Opinione scritta da Valerio91
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Il precursore dei distopici
Dopo aver letto (per la terza volta) Fahrenheit 451, ero curioso di leggere quello che è un po’ il capostipite di tutti i romanzi distopici, ovvero quest’opera di Evgenij Zamjatin. Che cosa dire; sicuramente si percepiscono le idee che inseguito verranno sviscerate e approfondite da Bradbury, Orwell e Huxley (tra gli altri), pur non raggiungendo la medesima forza, la medesima efficacia; pur conservando l’angoscia e il senso di oppressione tipico di questo genere di romanzi. D-503 è l’embrione di Montag e Winston Smith: coloro in cui si insinua il dubbio; I-330 è l’embrione di Clarisse e Julia: coloro che questo dubbio risveglieranno; lo Stato Unico del Benefattore è l’embrione del Grande Fratello e del Governo a capo dei militi del fuoco: gli oppressori che si spacciano, appunto, per benefattori.
È interessante vedere come Zamjatin avesse anticipato i grandi rimanendo un po’ nella loro ombra; ammirevole come le sue idee fossero in anticipo sui tempi, pur non possedendo la stessa potenza che avrebbero avuto i suoi successori. Come Herbert George Wells (al quale, infatti, Zamjatin si ispirava), l’autore russo è stato un visionario le cui intuizioni si sono costituite base di un genere che nei decenni a venire è stato sfruttato all’inverosimile. Un plauso gli va rivolto anche soltanto per questo.
D-503 vive la sua vita convinto di essere felice. La vita degli uomini è stata ormai organizzata nei minimi dettagli, minuto per minuto, fatta eccezione per delle brevi ore di libero impiego. Tutto è logico, strutturato attraverso metodologie matematiche che non possono sbagliare e che limitano la vita di un uomo e gli impediscono di venire a contatto con le cause dell’infelicità: l’amore su tutte; sostituito da brevi incontri tra gli “alfanumeri”, che possono prenotarsi a vicenda per soddisfare le proprie necessità fisiche. Per chi rifiuta, c’è in serbo l’esecuzione, così come per chiunque osi opporsi in qualsiasi modo allo Stato Unico.
D-503 è il Costruttore dell’Integrale, una specie di navicella che dovrebbe portare agli uomini su altri pianeti il segreto di questa felicità che l’umanità ha finalmente trovato dopo anni di sofferenze. Tutto è pronto, se non fosse che nel momento meno opportuno avviene l’incontro fatale con I-330: donna enigmatica che porta nella vita del costruttore il dubbio e infine l’amore: una malattia da debellare; peggiore della peste e probabilmente più letale, soprattutto in una società siffatta.
Forse un po’ confusionario in certi tratti, è comunque un’opera particolare e probabilmente molto interessante da leggere per chi ami i romanzi distopici.
“Ecco: in quel momento procedevo di concerto con tutti, eppure avulso da tutti. Ero ancora tutto scosso per le ansie provate, come un ponte rintronato dal passaggio di un vecchio treno di ferro. Avevo sensazione di me. Ma ha sensazione di sé, è cosciente della propria individualità, soltanto un occhio irritato da un bruscolo, un dito in suppurazione, un dente cariato: se sani - occhio, dito e dente è come se non esistessero. Non è forse chiaro che avere coscienza di sé equivale soltanto a malattia?”
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Nemici della vita e dell'amore
Isaac Bashevis Singer ha sicuramente meritato la sua posizione nel gotha degli autori del ‘900 e in quest’opera lo dimostra, nonostante non sia un libro che io possa definire indimenticabile. La narrazione e la resa dei conflitti dei personaggi è presentata al lettore in maniera egregia: ne mette in risalto mirabilmente le debolezze e le contraddizioni, rendendoli realistici e, alla fine, praticamente vivi. Nonostante gli eventi che ci vengono raccontati non abbiano molto che possa rimanere particolarmente impresso, i protagonisti animano le vicende con la loro personalità straripante. Strano a dirsi, quelli più interessanti sono proprio i personaggi femminili, e un autore uomo che riesca a rendere in questo modo personaggi di sesso diverso dal proprio ha sicuramente un’abilità invidiabile.
Herman Broder è un sopravvissuto all’Olocausto. È stato anche abbastanza fortunato, avendo trovato durante le persecuzioni una donna polacca che si è presa cura di lui e lo ha nascosto nel proprio fienile. Alla fine del conflitto, un po’ per gratitudine un po’ per senso del dovere, i due si trasferiscono in America e si sposano. Tuttavia, Herman intrattiene una relazione amorosa con un’altra donna, Masha, una bellissima ebrea anch’essa devastata dagli orrori subiti dai nazisti, che trova in Herman l’unica ancora di salvezza dalla pazzia. O almeno così sembra. Dunque Herman è sommerso nell’oceano di bugie che è costretto a raccontare per tenere in piedi la sua doppia vita: si inventa il lavoro di venditore di libri per giustificare le sue lunghe assenze da casa per stare con la sua amante. All’inizio, il castello di carte sta in piedi, ma ben presto un uragano lo abbatterà rovinosamente; questo uragano si chiama Tamara, ed è la moglie che Herman aveva creduto morta in un campo di concentramento insieme ai propri figli. La faccenda si complicherà, fino alla sua tragica risoluzione.
Oltre all’amore, il tema su cui “Nemici” si sofferma principalmente è la condizione sociale ma soprattutto psicologica che si presenta negli ebrei sopravvissuti alla Shoah. Il protagonista, Herman, è sicuramente l’emblema di questa comunità devastata, che pur avendo conservato la vita ne ha smarrito ogni senso e ha perso ogni fede. “Siamo vivi, ma siamo morti”, ripetono continuamente i protagonisti, tormentati dalle sofferenze e dagli orrori che hanno subito e visto. L’uomo può non riuscire a ucciderne un altro nella vita “fisica”, ma può colpirlo nell’anima in modo talmente devastante da metterlo in una condizione peggiore della morte.
Il sottotitolo di questo romanzo è “una storia d’amore”; tuttavia, il primo pensiero che ci sovviene una volta chiuso il libro è: esiste davvero una storia di vero amore, tra le tre che vengono descritte in queste pagine?
"La mia teoria è che il genere umano stia diventando peggiore, non migliore. Credo, per così dire, in un'evoluzione al contrario. L'ultimo uomo sulla terra sarà un criminale e un pazzo."
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Genitori e figli
Sono stato attratto a questo titolo da ragioni piuttosto frivole, in fondo. Ne sono venuto a conoscenza nel momento in cui, l’anno scorso, è stato votato come libro dell’anno per i lettori di GoodReads. Campione di vendite oltreoceano, mi ero piuttosto stupito di non vederlo tradotto e pubblicato da un colosso dell’editoria Italiana.
Alla fine l’ho comprato, pur aspettando qualche mese prima di cominciare a leggerlo.
Celeste Ng ha creato una storia che si legge facilmente, che in certi tratti appassiona pur non raccontando vicende sconvolgenti, ma focalizzandosi su problemi che possono colpire qualsiasi persona normale. È molto facile immedesimarsi in almeno uno dei personaggi descritti dall’autrice, e credo che questo aspetto sia quello che, fondamentalmente, ha contribuito al suo successo. Il tema principale su cui si concentra “Tanti piccoli fuochi” è quello del rapporto genitori-figli, un tema che tuttavia si espande fino a inglobare discorsi quali l’aborto, le adozioni e la fondamentale importanza che hanno le origini per un bambino; temi scottanti (soprattutto per quanto riguarda l’aborto) che Celeste Ng è stata brava a trattare facendo parlare i suoi personaggi e rendendosi totalmente invisibile.
La storia racconta le vicende di Mia Warren al suo arrivo Shaker Heights, piccola e tranquilla comunità di Cleveland. Mia è un’artista, una fotografa che ormai da anni gira per il mondo portandosi dietro sua figlia Pearl, sempre alla ricerca di nuove idee e quindi incapace di mettere radici. Tuttavia, Shaker Heights dovrebbe essere la destinazione finale, per Mia e Pearl, e perciò prenderanno in affitto una casa dalla signora Richardson: donna piuttosto ricca e apparentemente appagata sia professionalmente che nella vita privata. Pearl farà presto amicizia con i quattro figli della famiglia Richardson, di cui la più problematica è Izzy, ragazzina incapace di sopportare le ingiustizie e resa insofferente dall’iperprotettività rabbiosa della madre. Pearl troverà nei Richardson una nuova famiglia, mentre Izzy farà il percorso inverso, trovando in Mia i comportamenti che avrebbe sempre voluto da sua madre.
Celeste Ng incrocia i suoi personaggi in un groviglio di rapporti che si intrecciano confusamente tra loro, che con lo scorrere delle pagine non farà altro che intricarsi di più. Le divergenze di opinioni che si palesano tra i personaggi creeranno una divisione anche nel lettore, che si troverà spesso a interrogarsi su chi di loro abbia ragione e, più ampiamente, si chiederà quale sia la giusta opinione da avere sui dilemmi che vengono sollevati in questa storia.
“Per un genitore, un figlio non è solo una persona: un figlio è un luogo, una specie di Narnia, uno spazio vasto ed eterno dove il presente che stai vivendo, il passato che ricordi e il futuro che attendi con ansia coesistono nello stesso istante […] È un luogo in cui trovare rifugio, a patto di sapere come entrarci. E ogni volta che lo lasci, ogni volta che tuo figlio esce dal tuo campo visivo, hai paura di non potervi più fare ritorno.”
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Quando la trama è uno spoiler
Quando il grande nome ti delude, è una sensazione piuttosto strana. Ti chiedi se magari è il genere d’appartenenza a non essere nelle tue corde; se il modo di scrivere dell’autore non ti entusiasma né ti emoziona; se semplicemente la storia non fa per te. John Grisham mi ha deluso con questo suo romanzo e, per quanto mi è possibile, cercherò di sviscerare i motivi.
“La resa dei conti” racconta la storia di Pete Banning, eroe di guerra che un bel giorno si sveglia e decide di uccidere il pastore della chiesa del suo paese.
Una decisione inevitabile, da quanto dice lui. Manderà in malora la sua vita, quella di sua moglie, dei suoi figli e delle persone che lavorano per lui, ma a quanto pare non c’è alternativa. Dunque lo farà e, in quanto ai suoi motivi, li porterà con sé nella tomba.
In tre righe vi ho spoilerato mezzo libro. Non mi linciate, non è colpa mia: basta che leggiate la trama e vi ritroverete nella stessa condizione. Assurdo ma vero, e nonostante questo non è nemmeno la prima volta che capita; ora non saprei dirvi quale sia stata l’altra occasione, ma questo la dice lunga su quanto il tal libro mi sia rimasto impresso. Ci si aspetta che gli eventi anticipati nella trama occupino (voglio esagerare) 50-60 pagine, che vengano appena accennati.
Invece no.
Dunque, le prime duecento pagine raccontano il processo di Pete Banning, del quale già conosciamo l’esito. Come ammazzare la suspense.
La seconda parte ci racconta le vicissitudini e gli orrori che hanno portato il protagonista a essere l’uomo che è e a diventare un eroe di guerra: forse la parte più interessante, che racconta dell’entrata in guerra dell’America e di uno scenario particolare, sempre tenuto in secondo piano quando si parla della Seconda Guerra Mondiale: la campagna delle Filippine. Pur essendo a volte ripetitivo e dilungandosi un po’, questa parte risulta interessante nonostante l’autore ci abbia permesso di sapere in anticipo che Pete Banning si salverà. In fondo, abbiamo già assistito alla sua esecuzione dopo il processo.
La terza e ultima parte si concentra sulla causa legale che porta la moglie dell’assassinato a cercare di ottenere i terreni dei Banning. A questo punto l’unica cosa che tiene in piedi la curiosità è la voglia di conoscere il mistero (l’unico) che il protagonista non ci vuole svelare e si porterà nella tomba: perché l’ha fatto? Durante la lettura speri non sia quello più banale… il primo che verrebbe in mente alla maggior parte dei lettori. Speri vivamente che l’autore si sia inventato qualcosa di eclatante, in modo da capovolgere l’opinione di un libro che è nato male.
Invece no.
Tornando alla faccenda della trama che anticipa troppo gli eventi, mi ha lasciato talmente esterrefatto che sono andato a controllare se anche nell’edizione inglese veniva anticipato l’esito del primo processo. A quanto pare… no. Mondadori, ma un po’ di furbizia? Il mio giudizio sarebbe stato sicuramente meno duro, e aver appurato il fatto che l’errore è da imputare a una scelta scellerata da parte della casa editrice italiana, ha attutito un po’ la delusione nei confronti dell’autore. Anche se nella seconda parte già sappiamo che il protagonista si salva, permetti che nelle prime duecento pagine non so se verrà giustiziato?
In conclusione, forse quello del thriller legale non sarà il genere che prediligo, ma oggettivamente c’è stata più di una scelta sbagliata. Sia da parte dell’editore che dell’autore.
“Non ho niente da dire.”
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Un western tra alti e bassi
Credo che I romanzi western siano tra i più difficili da scrivere: è facile eccedere in crudezza, ma lo è anche scrivere qualcosa che non colpisca abbastanza.
Kazuo Ishiguro ha definito “Giorni senza fine” di Sebastian Barry il romanzo dell’anno; io l’ho trovato un buon western ma nulla più, un romanzo coi suoi pregi ma anche coi suoi difetti.
Lo stile dell’autore è particolare e vorrei spenderci qualche parola. In primis caratterizza piuttosto bene il protagonista e si sforza di adattarsi al suo modo di parlare e di esprimersi: un po’ alla Huckleberry Finn, o alla Holden, se preferite. In certi tratti l’autore racconta la storia con una forza impressionante; mi riferisco soprattutto alle scene d’azione, di battaglia, oppure nei momenti di particolare difficoltà che colpiscono i protagonisti. Di contro però, le pagine che intercorrono tra questi momenti di grande potenza narrativa, sono piuttosto pesanti e tendono a far vagare l’attenzione del lettore, soprattutto nei tratti in cui l’autore si sofferma sui viaggi dei protagonisti tra i paesaggi tipici del Far West. C’è da dire che questi sono una caratteristica peculiare del genere, dunque ci sta la loro presenza, però in questo romanzo li ho sofferti un pochino in più.
Tralasciando lo stile, la storia strizza l’occhio ad argomenti attuali come il razzismo e l’omosessualità, ma devo dire che soprattutto riguardo a quest’ultimo aspetto e alla figura del protagonista, la cosa mi è sembrata forzata e un po’ fuori contesto, ma è un mio giudizio personale.
Thomas McNulty è un irlandese fuggito dalla sua terra natia quando era ancora un ragazzo, sbarcato in quell’America che sembra carica di promesse ma che sembra essere ancor più crudele dell’Irlanda che ha lasciato. All’inizio incontra John Cole, un ragazzino diffidente che però diventa subito suo amico e compagno tra le disavventure che si troveranno ad affrontare. Insieme conosceranno gli orrori della miseria, che li costringerà a fare gli “attori” prima in un bar e poi in un teatro; conosceranno la guerra, prima contro orde di indiani sanguinari e poi contro i Sudisti, nella guerra di Secessione; conosceranno le privazioni e la fame a cui ti costringe la prigionia.
In mezzo alla bruttura però, ci sarà spazio anche per un fiore che allieterà le loro vite: Winona, figlia di indiani della quale decideranno di prendersi cura, e che dopo un po’ di tempo imparano ad amare come se fosse figlia loro.
Una lettura a tratti cruda, a tratti tenera, con attimi potenti e frenetici e attimi placidi e lenti.
“Con tutto che eravamo afflitti e decimati, qualcosa ci era rimasto. Qualcosa che l’alluvione e la fame non erano riuscite a spegnere. La volontà umana. Roba da levarsi il cappello. L’ho vista tante volte. Non è così rara. È il meglio che abbiamo.”
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Un fumetto supereroistico... letterario
Il fumetto è sempre stato un supporto sottovalutato, soprattutto quello supereroistico. Tuttavia, vi si nascondono perle rare che io mi azzardo a chiamare capolavori. "Il ritorno del Cavaliere Oscuro" di Frank Miller, per me, è uno di questi. Questo fumetto racchiude in sé non soltanto una storia avvincente, ma anche una moltitudine di temi anche piuttosto attuali, nonostante il numero di anni ormai passati dalla sua pubblicazione. Temi come la considerazione e il trattamento che l'essere umano riserva alla sua madre Terra; il pericolo spaventoso dello scoppio di una guerra nucleare (forse il tema più attuale e che più ci impaurisce); l'influenza dei mass media che, nel caso di quest'opera, sono rappresentati dal mezzo televisivo e giornalistico, ma che ai giorni nostri si è accentuato esponenzialmente con l'affermazione dei social media. A questa moltitudine di temi attuali e che ci interessano da vicino, si affianca una struttura narrativa geniale, che fa uso proprio dei mass media per raccontarci una storia da diversi punti di vista, anche quelli falsati della politica e degli stessi mezzi di comunicazione, che spesso cercano di plasmare le nostre opinioni con l'inganno.
Ultima nota lieta, ma non per importanza, è la caratterizzazione dei personaggi e in particolare quella del Cavaliere Oscuro: un ormai cinquantacinquenne Bruce Wayne il cui alter ego si è ritirato dalle scene da ormai dieci anni, ma che si ritrova costretto a rimettersi in gioco. Il pipistrello scalpita, lo tormenta, vuole riprendersi il palcoscenico e riportare l'ordine. Questo quadro di (quasi) perfezione è completato dai disegni che, sebbene possano apparire un po' attempati e non abbiano la pomposità dei fumetti più recenti, contribuiscono alla cupezza della storia e dell'ambientazione e non fanno altro che, a parer mio, dare una marcia in più alla storia e a fornirgli un'identità forte e precisa. Insomma, se vi piace il Cavaliere Oscuro questo albo è un vero e proprio must; ma detto in tutta sincerità lo consiglierei a chiunque. È ovvio che possa piacere maggiormente a chi apprezza i fumetti (in particolare quelli cupi e psicologici), e a chi ha almeno un'infarinatura della storia di Batman e dei suoi villain, ma credo che un lettore attento possa apprezzarlo in egual modo.
"Ci hai svenduti, Clark (Kent). Gli hai dato il potere che poteva essere nostro, proprio come ti hanno insegnato i tuoi genitori. I miei genitori mi hanno insegnato qualcos'altro... sull'asfalto di questa strada... agonizzanti... morendo senza nessun motivo... mi hanno mostrato che il mondo ha senso solo se lo costringi ad averlo."
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Un western leggero
Mettermi davanti un libro ambientato nel selvaggio West è quasi come invitarmi a nozze. Non a caso tra le storie che ho maggiormente amato negli ultimi tempi (oltre a quelle Western del mio autore preferito, Cormac Mccarthy, come "Cavalli Selvaggi") ci sono proprio alcune con questo preciso tipo di ambientazione, come "Paradise Sky" di Joe R. Lansdale e la serie TV "Westworld".
Ovviamente, per sfruttare l'efficacia di una tale ambientazione bisogna impegnarsi seriamente, soprattutto con un supporto non visivo come quello del romanzo. Giovanni Mattia è stato piuttosto bravo e, pur non dilungandosi in infinite descrizioni, con la sua passione riesce a farci respirare il contesto della sua storia: l'aria tesa dei saloon, dove una baruffa è dietro l'angolo; la carenza di moralità e il perenne senso di pericolo e quello che sembra essere molto caro all'autore: le ballate western.
