Opinione scritta da Mario Inisi

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    22 Gennaio, 2018
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Lo spirito della fanta poesia

La scrittura di Bolano è sempre interessante. Questo scrittore ha la capacità di catturarti dalle prime righe e di rendere ogni cosa coinvolgente e misteriosa. Il libro Lo spirito della fantascienza è stato scritto da un Bolano trentenne. Sembrerebbe un testo caotico e improvvisato, invece la sua struttura è meditata come si vede da schemi e appunti riportati a fine romanzo. L’architettura è labirintica, nel senso che ogni capitolo sembra a parte e la connessione tra i vari capitoli si intravede solo andando parecchio avanti con la lettura. Nel testo ci sono lettere a scrittori di fantascienza nord americani, capitoli di un romanzo di fantascienza scritto da Jan, capitoli di un romanzo vincitore del premio letterario scritto da Remo o da Arco, indagini sull’ambiente letterario cileno, e parti sulla vita e gli incontri dei tre amici (Jan, Remo e Arco), che frequentano tutti e tre l’ambiente letterario e sono aspiranti poeti/scrittori. Tenere e singolari le lettere scritte da Jan, 17enne aspirante scrittore di fantascienza, che si scopre in una delle lettere finali essere Bolano stesso. Una delle ultime lettere è firmata infatti Jan Shrella alias Roberto Bolano. Ian vive in un attico con Remo, che parla in vari capitoli in prima persona. Remo scrive articoli per la Bambola e fa indagini sulla situazione delle riviste letterarie in Messico. Tali riviste sono centinaia e centinaia. Quasi tutte fatte di pochi fogli fotocopiati e imprecisi, distribuiti nei supermercati locali. In America Latina c’è una incredibile fioritura poetica. Nonostante le riviste fai da te distribuite nei supermercati e i seminari di poesia i cui docenti sembrano esperti in sartoria-poetica (taglia l’inizio ma il finale non è male), nonostante i premi letterari locali dall’aria strana dove tutti gli ex vincitori e finalisti si ubriacano e si accoppiano per festeggiare, la poesia prolifica forse per effetto di un aleggiante spirito di fantascienza, così come le albe, i tramonti, la notte, le scale si umanizzano e cambiano forma e dimensione e aspetto plasmando il mondo dandogli un altro sapore e colore come fanno i versi delle poesie con le parole.
Ora se la lettura del testo è piacevole, da un punto di vista intellettuale la comprensione dell’insieme e del suo significato è difficoltosa e questo potrebbe togliere al lettore parte del gusto della lettura.
Azzardo un’interpretazione del testo. A me sembra che i tre amici siano eteronimi, siano la stessa persona riprodotta in un gioco di specchi simile, con diverso stile, a quanto faceva Pessoa con i suoi eteronimi ognuno dei quali aveva vita e modi propri. Questa interpretazione potrebbe essere suggerita dal fatto che Jan, lo scrittore di fantascienza, è Bolano (si firma alias Bolano) ma a parlare in prima persona è Remo. Il vincitore del più grande premio letterario cileno poi dovrebbe essere Remo o Arco. Non si capisce chi di loro.
Anche il rapporto tra Laura di Remo è particolare. Laura è chiamata da Remo la Principessa Atzeca, come la moto (rubata) che poi lui compra così come ruba Laura al compagno del momento. Il romanzo termina con le avventure amorose di Remo e Laura nei bagni pubblici dove tante persone vanno e vengono liberamente, anche senza bussare, dal loro bagno. A me hanno fatto pensare a idee di persone più che persone reali, a fantasie, a eteronimi che si infilano nel rapporto tra i due complicandolo così come succedeva tra Ofelia e Pessoa.
In effetti il romanzo anche se si intitola lo spirito della fantascienza e anche se riporta parte di capitoli di un romanzo di fantascienza parla molto più di poesia che di fantascienza. Jan sembra quasi Robinson Crusoe che scrive lettere nella bottiglia ai veri scrittori di fantascienza dalla sua isola sperduta dell’America Latina dove è l’unico scrittore di fantascienza esistente. Inedito naturalmente. Il suo docente di letteratura gli chiede dopo la lettura del suo romanzo molto preoccupato se per caso ha fatto uso di allucinogeni. Anche il fatto che non esca mai di casa, che stia sempre in quella soffitta, lui e le sue allucinazioni, a guardare quelle albe parlanti, gli strani tramonti, le notti che si riavvolgono come nastri è molto bello. Spiega come lo spirito di poesia nutra lo spirito di fantascienza dell’opera di Bolano che non troverebbe radici e comprensione, né altro tipo di nutrimento adatto nell’isola deserta dell’dell’America latina.
“Chi dobbiamo baciare affinchè si svegli e rompa l’incantesimo? La follia o la bellezza? La follia e
la bellezza?”
“Certo è dura. Cerco di imparare, studiare, osservare, ma torno sempre al punto di partenza: è dura e sono in America Latina, è dura e sono latinoamericano, è dura e per colmo di disgrazia sono nato in Cile, anche se Hugo Correa (le dice qualcosa?) potrebbe contraddirmi. Per quanto riguarda le lettere sono tutte rivolte a scrittori di fantascienza degli Stati Uniti; scrittori che suppongo ragionevolmente siano ancora vivie che mi piacciono come J. Tiptree Jr., T. Surgen, R. Bradbury, R.A. Lafferty, F. Leiber, A. Bester. (Ah, se potessi mettermi in comunicazione con i morti scriverei a P. Dick). Non credo che molte delle mie missive arrivino ai destinatari ma devo sperarlo con tutte le mie forze e continuare a spedirle……
…Vuole sapere perché scrivo lettere? Forse solo per rompere le scatole o forse no… Forse sono ammattito a forza di leggere romanzi di fantascienza…Forse queste sono le mie astronavi NAFAL. In ogni caso al di là di tutto la ringrazio infinitamente, Un abbraccio,
Jan schrella” (a Ursula K Le Guin)

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Lo consiglio ma non come primo approccio a Bolano.
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    16 Gennaio, 2018
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Il medico dei lebbrosi

Albert Schweitzer, uno dei protagonisti del testo teatrale, è un uomo esistito nella realtà, una figura carismatica e estrema che lasciò ogni cosa per mettere su un ospedale in Africa dove curare i lebbrosi. Ma uomini come Schweitzer sembrano curare più che il corpo, l'anima delle persone con cui vengono a contatto imprimendogli una specie di marchio per cui poi nonostante la propria natura limitata e egoista tali persone si sentono di non poter essere da meno del dottore e lo seguono malgrado la pochezza dei loro desideri e sogni assecondando il sogno altrui di un amor più universale.

Questo è quindi un libro sull'amore e sui diversi modi di intenderlo. Esiste tra tutti i modi un punto di incontro, quello che fa decidere all'infermiera Maria, che non si considera particolarmente caritatevole, di restare a prestare servizio nell'ospedale. L'amore diventa qualcosa di più grande dell'amore di coppia, anzi porta a sacrificare cioè a mettere in secondo piano l'amore di coppia per cui la presenza dell'altro diventa secondaria al pensiero dell'altro e l'amore alla fedeltà all'idea dell'Amore. Un amore personale sarebbe un tradimento all'idea più grande. E l'idea dell'Amore richiede il sacrificio personale e dei propri più piccoli sogni.
Il testo è bello e interessante, per quanto a me resta sempre difficile la lettura di un'opera teatrale rispetto alla normale narrativa con le sue descrizioni e il suo accompagnarti per gradi dentro la storia.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    09 Gennaio, 2018
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Bruttino

Il libro racconta una storia strampalata. All'inizio del romanzo compaiono due sorelle di cui una, Teresa Militollo, è una grande violinista. Il protagonista va al concerto di Teresa con l'amico Rikar che si commuove profondamente ascoltando la musica e lascia immaginare al lettore che tanta commozione celi qualche segreto legato alla violinista. Poi il nostro eroe scopre Rikar padre di due ragazze che però non sono le Militollo. Anzi le Militollo spariscono dalla scena senza lasciare traccia, anche se una delle due figlie di Rikar suona il violino nello stesso identico modo di Teresa. La storia è bruttina ma forse è esagerato parlare di storia. Verso la fine Stitfer vorrebbe improvvisare una o due storie d'amore dimostrando di saperne molto poco. Sembra il tipo che prende moglie come un altro si sceglierebbe il gatto. Bisogna dire che le descrizioni dei paesaggi montani sono belle e lì la passione per la montagna sembra autentica.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    22 Dicembre, 2017
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Re Davide

Torgny ripropone la storia biblica di Davide e Betsabea, facendone un romanzo. Io conosco poco la Bibbia. E' un tipo di testo la cui comprensione non è immediata e letterale ma richieda studio. E' un testo criptico che nasconde significati in immagini, numeri, citazioni e cose del genere. Torgny non mi pare che sia stato un lettore della Bibbia molto migliore di me. In effetti, il suo romanzo è molto piacevole ma dà l'impressione di banalizzare storia e personaggi. La lettura è comunque scorrevole per l'ironia leggera e gradevolissima. I personaggi però non hanno molto spessore. I personaggi maschili di sangue reale sono appiattiti dal richiamo del sesso e Davide stesso quando supera questo suo difetto, diventa comunque succubo di Betsabea che lo manipola e governa dietro le quinte. La donna, pur facendone di tutti i colori, resta un simpatico personaggio.
L''idea del re manipolato e manipolabile da donne intelligenti e belle è comunque ricorrente nella Bibbia: Acab con Getzabele, Davide con Betsabea e Erode ecc.... Spesso la donna come Eva è l'istigatrice al male e quella che porta il re lontano da Dio verso il peccato e l'idolatria.
Nel testo comunque peccato e idolatria (stupri, tradimenti, incesti) sono guardati con ironica simpatia. La crudeltà di Betsabea come quella di Davide ricordano la capricciosità dei bambini. Infantile sembra anche il rapporto con Dio e Dio stesso (se c'è. L'autore lancia l'ipotesi sotterranea che il Dio di Davide sia in realtà Betsabea stessa). Betsabea è crudele, intelligente, volitiva e pratica. Non ama il marito Uria, non ama nemmeno re Davide ma gli si concede per buon senso, dato che non sta bene rifiutare qualcosa al re. Nel romanzo sono descritti anche episodi terribili, stupri di sorelle e di matrigne, uccisione di fratelli e di amici ma tutto avviene in questo clima di infantile incoscienza.
Betsabea è certamente una donna castrante, forse per il fatto che per buon senso non nega mai niente a se stessa e agli altri e cerca di ottenere il massimo per sè da persone e situazioni. E' castrante verso il marito Uria, l'amante Davide e anche il suo dio di cui non ha alcun bisogno. Nel testo il Dio di Davide, sempre citato, non emerge più di tanto. Si capisce che Davide cerca di farlo fesso e Lui si lascia abbindolare dal suono dell'arpa e dal suo pentimento (che nel romanzo non sembra molto sincero). Infatti, nonostante tutto Dio concede a Davide Salomone come figlio (nonostante tutti i difetti di sua madre Betsabea) e gli promette di non estinguere la sua discendenza. Credo che la storia biblica sia stata trasformata in parte. Il finale è tenero, con il re morente che si scalda solo vicino a Betsabea e che muore tra le sue braccia.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    19 Dicembre, 2017
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Povera Grace

L’altra Grace è il più bel romanzo della Atwood. Ispirato a un fatto di cronaca, racconta liberamente una vicenda oscura di cui nella realtà mai si venne a capo riguardante un delitto che in Canada all’epoca aveva fatto scalpore: una serva aveva concertato l’omicidio del datore di lavoro e della sua amante d’accordo con un altro inserviente uomo. Il personaggio di Grace viene raccontato in modo toccante: la povertà, il duro lavoro, le angherie da parte del padre e dei padroni, le ingiustizie sociali, la morte della madre. Il personaggio è così “bello” che entra nel cuore. In tutta la storia Grace brilla vicino alle persone che la circondano per una particolare bellezza interiore. L’autrice l’accosta ad altri personaggi femminili della buona società per darle maggiore risalto con il gusto un tantino ironico e malizioso che la contraddistingue. Gli uomini nel romanzo tra tante dame in condizioni di netta inferiorità sociale, sembrano avere una marcia mentale in meno e ci fanno quasi tutti la figura dei fessi: manipolabili dalle stesse donne e comunque così schiavi del sesso che quando non sono schiavi delle donne, sono avvinti dalla malizia dei loro stessi pensieri morbosi, incapaci di riconoscere la verità e l’onestà. Grace fa loro in un certo senso da specchio per cui vedono in lei quello che c’è in loro stessi. Non è un caso che le persone che ne pensano bene sono le migliori. La conclusione della storia, è realista. Non un finale da favola ma per la povera Grace va bene lo stesso, perché chi ha attraversato l’inferno si accontenta: magari sognava l’amore da giovane, ma la pace è comunque un paradiso.
La parte più bella della storia è probabilmente quella iniziale. Sul finale l’autrice si fa prendere dalla malizia nello descrivere tutta una serie di signore bene e relative manovre: tutto piuttosto divertente.
Alcuni personaggi restano un tantino evanescenti: per esempio il mago. Avrei voluto qualche riga in più, resta un po’ troppo avvolto nel mistero lui e i suoi bottoni. Che significano quei bottoni? Ancora me lo sto chiedendo. Al di là del fatto che Grace sia colpevole o innocente, nel romanzo pare che ognuno veda in lei se stesso come in uno specchio: i peggiori ne provano repulsione, i meno maliziosi e portati al male la vedono innocente. Quando una persona è troppo buona, diventa uno specchio che rende agli altri la propria immagine indipendentemente dalle sue parole e azioni. E' questa la natura del male che gli altri vedono in lei.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    11 Dicembre, 2017
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Coraggio e grazia

Marylinne ci racconta la stessa storia di Casa e anche di Lila (in parte) cambiando l'angolazione cioè la voce narrante che qui è il reverendo Ames. Anziano e moribondo scrive per lasciare un'eredità spirituale al figlio. Scrive delle cose che per lui contano, quindi parla molto di Dio, della sua vocazione e della moglie Lila. Scrive con una punta di gelosia, dato che la moglie e il figlio, forse, nella sua bontà glielo augura, proseguiranno la loro vita con qualcun altro al loro fianco. Questa sottile gelosia si trasforma in gratitudine per la grazia e i doni ricevuti da Dio, dei quali il più grande è l'amore. Questo amore che il reverendo Ames ha ricevuto tardi lui lo augura agli altri, compresa la giovane moglie.
Il libro è una riflessione sulla grazia e sulla bellezza dei doni di Dio. Doppia grazia, nel senso che Dio dona anche il coraggio necessario per accettare i doni che fa. Il finale del libro è all'insegna della fede e della gratitudine e è anche un inno al coraggio.
Come lettura forse non è per tutti. Ma la Robinson ha la capacità, quasi la definirei la grazia, di farti entrare in un mondo migliore, lontano anni luce dal nostro e molto più umano e armonioso per quanto nel testo si accennino a problemi sociali quali la difficoltà a trovare lavoro e a portare avanti matrimoni misti (bianchi con neri). Ma sembrerebbe alla luce delle parole di Ames che se uno avesse solo un po' di fede e coraggio ogni problema troverebbe soluzione.
Il finale mi ha ricordato la chiusura del Diario del curato di campagna di Bernanos, con la stessa luce che viene dalla grazia.

