Opinione scritta da Emilio Berra TO
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Danny e Reuven : storia di un'amicizia
"Se devi chiamarmi in qualche modo, chiamami Reuven" ; "Tu allora chiamami Danny".
Questo romanzo è certamente la storia di un'amicizia fra due ragazzi, ma vi è molto di più : il rapporto di due figli coi rispettivi padri; il fronteggiarsi di due concezioni e tradizioni all'interno della religione ebraica...
Le vicende si svolgono a New York, nel quartiere dove gli ebrei, immigrati dall'Europa, hanno ricostituito le loro comunità. Il periodo è compreso fra gli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale e i fatti successivi alla proclamazione dello Stato d'Israele nel '48.
Il momento storico è cruciale: l'olocausto in Europa; l'estesa, talvolta ricca e influente, comunità ebraica in America che si sente l'unica rimasta la mondo, quindi responsabile anche nei confronti di chi non c'è più. Poi il Movimento sionista per l'edificazione dello Stato d'Israele, con le dolorose spaccature fra chi agisce in favore del progetto e chi vi si oppone per il timore, in caso di riuscita, di una gestione ormai non in linea con le tradizioni originarie e protesa ad una mentalità sostanzialmente laica, 'americanizzata'.
Per chi, come me, ha una conoscenza piuttosto superficiale e un po' stereotipata del mondo ebraico, trova nel libro anche una fonte di conoscenze storico-culturali in misurate digressioni, mai pedanti, relative al Chassedismo, incline all'ortodossia più severa, ed all'Illuminismo ebraico, portatore di apertura e confronto verso la cultura occidentale di stampo laico: due modalità, a cui diversamente aderiscono le due famiglie protagoniste.
La parte preponderante del libro, e comunque sempre presente, è però l'aspetto relazionale/affettivo: Potok delinea grandi figure di padri, per i quali l'educazione dei figli è questione di rilevantissima importanza.
Aleggia, poi, fra le pagine un grande senso di rispetto per le opinioni altrui, e ancor più per chi le esprime. Si vive con forti valori ("L'uomo deve colmare la sua vita di significato"); c'è inoltre una tensione all'approfondimento capace di sorprendere chi mentalmente avesse già espresso giudizi stando alla superficie delle questioni.
Il libro presenta una struttura a cui solo le opere grandissime possono aspirare: nulla di troppo, nulla di troppo poco. In più si respira un'atmosfera di accoglienza, che consola e dà speranza: anche il dolore può essere un percorso necessario di crescita.
La scrittura, senza alcuna caduta di stile, è piana, senza fronzoli e senza enfasi, totalmente coerente al contenuto. L'ultimo capitolo, poi, è di sconvolgente bellezza e significato.
Si tratta di un libro per certi aspetti sapienziale, da cui si esce arricchiti e maggiormente riconciliati con se stessi e con gli altri. Terminata la lettura, si ha l'impressione di aver concluso una buona giornata.
" La sera si sparse lentamente in cielo " .
N.B. La storia narrata prosegue in un successivo romanzo: "La scelta di Reuven".
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Autori eccellenti
"La teoria della poesia è la teoria della vita" (W. Stevens).
L'americano H. Bloom è considerato il maggior critico letterario contemporaneo. "Canone occidentale" è probabilmente la sua opera principale.
Egli, in questo libro, si rifà alla teoria di Vico che postula un ciclo della Storia in tre fasi: teocratica, aristocratica, democratica; seguito da un periodo di 'caos' , dal quale emergerà una nuova Età teocratica.
Qui l'autore parte dal presupposto che "leggere al servizio di un'ideologia significa (...) non leggere affatto" : "la vera utilità (...) è ampliare il nostro crescente io interiore".
Ci sono, ovviamente, molti scrittori importanti, ma alcuni lo sono di più, perché formano il percorso che ha caratterizzato la nostra cultura, appunto la cultura occidentale.
"Il Canone è (...) l'autentico fondamento del pensiero culturale".
L'Età aristocratica, succeduta a quella teocratica, va da Dante a Goethe, dall'inizio del '300 al '700, quando artisti e intellettuali dipendevano dal mecenatismo e dalla protezione dei nobili.
Shakespeare, con Dante, è da Bloom considerato il più grande scrittore di quest'epoca, in quanto autore multiculturale, universale, per la "capacità di rappresentare la personalità e il carattere umani e le loro mutevolezze" : "vedeva la 'natura' da prospettive contrastanti".
L'autore precisa che "l'universalità è la caratteristica fondamentale del valore poetico".
L'Età democratica, che copre gran parte dell' '800, annovera insigni poeti quali Wordsworth, Whitman, Emily Dikinson, e, con l'estendersi della scolarizzazione, quindi l'ampliarsi della platea dei potenziali lettori, segna anche il trionfo del romanzo, con Austin, Dikens, Stendhal, Hugo, Balzac, Manzoni, Tolstoj, Turgenev, Dostoevskij, Zola, Flaubert, James.
Fra l'Età democratica e l'Età 'caotica' , Bloom pone "quella pericolosa transizione" chiamata "Età estetica", con il prevalere dell'irrazionalismo e la predilezione dell'estetica rispetto all'etica. Come opera più rappresentativa pone "Edda Gabler" di Ibsen.
L' "Età caotica", che segna lo smarrimento di valori e punti di riferimento, va da Freud a Beckett, e vede Kafka come autore centrale.
Già una ventina di anni fa, Boom captava fermenti spirituali, religiosi, di un percorso destinato a condurre verso l'affermazione di una nuova Età teocratica.
Oggi ne siamo ancor più convinti, anche, ma non solo, sull'onda di Papa Francesco.
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IL 'BUON SELVAGGIO' , ANCORA ?
"Dodici venti soffiano furiosamente su di noi ... non vi può essere niente di stabile".
"Camera con vista", romanzo giovanile del grande scrittore inglese Forster, è un'opera di gradevole lettura, ma non raggiunge assolutamente il livello di libri successivi, come il bellissimo "Casa Howard" o l'affascinante ed enigmatico "Passaggio in India".
Qui, le vicende si svolgono, nella prima parte, a Firenze; successivamente, in Inghilterra.
In atmosfera di sobria Belle Epoque, una ragazza inglese, accompagnata dalla matura cugina della madre,, si trova in viaggio a Firenze, in una pensione 'molto inglese', frequentata da stranieri. La camera, di cui si parla, è con vista sull'Arno. Ma i significati simbolici sono 'aperti'.
Alla bellezza di questa prima parte contribuisce lo sguardo di sottile umorismo con cui lo scrittore delinea gli ospiti, in particolare le ospiti, dell'albergo e le loro aspettative verso "il pernicioso fascino dell'Italia", cioè il pittoresco: magari "una straducola sporca e simpatica" (la congiunzione "e" al posto del "ma" la dice lunga!), oppure una scena locale ("Un tram elettrico passa sferragliando (...). Dei ragazzini cercano di attaccarvisi dietro; il bigliettaio, senza malizia, sputa loro in viso perché se ne vadano"). Il paesaggio, però, è seducente: "il Lungarno ridente di luci"; la campagna circostante, in cui "le viole s'inseguivano in rivoletti, torrenti, cateratte, irrigando il lato della collina di un blu intenso (...), coprendo l'erba di una schiuma azzurra". Complice questa meraviglia, ecco che accade 'qualcosa' ,il cui riverbero si estenderà anche al ritorno in patria.
Nella seconda parte, in Inghilterra, a mio avviso, Forster cade nei lacci dell'ideologia, che qui è il mito del 'Buon Selvaggio'. L'autore, che ben conosceva le pecche della borghesia, vi contrappone la 'spontanea naturalità'. Sappiamo, però, che la mitizzazione si basa sulla non conoscenza, quindi anche sulla non conoscenza dei limiti di questa presunta condizione.
Molti dibattiti sul rapporto natura/cultura sono avvenuti successivamente; al tempo erano ovviamente conosciute le discussioni di settecentesca memoria, e lì si attinge.
La conclusione sorprende e non sorprende. Chi ha qualche propensione per la letteratura d'intrattenimento non resterà deluso.
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'Il mormorio di una fonte nascosta'
Hella Haasse, 'Gran Dame della letteratura olandese' , è considerata fra le più grandi scrittrici della contemporaneità.
Questo breve romanzo, tutto pervaso da un enigmatico senso di mistero, sicuramente non spiacerebbe agli amanti del Giallo.
Ciò che non mi permette di includerlo in quel sottogenere della narrativa è il buon livello letterario che male si adatterebbe ad essere delimitato in un recinto, anche se contornato da tanti ammiratori.
Personaggio centrale è un giovane uomo, che trascorre un periodo nella solitudine della casa, in stato di abbandono, appartenuta ai nonni della moglie; dimora messa in vendita, ma che, pur affascinante nella sua maestosa decadenza, non trova acquirenti.
Egli ne pare inebriato, sedotto dalla sontuosa bellezza del parco: dal "radioso silenzio dei boschi d'estate", "dal profumo di rose (...) e con questo mormorio di vento tra i muri", dove vede "vibrare la luce del cielo sopra le chiome degli alberi".
In questa condizione di isolamento, avverte una costante presenza: "nel silenzio, che a volte avvolge la casa e il giardino (...), c'è un elemento di attesa carica di tensione"; "quando cala quel particolare silenzio, so di non essere solo".
Sotto forma di ossessione, emerge la figura giovanile della madre di sua moglie, scomparsa anche dal ricordo: mentre nel giardino "le rose sommergono la balaustra come un'onda di porpora e carminio", le stanze paiono spettrali e rivelatrici, "un guscio cavo miracolosamente pieno del mormorio del tempo".
Tra le carte ammuffite, comincia a delinearsi la figura di quella allora giovane donna, pittrice non realizzata: "riprodurre la bellezza percepibile dai sensi non basta a sedare la fame dell'anima"; i disegni ritrovati anelano ad altro...
Quelle vecchie carte, rifiuti del tempo, svelano contorni; rivelano mentre nascondono.
Le vicende procedono, colpi di scena si susseguono, il racconto acquista spessore e complessità: il più coinvolto e sconvolto è proprio il protagonista, giovane marito, qui volontariamente recluso in vacanza: fino a che punto la sua dimensione esistenziale e relazionale potrà essere ancora la stessa?