Questo è un altro aspetto che mi è piaciuto: i sentimenti dell'autore si avvertono di pagina in pagina e nella sua storia traspare molto di sé stesso, pur non risultando un narratore troppo invadente, e questo mi ha ispirato una certa tenerezza.
Lo stile va affinato perché troppo carico di frasi fatte e va affinata anche la caratterizzazione dei personaggi, che troppo spesso agiscono avventatamente e in maniera inspiegabile, oltre a cambiare umore troppo facilmente. Tuttavia, ci sono le qualità per fare bene.
La storia ha come protagonista, per l'appunto, il Reverendo Enk Fragile, uomo di chiesa che ha dedicato la sua vita a Dio e che, inizialmente, si accontenta di predicare la parola del Signore a quei pochi che lo seguono. Tuttavia, un giorno si rende conto di essere nato per fare qualcosa di più: ovvero educare alla moralità quella che è la bestia più indomabile che ci sia: il selvaggio West.
Questo lo porterà a girare di paese in paese, alla ricerca di persone da redimere, ma lo porterà a scontrarsi con personalità forti e avversità difficili da superare. Tuttavia, il reverendo Fragile non si arrende e ci renderà partecipi della sua onorevole missione.
Riuscirà ad ammaestrare e a portare sulla retta via un mondo pieno di impostori e assassini? Sta a voi scoprirlo.
"Le solitudini finiscono spesso così: si uniscono per cercar riparo e quando lo trovano, non vogliono più lasciare il posto dove è nato un nuovo germoglio."
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Le ombre dello spettacolo
Quello contenuto in questo libro è un racconto brevissimo, che si legge nel giro di un’oretta. Lo stile di Kazuo Ishiguro mi piace e conferma quanto di buono mi ha fatto vedere in “Quel che resta del giorno”, mostrandosi adatto anche alla forma racconto.
Dovendo essere sinceri, tuttavia, quello che mi ha realmente spinto all’acquisto di questo libricino è l’edizione che si è inventata Einaudi: bellissima a partire dalla sua sovraccoperta e arricchita dalle illustrazioni della fumettista Bianca Bagnarelli.
Le illustrazioni sono ben fatte; in qualsiasi modo venga rappresentata, Venezia è un piacere per gli occhi. Devo dire che affiancare dei disegni che vanno di pari passo con la storia rendono l’esperienza di lettura ancor più interessante. Affiancare a queste immagini anche l’ascolto delle canzoni citate in questa storia, devo dire che ha dato qualcosa in più alla storia stessa.
Forse il prezzo di copertina può essere considerato un po’ eccessivo, considerato che il racconto è molto breve e, seppur molto carino, non indimenticabile; ma devo dire che questo libro è davvero un bel pezzo da tenere in libreria.
Il racconto in sé narra il breve incontro tra un musicista “zingaro” (nel senso che non fa parte di un’orchestra fissa, ma si unisce ad esse quando ne hanno bisogno) e un vecchio crooner di successo, che si trova tuttavia nell’ombra che avvolge anche il genere musicale a cui appartiene. Per il musicista, quest’uomo ha rappresentato una parte importante della propria vita, considerando che i suoi dischi venivano letteralmente consumati da sua madre e la consolavano nei momenti difficili, che non erano pochi. Il musicista, dunque, non può esimersi dall’avvicinarsi al crooner e scambiare con lui qualche parola.
Immaginate la sua sorpresa quando quella celebrità gli chiederà di accompagnare con la sua musica una serenata che intende cantare a sua moglie.
Questa storia che sembra avere delle premesse molto romantiche getterà luce su alcuni lati oscuri dell’amore, in specie il tipo di amore che lega le persone che appartengono al mondo dello spettacolo. Un mondo che intriga chiunque, con le sue luci e la sua fama, ma che nasconde un mondo di sofferenze che molti faticano a immaginare.
“È per questo, Mr Gardner, precisamente per questo motivo che le sue canzoni da anni e anni significano tanto per gente che vive ovunque. Perfino dove stavo io. E che cosa dicono quelle canzoni? Che se due smettono di amarsi e devono separarsi, è un peccato. Ma se si amano ancora, hanno il dovere di restare insieme per sempre. È questo che dicono quelle canzoni.”
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Racconti d'umanità, per le strade di Pietroburgo
La cosa che più mi ha stupito di questa raccolta di racconti pietroburghesi è lo stile di Gogol': pur appartenendo alla schiera di scrittori russi ottocenteschi, la sua scrittura scorre fluida come se ci trovassimo a leggere un giallo. Con questo non voglio screditare gli scrittori russi, ma solo evidenziare una peculiarità di Gogol', che adotta uno stile più fresco, più moderno. Nonostante questo non lo preferisco a quello di Dostoevskij.
Ogni racconto prova a scavare a fondo nella nostra umanità: mette a nudo alcuni dei nostri conflitti e le contraddizioni; ci mostra le conseguenze che può avere sulla nostra vita una importante mancanza di saggezza, e come la nostra esistenza su questa Terra sia posta sul filo di un rasoio: per quanto possa procedere stabile e uguale da lungo tempo, un evento casuale può sconvolgerla fin nelle viscere.
In queste pagine, l'autore mi è parso già proiettato nella letteratura moderna, pur non sfigurando tra le fila della letteratura del suo secolo. I temi appartengono effettivamente al contesto in cui vive l'autore, temi tanto cari ai letterati russi, che pescano i propri personaggi nelle posizioni inferiori della propria società: uomini costretti a chinare il capo di fronte agli ufficiali e resi folli dall'amore per donne che non possono avere; artisti che vivono in ristrettezze, dall'anima divisa tra l'arte e il mero successo; uomini che svolgono ogni giorno, meccanicamente, le stesse mansioni, e per i quali il semplice acquisto di un mantello costituisce un evento di enorme importanza, oltre che un bivio tra la vita e la morte. Personaggi di tal sorta possono suggerire storie di riscatto, storie in cui l'uomo povero riesce con l'ingegno a elevarsi; ma quanta verità c'è in storie di tal sorta? Parliamoci chiaro, poche sono le storie di questo genere che trovano riscontro nella realtà, sia ai giorni di Gogol' quanto ai giorni nostri. Gogol' era un realista, dunque bisogna aspettarsi dei racconti anche crudi, che fanno male; i protagonisti fronteggiano la durezza della vita, una vita che non fa sconti e che può darti il colpo di grazia da un giorno all'altro.
Ho letto questi racconti tutti d'un fiato, ma devo dire che quello che ho apprezzato di più è senza ombra di dubbio "Il ritratto", che mi ha dato più di uno spunto di riflessione. Il racconto che mi è piaciuto meno è, paradossalmente, l'unico che conoscevo per fama: "Il naso"; mi è parso quello meno carico di spunti.
Ognuno con le sue peculiarità (ma comunque sullo stesso leitmotiv e con la stessa atmosfera degli altri) ognuno di questi racconti vale assolutamente la lettura.
"Otteniamo mai noi qualcosa di ciò che desideriamo? Tutto va alla rovescia. A uno il destino ha dato una magnifica pariglia di cavalli, ed egli ci scarrozza indifferente, senza neppure accorgersi della loro bellezza, nel mentre che un altro, il cui cuore arde di equina passione, se ne va a piedi e non ha che la magra soddisfazione di schioccar la lingua quando i bei trottatori lo sorpassano. [...] In che maniera strana si fa giuoco di noi il destino!"
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Lo spartiacque
Come viene detto nella prefazione di Agostino Lombardo, nell'edizione Feltrinelli, con "Giulio Cesare" si apre la stagione di massima arte per William Shakespeare. A quest'opera, infatti, seguiranno molte delle sue opere più importanti tra le quali Amleto, personaggio che, coi suoi conflitti e le sue domande sulla condizione umana offre uno spaccato della nascita dell'uomo moderno.
Amleto viene praticamente annunciato dal Bruto di questa tragedia, che rappresenta l'embrione dell'uomo che deve abbandonare tutte le sue convinzioni antiche: che deve imparare a farsi carico del proprio destino; smettere di credere nelle superstizioni e mettere ogni spiegazione che non riesce a darsi sul groppone delle divinità; che deve farsi carico del suo nuovo status di "uomo copernicano".
"Il passaggio da un mondo all'altro, richiede passi audaci" (non è Shakespeare); ma anche il passaggio da un uomo all'altro, devo dire.
Seppure le opere di Shakespeare siano sempre meravigliose da leggere, Giulio Cesare non mi ha colpito ed emozionato come altre opere, nonostante raggiunga vette di rara bellezza; ma da Shakespeare ci si attende sempre molto, dunque il fatto che possa avermi "deluso" è un fatto piuttosto relativo.
Questa tragedia shakespeariana ha come fulcro, com'è ovvio pensare, il cesaricidio perpetrato dai congiurati romani come Cassio e Bruto. Tuttavia, pur dando all'opera il proprio nome, Giulio Cesare non compare quasi mai, se non citato dagli stessi personaggi che lo temono, lo odiano, lo invidiano. Giulio Cesare è l'ultima divinità dell'età antica, per questi uomini, e per ottenere la libertà loro vedono un unico finale: l'assassinio di quella divinità. "Libertà!", è il grido che si solleva dai congiurati. Eppure... neanche da morto il grande Cesare smetterà di gettare la propria ombra sul mondo e sugli uomini.
"Et tu, Brute", è il grido che Cesare leverà alla sua morte, e come un virus contagioso e spietato, si insinuerà nella psiche di quest'uomo che si è fatto carico del peso del mondo, uccidendo un uomo che amava per il bene comune, un bene che, comunque, non è detto che arrivi.
"Il codardo muore mille volte prima della sua morte, il coraggioso gusta la morte una volta sola."
"The coward dies a thousand deaths, the valiant tastes the death but once."
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Il Re è (quasi) tornato
Finalmente uno dei miei autori preferiti torna a scrivere qualcosa che non mi abbia fatto storcere il naso. Sì, perché ultimamente la qualità dei suoi lavori (almeno quelli che io mi sono trovato a leggere) aveva lasciato alquanto a desiderare. "Il bazar dei brutti sogni" si era rivelata una raccolta di racconti di media qualità, mentre "Mr. Mercedes" e il suo seguito "Chi perde paga" mi avevano talmente deluso dallo scoraggiarmi nella lettura dell'ultimo capitolo della trilogia che aveva come protagonista Bill Hodges.
"The Outsider", finalmente, rimette un po' in luce la grandezza di Stephen King, pur rimanendo lontano dagli splendori de "Il miglio verde" ma anche del più recente "22/11/'63". Questa storia si è rivelata piuttosto originale, nella prima metà un poliziesco-noir puro e semplice, per poi trasformarsi, nella seconda metà, in qualcosa di più simile al King che ci ha spaventati tutti. Stranamente, ho apprezzato di più la prima parte (che ha anche certi picchi di puro King); la seconda mi ha appassionato meno e l'ho trovata anche più lunga di quanto avrebbe potuto essere.
Nonostante questa storia presenti per la maggior parte personaggi completamente nuovi, ritrova un collegamento con la trilogia di Mr. Mercedes, in qualche tema e in uno dei suoi protagonisti, Holly Gibney. Chi ha apprezzato quelle storie potrà sicuramente esserne soddisfatto; personalmente ha inquinato un po' il mio giudizio in negativo, ma è una cosa che non saprei spiegarvi razionalmente e dunque strettamente personale.
"The Outsider", dunque, lascia intravedere una piccola ripresa nel nostro amato King, sperando che presto possa sfornarci un nuovo capolavoro che sia all'altezza dei vecchi lavori.
Abbiate fiducia, gente; io adesso ne ho.
"The Outsider" comincia col brutale omicidio di un bambino, Frank Peterson. Un caso semplice, all'apparenza, considerando che sulla scena del crimine vengono ritrovate più tracce (tra impronte e DNA) di quante ne siano realmente necessarie, oltre alla presenza di vari testimoni oculari. Tutte queste prove indicano come colpevole un solo uomo: Terry Maitland, allenatore di baseball delle squadre giovanili, che mai nessuno a Flint City si sarebbe mai sognato di sospettare. Se hai un figlio, "Coach T" deve averlo per forza allenato, ed è così anche per il figlio del detective Ralph Anderson. Reso sicuro dalla mole di prove a sua disposizione, il detective arresta Terry davanti a quasi duemila persone, durante un match di baseball.
Terry è stupefatto dalle accuse che gli vengono fatte, ma ogni criminale simulerebbe tale stupore; peccato che, molto presto, a sostegno dell'innocenza di Terry verranno fuori prove in quantità industriale, che superano in mole e qualità quelle sollevate dall'accusa.
Ma allora chi ha ucciso Frank Peterson?
Né i nostri protagonisti né il lettore potranno mai immaginarlo prima della fine.
"[...] riflettere sulla propria sanità mentale probabilmente non era un buon segnale. Era un po' come pensare al battito del proprio cuore: se ti trovi nelle condizioni di doverlo fare, quasi certamente sei già nei guai."
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Dimenticare ciò che non si può dominare
Un libro piuttosto difficile da leggere.
Partiamo da una premessa: Saul Bellow ha una cultura sconfinata e scrive davvero benissimo. Questo mi ha decisamente convinto a investire altro tempo su di lui e sulle sue opere, anche se il suo “Herzog” non mi ha fatto impazzire.
Per quale motivo Herzog non mi è piaciuto? Per vari motivi. É innanzitutto una lettura adatta soltanto a chi ha una buona cultura, e che quindi riesce quantomeno a discernere un minimo dei pensieri del protagonista, Moses E. Herzog, l’intellettuale. Un protagonista che sputa in faccia a vari personaggi (che siano vicini a lui, lontani, ma anche morti), tutti i suoi pensieri sconnessi, tutti i suoi turbamenti emotivi e le montagne russe dei suoi pensieri. Ci troviamo di fronte a un vero e proprio flusso di coscienza, o quasi, in certi tratti.
Nella sua follia e nella sua incoerenza ci si perde totalmente, senza riuscire a provare empatia. Herzog è un uomo perduto, che non sa cosa fare della propria vita, ossessionato da avvenimenti passati e delusioni che non riesce a scrollarsi di dosso. Tuttavia, non riesce quasi mai a dare un’identità precisa a quello che lo tormenta, e alla fine si giunge alla conclusione che forse è la vita stessa a metterlo in crisi (una crisi che voglio sperare non ci tocchi tutti con questa intensità, raggiunta la mezza età).
Il titolo di questo libro non poteva essere diverso: queste pagine non sono altro che morboso, incessante, contraddittorio Herzog.
Moses Elkanah Herzog è un uomo che ha dedicato la sua vita allo studio, alla cultura, alla filosofia. Ha pubblicato uno scritto ben accolto da importanti esponenti dell’ambiente, che ha fatto di lui un uomo dalle idee rispettabili. Dopo il divorzio dalla prima moglie Daisy (che dai flashback si percepisce sia l’unica un po’ più sana di mente, difatti non la conosciamo), Herzog è devastato dal tradimento della sua seconda moglie Madeleine, una donna che ci sembrerà del tutto odiosa, insopportabile, meschina, malvagia; anche se a un certo punto ci verrà in mente il dubbio che sia dovuto al fatto che il racconto è quasi del tutto filtrato dal punto di vista di Herzog, il bistrattato. A un’analisi accurata, Madeleine si rivela davvero una donna meschina, ma forse il “filtro Herzog” la fa apparire ancora peggiore.
Un po’ troppa carne a cuocere, in questo romanzo; troppe riflessioni gettate in faccia al lettore in un flusso di coscienza ininterrotto e talvolta incomprensibile. Penso che la forza di un autore sia quella di rendere fruibile la sua cultura e le sue riflessioni a quante più persone possibile; Herzog invece è un libro per pochi.
Non so dirvi se Herzog è un libro per voi; dovrete accettare la sfida.
“Herzog scrisse: Non capirò mai che cosa vogliono le donne. Che cosa diavolo vogliono? Mangiano insalata verde, e bevono sangue umano.”
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Emotivamente devastante
Questo libro mi ha devastato. Entra di diritto nella mia top 5, e credo che meriti ampiamente la definizione di capolavoro.
Certo, un’opera letteraria entra nel cuore di un lettore soltanto se quel cuore è pronto ad accoglierla, se la sente sua, e mai come in questo caso devo dire che il mio entusiasmo verso questa lettura è dovuto in buona parte alla mia immedesimazione nel protagonista. Tuttavia, anche se il mio apprezzamento per quest’opera è stato aumentato esponenzialmente dalla mia empatia personale, credo che possa piacere davvero a chiunque.
La prosa di London è stata definita una delle più potenti della storia della letteratura, e dopo questa lettura non posso che essere d’accordo: un modo di scrivere coinvolgente, che travolge con la forza dei suoi sentimenti.
Fino alla metà di “Martin Eden” non credevo che mi sarebbe piaciuto fino a questo punto, ma quella è tutta una preparazione per quello che ci travolgerà nella parte finale, soprattutto nell’ultimo terzo di storia; ho divorato la seconda metà in una sola sera, e non si tratta di un libro piccolo, né l’edizione aveva un carattere e dei margini ampi. Nonostante questo sono stato travolto da quanto travolge il protagonista, affascinato dalle persone che irrompono nella sua vita (in particolare Brissenden) e dal cambiamento che causano nel suo modo di vivere e percepire la vita, nel bene e nel male.
L’empatia per Martin (e dunque per London, considerato che quest’opera è largamente autobiografica) è stata per me fortissima, perché nelle ambizioni e nei pensieri del protagonista, nelle difficoltà che affronta, ho trovato molti dei miei pensieri e delle mie prove, e devo dire che London riesce a trasmetterle in maniera superba.
Martin Eden è un giovane marinaio, che appartiene al piano più basso della piramide sociale e che un giorno, all’improvviso, si ritrova nel salotto di una famiglia borghese. Invitato da un giovane che ha conosciuto lungo i suoi viaggi, al preciso scopo di divertire la sua famiglia quasi fosse un fenomeno da baraccone, Martin si ritrova affascinato da quel mondo che aveva avuto modo di conoscere soltanto nei pochi libri che aveva avuto modo di sfogliare. Ma, soprattutto, rimane affascinato da una donna, Ruth, sorella del suo conoscente. Martin, sotto la sua natura rozza e nonostante il suo passato tutt’altro che nobile, nasconde dentro di sé delle capacità fuori dal comune e l’amore a prima vista per questa donna lo spingerà in maniera irrefrenabile verso lo studio, per potersi avvicinare all’altezza di lei.
Martin comincia a divorare un libro dopo l’altro; ha una capacità d’apprendimento decine di volte più accentuata di quella degli uomini normali e in breve tempo innalza la sua conoscenza a livelli che neanche molti membri della nobiltà riescono a raggiungere. Nello studio, scopre l’amore per la scrittura e decide che è proprio quello che vuole fare nella vita. Peccato che non sia facile e che gli ostacoli non siano pochi.
Nonostante il suo amore sia ricambiato dalla bella Ruth, lei non crede nelle sue capacità e non ritiene possibile che lui possa aprirsi una strada nella letteratura. Vuole incitarlo in tutti i modi a cambiare, a trovarsi un posto rispettabile in modo che possano sposarsi. È quello che gli intimano di fare tutti, in realtà, perché nessuno crede in Martin, nessuno a parte lui stesso.
Soffrirà la fame nell’indifferenza di tutti, pur di inseguire il suo sogno. Nessuno crede in lui, nessuno lo sostiene.