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Lila e Casa
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    29 Novembre, 2017
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La tempesta nella tempesta nella tempesta

Seme di strega, figlio di malafemmina, che bella favola!
Il romanzo è, inutile dirlo, un omaggio alla Tempesta di Shakespeare che viene amplificata e riprodotta nella vita del regista teatrale della tempesta, Felix ovvero il signor Duke. Come Prospero, Felix (pure i nomi sono simili) è un mago dell'artificio teatrale. Come Prospero, Felix è stato tradito dal suo Antonio.Come Prospero Felix medita vendetta e per ottenerla si avvale della "magia" dando alla parola magia un senso più ampio. L'idea di ambientare il romanzo in una prigione, che poi sarebbe l'isola della tempesta nella tempesta, è molto bella anche perchè il romanzo è sì incentrato sulla vendetta ma soprattutto sulle prigioni. Nell'isola della Tempesta di Shakespeare ci sono infatti 9 prigioni. Le 9 porte delle prigioni vengono aperte una a una durante lo svolgimento del dramma fino alla nona porta, quella che tocca allo spettatore aprire. Nella realtà del romanzo l'ultima prigione è quella della mente e delle sue fantasie che intrappolano ricordi e ricordati. Il romanzo scorre come una favola. Ha una trama banale nella sua complessità. Cioè il livello di conoscenza di Shakespeare è altissimo, la descrizione del dramma e della scenografia interessantissima, la storia è però semplice e scorre come una favola a lieto fine con tutte le semplificazioni delle favole. E' molto liberatorio che il fulcro del romanzo che sembrerebbe essere la vendetta si sposti e diventi il perdono. Un perdono globale che coinvolge persino il pubblico nell'apertura della nona porta. Il romanzo non è realista, le situazioni non sono verosimili ma sono accattivanti.
E poi è molto bello vendicarsi e perdonare a pancia piena, cioè a vendetta riuscita, specie in periodo pre-natalizio.
Il mio personaggio preferito è certamente Ariel, lo spiritello compassionevole e misterioso che confonde realtà e sogni, schiavo ma desideroso della libertà e mai del tutto cattivo, anzi.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    26 Novembre, 2017
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Ogni uomo è bugiardo

Alla base dell’etica di Schopenhauer non c’è la ragione come nel pensiero di Spinoza, ma la compassione verso tutto ciò che è vivo e sofferente.
La mancanza di compassione quindi dovrebbe portare a un modo di vivere poco etico, amorale, lontano da ogni umanità. E di questa assenza di compassione è pieno il romanzo e soprattutto di questa amoralità, all’epoca inusuale (se non nella vita, almeno nei romanzi).
Keyla la prostituta, risulta il personaggio più positivo e affascinante del romanzo per la sua generosità e i suoi slanci di fiducia e di ingenuità, forse di candore che contrastano con gli anni di carriera professionale, e che nascono dal suo fortissimo desiderio di elevazione e di riscatto. Keyla ha diverse occasioni di riscatto. Prima di tutto il matrimonio con Yarme, che all’inizio del romanzo ama e da cui è amata. Purtroppo tutti gli uomini che si avvicinano a Keyla, anche se dicono di amarla, sono attirati soprattutto dal lato fisico del rapporto. Ma questo concedere troppo al corpo diventa una trappola e un imbuto che porta alla rovina. La passione si accende alla fine sempre nel suo senso più deleterio, di possesso di un oggetto che per essere sicuri di avere definitivamente bisogna distruggere e di depravazione. Gli uomini più importanti della storia sono tutti descritti come schiavi della passione, quindi non del tutto liberi, egoisti e meschini: tutti in un modo o nell’altro sfruttano Kejla e sono gelosi della sua rinascita; soprattutto Yarme, il marito, e il suo amico Max, contrastano la sua tensione verso l’alto che si esprime anche come tensione religiosa.
Nonostante la progressiva discesa nel fango, Kejla è l’unica che conserva parte della purezza che le viene dal buon cuore. La sua bontà le lascia fino alla fine la voglia di vivere che viene meno a tutti gli altri. Nel romanzo la passione ha una connotazione fortemente negativa, di tensione verso il fango e la depravazione. Viene descritta come forza che , se non le si oppone resistenza, spinge l’uomo a sprofondare.
Ma la capacità di opposizione e di resistenza manca a quasi tutti i personaggi, fatta eccezione per Solcha, la fidanzata.
Nel romanzo c’è un costante conflitto tra Dio che tace, facendo il suo mestiere come si dice spesso, e l’uomo che lo nega ma pur negandolo continua a sentire su di sé il Suo sguardo accusatore e che, come risposta a quello sguardo, vede come soluzione l’allontanamento o l’asservimento della prostituta sulle cui spalle viene lasciato il peso di ogni bassezza morale. La donna però è migliore degli uomini perché più umile e sincera e soprattutto più compassionevole. Anche l’altra donna, la fidanzata Solcha è una donna sincera e pronta a pagare di persona per le sue idee.
Il romanzo nelle sue prime pagine non mi ha convinto per la repentinità con cui i personaggi si abbandonano a debolezze e passioni e cambiano atteggiamento e modalità di relazionarsi tra loro. Alcuni di loro, Yarme soprattutto, ma anche Keyla, mi sono sembrati incoerenti. Ma accettato e digerito questo lato del loro carattere che compare soprattutto nelle relazioni che coinvolgono anche Max, poi il romanzo si accende e diventa appassionante come qualsiasi cosa scritta da Singer. Certo il lettore si irriterà un po’ con tutti gli uomini del romanzo e forse anche con Keyla. A tutti manca un minimo di spina dorsale, e quasi tutti sarebbero da prendere a schiaffi. Il romanzo però è proprio bello. Diventa andando avanti sempre più bello, colorato e pieno di poesia e di malinconia nonostante tutta la depravazione descritta. Il bello di Singer è che descrive le cose con quello sguardo compassionevole che rende tutte le vicende più vicine al lettore. Forse l’inizio sarebbe stato da rivedere, questione però di poche pagine.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    19 Novembre, 2017
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La vita dopo

Il romanzo ha certamente dei difetti, specie se lo si confronta con Quel che resta del giorno, capolavoro di una qualità altissima. Ma a me il gigante è piaciuto. La prima parte del romanzo è fiacca, gli episodi raccontati slegati e il linguaggio esageratamente cavalleresco e quasi camerieresco. Però dalla seconda metà la storia si fa coinvolgente, gli episodi si collegano fino ad arrivare al finale commovente. La storia è una metafora più che un fantasy vero e proprio. E' una ricerca interiore nella memoria con i suoi mostri, i suoi non ricordo e le sue trappole, attraverso un passato pieno di scheletri e di cose che si vorrebbero non accadute, e un mondo difficile in cui i nostri ideali, specie se politici come può essere la fedeltà a un re, tendono a deluderci, a tradirci o a renderci traditori. Fondamentalmente è un romanzo sull'odio sepolto ma ancora vivo che prenderà il sopravvento nel mondo, difeso da un debole incantesimo, e sull'amore che unirà gli amanti oltre la traversata. E' un romanzo che si sente pensato da una persona che si interroga sul dopo e sul prima come farebbe chi si accinge alla traversata e ha un grande amore da difendere.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    12 Novembre, 2017
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L'animale femmina

David Kepesh, docente universitario americano 62enne, spiega parlando in prima persona al lettore la sua strategia di caccia alla studentessa, caccia rigorosamente vietata nelle università americane,come ben sappiamo da Malamud e anche da Coetzee (Vergogna). La studentessa va infatti accalappiata a fine corso, solo e soltanto dopo l'esame. A tale scopo, una festa a casa del docente è una simpatica strategia. Il professore racconta nei dettagli la sua caccia a Consuelo, bellissima studentessa cubana. Il racconto e le descrizioni rendono perfettamente l'idea di come il professore rifugga il contatto umano e di come il rapporto sia rigorosamente basato sul sano appetito animale. Ogni altro elemento umanizzante è rigorosamente vietato. A tale scopo, ci sono dei ricordi di passate relazioni, tutte ugualmente e rigidamente improntate a un salutare e essenziale egoismo. Il tutto è descritto in modo brillante, preciso, forse irritante (volutamente). Probabilmente, tanto talento messo al servizio, di un appetito sembra sprecato. Bello il finale, in cui la malattia dell'animale Consuelo, fa nascere nel professore la tentazione di andare oltre il corpo e di guardare all'essere umano che abita l'animale. Ma al fianco del professore c'è sempre la voce del suo angelo custode che lo consiglia saggiamente e che non lo lascia mai: scappa finchè sei in tempo, o per te sarà la fine. E' strano come un uomo tanto amante della letteratura e della poesia, tenti di vivere in modo così totalmente alieno da ogni sentimento e da ogni relazione che non sia con il suo appetito.

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Malamud Le vite di Dubin
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    14 Ottobre, 2017
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La Riproduzione di stato

Il racconto dell'ancella è un romanzo distopico scritto da una donna per l'appunto, o meglio un'ancella cioè l'equivalente di una prostituta di stato. Prostituta dal punto di vista di lei, dal punto di vista del potere incubatrice anche se non madre dei futuri bambini dello stato. I figli delle ancelle le sono tolti alla nascita e affidati alle mogli. La teocrazia nasce in un periodo critico e dopo un forte calo di nascite. Si tratta di una dittatura maschile organizzata in modo che le donne possano ricoprire all'interno della famiglia diversi ruoli: Mogli, Ancelle o Marte (addette alla cucina). Oltre a queste ci sono le zie, troppo vecchie per rientrare negli altri ruoli. L'alternativa per loro è la morte. Nessun ruolo sembra migliore dell'altro. Un equivalente maschile delle zie sono gli Occhi, un sistema di spionaggio/polizia. Il regime è ben descritto in ogni particolare e viene ben reso il grigiore e l'impossibilità di scambiarsi liberamente opinioni oltre che di svolgere libere attività. Il regime è cementato da pubbliche esecuzioni o esposizioni di cadaveri di dissidenti. Sono giustiziati tutti i medici abortisti e i preti, dato che la vecchia religione è sostituita dalla nuova che usa la Bibbia ma a suo beneficio.
La vita di tutti i giorni è descritta alla perfezione. Il grigiore è però troppo compatto. Ogni azione apparentemente più umana ha sempre alle sue spalle un possibile tornaconto come movente. La mancanza di qualche luce spegne un po' la storia. Avrei voluto capire meglio cosa passava per la mente di tutti anche se alcune idee sono buone. Forse certe figure potevano essere meglio sfruttate. L'idea del comandante che sembra una persona qualunque invece è probabilmente uno dei leader della teocrazia; il fatto che voglia stabilire con l'ancella un rapporto amicale o di prostituzione più intrigante. Certe cose sono troppo vaghe. Tra l'altro molte storie restano sospese e questo a me non è piaciuto molto. Avrei preferito qualche luce e qualche filo di trama in più.

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Orwell
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    12 Ottobre, 2017
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L'immortalità letteraria: chi era Sordello?

Notturno cileno è un romanzo bellissimo come stile e profondo come contenuti ma non di facile comprensione sia per il fatto che ci sono molti riferimenti alla situazione politica e culturale cilena sia perché il romanzo sfugge già di per sé alla comprensione razionale sfociando in un fiume di immagini a volte oniriche e simboliche o di pensieri semi inconsci o anche in flussi di riflessioni filosofiche che svicolano dalla stretta razionalità. Molte immagini/scene/discorsi oltre che tingersi di surrealismo sono anche carichi di ironia.
Il libro parla dell’arte e dell’immortalità letteraria e il protagonista, l’io narrante è un prete-letterato-critico -modesto poeta ma uomo di grande cultura. Certe scene, anzi la maggior parte si svolgono nei salotti o a casa di critici famosi. Bellissima quella in cui il prete si trova a discutere con il critico di immortalità (letteraria): una immagine piena di ironia ma anche di senso di stanchezza per un mondo che spesso appare, pur nella difficile interpretazione delle pagine di Bolano, staccato dalla vita vera in modo doloroso e confinato in una specie di limbo che tende all’eternità. Tale eternità brilla in lontananza sullo sfondo della sua luce lunare come noia eterna. In un certo senso c’è per tutto il romanzo la sensazione di qualcosa di sbagliato. Di qualcosa di dolorosamente sbagliato che non è mai spiegato ma resta impresso come un’immagine o una sensazione onirica. Per esempio il giro del protagonista per le Chiese a valutarne lo stato. Le Chiese sono tutte protette dai piccioni e dalle loro pericolose deiezioni da un falco. L’immagine del falco è molto forte e suggestiva. Il falco che ghermisce il piccione /colomba fa un riferimento evidente allo Spirito Santo che viene ucciso e cacciato dalla sua dimora naturale. Altro riferimento è l’immagine dell’albero di Giuda in cui è appollaiato il falco nel sogno del prete-protagonista che rafforza e definisce meglio l'immagine simbolica del falco. Tradimento è il messaggio sottinteso. Ma tradimento da parte di chi e di cosa? Tradimento della vita, il continuo non vedere e tacere da parte del letterato (e anche del religioso) come se ci fosse una separazione tra letteratura/religione e realtà (Pinochet), che diventa avvallamento della menzogna e servilismo, cosa che rende la finzione letteraria ancora più falsa e vuota. Tradimento anche della religione (da parte di chi la rappresenta) nel suo vero spirito o comunque rinnegamento da parte dell’uomo di Cristo e del Vangelo ( il messaggio cristiano usa la bussola della verità). In questo senso Cristo sarebbe visto come centro e essenza della realtà e dell’umanità. Simbolica oltre che di un’ironia surreale la scena delle lezioni di marxismo impartite dal protagonista (che è un prete) a Pinochet e bellissime le righe in cui Pinchet e il protagonista guardano la notte e il prete-letterato spiega a Pinochet Leopardi traducendogli e spiegandogli L’infinito.
Pena di tutta questa vacuità è certamente la noia, la non esistenza, la scomparsa in una lapide marmorea che avviene dopo la morte e già prima attraverso le pagine di libri che sono già monumenti funebri di per sé.
Il libro è percorso dal ritornello: Sordin Sordello, ma chi era Sordello. Alla faccia dell’immortalità letteraria: pare che Bolano alluda a una doppia morte con quel ritornello: per sopravvivere (evidentemente per poco tempo) come mediocri letterati si muore pure preletterariamente come uomini.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    01 Ottobre, 2017
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Lasciami sognare per sempre

