che femminile. Non può definirsi l’opera migliore dello scrittore ma regge bene e ben prosegue le avventure iniziate con “La disciplina di Penelope”.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    26 Marzo, 2022
#1 recensione  -  

Il mio nome è Mathilde Perrin, Perrin Mathilde

«L’omicidio è avvenuto a maggio. Alla vigilia delle vacanze, il commissario Occhipinti ha un unico desiderio, sbarazzarsi di quel caso che puzza un po’ troppo di bruciato. Vassiliev, invece, è stato esonerato al termine della prima settimana […]. I funzionari che lo mettono da parte non vanno per il sottile: non è all’altezza. Vassiliev non se ne lamenta.»

Se volessimo trovare una serie di ingredienti atti a definire “Il serpente maiuscolo” di Pierre Lemaitre non potremmo che non inserire tra questi ironia, humor ma anche drammaticità. A questi aggiungeremmo ancora una discreta dose di componente grottesca ma anche un tocco graffiante ed esilarante con immagini crude in perfetto stile francese ma anche in hard boiled per ricollegarci al filone americano. Un susseguirsi di emozioni e colpi di scena che conducono senza difficoltà a un epilogo che sa trattenere ma anche stupire.
Quante volte nel nostro vivere quotidiano siamo stati ossessionati da “pensieri serpenti” o da circostanze che proprio non ci volevano lasciare in pace. Per l’ispettore Vassiliev questi sono il commissario Occhipinti, un inetto mangiatore di arachidi ma anche un assassino che non vuol saperne di farsi catturare anche quando a essere commesso è un errore fatale.
Siamo nel 1985 e quindi siamo in un periodo storico dove ancora tutti i vantaggi della tecnologia e il suo divenire in crescita costante e rapido non sono ancora sopraggiunti. Venire a capo di intrighi, moventi, ricomporre indizi o trovare prove, non sempre è così semplice e/o intuitivo. Non lo è neanche oggi che abbiamo molti strumenti in più, figuriamoci allora – anche se non parliamo della Preistoria. Per risolvere l’arcano l’ispettore deve fidarsi del suo istinto ma ascoltare quella vocina può diventare estremamente difficoltoso se occorre interfacciarsi con una donna che nel suo essere è fuori dagli schemi e assolutamente impensabile come serial killer.
Mathilde Perrin, infatti, con i suoi sessantatré anni, la sua vedovanza e il suo vivere con un dalmata nella villetta a Melun, non lontano da Parigi, è certamente il serial killer meno pensabile della faccia della storia. Eppure, proprio lei, con i suoi modi, classe e aspetto, è artefice di molteplici morti. Dietro alla sua eleganza si nasconde un sicario implacabile e soprattutto inarrestabile. Dalla freddezza inequivocabile. Non sbaglia un colpo, la donna. A sangue freddo è portato a termine ogni compito che il comandante – suo superiore sin dalla Resistenza – le affida. Nessuna pallottola. Lavori puliti, senza sbavature, errori o distrazioni. Questo grazie anche alla sua grande intelligenza, al suo essere sempre eclettica. Salvo questa volta dove una pallottola è partita. Una pallottola sparata troppo da vicino per soddisfare quel desiderio di crudeltà gratuita, di violenza. Ma cosa sta succedendo alla donna che stranamente non si disfa dell’arma, si convince di una colpevolezza del vicino a danno del cane e sbaglia anche bersaglio? Vassiliev con la sua testa piena di serpenti, nel mentre, individuerà il serpente maiuscolo? Individuerà questo assassino feroce e crudo che senza remore colpisce e uccide? Chi riuscirà a fermarla? Sarà forse Henri l’uomo che ha sempre amato – e che a sua volta da sempre la ricambia – a riuscire nel compito?
Un titolo rapido, di facile lettura, curioso e capace di trattenere è “Il serpente maiuscolo” di Pierre Lemaitre, scritto al cui interno è contenuto tutto l’humor macabro e caustico proprio della penna francese. Il risultato è uno componimento che si lascia godere, non troppo impegnativo ma capace di trattenere nel suo mistero e donare qualche ora lieta.