Non voglio raccontarvi altro, dovete assolutamente leggere questo libro.
Favoloso.
“Ciò che voglio dire è che quest’uomo mi dà l’impressione che sia giunto al fondo delle cose, e sia rimasto così atterrito da ciò che ha visto, che cerca di persuadersi di non aver visto nulla. […] Un uomo che avrebbe potuto compiere cose importanti, ma che non ha voluto attribuire alcuna importanza a ciò che avrebbe potuto fare, e tuttavia, nel profondo del cuore, rimpiange di non averlo fatto; che in segreto ha cercato di ridere delle ricompense che ne avrebbe ricevuto, e tuttavia, ancor più segretamente, ha sempre sentito la nostalgia di quella ricompensa, delle gioie che avrebbe conseguito, compiendo quelle cose.”
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Ricchi e poveri
Una storia di cruda realtà raccontata con uno stile esilarante. Questa è la frase che potrebbe introdurre adeguatamente questo libro, ma non sarebbe comunque abbastanza da fargli giustizia.
Come dicevo, lo stile di Kurt Vonnegut è brioso; riesce a strappare più di una risata con i suoi aneddoti che, seppure possano apparire a volte fuori luogo, in realtà sono sempre attinenti al messaggio che l'autore vuole trasmettere e lo rendono molto fruibile con l'aiuto di un sorriso, seppure amaro nella maggior parte dei casi.
Non è il primo libro che leggo di Kurt Vonnegut; il primo è stato il più acclamato "Mattatoio n.5", che non mi ha colpito quanto questo "Perle ai porci". Vi dirò la verità, questo aspetto ha fatto nascere in me il desiderio di ripetere la prima lettura, perché ho la strana sensazione che mi sia sfuggito qualcosa.
"Perle ai porci" è uno di quei libri senza trama che, tuttavia, riescono a colpirti più a fondo di un'opera dal meccanismo narrativo perfetto e dalla storia coinvolgente. Non c'è bisogno di una trama complessa per dar vita a un grande libro, e questo di Kurt Vonnegut ne è una prova lampante. Ci sarebbe da farne un discorso molto lungo.
Tutto quello a cui assistiamo sono le vicissitudini di Eliot Rosewater, un uomo ricco creduto pazzo perché ha deciso di dedicare la sua vita e il suo patrimonio alla gente più sfortunata, piuttosto che inseguire ambizioni vuote e ricoprire le più alte cariche dello Stato, che sembravano attendere soltanto la sua maturazione. Inutile dire che questa sua bontà d'animo sarà l'innesco che spingerà uomini senza scrupoli a privarlo della sua fortuna, in modo che possa essere utilizzata da uomini più "assennati".
Sono diverse le riflessioni che scaturiscono da questo libro: in primo piano c'è la questione della beneficenza, sviscerata e considerata in moltissimi dei suoi aspetti. La trattazione di Vonnegut si concentra principalmente sui rapporti tra la classe ricca e la classe povera, la prima incarnata dal ricco benefattore Eliot Rosewater, la seconda dai reietti dell'omonima città americana (fittizia) di Rosewater.
Riguardo a questo tema, che è il centrale, quello su cui è più interessante soffermarsi sono due aspetti.
Il primo aspetto riguarda ciò che spinge un esponente della classe ricca a farsi "benefattore". Nel caso del nostro protagonista, Eliot, ciò che lo spinge è quanto di più umano si possa considerare: altruismo puro e semplice, che non si aspetta nulla in cambio e che soffre di "bassa autostima", ovvero una patologia che lo porta a considerare quei gesti di carità come un qualcosa di dovuto, che non ha quasi importanza e non merita nemmeno un ringraziamento. In contrasto con quest'altruismo puro, si pone un atteggiamento diametralmente opposto, che spesso viene assunto proprio da chi, di beneficenza, non fa davvero nulla; un atteggiamento di superiorità che porta una persona ricca a considerarsi meritevole di ringraziamenti anche per quel poco che i poveri hanno, considerando questi "possedimenti" una conseguenza della prosperità che loro stessi hanno portato nel paese, pur non interessandosi ai poveri in prima persona.
Il secondo aspetto rappresenta l'altra faccia della medaglia: ovvero come la classe povera reagisce alla beneficenza "vera", quella che è rivolta direttamente nei loro confronti. Come è ovvio che sia, nessuno reagisce allo stesso modo, ma le reazioni prevalenti sono due. La prima è quella che spinge chi riceve l'aiuto a tirarsi fuori dalla melma, che vede in quell'atto di bontà un mezzo per darsi una seconda occasione. La seconda reazione è quella che porta velocemente allo sperpero, all'accettazione voluttuosa dell'aiuto per soddisfare i propri bisogni immediati, senza volgere lo sguardo al futuro. La beneficenza non si fa autrice di un riscatto, bensì diventa un mezzo per tappare una perdita che tornerà a ripresentarsi nemmeno troppo tardi. Questo porta l'uomo che ha agito così stoltamente a rivolgere tutte le sue speranze nell'uomo che gli ha concesso quella carità, a strisciare ai suoi piedi ogni volta che ne ha bisogno, sempre più spesso; un uomo che nel momento in cui dovesse mancare si porterebbe via anche tutte le speranze di quel miserabile. Inutile dire che quest'ultima è la reazione più frequente e ad essa si deve il titolo "Perle ai porci".
Una lettura interessante, da fare.
"Uno dei protagonisti di questa storia, storia di uomini e donne, è una grossa somma di denaro, proprioc ome una grossa quantità di miele potrebbe essere, correttamente, uno dei protagonisti di una storia di api."
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Le madri perdute
Era da tempo che volevo leggere questo libro. Dopotutto, durante i miei giri in libreria sembrava attirarmi a sé in tutti i modi: la sua ubiquità, la copertina con quella ragazzina dallo sguardo magnetico, il titolo particolare, la fascetta del Premio Campiello; tutto sembrava gridare nella mia direzione: "Comprami! Leggimi!". Alla fine l'ho fatto, per dirvi quanto possa essere importante per un libro anche il modo in cui ti viene messo davanti agli occhi. Quando l'ho iniziato, infatti, non ero ben consapevole di cosa stessi andando a leggere, l'ho scoperto pian piano.
Poi ho scoperto che l'Arminuta è una parola del dialetto abruzzese che sta per "La ritornata". Quello di Donatella di Pietrantonio, infatti, è la storia di un ritorno e di un abbandono (o forse più di uno?). Lo stile dell'autrice è sicuramente particolare, che in certi tratti si avvale del dialetto abruzzese per caratterizzare la storia e dare un tocco di unicità all'ambiente e ai personaggi, senza mai risultare incomprensibile né richiedere un impegno particolare.
La cosa che più mi ha affascinato, tuttavia, sono i legami che l'autrice crea tra i personaggi: ben descritti, ben differenziati in base alle persone legate, credo siano il vero punto di forza di questa storia. Non si può non provare empatia e tenerezza per il rapporto che si crea tra la nostra protagonista e la sua "nuova" sorella; un rapporto d'amore sincero germogliato nel bel mezzo della lordura: "un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia".
Sono convinto, tuttavia, che questa storia possa emozionare di più le persone che hanno vissuto traumatici abbandoni; persone che siano maggiormente in grado di immedesimarsi nella protagonista e provare empatia per lei. Ecco, credo che questa sia quello che distingue un buon libro (quale è L'Arminuta) da un capolavoro: il grande scrittore si vede da come riesce a raccontare qualcosa in modo che il lettore la senta sua, anche se è un'esperienza che non ha mai vissuto. Molti grandi scrittori del passato erano d'accordo su quest'aspetto e anch'io, da lettore, sono d'accordo. Questo è quel che manca a "L'arminuta".
Inoltre, ho avuto anche qualche perplessità a livello narrativo, soprattutto per quanto riguarda i comportamenti di alcuni personaggi, in particolar modo la madre adottiva della protagonista.
La nostra protagonista è una ragazzina che, improvvisamente, è costretta a tornare dalla sua vera madre. Sì, perché la sua vera madre (che aveva già fin troppe bocche da sfamare), l'aveva affidata a una sua parente che non era in grado di avere figli. Ma adesso le cose sono cambiate; la sua famiglia adottiva non può più tenerla per motivi misteriosi (che scopriremo verso la fine) e la nostra protagonista è costretta a tornare dalla sua "vera" famiglia. Peccato che le cose siano molto diverse dal passato. Abituata a vivere in mezzo agli agi, a ricevere un'ottima educazione e a godersi il mare e la parte migliore della città, adesso l'arminuta si ritroverà a vivere di stenti. Il cibo è una rarità, l'igiene piuttosto precario, mentre l'affetto è una cosa di cui si deve fare praticamente a meno. La sua vera famiglia non è quello che si definirebbe un tranquillo focolare, bensì un gruppo di persone riunite tra quattro mura scrostate in cui ci si guadagna ogni cosa col duro lavoro e in cui la disciplina è impartita a suon di ceffoni.
Nulla si salva in quell'ambiente; nulla, a parte quel fiore cresciuto nell'oscurità e che rappresenta l'unico vero tesoro in un mare di melma.
"Nel tempo ho perso anche quell'idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. È un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure."
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La storia è una strada a senso unico
La casa editrice E/O ormai ha spiccato il volo, per una serie di motivi: trame intriganti e originali, copertine accattivanti e, probabilmente, anche per la qualità degli scritti che sceglie di pubblicare e tradurre. Non posso dare un giudizio completo riguardo alla qualità, avendo finora letto soltanto due scritti, ma posso dire che le premesse non sono per niente male.
Un buon libro è anche questo "Come fermare il tempo" di Matt Haig. Col suo stile fresco e scorrevole, la storia originale e accattivante e con una divisione in scene non troppo lunghe, l'autore riesce a farci entrare nel mondo che ha creato. La lettura è assolutamente piacevole e, nonostante le 360 pagine, si conclude piuttosto in fretta. La storia non si svolge in maniera lineare, ma è carica di flashback che si inseriscono frequentemente nella storia principale, ma senza risultare invasivi e senza intaccare la fluidità di lettura e la comprensione del testo.
Certo, "Come fermare il tempo" non è un libro perfetto. C'è qualche forzatura narrativa che può far storcere un po' il naso, soprattutto alla fine si ha l'impressione che l'autore abbia un po' velocizzato e semplificato la conclusione perché non avesse idea di come sbrogliare la matassa. Non mi ha convinto.
C'è una ricerca spasmodica di frasi a effetto, di "frasi precotte" da condividere sui social network e cercare la gloria del web.
Per concludere, mi sembra chiaro che l'autore avesse l'ambizione di creare qualcosa che non intrattenesse semplicemente, ma che potesse anche trasmettere un messaggio ed evidenziare alcuni lati controversi della natura umana; tuttavia, credo che ci sia riuscito con meno efficacia, rispetto ad altri autori.
Ora voi mi direte: "con tutti questi lati negativi, è comunque una lettura che consigli?". Assolutamente sì. Questo libro non riesce a raggiungere le sue ambizioni, ha qualche difetto, ma è comunque una lettura gradevole che può lasciare qualcosa.
Il nostro protagonista, Tom, soffre di una disfunzione che tanto disfunzione non è: invecchia molto lentamente e non si ammala mai. Per lui, quindici anni di vita possono equivalere a quindici anni della vita di un essere umano normale. Dunque, il nostro caro Tom ha conosciuto Shakespeare, Fitzgerald e tante altre personalità di spicco della Storia della Terra. Nonostante questo, Tom non è felice: ha conosciuto l'amore ma è stato costretto a perderlo. Come può proseguire il rapporto tra una persona che non invecchia e una che, lentamente, si vede logorare nel corpo e nella mente? Se l'amore è vero resiste anche a questo, ma l'uomo è sempre stato carico di pregiudizi e ha sempre condotto la sua "caccia alle streghe", letteralmente o metaforicamente.
Dunque Tom non può vivere una vita uguale a quella del resto dell'umanità e per questo arriva in suo soccorso Heinrich, capo di un'azienda che ha il preciso scopo di proteggere chi, come lui e Tom, soffre di questa disfunzione. Offirà a Tom la possibilità di vivere infinite vite diverse da cambiare ogni otto anni per non destare sospetti, e gli offirà aiuto per trovare la sua unica figlia scomparsa, e che soffre della stessa disfunzione. L'unica regola da rispettare è: non innamorarsi.
Carino.
"Ci sono esperienze che ho vissuto e che non potrò mai più vivere per la prima volta: l'amore, un bacio, Cajkovskij, un tramonto a Tahiti, il jazz, un hot dog, un Bloody Mary. È nella natura delle cose. La storia era, ed è, una strada a senso unico. Bisogna continuare a camminare in avanti. A volte ci si può semplicemente guardare intorno, ed essere felici proprio lì, dove si è."
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Fight Club si conclude col primo capitolo
Un seguito che mi ha lasciato parecchio perplesso.
Inizialmente, ho storto il naso quando ho appreso che il seguito di un capolavoro come Fight Club sarebbe stato una Graphic Novel. Non fraintendetemi, ne sono un lettore e non ho alcun tipo di pregiudizio, ma credevo che una storia di questa complessità avesse bisogno di un altro tipo di supporto, o di un altro genio come Fincher che le desse vita tramite immagini rimanendo comprensibile. Poi ci ho pensato su, e mi sono detto che poteva essere un’idea innovativa e audace.
Dunque ho aperto questo volume, eccitato dall’idea di ritrovarmi di fronte uno dei personaggi più interessanti e sconvolgenti che io abbia mai incontrato: Tyler Durden.
Sfoglio le prime pagine, guardo le prime vignette, colpito dalla bellezza dei disegni e rincuorato dall’inizio promettente.
Dopo un po’ comincio a raddoppiare l’attenzione perché ci stavo capendo ben poco, ho cominciato a spezzettare la lettura, sempre più perplesso (e anche un po’ annoiato), ma ancora deciso a capire dove l’autore volesse andare a parare.
Purtroppo, questo entusiasmo va scemando man mano che si prosegue, fino a precipitare nel finale, dove tutto si fa delirante, irritante, difficile da seguire.
Che Palahniuk abbia ambizioni più alte delle sue effettive capacità? Fatico a crederlo, considerando la genialità del primo capitolo, ma in questo lavoro c’è troppa carne a cuocere, troppe idee mal sviscerate e di difficile comprensione per il lettore. Non ho assolutamente la sensazione che quest’opera sia stata scritta per fare un “sequel a tutti i costi”, ma addirittura credo ci fossero troppe idee e nella smania di inserirle tutte si sia combinato un gran casino.
Come se le cose non fossero già troppo complicate, in certi tratti l’opera diventa meta-narrativa e vediamo comparire l’alter ego a fumetti dell’autore, che viene chiamato in causa dai personaggi secondo voi, per cosa? Perché anche loro non hanno idea di come proseguire in questa storia che a un certo punto diventa totalmente assurda.
Va bene che stiamo parlando di un fumetto, ma a questo punto lasciate stare Fight Club e inventate qualcosa di nuovo! Il primo, in certi tratti, era un po’ assurdo, ma questo aspetto era compensato dalla genialità dell’idea e dal fatto che molto fosse nella testa del protagonista. In questo caso invece, TUTTO diventa totalmente assurdo, non solo quello che accade nella psiche del narratore.
Totalmente folle, e non in senso positivo.
Sinceramente sono parecchio deluso, e sono arrivato alla conclusione che considererò Fight Club chiuso col primo capitolo e che nella mia mente escluderò quest’opera dal “brand”, così come ho escluso episodi 7 e 8 di Guerre Stellari.
Non starò qui a dilungarmi sulla trama, sul serio, non saprei da dove cominciare.
P.S: Lo stile si riferisce alla qualità dei disegni.
"Quello che voglio dire è che non sono gli uomini a coltivare le idee. Sono le idee a coltivare noi."
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Un buon esordio per Renée Ballard
Michael Connelly è sicuramente un nome gradito ai puristi del thriller.
Con "L'ultimo giro della notte" il nostro autore non toppa e mette in piedi una storia che intriga e si fa leggere con piacere, pur non brillando per originalità. È forse questo il punto più carente di questa storia, che non presenta nulla di veramente innovativo, anche se c'è da dire che ormai essere originali è diventata davvero un'impresa. Lo stile dell'autore e il nuovo personaggio da lui inventato, tuttavia, riescono a mettere in secondo piano (anche se non del tutto) questa carenza di idee, dando vita a una storia che si legge velocemente.
Come dicevo, probabilmente Renée Ballard e il suo bel caratterino sono quegli aspetti che danno a questa storia qualcosa in più e che fanno nascere intensa curiosità sul seguito (che a quanto pare, in inglese è già stato pubblicato). Non fraintendetemi, questa storia è autoconclusiva e non lascia nulla in sospeso (a parte i rapporti tra i personaggi, che evolveranno inevitabilmente), ma a quanto mi è parso di capire nella prossima storia che avrà come protagonista l'agente Ballard, ci sarà una collaborazione con il personaggio di punta di Connelly: il detective Harry Bosch. Devo dire che sono molto curioso di vedere cosa verrà fuori dalla prossima storia e quali saranno i rapporti tra i due protagonisti, considerando che Ballard si è rivelato un personaggio piuttosto solido.
Ma occupiamoci della trama de "L'ultimo giro della notte".
Renée Ballard lavora all'Ultimo spettacolo, che è solo un nome figo per far capire che lavora al turno di notte, accanto al suo partner Jenkins. Tutto ha inizio una notte che si preannuncia tranquilla, con un semplice furtarello a casa di una vecchietta; ben presto però, ci si renderà conto che quella notte ha in serbo ben altro: prima il pestaggio e le torture ai danni di un transgender, e infine una sparatoria in un locale che provoca cinque morti. Per una serie di coincidenze, Renée si trovera coinvolta in ciascuno di questi casi e, sebbene le sia stato ordinato di starne fuori, decide di approfondire quel che nasconde anche il grave caso di sparatoria. Questo l'immischierà in un gioco pericoloso, che metterà a rischio la sua vita.
Ma non basterà questo a scoraggiarla.
La narrazione porterà alla chiusura di tutti i casi aperti e si presenta come il prologo di una carriera costellata di luci e ombre per la nostra agente Ballard; una carriera che, forse, non avrà molto da invidiare a quella di Harry Bosch.
Fate attenzione però, ho detto FORSE.
"La differenza sta in come una persona gestisce l'oscurità. Lei ha un lavoro che la porta a contatto con i lati peggiori dell'animo umano. È come una legge della fisica: a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Se entra nelle tenebre, le tenebre entrano in lei. E a quel punto deve decidere cosa fare al riguardo, come restare al sicuro, evitando che l'oscurità la svuoti dall'interno."
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L.A. Confidential di James Ellroy
Sporco, scorretto, ma potente. Non per tutti.
Comincio facendo una premessa fondamentale: "Fight Club" non è un libro per tutti.
È quasi paradossale trovarsi a non sapere se consigliare o meno un libro che ci è piaciuto (mi capita spesso anche coi libri di Cormac McCarthy), ma proverò a scrivere una recensione che possa esservi d'aiuto a riguardo.
Cominciamo con lo specificare chi NON dovrebbe leggere Fight Club: chi è debole di stomaco o ipersensibile, sia riguardo ai contenuti sia riguardo al linguaggio, deve tenersene alla larga.