Questo testo è un commento al Don Chisciotte di Cervantes, un commento ironico e sottile. Le gesta del nostro eroe vengono paragonate a quelle di Teresa d'Avila e soprattutto di S. Ignazio di Loyola. S. Ignazio e don Chisciotte sono infatti molto simili per gusti, aspirazioni (iniziali) amore per il poema cavalleresco, desiderio di imprese eroiche, carattere focoso,eccetera... Solo che poi le strade dei due eroi divergono drasticamente. S. Ignazio sostituisce la fama con la fame (digiuni e penitenze), la gloria con il servizio, e Dulcinea con la croce. I primi capitoli sono molto brillanti e l'accostamento dei due eroi smaschera le ambizioni umanissime e l'idealismo misero del nostro eroe. Immaginavo che il libro continuasse così. Invece, poi Unamuno rivaluta il povero eroe. Infatti, Unamuno è così disgustato dalla realtà e dall'ignobile buon senso e dal pragmatismo meschino dei suoi seguaci, che qualsiasi folle sognatore è per lui un eroe poco da meno di un santo. Infatti, se è vero che esiste una scala di eroismo e di idealismo e anche di follia, e se è vero che la follia della croce è al primo posto, e che Cristo con tutta la follia e la fantasia possibili, certamente non aveva il bell'aspetto di Dulcinea, è anche vero che staccarsi dalla realtà è comunque un atto di eroismo. Il testo diventa un'apologia del sogno.
Unamuno non so se sia religioso, probabilmente lo è come il suo Manuel Bueno, cioè in modo tutto suo. E' così certo dell'irrealtà del reale, da dover cercare altrove la sua realtà. Da lì gli viene la fede, dalla mancanza di fede in ciò che tocca e vede. Afferma infatti che noi potremmo essere sogni di Dio, il Sognatore.
"La vita è sogno!E' forse un sogno, Dio mio, anche questo Universo di cui tu sei coscienza eterna e infinita? E' forse un tuo sogno? Non è che tu ci stai sognando?Siamo un sogno, un sogno tuo, noi sognatori di vita? ....Non sarà mica la bontà sintomo della veglia nell'oscurità del sogno?E' mille volte meglio fare del bene piuttosto che indagare sul tuo sogno e su quello nostro sondando l'Universo e la vita.
....perchè anche nei sogni non si perde il far bene.
Invece d'indagare se quelli che ci appaiono terribili e minacciosi siano mulini o giganti, attacchiamoli seguendo la voce del cuore, giacchè ogni slancio generoso trascende il sogno della vita."

Il testo termina avvicinando ulteriormente le due figure che all'inizio sembravano ridicolmente distanti. Del resto anche se S. Ignazio da morto ha fatto molti miracoli e don Chisciotte nessuno, è anche vero che il più grande dei santi (Giovanni Battista), nemmeno lui ha fatto miracoli. E è anche vero che Don Chisciotte ha fatto il miracolo di convertire il pragmatico realista Sancho ai suoi sogni e alla sua follia.
"Solo colui che mette alla prova l'assurdo è capace di conquistare l'impossibile".
Bella l'immagine finale del sogno come la fiammella che illumina le tenebre e si spegne finchè non si riaccenderà per sempre. In effetti se la "realtà" è sogno anche lo spazio-tempo non è che la gabbia che contiene morte e vita e che si attacca a Dio infinito e coscienza dell'Universo.
Il testo si conclude con una citazione dell'Iliade:
"A regnar, fortuna, andiamo; non mi svegliar se dormo, e se è verità non mi addormentare."

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    29 Settembre, 2017
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La verità e la conoscenza

Questo libro io l'ho trovato difficile, e secondo me pone interrogativi più che dare soluzioni. Del testo il percorso personale di conversione di Agostino non mi ha interessato molto. Di lui quello che colpisce è il percorso mentale di ricerca. Ci sono alcuni filosofi che indagano la realtà non per arrivare a uno status di sapiente o di docente, cioè non per arrivare a una posizione sociale. La ricerca e la conoscenza della verità per loro sono implacabili e da qualunque punto partano sembrano arrivare allo stesso obiettivo ( conversione di Agostino, Edith Stein). Io non ho niente in comune con persone così, nel senso che la conoscenza non è tra i miei obiettivi, anzi la considero al di sopra delle mie forze e possibilità mentali. Però ho una certa ammirazione per gente che non si arrende e si dedica a queste scalate mentali. E' possibile seguire il loro percorso abbastanza agilmente, nel senso che il ragionamento e la catena di pensieri di Agostino si segue bene però a me ha posto più interrogativi e curiosità di quante sono le sue risposte. Forse uno dovrebbe leggere l'opera omnia e poi se basta. L'interrogativo maggiore è certamente il mistero del male per me. Se Dio è il Tutto e il resto è il nulla, da dove nasce la volontà attiva di male?
Comunque nei testi dei filosofi o di gente come Agostino la cosa più apprezzabile è certamente la chiarezza di pensiero e l'onestà intellettuale. Ma il percorso della conoscenza di Agostino mi pare piuttosto arduo da seguire.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    29 Settembre, 2017
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Io e la montagna

Il rapporto con la montagna è qualcosa di più del rapporto con la natura. La scalata della montagna oltre che luogo materiale è soprattutto il luogo simbolico della ricerca di se stesso e di Dio e forse per questo il compagno di scalata è un amico diverso dall'amico del bar o di città. Il titolo le otto montagne richiama proprio questo aspetto di ricerca e di cammino esistenziale-spirituale. Le otto montagne infatti rappresentano un mandala. L'ottava montagna, la più alta, sta al centro del disegno.
A me il romanzo è piaciuto moltissimo, sia perchè vero nel senso che ho avuto proprio l'impressione che la storia nasca dal vissuto dell'autore, sia perchè vero è il rapporto con la montagna e lo si percepisce dalle descrizioni bellissime. Luoghi e persone sono aspri allo stesso modo, pieni di silenzi e di mistero.
In questo periodo ho letto anche altri libri con questa dimensione della montagna (ad esempio San Giovanni della Croce) e credo che la ricerca interiore passi per questa salita dura nella solitudine per molte persone.

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Tetano
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    03 Agosto, 2017
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Ho sognato che il capo era pazzo

Che romanzo! Che lacuna non conoscere questo autore!
In un paese norvegese, durante la guerra arrivano gli invasori che si stabiliscono a casa del sindaco. Tra il sindaco Orden e il colonnello Lanser capo delle truppe nemiche si stabilisce un'intesa basata sulla comune intelligenza e limitata dalla consapevolezza che ognuno farà il suo dovere. Gli assedianti sono pochi e diventano da assedianti loro stessi assediati, più soli degli altri. Ogni volta che uno di loro si fa tentare da un sorriso o da una donna fa una brutta fine. Nel romanzo c'è tutto: ambizione che spinge al tradimento e intelligenza che fa da antidoto alla paura e intelligenza che rende spettatori del proprio ineludibile destino. Il romanzo è un inno alla libertà e l'inno alla libertà, la consapevolezza di voler 'essere spiriti liberi spinge a superare i limiti dell'umano, soprattutto la paura. Perciò il sindaco Orden, misero sindaco di un insignificante paese saluta il lettore con le parole di Socrate, le parole misteriose che Socrate disse al suo discepolo Critone in punto di morte:"Critone, debbo un gallo ad Asclepio".
E Critone, nella storia il medico Winter, risponde: "Il debito sarà pagato".
Nel romanzo il gallo da sacrificare è lo stesso medico, amico intelligente del sindaco, anche lui disposto a tutto pur di non rinunciare alla libertà di spirito. Il titolo del romanzo, la luna è tramontata, richiama al gallo, che non canterà. Ma l'alba arriverà lo stesso in punta di piedi senza essere chiassosamente annunciata.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    31 Luglio, 2017
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L'altrove

Sogni ardenti di qualcos'altro! Frenesia di andare via,(OH, onda che in me s'ingrossa!)via dalla vita, dove la vita deve rimanere-vita sempre fino a oggi!Altre cose e altri luoghi!Non una vita! Non la mia almeno!Oh, essere il vento, un'ala,un
Oh, essere il vento, un'ala,
un veliero che mi portino lì!
Dove? Se lo sapessi,
non ci vorrei andare.

Le poesie esprimono la nostalgia dell'Altrove e di Dio. Parlano quasi tutte di questo anche se non sono poesie religiose in senso classico. C'è una grande nostalgia del paradiso perduto, come se un'anima fosse tornata dal paradiso per scrivere questi versi e ora si trovasse nella condizione di ricordare quello che ha lasciato pur nell'incertezza che il Paradiso sia ancora lì per lui. Da qui il termine "pazzo" riferito al violinista. Il termine violinista poi fa pensare al pifferaio, alla musica che ammalia e può trascinare verso la distruzione con un potere che non è totalmente buono. In uno dei racconti di Pessoa la musica è appunto una delle invenzioni del diavolo. La musica del violinista esprime comunque, come le poesie di Pessoa, nostalgia e la direzione di marcia del violinista dovrebbe essere l'Altrove perduto pur essendo fortemente tentato dall'abisso e dal nulla.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    28 Luglio, 2017
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Le ambiguità dell'amore

Questo romanzo potrebbe essere considerato il negativo della sorella. Mentre nella sorella il protagonista preferisce all'amore il Sacrificio, una scelta quasi mistica, in questo romanzo il protagonista si orienta invece verso l'amore (fisico) perseguendo la sua scelta fino alle conseguenze più estreme in una modalità difficile da comprendere per il lettore. il professor Victor Henrik Askenasi ci racconta di come abbia lasciato per amore la bellissima moglie e la figlia per le quali non provava più nè affetto nè interesse. E in questa totale mancanza di interesse troviamo uno dei sintomi della malattia dell'anima che lo colpisce. Gli amici lo accusano di non essersi preso un'amante come fan tutti ma di voler per un suo idealismo, portare la relazione fino alle estreme conseguenze: abbandono della famiglia e nuovo matrimonio. La reazione di scandalo è molto borghese e benpensante. Nessun si preoccupa di altro che della forma e non delle persone coinvolte. Quello che emerge è che nella nuova relazione non c'è traccia d'amore ma solo la ricerca del piacere fisico portata fino all'estremo. Quasi all'estremo anzi, vedendo il seguito. In realtà il professore non esita a lasciare anche la nuova amante quando è stato traghettato fino al punto in cui poteva arrivare, dopo aver esplorato i limiti di questo nuovo rapporto e del piacere sensuale che poteva procurargli. La ricerca del piacere porta il professore oltre il limite (vedi la bestia umana) ad esplorare le radici dell'amore che sono radici perverse e di morte. A fine libro ci troviamo in una situazione simile alla sorella, il bivio, le due strade, quella esplorata e l'altra di cui si vede solo un breve tratto, e di cui si indovina una maggiore serenità. La via della materia porta alla morte e non all'amore, il professore forse solo meno facile da accontentare del lettore, ma non diverso da lui, è stato ingannato. Si sente ingannato. Il finale è di redenzione almeno in parte.

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La bestia umana di Zola, la sorella.
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    22 Luglio, 2017
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Uno, nessuno, centomila

Una sola moltitudine è una raccolta di poesie e scritti di vari eteronimi di Pessoa e vuole dare una idea di come la personalità dell’autore sia poliedrica. Pessoa è un contenitore di gente, i suoi eteronimi, con carattere, gusti, biografia e persino calligrafia diverse. La giocosità sotterranea con cui gli eteronimi discutono tra loro delle reciproche opere fa pensare che non solo il dolore ma anche la schizofrenia artistica con relative personalità multiple sia un prodotto artificiale della mente geniale di Pessoa. Gli eteronimi si differenziano nella personalità e quindi nel modo di scrivere e persino di guardare il mondo: Pessoa è affetto da un tedio paralizzante che lo induce a non volere nulla che non sia scrivere, De Campos è apparentemente più pratico, diretto e forse cinico, ma a me non dispiace, e Caeiro è il più bucolico e virgiliano in un certo senso, tutto pecore, vento e nuvole e cielo. Ci sono lettere in cui l’eteronimo discute l’opera letteraria dell’altro eteronimo dando l’idea della “moltitudine” ma soprattutto della solitudine da cui scaturisce questo fitto dialogo di più menti in una, da cui il titolo della raccolta. Dio, regno, peso di vivere sono i temi più presenti. Il regno a volte è quello del re Sebastiano (quello che sparì anche nella canzone di Guccini) di cui Pessoa si sentiva la reincarnazione o qualcosa del genere. Fa parte della sua difficoltà di vivere la difficoltà di amare e di avere sentimenti che in lui nascono principalmente dall’intelletto e non dalla sofferenza del vivere. La sofferenza è stata inglobata dall’ambiente estetico irreale in cui l’autore si è chiuso e quindi anche la vera sofferenza dell’autore è diventata letteraria e “finta” (anche se vera) e il suo dolore è di natura soprattutto intellettuale (tedio) come è spiegato nella famosa poesia Il poeta è un fingitore. Per lui la scrittura nasce da una tomba esistenziale spazio temporale esclusivamente dedicata all’arte e non dalla vita reale. Scrivere per lui significa vivere in una specie di acquario fatto di solitudine e letture e amici immaginari. Nell’arte la verità è il lievito dell’opera e non deve mai mancare, almeno così pensavano molti artisti “maledetti”. Certo la scrittura come la lettura ti rapisce dal mondo e non è facile avere il senso della misura. Ma, Pessoa non potrebbe nemmeno volendo ragionare così a proposito dell’arte dato che per lui la vita è sogno, quindi in ogni caso finzione e la vera realtà è altrove. E’ come se vivendo fosse stato calato nella finzione letteraria da un dio scrittore, come immaginato anche da Unamuno. Non ha altra scelta che lasciarsi vivere perché tanto, ogni cosa è stata decisa a tavolino dal dio della penna, e l’uomo non può che aspettare l’ultima pagina.
In tale finzione nella finzione, Careiro/Pessoa precisa che non è nemmeno se stesso perché si sente malato e essendo malato tutto quello che pensa e che dice è detto al contrario di come è, cioè è tutto un gioco del rovescio (da cui il romanzo di Tabucchi Il gioco del rovescio). Insomma è come se Pessoa facesse l’occhiolino ai lettori da una delle sue poesie suggerendogli: non vi preoccupate troppo per me o per quello che vedete/leggete/sentite e non prendetemi troppo sul serio. Io sono un altro. Io so chi sono, siete voi che non lo sapete e ora mi vedete al rovescio.