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LA PASSIONE E IL SUO RIMEDIO
"La principessa di Cleves" viene giustamente considerato uno dei romanzi più belli da quando esiste la letteratura.
L'autrice, Madame de la Fayette, era una dama della corte di Luigi XIV, il Re Sole. Siamo in pieno '600. L'opera, che riflette la vita cortigiana di quel tempo, è però ambientata un secolo prima, probabilmente per ovvi motivi di opportunità.
Il libro è frutto di approfondite ricerche storiche: siamo all'epoca di Enrico II ; entrano in scena personaggi come Diana di Poitier, Maria Stuarda, perfino Elisabetta I d'Inghilterra. Protagonisti sono però la Principessa di Cleves e il Duca di Nemour. Come sfondo la vita di corte: all'apparenza scintillante e vivace; in realtà "luogo dove la virtù era tanto necessaria e dove fiorivano esempi tanto pericolosi. L'ambizione e la galanteria erano l'anima stessa di quella corte (...). Tale era il groviglio di interessi e di intrighi (...) che l'amore era sempre intrecciato alla politica e la politica all'amore". Lì Diana di Poitier, l'amante del sovrano, ""dominava il re con tale assoluto dispotismo che si poteva dirla padrona della sua persona e dello Stato".
Lo stile, maturato nella ' civiltà della conversazione ' , è di grandissima efficacia letteraria, amabile e fiabesco: un giorno "fece la sua apparizione alla corte una bellezza che attrasse tutti gli sguardi" : la giovanissima Principessa, la protagonista, la quale ebbe la fortuna di avere come madre una "donna straordinaria per onestà, virtù e saggezza"; "Tutte le sue cure erano state rivolte all'educazione della figlia (...) e (a) cercare di renderla virtuosa e a farle amare questa virtù", che viene messa a dura prova quando conoscerà il Duca di Nemour, il quale si distingueva "per grazia della persona e per la nobiltà dello spirito".
Quest'opera, di portata anticonformistica allora come oggi, si caratterizza per una profonda analisi della passione amorosa che, come tutti gli stati emotivi, tende a consumarsi, magari con un anticipo di sofferenze (i morsi della gelosia...).
La Principessa di Cleves comprende a fondo le dinamiche della passione ed è consapevole dei rischi che comporta amare un uomo che piace a tutte ed al quale molte sono disposte a cedere.
Opterà per una scelta di grande impatto: finale che una scrittrice grandissima ha saputo rendere così convincente.
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' Illusioni perdute '
Isabel, " inquadrata nella cornice (...) della porta, colpì il giovane come un bel ritratto di signora " .
Questo romanzo di H. James, ambientato negli anni '70 dell'Ottocento e pubblicato poco dopo, è un capolavoro, un libro bellissimo per stile, struttura narrativa, approfondimento psicologico, tutto pervaso da quel sottile senso dell'umorismo, tanto diffuso nella letteratura inglese, come pure dall'arte della conversazione, che spesso caratterizza il romanzo britannico. Un testo scritto veramente per chi ama il piacere della lettura e non disdegna la riflessione.
Capiamo come H: James, americano, amasse smisuratamente la cultura inglese, tanto da trasferirsi in Inghilterra e assumerne la nazionalità.
Protagonista della storia,che si dipana per circa sei anni, è Isabel, una ragazza americana orfana, che viene accolta in Inghilterra dalla facoltosa zia: in casa era considerata " l'intelletto ", ma anche una persona (troppo) originale. " Ella aveva un desiderio insaziabile di pensare bene di sé "; riteneva che "fosse necessario essere fra i migliori ";" aveva una speranza infinita di non dover fare mai nulla di male" e sosteneva che " se c'è una cosa al mondo che amo (...) è la mia indipendenza ".
Con queste premesse, dopo aver rifiutato il matrimonio con un giovane e affascinante Lord ed essere diventata ricchissima per un'inattesa eredità, non c'è da stupirsi che tutti si chiedano che cosa farà della sua vita e a quali vertici sarà capace di giungere.
La vicenda si sposta poi a Firenze e a Roma, dove Isabel frequenterà l'alta società degli stranieri, fra gran dame e uomini raffinati. Tra loro, un campione dell'estetismo sostiene che "bisogna fare della propria vita un'opera d'arte": in questo forse anticipa G. D'Annunzio. Ma la penna di James s'intinge volentieri nella piacevolezza dell'umorismo, sempre in modo lieve e per questo più gradito.
L'ambiente paesaggistico italiano è descritto meravigliosamente, con pennellate di generosa fascinazione. Ma c'è anche dell'altro: un dotto straniero sostiene che " l'Italia , comunque aveva guastato molta gente; lui stesso (...) riteneva che sarebbe stato un uomo migliore se non avesse trascorso lì tanta parte della sua vita. Faceva diventare pigri e dilettanti e mediocri; non offriva nessuna disciplina per il carattere ". Così ci vedevano e così sostanzialmente ci considerano.
L'ultima parte del libro, in particolare, presenta colpi di scena di altissima abilità letteraria: 'tutti i nodi vengono al pettine' , in modo sbalorditivo e, nel contempo, convincente: ciò che solo un grande scrittore riesce a fare.
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PRIMA DEL SILENZIO
Il quarto volume della tetralogia "Il mare della fertilità" di Mishima è anche l'ultima opera dell'autore, spedita all'editore poche ore prima di morire.
La traduzione letterale del titolo è "I cinque segni della decomposizione dell'angelo" , ed è tratto dalla tradizione buddhista, secondo cui "le loro corone di fiori appassiscono, le loro vesti si insudiciano, le loro ascelle esalano un fetido odore, perdono la gioia di essere, e sono abbandonati dalle vergini ingioiellate". Nell'opera le interpretazioni simboliche sono aperte.
I fatti del romanzo si dipanano nell'arco di cinque anni (un azzardo letterario che lo scrittore ha voluto correre: il '70, anno in cui iniziano le vicende della narrazione, è anche quello in cui si tolse la vita).
Ci sono due protagonisti principali: il vecchio Honda, già ampiamente conosciuto nei tre precedenti volumi, ora ha 76 anni; il giovane Toru è un sedicenne, orfano, impiegato come guardia costiera per avvistamento navi, il quale "sapeva che la ricchezza e la virtù erano incompatibili"; "viveva lontano dall'ambizione, dall'avidità, dalle passioni".
La prima parte è un susseguirsi di grandiose descrizioni marine: "il sole spuntò di nuovo, e di nuovo il sole si trasformò nella placida dimora della bianca luce"; "...un'onda bianca si alzò come candida ala, poi subito ricadde"; "il bianco delle onde diventò per un istante del colore di una rosa gialla, annunciando l'arrivo della sera".
Honda, "dopo aver superato i settant'anni, ciò che aveva visto ogni mattina al suo risveglio era il volto della morte". La sua vita ha un'ulteriore svolta quando si convince che Toru sia la reincarnazione del suo amico di gioventù Kiyoaki, morto ventenne: decide di adottarlo.
Si susseguono aspetti sconcertanti che, sotto lo stile sempre eccellente dello scrittore, inquietano per il loro acuto pessimismo: l'approfondimento psicologico dei personaggi fa emergere un'ambiguità interiore che ci sorprende, quasi increduli. Si evidenzia la perdita di punti fermi, di valori, "in cui le convenzioni sociali venivano usate a proprio piacimento, e l'onestà e la sincerità trasformate in gioco". Giochi perversi, dove l'obiettivo freddo e consapevole è ferire o godersi la morte dell'altro. Personaggi che conoscono il male che alberga in loro, in bilico fra disperazione e compiacimento.
L'idea della morte è spesso presente: "la carne stessa rappresenta un'affezione, una morte latente"; "l'essenza della carne è la decadenza". Conoscendo la biografia del'autore, è facile passare dalle pagine del testo al travaglio dell'intera vita dello scrittore dai tanti successi letterari, fino all'orrore delle immagini della tragedia finale.
Il lungo capitolo conclusivo è indimenticabile, sorprendente eppure in qualche modo atteso: ricongiunge l'ultima vicenda a fatti di sessant'anni prima. Si tratta di un piccolo gioiello letterario in sé, che si apre a innumerevoli interpretazioni; una scena semplice e solenne, l'ultima che Mishima ci ha lasciato...prima del silenzio.
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Smanie della senilità
Il terzo libro della tetralogia di Mishima, scritto negli ultimi anni di vita, non è sicuramente all'altezza del primo, il bellissimo "Neve di primavera".
L'opera è suddivisa in due parti: la prima ambientata in Tailandia nel 1941; il protagonista Honda ha ormai 47 anni: guardandosi allo specchio "aveva visto solo (...) il volto di un uomo che aveva vissuto troppo a lungo". E' un ricco avvocato in viaggio di lavoro; disilluso sulla possibilità di incidere nella Storia, si trova però al cospetto degli accadimenti della Seconda Guerra Mondiale.
Qui visita il Tempio dell'Alba e chiede di essere presentato alla piccola principessa Chiaro di Luna, di appena 7 anni, incuriosito dalla convinzione di questa di essere la reincarnazione di un giapponese. Lui pensa subito si tratti dell'amico Kiyoaki deceduto in gioventù.
La seconda parte, invece, è ambientata in Giappone, 11 anni dopo, nel '52, ormai largamente americanizzato anche nella mentalità comune: il kimono pare l'unico tratto distintivo della tradizione.
Honda ha quindi 58 anni: "l'anzianità era, ad ogni modo una dichiarazione di bancarotta (...). Le esperienze non erano altro che ossi rosicchiati e ripuliti in un piatto".
La bellissima Chiaro di Luna si trova in Giappone per ragioni di studio, nello splendore dei suoi 18 anni, ormai lontana dalle sue congetture infantili. Entra, inconsapevole, nelle ossessioni passionali senili del ricchissimo Honda. "I giapponesi di un'epoca lontana, raggiunta l'età di Honda, avrebbero pensato di costruirsi una tomba (...). Ed ecco che Honda invece costruiva una piscina nella sua villa", ove poter ammirare la giovane principessa.