Per chi è indeciso (anche sulla propria sensibilità) ho un consiglio spassionato che normalmente non darei mai. Tuttavia, considerato che Fight Club è un'opera fuori dal comune, eccolo a voi: per capire se la lettura può piacervi o meno guardate prima il film tratto dal libro, un capolavoro di David Fincher che ha come protagonisti Brad Pitt ed Edward Norton; se riuscite a reggerlo e vi piace, allora tentate con la lettura altrimenti, come diceva Totò, "desisti". Credo che questo sia uno dei pochi casi in cui il film supera il libro, anche se quest'ultimo mi è comunque piaciuto.
Lo stile di Palahniuk secondo me è tra quelli che si riconoscono tra mille, e per quanto mi riguarda è un grosso punto a favore. A volte tende a ripetersi, ma è ovviamente una cosa voluta per dare risalto a determinati concetti o atteggiamenti. Si legge in maniera scorrevole nonostante le cose scritte spesso non siano facili da digerire.
Da come avrete capito, accostarsi a Palahniuk richiede quasi una preparazione psicologica; devo dire che nel mio caso l'approccio è stato positivo e leggerò dell'altro. Nel libro, inoltre, c'è un colpo di scena tra i più belli che ho mai incontrato (che però forse rende meglio nel film).
Ma di cosa parla Fight Club? Bella domanda. Partiamo dal parlare del protagonista: un uomo senza nome che soffre di forte stress e di insonnia, che frequenta gruppi di sostegno per malati terminali, pur non essendo un malato terminale. Lo fa perché è l'unica cosa che lo aiuta a dormire.
Ma la vera svolta arriva non tanto nell'incontro con la figura femminile del romanzo (Marla Singer), quanto con il controverso e anarchico Tyler Durden, uno dei personaggi meglio riusciti del panorama letterario e cinematografico, nel film interpretato da un Brad Pitt davvero all'apice. I due stringono un'amicizia e ben presto si trovano ad aprire il Fight Club, una sorta di circolo i cui partecipanti, per sfogare le ansie, le preoccupazioni e le insoddisfazioni della vita quotidiana si cimentano in combattimenti corpo a corpo senza esclusione di colpi. I membri del Fight Club aumentano di giorno in giorno, nonostante la prima regola e la seconda regola del Fight Club siano che non si deve MAI parlare del Fight Club. Ben presto tuttavia, non sarà difficile imbattersi in un cameriere, un tassista o un commesso che svolga il suo lavoro con un occhio pesto o la faccia lacerata dai tagli.
Ben presto, il Fight Club si evolverà in qualcosa di più spaventoso, un movimento anarchico nettamente contrapposto alla società consumistica moderna, che vuole annientarla per ricominciare da zero e che ha come unico capostipite il nostro caro Tyler Durden.
Cupo, scorretto, senza filtri, ma con un messaggio forte che, tuttavia, può essere o meno condivisibile.
"Poi sei intrappolato nel tuo bel nido e le cose che una volta possedevi, adesso possiedono te."
"È solo dopo che hai perso tutto, che sei libero di fare qualunque cosa."
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Cronaca di una morte risaputa ma non... annunciata
Avevo cominciato la lettura di questo libro piuttosto carico di aspettative. Non me ne voglia chi ha amato il libro, ma devo dire che non mi ha colpito quanto credevo, e ho apprezzato molto di più l'unica altra lettura che ho fatto dell'autore, ovvero "L'amore ai tempi del colera".
Il romanzo è molto breve ed è proprio quello che promette, la cronaca quasi giornalistica della morte di Santiago Nasar, a quanto pare basata su un fatto reale ma con l'aggiunta di un'ampia componente narrativa.
La trama è molto semplice, un bel giorno si consuma il matrimonio tra Angela Vicario e un forestiero molto ricco, Bayardo San Romàn, appena arrivato in questa cittadina colombiana. Peccato che nella prima notte di nozze, quest'ultimo scopra che la sua novella sposa non sia vergine. Ferito nell'orgoglio, Bayardo la riporta nella casa della madre, dove la giovane Angela confesserà che l'autore di questo disonore è il povero, inconsapevole, Santiago Nasar. Cosa possono fare i due fratelli gemelli della disonorata, Pedro e Pablo, se non rivendicare l'onore tramite l'assassinio del fornicatore? Omicidio che sbandiereranno ai quattro venti, che grideranno ad ogni orecchio che sia in grado di sentire (probabilmente sperando che qualcuno li fermi), ma che nessuno ha la forza d'animo di impedire.
Il primo sentimento che si è generato in me è quello dell'incredulità; chè se un delitto di tal sorta dovesse essersi compiuto davvero in questi termini, va oltre la più fervida immaginazione. Il lettore non può credere che stia succedendo davvero, che Santiago Nasar stia andando incontro alla propria morte e che tutto il paese lo sappia ma non alzi un dito né tantomeno lo avvisi dell'imminente pericolo.
Come precisa la quarta di copertina, la storia dell'omicidio del protagonista di questa storia è un'allegoria dell'assurdità della vita, e infatti tutto quello che accade è ai limiti dell'assurdo, la narrazione è avvolta in una sottile ironia che è in continuo contrasto con la tragicità degli eventi. Non si può fare a meno di provare compassione per il povero Santiago, stroncato nel fiore della giovinezza a causa di una giovane priva di coscienza e pudore. Nonostante il suo funesto destino, l'autore sembra quasi prendersi gioco del povero Santiago, anche quando è ridotto ormai a un cadavere. L'assurdità della vita... sarà...
Il messaggio che l'autore vuole trasmettere è chiaro, è chiara la sua allegoria; ma se devo essere sincero non mi ha colpito quanto credevo. Sicuramente apprezzabile da un lettore più sensibile a questo genere di narrazioni e temi.
"Era così perplesso sull'enigma che gli era toccato in sorte, che molte volte incorse in divagazioni liriche contrarie al rigore del suo mestiere. Soprattutto, non gli parve mai giustificato che la vita si servisse di tante casualità proibite alla letteratura, perché si compisse senza ostacoli una morte tanto annunciata."
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Cold (Love) Case
Questo autore mi era stato consigliato più di una volta, ma non mi ero ancora deciso a recuperare qualcuna delle sue opere per fare un tentativo. L'ho fatto con la sua ultima pubblicazione con la Nave di Teseo, "La ragazza e la notte".
Devo ammettere che lo stile dell'autore è davvero godibile: scorrevole come dovrebbe essere nei romanzi di genere (anche se a volte si perde in qualche elucubrazione troppo lunga), che oltre a raccontare i fatti in maniera accattivante riesce a trovare spazio anche per le riflessioni.
La storia che ci viene raccontata non è sicuramente banale, ma neanche originale abbastanza da imprimersi indelebilmente nella memoria; i colpi di scena ci sono, ma non sono di quelli che lasciano a bocca aperta. Una lettura piacevole, dunque, ma che non riesce ad avere quella marcia in più che serve per la promozione a pieni voti. L'ultimo romanzo che mi ha lasciato questa sensazione è "Corruzione" di Don Winslow, e nonostante la godibilità di questa storia posso dire che siamo lontani da quelle vette. C'è da dire però, che la storia è piuttosto diversa e i protagonisti non sono le solite forze dell'ordine, ma le persone direttamente coinvolte nel "cold case" che viene riportato alla luce improvvisamente, quando si credeva fosse sepolto per sempre.
La trama de "La ragazza e la notte" si concentra sul destino di Vinca Rockwell, ragazza più affascinante del college Saint-Exupéry e che a suo tempo fece perdere la testa al nostro protagonista: Thomas. Una sera del 1992, tuttavia, una serie di eventi funesti sconvolge la vita di Vinca e di tutti coloro che le sono vicini, compreso Thomas. Questi eventi culminano con la scomparsa di Vinca e di Alexis Clement, professore di filosofia e suo amante segreto. Nella versione ufficiale, la loro scomparsa è stata una semplice fuga amorosa. Sarà davvero così?
Ai ricordi dei protagonisti e ai flashback che ci riporteranno a quei giorni fatali, si alterneranno gli eventi che si susseguono nel giorno presente in cui il caso Vinca Rockwell verrà rivangato; capiremo presto che la sua scomparsa non era dovuta a una semplice fuga.
Thomas è diventato uno scrittore affermato e ritorna in Costa Azzurra per una "reunion" degli ex allievi in concomitanza con la demolizione della vecchia palestra; un oscuro segreto è nascosto nel cemento di quella struttura, e Thomas ne è a conoscenza.
"A mia memoria, mi ero sempre sentito solo, vagamente estraneo al mondo, al suo chiasso, alla sua mediocrità, capaci d'infettarti come una malattia contagiosa. Per un breve periodo mi convinsi che i libri avrebbero potuto guarirmi da quel senso di abbandono e di apatia, ma non bisogna chiedere troppo ai libri. Ti raccontano delle storie, ti fanno vivere frammenti di esistenze altrui, ma non ti prenderanno mai tra le braccia per consolarti quando hai paura."
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Una storia solida, intrigante e imprevedibile
Shutter Island è la prova schiacciante del fatto che guardare un film prima di aver letto il libro da cui è stato tratto, è pura follia. Ahimè, mi sono reso colpevole di questo misfatto, ma a mia discolpa posso dirvi che quando ho visto il film con Leonardo Di Caprio non sapevo dell'esistenza del libro.
Mettendo da parte il supporto cinematografico, posso dirvi che Dennis Lehane ha dato vita a una storia intrigante, che procede in maniera incalzante ma, soprattutto, è carica di colpi di scena. Se qualcuno non dovesse aver visto il film, prima, credo rimarrebbe assolutamente spiazzato dalla piega che prendono gli eventi e dagli improvvisi e inaspettati capovolgimenti di fronte, che non sembrano assolutamente forzati. Lehane ha creato una storia che regge alla perfezione e che dà al lettore la soddisfazione di aver letto qualcosa di davvero ben struttrato.
Lo stile dell'autore, oltretutto, non è sempliciotto come ci si può aspettare, ma abbastanza curato e che non si esime dallo scatenare qualche riflessione.
Prima di leggere questo libro, comunque, preparatevi a una storia difficilissima da digerire, ma davvero molto bella e intrigante.
Teddy Daniels è un federale, inviato insieme al suo partner Chuck a Shutter Island, su cui è costruito un complesso psichiatrico dove vengono curati criminali infermi mentalmente e, molto spesso, pericolosi.
La missione di Teddy e Chuck è quella di scoprire che fine ha fatto Rachel Solando, una delle pazienti dell'ospedale, colpevole dell'assassinio dei suoi tre figli, che sembra essere scomparsa nel nulla in modo inspiegabile.
Le indagini di Teddy e Chuck procedono in un clima di tensione che si può percepire distintamente, nonostante i medici e nello specifico il dottor Cawley si sforzino per mostrarsi quanto più disponibili è possibile. Rachel Solando non è l'unico problema, in quel posto; qualcosa di oscuro si nasconde dietro il silenzio degli inservienti e dei dottori, qualcosa che il lettore non potrebbe mai immaginare, a meno che non abbia visto prima il film!
Dunque, se non avete già apprezzato questa storia sul supporto cinematografico, vi consiglio assolutamente di leggere prima il libro, e poi osservare come Di Caprio e Ruffalo hanno dato questa storia alle immagini.
"Agente, quanta violenza pensa che possa sopportare un uomo prima di spezzarsi?"
"Non lo so, dottore. Me lo sto chiedendo anch'io, più o meno."
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Siamo uomini o animali?
Wells è uno degli autori che, in quanto a originalità (che ovviamente va considerata nel contesto e nell’epoca in cui scriveva) ha pochi rivali. “L’isola del dottor Moreau”, tra le sue tre opere che ho letto, se la gioca con “La guerra dei mondi” per il posto d’onore.
Lo stile di Wells è buono ma non si può dire sia distintivo, non ha quell’unicità che ti fa immediatamente capire che stai leggendo un suo lavoro; mi è quasi parso che nei tre libri che ho letto avesse sempre uno stile differente. Tuttavia, le sue idee interessanti sono una costante e credo siano stata un’ispirazione per tantissime opere (letterarie e non) che le hanno seguite.
L’isola del dottor Moreau non fa eccezione.
Questa storia viene narrata dal punto di vista di Prendick, uomo sopravvissuto a un naufragio e soccorso da un tale, Montgomery, accompagnato da uno strano compagno dalle forme bestiali. Il capitano della barca (un ubriacone di prima categoria), si libererà presto dei suoi ospiti indesiderati, lasciando Montgomery e il suo carico di bestie sull’isola verso cui era diretto e Prendick a un nuovo naufragio. Montgomery avrà pietà di lui e convincerà il controverso dottor Moreau a ospitare Prendick sull’isola.
Il nostro protagonista si accorgerà presto che sull’isola c’è qualcosa che non va, che i suoi abitanti hanno fattezze eccessivamente animalesche. Delle grida gli toglieranno il sonno, anticipazione delle spaventose verità e dei pericoli che si ritroverà a fronteggiare.
Una storia da leggere, che fa riflettere sulla nostra umanità, su quello che siamo disposti a fare in nome della scienza e del progresso e delle effettive differenze (nemmeno troppo marcate) tra noi e gli animali puramente istintivi.
“Per quanto non sappia né il come né il perché, c’è un senso di protezione nello sfavillio delle stelle. Forse tutto ciò che non è animale in noi trova conforto e speranza nelle vaste ed eterne leggi della materia, e non negli affanni terreni. Lo credo fermamente, poiché altrimenti non potrei vivere.”
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I fiori della terra
Spiegare perché amo Ray Bradbury mi risulta difficile come spiegare perché amo il tramonto... non ci sono parole abbastanza adatte; lo amo e basta. Il suo stile, il suo modo di raccontare le storie mi ha sempre affascinato, fino a farsi spazio tra i miei autori preferiti. Il suo stile è poetico, a volte delirante, ma non so per quale motivo anche nel delirio la sua scrittura mi attira come un magnete, benché io non sia fatto di ferro puro ma di carne e sangue. Forse perché è a tal sorta di elementi che i racconti di Bradbury fanno presa, come accade con tutti i più grandi autori.
"I fiori di Marte" altro non è che una raccolta dei suoi tanti (per fortuna) racconti, che spaziano tra generi diversissimi tra loro: ci sono i racconti domestici, fantastici, dell'orrore... racconti di tanti tipi tranne quelli che vi aspetterete: ovvero quelli che hanno Marte e i marziani come protagonisti. Ebbene sì, a dispetto del suo titolo "I fiori di Marte" non contiene nemmeno un racconto di tal sorta, e a quanto pare (in base alla postilla finale dell'autore), la raccolta in origine doveva chiamarsi "Più veloce di un battito di ciglia". Il perchè di tale variazione nel nome mi è davvero ignoto, anche se in fondo penso a una manovra di mercato per attirare gli amanti di "Cronache Marziane" (tipo il sottoscritto, che lo avrebbe tuttavia comprato anche se si fosse chiamato "Escrementi"). A differenza di quest'ultimo i racconti sono messi in successione senza un ordine preciso, per nulla legati da un filo conduttore e nemmeno con una storiella di contorno che possa legarli, come accade ne "L'uomo illustrato".
Tuttavia, tra queste storie ci sono come al solito delle vere e proprie perle: l'esilarante "Garbati omicidi", l'emozionante "Veglie funebri", i nostalgici "Libri in prestito" e "Bug", solo per citarne alcuni. Ce ne saranno di certo alcuni che sono dimenticabili, ma altri vi rimarranno impressi a fuoco nella memoria.
Cosa aggiungere? I racconti di Bradbury vanno letti assolutamente; io consiglierei di leggerli tutti, ma se volete andare avanti a piccole dosi potete aggiungere questo libro alla vostra wishlist, ma solo se avete già letto "Cronache marziane" e "L'uomo illustrato"!
"Nello stomaco della lucertola elettrica, i solerti scenziati di un milione di anni dopo Cristo troveranno, insieme ai dinosauri di ferro, minute ossa d'avorio, gli scheletri ricchi di articolazioni di dirigenti di agenzie di pubblicità, di donne socie di club importanti e bambini. E gli scienziati diranno: ecco, questo era ciò di cui si nutrivano le città d'acciaio, non è vero?, e daranno un calcio a quelle ossa. È di questo che si riempivano lo stomaco, eh? Povere creature, non hanno mai avuto nessuna chance."
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Un sogno da incubo
Questo libro annuncia sé stesso fin dal suo titolo, mantenendo niente più e niente meno di quel che promette.
"Una cosa divertente che non farò mai più" è un reportage di David Foster Wallace, che nell'anno 1995 accetta di "impegnarsi" a fare una vacanza su una nave da crociera e scrivere un reportage della sua esperienza per una rivista. Lo stile di Wallace è davvero spassoso, e si adatta perfettamente al tipo di narrazione sempre in bilico tra il comico, il critico e l'ammirato. Ovviamente, si percepisce spesso che l'opinione dell'autore è strettamente personale, e va presa in quanto tale. Certe osservazioni vi strapperanno più di una risata, ma è chiaro che la concezione di questo tipo di vacanza da parte di Wallace può essere diversa dalla concezione che può avere una qualsiasi altra persona; dunque, se non siete mai stati su una nave da crociera, non spaventatevi per quel che dice l'autore.
Le persone che sono state almeno una volta nella vita a fare una vacanza su una di queste navi bellissime (come me), probabilmente apprezzerà di più il "racconto" dell'autore. Tornerà con la mente a quei fantastici giorni di relax, di escursioni e di attività ininterrotte. Spesso noterà le stesse stranezze notate dall'autore: l'incredibile precisione degli addetti alle pulizie, che sembrano prevedere ogni vostro movimento o spiarci, per come riescano a entrare nella nostra cabina proprio quando non ci siamo; l'incredibile potenza del water a risucchio; la gentilezza (a volte forzata, a volte no) del personale di bordo, che sembra non dormire mai; l'incredibile varietà di personaggi anche strampalati che si incontrano nel piccolo ecosistema che si viene a creare in quel breve periodo di vacanza.
Ci sarà molto da ridere, di questo potete star certi (ditemi se non vi sbellicherete quando Wallace deciderà di portare la sua valigia in camera a discapito di un povero facchino libanese), ma a volte vi ritroverete anche a soffermarvi e a fare qualche riflessione su quello che è il dilemma della natura umana, che a quanto pare riesce a farsi vivo anche nei posti più impensati.
Dunque anche su una nave da crociera.
"E questo individuo di alto rango viene da me alla cabina 1009 dopo cena, sabato sera, per scusarsi in nome e per conto dell'intera compagnia navale e della famiglia Chandris e assicurarmi che le teste di questi libanesi pezzenti già rotolano nei vari corridoi come punizione espiatoria per avermi lasciato portare la valigia da solo."
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Il finale perfetto
Dunque siamo giunti alla fine.
Non ho molto altro da aggiungere riguardo allo stile e al modo di narrare di Tolkien, che rimane uguale anche nell'ultimo capitolo di questa trilogia. Quella de "Il Signore degli Anelli" è sicuramente una delle storie più affascinanti della letteratura, che trova la sua perfetta conclusione con quest'ultimo capitolo: "Il ritorno del Re".
È sicuramente il libro più avvincente dei tre. Stavolta i capitoli narrano ritmicamente i punti di vista ora di un gruppo, ora di un altro gruppo di personaggi. Tuttavia, per assistere all'ultimo tratto del viaggio di Frodo e Sam fino al Monte Fato, il lettore dovrà attendere la seconda parte del libro.