Sento orrore
Al significato racchiuso
In occhi umani…
Sento necessario
Nascondere il mio intimo agli sguardi
E alle inquisizioni degli sguardi;
non voglio che nessuno sappia ciò che sento,
oltre che non poterlo confidare a nessuno…
(F. Pessoa)

La luce della luna, quando batte sull’erba,
non so cosa mi fa ricordare…
Mi ricorda la voce della vecchia domestica
Che mi raccontava novelle di fate,
e di come la Madonna vestita da mendicante
girava la notte per le strede
soccorrendo i bambini maltrattati…
Se non posso più credere che ciò sia vero,
perché batte il chiaro di luna sull’erba?
(A. Caeiro)

Rientro e chiudo la finestra.
Mi portano il lume e mi augurano la buona notte.
E la mia voce contenta augura la buona notte.
Possa la mia vita essere sempre questo;
il giorno pieno di sole, o soave di pioggia,
o tempestoso come se finisse il Mondo,
la sera soave e i gruppi che passano
guardati con interesse dalla finestra,
l’ultimo sguardo amico dato alla calma degli alberi,
e poi, chiusa la finestra, acceso il lume,
senza leggere niente, senza pensare a niente, senza neppure dormire,
sentire la vita scorrere in me come un fiume nel suo letto.
E là fuori un grande silenzio come un dio che dorme.
(A. Caeiro)

La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto, sento i tuoi passi,
esistere come io esisto.
La terra è fatta di cielo
Non ha nido la menzogna.
Mai nessuno s’è smarrito.
Tutto è verità e passaggio.
(A. De Campos)

Grandi misteri abitano
La soglia del mio essere,
la soglia dove esistono
grandi uccelli che fissano
il mio tardivo andare aldilà di vederli.

Sono uccelli pieni di abisso,
come ci sono nei sogni.
Esito se scandaglio e medito,
e per la mia anima è cataclisma
la soglia dove essa sta.

Allora mi sveglio dal sogno
E mi rallegro della luce,
seppure di malinconico giorno;
perché la soglia è paurosa
e ogni passo è una croce
(A. De Campos)

Le 4 canzoni che seguono
Si separano da tutto ciò che penso,mentiscono a tutto ciò che sento
Sono il contrario di ciò che io sono…
Le ho scritte quando ero malato
E perciò esse sono naturali
E concordano con ciò che sento,
concordano con ciò con cui non concordano…
Quando sono malato devo pensare il contrario
Di ciò che penso quando sono sano.
(Altrimenti non sarei malato),
devo sentire il contrario di ciò che sento
quando sono in salute
devo mentire alla mia natura
di creatura che sente in un certo modo…
Devo essere completamente malato-idee e tutto.
Quando sono malato, la mia malattia non è altro che questo.
Perciò codeste canzono che mi rinnegano,
non mi possono rinnegare
e sono il passaggio della mia anima di notte,
lo stesso paesaggio al rovescio….
(A. Caeiro)

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    17 Luglio, 2017
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La cura della solitudine

Il romanzo è molto bello, sia come stile che come storia e originalità nel pensiero e nel modo di vedere la vita pieno di durezza, di ruvidezza, di malinconia e di profonda nostalgia. Queste ultime note sono le più interessanti. La storia parla di amori difficoltosi e di amicizia mal ricambiata. I protagonisti sono 4 ragazzi, Ruju, orfana ospitata dalla famiglia di Shaoai per motivi di studio, Shaoai espulsa dall’Università per motivi ideologici, ribelle e scontenta ma anche prepotente e dura. Boiang intelligente e ricco, viziato dalla famiglia e dalla natura. Infine Moran, senza doti particolari se non una esagerata bontà e amore per gli altri, dote che la rende incapace di stare al mondo, in un mondo di predatori di cui non capisce il linguaggio.
Il romanzo parla della mancanza di profondità degli affetti, di come il sentirsi un oggetto anziché una persona faccia diventare “l’affetto” altrui un peso insostenibile, anzi una prigione , rispetto alla quale la nudità della solitudine è consolatoria. I personaggi sono tutti interessanti: dalla vittima scontenta e a sua volta predatrice (Shaoai), dall’orfana che non ha appreso l’abc del linguaggio degli affetti o le regole per stare al mondo (Ruju) e che vive in una desolante nudità e trasparenza di pensieri, senza apparente gentilezza; dal ricco dissipatore anche in campo affettivo (Boiang) abituato a raccogliere come naturalmente dovuto l’affetto altrui e infine Moran con una stima di sé troppo bassa per dare un qualche valore positivo alla sua bontà. Moran è il vero capro espiatorio. In un certo senso tutti i personaggi sono tagliati per la solitudine meno lei, affettuosa e buona. Moran è costretta dagli eventi all’esilio dagli affetti e a una solitudine per lei innaturale, alleviata solo alla fine dal conforto dell’ex-marito che si consente per dare conforto a lui, più gentile della solitudine almeno lui.
Tenero il fatto che Moran cerchi nel marito molto più anziano di lei una famiglia e un focolare ma che scappi da lui dopo averlo trovato, forse per non sottrarsi alla pena che si è auto inflitta. Bello il fatto che persino l’egoista Boiang ripercorra i ricordi con nostalgia del paradiso perduto dell’amicizia incontaminata e dell’innocenza.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    17 Luglio, 2017
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La mia anima è stanca della mia vita

Leggendo il libro dell’inquietudine ho capito come Tabucchi possa essersi così totalmente infatuato di Pessoa. I pensieri sono originali. Hanno le ali della poesia ma anche la riflessività, la malinconia di una prosa in cui il sentimento nasce dal pensiero e non viceversa. Non per nulla i pensieri sono attribuiti all’alter ego Soares che dell’autore è un eteronimo dalla personalità mutilata dell’affettività e del raziocinio. La mutilazione dell’affettività è evidente in molti frammenti soprattutto nella seconda metà del libro mentre la mutilazione del raziocinio emerge dal sintomo del tedio. Al tedio Soares si abbandona a corpo morto in modo non ragionevole. Forse Soares è soprattutto la proiezione estetica dell’autore, una specie di Kierkegaard relegato alla vita estetica.
L’autore vive annullandosi: non è attirato dalle cose ma nemmeno dagli affetti. E’ così abituato a vivere separato dagli altri da far fatica a percepire le emozioni. Le emozioni nascono in lui non dalla vita ma dall’intelletto.
Questo suo modo di affrontare il mondo crea separazione. E’ come se immaginasse di vivere la sua vita e perciò la percepisce falsa e è affetto da un tedio incurabile.
Il poeta è un fingitore
finge così totalmente
da fingere che è dolore
il dolore che davvero sente

Allo stesso tempo il suo distacco assomiglia al distacco dei mistici che hanno intuito la vacuità del mondo.
In Pessoa c’è il rifiuto in toto della materia, la consapevolezza della inconsistenza delle ricchezze (soldi, onori, possessi). Questa consapevolezza che porta gli uomini d’azione come sono i santi verso l’infinito, porta gli uomini di non azione come lui all’infinitesimale, cioè al nulla. O forse il nulla è la tentazione degli uomini come lui.
I pensieri di Pessoa hanno una radice religiosa molto forte anche se non appariscente. Contengono una possibilità religiosa e la certezza della pochezza della natura umana.
“Ho considerato che Dio, pur essendo improbabile, potrebbe anche esistere
e che, pertanto, si poteva adorare; ma che l’Umanità, essendo una mera idea biologica, e non
significando altro che la specie animale umana, non era degna di adorazione più di qualsiasi altra
specie animale. Questo culto dell’Umanità, con i suoi riti di Libertà e di Uguaglianza, mi è sempre
parso una reviviscenza di culti antichi, in cui degli animali erano come dèi, o gli dèi avevano teste
di animali.”
Molti pensieri nascono dallo sconforto della distanza tra mondo (il sogno) dalla realtà altra e forse nascono dalla percezione di questa distanza come incolmabile. Il mondo come nei mistici è sentito come un riflesso di qualche raggio spirituale che illumina la materia e l’uomo dandogli vita e bellezza. Il corpo dell’uomo è appunto un sacco di merda, un vestito che si indossa per entrare nel sogno. In un certo senso questa idea di essere il sogno di Dio c’è anche in Unamuno e è un’idea estremamente affascinante anche per la distorsione che il sogno produce nella mente del sognatore soprattutto sul piano dei valori. Tale distorsione giustificherebbe a livello ipotetico una logica come quella cristiana (non che Pessoa sia interessato a farlo, l’idea è solo un accenno che sta al lettore sviluppare). In ogni caso nel corso dei secoli sogno e realtà seguono percorsi divergenti. La distanza tra loro si acuisce con il passare dei secoli (man mano che ci si allontana dalla nascita di Cristo). Implicitamente pare che Cristo abbia voluto fissare la geografia esatta di sogno e realtà che poi si è persa nei secoli. Il romanticismo ad esempio ha portato a una degenerazione del pensiero confondendo ciò che è necessario all’uomo con ciò che egli desidera, portando l’uomo a volere le due cose con la medesima intensità causando una malattia dell’anima.
C’è in Pessoa un profondo disagio nell’indossare il proprio “abito”, una intensa malinconia. Sa di sognare un sogno e questo gli impedisce di viverlo come fan gli altri e allo stesso tempo è stanco di vivere di sogni e non ricorda più il mondo reale. C’è una stanchezza che non è depressione ma rimpianto, nostalgia e consapevolezza di essere diverso dagli altri e forse di non essere amato nel suo essere diverso. Ma questo lo porta passo dopo passo all’ atrofizzazione della sua anima che a un certo punto sembra perdere la capacità di soffrire che è molto intensa nei primi frammenti di brani (i miei preferiti).
“La mia vita è come se con essa mi picchiassero”.
“ Il cuore, se potesse pensare, si fermerebbe.”
“All’improvviso sono solo al mondo, lo vedo da un tetto spirituale”.
“Sparirò nella nebbia, come uno straniero a tutto, isola umana separata dal sogno del mare e nave
con un essere superfluo sulla superficie di tutto.”
C’è la consapevolezza della propria superiorità, superiorità che lui vede realizzarsi in modo mistico nella abdicazione al trono che gli spetterebbe. Non per niente molti suoi testi sono postumi. Ha una visione cristologica della corona del sovrano come corona di spine.
E’ un sognatore vero con una mentalità poco pratica. Passa tanto tempo in caffè immaginari a imbastire con amici immaginari conversazioni su svariati argomenti: questa abitudine al sogno lo porta a sentire sempre più ferocemente l’irrealtà e il distacco dal mondo come se ci fosse uno scollamento e la vera realtà fosse solo quella interna. In ogni caso Pessoa suscita simpatia e rispetto nella gente e questo fa sì che nessuno arrivi mai a conoscerlo troppo a fondo. La sua eccessiva sensibilità lo ha portato a uno stato di dissociazione psichica permanente che non gli fa sentire il mondo se non attraverso i propri sogni frapponendo un muro protettivo tra sé e gli altri. La protezione costa cara, costa il tedio e la solitudine e a volte la stanchezza stessa come una specie di nausea dei suoi stessi sogni e il sentire lo scrivere come necessità, quindi come maledizione. Allo stesso tempo c’è la nostalgia del mondo reale-altro (non della realtà del mondo), in cui tra sé e gli altri non c’erano barriere. In un certo senso la vita è una forma più perversa e intellettuale di crocefissione. Il tutto è aggravato dalla semiconsapevolezza si essere responsabile in parte dei propri meccanismi psichici di difesa.

“Che mattino questa angoscia! E che ombre si allontanano? E che misteri si sono manifestati?
Nulla: il rumore del primo tram come un fiammifero che illuminerà l’oscurità dell’anima, e i passi alti del mio primo passante che sono la realtà concreta che mi suggerisce, con voce amichevole, di non essere così.”

In certi momenti lo assale anche il dubbio dell’inutilità del suo sforzo “mistico”, lo afferra la paura o la tentazione del nulla. L’idea di un inferno che è nullificazione dell’uomo nel persistere della coscienza, come se l’anima potesse essere sepolta viva in una bara.
Tutto quello che ci circonda diventa parte di noi, si infiltra nella nostra sensazione della carne e della vita e, come il muco del grande Ragno, ci unisce sottilmente a quello che ci sta vicino, legandoci in un leggero letto di morte lenta, dove dondoliamo al vento. Tutto è noi, e noi siamo tutto; ma questo a cosa serve, se tutto è niente? Un raggio di sole, una nuvola che l’ombra improvvisa ci dice che passa, una brezza che si leva, il silenzio che segue quando questa cessa, un volto o un altro, delle voci, il riso occasionale tra quelle che parlano, e poi la notte dove emergono senza senso i geroglifici spezzati delle stelle.


Leggere i pensieri di Pessoa è come passeggiare in un bosco d’autunno, sulle foglie morte. Le foglie ancora rosse e gialle danno una malinconica idea di una sofferenza passata e di una sensibilità che si sta spegnendo in un’anima morente in quanto staccata dalla sorgente della sua sofferenza e di ogni suo impulso vitale. Molti pensieri, soprattutto nella seconda metà del libro, hanno perso i loro colori, la loro malinconia o nostalgia come pure l’impronta poetica e bellissima della sofferenza da cui scaturiscono e si nota un raggelamento dell’ideazione che porta a una intellettualizzazione del pensiero che si specchia su se stesso . E’ come se l’anima si fosse poco a poco distaccata e persa sempre più in un mondo suo senza più sentire la nostalgia della vita. Resta qualcosa di freddo che mi fa ripensare all’invenzione di Morel. La sensazione è che nel vuoto dell’anima che si è fatto assenza, senza più nemmeno la percezione dolorosa del vuoto, si sia insinuato un astratto nulla anestetizzante ogni pensiero. Il tedio assoluto è diventato dolore senza nessunissimo dolore e perciò ha perso carne e sangue per diventare un minerale, qualcosa che si può guardare con distacco. Il rischio del distacco completo dal mondo è l’astrattezza per cui l’arte diventa una lapide (l’invenzione di morel).
Nostalgia! Ho nostalgia perfino di ciò che non è stato niente per me, per l’angoscia della fuga del tempo e la malattia del mistero della vita.
Volti che vedevo abitualmente per le mie strade di sempre – se smetto di vederli mi rattristo; eppure non sono stati niente per me, se non il simbolo di tutta una vita.
Il vecchio anonimo dalle ghette sporche con cui m’incrociavo spesso alle nove e mezzo del mattino? Il venditore zoppo dei biglietti della lotteria che mi importunava inutilmente? Il vecchietto rotondo e paonazzo col sigaro in bocca sulla soglia della tabaccheria? Il pallido padrone della tabaccheria? Che ne è di loro che, solo per averli visti e rivisti, sono diventati parte della mia vita?
Domani anch’io scomparirò da Rua da Prata, da Rua dos Douradores, da Rua dos Fanqueiros. Domani anch’io – la mia anima senziente e pensante, l’universo che io rappresento per me stesso – sì, domani anch’io sarò uno che ha smesso di passare per queste strade, che altri evocheranno vagamente con un «che ne sarà stato di lui?».
E tutto ciò che adesso faccio, tutto ciò che sento, tutto ciò che vivo, non sarà altro che un passante in meno nella quotidianità delle strade di una città qualsiasi.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    07 Luglio, 2017
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il saluto ai suoi altri sè

Una idea geniale per un breve racconto: al capezzale del grande Pessoa accorrono i suoi eteronimi per dargli l'ultimo saluto come vecchi amici. Un racconto alla Tabucchi, poetico, irreale, bellissimo. Ogni frase dice più di quello che dice, è piena di echi. I dialoghi sono semplici e la prosa è una specie di poesia in prosa della vita. Solo Tabucchi riesce a scrivere così. E' talmente originale che gli si perdona tutto dalla mancanza di senso, alla perdita del sottile filo logico, alla mancanza di coerenza nei discorsi. E' bello così. Anzi è perfetto così.