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Storia e biografie
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    25 Marzo, 2022
#1 recensione  -  

Strategie di guerra e non solo

«Il meglio del meglio non è vincere cento battaglie su cento bensì sottomettere il nemico senza combattere.»

“L’arte della guerra” è un vero e proprio trattato di strategia militare redatto nel IV secolo a.C. e che si suddivide in tredici capitoli ciascuno dei quali dedicato a un diverso aspetto del conflitto e al contempo anche a un diverso modus operandi relativo a questo. Sul chi fosse Sun Tsu e sul suo esistere o meno ci sono diverse teorie in quanto c’è chi sostiene si tratti di mera leggenda e che non sia mai esistito, c’è chi pensa che fosse un nome fittizio appartenente allo stesso re e chi ancora invece ritiene che potesse essere un uomo chiamato ad addestrare l’esercito del re Wu. Sta di fatto che tra queste pagine viene analizzata l’intera strategia militare che si sposta sulle strategie atte a individuare i punti deboli del nemico, l’uso di spie, la gestione psicologica delle truppe, i luoghi di attacco e le strategie inerenti, a possibili escamotage per cogliere il fianco del nemico ledendolo senza compromettersi ma nemmeno senza lasciarsi colpire. Al tutto si sommano massime di saggezza e perle di narrato che conducono per mano, invitano a proseguire nella lettura ma soprattutto a riflettere su questa e su tutti quei messaggi sottesi che da queste pagine e da queste parole possono essere tratti.

«Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso ma non il nemico le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia.»

È la visione della guerra vista dalla prospettiva orientale, narrata da un esperto del settore e al contempo atta a plasmarsi a molteplici interpretazioni. Il testo è piacevole da leggere, è interessante da valutare e consultare anche a piccole dosi ma è piacevole anche da ascoltare nel caso in cui lo si preferisca nella versione audiolibro. Questo perché nel tempo il suo lasciato si è così plasmato e ampliato da rendersi ottimale per ogni tipologia di lettura che sia questa psicologica, di strategia militare o più semplicemente di consultazione.
“L’arte della guerra” ha saputo invitare il lettore a più variegate letture e questo per merito della sua eterogeneità di temi trattati e capacità multiforme. Oggi è anche un testo di consultazione e studio da parte anche di esponenti di spicco.
Ecco perché la sua lettura è consigliata alla mente aperta che desidera arricchirsi e soprattutto che cerca conforto, spunto e riflessione. Essendo un trattato che racchiude al suo interno massime e perle di meditazione si presta a una lettura piacevole per il lettore che vi si approccia con questo spirito. Potrebbe invece rivelarsi pesante e/o meno soddisfacente nel caso di lettore che invece predilige testi di altro genere, meno saggistici e più d’azione dal punto di vista della trama.

«Se il vostro avversario ha un carattere iroso, dovete tentare di irritarlo, se è arrogante, provate a incoraggiare la sua arroganza... Colui che è in grado di muovere il proprio avversario lo fa creando una situazione che indurrà il nemico a compiere una certa mossa; questi alletta il nemico con qualcosa che l’altro pensa di poter far suo. Tiene in movimento il nemico facendogli pendere davanti un’esca e poi attaccandolo con truppe scelte.»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    24 Marzo, 2022
#1 recensione  -  

Stefano e Ana

«Lo avevano guardato salire le scale, dalle telecamere, e si chiedevano cosa potesse volere da loro un ragazzino. Il casco in mano, il giubbotto aperto su un maglioncino leggero. Informale, ma elegante, scattante, giovane. Aveva esitato un po’ sul pianerottolo, ma questo l’aveva visto solo Oscar Falcone, dallo spioncino.»