Nel breve passo riportato sono racchiusi, secondo me, i due temi cardini del romanzo: la degenerazione culturale, e non solo, del Giappone e l'orrore per la vecchiaia (Mishima non volle raggiungere l'età del protagonista; si tolse la vita a 45 anni).
L'autore coltivava il mito della giovinezza e della prestanza fisica (qui personificate nella giovane principessa); egli stesso, dapprima gracile ragazzino, divenne con duri esercizi, un aitante giovane uomo, che non disdegnava esporre il proprio corpo agli scatti fotografici. Il suo orrore per il decadimento fisico emerge ampiamente nel libro: donne mature dai seni avvizziti che si trascinano dietro flaccidi compagni; il 'vecchio' Honda che si degrada in avvilenti azioni e frequentazioni.
Pur in tale contesto, lo stile di Mishima non rinuncia al proprio estetismo letterario: di un gruppo di signore, in giardino, nota che i loro "cappelli oscillavano nell'aria come corolle di fiori" e "una composizione floreale di iris viola ondeggiava come un volo di rondini".
L'occidentalizzazione (anzi, l'americanizzazione) del Giappone del dopoguerra divenne una delle maggiori fonti d'inquietudine di Mishima. Qui ne dà una rappresentazione impietosa, in cui ogni virtù pare bandita e la libertà di costumi degradata ad avvilente licenza: lo sfarzo, la simulazione cosmetica della giovinezza, l'edonismo che nega la possibilità di coltivare più alti pensieri; poi l'ossessione per le mode (americane) ... Il tutto rende i personaggi caricature di se stessi; per il Giappone è un grido d'allarme, inascoltato.
Nell'immaginario, la principessa Chiaro di Luna pare quasi incontaminata; porta inconsapevole lo splendore della sua giovinezza; nella fantasia di Honda, addirittura, volteggia nell'aria a cavallo di un pavone dalle candide piume.
Il finale sorprende, ma l'autore ha disseminato qua e là elementi di presagio.
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'UNA ROMANTICA DONNA INGLESE'
" Grasmere aveva un'aria solenne nell'ultima luce del crepuscolo. Faceva scendere la pace in cuore ".
Grasmere è una suggestiva località nella parte centro-nord-occidentale della Gran Bretagna, un magnifico luogo di alture boscose e placidi laghi. Qui abitò per lunghi decenni Dorothy, insieme al più celebre fratello, il grande poeta Wordsworth. Dapprima in una graziosa casa immersa nella vegetazione tipica di un clima fresco e umido; poi, col matrimonio del fratello e la nascita di tre bambini in quattro anni, in una dimora più grande e confortevole. (Chi desidera vedere la bellezza dei luoghi e il fascino di queste abitazioni, ora aperte al pubblico, può accedete ad Internet e cliccare su "Grasmere").
I diari contenuti nel libro risalgono al periodo 1800-1803, iniziati quando l'autrice aveva 29 anni. Essi sono stati scritti con lo scopo di illustrare al fratello quanto accadeva (specie durante le sue assenze), come base e spunto per la composizione delle sue poesie (possiamo scorgervi il ruolo subalterno della donna dell'epoca, anche se lei affermava di non avere ambizioni artistiche).
C'è però da dire che le pagine di questo libro ci rivelano anche le doti letterarie della scrittrice: la sua nitida prosa è avvolta da un tocco poetico, un riflesso della poesia di cui era improntata la sua stessa vita quotidiana.
Il fascino del libro ci offre inoltre una preziosa testimonianza di come questi Romantici conducevano la loro esistenza intrisa, essa stessa, di Romanticismo: "quando è venuto giù un leggero acquazzone (...) non sono tornata indietro (...). Ho passeggiato a lungo tra le rocce (...). La calma e la quieta solitudine della valle mi hanno colpito tanto da sprofondarmi nella malinconia".
Tra una lettura di Shakespeare, il rammendo di una calza e la cottura di crostate e torte di mele, effettivamente le passeggiate colmavano uno spazio importante nelle giornate di questa giovane donna, che amava vivere a contatto con la natura: "Stamattina sono andata fino al lago, raccolto piante e letto le "Ballate" seduta su una roccia"; "mi sono sdraiata sotto il vento con la testa sopra un masso coperto di muschio". Raccoglieva fragole selvatiche e lamponi, magari in compagnia del poeta Coleridge, amico fraterno, gradito ospite. Oppure timo, che trapiantava nell'orto, curato spesso personalmente.
La solitudine, comunque, non le dispiaceva: "grazie a Dio, non ho bisogno di compagnia davanti a un lago illuminato dalla luna". La contemplazione della natura e del paesaggio sovente le rasserenava l'animo: "E' stata una mattinata incantevole. Tutto verde e traboccante di vita; i ruscelli cantavano senza posa insieme ai tordi e agli altri uccellini"; "Tutta la vallata profumava di mirica e timo selvatico. I boschi intorno alla cascata venati dell'oro intenso della ginestra". Ogni cosa pareva sorprenderla: il candore del biancospino, le rose selvatiche. Poi lasciava libera l'immaginazione: "Le onde attorno all'isoletta sembravano un danza di spiriti che sorgevano dalle acque".
Per la notte aveva una predilezione: "La luna splendeva sull'acqua"; "il chiaro di luna si posava sulle colline come neve"; "lucciole dappertutto", e le passeggiate notturne erano una consuetudine.
Le persone, coi loro drammi, certo non le erano indifferenti; spesso bussavano mendicanti (uno squarcio sulla realtà sociale inglese), a cui elargiva qualcosa e ne ascoltava le dolorose vicende. Intanto annotava : "...è passata una donna altissima (...). Indossava un lunghissimo mantello marrone e un cappello candido (...). Teneva per mano un bambinetto scalzo (...). Le ho dato un pezzo di pane". Da questa osservazione è nata una delle più celebri composizioni del poeta William Wordsworth.
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I Karnowski nel tempo
Israel Singer, fratello del celebre Isaac Singer (Premio Nobel per la Letteratura), ebreo polacco emigrato negli USA nel 1934, pubblica "La famiglia Karnowski" nel '43.
Le vicende si snodano dagli albori del '900 al trionfo del nazismo in Germania e sono ambientate in Polonia, a Berlino e a New York.
In circa quattro decenni, si ergono come protagonisti personaggi di tre generazioni di una famiglia ebrea.
Il primo di essi è David, colto e aperto alle idee dell'Illuminismo; si trsferisce dalla tradizionalista Polonia alla razionalista Berlino. Tra i personaggi di primo piano, presto troviamo il figlio Georg e, successivamente, Jegor, il rampollo di questi.
Il romanzo, nell'insieme, è ben strutturato, anche se, a mio avviso, si nota qualche forzatura nell'evoluzione di Georg. Lo scrittore, comunque, è capace di delineare, attraverso le vicende dei Karnowski, un grande affresco, un rispecchiamento del destino di molti ebrei nei decenni considerati, in particolare nella Germania degli anni '30.
Lo sfondo storico, però, è filtrato quasi esclusivamente attraverso il vissuto dei personaggi, per cui si richiede al lettore una conoscenza, almeno sommaria, delle vicende storiche della Germania nel ventennio fra le due guerre.
Grande rilevanza è data alla cura della caratterizzazione dei personaggi e della loro evoluzione nel tempo; particolarmente riuscito l'approfondimento psicologico del terzo protagonista, il giovanissimo Jegor, nei suoi rapporti col padre.
Le vicende private sono in primo piano: la diversa formazione dei personaggi contribuisce a delineare anche scontri generazionali (e non solo), rappresentati dalla complessità costituita dai vari fattori: culturali, relazionali, psicologici...
La scrittura è particolarmente densa, 'pesante' (aggettivo da intendesi qui esclusivamente come contrapposto a 'lieve'). L'opera rimanda al romanzo realistico ottocentesco: l'autore un po' come un Balzac del mondo ebraico (quando, però, la grande stagione del Realismo è ormai archiviata).
L'impronta 'ottocentesca' fa sì che la narrazione offra un buon grado di leggibilità (rispetto alle complessità, anche di forma, della letteratura tipicamente novecentesca). Questo, però, non rimanda necessariamente ad un dato di eccellenza letteraria.
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'Una vita inimitabile'
Diciamo subito che questa biografia è ad un livello inferiore rispetto a quella, molto conosciuta, scritta dalla Saivigneau. La Goslar, comunque, compie un buon lavoro. Come affermava T. Terzani, "tutto è stato detto, eppure tutto è da ridire".
M. Yourcenar (1903-1987) è un'autrice la cui vita 'è già un romanzo' : franco-belga, rimane orfana ad appena dieci giorni di vita; allevata da un padre già cinquantenne (colto, ricco, amante dei viaggi e non solo), ben presto s'immerge negli studi. Viaggia per l'Europa, scrive. Nel '39, all'inizio della guerra, sbarca in America. Con un'amica vive per decenni, fino alla morte, sull'isola di Mount Desert, all'estremo nord della costa atlantica statunitense.
Il suo enorme successo letterario, che va oltre la pur altissima qualità di scrittura, è dovuto anche alla conquistata considerazione come punto di riferimento per profondità culturale e saggezza. I suoi libri non lasciano indifferenti.
La biografa, affascinata dalla scrittrice di cui si occupa, s'immerge qui in un processo di quasi identificazione (voleva addirittura scrivere il libro in prima persona) e ne imita lo stile.
La prima parte dell'opera è un po' deludente per chi ha letto i libri della Yourcenar, perché ricalca ciò che la scrittrice stessa ha detto di sé e del proprio ambiente nei testi 'autobiografici' appartenenti alla trilogia "Le labirinte du monde". L'imitazione dello stile, poi, rischia a volte l'affettazione. Decisamente migliore la parte successiva, dove c'è il supporto di numerosi documenti, e la lettura diventa interessante e scorrevole.