Applausi a scena aperta per Tolkien, a cui tuttavia devo confessare di aver bellamente ignorato le appendici, destinate a lettori più temerari di me, in cui sono racchiuse tante informazioni riguardo al contesto della Terra di Mezzo e della sua storia. Personalmente, mi basta la storyline principale, che aspetterò di arricchire con quella de "Lo Hobbit".
"Il ritorno del Re" comincia, ovviamente, dove è finito "Le due torri", con Aragorn e compagnia che giungono a Gondor e si ritroveranno a respingere l'assalto delle truppe di orchi di Mordor, guidate dai Nazgul.
Le scene di battaglia sono descritte meravigliosamente, permettendo al lettore di immergersi e lasciandogli immaginare le scene in maniera spettacolare. Jackson aveva un gran bel soggetto su cui lavorare, bisogna dirlo.
Al racconto dell'assedio di Gondor e delle conseguenti decisioni che verranno prese da Gandalf e compagnia, si contrappone l'ultimo percorso di Frodo e Sam verso la distruzione dell'Anello, che dovrà essere gettato nel Monte Fato.
Quando tutto finirà, come in tutte le grandi storie (soprattutto quelle molto lunghe come questa), nel lettore si farà viva la consueta sensazione di vuoto, avvertita nel momento in cui gli ormai amati personaggi sono costretti a separarsi. La storia continua anche quando pare non ci sia più nulla da narrare, ma Tolkien se la prende comoda per decidere il destino finale degli Hobbit e del resto della compagnia, lasciandoci soddisfatti e consapevoli di aver esplorato un mondo fantastico, e di aver ascoltato una storia leggendaria.
"Ho tentato di salvare la Contea, ed è stata salvata, ma non per merito mio. Accade sovente così, Sam, quando le cose sono in pericolo: qualcuno deve rinunciare, perderle, affinché altri possano conservarle."
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Piuttosto noioso
Negli ultimi tempi mi imbatto spesso nel nome di Simon Beckett. È certamente un autore sulla cresta dell'onda, abbastanza da generare curiosità; per cui, quando si è trattato di scegliere l'opera da recensire, la mia curiosità mi ha lasciato pochi dubbi.
Dannazione.
Questo libro mi ha piuttosto deluso, per vari motivi. In primis avrebbe dovuto essere un thriller, ma lo diventa soltanto nell'ultimo terzo di storia: prima dobbiamo sciropparci l'eterna indecisione della protagonista (con la quale non ho empatizzato), che tergiversa sulle sue decisioni per pagine e pagine e finisce sempre per prendere quella sbagliata. Secondo aspetto, molte cose, a livello narrativo non reggono, e ci sono diversi avvenimenti inverosimili che lasciano alquanto straniti (protagonista cosparsa di benzina che, in una casa in fiamme, ne esce viva; ma non solo questo).
Purtroppo questa storia non riesce a intrigare, si sofferma all'infinito sulla decisione della protagonista sull'eventualità di procedere all'inseminazione artificiale; da chi prendere il seme, finendo poi per fare una scelta totalmente assurda; come conseguenza di questa scelta assurda, un altro tempo infinito per scegliere se tenere il bambino o meno. Tutti i personaggi si comportano in modo strano: la protagonista prende delle decisioni del tutto insensate; la sua migliore amica tutto sembra tranne che la sua migliore amica; il personaggio che dovrebbe essere il "killer" (piuttosto atipico)... beh, lasciamo stare.
L'unica cosa che mi è piaciuta abbastanza sono le riflessioni che scaturiscono nel lettore riguardo l'aborto.
Non c'è coinvolgimento, non c'è modo di appassionarsi nemmeno quando la storia si trasforma (quasi) in un thriller... insomma, mi ha piuttosto deluso. La piacevolezza ha due stelline, non perché non sia scorrevole, ma perché questo romanzo non riesce a coinvolgere né ad appassionare.
Kate è una donna in carriera, che lavora nel campo delle comunicazioni e della pubblicità. La storia ha inizio con la vincita di una commessa che può cambiarle la vita, una commessa vinta a discapito del suo ex fidanzato, impiegato in un'altra azienda. Un altro psicopatico, che ha un evoluzione piuttosto inverosimile. Scottata dall'esperienza precedente con questo ex, Kate non è il tipo di donna che vuole ripetere l'esperienza, ma non nasconde il suo desiderio di fare un figlio.
Ma come avere un figlio senza il rapporto matrimoniale necessario? Kate si imbatte nella risposta del tutto casualmente, su una rivista, e la risposta è... fecondazione assistita. Le strutture che offrono questo servizio si avvalgono di donatori anonimi, ma questo non pare soddisfare Kate. Allora qual è la scelta? Mettere un annuncio sui giornali, sperando che qualche sconosciuto risponda. Lo sconosciuto si presenta e sembra talmente carino da far pensare: "ma davvero c'è bisogno della fecondazione assistita?" Peccato che per giungere a questa conclusione la protagonista abbia bisogno di elucubrazioni infinite che portano il lettore quasi allo sfinimento... come è ovvio che sia, questo sconosciuto si rivelerà tutto meno quello che sembra.
Una domanda sorge spontanea: ma l'adozione? (Ovviamente non sarebbe esistito il libro in questo caso, è soltanto per ironizzare sull'infinito tergiversare di Kate)
Simon Beckett, rimandato!
"Alcuni momenti bruciano nella mente per sempre."
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Un crescendo di emozioni
Essendo "Le due torri" l'immediato seguito de "La compagnia dell'anello", nella maggior parte dei casi incluso insieme ad esso e al suo seguito in un unico tomo, è chiaro che lo stile e dell'autore non trovino rispetto al libro precedente alcun cambiamento. Nel mio caso ho impugnato un nuovo tomo, ma ho continuato a leggere, com'è giusto che sia, lo stesso libro. Dunque stesse difficoltà (nelle lunghe e dettagliate descrizioni), e stessi pregi.
Tuttavia, la storia de "Il Signore degli Anelli" entra incredibilmente nel vivo ne "Le due torri", e al termine della lettura rimane ancor più impellente il bisogno di sapere come andrà a concludersi questa meravigliosa storia.
Come dicevo "Le due Torri" riparte precisamente dalla fine de "La compagnia dell'Anello". Il libro è diviso in due parti: la prima segue le avventure di Aragorn e i restanti membri della compagnia (compresi Merry e Pipino, seppur inizialmente divisi dagli altri); la seconda segue i passi di Frodo e Sam, incamminatisi verso il Monte Fato per compiere l'opera di distruzione dell'Anello, affiancati da un'insolita guida: l'infido Gollum.
Aragorn, Legolas e Gimli, pur rendendosi conto dell'importanza della missione e convinti che la cosa migliore sarebbe inseguire Frodo e Sam, decidono tuttavia di inseguire i rapitori di Merry e Pipino: partiranno dunque sulle tracce di un'orda di violenti orchi, nel tentativo di salvare i due Hobbit. Lungo il tragitto faranno un piacevole incontro, che li porterà ad incamminarsi verso Rohan, a intraprendere una sanguinosa (e bellissima) battaglia, fino ad arrivare ad Isengard al cospetto della torre in cui si rifugia il traditore Saruman.
Nel frattempo, Frodo e Sam si ritroveranno ad affrontare ogni sorta di pericoli, tutti acuiti dalla presenza di Gollum, chiaramente diviso tra due personalità: quella servile e che preserva ancora un pizzico di bontà, ovvero Smèagol, e quella perfida di Gollum. Mentre Frodo si affezionerà al piccolo e ripugnante disgraziato (e Smèagol a lui), Sam lo guarderà sempre con diffidenza. Tuttavia, la strada per Mordor e per il Monte Fato richiede anche di questi compromessi.
Nell'attesa che "Il ritorno del Re" chiuda il cerchio di questa bellissima storia.
"La guerra è indispensabile per difendere la nostra vita da un distruttore che divorerebbe ogni cosa; ma io non amo la lucente spada per la sua lama tagliente, nè la freccia per la sua rapidità, nè il guerriero per la gloria acquisita. Amo solo ciò che difendo: la città degli Uomini di Nùmenor, e desidero che la si ami per tutto ciò che custodisce di ricordi, antichità, bellezza ed eredità di saggezza."
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Un Anello
Non sono un grande estimatore dei fantasy, anzi, devo dire che credo di non averne letto nessuno prima d'ora, ma è chiaro che "Il signore degli anelli" è da considerare come un opera che trascende i generi e si può tranquillamente annoverare tra i grandi classici. Nonostante questo, il mio approccio a questa storia non è stato tra i più felici (con le trasposizioni cinematografiche); ma bisogna dire che era parecchio tempo fa e in circostanze alquanto particolari, dunque eccomi qui per dare a questa saga una seconda occasione.
Fin dalle prime pagine è chiaro che Tolkien è uno scrittore di un altro mondo, che a un intero mondo ha dato vita; tuttavia, in questa prima parte della sua trilogia dell'Anello, bisogna dire che nonostante la scrittura eccelsa è spesso troppo prodigo di particolari, soprattutto nella prima metà del libro. Devo ammettere che in certi tratti mi sono sentito davvero frustrato dalla dedizione messa nelle descrizioni degli ambienti; all'inizio si ha l'impressione che tutto il libro consista in un interminabile viaggio e che poche siano le cose che realmente accadono. Tuttavia, nella seconda parte del libro, pur non perdendo del tutto le descrizioni e le zone "piatte", la storia entra nel vivo lasciando un'incredibile voglia di proseguire.
Dunque non lasciatevi scoraggiare dall'inizio, ma proseguite fiduciosi.
Questa celeberrima storia ha inizio nella Contea, una zona tranquilla della Terra di Mezzo, precisamente in casa dell'hobbit Bilbo Baggins. Nel corso delle sue disavventure (raccontate nel libro "Lo Hobbit", che è una sorta di prequel) Bilbo trova l'Anello del potere, letteralmente scippato a un essere immondo di nome Gollum, che lo ha custodito per molto tempo. L'Anello è stato forgiato dal signore oscuro, Sauron, sovrano della terra di Mordor, che lo brama per ristabilire il suo potere sulla Terra di Mezzo ed espandere la sua ombra sul mondo. Sauron credeva che l'anello fosse ormai perduto, ma quando scopre che non è così strane forze malvage si risvegliano nelle terre un tempo tranquille.
Bilbo lascerà in eredità l'anello a suo nipote Frodo, il giorno del suo compleanno, prima di sparire per sempre da casa Baggins. Questo sarà solo l'inizio del lungo viaggio che Frodo dovrà intraprendere, sotto consiglio del suo amico e grande stregone Gandalf, abbastanza sveglio da intuire che quello ritrovato da Bilbo e l'Unico Anello, l'Anello del Potere che può determinare il destino del mondo. Un Anello che può corrompere anche l'anima più pia e che dovrà esser distrutto affinché non finisca nelle mani sbagliate. Perciò, Frodo partirà verso il Monte Fato, dove l'Anello è stato forgiato e il cui fuoco è l'unico in grado di distruggerlo.
Lungo il cammino incontrerà compagni d'ogni genere e razza, che lo accompagneranno verso il suo destino, formando la cosiddetta Compagnia dell'Anello.
Lento in certi tratti, ma affascinante e intrigante come poche altre storie.
"Un Anello per domarli, un Anello per trovarli, un Anello per ghermirli e nel buio incatenarli, nella terra di Mordor, dove l'Ombra cupa scende."
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Lucrare sui grandi nomi scomparsi
La morte di un autore può avere molteplici effetti. Mettendo da parte gli sfortunati il cui valore viene riconosciuto soltanto postumo (come non pensare a Kafka), questi effetti sono piuttosto controversi. Nel caso in cui a passare a miglior vita sia un autore famoso, le sue opere ritornano improvvisamente in auge, affollando scaffali e vetrine di tutte le librerie e balzando improvvisamente in testa nelle wishlist dei lettori. Andando un po' più avanti nel tempo, se gli autori sono abbastanza "commerciali", gli editori cominciano a spulciare nei loro computer (chissà che non facciano scrivere qualcosa a un ghost writer?) alla ricerca di qualche opera inedita o incompiuta, così da poter continuare a lucrare sul nome del defunto. Peccato che, a parte rari casi, quelle opere siano rimaste inedite per un motivo ben preciso, che lascio alla vostra perspicacia.
Questo è successo e continua a succedere con Michael Crichton, e a quanto pare sta accadendo anche con Giorgio Faletti. Ora, io non ho letto molto dell'autore e non posso dire se rientri o meno nelle mie corde, ma posso dire che la pubblicazione de "L'ospite" ha davvero poco senso, se non quello di dare un contentino (?) ai fan dell'autore.
Non oso immaginare cosa accadrà con Stephen King... lunga vita al Re.
All'interno di questo libricino ci sono soltanto due brevi racconti, completamente scollegati tra loro; inoltre, mentre il primo racconto può avere attinenza con il titolo dell'opera (ma nemmeno tanto), il secondo non ha alcun collegamento e sembra essere stato messo lì giusto per arrivare alle cento pagine.
Si tratta di due racconti incredibilmente diversi tra loro: il primo racconta della scomparsa di un uomo dello spettacolo e della sua ricerca da parte di un giornalista e sua nipote; il secondo un breve racconto poliziesco, tra l'altro abbastanza carino. Ma continuo a non capire cosa ci faccia all'interno di questo libro; certo, è concepibile la pubblicazione di una raccolta di racconti e che questi siano diversi tra loro... ma due?
Tirando le somme, direi che all'opera dell'autore questo piccolo libro non aggiunga alcun valore, così come i nuovi libri di Crichton. I veri capolavori li hanno scritti in vita e queste nuove pubblicazioni sono poco più che un contentino per chi amava gli autori e sente la loro mancanza, oltre che un metodo che gli editori hanno per far soldi...
Leggetelo solo se siete fan di Faletti e cercate qualcosa di leggero per quando sarete sotto l'ombrellone, anche se forse potreste trovare qualcosa di meglio. Non me ne voglia il buon Giorgio, pace a lui.
"Ci sono cose che arrivano e passano, perché siamo uomini e riusciamo a dimenticare. Ce ne sono altre che non passano mai. Per lo stesso motivo. Perché siamo uomini e non le vogliamo dimenticare."
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- sì
- no
La Spoon River di sotto
Credo che "L'antologia di Spoon River" sia qualcosa di unico nel suo genere: l'idea di dipingere la vita di una cittadina americana tramite le riflessioni dei suoi morti, credo che sia una cosa nella quale non mi sono mai imbattuto prima.
Un'idea geniale, ed è interessantissimo trovare i legami che univano molti di quegli uomini. In queste liriche quasi narrative (anche se alcune di esse richiedono una discreta concentrazione per essere comprese), troverete i rimorsi, i rimpianti e le gioie degli abitanti di Spoon River. C'è chi, nel silenzio e nel freddo della morte, nella propria dimora sotterranea, ha trovato l'onestà d'animo per ammettere i propri errori. C'è chi, proseguendo nelle stesse disprezzabili abitudini dei vivi, scarica la colpa delle proprie sofferenze sul groppone di altri morti (raramente anche dei vivi), salvo poi scoprire che il morto accusato ha la sua versione dei fatti, da raccontare (o addirittura non da la minima importanza a quello che tormenta il suo accusatore). C'è chi nei confronti di Spoon River ha un legame profondo, a volte morboso, e chi le assegna la colpa della propria mediocrità, di quel volo non spiccato ma che "indubbiamente" meritavano.
Una delle cose che ho apprezzato di più è la scoperta dei vari punti di vista di diversi personaggi legati strettamente tra loro. Giusto per fare un esempio, potremmo imbatterci in un marito che riporta alla luce il suo rapporto con la moglie e lo presenta in certi termini; voltando pagina, potremo scoprire il punto di vista della moglie e renderci conto che aveva una visione totalmente diversa dalla sua metà. In certi casi potremmo conoscere il punto di vista dei figli o di altre persone che, in qualche modo, hanno fatto parte della vita di quelle persone. I legami sono molti più di quelli che si pensi, considerando che Spoon River è una cittadina molto piccola, in cui quasi tutti si conoscono.
Nel sottosuolo di Spoon River c'è un immenso affresco d'umanità; umanità in tutte le sue sfaccettature, buone e cattive, anche se queste ultime sono decisamente più frequenti delle prime.
"Questo è il dolore della vita:
che si può essere felici solo in due;
e i nostri cuori rispondono a stelle
che non voglion saperne di noi."
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Certi uomini non sanno stare al mondo
Sicuramente un libro non facile "Il lupo della steppa" di Herman Hesse, soprattutto per le persone che, in fondo, si sentono piuttosto vicine al protagonista di questa storia.
Si sente chiaramente l'influenza esistenzialista, e lo stesso autore non manca di citare più volte il nome di Nietsche; inoltre si sente una forte analogia tra il protagonista Harry Haller e Antoine Roquentin, protagonista del romanzo "La nausea" di un altro esistenzialista: Sartre. Entrambi i personaggi sono profondamente tormentati da un mondo al quale si sentono di non appartenere, un mondo troppo lontano dal proprio modo di essere e di concepire le cose.
Herman Hesse è bravo a sviscerare la psicologia di questo protagonista molto controverso, sempre in bilico tra la vita e il desiderio della morte. Il racconto in prima persona (a parte un'introduzione al protagonista fatta dal suo padrone di casa) non fa altro che farci entrare più a fondo nel personaggio.
Sono tanti i temi trattati da Hesse in questo romanzo, come la molteplicità dell'io e l'incapacità di certi uomini di stare al mondo; ma una cosa che lascia sconcertati è come Hesse abbia praticamente profetizzato lo scoppio di una Seconda guerra mondiale e la degenerazione delle intolleranze razziali. Leggendo le parole di Hesse (tramite i pensieri di Haller), il lettore ha quasi l'impressione che il libro sia stato scritto in seguito alla Seconda Guerra Mondiale, salvo scoprire che è stato scritto nel 1927. Pauroso.
Harry Haller è un uomo piuttosto controverso, diviso tra la sua personalità da uomo e quella di lupo della steppa: solitario, selvaggio. Mentre si trascina nelle sue giornate sempre uguali, tra una lettura e un'altra, la sua percezione di sentirsi estraneo al mondo lo lascia sprofondare in un'infelicità sempre più profonda, fino a fargli meditare il suicidio.
Harry Haller non comprende il mondo in cui vive: amante di Mozart, non concepisce l'orripilante musica jazz nascente, e questo è solo uno dei tanti aspetti che lo tiene lontano dalla compagnia degli altri uomini, che popolano un mondo che si concentra soltanto sulle frivolezze. Il lupo della steppa non ha fiducia nell'umanità: scottato dalle conseguenze della Prima Guerra Mondiale, intuisce che il mondo non ha imparato dai suoi errori e si prepara ad affrontarne una seconda, anzi, quasi la brama.
Viene portato al culmine della disperazione nel ritrovamento (molto surreale), di un opuscolo intitolato "Dissertazione sul Lupo della steppa", in cui si parla apertamente di lui, della sua incapacità di stare al mondo e di tutte le problematiche insite nella sua personalità; nella sua estraneità al mondo intorno a lui.
Arriva quasi alla decisione finale, quella di ricorrere al rasoio, ma proprio nel momento peggiore incontra Hermine (alter ego femminile dell'autore Hermann?). Hermine è un personaggio fortissimo, che riporta il Lupo in carreggiata e vorrà insegnargli a prendere questa vita nel modo corretto. Ma Hermine è come Harry, in fondo, e questa somiglianza si paleserà sempre di più col proseguire delle pagine.