Alessandro Robecchi torna in libreria con un’altra avventura dedicata al suo fortunato personaggio Carlo Montessori. Il romanzo che si viene presentando mostra ancora una volta la grande maestria del narratore ed è uno scritto che si presta a una lettura volutamente lenta per godere degli aspetti più intrinseci e al contempo propri di uno scritto che si lascia semplicemente gustare.
“Una annosa questione d’amore”, come direbbe Montessori, è oggetto del narrare. Infatti a essere protagonista è proprio un amore. Tra un ventenne ragazzo della Milano bene di nome Stefano ed una rumena di trentanove anni di bellissimo aspetto e dal nome Ana. Non c’è età che tenga o differenza che esista, i due si amano e tra loro le differenze possibili vengono meno. Che si tratti di anni, ceto sociale, o anche un passato molto da “dark lady” e molto poco da Milano bene. Tuttavia, di punto in bianco, Ana scompare. Di lei Stefano perde ogni traccia. Per ritrovarla decide di rivolgersi alla “Sistemi integrati” che per un effetto catena tirerà in ballo lo stesso Montessori. Man mano che l’opera proseguirà sarà però sempre più evidente come le sorti possano effettivamente cambiare e questo perché forse non esiste speranza alcuna per Stefano e la quarantenne.
Non mancano a colorare queste pagine anche Oscar Falcone e la Cirrielli che arriveranno a far squadra con Ghezzi e Carella che saranno incaricati di condurre una indagine parallela e avente ad oggetto usura, narcotraffico, finanza “malata”, boss delle ombre del vivere quotidiano e al contempo tutto quello che riguarda la faccia oscura della Milano che non è solo luci e abbagli.
Da qui l’ennesima bravura di Robecchi che propone sì un noir in suo perfetto stile ma che riesce anche a far convivere il giallo con la realtà del nostro quotidiano ma anche con le emozioni e le sfaccettature che caratterizzano ogni personaggio.
E potrà mai mancare l’audience, il dramma sfruttato e veicolato? No, certamente no. Ecco allora che entrano in gioco Bianca Ballesi e la presenza a “Crazy love” di Flora in quel che già in passato abbiamo conosciuto come “la grande fabbrica della merda”. Personaggi, ancora una volta, che tornano e che sono strumento perfetto per mostrare al mondo una realtà che non sempre è lucida e/o effetto di un vivere privo di secondi fini.
Il tutto è accompagnato da un ritmo che incalza, che si lascia godere e che porta anche il lettore a riflettere per mezzo di Carlo Montessori. Perché non solo le vicende ma anche le persone e i sentimenti avranno un ruolo determinante in questo scritto che ben mixa amore e mistero. Un titolo che sa essere struggente quanto incisivo nel suo essere un pugno nello stomaco.

«Niente. Solo schiuma. E l’annosa questione dell’amore.»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    20 Marzo, 2022
#1 recensione  -  