Il ritratto della Yourcenar emerge nelle sue varie sfaccettature, ma soprattutto traspare la donna, la cui cultura è un ponte fra quella occidentale e quella orientale, fra la classicità e le istanze contemporanee, alla ricerca del "sentimento che riunisca il sacro, la bellezza e la felicità della vita", in una dimensione di profonda accettazione di essa e del destino degli uomini: "Accettare che siano morti prima del tempo, perché non vi è tempo. Accettare di dimenticarli perché l'oblio fa parte dell'ordine delle cose. Accettare di ricordarli, perché segretamente la memoria si nasconde al fondo dell'oblio".
La sua adesione alla vita contempla, quasi francescanamente, tutte le forme in cui essa si presenta; in particolare emerge il rispetto per gli animali, "questi esseri occupati, come l'uomo lo è, nell'avventura di esistere". Scrive lettere (perfino all'attrice Brigitte Bardot, per trovarvi alleanza) contro il massacro di animali da pelliccia; tiene conferenze di stampo ecologista, l'ultima delle quali, un paio di mesi prima di morire, s'intitolava "Se vogliamo ancora cercare di salvare la terra". Ha lasciato tutti i suoi beni ad associazioni per la tutela della natura.
I suoi scritti spesso contengono spunti sapienziali: "La dolcezza, l'umiltà, il senso squisito di ciò che resta innocente e bello (...) sono le qualità che salveranno il nostro mondo (...) in un'epoca in cui ogni ideologia e ogni sistema è stato disonorato".
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Una controfigura per Mishima?
"A briglia sciolta" (tradotto anche "Cavalli in fuga") è il secondo libro della tetralogia "Il mare della fertilità", di Mishima. Segue il bellissimo "Neve di primavera", nel quale emerge l'amicizia fra l'aristocratico Kiyoaki (che muore giovanissimo) e Honda, che è coprotagonista anche in questo secondo volume . Ora siamo nel 1932: egli, a 38 anni, ha fatto carriera nella Magistratura.
Sono ormai trascorsi 20 anni dagli ultimi fatti del romanzo precedente.
Honda identifica nel diciannovenne Isao, figlio del precettore di Kiyoaki, l'incarnazione di quest'ultimo.
Le vicende riguardano sia il Magistrato, che tende a seguire e proteggere il giovane, sia (soprattutto) Isao, profondamente colpito e sconvolto dalla lettura di un breve testo che illustra le azioni , ambientate quasi mezzo secolo prima, di un gruppo di samurai inorriditi dall'occidentalizzazione del Giappone, che aveva rotto il suo lunghissimo isolamento; testo che si conclude con il 'seppuku' di sei di essi, in nome della grandezza dell'Imperatore. Questo 'suicidio rituale' per sventramento è fortemente vagheggiato da Isao che raduna intorno a sé un gruppo di estrema destra, e costituirà la modalità di morte che si darà lo stesso Mishima.
Come possiamo notare, qui emergono vari elementi di carattere 'autobiografico', non nel senso letterale del termine, ma ad un livello profondo esistenziale e politico.
Dobbiamo ora considerare storicamente l'occidentalizzazione del Giappone in alcuni momenti:
- a fine '800 (periodo degli avvenimenti, letti nel breve testo da Isao, che tanto lo segnano), in cui la cultura occidentale inizia a permeare sensibilmente la tradizione nipponica;
- nei primi anni '30 del '900 (quando è ambientato il romanzo), con le ripercussioni della crisi del '29, portatrice di povertà e di corruzione negli ambienti governativi;
- nella seconda metà degli anni '60 (quando il libro è stato scritto): gli USA avevano ormai smitizzato e privato di effettivi poteri la figura dell'Imperatore ed 'occidentalizzato' la nuova Costituzione. E' un periodo in cui Mishima, a oltre quarant'anni di età, è sgomento, disperato al cospetto di un Giappone che ha perso la sua essenza.
"A briglia sciolta", stilisticamente a un livello molto alto, non può non inquietare il lettore che conosca la biografia dell'autore, in particolare il suo terribile gesto finale di autoannientamento.
Già nel suo libro d'esordio "Confessioni di una maschera" troviamo il giovanissimo protagonista attratto da una morte cruenta. Ora sono trascorsi oltre vent'anni: il 'corteggiamento' della morte autoinflitta si fa più pressante; sotto questo aspetto l'identificazione dell'autore col 'sentire' del personaggio di Isao è parecchio inquietante: "Il pensiero della morte non (...) abbandonava mai" Isao; "l'idea di darsi la morte continuava a rinnovare in lui qualcosa di luminoso, una gioia voluttuosa e particolare".
Al centro del romanzo, una grandiosa e indimenticabile scena del teatro tradizionale giapponese: "... un canto con voce quieta come la pioggia che scende bagnando una riva sabbiosa: ' La ruota del carro del sale gira senza sosta in questo mondo fluttuante. Oh, quanto breve ed effimera è la nostra vita!' ".
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L'esperienza della spiritualità
Yves Raguin, teologo gesuita, profondo conoscitore del misticismo cristiano e delle culture e forme di spiritualità orientali, è fra i più importanti fautori del dialogo interreligioso. Visse per decenni in Cina e, cacciato dalla rivoluzione, a Taiwan.
Nel libro "Il Tao della mistica. Le vie della contemplazione tra Oriente e Occidente", aspira ad un processo di integrazione, per una spiritualità universale.
Il testo mostra una cultura immensa ed una conoscenza molto profonda delle varie forme di spiritualità.
Raguin, cristiano, constata che "nei secoli passati, l'Occidente si è mosso maggiormente verso l'esterno piuttosto che verso l'interno"; basti pensare a come, dal Seicento galileano, poi con l'Illuminismo e in modo ancor più estremizzato col Positivismo ottocentesco, la razionalità sia stata fortemente privilegiata dalla nostra cultura, a scapito della dimensione spirituale.
Egli non tende a teorizzare, ma parla con insistenza di conoscenza profonda raggiunta attraverso un percorso esperienziale. Afferma che, "guardando in se stessi, i contemplativi percepiranno (...) una profondità insondabile da cui sgorga la vita come da un pozzo divino". E cita delle tecniche (quasi esercizi) di concentrazione per giungere a tale stadio, quali "fissare la propria attenzione su un oggetto fisico", oppure "contare i respiri all'inizio degli esercizi" : "i pensieri svaniranno quasi automaticamente e proverò una profonda calma". E' essenziale creare un vuoto nel profondo di noi stessi, affinché sgorghino " 'le acque interiori' ".
L'uso di un linguaggio evocativo, metaforico, non è casuale: "ciò che non si può esprimere a parole può (...) essere espresso tramite (...) significati simbolici". Si afferma pure che "l'analogia più vicina alla conoscenza mistica è quella artistica". Viene ricordato inoltre che, a proposito degli archetipi, "Jung (...) ha sostenuto che essi non sono il prodotto del pensiero ma la normale fioritura della nostra natura umana".
L'autore ha una visione della spiritualità molto ancorata alla vita esistenziale: "la fede (...) ci mostra qualcosa di più profondo al cuore di ogni cosa"; con forti legami coll'autenticità ("sono totalmente identificato con me stesso") e con la libertà ("esprimere nella nostra vita la realtà del nostro io più profondo").
"Un'esperienza mistica ha luogo quando avviene una percezione del mistero. (...) E' la diretta esperienza dell'oltre (...), di ciò che l'occhio umano non riesce a cogliere". E' aprirsi alla presenza divina. "Il mistico non sogna realtà che stanno oltre, ma ne fa esperienza".
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SCRIVERE E' UNA GRANDE RESPONSABILITA'
Simone Weil, grande intellettuale e grande donna della cultura europea, nasce a Parigi nel 1909. Nella sua breve esistenza (muore di tubercolosi nel '43, a soli 34 anni) aderisce alla cultura di Sinistra, ma in modo molto particolare: pone in primo piano, per una rivoluzione, l'accesso dei lavoratori al sapere.
I brevi testi che compongono "Morale e letteratura" vengono scritti nei primi anni '40, quindi da una 'ragazza' trentenne (quanta saggezza ad un'età ancora così giovane!).
L'autrice pensa che ognuno creda di vivere 'nella realtà'; ma nella vita quotidiana spesso ne percepiamo solo la superficie e ce la accomodiamo attraverso nostri meccanismi edulcoranti e distorcenti, cioè viviamo nella menzogna. Non solo in quella con cui ci presentiamo agli altri, ma pure (forse, soprattutto) in quella con cui alimentiamo noi stessi.
La grande letteratura può essere un'ancora di salvezza: può "destarci alla verità". A ciò concorrono, però, esclusivamente le opere degli scrittori grandissimi (su questo, la Weil è perentoria), composte nel momento della loro maturità: "ci danno sotto forma di finzione qualcosa di equivalente allo spessore stesso della realtà, quello spessore che la vita ci presenta ogni giorno, ma che non sappiamo cogliere, perché stiamo bene nella menzogna". Quindi letteratura come dimensione etica: nelle opere dei grandissimi scrittori "il bene e il male ci appaiono nella loro verità".
Ricordiamoci che, mentre scriveva queste pagine, l'autrice era al cospetto della follia devastatrice della Seconda Guerra Mondiale. Probabilmente tale contesto rende più acute e lancinanti le sue riflessioni; infatti dice di credere "nella responsabilità degli scrittori, dell'epoca appena trascorsa, nella presente sventura". A fine conflitto, anche Elio Vittorini, su "Il Politecnico", si interrogava, benché con accenti un po' diversi, sulle 'colpe' della cultura precedente.
Certamente la Weil aveva ben presenti gli epigoni del Decadentismo, la nuova letteratura europea e le Avanguardie: "Il carattere essenziale della prima metà del Novecento è l'indebolimento e quasi il venir meno della nozione di valore" , e ricorda che "gli scrittori erano per eccellenza i guardiani del tesoro che è andato perso, e alcuni si sono vantati di questa perdita" (Pensava forse ai Futuristi?).
Aggiunge: "Il Dadaismo e il Surrealismo (...) hanno espresso l'ebbrezza della licenza totale, ebbrezza in cui si tuffa lo spirito quando, rigettando ogni considerazione di valore, si abbandona all'immediato". Il discorso si estende oltre: pensa che la grande maggioranza degli scrittori abbia abdicato al "sentimento di valore": "parole quali virtù, nobiltà, onore, onestà, generosità sono diventate quasi impossibili da pronunciare oppure hanno assunto un significato bastardo". Qui si può pensare a vari autori, ma preferisco non fare nomi perché 'non sono solo questo' .