L'atmosfera di questo romanzo è molto particolare, che oscilla continuamente tra realtà e allucinazione, raggiungendo il suo culmine nel controverso finale, molto soggetto a interpretazione personale da parte del lettore. Un libro che può essere facilmente odiato, ma che credo sia molto bello e interessante.
"Dunque: 'La maggior parte degli uomini non vuole nuotare prima di saper nuotare'. Spiritosa, vero? Certo che non vogliono nuotare. Sono nati per la terra, non per l'acqua. E naturalmente non vogliono pensare: infatti sono nati per la vita, non per il pensiero. Già, e chi pensa, chi concentra la vita nel pensiero può andare molto avanti, è vero, ma ha scambiato la terra con l'acqua e a un certo momento affogherà."
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Uno sguardo sulla Germania pre e post Nazismo
Nell'immenso parco di opere riguardanti l'olocausto e la Seconda guerra mondiale, "L'amico ritrovato" è sicuramente uno di quei capolavori che brillano di luce propria, innalzandosi più in alto degli altri. Per un'opinione più specifica riguardante questo romanzo, vi rimando alla recensione sulla sua scheda.
"La trilogia del ritorno", infatti, non comprende soltanto l'Amico ritrovato ma anche altri due romanzi.
Il primo è "Un'anima non vile", che racconta la stessa storia di amicizia del suo predecessore, ovvero quella tra Hans Schwarz e Konradin von Hohenfels, questa volta dal punto di vista di Konradin (nell'Amico ritrovato il punto di vista è quello di Hans, ebreo tedesco).
Il terzo romanzo è "Niente resurrezioni, per favore", che con la trama dei precedenti non ha alcun punto di contatto, se non la città in cui sono ambientati i fatti. In quest'ultima storia il protagonista è l'ebreo emigrato Simon Elsas, che ritorna nella sua Stoccarda in seguito alla guerra e vede gli effetti che il suo paese natale ha subito, sia nei luoghi che nelle persone.
Tutti i tre romanzi ruotano intorno agli effetti che la guerra, l'ascesa e la caduta del nazismo hanno avuto sulla Germania. È interessante vedere come delle folli ideologie che poco tempo prima non erano neppure contemplate, mettano radici nella popolazione in maniera del tutto inaspettata e repentina. Questo si nota soprattutto nei primi due romanzi, assistendo ai cambiamenti che l'amicizia profonda tra Hans e Konradin è costretta a subire, inquinata da un contesto che sta mutando in una direzione oscura. Nell'ultimo romanzo daremo uno sguardo alla desolazione che tutto questo ha generato, nel paese che lo ha generato.
Tre storie molto belle (la prima un vero e proprio "piccolo" capolavoro), che vanno lette assolutamente, e che in certi tratti sono spaventosamente attualizzabili. È interessante mettere a confronto i punti di vista nelle prime due storie; trovare le analogie, scoprire le differenze di percezione e le vicissitudini dei due protagonisti di questa splendida amicizia.
"È la fortuna che conta, e nient'altro - come dicevi sempre tu. Fortuna prima di nascere: lo sperma giusto che incontra l'ovulo giusto, i giusti genitori, il posto giusto. (Che possibilità ha un genio, se nasce in uno squallido villaggio indiano?) Il giusto dottore, il giusto avvocato, la luce giusta per attraversare la strada di notte, la gente giusta da conoscere, l'insegnante giusto - tutto è fortuna. L'uomo più brillante può venire ucciso da una tegola, mentre il suo vicino, un inetto, può sopravvivere. Solo la Fortuna governa le nostre vite." - Da "Un'anima non vile".
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Un fumetto letterario
Ci sono strane occasioni in cui ti trovi davanti un'opera d'arte quando non te l'aspetti. Chiariamo, MAUS è un capolavoro conclamato, insignito anche dello Special Award del Premio Pulitzer, eppure non si può comprendere appieno il suo valore se non lo si legge.
Art Spiegelman ha costruito una bellissima storia, grazie alla testimonianza di suo padre Vladek, sopravvissuto alla Shoah. Quante storie ci sono state raccontate, su questo argomento? Quante testimonianze ci sono pervenute? Infinite, ed è giusto che sia così: sia per farci tenere sempre in mente quali atrocità sono state commesse, per non ripeterle, sia perché è ovvio che un avvenimento e un periodo così denso di emozioni non può far altro che generare arte. MAUS è un modo diverso di raccontare una di queste storie, un metodo efficace e originale, che non può mancare nel bagaglio di letture di chiunque, specialmente chi ha letto numerosi libri sull'argomento. Anzi, devo dire per questi ultimi è quasi un "must".
Oltre ad esserci pochi fumetti simili (almeno io ne conosco pochi degni di nota), quel che rende MAUS davvero originale è la trasposizione dei personaggi in delle figure zoomorfe: gli ebrei diventano topi, i tedeschi dei gattacci cattivi, gli alleati dei cani dal volto benevolo, i polacchi dei maiali, eccetera. È stata davvero una scelta felice, a mio avviso.
Come tutte le storie che si concentrano sull'olocausto degli ebrei, sulle cose spaventose che i tedeschi hanno fatto a questa povera gente (e non solo), è terrificante, angosciante e spalanca porte sulla natura umana che ancora oggi sono difficili da concepire. Il fumetto più duro che abbia mai letto, ma sicuramente tra i più belli.
MAUS racconta la storia di Vladek Spiegelman, padre dell'autore, e della sua esperienza durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale. La narrazione si alterna in due parti: il racconto degli anni difficili della Shoah e il momento in cui il vecchio Vladek racconta questa storia a suo figlio Artie, per aiutarlo a portare alla luce al suo libro (MAUS, ovviamente). Oltre alla storia profonda, emozionante e triste di questi topini che tentano in tutti i modi di sopravvivere, si aggiunge dunque la storia di questo vecchio che tenta di sopravvivere a sé stesso e al suo passato, un passato che l'ha profondamente cambiato; un passato che ha cambiato tutti quelli che ci sono passati. Dunque, al Vladek intraprendente, generoso, pieno di risorse che lo hanno aiutato a sopravvivere, si contrappone il vecchio Vladek: un po' avaro, conservatore, attaccato a suo figlio anche se incredibilmente esigente. Anche un po' razzista, paradossalmente.
Tra il lettore e questi protagonisti si crea un profondo legame, e nonostante la loro forma animale, si avverte la loro umanità, nel bene e nel male. Non si può fare a meno di provare affetto verso di loro, e sentire un po' di tristezza nel lasciarli andare, nonostante quella che ci hanno raccontato non sia decisamente la più felice tra le storie.
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I silenziosi conflitti di un grande maggiordomo
A quanto pare, per uno scrittore esistono due metodi infallibili per salire alla ribalta internazionale: la morte, oppure il premio Nobel. Per la fortuna di Kazuo Ishiguro, il motivo che lo ha portato alla mia attenzione è quello più felice dei due, e devo dire che il premio svedese (spesso denigrato, non saprei dire se giustamente o meno) in questo caso mi ha dato la possibilità di leggere un romanzo davvero degno di nota. Tra gli altri ho scelto proprio questo perché tra i più conosciuti e, inoltre, perché attirato dal fatto che ne esistesse una trasposizione cinematografica con protagonista l'immenso Anthony Hopkins.
Appena avrò finito con questa recensione, correrò a vedere il film.
Non so fino a che punto possa spingermi a definire lo stile di Ishiguro: mi è sembrato adattato perfettamente al personaggio del signor Stevens, voce narrante e protagonista di questa storia, e non mi stupirebbe di trovarlo diverso negli altri romanzi proprio per questo motivo. Il modo di raccontare questa storia si adatta così perfettamente a quello che è il personaggio che pare quasi di sentirlo parlare, con quel suo modo di esprimersi così elegante e col suo punto di vista perfettamente espresso, che plasma la realtà secondo i suoi occhi. In questo, credo che Ishiguro sia stato davvero magistrale, anche se a tratti la lettura richiede un po' di impegno nell'evitare distrazioni.
È un qualcosa di splendido entrare nella psicologia di Stevens, osservare i conflitti che tenta incessantemente di sotterrare nella sua figura di maggiordomo irreprensibile; ogni cosa che vi si discosta lui la respinge categoricamente, e questo aspetto è perfettamente reso, anche se viene lasciata al lettore la possibilità di indovinare i veri sentimenti che si celano dietro quella maschera. L'autore riesce a creare il famoso legame tra protagonista e lettore, e in quest'ultimo la condotta del Signor Stevens, spesso in contrasto coi suoi veri sentimenti, genererà emozioni contrastanti.
Il Signor Stevens è un maggiordomo inglese, di quelli irreprensibili e totalmente dediti al lavoro; di quelli che ormai non se ne vedono più e appartengono a una società ormai passata.
Stevens ha passato gran parte della sua vita al servizio di Lord Darlington, dedicandosi anima e corpo nel tentativo di compiacere il suo padrone, figura di spicco nella politica europea, nel contesto che porterà all'esplosione della seconda guerra mondiale.
All'inizio della storia, tuttavia, nonostante sia ancora in servizio nella dimora di Darlington Hall, il suo vecchio padrone è deceduto da ormai tre anni e si trova alle dipendenze di un americano, il signor Farraday, che ha acquisato la dimora: un affarista che a quei tempi veniva definito come appartenente alla categoria dei "nuovi ricchi". Dovendo partire per un viaggio di un paio di settimane, Farraday invita Stevens a fare una breve vacanza e gli offre di utlizzare la sua Ford, per intraprendere il viaggio. Stevens accetta la proposta e deciderà di approfittare dell'occasione per andare a trovare la vecchia governante che serviva Lord Darlington insieme a lui e con la quale, in quegli anni, aveva instaurato un rapporto abbastanza controverso. La donna è ormai sposata, ma a quanto pare il suo matrimonio non naviga in buone acque e in una lettera pare esprimere nostalgia per Darlington Hall, nostalgia che Stevens interpreta come una voglia di tornare in servizio lì. Lui avrebbe bisogno di una mano, e quella di Miss Kenton sarebbe più che preziosa.
Dunque, Stevens parte per questo viaggio che ha anche un motivo professionale; o almeno di questo vuole convincersi. Questo viaggio si presenta come un pretesto per riflettere sul passato, sui giorni degni di nota che ha vissuto, sulle persone importanti alle quali la sua professione gli ha permesso di entrare in contatto, seppur indirettamente.
Quest'uomo irreprensibile continuerà a nascondersi dietro la sua professionalità, dietro la sua ferrea volontà di essere un "grande maggiordomo", carico di dignità. Lungo questo viaggio, tuttavia, ci sono molte altre cose su cui si troverà a riflettere, e non tutte saranno piacevoli.
Un romanzo che da parecchi spunti di riflessione, difficili da condensare in una breve recensione. Leggetelo.
"E forse allora vi è del buono nel consiglio secondo il quale io dovrei smettere di ripensare tanto al passato, dovrei assumere un punto di vista più positivo e cercare di trarre il meglio da quel che rimane della mia giornata. Dopotutto cosa mai c'è da guadagnare nel guardarsi continuamente alle spalle e a prendercela con noi stessi se le nostre vite non sono state proprio quelle che avremmo desiderato?"
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L'uomo è un essere ingrato
Resto sempre privo di difese davanti al genio di Shakespeare.
Il suo stile è meraviglioso e carico di significato; un significato che si può cogliere abbastanza facilmente, riservando alla lettura quel minimo di attenzione in più che è necessaria quando ci si trova di fronte a geni come il Bardo.
Devo dire che, mentre opere come "Amleto" e "Macbeth" o anche lo stesso "Otello" focalizzano l'attenzione su uno massimo due personaggi, "Re Lear" ha un assortimento di personaggi forti davvero ampio: il nostro vecchio e folle protagonista; le sue tre figlie; il Conte di Kent e Gloucester coi suoi due figli Edgar ed Edmund; il Matto (quest'ultimo davvero super interessante). Ognuno di questi personaggi sembra poter dire la sua e credo che il "Re Lear" possa considerarsi davvero un dramma corale, in cui tutti hanno la propria importanza e possono essere considerati quasi dei protagonisti.
Anche se tutte le opere di Shakespeare - almeno quelle che ho letto finora - inglobano in sé stesse una moltitudine di temi, mi è sempre piaciuto individuarne uno centrale su cui ruota l'intera storia. Per il "Re Lear" posso dire certamente che è l'ingratitudine filiale. Impossibile non restare toccati o arrabbiarsi di fronte all'atteggiamento di Goneril e Regan nei confronti del padre Lear: pronte a snocciolare frasi adulatorie prima che quest'ultimo gli faccia dono del suo regno; pronte a lasciarlo fuori dalla porta in una notte tempestosa una volta ottenuto ciò che volevano. L'unica figlia che lo amava, incapace di lodarlo "a comando", viene diseredata per questo motivo. Questo genera un'antipatia immediata nei confronti del vecchio Re, antipatia che scemerà immediatamente, perché immediatamente ci renderemo conto che Lear è in preda a una spaventosa follia.
Intorno a questo "filone narrativo centrale", si snoda quello che ha come protagonista Edmund, figlio bastardo del Conte di Gloucester, che per impadronirsi dei possedimenti del padre imbastrà un sotterfugio - in modi che lo renderanno un po' il successore dello Iago di "Otello" - che non vorrà risparmiare né suo padre né suo fratello Edgar, figlio legittimo del Conte che sarà costretto a travestirsi e a fingere d'esser pazzo (vi ricorda qualcosa? Si veda Amleto).
All'ingratitudine filiale - che a pensarci bene è un tema quanto mai attuale - si contrappone il vero amore della figlia diseredata e la pura devozione del Conte di Kent, che seguirà il suo padrone nella sua follia e sotto mentite spoglie, dato quest'ultimo gli ha ordinato l'esilio per aver preso le parti di Cordelia durante il loro diverbio.
La follia non manca quasi mai, nelle opere di Shakespeare, ed è incredibilmente interessante come lui riesca a darle diverse sfumature in base alle cause e alla persona specifica che colpisce. Basti pensare alla follia di Ofelia per la perdita del padre Polonio, a quella di Otello scatenata dalla gelosia, a quella (anche se non si può definire precisamente follia) di Romeo e GIulietta trascinati dal loro amore immaturo. Quella di Lear si va ad aggiungere alle altre e anch'essa si distingue. Il Re, già folle prima delle malefatte delle sue figlie Regan e Goneril, si veste di una pazzia regale, accentuata dal potere ormai perduto. Lui ha ormai perso il potere di governare le sue figlie, il suo regno, allora impartisce ordini al cielo, ai fulmini, alla pioggia; entità che ovviamente sono fuori dalla sua portata.
Il declino di questo Re - e del suo regno - è un qualcosa che non può far altro che affascinare. "Re Lear" va letto, come tutte le opere del Bardo.
"When we are born, we cry that we are come to this great stage of fools.
Nascendo piangiamo perché siamo venuti su questo grande palcoscenico di pazzi."
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All'apice del progresso
Herbert George Wells aveva una fantasia meravigliosa e tante idee interessanti.
Quante sono le storie, lette nei libri e ammirate al cinema o in televisione, che trattano in qualche modo il viaggio nel tempo? Parlando per me, ne conosco davvero tantissime, più belle o meno belle. Ai giorni nostri, chiunque si cimenti nella costruzione di una storia del genere può facilmente scadere nei cliché o negli stereotipi.
Dunque, leggete "La macchina del tempo" di Wells sapendo che è stato scritto nel 1895 e che è stato proprio Wells, con questo romanzo, a introdurre nella fantascienza il viaggio nel tempo per mezzo di un supporto meccanico. Sarebbe facile dire che è una cosa abbastanza banale, ma non è ovviamente così in questo caso: una cosa può diventare banale una volta che è stata usata, riusata, abusata; ma è chiaro che il primo che ha partorito quella che diventa "banalità" doveva essere un vero e proprio genio.
Wells lo era.
Lo stile dell'autore non sarà perfetto, ma in certi tratti è spaventosamente suggestivo, emozionante. La descrizione del primo viaggio nel tempo fatto dal protagonista è un qualcosa che prende vita sotto gli occhi del lettore, descritto in modo che le cose si imprimano nella sua mente. La descrizione del destino della Terra e dell'umanità in un futuro lontanissimo ha qualcosa di assolutamente affascinante e Wells lo rende alla perfezione.
Questi picchi di bellezza sono le cose che, a mio parere, rendono questo libro una lettura da fare. La trama del libro non spicca certamente per bellezza o colpi di scena, ma contiene delle riflessioni molto interessanti.
Il nostro protagonista è chiamato semplicemente il Viaggiatore del tempo, ed è uno scienziato che ha messo a punto una macchina che permette di muoversi nella quarta dimensione temporale, come se fosse una delle dimensioni spaziali. Ovviamente, le sue teorie e i suoi racconti verranno accolti nell'assoluto scetticismo generale.
Una sera invita a cena alcune persone importanti - tra cui il direttore di un giornale, uno psicologo e un medico - ma si presentera a tavola in condizioni pietose: sporco, cencioso, affamato. È ridotto in quelle condizioni perché rientra proprio in quel momento da un viaggio di oltre 800.000 anni, in un'epoca in cui gli esseri umani sono arrivati all'apice del progresso. Nonostante queste premesse, le cose non sono come ci si aspetterebbe: l'intelligenza nasce dalla necessità di salvare sé stessi dai pericoli, pericoli che il progresso ha completamente eliminato. Dunque, l'intelletto diventa inutile e diventa una cosa estranea agli esseri umani, che si sono divisi in due razze principali: gli Eloi, aggrazziate creature della superficie innocue e stupide, ma felici; i Morlock, popolazione sotterranea terrorizzata dalla luce del sole e più violenta.
Il Viaggiatore del tempo racconterà la sua avventura in questo mondo così evoluto, o sarebbe meglio dire involuto? Al lettore l'ardua sentenza.
"Esiste una legge di natura che tutti trascuriamo: l'acume intellettuale serve a compensare l'instabilità della fortuna, i pericoli, i guai. Un animale in armonia totale col suo ambiente è sempre un perfetto meccanismo; né la natura fa appello all'intelligenza, fino a quando l'abitudine e l'istinto non diventano insufficienti. Non esiste intelligenza là dove non esiste mutamento né necessita di mutamento; posseggono un'intelligenza soltanto quegli animali che devono soddisfare molte necessità e affrontare molti pericoli."
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Struggente, ma estremo
Non è un libro di facile lettura, questo. A volte potrà generarvi la stessa sensazione descritta nel titolo. Non per la sua bruttezza, certo, ma in quanto espone idee che al solo pensare che possano essere veritiere, viene la pelle d'oca.
Il pensiero filosofico di Sartre viene fuori prepotentemente da queste pagine, soprattutto quello che poco tempo dopo l'uscita de "La nausea" darà vita alla nuova corrente di pensiero dell'esistenzialismo, di cui lo stesso Sartre sarà uno dei grandi esponenti.
Quello del protagonista Antonio Roquentin è un vero e proprio profilo psicologico; dettagliato e reso ancor più profondo dalla narrazione in prima persona fatta dallo stesso Roquentin. I suoi pensieri sono un fiume in piena: pensieri tetri, pessimisti, totalmente concentrati sull'inutilità dell'essere vivi. Roquentin trascina se stesso in una vita sempre uguale e questo lo disgusta, e non riesce a capacitarsi di come gli altri esseri umani possano farselo andare bene.