Il totemico divano

Ci sono autori che da sempre hanno tematiche a loro care. Francesco Dezio è uno di questi e lo dimostra il fatto che da sempre con i suoi lavori ha scosso e portato a riflettere sul mondo del lavoro. Questo è un tema che non manca di essere affrontato nemmeno nell’opera “Nicola Rubino è entrato in fabbrica”. Questa volta, però, Dezio costruisce il suo lavoro come un’antica tragedia greca all’interno della quale viene a essere tratteggiato un romanzo corale fatto uomini che alternano successi ad altrettante rovinose cadute. A far da protagonista è poi il mercato. Sì, il mercato. Perché? Perché partendo dalla descrizione del boom degli anni ’60 si arriva a trattare la crisi degli anni Duemila e da qui sopraggiunge il nostro presente fatto di altrettante digressioni e disillusioni. Il mercato, nello specifico, è governato da una serie di meccanismi e polifonie in cui i soggetti finiscono con l’incedere credendo di esserne anche autori e determinatori. Che si tratti di CEO, influencer o vip di turno.
Uno scenario progressista e in movimento che si contrappone a una realtà statica del passato, a un mondo che talvolta sembra schiavo dei propri meccanismi ma che non migliora nella dimensione attuale in quanto è questo stesso che non riesce a stare al suo passo. Il cambiamento è così rapido da sfuggire al suo stesso autore.
Ecco che ci troviamo in Puglia, in un paesino chiamato Infernominore, località amena teatro e scenario delle vicende in cui Natalino Manucci, partito come tappezziere si risveglia con una Holding quotata in borsa a New York e la pia illusione di un sogno di ricchezza abbordabile a tutti. Un sogno di ricchezza che fa gola ai suoi ex operai che convinti dall’ipotesi di un guadagno facile e un successo assicurato si buttano nella dimensione imprenditoriale. E poco importa se per raggiungere i propri obiettivi sia o meno necessario sfruttare il prossimo, rendere schiavo il proprio dipendente.
Un sogno di ricchezza che diventa utopia per Nuccio Forleo e Michele Persico, ma c’è davvero possibilità per tutti o forse dietro lo scenario rappresentato si cela invece una maschera in cui il sistema fagocita e inghiotte sacrificando il pesce piccolo ma non lo squalo di turno?
A far da sfondo il mondo operaio, una dimensione non identitaria ma nemmeno collettiva perché le nuove dinamiche e i nuovi scenari hanno portato a una frammentazione e alla perdita di capacità contrattuale e contrattazionale.
Cambia il mondo e con questo mutare muta anche la dimensione del lavoratore che oggi è preda di una dimensione ipocrita di benessere diffuso e alla portata, ipotetica nel concreto ma non nell’affermato, del tutti. Mera illusione, utopia. Utopia, ancora, che si infrange e lascia disillusi e amareggiati. Senza conforto o possibilità di riscatto. In una realtà di mera corruzione. Tu lavoratore osi lamentarti? E che problema è, esiste la delocalizzazione. Paesi lontani a costi inferiori di manodopera ma anche di costi delle materie prime.
Una panoramica completa quella proposta ne “La meccanica del divano” dove non mancano nemmeno analisi economiche, riflessioni, evoluzioni, impostazioni neoliberiste, realtà sindacale e il suo indebolimento ma anche know-how. Il divano, quindi, diventa simbolo e riprova di una dimensione borghese e totemica, un simbolo che è oggetto di comodità e risultato di una narrazione nichilista.

«Magari un’altra volta. Volevamo qualcosa di diverso, che attizzasse il pubblico. Quella roba non fa più notizia. Comunque ha ragione, per noi rappresenta un punto di svolta. Da lei – non foss’altro che per aggiornare le notizie che riguardano il profilo aziendale – attendevamo invece indicazioni sul suo successore. Tutta la stampa si interroga. Sarà maschio o femmina?» p. 170

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    17 Marzo, 2022
#1 recensione  -  

Il ritorno di Antonia Scott

Juan Gomez Jurado torna in libreria dopo “Regina Rossa” con “Lupa Nera” altra opera edita da Fazi Editore che spicca soprattutto per buon ritmo narrativo e buona struttura dell’intreccio. Jurado ha infatti la grande capacità di stupire con trame ben incasellate tra loro.
Ancora una volta torna Antonia Scott con il suo fedele Jon Gutièrrez. Le indagini intraprese per ritrovare Sandra Fajarado non sono concluse ma sono purtroppo a un punto morto. Nessuna notizia della donna ma nemmeno del signor White. Antonia continua a sentire un forte senso di impotenza anche se le mosse di Ezequiel sono state sventate. Ed ora che sono passati tre mesi a complicare il quadro si aggiunge il ritrovamento di un corpo nel fiume. Qui Jon è coinvolto da Mentor al recupero e identificazione del corpo in quanto ad ogni modo la morte è sospetta e poco chiara. Antonia deve tornare in pista anche se è schiacciata dal senso di colpa, dal dolore e dalla persistente sensazione di avere fallito.
E se da un lato Jon cerca di convincere Regina Rossa a tornare in azione, dall’altro Yuri Vororin viene trovato privo di vita in casa. Altro non è, costui, che tesoriere di un distaccamento mafioso spagnolo. L’unità di Regina Rossa viene per forza di cose coinvolta perché al tutto si somma anche la scomparsa della moglie di Yuri, Lola Moreno. Che si tratti di un regolamento di conti? Che si tratti di un colpo finito male? Che fine ha fatto Lola?
La trama si infittisce sempre più e man mano che prosegue si sviluppa la vicenda che in questo secondo capitolo vede la necessità di risolvere molteplici interrogativi. Tante le figure che si susseguono e che si alternano in un mistero che si protrae e complica in un susseguirsi di colpi di scena.
Tante sono però ancora le strade aperte e le domande in cerca di risposta. Non solo sulle sorti dei vari protagonisti ma anche su quegli aspetti del loro vissuto che ancora oggi sono fantasmi irrisolti.
“Lupa Nera” si presenta come un romanzo capace di incalzare, dal buon ritmo narrativo e costruito come un puzzle in cui tassello dopo tassello veniamo a ricomporre un disegno più grande. Il tutto sino a un epilogo soddisfacente e coerente che ben si presta a quelle che sono le aspettative e lascia ben sperare per quello che sarà il terzo capitolo della trilogia. Si tratta di un romanzo che non deluderà le aspettative degli appassionati del genere ma che regalerà anche alcune ore liete a chi cerca romanzi non impegnativi ma dal carattere avvincente.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    14 Marzo, 2022
#1 recensione  -  