Nota poi che "la letteratura del Novecento è essenzialmente psicologica", tendente a rappresentare stati d'animo "disponendoli sullo stesso piano (...) come se il bene e il male fossero loro estranei".
Ancora un pensiero che, per noi, suona un po' come un monito: "Se mai le sofferenze attuali porteranno a una 'rieducazione', questo non si attuerà grazie agli slogan, ma nel silenzio (...) attraverso le paure, le miserie, i terrori, nel più intimo di ogni spirito".
E i grandi libri, come prezioso lascito che le generazioni si tramandano, saranno ancora lì, se vogliamo, a porci domande, a confortarci, ad aiutarci a distinguere l'essenziale.
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SULLA SCIA DI JANE AUSTEN
M. Yourcenar affermava che " è conoscere male un autore averne letto un solo libro: le armoniche dell'opera ci sfuggono" . Ebbene, questa è la mia prima lettura di A. Trollope, uno scrittore tanto famoso (soprattutto nella sua Inghilterra) e con una produzione vasta e, pare, di omogenea qualità. "La Canonica di Framley " dovrebbe essere un testo rappresentativo dell'autore (sia qualitativamente che quantitativamente (siamo a oltre 650 pagine).
Lo stile è inconfondibilmente inglese, collocabile in quella gloriosa tradizione in cui l'eleganza e la bellezza della scrittura si armonizzano col 'piacere di narrare' , che significa 'piacere di leggere' per chi ne fruisce. L'accostamento è a Jane Austen. Trollope, però, nel rappresentare la società del proprio tempo, l'Età Vittoriana, ricerca una prospettiva di realismo, benché esso risenta ancora della luce del Romanticismo, che in Inghilterra brillò lungamente.
Il romanzo è ambientato nella campagna inglese dell'Ottocento, che non è difficile immaginare splendida, come appare nei dipinti dei paesaggisti dell'epoca. I tempi, però, stanno cambiando, e gli alberi secolari, vanto e delizia di una società nella cui dimensione non tutto era asservito al denaro, rischiano di scomparire a vantaggio di colture più redditizie: la scure sta per abbattersi, un po' come si avverte nel Giardino dei Ciliegi di Cechov.
Qui viene rappresentato l'intreccio di destini di personaggi delle classi sociali alte e medio-alte: la borghesia affaristica, l'aristocrazia suadente e volitiva, ed il clero anglicano nelle sue gerarchie.
Ci accostiamo al romanzo come ad una fiaba per adulti e, nel contempo, ad una rappresentazione sociale dell'Età Vittoriana: vi sono sicuramente buoni sentimenti e buone maniere, ma gli interessi affaristici e di carriera non vengono certo oscurati, tanto da indurci a riflettere su intrecci ben presenti ancora oggi. Date, poi, le condizioni del clero anglicano, viene messa in luce la connivenza fra 'carrierismo ecclesiastico' e potere politico.
I personaggi sono accuratamente delineati, ognuno ben contestualizzato nella propria categoria sociale. A primeggiare per caratteri positivi sono le figure femminili (non tutte).
Ovviamente la 'fiaba', con tanto di 'Cenerentola' (il personaggio di maggiore spessore umano e modernità), pone la sua morale, che conduce il lettore ad una riflessione che coinvolge gli aspetti pubblici e quelli privati delle nostre vite.
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Omologazione e (non) libertà
In Italia, nei trascorsi decenni, si è verificata una serie di cambiamenti che hanno coinvolto anche (soprattutto) stili di vita, valori...
Ciò, in parte, è derivato da mutamenti 'strutturali', quali il boom industriale con annessa urbanizzazione, quindi abbandono delle aree agricole e crisi del mondo contadino, e dalla diffusione dei 'media', in particolare della televisione, che ha proposto/imposto consumismo, edonismo, mito del successo...
Dei nefasti effetti dovuti a tali cambiamenti, si è ampiamente occupato Pasolini.
"Scritti corsari" raccoglie testi (articoli di giornale) comparsi nel periodo 1973-75, cioè negli ultimi anni di vita dell'autore, il quale denunciava, appunto, quanto dolorosamente constatava: la fine della secolare civiltà contadina (ricordiamo qui il poetico articolo sulla scomparsa delle lucciole dalle nostre campagne) e la progressiva omologazione secondo modelli e ' valori' legati al prorompente consumismo veicolato soprattutto dal mezzo televisivo, portatore di condizionamenti a scapito dell'autenticità, quindi della vera libertà.
Per motivi di spazio, mi soffermo solamente sul " 'Discorso' dei capelli", in quanto particolarmente significativo e quasi emblematico del più ampio 'discorso' sul mutamento della mentalità di quegli anni e sul degrado di cui esso fu portatore.
Pasolini racconta come ha visto i primi (educati) ragazzi coi capelli lunghi (i 'capelloni') in un albergo di Praga.
Con l'acutezza del semiologo, si domanda "qual era il senso del loro messaggio silenzioso ed esclusivamente fisico". "Dicevano questo: "La civiltà consumistica ci ha nauseati.(...) La nostra generazione doveva essere una generazione di integrati? (...) Noi opponiamo la follia a un destino di 'executives' " . Pasolini li valutò positivamente, perché portatori di autentico anticonformismo.
Poi venne il '68: i capelloni furono numerosi e non più silenziosi, lanciavano slogan contro il sistema...; ci fu un verbalismo chiassoso, che poteva esprimere indistintamente mentalità diverse, sottoculture perfino politicamente contrapposte.
Allora lo scrittore iniziò a guardare con sospetto il fenomeno che in un primo momento l'aveva colpito favorevolmente.
Siamo arrivati nel '72. L'autore si trovava a Isfahan, nel cuore della Persia: "Ed ecco che una sera, camminando nella strada principale, vidi, tra quei ragazzi antichi bellissimi e pieni dell'antica dignità umana, due esseri mostruosi: (...) i loro capelli erano tagliati all'europea, lunghi di dietro, corti sulla fronte, resi stopposi dal tiraggio, appiccicati artificialmente intorno al viso con due laidi ciuffetti sopra le orecchie.
Che cosa dicevano questi loro capelli? Dicevano: 'Noi non apparteniamo al numero di questi morti di fame, di questi poveracci sottosviluppati (...). Noi siamo impiegati di banca, studenti, figli di gente arricchita (...); ed ecco qui i nostri capelli lunghi che testimoniano la nostra modernità internazionale di privilegiati!' ". Quei capelli erano omologati alle mode della televisione e della pubblicità: erano il segno di un nuovo conformismo (magari travestito da anticonformismo, che è poi un 'conformismo al contrario').
L'autore conclude amaramente con una frase di significato autorevole e profondo: "La loro libertà di portare i capelli come vogliono non è più difendibile, perché non è più libertà".
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'Il piviere sulle onde'
Questo libro, a sé stante, può essere considerato un'opera minore del grande scrittore giapponese Kawabata. Si tratta, però, della continuazione del bellissimo romanzo "Mille gru"; ritengo, pertanto, vada letto come suo completamento.
Nella precedente opera citata, Kikuji instaura una relazione con la signora Ota, ex amante del padre ora defunto, che, forse per il rimorso, si toglie la vita. Successivamente il giovane ha un rapporto sessuale con la figlia di questa, Fumiko, che subito dopo fugge verso un luogo lontano e definitivo.
Proprio un fascio di lettere, che la ragazza ha scritto a Kikuji per chiudere in modo irreversibile la loro relazione, formano il lungo capitolo centrale del nuovo romanzo, tanto da creare una cesura tra la prima e l'ultima parte di questo.
"Il disegno del piviere" si apre col viaggio di nozze di Kikuji e Yukiko, già conosciuta nell'opera precedente. Lui vede nel lembo della biancheria, che lei sta piegando, 'il disegno del piviere sulle onde'.
L'albergo, in cui sono, è vicino al mare, che rimanda all'immagine di "uno zaffiro stellato". "Sulla superficie del mare (...) appariva una luminosità intermittente, quasi di stelle precipitate sul fondo dell'abisso". L'attenzione ai dettagli, poeticamente percepiti, crea una suggestione particolare, che rende preziose tante pagine della letteratura giapponese.
Il giovane marito, però, è inquieto: si sente colpevole per le carnali relazioni con la signora Ota e con la figlia di lei; si avverte indegno di accostarsi sessualmente alla bellissima moglie, idealizzata e resa quasi irraggiungibile nella sua purezza. Con lievi tratti e sfumature, Kawabata, nel contempo, ci fa percepire anche lo stato di apprensione di Kikuji per il proprio matrimonio che continua a non essere 'consumato'.
La figura della moglie è delineata a caratteri leggiadri: sensibile, intelligente, 'emancipata' ; non pare assolutamente dar peso alla situazione che inquieta il marito.
Ora gli sposi sono nelle loro confortevole dimora: nulla è mutato nella loro relazione, ma, sotto la motivazione che Kikuji si dà della propria indegnità nei confronti della moglie, ecco che alcune frasi dello scrittore s'insinuano, lievi ma sufficientemente significative, nella narrazione, tanto da aprire, pur nell'impalpabile atmosfera di leggiadria del romanzo, nuovi spiragli. Ad un tratto al giovane balena un ricordo: durante il viaggio di nozze "aveva richiamato alla mente il ricordo di Fumiko e della signora Ota per trovare la forza di violare l'innocenza di Yukiko. Il fatto che il padre (di lei) sarebbe giunto in visita l'indomani avrebbe reso quella notte decisiva? Kikuji pensò alla sensualità prorompente della signora Ota, ma la percezione della purezza di Yukiko non faceva che accrescersi" .
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' Il sapore della gloria è amaro '
Questo romanzo di Mishima ha tre protagonisti: una ancora giovane vedova, suo figlio tredicenne e un Ufficiale di Marina.
La storia segue due linee di avvenimenti: l'amore fra i due adulti; le vicende del ragazzo e del suo inquietante gruppo di amici. Nello svolgimento dei fatti, i due 'percorsi' hanno più momenti di contatto, uno dei quali determinante per la trama del racconto.