Antonio Roquentin vive in uno squallido albergo a Bouville, vicino alla ferrovia. Conduce la sua esistenza in giorni sempre uguali, ripetendosi nelle medesime occupazioni. Sta scrivendo un libro storico su un avventuriero del XVIII secolo, tale signor de Rollebon, e questa sembra essere l'unica cosa che lo spinga a proseguire nel suo tribolato percorso che è la vita.
I suoi giorni si succedono sempre uguali a se stessi, sempre occupato nelle stesse cose negli stessi luoghi: in albergo scrive le sue righe; in biblioteca studia; in un bistrot passa il suo tempo libero a mangiare, lontano da tutti, ascoltando sempre la stessa canzone. Roquentin è irrimediabilmente solo, ma sembra essere una sua deliberata scelta. Ogni cosa lo disgusta per la sua dannata ostinazione all'esistere; per questo egli odia anche se stesso, e nemmeno la morte potrebbe liberarlo di questo fardello, perché sottoterra anche le sue ossa continuerebbero ad esistere, ingombrando la scena di questo universo che non è altro che un agglomerato insopportabile d'esistenza. Anche il pensiero del "nulla" esiste, e al diavolo anche quello.
Eppure Roquentin, nonostante la giovane età, ne avrebbe di cose per cui essere contento, esperienze che possono aver arricchito quell'esistenza che odia tanto: ha girato per il mondo, vissuto avventure che andrebbero raccontate con orgoglio. Tuttavia, per lui un'avventura cessa d'essere tale nel momento in cui si abbandona a quella melma indistinta che il passato, in cui tutto annega e nulla può essere recuperato. Nonostante dia al passato quasi meno valore di quello che da alla sua vita, in fondo Roquentin vi è legato; il suo passato ha un nome: Anny. Peccato che Anny non possa salvarlo; peccato che anche la donna che amava sia colpita dal suo stesso male e che sopravviva a se stessa proprio come fa lui, ma lontano mille miglia.
La vita è qualcosa di tetro e gli uomini si trascinano come fantocci nelle loro faccende, nel migliore dei casi convinti di star vivendo una vita degna. Roquentin/Sartre non lascia un barlume di speranza, né per se stesso né per gli uomini.
O forse sì?
"Di colpo esistevano, e poi, di colpo, non esistevano più: l'esistenza è senza memoria; di ciò che scompare non conserva nulla - nemmeno un ricordo."
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Argomenti diversi con un punto in comune
Da questo saggio si può notare particolarmente come le conoscenze di Oliver Sacks fossero ampie e attingessero a piene mani dalle grandi menti del passato, che hanno contribuito all'evoluzione della scienza e alla conoscenza (anche adesso estremamente limitata) del funzionamento di quel meraviglioso meccanismo che è la mente umana.
"Il fiume della coscienza" non si può definire un saggio che abbia una continuità, con un argomento che venga introdotto all'inizio, trattato nel mezzo e concluso all'ultima pagina. Quest'opera è una raccolta di vari scritti di Sacks, in ognuno dei quali viene fuori l'argomento (in maggiore o minor parte) della "coscienza", sia essa strettamente correlata all'essere umano o meno. La scrittura di Sacks è chiara anche quando si addentra in questioni piuttosto complicate e spinose; a volte riesce ad essere spassoso, nonostante gli argomenti non offrano troppi spunti all'ilarità.
Come dicevo, nei dieci capitoli di questo saggio, Sacks prende in considerazione vari argomenti che hanno come protagonisti gli studi e la vita di grandi scienziati e teorici del passato: a partire da Darwin, passando per Freud ed Einstein, senza disdegnare anche studiosi meno conosciuti che hanno comunque dato il loro contributo alle scienze umane.
Essendo questo saggio scomposto in vari capitoli che, pur avendo punti in comune, trattano di argomenti un po' diversi tra loro, è difficile riuscire a riassumere un pensiero unico; ma si può dire che la maggior parte di quel che viene trattato è interessante e può offrire qualche spunto riguardo la nostra natura in quanto esseri umani senzienti, ma anche riguardo alla "coscienza" di tutto ciò che ci circonda. Possono gli esseri vegetali essere dotati di coscienza, seppur primitiva? Prendendo ad esempio la reazione di alcune piante, che reagiscono in un determinato modo a un determinato stimolo, non si può dire che abbiano percepito la situazione e siano corse ai ripari elaborando qualcosa che sia un pensiero primitivo? Sono reazioni soltanto istintive, automatiche?
Alcuni dei capitoli si soffermano sullo studio della mente umana nel suo stato "anormale". Essendo un neurologo, Sacks ha avuto modo di avere a che fare con vari tipi di pazienti, con diversi tipi di disturbo che potevano alterare le capacità cognitive, la "velocità" delle loro percezioni; menti anormali che hanno permesso di studiare anche le menti di persone sane, facendo i dovuti confronti e parallelismi.
Questi sono solo alcuni degli argomenti trattati da "Il fiume della coscienza", dunque la visione d'insieme non può essere che marginale; un libro che si concentri su ogni singolo capitolo di questo libro non sarebbe abbastanza. Comunque, ci troverete un insieme di riflessioni generali su argomenti molto interessanti: non troppo approfondite per motivi di "spazio", ma che possono comunque far nascere la voglia di approfondire, fornendo la basi necessarie a un approccio più serio.
"Sovvertire le proprie credenze e le proprie teorie può essere un percorso dolorosissimo, addirittura terrificante: doloroso perché la nostra vita mentale è sostenuta, consciamente o inconsciamente, da teoria cui a volte conferiamo la potenza dell'ideologia o del delirio."
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Solo a me non affascina?
Subito dopo aver completato la rilettura dell'Amleto di Shakespeare (forse questo mi ha un po' condizionato), ho deciso di cimentarmi per la prima volta in un classico della tragedia greca, spinto anche da qualche consiglio.
Ho provato a leggere la "Medea" con quanta più attenzione mi fosse possibile e, pur riconoscendone il valore, non sono riuscito a farmela piacere né a coglierne la potenza stilistica oltre che di contenuti. È ovviamente un'opera che va considerata nel contesto in cui è stata scritta, ma nonostante questo la figura di Medea non mi è arrivata così col fascino che le è attribuito universalmente. Tralasciando tutte le ragioni che l'hanno spinta nell'esecuzione della sua vendetta, l'ho trovata incoerente con la figura "intelligente" decantata da tutti. È sicuramente una donna risoluta, che non viene meno ai suoi propositi per quanto spaventosi possano essere, ma non si può dire che attui una vendetta sensata.
Perché un uomo persegue una vendetta? In certi casi perché crede di trovarvi sollievo; nel caso di Medea perché vuole infliggere la sua stessa sofferenza all'uomo che ne è la causa. Tuttavia, nel perseguire questa sua vendetta, vi coinvolge persone del tutto innocenti, mostrando chiari segnali di pazzia; una pazzia nella quale NON "c'è del metodo". Dunque, per quanto forbiti possano essere i discorsi della protagonista, la sua intelligenza è completamente subissata da questa follia irrefrenabile.
C'è anche chi la vede come un precursore dell'emancipazione femminile... ma neanche in questo sono d'accordo. I torti subiti mettono in risalto assolutamente le ingiustizie subite dalle figure femminili, ma dall'altro la reazione della nostra protagonista (lungi da me chiamare eroina un personaggio del genere), la getta ancor di più nell'oblio. Come anche il coro mette in risalto, la sofferenza di Medea e la sua voglia di vendetta sono giustificate e in questo l'appoggerà pienamente, salvo poi dissociarsi da lei nel momento in cui si rende conto di quanto di quanto crudele e insensata nell'esecuzione sia la sua vendetta.
Rimanendo in discorsi più prosaici, inoltre, credo che la mitologia greca contenga anche storie più tragiche e affascinanti di questa.
So che in molti mi odieranno, ma la Medea non mi ha fatto perdere la testa.
P.S. Di seguito, la citazione emblema della psicologia della protagonista, che mi ha lasciato alquanto perplesso:
"Sappilo bene: è per me un vantaggio il dolore, purché tu non rida di me."
Ma l'autrice non sapeva come concludere?
Ho dato a questo romanzo un ottimo voto, ma vi assicuro che avrebbe potuto essere facilmente più alto, se non fosse per qualcosa che traspare già dal titolo della mia recensione. Ma ne parlerò tra poco.
Cominciamo dallo stile dell'autrice, che mi ha stupito molto: avvincente come un thriller, ti cattura dalla prima all'ultima pagina e scorre che è un piacere. L'ho letto in due tre ore, pensate un po' voi, anche se è comunque un libro breve, neanche 140 pagine.
L'autrice riesce a caratterizzare molto bene i suoi personaggi, donando agli adulti (con una psicologia più sviluppata) una narrazione in prima persona, e ai bambini (più acerbi) una narrazione in terza. Forse i genitori di Théo si comportano in maniera un po' troppo inverosimile, ma è una cosa su cui si può sorvolare, perché la De Vigan riesce a essere profonda e a rendere alla perfezione i rapporti tra i vari attori della storia che, principalmente, sono bambini, genitori e insegnanti. È un quadro reso molto bene, devo ammettere.
Ma allora vi starete chiedendo, perché quei voti al contenuto e allo stile? Devo ammettere che allo stile ero tentato di dare 5 e al contenuto 4, fino a che non ho letto l'ultima pagina; o forse anche prima, quando mi sono reso conto di quanto fosse impossibile, in così poche pagine, chiudere il cerchio aperto dalla scrittrice. Un finale aperto può essere assolutamente efficace quando l'autore è bravo a impregnarlo di significati nascosti, a scatenare riflessioni nel lettore e portarlo a concluderlo nella sua mente. Questa conclusione, purtroppo, è talmente brusca e immotivata che fa perdere punti a un romanzo che avrebbe potuto essere bellissimo. Ci sono tratti psicologici non portati a termine, situazioni interrotte bruscamente e che non vedranno conclusione (a meno di un sequel? Ma mi pare assurdo, per un libro così breve), indagini psicologiche che avrebbero potuto scavare molto più in profondità ma che invece si fermano a metà strada, donando la sensazione che l'autrice non sapesse come andare avanti. Il motivo deve essere questo, a meno che nella sua mente, con questo finale aperto, l'autrice sperasse di scatenare l'immaginazione di cui ho parlato poco fa. Mi dispiace dirlo, ma credo che si sia sopravvalutata, nonostante sia molto brava.
La storia si concentra su quattro personaggi in particolare: il piccolo Théo, che vive una situazione familiare molto brutta, con due genitori separati e in condizioni psicologiche disastrate, completamente concentrati su loro stessi e quasi indifferenti alla loro creatura; il piccolo Mathis, migliore amico di Théo, suo complice in un gioco molto pericoloso che ha a che fare con l'assunzione di alcool; l'insegnante dei due ragazzini, Hélène, con un infanzia dura alle spalle, l'unica a percepire la condizione disastrata in cui riversa Théo; la madre di Mathis, alle prese anche lei coi ricordi di un'infanzia difficile e un presente che lo è altrettanto.
Un quadro non molto allegro, direi, e che non fa altro che peggiorare di pagina in pagina.
È molto interessante come l'autrice tesse i rapporti tra i vari personaggi, questi quattro in particolare. È molto brava a gestirne le azioni in base alla loro personalità particolare, senza mai farli apparire incoerenti né forzati, portando avanti una storia tragica in cui si spera possa esserci un barlume di speranza, ma che non fa altro che sprofondare nell'oblio più profondo. Mi sarebbe piaciuto sapere se questo oblio sarebbe stato definitivo o se, alla fine del tunnel, ci sarebbe stata una luce.
L'autrice ha sprecato un'occasione per scrivere un libro che potesse essere di grande valore; è un libro comunque piacevole da leggere, bello, ma si avverte comunque la sensazione dell'occasione sprecata.
Peccato.
"Le fedeltà invisibili. Sono fili che ci legano ad altri, ai vivi come ai morti, sono promesse che abbiamo sussurrato e di cui non riconosciamo l'eco, lealtà silenziose, sono contratti per lo più stipulati con noi stessi, parole d'ordine accetate senza averle comprese, debiti che custodiamo nei recessi della memoria."
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L'insospettabile...?
Confesso di non aver letto più di quattro o cinque gialli della Christie, ma questo finora è il più avvincente dopo "Dieci piccoli indiani".
La storia sfila via che è un piacere, come dovrebbe sempre accadere in un libro di questo genere: deve spingere il lettore a volerne sapere di più, a venire a capo di quel mistero che appare irrisolvibile e carico di punti misteriosi.
Nonostante queste considerazioni, devo far notare al povero Sciascia (che ha scritto prefazione e postfazione), che mentre lui dice che nessun lettore poteva mai immaginare l'assassino, io lo avevo già capito da un pezzo. Anche se si fa fatica a pensarlo perché è di certo una scelta inusuale, basta un pizzico di attenzione e memoria per arrivarci e a un certo punto della storia la Christie ce lo fa capire chiaramente; questo è l'unico aspetto che rende questo giallo meno perfetto di quanto non sia "Dieci piccoli indiani".
Tuttavia, credo che sia una di quelle storie che gli amanti del genere non possono assolutamente ignorare.
I fatti ci vengono raccontati dal signor Sheppard, dottore che esercita la sua professione nel tranquillo paese di King's Abbot, un paesino che di solito non conosce nulla di più interessante di qualche pettegolezzo e che fa di quest'ultimo la sua occupazione principale.
Personaggio di spicco nella comunità è il signor Roger Ackroyd, uomo nobile e ricco, ma abbastanza avaro. Per una serie di vicissitudini familiari, il vecchio Roger vive nella sua grossa casa insieme al figlio adottivo Ralph, la cognata vedova con sua figlia Flora e la servitù. Inoltre, intrattiene una relazione che una vedova del paese, anch'essa abbastanza facoltosa: la signora Ferrars. Il misterioso suicidio di quest'ultima porta scatena una serie di eventi che scaraventerà la famiglia Ackroyd nel caos, fino all'assassinio del capofamiglia, il signor Roger.
Toccherà a Poirot risolvere il caso, pur essendosi ritirato a King's Abbot per godersi la meritata pensione. Una pensione che, a quanto pare, è ancora ben lontana.
"Degli uomini ci si può approfittare a volontà, ma con le donne non bisogna tirare troppo la corda. Perché la donna, in fondo al cuore, desidera sempre dire la verità. Quanti mariti ingannano la moglie portandosi il segreto della tomba? Quante mogli ingannano il marito e poi gli rovinano la vita sbattendogli in faccia la verità? E lo fanno perché qualcuno ha tirato troppo la corda."
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Tra la pantomima e la vera guerra
Premetto che ho letteralmente amato "1984" e "La fattoria degli animali", e anche "Giorni in Birmania" mi è piaciuto parecchio. È molto chiaro fin dal principio però, che "Omaggio alla Catalogna" è un'opera molto diversa da quelle sopracitate: autobiografica, estremamente accurata nella descrizione del contesto della guerra civile spagnola. Lo stile di Orwell è un po' diverso da quello a cui ero abituato, forse proprio perché cerca di rendere al meglio quello che è stato il suo vissuto durante quel periodo, e in fondo quello di un po' tutta la Spagna.
Sarò sincero, non l'ho amato follemente e in certi tratti mi è sembrato un po' pesante, senza nulla voler togliere ai contenuti e alla bravura dell'autore; ma da quel che leggevo in giro mi ero fatto un'idea diversa. Non l'ho trovato così coinvolgente. Non avrei dovuto aspettarmelo considerando che si tratta quasi di una cronaca di guerra, ma altre opinioni in giro per il web mi hanno fatto ben sperare. Ci sono sprazzi in cui Orwell si mostra in tutto il suo immenso talento di narratore, come quando racconta il momento in cui è stato colpito da una pallottola, e altri che mi hanno messo in una condizione di stallo angoscioso, ma che tuttavia mi rendevo conto essere essenziali per rendere bene il contesto.
Ammetto che mai come in questo caso la mia considerazione sia del tutto opinabile; non me ne vogliano gli amanti di questo libro e non me ne voglia Orwell, che magari si starà rivoltando nella tomba.
Come dicevo prima, in questo libro assistiamo al momento in cui Orwell sveste i panni di giornalista e scende in campo in prima linea nella guerra civile spagnola, tra le file del POUM. La prima parte racconta della sua esperienza al fronte, di questo gruppo di miliziani per nulla addestrati, armati di fucili difettosi o non armati affatto, per la maggior parte del tempo impegnati soltanto a patire il freddo e le ristrettezze. Sì, al fronte la guerra sembra non voler avere inizio e tutte le azioni che vengono svolte sul campo appaiono quasi insensate, come si volesse illudere se stessi e il Paese che si sta lottando. Non sembra una guerra, ma la pantomima di una guerra, come ammetterà lo stesso Orwell.
Dal fronte ci si sposterà agli scontri tra le fazioni politiche, tra gli operai e la polizia, nel bel mezzo delle strade di Barcellona. Quello che emerge è l'incredibile stato di caos che regna tra i vari schieramenti: in certi momenti non si riesce neanche a capire chi sia il nemico, perché lo si combatta, chi si trovi dalla parte giusta e chi da quella sbagliata.
In questo contesto procede il racconto di Orwell di un periodo della sua vita che, come si evince dalle sue stesse parole, parve una perdita di tempo nel momento in cui lo aveva vissuto, ma che a mente fredda, molti anni dopo, ha riconosciuto come uno dei periodi più importanti della sua vita e che lo ha segnato profondamente.
"Sul nostro treno gli uomini che stavano abbastanza bene da reggersi in piedi erano andati ai finestrini a salutare gli italiani mentre ci passsavano accanto. Una stampella fu agitata fuori dal finestrino; braccia bendate salutarono a pugno chiuso. Era una specie di quadro allegorico della guerra; un treno pieno di truppe fresche sfilava con orgoglio su un binario, mentre sull'altro scivolavano piano i feriti e ogni tanto i cannoni sui pianali facevano sobbalzare il cuore, come sempre fanno i cannoni, e rinnovavano quella perniciosa impressione, di cui è così difficile sbarazzarsi, che dopotutto la guerra è veramente un'impresa gloriosa."
Il commissario Macbeth
Jo Nesbo fa il suo ritorno in libreria con un thriller-poliziesco apertamente ispirato all'opera shakespeariana omonima.
Lo stile di Nesbo è il solito: molto fluido e scorrevole, avvolgente, efficace. La storia che va a raccontare pone le sue basi nellla tragedia alla quale si ispira, adattandola ad un contesto tutto nuovo e con delle aggiunte necessarie a offrire qualcosa di nuovo, senza tuttavia snaturare quello che è il perno principale, il tema su cui è costruita l'opera del bardo e che si incarna nella figura di Macbeth: l'ambizione.
Che dire, Nesbo è sicuramente un grande scrittore di intrattenimento, che comunque non tralascia del tutto l'introspezione dei personaggi e i discorsi più impegnativi; tuttavia il fatto di doversi attenere a delle linee guida e il non potersi allontanare troppo dalle basi che reggono il Macbeth originale, lo hanno costretto a qualche forzatura di troppo. Almeno così mi è parso. Oltretutto, nonostante i personaggi siano caratterizzati abbastanza bene, non posso dire che siano indimenticabili.
Insomma "Macbeth" è un libro piacevole, ma posso dire di aver letto di aver letto opere di questo genere nettamente superiori, come il "Corruzione" di Don Winslow, con il quale ho trovato anche qualche somiglianza.