E poi, sai, tutte quelle lettere d'amore che le hai scritto sono ridicole, io credo che tutte le lettere d'amore sono ridicole, insomma ti ho difeso dal ridicolo, spero che tu me ne sia grato.
Io l'ho amata, sussurrò Pessoa.
Di un amore ridicolo, replicò Alvaro de Campos.
Sì, certo, può darsi, rispose Pessoa, e tu?
Io? disse Campos. Io, beh, io ho l'ironia, ho scritto un sonetto che non ti ho mai fatto vedere, parla di un amore che ti imbarazzerà, perché è dedicato a un giovanetto, un giovanetto che ho amato e che mi ha amato in Inghilterra, insomma,dopo questo sonetto nascerà la leggenda dei tuoi amori rimossi, e per alcuni critici sarà la felicità.
Hai veramente amato qualcuno?, sussurrò Pessoa.
Ho veramente amato qualcuno, rispose a bassa voce Campos.
Allora ti assolvo, disse Pessoa, ti assolvo, credevo che nella vita tu avessi amato soltanto la teoria.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    29 Giugno, 2017
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Bello il libro, bellissimo il film

Enrico Olivieri, segretario del maggior partito d'opposizione, credo il partito socialista, dopo una spiacevole contestazione e conseguente crollo di consensi, si allontana senza dare spiegazioni a parte un misero biglietto, lasciando il suo partito nei guai. Unica soluzione sembra al braccio destro del segretario, il fedele Bottini, sostituirlo con il fratello gemello, brillante filosofo e letterato. Il fratello Giovanni detto Ernani, appena uscito da un manicomio, pare la versione migliore del politico avendo dalla sua una affascinante verve luciferina. Mentre Enrico era di una onestà deprimente, un pessimo comunicatore, l'opposto si può dire del fratello gemello. Brillante, colto, usa le parole per dire e non dire lasciando un velo di sottintesi che prendono all'amo l'interlocutore. Il romanzo ripropone il copione di Oltre il giardino, con il novello Chance che invece che citazioni botaniche fa citazioni letterarie e filosofiche acutissime, che spiazzano l'interlocutore.

A Enrico verrà detto da un esperto di comunicazione :
"Lei è uno dei pochi che abbia cercato di praticare una politica anticomunicativa, e così facendo si è sottoposto a un calvario ulteriore: non solo a quello implicito nella sua parabola di potente, anche a quello di chi da potente vuole disfarsi del carisma."
Credo che Andò abbia voluto accostare la figura del grande politico perdente, Enrico Olivieri appunto, a quella di ALdo Moro, che lui definisce il peggiore comunicatore della storia. Pessimo comunicatore perchè onesto, quindi triste, quindi costretto a togliere illusioni alla gente che chiede alla politica nuove illusioni.
"Noi uomini politici di un’epoca post-politica siamo solo capaci di amministrare l’esiguità di un margine talmente stretto da somigliare al nulla. Adeguandosi a questo nulla, la sinistra ha perso la propria anima e ha consegnato il nostro paese alla morte. La nostra politica coincide con la necrologia delle illusioni che muovono il mondo.

La fuga di Enrico nasce dalla presa di coscienza di non avere più nulla da dare, e forse dalla sfiducia anche propria nella politica. Non per niente a fine romanzo dirà a Bottini che nemmeno lui crede in niente avendo affidato il partito a un pazzo.
“Come un estraneo sono comparso / come un estraneo me ne vado. / Scacciatemi pure, o cani che vegliate / non fate ch’io riposi nella pace notturna! /Io ho finito di sognare: / Che ci sto a fare fra coloro che dormono?”

Il libro è bello, ma il film è mille volte più bello. Si vede che Andò è un regista perchè riesce tramite il film a esprimersi al meglio anche attraverso gli sguardi, i sorrisi e i silenzi. Tra l'altro il finale del film è meraviglioso, grazie al sorriso enigmatico del bravissimo Toni Servillo. Il finale del film rimanda alla frase citata da Ernani:
"È la mia questa figura di spalle che se ne va nella pioggia?"

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    26 Giugno, 2017
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Il mal di vivere

Un musicista famoso si ammala di una malattia progressiva e gravissima che colpisce i nervi portando a dolori fortissimi e a una progressiva paralisi. La malattia (forse la sindrome di Barrè?) può essere mortale ma ci sono anche casi di completa remissione. E' chiaro dal diario del maestro che la malattia (come molte malattie autoimmuni nel caso si trattasse della sindrome di Barrè) ha un'origine psicosomatica. La malattia è associata dal musicista alla menzogna che è entrata nella sua vita attraverso due diverse vie: il rapporto con l'arte e il rapporto con E, donna sposata. Le due strade sono legate in quanto E. per sua stessa ammissione non è attratta dagli uomini e l'unico uomo che l'abbia mai attirata è il maestro stesso grazie però alla sua musica. La musica come motore di passioni o come frutto di passioni, come anche l'amore per E. contengono il veleno della menzogna. Quale sia il veleno non si capisce bene: il rapporto con la musica costringe il maestro a fingere (l'arte è finzione in quanto simula la vita?). Anche il rapporto con E. è finzione in quanto mediato dall'arte anche se é un rapporto sincero d'affetto (pur non contenendo attrazione fisica che lei non è in grado di provare). Forse è l'arte il veleno che allontana dalla vita vera e lega perennemente alle passioni portando alla nausea e alla noia frutto entrambe della distanza e del distacco. In un certo senso la malattia cura la noia e il senso di estraneità alla vita. La vera medicina è però la frase che il maestro sente in una notte sussurrata da una donna, una delle quattro sorelle che lo assistono: non voglio che tu muoia. Questa frase con l'energia che contiene è un messaggio che viene non da un corpo, ma quasi direttamente da Dio che è misericordioso come dice Carissima, una delle sorelle alla fine del romanzo. La suora in fin di vita, è quella che, probabilmente tramite la sofferenza, è più legata a lui pur nel suo apparente distacco.
All'inizio del romanzo troviamo il maestro, che ha già passato le traversie della malattia, in una località montana. L'inizio del romanzo ci racconta quindi cosa succederà dopo la malattia: il maestro ha smesso di suonare, non vuole più saperne di concerti. La malattia gli ha lasciato due dita insensibili per cui non può più suonare. Ma ha anche smesso di comporre. Il maestro, in quella località remota, fa anche una riflessione molto interessante sulla sofferenza come scopo della vita. Quasi che la sofferenza contenga una dose di verità preclusa all'arte e alle passioni. Parla di una sofferenza particolare, quella volontaria che è il sacrificio. Nel suo caso il sacrificio potrebbe consistere nell'essere nella località montana invece che ad Atene, quindi nell'avere rinunciato ad E., alla musica e alle passioni. Infatti se la passioni inoculano la menzogna nella vita, probabilmente il sacrificio (leggi rinuncia volontaria) è il miglior modo di vivere l'amore nella verità.
«L’umanità ha sempre creduto nel valore del sacrificio,» dissi «ma ci sono occasioni in cui è molto difficile comprenderne il senso. Soprattutto il senso del sacrificio umano». Replicò testardo: «Bisogna fare dei sacrifici. Altrimenti non è possibile il cambiamento, e nemmeno la salvezza».
All'inizio del romanzo si capisce che il pensiero del maestro ha subito una deviazione mistica:la passione sotto questa nuova luce è diventata strumento di salvezza per arrivare a Dio, qualcosa che brucia l'anima e la purifica o con lo stesso valore della croce. Il passaggio dalla malattia al misticismo non è ben spiegato nel romanzo ma si capisce che passa attraverso la figura di suor Carissima. Come se la frase: voglio che tu viva abbia nel testo all'inizio un significato letterale di guarigione fisica ma poi ne assuma un altro, durante il colloquio con la sorella, di natura più spirituale di guarigione dell'anima.

«A ognuno di noi» disse lentamente, strascicando le parole «tocca prima o poi assumersi il peso della passione, come fosse una croce. Solo nel fuoco si consuma il peccato che alberga nell’uomo e nel mondo.



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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    23 Giugno, 2017
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Il giustiziere

Non so come definire questo romanzo, molto ben scritto ma molto film Oscar americano. La storia è d'azione, un po' gialla, non molto dato che il colpevole si capisce presto chi è.Quello che risulta poco chiaro è come fare per assicurarlo alla giustizia. Perciò il libro è un po' giallo, un po' romanzo d'azione, con una scrittura bella da romanzo non di genere, un po' romanzo di formazione e anche un po' una storia che ci fa entrare nel territorio indiano e nelle case indiane, nella cultura e nelle riserve di quella gente. Questo è l'aspetto che mi è sembrato di gran lunga il più interessante, anzi mi sarebbe piaciuto che fosse ancora più presente. Le storie indiane contenute all'interno sono interessanti, come il rapporto con i morti, con gli spiriti e la stessa casa tonda, il grande bisonte femmina.
In ogni caso proprio nella casa tonda avviene lo stupro e il tentato omicidio della madre di Joe. Joe è figlio di un avvocato con la stoffa dell'avvocato lui pure. Gli ingredienti ci sono tutti: affetti, amicizia, il cattivo, una comunità compatta, dei bravi genitori, sesso, e pure tanta complicità. Alla fine del romanzo confesso di avere provato un senso di solidarietà con lo stupratore: lui fuori del paradiso e gli altri tutti dentro. Se l'è voluta, era proprio cattivo senza luci e ombre come nei migliori film americani, ma poveraccio.... solo come un cane della prateria, stessa vita.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    21 Giugno, 2017
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Senza parole

«Ah, già» disse Didier, «il famoso Elysian. In Francia abbiamo il Goncourt. È totalmente corrotto, e per questo motivo le regole sono assolutamente chiare. È questo il paradosso della corruzione: è molto piú legalista della legge stessa! Ma questo Elysian, c’est du pur casino».
Il romanzo descrive il "pur casino" del premio letterario Elysian. Niente corruzione, quella no. Ma per il resto.... I libri naturalmente non sono letti per intero, anzi spesso non sono letti affatto e la scelta dei finalisti è dettata da favoritismi ad amici di amici o ad altri astrusi motivi. Persino Vanessa, la giurata accademica, l'unica che capisca qualcosa, non legge i testi. Del resto al lettore vengono presentati alcuni brani dei testi in concorso, spesso brani molto poco "letterari" e ancora meno interessanti con un paio di eccezioni.

L’unico membro della giuria che Penny trovava difficile inquadrare era Vanessa Shaw. Una donna terribilmente intellettuale ma, percome la vedeva lei, non altrettanto intelligente. Andava pazza per un romanzo intitolato Il torrente ghiacciato, che a Penny sembrava senza capo né coda. Secondo Vanessa, il libro era continuamente «strutturato e destrutturato» grazie a una sistematica autocontraddizione, proprio come la vita si fonda sulla contraddizione della morte (aargh!). Non solo il testo (come se si fosse appena materializzato sul suo cellulare, a mo’ di messaggio!) mostrava una conoscenza approfondita di Beckett, Blanchot e Bataille (chiunque fossero gli ultimi due), ma aggiungeva a una «sensibilità autocorrosiva» (oh, Dio santo!) la ricchezza di un romanzo psicologico profondo e originale.


Bastano le poche pagine mostrate al lettore dei testi in concorso per farsi una idea. Alla fine la vittoria va all'opera di narrativa probabilmente più meritevole tra le selezionate: un libro di ricette della simpatica zietta che destina il premio in denaro a un orfanotrofio. Del resto la zia non si fa illusioni sul suo personale talento letterario. Tutto è bene quel che finisce bene, almeno per i soldi del premio che vanno dove servono davvero. Quanto al racconto, è paradossale? Dettato dalla delusione dell'autore per la mancata vittoria all'"Elysian"?
Speriamo.


«Ah, non! Noi crediamo di sapere che cos’è la banalità, ma in realtà c’è qualcosa di profondamente radicale nel concetto. Quando Chateaubriand dice, “Tutti guardano ciò che io guardo, ma nessuno vede quel ch’io vedo”, ci troviamo davanti al tragico isolamento del soggetto, alla visione eroica del romanticismo, eccetera eccetera, ma il momento nel quale ciò che è banale si rivela in tutta la sua radicalità è l’esatto opposto di quel che accade a Chateaubriand. E il messaggio è il seguente: “Tutti guardano ciò che io guardo, e tutti vedono ciò che io vedo». Sul piano epistemologico, è comunismo allo stato puro! L’ideale comunista non è stato realizzato in Cina, in Russia o a Cuba, ma nella Banalità!».

All'Elysian sembra di assistere al trionfo della banalità, appunto. E all'affossamento dell'arte e dell'intelligenza.

Quanto a Senza parole, il romanzo non è bellissimo, meglio i Melrose e Lieto fine, però ha dei lampi di ironia e di cinismo e di arguzia che sono molto interessanti. Interessante è anche l'occhiata all'interno del mondo letterario tra incompetenza, narcisismo, e intellettuali coltissimi di una cultura astratta che non li rende in grado di avvicinarsi alle opere. Il panorama umano è misero ma soprattutto poco interessante e questo è il limite principale del romanzo.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    18 Giugno, 2017
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L'iguana e la farfalla

Il romanzo della Ortese è strano, onirico e allegorico. Quale sia la chiave di lettura è difficile dirlo, forse bisognerebbe conoscere meglio l’autrice. Sembrerebbe una allegoria sul destino dell’uomo e sul rapporto uomo-Dio. L’uomo dopo la caduta del peccato originale è metà buono e metà no. E' cacciato dal Paradiso.
«Il marchese» diss’ella dopo un momento, ma con una voce così fina che sembrava incrinata, sembrava stesse per spezzarsi «va in paradiso, oggi, dopo mangiato. Va sulla nave, e là, dopo molta acqua, c’è il cielo con la Vergine santissima, e tutte le costellazioni. Là io non posso andare. La Vergine non vuole».
La donnina-iguana ha qualcosa di malvagio che si traduce nell’aspetto strano: verde e dal muso serpentesco ma allo stesso tempo appare anche innocente e degna di compassione. E' quasi inconsapevole del suo stato, tutta presa dal desiderio di essere amata dal marchese di cui ora è indegna. La sua situazione l’addolora profondamente e non è in grado di comprenderla a fondo. L’isola stessa e la casa polverosa riflettono la decadenza della servetta. Il nome stesso Perdita. Anzi sembra avere due nomi, Perdita e Estrellita come anche il marchese ha due nomi e forse due facce o due nature e il conte anche se ha un solo nome ha due ruoli: vittima e carnefice.
L'iguana è come il ritratto di Dorian Gray dell'umanità. Il suo aspetto ne riflette i vizi ma l'anima resta innocente come quella di una bambina. In effetti, sono i visitatori, le persone che girano attorno all'isola, con desideri adulti di soldi, di possesso che hanno il marchio della colpa. L'iguana ne ha solo l'immagine. E' una specie di vittima innocente, adatta a suscitare la pietà del conte.
Il conte sembra una figura cristologica: ingenuo, compassionevole, con animo candido di bambino, un cuore puro. Eppure lo troviamo in tribunale con un duplice ruolo. E sappiamo che è stato commesso un crimine orrendo: Dio è morto. E' stato ucciso.
«Capire! In base a che cosa, Daddo? Lascia che le Costellazioni trascinino il Corpo Santo! Dio è morto! è morto! è morto!». Queste parole, seguite da uno scoppio improvviso di pianto, e quindi da un selvaggio suonare di campane, non sapevi se a osanna o a morto, lasciarono indifferente il conte. Egli era mutato, in quanto sentiva che, nella vita, il lato terribile era proprio la compassione, in quanto così il male velava i suoi crimini, il bene lasciava luogo a profonda debolezza. Egli non aveva più altro scopo, nella nube ch'era stata la sua vita, se non il risorgimento di Dio, la sua liberazione dal sepolcro, e la restaurazione del Diritto.