Mi soffermo in particolare sulla figura del ragazzo e sui suoi amici.
Per certi aspetti, le vicende inducono ad un confronto con quelle narrate in "Agostino" di Moravia. In entrambi i romanzi, infatti, abbiamo protagonisti adolescenti di classe borghese, nei mutamenti della pubertà, che 'scoprono' dolorosamente la donna nella propria madre, a causa dell'intrusione di un uomo che s'inserisce proprio nel delicato momento psicologico-sessuale dei giovanissimi personaggi. Nei due romanzi, poi, c'è la presenza di un gruppo di coetanei.
Le diversità fra le due opere, però, sono notevoli; intanto per il contesto: in Moravia, l'insicuro Agostino incontra giovanissimi sottoproletari, maleducati e volgari, che ambiscono magari ad un pacchetto di sigarette e sono in perenne lotta fra di loro; qui, invece, il ragazzo, freddo e anaffettivo, frequenta amici di famiglie benestanti; sono bravi studenti, apparentemente 'a modo', ma coltivano un'ideologia nichilista e pericolosissima: si sentono piccoli 'superuomini' che detestano i genitori e ne odiano gli atteggiamenti; vogliono 'educarsi' all'insensibilità verso tutto (nel giovane protagonista l'unico sentimento che alberga è la rabbia), ed elaborano uno strano e astratto concetto di gloria.
Anche il Marinaio, amante della madre, è vissuto sull'onda dei sogni di gloria, ormai frustrati dalla realtà dei fatti; ma il sogno talvolta ancora trapela, e proprio il volo della fantasia lo renderà meno guardingo e più vulnerabile nel preannunciato evento finale.
Il Marinaio ha goduto dell'ammirazione del quasi figliastro, ma quando vuole assumere il ruolo del buon papà, aperto e comprensivo, il mito che il ragazzo ha costruito su di lui s'infrange e ai suoi occhi diventa uno come tutti, anzi l'emblema di quei genitori che i suoi amici non sopportano e verso cui, astuti conoscitori delle leggi vigenti, 'vogliono fare qualcosa', prima di compiere 14 anni.
Il romanzo, anche se non fra i migliori dello scrittore giapponese, è rappresentativo della sua scrittura e della sua controversa ideologia. Inoltre, qui, ci conduce di fronte ad una generazione di giovanissimi terribilmente idealista per contrapposizione e frustrazione, di un idealismo pieno di odio e distruttivo, riscontrabile ancora, o forse ancor più, in attuali società del benessere, ove 'per noia' si progettano disastri.
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Lo sguardo poetico di Adriana Zarri
La dimensione autobiografica si addice ad Adriana Zarri, scrittrice, giornalista, teologa. Chi ha letto "Erba della mia erba" non ne ha dubbi. In quel libro affascinante, in cui parla della propria vita eremitica (però nel senso moderno) in una cascina sperduta nella campagna del Canavese, risalta anche un'altra sua peculiarità: lo sguardo poetico sulla realtà del quotidiano. La poesia faceva parte della sua vita prima ancora di prendere forma nelle pagine che scriveva.
La sua spiritualità non è mai del tutto disgiunta dallo stupore e dall'amore per tutto ciò che le sta attorno: i fiori che sbocciano, gli alberi da cui cogliere, 'accogliere', i frutti maturi come un dono prezioso, poi gli amati animali (per i gatti emerge una predilezione speciale).
Lo spirito francescano, che la animava, vive anche nel libro "Con quella luna negli occhi", che raccoglie testi scritti in momenti diversi, ritrovati, chissà, in fondo ai cassetti, forse in paziente attesa di venire pubblicati. D'altronde la pazienza è una virtù che l'autrice teneva in forte considerazione: "il saper attendere senza scoraggiamento. In fondo la pazienza è una dimensione della speranza".
Spazio preminente hanno qui i ricordi, talvolta emersi seguendo sentieri nascosti di proustiana suggestione:"Ho ereditato dei bucaneve viola, dagli anni dell'infanzia. Li ho ereditati stamattina. (...). Da tanto tempo li portavo dentro, in una piega inesplorata della memoria, e a un tratto sono germogliati (...). Dentro al mio cuore dev'essere esplosa la primavera".
Oppure più modestamente rovistava nei solai (penso, reali e metaforici), dove giacciono frammenti di ciò che costituiva un mondo, una tradizione, le radici del nostro essere. Diceva che i nostri bambini, a cui la nuova mentalità tende a negare le tradizioni, "non hanno nemmeno un vuoto". "Il vuoto è la nostalgia di chi ha avuto e non ha più; il vuoto è l'esperienza della povertà, ed è già una ricchezza", e questo, sosteneva, porta alla "mancanza di una dimensione dell'anima".
La sua attitudine alla contemplazione pare prediligere le atmosfere notturne: col loro silenzio paiono essere confacenti all'espandersi della dimensione spirituale, e la realtà descritta sembra assumere connotazioni metafisiche: "Ora la luna s'è nascosta. (...) E allora mi concentro a pensare a questa luna che c'è, a credere alla luna che non vedo (...). Se cammino ancora un poco la rivedo, nel cielo, rassicurante e candida. Ma non voglio: mi sembra scarsità di fede".
Un capitolo è dedicato al ricordo del fratello, morto a venti anni: "La sua vita fu come una limpida e tersa giornata di primavera".
Il pensiero riguardante la morte, l'oltretomba, l'eternità... portano la mente dell'allora ragazza adolescente "in una cerchia di pensieri più al di sopra delle piatte e materiali realtà della vita terrena, più vicino alle supreme ragioni regolatrici dell'universo, più vicino a Dio".
Forse da qui s'avvia il percorso della teologa.
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Davita nel tempo
"Vecchi a mezzanotte" è un libro che rappresenta l'ideale continuazione del bellissimo romanzo "L'arpa di Davita". Vengono qui focalizzati tre distinti momenti della vita adulta della protagonista: diciottenne studentessa e insegnante di Inglese; trentenne assistente universitaria; sessantenne scrittrice apprezzata e di successo.
Il primo episodio è situato nel 1947 e rispecchia storicamente l'approdo negli USA di ebrei scampati alle persecuzioni naziste.
Qui Davita impartisce lezioni al diciassettenne Noah, unico sopravvissuto della famiglia e del proprio villaggio, "che non sa ancora che cosa gli piace", frase che nella sua semplicità apre uno spiraglio sul baratro che ha alle spalle. Egli si è salvato perché possiede una peculiarità che interessava ai tedeschi. Il suo blocco emotivo racchiude in sé la scioccante immagine della sinagoga del villaggio in fiamme, con l'anziano Custode dell'Arca che "si lancia verso il fuoco e le nubi. (...) La sinagoga gli crollò addosso, e non lo vedemmo più". La misurata e definitiva espressione mi ricorda la grandezza letteraria di alcune celebri 'chiusure' dello stile di Dante: "... più non vi leggemmo avante" (Francesca) ; "... infin che il mar fu sovra noi richiuso" (Ulisse).
Il secondo episodio si svolge alla fine degli anni '50; mostra Davita che accompagna un fuoruscito dall'URSS a tenere un ciclo di conferenze presso l'Università sul tema "La psiche sovietica". In un successivo incontro lo convince a dire qualcosa sulla sua esperienza in Unione Sovietica: riceve un lungo resoconto agghiacciante, che ci fa capire come la letteratura sappia entrare nella Storia e rappresentare sconvolgenti 'vissuti', che freddi dati e statistiche non possono offrirci.
Il nostro personaggio conduceva interrogatori, con annessi 'strumenti di persuasione' e torture, per estorcere le 'confessioni' volute. Per analogia, come non ricordare quel piccolo grande libro, di A. Manzoni, che è "Storia della colonna infame"?
Potok, da grandissimo scrittore qual è, non ama soffermarsi sul sensazionalismo di scene raccapriccianti; il suo stile misurato, però, ancor più ci fa intravedere la portata di drammi, tragedie e terrore che hanno segnato il potere sovietico, soprattutto con Stalin. Ci fa scendere 'a occhi aperti' nei meandri dell'orrore, e implicitamente riflettere sulla disumanità di dittature e totalitarismi, mostrandoci la devastazione non solo di chi subisce, ma anche in chi gestisce tale sistema di atrocità.
Nell'ultima parte, ci troviamo fra due prestigiose dimore d'epoca, con giardini contigui. In una abita, con la moglie malata, un noto 'sociologo della guerra' in procinto di scrivere le proprie memorie, lautamente remunerate; nell'altra è venuta a vivere Davita Chandal, scrittrice affermata, sempre alla ricerca di qualche storia che accenda la sua fantasia creativa.
Intorno alberi, boschi che lei immagina percorsi da un ariete. L'ambientazione è spesso notturna: ci si scorge dalle finestre illuminate. Fuori, le lucciole, "... in volo radente, rilucevano sul prato buio,trasformandolo in cielo stellato".
Tra un caffè doppio e una ciambella, in casa di lei, Davita insegna al professore, con metodo quasi freudianao, ad appropriarsi del passato. Qui ci addentriamo nell'alveo del processo creativo letterario e delle sue 'tecniche' : mentre lui dà forma con le parole al proprio rimosso, quelle stesse parole daranno spunto alla scrittrice per la creazione di una nuova opera.
Nell'aria notturna aleggia la parola tedesca "varum", "perché?", domanda emersa dalla profondità dei ricordi dell'uomo : quando, combattente nella Seconda Guerra Mondiale, si trovò al cospetto dei prigionieri di un lager nazista: " Perché ci avete messo tanto ad arrivare? ".
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Crescere fra i suoni di un'arpa a New York
"La verità è sovente molto dolorosa, ma è l'unica cosa che possa salvarci" (un personaggio).
Sicuramente uno dei romanzi americani più belli (come altri dell'autore) di questi ultimi decenni ; scritto da C. Potok, ebreo di profonda cultura ed umana sensibilità.
Egli non è uno 'sradicato', né è preso nel vortice del materialismo consumista o travolto dalla caduta dei valori. Ha, invece, alle spalle una tradizione millenaria trasferita, dall'Europa dei ghetti e dei pogrom, nel Nuovo Continente, ove rivive in nuove comunità ricostituite.