Oscar, Diego, Gaia, Clara

«Per questo – anche per questo – spegneva subito la luce. Per evitare quello stordimento che ben rappresentavano i rettangoli chiari di muro incorniciati da residui di scotch e intonaco scheggiato, anch’essi appena visibili all’ombra di un grandissimo chignon, e che niente poteva allontanare, neppure il dispiacere per le liti dei propri genitori.»

Dopo “Blu” (Fazi Editore) e “Guasti” (Voland) torna in libreria Giorgia Tribuiani con “Padri”. Questa volta a far da padrone sono i legami, i legami famigliari. Se infatti in “Blu” conoscevamo una protagonista, Ginevra, che cercava di essere vista e che ci portava in viaggio introspettivo fatto di specchi, ossessioni e ombre e se in “Guasti” conoscevamo un fidanzato morto amato dalla nostra eroina, qui conosciamo uno scenario diverso che ha inizio con una morte e una resurrezione. Perché Diego Valli è morto quando Oscar altro non era che un bambino, un bambino che cresce senza quel padre a cui affidarsi e chiedere consiglio e supporto. Tuttavia, all’inizio dell’opera, un uomo con la chiave sbagliata cerca di entrare in quella che è casa di Oscar. Diego, che quella porta cerca di aprire, non sa di avere davanti il figlio ma al tempo stesso non sa nemmeno da quanto tempo effettivamente manca.
Una storia, quella che ha inizio, dai tratti onirici ma che altro non è che uno strumento per descrivere i rapporti, appunto, tra padri e figli. Oscar sa che quello che ha davanti è il padre, ha ricordo dell’ultima sgridata, Diego dal suo canto pensa di essere stato via un giorno e non quaranta lustri. Gaia, figlia di Oscar, non ha dubbi: ha davanti il nonno. Clara, la madre della giovane e moglie del figlio del defunto, porta alla luce le falle di un matrimonio che è sempre più in crisi.

«Che una figlia, in un momento di sconforto, possa chiedere un padre capace di ascoltare e che allora gliene venga dato un altro; che le venga resuscitato un padre più sensibile, più dolce, che ami la poesia e suonare la chitarra – poco prima del suo arrivo, giusto in tempo per l’arrivo, ma Gaia, per favore, c’è qualcosa di cui non ti senti causa? E chi vuoi mai che ti creda?»

Oscar inizia da qui a cogliere le fragilità di Diego, fatica ad accettarla e non riesce a perdonargliele. Al contempo non riesce ad avere un rapporto con la figlia con la quale vi è incomunicabilità. Tuttavia sarà proprio Gaia a cercare di fare da collante, a cercare di ricomporre i rapporti tra “padri”, tra “padri e figli”, tra “moglie e marito”. Anche se questo non sarà semplice o scontato.
Giorgia Tribuiani torna in libreria con un libro pieno di intenti e una trama che per effetto ricorda l’impostazione di “Blu”. Questo anche dal punto di vista stilistico. Ed è forse proprio la sua pecca. Perché seppur si comprenda il messaggio, lo si faccia proprio e lo si custodisca, si fatica a leggere queste 194 pagine che sono frammentarie, un po’ confusionarie ma soprattutto disconnesse. Non sembrano avere una vera e propria uniformità e questo non consente al lettore di entrare davvero in sintonia con le vicende ma nemmeno in empatia con i personaggi. La lettura tende a perdere di incedere, il ritmo si intoppa e stoppa. Ed è un peccato perché “Padri” avrebbe tutte le caratteristiche per riuscire e conquistare un po’ come successo con “Blu” ma non vi riesce. Lo stile poco lineare e discontinuo stanca e per quanto la lettura si esaurisca in poco tempo lascia un senso di incompiuto, di inconcluso, un retrogusto amaro fatto di una dose di insoddisfazione.