Ma il delitto, quello che sembrava nella parte più onirica e delirante del romanzo un delitto, diventa un suicidio, il suicidio un atto di amore per l’iguana che nelle ultime pagine acquista le fattezze umane di una serva. Il romanzo è molto bello, bello nell'oscillare tra bene e male dei personaggi ma con una prevalenza del bene. Dio è una farfalla bianca: bellissima l’immagine. Prima di essere farfalla quindi è stato bruco, quindi anche lui, come l’iguana ha o almeno ha avuto un aspetto misero.

“Sentì che il suo viaggiare era stato immobilità, e ora, nella immobilità, cominciava il vero viaggiare. Sentì poi che questi viaggi sono sogni, e le iguane ammonimenti. Che non ci sono iguane, ma solo travestimenti, ideati dall’uomo allo scopo di opprimere il suo simile e mantenuti da una terribile società. Questa società egli aveva espresso, ma ora ne usciva. Di ciò era contento”.
Una cosa appare certa alla fine del romanzo: il conte con la sua morte ha dato una speranza all'iguana e una nuova dignità. La sua morte è stata decisamente un sacrificio che ha portato qualcosa di assolutamente buono. Il conte è una figura cristologica.

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Malcolm di J. Purdy
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    13 Giugno, 2017
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Primo il cervello,secondo il sesso,ultimo il cuore

In una società al collasso con tassi di disoccupazione stratosferici, la gente costretta a vivere in auto, e un livello di criminalità altissimo, nasce il miraggio di Positron: società chiusa (chi entra non può più uscire) ma dove la gente ha casa e lavoro e buoni spesa. Il romanzo ha un incipit orwelliano ottimo. Interessante anche l'infiltrazione nel novello paradiso terrestre del germe del profitto introdotto dal nemico primo del cuore: il cervello. Anche se l'inizio, cioè la prima metà del romanzo è molto interessante poi lo sviluppo in parte delude. Ci sono richiami alla donna perfetta di Ira Levin ma troppa azione per i miei gusti. In questa parte il sesso quasi scavalca il cervello contendendogli il primo posto.. Il cuore viene recuperato in calcio d'angolo a fine romanzo ma forse era meglio lasciarlo da parte. Avrei preferito uno sviluppo della storia più orwelliano.

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La donna perfetta
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    12 Giugno, 2017
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Come i film d'azione americani

Romanzo che consiglio solo a chi ama le letture leggere d'intrattenimento.
Il protagonista è un giocatore d'azzardo di professione che si accorge di avere un tumore benigno al cervello. La sua situazione è disperata ma a San Francisco c'è un chirurgo pazzoide, un giocatore d'azzardo della chirurgia diciamo, che lo opererebbe. Essendo in pessime condizioni finanziarie, Bruno deve accettare l'aiuto apparentemente generoso di un amico e di sua moglie verso la quale prova un'attrazione fisica particolarmente intensa. Bruno ha anche il singolare dono di leggere e trasmettere pensieri. Ora il dono della telepatia, interessante elemento, viene sfruttato male. Non aiuta Bruno in diverse circostanze in cui poteva portare un po' di chiarezza e non si capisce perchè non sia mai utilizzato se non in poche pagine del romanzo. La storia a me non è sembrata particolarmente interessante. In ogni caso c'è un po' di gioco d'azzardo, qualche pagina di sesso, un abbozzo di storia amicale/sentimentale, un po' di mistero. Il tutto non è gestito alla perfezione ma può essere passabile. Il libro comunque è piacevole e ben scritto, senza troppe pretese. Come uno di quei film americani per fare cassa. Non lo consiglio agli amanti della Letteratura ma a quelli del romanzo d'intrattenimento. Mi aspettavo qualcosa di diverso e di meno commerciale.

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Romanzo da leggere sotto l'ombrellone
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    08 Giugno, 2017
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Il pericolosissimo pollo appollaiato

E' il primo romanzo che leggo della Reza e devo dire che le prime pagine mi hanno piacevolmente colpito per la freschezza della scrittura e di alcuni passaggi particolarmente interessanti. Poi però la buona impressione si è fermata lì e il modo di scrivere: frasi semplici e brevi e per associazioni di ricordi (un po' come fa la Tartt) mi ha subito stancato. L'incipit è la parte di gran lunga migliore. La storia fa acqua. Le situazioni dal punto di vista psicologico mi sembrano poco credibili come il dialogo tra Elizabeth e Jean Lino di fronte al cadavere. Non mi piace nemmeno il tipo di solidarietà proposto: una solidarietà monella e un po' irresponsabile, dal sapore tardo adolescenziale. E' per me vagamente sgradevole, il modo in cui vengono espressi giudizi o opinioni sui vicini da Elizabeth e la ricerca di un rapporto particolare di Elizabeth con Jean Lino, come se l'occhiata complice del vicino potesse compensare i due della gabbia esistenziale in cui hanno trascorso e trascorreranno una vita intera ( galera o non galera). I dialoghi simulano una profondità di relazione e di interazione che manca totalmente. La Reza non mi è sembrata una scrittrice indimenticabile. A me però la leggerezza non piace nei romanzi. Magari per l'estate va bene come lettura poco impegnativa.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    05 Giugno, 2017
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Un Dio in agguato

Ho letto il romanzo in una vecchia traduzione che andrebbe rifatta. Nelle prime pagine ho sentito molto il fastidio della lingua desueta ma poi la storia avvince e lo stile passa nel dimenticatoio.
Mauriac a differenza di Saramago, che offre al lettore un capolavoro di perturbarmento della realtà, è molto fedele ai Vangeli. Interviene nella storia con grande discrezione e sempre per chiarire, esplicitare alcuni aspetti ma senza mai forzare. Si intuisce la sua notevole preparazione in materia. Testi di santi, Vangeli apocrifi e via discorrendo. Ma ha un grande rispetto della materia tanto che il suo intervento approfondisce soprattutto il lato umano di Gesù e dei discepoli. Ma con un grandissimo tatto.
A me è piaciuto molto. Del resto Mauriac ha questo stile asciutto, diretto, limpido che mi sembra molto interessante.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    31 Mag, 2017
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Ricostruire

Dopo aver letto secoli fa un paio di libri dell'autore (Sulle sponde ecc... e l'alchimista) ci avevo proprio messo una pietra tombale sopra. Invece questo romanzo mi è piaciuto molto, soprattutto la prima metà della storia: una scrittura leggera, frizzante, ironica.La seconda metà del libro è un po più coheleggiante, quindi meno bella.
La storia racconta episodi della vita del profeta Elia, episodi inediti, forse inventati.
Il profeta viene visto da una angolazione insolita a partire dal suo carattere schivo e timoroso di tutto, dal suo insolito rapporto con Dio con poche certezze, tra fantasia e realtà, con pochi miracoli (solo uno è davvero un miracolo): Il resto potrebbe essere o non essere. C'è sempre una dose di arbitrio nella interpretazione dei fatti, dei pensieri, degli avvenimenti da parte del profeta e quindi di insicurezza.
Il rapporto con Dio richiede uno sforzo enorme di fede e di comprensione da parte di Elia nonchè di fantasia. Dio non parla mai troppo chiaramente, sembra che parli (ma non si sa), poi segue strade non comprensibili all'uomo nemmeno se profeta e di spiegarSi non Si sogna nemmeno. A volte le Sue vie sono dure e sembrano cattive. Suscitano risentimento e rabbia. Del resto anche il rapporto di Elia con gli uomini non è semplicissimo perchè anche se gli scopi umani sono spesso ovvi, a volte i mezzi che usano per perseguirli lo sono meno, soprattutto per una persona onesta e diretta.
A me è piaciuta l'idea che Elia non sia stato chiamato tanto a distruggere i profeti di Baal, episodio di cui non si parla nel testo ma che il lettore può immaginare non nel gusto del povero profeta. La sua missione principale nel testo è la ricostruzione di una città distrutta, una città nemica. Bella anche l'idea che la donna timidamente amata dal profeta sia in qualche modo diventata quella città.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    22 Mag, 2017
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Occhio anzi occhio per occhio (di gatto)

Questo romanzo della Atwood è molto diverso dagli altri che ho letto. Niente fantascienza, niente guizzi dell'immaginazione. Una narrazione a sbalzi temporali che alterna passato e presente senza seguire una sequenza cronologica. La narrazione è in prima persona e a raccontare è Elaine, una delle amiche. L' amicizia raccontata è a quattro ma due delle amiche, Grace e Carol sono psicologicamente nulle, per cui l' amicizia si riduce a un rapporto di competizione e di forza tra Elaine e Cordelia con tratti sadomaso versione adolescenziale. Cordelia vuole migliorare l'amica e lo fa punendola, anzi facendola punire dal gruppo compatto delle altre, escludendola, costringendola a umiliazioni e penitenze. Questa parte così lunga e a tratti insolitamente monotona fa pensare a una qualche componente autobiografica che spenga e influenzi la narrazione immettendola nel torrente malinconico della vita vera irrisolta. La relazione tra le ragazze nella sua fase giovanile ha un episodio particolarmente drammatico che non diventa tragico grazie all'intervento miracoloso della Vergine Maria delle Cose Perdute. L'episodio è tra il sogno e la realtà, ma in effetti solo la realtà del fatto giustifica agli occhi del lettore la salvezza della bambina. La Madonna riporta Elaine a casa, l'episodio però lascia il segno e rompe la fase in cui Elaine era disposta a subire qualsiasi cosa e a tacere. Si intuisce che Cordelia è in realtà una bambina con gravi problemi, con enorme senso di inadeguatezza. A fronte di episodi così gravi ci si aspetterebbe una reazione aperta da parte di Elaine o delle scuse dall'altra ma un confronto tra le due non c'è mai. Le amiche si scambiano di ruolo. Elaine diventa la figura forte di un rapporto che definire amicizia sarebbe irrealistico. Mai le amiche si confrontano sinceramente su niente. La mancanza assoluta di dialogo e di slanci e di affetto dell'una per l'altra porta a una monotonia narrativa insolita per l'autrice che mai mi era sembrata noiosa negli altri romanzi. La situazione viene anche analizzata in alcune righe in cui l'io narrante riconosce che il rapporto con Cordelia è sempre stato basato sulla vendetta, una vendetta invisibile e sottile. La vita di Elaine diventa vendetta. Tutta la sua carriera, il suo successo. Infatti è una vita brutta, piatta, morta, senza slanci umani. Il romanzo si riprende nelle pagine finali belle e malinconiche che sfumano la sensazione che al romanzo manchi qualcosa. Un chiarimento, magari. Solo quando Cordelia sconfitta chiede aiuto all'altra (che glielo nega) poi le cose si rovesciano di nuovo e Elaine sembra tornare debole in un'altalena senza senso nè fine. Anche il rapporto di Elaine con gli uomini è poco migliore di quello con l'amica e se è migliore non è certo grazie a lei. La malinconia finale sfuma la sensazione di piattezza e di ossessione e di involuzione che si ha per tutto il romanzo .

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    16 Mag, 2017
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Tutto è vanità, parola di Schopenhauer

Houellebecq dedica questo breve saggio a quello che considera uno dei suoi maestri. Pur avendo tradito Shopenhauer lasciandosi attirare dal positivismo di Comte, sente per Schopenhauer un affetto e una ammirazione non paragonabili. Quasi che con Comte ci fosse un legame oggettivo e freddo, puramente ideologico, e con Schopenhauer un legame affettivo e profondo. Pure il pensiero di Schopenhauer gli suscita simpatia e il lettore (ignorante e indegno di commentare il saggio nel mio caso) può intuire le sue ragione. Schopenhauer è un asceta della filosofia, è una persona con una profonda onestà intellettuale, uno che cercava la verità a scapito anche dell’originalità, cosa inusuale in una persona estremamente intelligente. Inoltre la sua stessa filosofia è ascetica, con questa condanna della volontà di vivere, tacciata come assurda e irragionevole.
Perciò tutte le cose legate alla volontà di vivere, cioè possibili oggetti del suo desiderio, ad esempio ricchezza e fama, sono aborrite e considerate fuorvianti. Tutto è vanità. La filosofia di Schopenhauer è accostata al buddismo ma, in effetti alcuni mistici cristiani forse hanno perseguito un annullamento della propria volontà (in quella di Dio) non del tutto dissimile. Certo, a un letterato come Houellebecq, piace anche il ruolo dell’arte nella filosofia di Schopenhauer come strumento di conoscenza. L’artista guarda l’oggetto in modo del tutto distaccato dalla volontà, quindi lo contempla in modo disinteressato con una ingenuità che non è concessa all’uomo comune. Schopenhauer distingue nettamente il sublime dall’allettante. Il sublime presuppone il distacco dalla volontà. Addirittura S. considera non riconducibile ad arte l’horror o la letteratura erotica o nelle arti visive la pornografia o l’immagine erotica o mangereccia che incentivano la volontà di fruire di questi beni. Invece tutto può essere bello perché bello significa semplicemente che tutto può essere oggetto di contemplazione. Anzi, probabilmente il bello non deve essere troppo allettante per poter restare tale.
Carino il tentativo del filosofo di definire ciò che rende l’esistenza un po’ più sopportabile.
Un grande sollievo, dice Shopenhauer è l’intelletto. Perché se è vero che un cretino si accontenta dei piaceri sensuali, è anche vero che ci vuole intelletto anche per godere più a fondo di quelli e comunque al cretino i piaceri dello spirito sono preclusi. E’ anche vero che l’uomo oscilla tra il dolore e la noia e se il cretino si annoia più facilmente perché è meno portato alla speculazione, cioè ad auto intrattenersi, è anche vero che sente meno la gioia e il dolore (più frequente della gioia).
A un certo punto Shopenhauer sembra esitare. Gli viene il dubbio che il cretino sia più felice perché nelle sua limitatezza di vedute si accontenta del piatto di pasta e di piaceri più accessibili. Risolve la questione come farebbe, o così pare, il profano dicendo: sia pure ma nessuno gli invidierà tale felicità.
Lasciando perdere Schopenhauer e venendo a Houellebecq, purtroppo il mio giudizio sul saggio è quello del semianalfabeta della filosofia. Ho trovato il saggio allettante, spero che i due filosofi mi perdoneranno il termine, ma un po’ breve. Non mi pare un testo divulgativo perché non discute a fondo del pensiero di Shopenhauer e nemmeno un testo per filosofi che richiederebbe una discussione più spinta.
E’ un omaggio, dal mio punto di vista, a un filosofo cui Houellebecq è legato sentimentalmente. Gli piace non tanto il suo pensiero o meglio non solo quello, in quanto lui si dichiara comtiano pur senza nessuna simpatia per Comte. Di Shopenhauer gli piace l’onestà estrema, il fatto che cerchi la verità e non gli applausi, forse anche il pessimismo e il distacco dal desiderio che lo fa sembrare una specie di santo laico. Gli piace il peso che dà all’arte (con alcuni tagli) e all’artista, caso raro tra i filosofi e la dignità che assume l’intuizione come strumento di conoscenza. Invece l’opposto si potrebbe dire di Nietzsche per motivi simili: un filosofo antipatico con la sua volontà di potenza eccetera.
Certo il testo è curioso: un omaggio senza altre pretese secondo me. Un omaggio soggettivo e non oggettivo legato alla simpatia tra esseri umani.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    11 Mag, 2017
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Zycron, mia patria