In lui troviamo, sì, un acuto osservatore della realtà, ma senza il nichilismo e la disperata freddezza che caratterizzano alcuni narratori statunitensi d'oggi.
"L'arpa di Davita", ambientato a New York negli anni '30-40 del '900, benché intriso di dolore e apprensione, è un romanzo denso di stimoli, palpitante nella ricerca di autenticità; come tutte le opere di Potok, quasi terapeutico, nel senso che aiuta a riconciliarsi con la vita.
Avendo io conoscenze piuttosto sommarie della cultura ebraica, sicuramente non ho colto alcuni dettagli su significati reconditi, ma la profondità e la complessità, con cui personaggi e vicende sono rappresentati, e la pacata bellezza della scrittura, mi hanno reso la fruizione affascinante e molto gradevole.
Il romanzo inizia un po' in sordina e tende via via a lievitare e divenire sempre più coinvolgente.
C'è una famiglia: marito giornalista di origine cristiana; moglie di famiglia ebraica; entrambi, per scioccanti vicende in cui vita personale e storia dolorosamente colludono, aderiscono totalmente all'ideologia marxista, un po' come si entra in una setta.
La figlia Davita cresce in quest'ambiente di lunghe riunioni serali ed improvvisi cambi di residenza (non era facile, all'epoca, essere comunisti negli USA) ; gli oggetti che ama sono un quadro con cavalli in corsa e un'arpa eolia, capaci di accendere la sua fantasia.
L'Europa è in tumulto, il diffondersi di sistemi autoritari 'fascisti' allarmano: il padre andrà in Spagna come inviato di guerra durante i violentissimi scontri che porteranno alla dittatura di Franco.
Da un amico di famiglia giungono a Davita toccanti dettagli del bombardamento scatenato su Guernica; quasi altrettanto sconvolgenti le notizie sulle faide interne alla Sinistra, che hanno insanguinato in particolare Barcellona. Un altro avvenimento che darà una svolta alle vicende sarà il Patto tedesco-sovietico.
E c'è sempre la comunità ebraica, ora come sfondo, ora in primo piano, con le sue luci e le sue ombre.
Quest'opera è anche (forse, soprattutto) un romanzo di formazione: la giovane protagonista (e voce narrante), fra le tortuose complessità della vita e con l'incontro con altri personaggi (qualcuno indimenticabile), approderà ad una promettente adolescenza.
La parte finale, orientata in senso quasi femminista (considerati periodo e ambiente), fa intravedere un'ulteriore svolta per Davita, le cui vicende idealmente proseguono in un altro libro ("Vecchi a mezzanotte"), nella cui ultima parte, in lei ormai affermata scrittrice sessantenne, non stenteremo a rintracciare peculiarità di carattere già presenti in questa preadolescente di molto talento.
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Camminando col viandante
"Fortunato colui che può con ala
vigorosa slanciarsi verso campi
sereni e luminosi (...) ;
Colui che sulla vita
plana e, sicuro, intende la segreta
lingua dei fiori e delle cose mute " (C. Baudelaire)
Questi versi del grande poeta francese possono servirci per introdurre il discorso su "Guanciale d'erba" di N. Soseki.
La trama del romanzo non è di per sé rilevante: si tratta del percorso di un viandante, durante il quale incontra luoghi e persone, storie suggestive, ma soprattutto l'ambiente naturale nelle sue varie forme e meraviglie.
La voce narrante è quella di un artista, poeta e pittore, capace di posare lo sguardo sulla bellezza, che è ovunque.
Pensa sia "difficile vivere nel mondo degli uomini"; pertanto "si deve tendere di renderlo più accogliente, così da poterci abitare meglio, sia pure per il breve tempo concesso all'effimera vita umana" . Sì, perché nel libro si coglie innanzitutto la piena e serena accettazione della caducità delle cose e della vita stessa:
"Alla rugiada scesa
sui fiori di muscanthus
quando s'annuncia l'autunno
assomiglio ,
io che devo svanire" .
Sa che "in tutti i piaceri è insita la sofferenza, perché traggono la loro origine dall'attaccamento alle cose"; invece gli artisti "si nutrono di nebbia, bevono la rugiada (...). Il loro piacere non dipende dalla materia (...). Hanno spontaneamente abbandonato i limiti angusti e fangosi , nel loro copricapo penetra l'infinita azzurra tempesta".
Questo approccio 'innocente' alla natura può ricordare la poetica del Fanciullino di Pascoli, di cui Soseki era contemporaneo (il libro è del 1906) , anche se spazialmente e culturalmente c'è tutta la distanza che separava l'Italia dal Giappone ad inizio '900.
Anche nell'autore nipponico si rileva una grande fiducia nelle potenzialità del poeta: "Gli artisti sono preziosi, perché rasserenano questo mondo e arricchiscono il cuore degli uomini" ; "dove il volgo guarderebbe cieco, l'artista scopre innumerevoli gemme, infiniti tesori".
Ciò che pure colpisce, leggendo questo testo, è quanto I. Calvino, in "Lezioni americane", chiamava "leggerezza"; infatti vi è uno straordinario e bellissimo uso di immagini lievi, 'senza nulla che pesi o che posi', nella consapevolezza che, "se si tenta affannosamente di rendere la bellezza ancor più attraente, si ottiene al contrario il risultato di sminuirla. Come dice il proverbio: 'Completare è diminuire' ". C'è è, quindi, la scoperta della semplicità essenziale; la contemplazione della 'bellezza delle cose fragili', che quasi paiono esistere momentaneamente per destare il nostro stupore: "La luna proietta (...) l'ombra obliqua di due o tre rami. E' una chiara notte primaverile"; "...nell'aria un presagio di pioggia"; "La pioggia è tanto tenue che sembra aspergere segretamente la primavera di nascosto dagli occhi della notte"; dunque, "In quale luogo sostare?
Lontano nel paese delle candide nuvole".
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I fatti e le ' verità '
Questo bel romanzo del grande scrittore ungherese è suddiviso in quattro monologhi; è però interessante sapere che è stato scritto in tre momenti storici molto diversi: le prime due parti sono state pubblicate nel 1941; il terzo monologo viene aggiunto nel '49; l'opera completa, con la revisione di quest'ultimo e l'aggiunta dell' Epilogo finale, compare nel 1980.
Vediamo che i diversi momenti storici sono rispecchiati e filtrati dalla sensibilità e dal vissuto dell'autore, nei differenti momenti narrativi.
I primi tre lunghi capitoli si rifanno sostanzialmente alla medesima storia, raccontata dal diverso punto di vista dei tre protagonisti. L'Epilogo è affidato ad un quarto personaggio, che compare già precedentemente.
Il fatto centrale consiste nelle vicende di un giovane uomo della ricca borghesia di Budapest, sposato con una donna colta e bellissima, il quale mantiene vivo, benché inizialmente in modo che non trapela, un forte sentimento per la governante della casa natìa.
Il primo monologo è della moglie, ormai separata, del nostro protagonista, ora rasserenata ma segnata da profonde ferite.
A raccontare, nel secondo capitolo, è il marito, che fa entrare prepotentemente in scena Judit, l'ex governante, già comparsa precedentemente, che qui assume un ruolo non secondario, con un approfondimento psicologico notevole: diventata ricca, "voleva sempre qualcos'altro", comprava di tutto ("solo gli affamati si scagliano con la stessa foga su una tavola imbandita"), ma non era mai appagata ("aveva capito che ogni tentativo di riscatto individuale è inutile").
Con il terzo monologo, quello di Judit stessa, si è ormai nel dopoguerra; l'Ungheria è diventata comunista filosovietica.
Lei, fuggita a Roma, ricorda sia la vita privata precedente, sia il culmine della guerra, la devastazione e i caos socio-politico della patria lontana. Qui l'autore (anch'egli scelse la fuga in Occidente) sembra quasi identificarsi nel descrivere orrore e disfatta, tanto le immagini sono vivide e realistiche.
Molto interessante l'approfondimento psicologico del personaggio: "Ero anch'io una bambina malata di nervi (...). Anche noi abbiamo dei segreti, non solo i ricchi"; "Il motivo principale per cui odiavo i ricchi è che riuscivo a portargli via soltanto i soldi. Il resto (...) non me l'hanno voluto dare" : allude alla signorilità, alla cultura.
A proposito di questa, ha però captato (e qui pare attingere dall'autore stesso) che " la cultura è quando una persona...o un popolo...sono pieni di una gioia immensa!(...) in giro ci sono solo esperti, che però non sanno dare quella gioia che è la cultura". Lo scrittore pare aprire ad un sottile umorismo: "Ormai i libri sono così tanti che sembra non esserci quasi spazio per il pensiero".
Infine, l'Epilogo è situato nella New York dello sfrenato consumismo. L'autore, attraverso l'ultimo monologo, sembra infondere al personaggio anche un po' del proprio atteggiamento critico, sia nei riferimenti agli orrori del comunismo ungherese, sia verso l'opulenza soverchiante americana. Con sarcasmo fa dire, alla poco accorta voce narrante, che pure chi non è ricco si sente un signore perché i borghesi vogliono vendergli di tutto, e sostenere che il proletariato abbia vinto in questo modo!
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La solitudine di un aristocratico
Il romanzo è stato pubblicato a metà anni '50, in piena crisi del Neorealismo. La sua diversità ha fatto discutere, ma i più l'hanno accolto come un capolavoro, anche se non facilmente collocabile nelle tendenze letterarie del tempo.
Esso è ambientato in Sicilia nel periodo, almeno per la prima parte, dello sbarco di Garibaldi. Protagonista è il Principe di Salina, Don Fabrizio, campione di aristocraticità. Il Gattopardo è il suo emblema.
Egli vive nella sontuosità del suo rango, ma è consapevole del declino di casta, anche economico: per mantenere i fasti di famiglia, deve vendere possedimenti, comprati dalla nuova borghesia rampante (L'autore coglie bene le dinamiche sociali dell'epoca).