«Eppure, continuava Diego, prima o poi i figli crescono e scavano e le trovano comunque, le tue debolezze. E ti odiano per questo: per esserti mostrato invincibile. Ho perdonato mio padre dopo avere avuto te; l’ho perdonato in nome di tutti i miei errori, concedendogli di essere umano. Ma tu, figlio mio, mi hai perso troppo in fretta per scoprire tutto questo.»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    10 Marzo, 2022
#1 recensione  -  

Ballard & Bosch

Per gli amanti di Connelly questo romanzo sarà un gradito ritorno con Renée Ballard, ancora una volta, la quarta per la precisione, che torna a essere la protagonista delle avventure del narratore ma con l’ex detective ormai in pensione Harry Bosch. Tra queste pagine anche gli scenari e i retaggi del Covid, la pandemia che ha cambiato e che ha sconvolto le nostre vite e le nostre realtà partendo dalle nostre più semplici abitudini. Siamo a fine anno, è il 31 dicembre 2020 quando la Ballard, di turno con una collega, si trova a dover far fronte a una morte per omicidio. A essere freddato è Javier Raffa, plausibile affiliato alla gang Las Palmas. Il caso vuole che tra il bossolo ritrovato che ha ucciso l’uomo vi sia corrispondenza con quello che ha ucciso Albert Lee venti anni prima. In questo caso, però, la morte resta irrisolta. Ancora la Ballard è coinvolta in un’altra indagine, quella degli “Uomini della mezzanotte”, stupratori seriali che senza troppe remore si introducono all’interno delle abitazioni violentando le malcapitate di turno.
Da qui ha inizio un gioco di intrecci che farà decollare il thriller che spicca in particolar modo proprio per la sua costruzione. Non è tanto la trama a colpire essendo questa molto nelle corde di Connelly e talvolta per questo un po’ un dejà vu quanto proprio la struttura che lo caratterizza. Lo stile è rapido, privo di fronzoli, diretto e non disdegna molteplici colpi di scena in una sequenza logica che è un continuo in divenire. Unica pecca è che talvolta si perde in divagazioni evitabili che fanno un po’ perdere di coinvolgimento allo scritto essendo queste un qualcosa sul quale si poteva tranquillamente tagliare. Il finale lascia aperti degli spiragli anche per quelle che potrebbero essere future collaborazioni tra la Ballard e Bosch.
Altra peculiarità dell’elaborato è la capacità riflessiva che è in grado di sollevare per mezzo delle tematiche presenti quali ad esempio la denuncia sulla violenza sulle donne ed in particolare per quelle spesso considerate “invisibili”.
Forse non l’opera più indimenticabile di Connelly ma certamente un gradito ritorno piacevole da leggere e gustare in poche ore per staccare la spina.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    07 Marzo, 2022
#1 recensione  -  