Che penna meravigliosa che ha questa autrice! Alcune pagine sono di una bellezza eccezionale, sono più che prosa, richiamano altre immagini e creano suggestioni. E l'abilità nel gestire una storia che contiene una storia nella storia è eccezionale. Nessuna difficoltà per il lettore che anzi, quasi aspetta l'intarsio che non spezza ma si inserisce perfettamente nel romanzo.
La storia in sé non è eccezionale: due sorelle legate da un rapporto molto forte di amore e forse rivalità, crescono insieme e la più grande delle due, Iris si sposa costretta dall'interesse per calcoli paterni che si riveleranno sbagliati. Le due sorelle si innamorano dello stesso uomo che pur assente fisicamente nella maggior parte del testo perchè impegnato in qualche guerra/ lotta politica, resta il vero protagonista della storia tirandone i fili.
L'autrice è così brava, di una bravura rara, che le si perdonano alcune pecche, per chi le riesce a notare, che stanno soprattutto nell'aspetto psicologico dei personaggi e delle loro relazioni. Soprattutto nel rapporto tra le sorelle o tra Iris e il marito o la cognata. Questi rapporti sono caratterizzati da una sottile mancanza di empatia e di spessore. Ma Margaret è così convincente che quasi non si nota nemmeno questa piccola pecca. Nel senso che pur mancando l'empatia nei rapporti umani i dialoghi sono vivi e guizzanti, vivaci e pieni di ironia e di idee. Le due sorelle isolate dalla scrittura non destano particolare simpatia e alcuni aspetti della vicenda mi hanno deluso.Il fatto che Iris non sia andata in ospedale da Laura ad esempio. E anche il chiarimento finale al bar, o il rapporto di Iris con sua figlia. C'è qualcosa che non va. Comunque il romanzo è bellissimo non tanto per la vicenda reale ma nel suo stare in bilico tra più dimensioni spazio temporali. Per il fatto che la storia nella storia esprime quasi il desiderio dei due amanti, Iris e Alex, di vivere in un'altra dimensione diversa da quella della realtà. Anzi la storia che a un certo punto cambia riflette quasi o almeno si potrebbe pensare, il rapporto che cambia tra i due come una specie di specchio magico. Mi piace anche il fatto che Alex usi il poco tempo in cui sta con Iris per raccontarle una storia in una situazione che ricorda vagamente Le mille e una notte. Mi piace che la storia definitiva dell'assassino cieco, quella che finisce nel libro attribuito a Laura, venga scritta come atto d'amore in una tavola che potrebbe essere rotonda.. Bella l'idea delle persone che siedono attorno alla tavola rotonda per cui ognuno ha sempre qualcuno alla sua destra e alla sua sinistra. Al lettore scegliere se il libro è stato scritto con la destra o con la sinistra, in riferimento alla Bibbia (Dio siede alla destra del Padre. Quindi alla sinistra chi ci sta? Le supposizioni potrebbero anche essere inquietanti).
Il libro è pieno di riferimenti biblici che bisognerebbe saper cogliere come pure di riferimenti letterari ma non è un libro religioso, anzi piuttosto il contrario. Il Diavolo potrebbe citare la Bibbia contro Dio, si dice nel testo. In ogni caso ci sono pagine di meravigliosa perfidia, tutte quelle che riguardano Winifred e di meravigliose riflessioni e di descrizioni che continuano a lasciare echi per la loro bellezza e poesia e dialoghi intelligenti e seducenti per la assoluta mancanza di banalità.
Insomma un libro da non perdere di quelli che non ti fanno affondare nell'animo umano ma che ti fanno perdere nei riflessi delle immagini come in un gioco di specchi.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    10 Mag, 2017
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La porta del cuore

La porta racconta la storia vera, così almeno suppongo, del rapporto tra Magda e la sua donna delle pulizie Emerenc. Emerenc sembra quasi una figura mitologica. Una donna anziana con una forza sovrumana che si oppone a suo modo alle logiche del mondo rifiutandone le offerte e i compromessi. Non riprende gli studi quando ne ha la possibilità, nonostante la sua eccezionale intelligenza e si cerca un lavoro umile perché divide il mondo tra quelli che hanno la scopa in mano e quelli che non ce l’hanno. Viene fuori dagli abissi di una sofferenza spropositata, così grande che all’inizio pare a Magda pura invenzione: due fratellini morti colpiti da un fulmine davanti ai suoi occhi , la madre morta suicida subito dopo. Questo è solo l’inizio, poi le sue storie d’amore vanno avanti con la stessa fortuna, almeno così si saprà andando avanti nella narrazione. Dalle proprie vicende Emerenc, donna intelligente, ricava la certezza che non si dovrebbe amare così tanto come è capitato a lei perché l’amore è una faccenda pericolosa. Non potendo fare a meno per indole di dare con generosità e a suo modo, Emerenc mette perciò una barriera tra lei e il mondo che è la porta di casa sua, una porta che nessuno può varcare. La porta è reale e ovviamente anche simbolica. Simbolo di una necessità di difesa, di un limite, di uno scudo. Ma forse anche richiesta implicita che qualcuno bussi con insistenza e condivida la sua casa segreta.
Oltre alla porta materiale, il carattere stesso di Emerenc è una porta. Dura, spigolosa, diretta, sfacciata, invadente, terribile nel suo essere implacabilmente sincera con le persone che ama. Emerenc dà con generosità ma non accetta nulla. Forse è questa la sua porta più massiccia. L’incapacità di prendere dalle mani altrui. Accettare un dono potrebbe incrinare il suo rifiuto, parziale e unidirezionale, ma piuttosto categorico, di un mondo, di una vita, di gente che l’ha sempre delusa.
Emerenc però si lega a Magda per qualche strano motivo. Per qualche somiglianza tra loro probabilmente, fino a introdurla in casa e a nominarla sua erede.
La storia purtroppo dà ragione alla sua diffidenza. Le amiche non sono all’altezza delle aspettative che Emerenc non si può impedire di nutrire nonostante tutte le sue porte chiuse. E’ abbastanza triste che tutto sommato le porte restino chiuse. Infatti, al momento della prova, questioni di comodo, di lavoro, di necessità vengono di volta in volta messe davanti all’amore per cui il lettore assiste a una sfilata di tradimenti più o meno gravi.
Del resto Emerenc aveva aspettative sugli altri, soprattutto su Magda, come se gli altri potessero arrivare al suo modo di sentire gli affetti, nonostante le sue porte blindate. Triste quel sogno che Magda continua a fare alla fine del romanzo della porta in cui non riesce a girare la chiave e simbolica la fine che fa l’eredità di Emerenc. Certo Emerenc non è Ezter, quella di Marai. L’amore di Emerenc è generoso ma anche esigente.
Si potrebbe immaginare che su un altro piano di lettura la storia possa essere una metafora del rapporto uomo-Dio con la porta che rappresenta la porta stretta del Vangelo, Magda e le altre amiche gli uomini e Emerenc Dio.

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L'eredità di Ezter
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    09 Mag, 2017
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La nostalgia

Tabucchi anche in questi racconti fa un uso molto originale della scrittura. Se ne serve non per raccontare come in genere fanno i narratori ma piuttosto per evocare e suggerire come farebbe un poeta o un pittore. La cosa di cui si parla non è mai descritta direttamente. In genere si tratta di un rovescio, di una assenza, di un negativo dell'animo. Ma chi sia assente, non lo dice subito . Lo si intuisce alla fine di ogni racconto attraverso un gioco di rimandi che è come una specie di riflesso del riflesso o di associazioni di idee o di immagini. Ad esempio, quando è la madre a mancare, che non ci sia più lo si capisce dopo. Si presenta nel racconto una immagine simile, magari di una sorella che improvvisamente cambia forma. In questo modo senza parlarci mai direttamente di nostalgia o del vuoto per una assenza, Tabucchi ci fa sentire sulla nostra pelle quella nostalgia e quel vuoto. Naturalmente alcuni racconti sono bellissimi ad esempio Il gioco del rovescio, Lettera da Casablanca, Voci.
La lettera da Casablanca inizia parlando di un albero, una palma che ondeggia come una ballerina. Poi si scopre che la madre del protagonista chiamava Josephine la palma e ha scritto una lettera sul quaderno del protagonista bambino perchè la palma non venisse tagliata. Poi troviamo il bambino a lavorare fuori casa, come truccatore di una cantante. Poi sostituisce la cantante malata o probabilmente morta e diventa lui stesso cantante e ballerina e si fa chiamare Josephine. Il tutto è scritto in forma epistolare da questo ragazzo alla sorella. Nella parte finale della sua lettera torna fuori la figura della madre e si capisce quanto forte possa essere stata la nostalgia per la madre in tutta la vita del ragazzo. L'effetto di questi rimandi che nel punto finale conducono il lettore all'emozione giusta è bellissimo.
Oppure in Voci, la donna che risponde alle telefonate dei lettori, probabilmente la psicologa di una trasmissione radiofonica attraverso il malessere di chi le telefona ci porta dentro la sua casa alla fine arrivandoci attraverso un tram lentissimo, una persona che non le risponde, una tavola apparecchiata per uno e poi per due ma con l'altro che non c'è. Il vuoto si spalanca piano piano davanti al lettore fino a inghiottirlo. Il primo racconto, Il gioco del rovescio, è più misterioso. Qui veniamo a sapere subito che si tratta del funerale di una donna. La sensazione di mancanza, di assenza comincia non dal funerale ma da prima. Questo racconto è il più misterioso. Come misteriosa è la figurina della morta che compare nel sogno in un quadro vestita di giallo con una espressione strana. Strana perchè vede il rovescio del quadro.
"Ho capito perchè hai codesta espressione, perchè tu vedi il rovescio del quadro,che cosa si vede da codesta parte?, dimmelo, aspetta che vengo anch'io, ora vengo a vedere. E mi incamminai verso quel punto. E in quel momento mi ritrovai in un altro sogno".

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    05 Mag, 2017
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Brutto

Non so perché l'autrice venga paragonata a David Grossman, Yehoshua A. B., Amos Oz. Per me c'è un abisso soprattutto per il modo banale di affrontare la storia. Io lo sconsiglio. Certo che se l'editore desse un'idea più realistica del romanzo il povero lettore capirebbe che un libro non fa per lui prima di averlo comprato. Il libro è sentimentalistico commerciale, rilassante ma non certo un capolavoro.
Alcuni lettori lo troveranno noioso.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    28 Aprile, 2017
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Realtà o fede (politica)?

Nel suo romanzo Barnes affronta il problema del processo al leader di un paese comunista dopo la caduta del regime. L’ex leader Pektanov è processato e l’accusa è guidata da Solinsky, il cui padre era stato alleato e poi avversario politico di Pektanov. La condanna al padre di Solinsky era stata soprattutto l’allontanamento. Niente di tutto quello che accadeva in altri regimi simili: l’avversario si era infatti dedicato felicemente all’apicoltura dopo la cacciata dal partito.
Devo dire che il romanzo è ben scritto, interessante, i dialoghi arguti e ironici.
Il libro per il tema e una vaga somiglianza nella struttura si affianca a un altro romanzo, Buio a mezzogiorno, che è di ben altra statura per la bellezza e la profondità e l’estrema onestà intellettuale dei contenuti, per cui risente dell’inevitabile confronto.
Per quanto si potrebbe condividere l’idea di fondo, implicita e non espressa chiaramente, che gli intellettuali non salveranno il mondo né cambieranno la natura dell’uomo, e che i sistemi politici che si inventeranno avranno sempre al loro interno chi si fa i propri interessi e simili magagne, tuttavia questo argomento non dovrebbe essere sufficiente ad assolvere i grandi crimini/difetti strutturali di un regime ma solo quelli minori. A mio parere, il processo contro Pektanov risente della debolezza degli argomenti dell’accusa, debolezza che trovo poco accorta in un grande scrittore come Barnes. I fatti contestati sono alcuni troppo insignificanti (questioni da pochi spiccioli ) e altri evidentemente falsi. In modo un po’ troppo evidente: ad esempio l’accusa di essere responsabile dell’omicidio della sua stessa figlia. In periodi di purghe e delazioni si potevano trovare argomenti ben più solidi con i quali confrontarsi e di cui far parlare i personaggi.
Ma, nonostante questo, il libro è certamente interessante.
-Dunque permettimi di darti un piccolissimo consiglio, perché, vedi, noi gli abbiamo dato salsicce e cose più elevate. Voi nelle cose più elevate non credete, però gli negate anche le salsicce. Nei negozi non ne è rimasta nemmeno l’ombra. E allora che gli date a sta gente?
- Gli diamo libertà e verità-. Parole che nella sua bocca risuonarono tronfie, ma era ciò in cui credeva e allora perché non dirle ad alta voce?
-Libertà e verità!- ripetè Pektanov con tono di scherno. –Perciò sono queste per voi le cose elevate! Date alle donne la libertà di uscire dalle cucine e marciare in Parlamento per dire quella verità che non ci sono salsicce nei negozi. Ecco cosa vi dicono le donne. E questo lo chiamate progresso?
Non so, Barnes è sicuramente un intellettuale, una persona intelligente. Devo dire che però Koestler affiancando il cuore al cervello raggiunge delle profondità di pensiero infinitamente superiori. Ciò non toglie che un libro non banale e a tratti pieno di ironia sia sempre apprezzabile, anche se avrei voluto vedere una ricerca un po’ più “vera” date le capacità di Barnes.