Macbeth è il capo della SWAT in una città segnata dalla piaga delle gang e degli spacciatori di droga. Il degrado che avvolge le strade come una bolla è stato accentuato dal vecchio commissario capo Kenneth, uomo corrotto e al soldo dei boss della droga, tra cui spiccano Sweno ed Ecate, due personalità perennemente in lotta. Alla morte di Kenneth, diventa commissario capo Duncan (analogo del Re Duncan shakesperiano, ovviamente), un uomo buono che promette di estirpare la corruzione e i mali che affliggono la città da troppo tempo, ormai. Per la prima volta, c'è un barlume di speranza.
Durante una retata organizzata contro la banda di Sweno, Macbeth e un altro agente, Duff, si rendono protagonisti e riescono a sbattere in galera molti dei componenti della gang, anche se il loro capo riesce a far perdere le sue tracce. Almeno, nella versione ufficiale.
Di qui, partiranno una serie di giochi di potere: Duncan vedrà in Macbeth, uomo che viene dalla strada, uomo del popolo, la persona giusta per occupare una posizione di alto rango, una posizione che di norma sarebbe spettata a Duff. Completamente spiazzato da quella posizione di potere appena acquisita, in Macbeth si sveglierà l'ambizione che l'ha reso famoso, fomentata dalla sua amante Lady, proprietaria di un casinò d'alta classe e grande stratega. Con l'aiuto di Ecate (che vuole farne la sua marionetta), Macbeth comincerà la sua scalata al potere che, se avete letto l'opera shakespeariana, avrà l'epilogo che conoscete (anche se con una sorpresa che lascerà spazio a un seguito, forse), seguendo una scia di sangue, tradimenti e fame di potere.
"Un uomo ha una resistenza limitata, prima o poi finisce con l'infrangere i giuramenti che si è fatto tatuare e con il fare cose che credeva inconcepibili. Perché la fedeltà eterna non appartiene agli uomini, ma il tradimento sì."
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Una bella fiaba
Ho sentito parlare spesso di Amos Oz come di un ottimo autore (e spesso in odore di Nobel per la letteratura), dunque ho voluto fare un primo approccio alla sua opera. Non sapendo da dove cominciare, ho scelto questo libro perché ridotto nella mole e sostanzialmente ben recensito, in giro per il web.
Non me lo aspettavo, ma mi sono trovato davanti una fiaba irresistibile, una di quelle da leggere ai bambini prima di andare a letto; di quelle che possano lasciar loro un'impronta positiva.
Lo stile di Amos Oz si adatta perfettamente alla storia raccontata, circondando tutti i luoghi in un'aura fiabesca seppur abbastanza cupa, all'inizio. Forse in principio si può avere l'impressione che l'autore non sappia dove andare a parare, ma è tutta una preparazione per quello che accadrà nelle ultime pagine, dove la morale e le riflessioni si paleseranno e trarranno forza dalle fondamenta che l'autore ha imbastito.
Maya e Mati sono due ragazzini, abitanti di un paese dove, una notte, tutti gli animali sono scomparsi senza lasciare traccia. Si racconta che il demone delle montagne, Nehi, li abbia portati via con sé. Da quella notte, al calar del sole, nessuno esce per le strade e tutte le famiglie si serrano per bene nelle proprie case. Nessuno vuole parlare di quella notte, nessuno vuole soffermarsi troppo sull'assenza delle specie animali, che sono diventate quasi delle creature leggendarie. Tuttavia, a volte, gli adulti si lasceranno andare alla nostalgia, esibendosi nelle imitazioni dei versi degli animali scomparsi; ma si ravvederanno subito e cercheranno di distogliere i loro figli dalla ricerca della verità.
È uno strano paese, quello di Maya e Mati, non solo per l'assenza di ogni tipo di specie animale, ma perché molti dei suoi abitanti nascondono un animo sottilmente malvagio, subito pronti a prendersi gioco di chi è diverso, emarginandolo e umiliandolo a ripetizione. La scomparsa delle altre creature viventi ha avvolto il paese in un'atmosfera triste, smorta, accentuando quella malvagità nascosta sottopelle e l'intolleranza nei confronti del "diverso".
Sono proprio questi i temi centrali della fiaba, e su questi si incentrerà la morale conclusiva: il rispetto per gli animali e per gli altri, una morale che arriva forte al cuore.
"Qui da noi non ci si vergogna a stare nudi: in fondo siamo sempre tutti nudi, sotto i nostri vestiti, è solo che ci hanno abituati, sin da piccoli, a vergognarci di ciò che è vero e andare fieri di tutto ciò che è menzogna. E ci hanno abituati a essere contenti di quello che abbiamo solo se non l'hanno anche gli altri. E peggio ancora, ci hanno abituati sin da piccoli a nutrire idee malsane che cominciano sempre con parole come: 'Ma tutti...'."
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Un piccolo globo personale
In giro per il web ho notato che questa autrice è abbastanza apprezzata e consigliata. Tra i libri che ha scritto, quello che mi è stato indicato come quello da preferire per un primo approccio è questo "Abbiamo sempre vissuto nel castello", e devo dire che l'ho apprezzato.
La scrittura dell'autrice scorre fluida e la sua scelta di narrare le cose dal punto di vista di Mary Katherine (altrimenti detta "Merricat"), mi è sembrata una scelta felice perché traccia un profilo psicologico del personaggio abbastanza accurato e anche originale. Tuttavia, forse anche a causa di questa scelta, ha fatto in modo che io intuissi il colpo di scena principe già dalle prime pagine, e non credo che la cosa fosse dovuta esclusivamente alla mia arguzia. Nonostante questo, il libro è piacevole da leggere e racconta una storia abbastanza originale e che lascia qualcosa su cui riflettere.
La famiglia Blackwood è relegata ai margini della società, sia da se stessa sia dai "malvagi" abitanti del paese, che non li vedono per nulla di buon occhio. Perché? Perché casa Blackwood, anni orsono, è stata palcoscenico di una spaventosa tragedia: la famiglia è stata vittima di un avvelenamento da arsenico, mescolato allo zucchero, che ha tolto la vita a buona parte dei suoi componenti. Gli unici sopravvissuti sono lo zio Julian, tuttavia pesantemente menomato, Merricat e sua sorella Constance, che sarà accusata di essere la responsabile del pluriomicidio, pur essendone scagionata dopo un lungo processo.
Nonostante il riconoscimento della sua innocenza, la bellissima Constance vivrà relegata per anni, terrorizzata dal fatto di mostrarsi al mondo e considerata sempre responsabile di questo brutale atto. Merricat, profondamente legata a sua sorella (ed evidentemente afflitta da qualche disturbo mentale che si palesa fin dall'inizio), costruirà intorno alla sorella e allo zio Julian un piccolo globo di cui sono gli unici protagonisti e nel quale, utopicamente, rimane fuori chiunque altro. Si assicura continuamente che i confini di casa Blackwood siano completamente isolati, che i lucchetti siano sempre ben chiusi, e che chiunque venga a trovarli se ne vada quanto prima. In questa utopia personale, Merricat è felice. Tuttavia qualcosa, qualcuno, verrà a sconvolgere questo equilibrio: il cugino Charles, l'Estraneo, che sembra essere venuto col preciso scopo di distruggere quella felicità.
Un romanzo che si focalizza molto sui rapporti familiari, di come possano essere morbosi e di come possano essere sconvolti radicalmente da cause esterne; di come gli uomini possano mostrarsi crudeltà a vicenda, di come poi pretendano di non essere trattati con indifferenza nonostante i loro orribili atti, ma anche di come possano trovare il modo di redimersi; di come tentiamo di costruire un mondo tutto nostro, popolato dalle persone che amiamo e messo in moto da una routine che possa renderci felici. O che forse "crediamo" possa renderci felici.
"Oggi non ci sarà nessun cambiamento, pensai, è solo la primavera; ho fatto male a spaventarmi tanto. Le giornate si sarebbero fatte più tiepide, zio Julian se ne sarebbe stato seduto al sole, Constance avrebbe riso mentre lavorava in giardino, e tutto sarebbe rimasto uguale. Jonas continuava a raccontare ('E poi ci siamo messi a cantare! E poi ci siamo messi a cantare!'), sopra di noi si muovevano le foglie e tutto sarebbe rimasto uguale."
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Un grosso, gigantesco boh!
Premetto che è molto probabile che sia colpa mia se questo romanzo non mi è proprio piaciuto, dunque mi scuso con chi lo ha amato o apprezzato. Tuttavia, non posso fare altro che esprimere quella che è la mia opinione personale che, in quanto tale, è perfettamente opinabile, ma che non adatto in nessun modo per accontentare le masse.
Non so se mi sarei mai approcciato a questo libro, se non fosse che avevo da leggerlo come lettura condivisa, al circolo di lettura. Magari sì, magari no; sta' di fatto che ho trovato questa lettura assolutamente insopportabile.
Partiamo dallo stile: è evidente che quella di Queneau è una sfida alla lingua, alla letteratura tradizionale, e forse in francese la sua opera rende di più, ma personalmente non ho trovato nulla di entusiasmante in queste scelte lessicali. Ci sono un'infinità di vocaboli storpiati o inventati di sana pianta che, magari, se inseriti in una narrazione fatta in prima persona dalla protagonista (la piccola Zazie), avrebbero avuto più un senso, come accade in Arancia Meccanica o ne Il giovane Holden. In quei casi, la scelta lessicale è un veicolo fondamentale per la caratterizzazione dei protagonisti; in questo caso, invece, non fa altro che appesantire una lettura che dovrebbe essere leggera; perchè è chiaro che tutto il romanzo abbia un'impronta umoristica, che a quanto ho capito vuole proporre uno spaccato ironico della società parigina del tempo. Tutte le intenzioni dell'autore, almeno per quanto riguarda il mio caso, rimangono tali e non riescono veramente a coinvolgere, a far riflettere, o a far ridere. Basti pensare che il personaggio che mi ha fatto più ridere è un pappagallo che ripete sempre la stessa frase fino allo sfinimento.
Passiamo alla protagonista, Zazie: insopportabile e volgare fino all'inverosimile. Non che la cosa mi turbi, sia chiaro, ma non è null'altro che un ricettacolo di oscenità e poco più.
Per concludere, la trama non è altro che un susseguirsi di eventi e di incontri senza niente di speciale né di memorabile, alcuni addirittura ai limiti del surreale; per carità, non ho nulla contro il surreale, ma che almeno mi trasmetta qualcosa!
Insomma, per concludere, l'unico commento che sono riuscito a fare chiudendo il libro è stato: "Ma cosa ho appena letto? Boh!"
"Laggiù, oltre, un po' oltre, Place de la République, si accatastano le tombe dei parigini che furono, che salirono e scesero le scale, andarono e vennero per le vie e tanto fecero che alla fine sparirono. Un forcipe li introdusse, un carro funebre li porta via e la torre si arruginisce e il Pànteon si screpola più presto di quanto le ossa dei morti fin troppo presenti non si dissolvano nell'humus della città tutto impregnato di affanni."
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Rapporto controverso
Ho un rapporto controverso con questo libro. Mi venne assegnato ai tempi delle superiori come lettura estiva: a quel tempo ignoravo ancora quanto l'amore per la letteratura mi avrebbe travolto di lì a pochi anni, ma non fu quello il momento in cui scoccò la scintilla. Ancora oggi (con un pizzico di rancore), do a "Il fu Mattia Pascal" la colpa per il fatto che questo amore sia nato quando gli studi scolastici erano ormai finiti da un pezzo.
Da lettore abbastanza navigato, adesso, ho deciso di concedergli una seconda occasione, per capire se il mio "odio" fosse dovuto soltanto alla mia giovane età. Bene, adesso che l'ho riletto posso dire che sì, l'ho apprezzato più di allora, ma che comunque non la reputo una lettura adatta a un giovanissimo: non se si vuole far nascere in lui l'amore per la lettura. Lungi da me criticare il modus operandi dell'educazione italiana, ma nel mio caso, l'opera pirandelliana non ha assolutamente funzionato; qualcosa di sbagliato dev'esserci, considerato che poi sono diventato un lettore accanito, che ha letto opere anche molto più impegnative de "Il fu Mattia Pascal".
Mettendo da parte questo discorso, posso dire che Pirandello ha uno stile tutto suo, perfettamente riconoscibile, e che è giustamente considerato uno dei migliori autori italiani. Devo ammettere però, che forse io e lui non collimiamo alla perfezione, perché pur riconoscendo l'indiscutibile valore e l'originalità di questa storia, non riesco proprio ad amarla.
Mattia Pascal è un giovanotto che è nato negli agi, grazie alla fortuna accumulata da suo padre, venuto però a mancare prima del tempo. A riempire il vuoto lasciato dal padre ci sarà il Malagna, uomo scellerato che farà la propria fortuna "amministrando" quella dei Pascal, mandandoli in rovina. Mattia è un personaggio controverso fin dall'inizio, dandoci subito un assaggio di quelli che saranno i tormenti e lo sdoppiamento al centro della scena. Sposerà avventatamente Romilda, una donna della quale è innamorato il suo amico Pomino, ma ben presto il suo matrimonio si rivelerà del tutto infelice; complice il suo libertinaggio giovanile, la freddezza improvvisa della sua nuova moglie e una suocera assolutamente insostenibile. A far traboccare il vaso saranno la morte della cara madre e quella delle sue due figlie, gemelle. Questo lo porterà a una fuga a Montecarlo, dove giocherà alla roulette vincendo un mucchio di soldi. Pronto a rientrare a casa reso forte dalla sua nuova ricchezza, accade un evento che cambierà tutto: un uomo si è buttato nel mulino di una sua proprietà, la Stìa, e verrà riconosciuto dai suoi parenti proprio come Mattia Pascal. Dunque tutti credono che il povero Mattia sia morto e quest'ultimo, più vivo che mai, crederà che questo evento sia un incredibile colpo di fortuna che gli permetta di farsi una nuova vita. Mattia assumerà l'identità di Adriano Meis, felice di poter ricominciare, ma gli eventi che lo travolgeranno non saranno rosei come crederà in principio.
"Il che vuol dire, in fondo, che noi anche oggi crediamo che la luna non stia per altro nel cielo, che per farci lume di notte, come il sole di giorno, e le stelle per offrirci un magnifico spettacolo. Sicuro. E dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili."
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Non mi ha trasmesso molto
Lungi da me sminuire il valore di una poetessa come la Merini. Nella poesia però, ancor di più che nella narrativa, la fortuna degli autori è molto soggetta al gusto personale dei lettori. Un poeta, indipendentemente dal suo valore intrinseco, può toccarti nel profondo, ma anche non dirti assolutamente nulla.
Be', nel mio caso, la Merini è distante anni luce dai miei gusti, e forse questa selezione di poesie non è nemmeno tra le più fortunate.
I temi trattati dalla poetessa sono palesi: si evince chiaramente il suo malessere, la sua instabilità emotiva, che cerca di colmare in diversi modi lungo tutto l'arco della sua vita. In alcune poesie è chiaro che proverà a colmare il suo vuoto con la spiritualità, con la ricerca di Dio, ma principalmente la Merini cerca rifugio nell'amore, che è un po' il fulcro della sua poetica; amore in tutte le sue sfaccettature: quello sensuale, quello prettamente sentimentale, quello che lega indissolubilmente a una persona ormai perduta. Emerge molto anche il condivisibile disagio con cui la poetessa vive la realtà del manicomio, in cui verrà rinchiusa per diversi anni a causa della sua instabilità emotiva.
Ripeto, nonostante non discuta il valore dei versi e dei temi, la Merini non è riuscita a comunicare con me, a instaurare una connessione, come mi è accaduto con altri poeti. Vuoi perché le sue poesie sono più apprezzabili da un pubblico femminile; vuoi perché un poeta ti tocca di più quando c'è un'empatia dovuta a esperienze condivise; vuoi per tanti altri motivi oscuri. Non ha scosso nulla, nel mio animo, inoltre, ho trovato che molte poesie siano inutilmente ermetiche, aumentando esponenzialmente la difficoltà che, almeno io, ho trovato nell'approcciarmi alla poetessa.
Comprendo che un poeta scriva dei versi per poter esprimere l'inesprimibile, ma è anche vero (secondo me) che i grandi poeti sono quelli che riescono a farlo in una maniera che consenta a chi legge i versi di darne un'interpretazione, almeno minima.
Per riassumere, io e la Merini non siamo affini.
Giuro che la rima non era voluta.
Cronache Marziane 2
Il titolo di questa recensione potrebbe trarvi in inganno: ma no, non vuole intendere che questo libro sia una sorta di sequel della più famosa raccolta di racconti del grande Ray Bradbury; tuttavia, anche in questa raccolta, sono molti i racconti che hanno come tema centrale Marte, ma anche gli altri pianeti del sistema solare. Il filo conduttore è, come nell'altra opera, la vana fuga dell'essere umano da sé stesso; la sua inevitabile autodistruzione che coinvolgerà il nostro stesso pianeta; il suo viaggio verso altri mondi; l'approccio con forme di vita sconosciute. Amo profondamente lo stile di Bradbury e credo di non aver incontrato, finora, autore che sappia scrivere racconti più belli ed efficaci, con un'abilità straordinaria di far emergere l'umanità (sia in senso buono che cattivo) di tutti i personaggi che popolano quelle piccole storie.
Sicuramente ci sono racconti meglio riusciti rispetto ad altri, più profondi, efficaci, alcuni anche divertenti; ma anche i racconti meno interessanti non vi annoieranno, mai. Ci sono anche richiami all'opera principe dell'autore, ovvero Fahrenheit 451, precisamente nel racconto "Gli esuli", che credo sia anche uno dei meglio riusciti. Insieme a questo, degni di nota sono anche "Caleidoscopio", "La prossima mano", "Marionette S.p.a." e "Il razzo".
Per dare il via alla sua carrellata di racconti, Bradbury si inventa l'espediente narrativo dell'incontro tra un uomo (voce narrante), e colui che da nome al romanzo: l'uomo illustrato. Questo tizio enorme ha impresse sul corpo una serie infinita di illustrazioni, che non gli lasciano un centimetro di pelle immacolata e che di notte prendono vita, raccontando delle storie. Questi disegni gli sono stati stampati sulla pelle da una donna che lui definisce "una strega venuta dal futuro", i cui disegni rappresenterebbero eventi che avverranno in un tempo non molto lontano. I due uomini dormono insieme; la nostra voce narrante verrà catturata dal movimento delle immagini e dalle storie che inscenano e passerà la notte a guardarle tutte.
Di qui, la carrellata di racconti.
Faremo i nostri viaggi su Marte, su Venere, ma rimarremo anche sulla Terra per scoprire come tutto è andato in malora, come l'uomo è stato costretto a scappare via, condannato dalla sua stessa follia nucleare, dalle sue mai estinte tendenze autodistruttive.
Potete star certi che leggerò TUTTI i racconti di questo autore, perché è davvero un genio.
"Siamo tutti cretini. Sempre. Soltanto, ogni giorno lo siamo un maniera un po' diversa. Pensiamo: 'Oggi non sono più cretino, ho imparato la lezione. Ieri ho fatto l'idiota ma stamattina no'. Poi l'indomani ci rendiamo conto che sì, abbiamo fatto gli idioti anche il giorno prima. Penso che il solo modo di crescere e durare nel mondo sia accettare il fatto che non siamo perfetti e vivere di conseguenza."
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