Una nuova indagine per Arno e Lans

Torna in libreria Fabiano Massimi con il seguito naturale de “Il club Montecristo”, “Vivi nascosto”. Ancora una volta ci troviamo in compagnia di Arno Maletti, per il quale i computer non hanno segreti e Lans Iula, con un passato turbolento e un soggiorno in carcere alla fine proprio per amore.
E così torniamo ancora una volta a Mutina e con essa torniamo anche a leggere di carcere, detenzione e spesso ingiusta detenzione.
Questa volta a essere ritrovato privo di vita è Bruno Muta, ex prodigio della moda che viene ritrovato privo di vita all’interno della sua abitazione. E non più una giovane donna come nel procedente libro. Condannato per falso in bilancio, l’uomo ha scontato la sua pena e i dubbi sui possibili colpevoli si affastellano sul nulla stante che il suddetto non ha contatti con il mondo esterno. Ma su una cosa sembrano non esserci dubbi: l’uomo conosceva l’assassino. Troppi gli elementi sulla scena del delitto che testimoniano questo dato e in particolare il fatto che non sembrano esserci segni di violazione esterna o effrazione non autorizzata.
Da qui il subentrare in scena de Il Club Montecristo, l’associazione di mutuo soccorso che già abbiamo conosciuto nel precedente lavoro dello scrittore. A maggior ragione in considerazione che Ares Malerba, ex compagno di cella dell’assassinato, ha violato la semilibertà nelle stesse ore del delitto e adesso è scomparso. Come nel più elementare dei casi ogni sospetto si rivolge su di lui. Si sa come funziona nell’ordinamento giuridico e anche cosa e quanto possa pregiudicare avere dei precedenti in un contesto ordinario, figurarsi in ambito di un omicidio.
Ecco allora che Lans e Arno si troveranno a indagare sull’omicidio e con la presenza della sempre bella Lana e della squadra omicidi che cercherà di chiudere il caso giungendo alle conseguenze più evidenti, i due dovranno far luce e chiarezza su quanto accaduto.
Ancora una volta tra ironia e gag personali e familiari che non mancheranno di far sorridere il lettore ma anche di farlo riflettere. Uno scritto di facile lettura, con una nota anche introspettiva, piacevole e godurioso. Un titolo completamente diverso dalla saga dedicata a Sauer con “L’angelo di Monaco” e “I demoni di Berlino” ma non per questo di inferiore livello. Massimi sa distinguersi nel panorama letterario per intreccio, storia, prosa e penna.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    07 Marzo, 2022
#1 recensione  -  

Chiamata in Siena 23, al Lungotevere Flaminio

Debora Camilli di anni approssimativamente 25 e tassinara è una ispettrice mancata ma anche la tassista più insubordinata di Roma. Poliziotta sfumata con padre venuto a mancare troppo presto, madre infermiera e fratello studente di medicina, ella ha un rapporto molto particolare a livello sentimentale anche con il commissario Edoardo Roggio, cilentano, sulla quarantina, con i capelli castani e tutto tranne che un fisico statuario e in crisi con la moglie. Questa volta la nostra tassista non deve vedersela con un omicidio standard quanto con un morto ripescato nel Tevere senza documenti. Edoardo ora è stato promosso alla squadra omicidi e il suo aiuto sarà fondamentale. Ma chi è il morto? Si tratta di Guido Dantice, restauratore prossimo alle nozze. Impossibile che si sia suicidato, questo almeno secondo la madre e tutti i torti non li ha. Infatti le analisi di routine confermano quanto sospettato e cioè che la morte del giovane non è altro che dettata da mano altrui. È stato ucciso con un colpo alla testa e da qui il corpo è stato schiacciato da una macchina che vi è passata sopra. Il giovane si stava occupando di restaurare un Coubet, “Mare in tempesta”, per un collezionista milionario, tale Enea Bruganti. Quanto resisterà Debora dall’infilarsi nella storia? Può non intrufolarsi ovunque per risolvere il caso? Tassello dopo tassello la donna ricompone il puzzle e nel mentre deve anche cercare di risolvere la situazione sentimentale con Raggio adesso ancora più complessa a causa del subentrare della PM Caterina Carrano, vecchia fiamma di Edoardo. Davvero spenta? O forse vi è ancora qualche brace viva tale da riappiccare il fuoco? È alta, magra, tra i quarantacinque e i cinquanta, elegante, castana e con i capelli raccolti in una coda di cavallo.
L’indagine prosegue e i nodi piano piano vengono al pettine. Dal fatto che la coppia promessa sposa non andava così d’accordo, al fatto che il quadro da restaurare nasconderebbe un segreto.
Un susseguirsi di colpi di scena per un giallo piacevole che non delude le aspettative e che dona qualche ora lieta tra gag esilaranti e una indagine che il lettore cerca di risolvere insieme alla protagonista. Non mancano nemmeno i sorrisi e le trepidazioni relativamente al duo amoroso e alle vicissitudini che li vedono protagonisti.

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