Il personaggio comprende, inoltre, che pure il momento storico-politico non è propizio all'aristocrazia, di cui si considera esponente 'di razza'. Frequenta, sì, gli ambienti della nobiltà siciliana, ma con un'estraneità che ne fa un'eccezione: fra la vecchia generazione, pare essere l'unico dotato di consapevolezza storica, e la sua passione per l'astronomia tende a rendere più acuto il tormento esistenziale del tempo che scorre e trascina con sé il vano e l'effimero delle cose di questo mondo. Ne rimane attonito, sgomento e vulnerabile, pur nella maestosità della persona e nelle esteriorità richieste dal casato.
Vede nel giovane nipote Tancredi colui che è al passo coi tempi, che ha capito che è il momento di 'cambiare perché nulla cambi', che si avvicina ai Garibaldini affinché la nobiltà non venga spazzata via, anzi conduca la Storia nei propri interessi.
Le sue simpatie per questo giovanotto non ricco lo portano ad accogliere favorevolmente il fidanzamento con Angelica, figlia di un facoltoso possidente un po' rozzo, un nuovo ricco. La ragazza è stata educata in un prestigioso collegio, pertanto viene considerata accettabile sia nella forma, sia sopratutto nella 'sostanza'. Questo amore è poco più di un'infatuazione, ma al momento tanto basta.
La solitudine del Principe non deriva certo solamente dalla consapevolezza della decadenza di classe e dalla pura formalità dei rapporti coi suoi pari; in lui, come abbiamo visto, ardono le inquietudini esistenziali, il pensiero della morte che non arretra di fronte a stemmi e privilegi.
In questo può essere paragonato all'Innominato del romanzo manzoniano. Ma lui non trova l'abbraccio di un Cardinale Borromeo.
Quando, nella malattia, lo condurranno al consulto di medici illustri, la morte gli apparirà, quasi a non smentire il suo temperamento galante, nelle vesti di un'elegante signora di "maliosa avvenenza": "era lei. la creatura bramata da sempre, che veniva a prenderlo".
A quali travestimenti siamo capaci di sottoporre Colei che recide il filo della vita!
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"Tra donne sole"
Libro del 1949. Vinse il Premio Strega nel '50, anno in cui l'autore si tolse la vita.
"La bella estate" di C. Pavese contiene tre brevi romanzi. Ognuno di essi meriterebbe un discorso a sé. Per questo, qui mi limito ad esaminare esclusivamente "Tra donne sole" (secondo me, il più bello), da cui M. Antonioni ha tratto il film "Le amiche".
Siamo nella Torino del dopoguerra. Il visitatore che giunge ora in questa città di nordica bellezza, passeggiando sotto i portici del centro, probabilmente non ha difficoltà ad immaginarla nei primi anni della ricostruzione.
Il mondo, che anima il romanzo, è quello della gioventù borghese (ma priva degli elementi 'virtuosi' della borghesia), di cui emerge un ritratto sconfortante.
Pavese conosceva sicuramente la 'gioventù bruciata' della letteratura americana, letteratura che amava e traduceva nella nostra lingua. Da essa ha probabilmente tratto qualche suggestione nel delineare le figure qui rappresentate.
I personaggi che animano la scena sono, però, soprattutto donne: gli uomini, poco significativi, rimangono sullo sfondo. Tra esse, Rosetta compare nelle prime pagine, distesa su una barella, in un albergo, ancora con l'abito da sera di tulle celeste, salvata da un tentato suicidio.
Un'altra, torinese di nascita e di umili origini, giunge da Roma per aprire in città un negozio 'di moda': è l'unica a praticare un'attività lavorativa; ma le difficoltà della vita hanno contribuito a renderla di una tenacia un po' disumanizzante, il pegno pagato per raggiungere il 'successo' (termine che la nostra contemporaneità ha reso alquanto volgare).
Le altre figure sono giovani donne (ma non più ragazzine), abbastanza abbienti da permettersi di non lavorare: trascorrono il tempo tra feste, chiacchiere e scorribande in auto; frequentano gente che si occupa di attività artistiche a tempo perso (con quale talento non è dato sapere).
Nel loro scostante modo di essere, paiono fondamentalmente creature ferite, donne orgogliose e disperate, indurite dalla vita e corazzate; ma la loro metaforica corazza è ,nel contempo, difesa e sconfitta. Non sono donne 'liberate'; la loro 'emancipazione' consiste nel far tardi la notte, fumare, frequentare uomini; paiono aver assorbito il peggio del mondo maschile.
Queste signore poco amabili forse rappresentano modelli femminili interiorizzati dall'autore (se così fosse, capiremmo meglio il suo difficile rapporto con le donne, senza per questo pretendere di psicoanalizzare 'a distanza' lo scrittore).
Queste figure femminili, sempre in compagnia, sono fondamentalmente "sole", artefici e vittime della loro carenza di valori e dell'incapacità di vivere e comunicare in modo autentico.
Solo Rosetta appare indifesa, fragile, non coinvolta nel profondo in tale modalità di vita. Questa emarginazione (estraneità) potrebbe costituire la sua salvezza. Ma, forse, proprio in lei l'autore si è identificato nel "vizio assurdo" di non voler vivere più.
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Giovinezza e malinconia
M. Yourcenar, molto interessata alla cultura nipponica, individua (in "Il tempo grande scultore") "una caratteristica specificatamente giapponese: la contemplazione poetica della natura nel momento della morte". E riporta i versi scritti nel 1945 da un pilota kamikaze di 22 anni: "Se soltanto potessimo cadere / Come i fiori di ciliegio, / Così puri, così luminosi...".
Questa citazione può servire ad introdurci nel mondo di "Neve di primavera", bellissimo e malinconico romanzo di Mishima, scritto nella piena maturità, che mi pare riprenda certe atmosfere interiori del giovanile "Confessioni di una maschera". In entrambi i romanzi, i protagonisti sono ragazzi che, pur in modo diverso, emanano qualcosa di inespresso e contraddittorio, con un atteggiamento di ambiguità verso la donna: rifiutata, quando c'era l'eventualità di un legame; ricercata quando (o proprio perché) diventata irraggiungibile. Ma, se nel romanzo della giovinezza i toni erano cupi e le emozioni pressanti, in "Neve di primavera" tutto pare come lasciato decantare e riflesso in cristallo purissimo.
Qui agiscono nelle loro alterne vicende (siamo nel 1910/12, in ambiente aristocratico) due diciottenni/ventenni (Kiyoaki e Honda) e una ragazza (Satoko). La realtà vissuta si carica progressivamente di tensione, ma sempre in una dimensione di contenuta malinconia, come se anche le emozioni più forti e le situazioni più drammatiche fossero filtrate attraverso un'atmosfera di composto equilibrio interiore. La relazione con la natura è costantemente presente a riflettere, come in acqua trasparente, gli stati d'animo, a farci scorgere uno spiraglio interiore che altrimenti resterebbe celato: sotto la pergola di glicini, sul volto delle donne "si stsgliava, al pari di un elegante riflesso di morte, l'ombra color lilla dei fiori"; "quando poi la madre (...) aprì il ventaglio d'oro, questo, sotto i riflessi rossi delle foglie d'acero, si ammantò di scarlatto"; "...sentì un debole rumore, simile a quello prodotto dal bocciolo di un susino nel momento in cui si schiude".
Particolari come questi contribuiscono a dare alla narrazione un tono lieve e leggiadro che ben si addice alla ventata di giovinezza che in ogni pagina si avverte. Il lettore, al termine del romanzo, in cui non mancano dolore e morte, si sente avvolto in un'uniforme seppur variegata atmosfera di 'dolce malinconia', che caratterizza l'opera intera.
Molte le belle immagini che qui Mishima dispensa a piene mani. Una per tutte, che si espande per un intero capitolo: la corsa senza meta in risciò, in cui Satoco e Kiyoaki si scambiano i loro primi baci (per lui, i primi in assoluto), avvolti in una bufera di neve, i cui fiocchi turbinano nell'aria e si posano sui loro corpi, quando essi,in un'esaltazione anche estetica, aprono il 'tetto' che li riparava.
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Ritratto di Signora (orientale)
Alla pubblicazione di quest'opera, un uomo politico giapponese intraprese una causa legale contro lo scrittore, essendosi riconosciuto in un personaggio del libro. Ci fu un processo. Mishima, ritenuto 'colpevole', dovette risarcire. A noi rimane, però, il bellissimo romanzo, ambientato nel dopoguerra nipponico, quando la lotta politica già ricalcava quella occidentale, comprese le bassezze a cui siamo abituati: dalla propaganda convulsa alla 'macchina del fango', ed è proprio in questo torbido che si trova ad agire la cinquantenne Kazu.
La donna, nelle prime pagine, viene rappresentata in una dimensione 'orientale': la vediamo, appagata, passeggiare nello splendido parco del suo "Rifugio dopo la nevicata", ristorante di lusso frequentato da anziani uomini politici, in prevalenza Conservatori. Pensa che la propria vita non possa avere più svolte (come vedremo, si sbagliava). Quando conosce Noguchi, Progressista con ancora velleità politiche, si lega a lui affettivamente. Ma 'di che cosa parliamo quando parliamo d'amore'? Perché in Kazu si agitano motivazioni complesse: lei, che ha un passato non limpido, è attratta perfino (soprattutto?) dalla tomba di famiglia di Noguchi, caricata del valore simbolico della rispettabilità...definitiva.
Kazu, in fondo, è una donna passionale, non esita a coinvolgersi lella lotta politica, da cui verrà segnata. Ma non si pensi ad una Madame Bovary orientale: in Kazu non prevale l'aspetto egocentrico nevrotico distruttivo: lei anela alla vita!
L'unione fra l'attivissima Signora e il compassato e introverso Noguchi durerà? Il romanzo non termina con questo interrogativo. A me interessa qui rilevare la bellezza dell'opera, che va ben oltre la trama ( la struttura è comunque solidissima). Gli elementi forti sono però lo splendore estetico della scrittura e l'approfondimento psicologico: nessun dettaglio è superfluo e 'tutto torna'. Percorriamo il racconto con crescente interesse e stupore, arricchiti da una complessità/profondità che solo le grandi opere possiedono.
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