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Buio a mezzogiorno
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Fantascienza
 
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    28 Aprile, 2017
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Inquietante

E' il primo romanzo che leggo della Atwood e devo dire che lo stile mi ha colpito come certe sue invenzioni nella storia. Fondamentalmente emerge dal testo la sua sfiducia nella razza umana, nella scienza e nel progresso. E come darle torto? L'uomo non può che inseguire il suo impulso autodistruttivo e egoistico di morte.
In un certo senso, la storia potrebbe essere un tentativo di portare un intento a suo modo idealistico alle estreme conseguenze: creare una razza "umana" migliore che sostituisca quella attuale degenere e lasciare come sacerdote e custode di questa razza il migliore degli uomini, appunto l'ultimo degli uomini ovvero l'uomo delle nevi, come lui stesso si fa chiamare. Uomo delle nevi non per il colore della pelle o per lo Jeti ma per suggerire l'idea che anche lui si scioglierà un giorno come un pupazzo di neve al sole fino a scomparire dopo aver lasciato la nuova razza pronta a camminare sola.
L'ingegnere genetico Crake sostituisce dio per la nuova razza e Uomo delle nevi inventa una religione a uso e consumo dei nuovi uomini tenendo conto della loro limitata capacità speculativa.
La nuova razza (inventata in laboratorio) in effetti è ingenua, buona, non conosce la malizia e quindi l'ironia ma.... I bambini crescono, la malizia si apprende strada facendo così come le perversioni legate al potere. Primo indizio di questa malizia nascente è sempre l'arte. Uomo delle nevi tornando al campo dove sta questa razza di uomini nuovi di cui è il custode li trova ad adorare un pupazzo di lui stesso, una primitiva forma d'arte. Il romanzo è forse ancora più terribile della strada di Cormac. Il finale poi...con quelle parole "è tempo d'andare" che richiamano alla memoria "è tempo di morire" del film Blade Runner... Terribile ma davvero molto molto bello.

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La strada di Cormac
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Religione e spiritualità
 
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    27 Aprile, 2017
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Vedere l'amore

Non ho l’abitudine alla lettura di testi del genere ma devo dire che, dopo le dimissioni, la figura di papa Benedetto ha attirato il mio interesse e si è ingigantita nella mia considerazione. Il libro richiederebbe una lettura più lenta e riflessiva di quella di un lettore abituale di fiction. Devo dire che il testo è bellissimo. Papa Benedetto usa un linguaggio di una chiarezza cristallina e contemporaneamente ha un modo di riflettere diretto, profondo e senza ambiguità. Non usa un linguaggio "papale" ma ha uno stile scarno e preciso, molto limpido e tagliente, affilato per il dire senza nascondere mai il suo pensiero. Non è mai diplomatico, la diplomazia non gli interessa, è un pensatore e cerca la verità e la chiarezza.
Gli spunti sono moltissimi: mi ha colpito la riflessione sulla figura del "padre" partendo dalla paternità di Dio, sulla audacia e sulla sovrabbondanza dell’amore di Dio visibili nel fatto che si comporta come un giocatore d’azzardo lasciando sole le pecore in salvo per correre da quella in pericolo. E’ sottolineata la mancanza di calcoli e di misura nell’amore, per l'esagerazione con cui viene donato a chi apre la mano e l’idea che il binomio fede amore possa far superare all’uomo il suo limite intrinseco di fabbrica.
“Credere non è altro che, nell’oscurità del mondo, toccare la mano di Dio e così nel silenzio, ascoltare la Parola, vedere l’Amore”.
Papa Benedetto è anche molto realista sul futuro della chiesa, a qualcuno potrebbe sembrare persino pessimista. In prospettiva, vede una chiesa molto piccola, spoglia “della sua mentalità settaria e del tronfio arbitrio”, senza privilegi e con pochi fedeli. Colpiscono le pagine sull’argomento ( le ultime) perché questa chiesa quasi se la augura, la vede come una salvezza, si coglie l’ insofferenza o forse il dispiacere per un diverso attuale stato di cose. Colpisce l’entusiasmo con cui guarda al futuro verso questa piccola chiesa che sarà per gli uomini “la patria” che dà vita e speranza oltre la morte. Belle le pagine sulla nostalgia dello Spirito Santo di Gioacchino Da Fiore che poi hanno portato al francescanesimo o meglio a San Francesco.
Ho trovato il libro profondamente limpido. Mi pare che con la sua dolcezza papa Benedetto parli con estrema onestà intellettuale e lucidità oltre che con la fede che ci si aspetta da un papa. Onestà che a tratti potrebbe essere anche tagliente, come può essere tagliente la verità osservata in faccia senza paraventi.

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Romanzi storici
 
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    25 Aprile, 2017
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Bruttino

Il libro è ben scritto ma a me non è piaciuto. Non mi è piaciuta la cornice della americana Ella Turner in cerca delle sue origini, cornice di cui si poteva fare tranquillamente a meno. Più interessante la storia dentro la cornice della povera Isabelle e dei suoi figli ma anche quella non so...andava sviluppata meglio anche nei suoi aspetti storici come Tracy sa fare tanto bene. Tutto sommato è un romanzo leggero, ben scritto, di facile lettura ma di cui si può fare a meno.

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Boccamurata
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Romanzi
 
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    07 Aprile, 2017
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Dire la verità

Ho letto il libro dopo aver visto il film che consiglio a tutti. Il film è davvero bellissimo.
Del libro mi è piaciuta moltissimo la prima parte di Massimo- bambino dove viene descritta la morte della madre in modo non oggettivo ma così come viene percepita da lui e anche alcuni momenti della sua vita con la madre e i suoi tentativi di colmare il vuoto ( tenerissimo l'abbraccio alla baby sitter con i baffi) e il vuoto stesso che si materializza nell'immagine spaventosa di Belfagor.
Questa parte è proprio bella, veramente ci si sente in contatto con l'autore-bambino come se fosse presente. Anche l'ironia e lo spirito di Massimo-bambino sono delicati e piacevoli.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    05 Aprile, 2017
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Il figliol prodigo

Un libro profondo, religioso, pieno di delicatezza ma non ha il tocco magico degli altri romanzi della Robinson: Lila e Le cure domestiche. Avendo letto prima gli altri direi che mi è mancata la profonda empatia con i personaggi che in questo caso non è scattata. Jack si lamenta troppo, lo vedo troppo remissivo e Glory lo stesso. Non mi hanno catturato. Non hanno l'energia di Lila e nemmeno la malinconia, la inafferrabilità dei personaggi dei precedenti libri. E anche i due amici preti sono diventati vecchi. O forse dovrei rileggere il romanzo in un altro momento.
In ogni caso la lettura è rilassante, pervasa di religiosità, calma, del conforto della presenza amorevole di Dio in tutte le cose e situazioni. Il senso di colpa di Jack però mi pare eccessivamente sviluppato, nel senso che i personaggi piangono troppo e c'è questo clima passivo di pentimento e di sentirsi indegni che però non ha nessuna conseguenza propulsiva benefica. Le cose si muovono troppo lentamente sia sul piano della maturazione intellettuale e interiore che dei fatti in sè. Questa passività appesantisce il testo che ho trovato stagnante rispetto a Lila.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    01 Aprile, 2017
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3/6

La dinastia dei Sesti inizia da Leonida, aspirante Icaro e da una donna bassina e topigna, Argia con tendenza a generare figli morti o gemelli. Il primo Sesto, loro figlio, è un uomo malinconico aspirante prete e poi rabdomante. Il secondo Sesto nasce dalle due sorelle gemelle . del primo Sesto, cioè da non si sa quale delle due e viene cresciuto da una terza sorella. Il padre del secondo Sesto non ha la simpatia dello scrittore e del lettore, è descritto come ricco e incredibilmente stupido. Non sapendo scegliere tra le gemelle sposa una vedova con un figlio, Anselmo. La storia dell'amicizia tra il secondo Sesto e Anselmo è abbastanza carina. I due amici sono fratelli di sangue e soprattutto rivali. Rivali in amore e in politica. Sesto ha una storia platonica con Amelia a cui scrive lettere che non le arrivano mai e Anselmo ha una storia pratica con la stessa donna, dato che la sposa e genera con lei due figli. I figli sembra però che siano figli di Sesto, il primo non si sa e il secondo certamente. Ma il primo assomiglia più a Sesto del secondo ed è infatti lui il terzo Sesto, il narratore.Suo fratello invece si chiama Alcide a sottolineare la disputa politica tra i due amici. Anselmo, anche lui come il padre adottivo poco simpatico allo scrittore, è democristiano. La disputa tra i due amici è anche religiosa dato che il terzo Sesto è molto impegnato a osservare le statue della Madonna in bilico sui serpenti in una battaglia di esito incerto, almeno per Sesto. Anche il terzo Sesto è uno scrittore di lettere che non arrivano, nonchè filosofo e discepolo di Socrate. La storia del terzo Sesto è di più difficile comprensione. Quello che si capisce è che tutti i Sesti e i loro amici e parenti sono pessimi mariti/compagni e le loro compagne tendono a fare una brutta fine tra impegni politici, impegni mentali e nautici.
Nel romanzo la storia è bizzarra e le cose più interessanti sono quelle che non tornano. Per esempio il romanzo inizia con il Terzo Sesto al mare con una donna che si scoprirà che non c'è e che naturalmente ha fatto la fine che ci si potrebbe aspettare leggendo il suo nome: Sesto. Anche la pretesa forse socratica di essere comandante di se stesso porta a conseguenze che sembrano la negazione stessa della pretesa del povero Sesto. Chissà se il fatto che i Sesti sono solo tre ha un significato. Come in tutti i libri di Tabucchi alcune pagine tra il sogno e la realtà, tra incongruenze e visionarietà sono molto belle. Altre, ad esempio il finale, mi sono piaciute meno.
Ci sono nel testo molti riferimenti apocalittici: i tre Sesti (666), la tromba rubata al padre e nascosta nel pozzo, la Madonna in bilico sul groviglio di serpenti e in lotta per il posto sul piedistallo. Però il senso generale non è chiarissimo per il profano.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    29 Marzo, 2017
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Quando i sogni si avverano

In questo libro l'incipit è meraviglioso. Veramente da leggere e da rileggere. Un incipit assolutamente non da favola che introduce i protagonisti: una coppia avanti negli anni, già prossima alla cinquantina. Viene descritta la tristezza disperata di lei e la stanchezza senza scampo di lui e la neve, il fiume gelato, l'acqua che scorre nera sotto il ghiaccio, il loro bambino morto seppellito in patria prima di partire per l'Alaska e la vita dura in Alaska che sembra più una scelta autopunitiva che di piacere. La storia diventa quasi subito una favola e lo stile si adegua e si semplifica, la scrittura si appiana e si distende. Resta la bellezza delle descrizioni dei paesaggi, della neve, della vita estrema e della solidarietà tra vicini, dei legami non biologici ma di affetto. La storia è semplice e ricalca una fiaba russa. Una coppia anziana e senza figli, oltre la soglia biologica per poter sperare nel figlio naturale, fa una bambina di neve, un pupazzo. E la bambina il giorno dopo compare in carne e ossa. I due la "addomesticano" e lei si affeziona a loro. Da creatura magica decide di vivere per un po' tra la gente anche nella stagione "calda" e nella favola russa la storia sembrerebbe avere un finale triste a giudicare dalle immagini. La fiaba è scritta in russo quindi illeggibile.
Comunque tra caccia, agricoltura estrema, torte, pranzi con i vicini a base di alce e patate, caccia al gulo gulo, alle volpi, lupi e orsi la storia diventa una fiaba tenera. Sempre piena di neve, neve ovunque a partire dalla bambina di neve.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    21 Marzo, 2017
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Il calore degli affetti

Altro bellissimo libro di Kent Haruf. La cosa interessante delle sue storie è la semplicità dei dialoghi unita alla essenzialità e profondità delle frasi che non cadono mai nel banale. Sembra che tutti parlino mettendo a nudo l'anima, personaggi positivi e negativi (pochi questi ultimi). Nelle sue storie gli affetti sono sempre il motore e il faro. I personaggi positivi si incontrano e si aiutano, cercano di sollevare i fardelli altrui per cui il mondo di Kent sembra più positivo e vivibile del nostro e leggere le sue storie fa pensare che la vita potrebbe essere migliore di come è. Molti personaggi positivi maschili hanno una certa trasparenza e ingenuità, per esempio i fratelli Mc Pheron che hanno preso in casa la ragazzina incinta sollevando a Holt un vespaio di chiacchiere e cattiverie. Ma anche le cattiverie non sono descritte, restano sullo sfondo per far risaltare la positività dei personaggi. Anche il rapporto di Raymond McPheron con le donne è improntato alla ingenuità e al candore. I personaggi sono tutti a caccia di relazioni e di calore. Mc Pheron ha due incipit di relazioni sentimentali, una con l'infermiera e una con l'assistente sociale in cui manca la fase di innamoramento e c'è la sensazione che qualsiasi donna gentile potrebbe essere adatta a colmare la solitudine dell'uomo. Così come le relazioni tra persone buone sono sempre positive e di aiuto ma sono anche poco personali in un certo senso, un po' adirezionali, nel senso che la simpatia o la preferenza che si potrebbe nutrire per un essere umano piuttosto che per l'altro è spesso assente. Le persone buone in genere si piacciono tra loro sempre e comunque. I tre diversi romanzi hanno in comune Holt e il modo di procedere narrativo che sfiora diverse esistenze ma non si concentra mai su un personaggio solo. Anzi, sembra che all'autore sia necessario cambiare personaggio per affacciarsi su più vite in una visione di passaggio come da un treno in corsa piuttosto che analitica da romanzo. Il modo di guardare le cose è suggestivo, ma data la trilogia, a me è dispiaciuto che alcuni personaggi siano spariti nel senso che secondo me avrebbe dovuto proseguire anche le loro vicende e accompagnarli per un altro pezzo di strada (ad esempio il prof. Guthrie e i due figli).
In un certo senso le sue storie potrebbero ricordare come spirito più che come stile Marylinne Robinson. Lo stile invece Cormac soprattutto per il tipo di dialogo: frasi corte, essenziali, che hanno una specie di risonanza dovuta alla loro essenzialità che è come se facesse vedere chi le pronuncia sotto una lente.
Dei tre libri il più bello è il Canto della pianura.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    11 Marzo, 2017
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Darsi una mano

Il secondo volume della trilogia della pianura con Benedizione ha il denominatore comune del paese: Holt. I personaggi però non sono gli stessi e a me questi del Canto della Pianura sono entrati tutti nel cuore. Ci sono i due ragazzini di 9 e 10 anni, quasi gemelli, con la madre in fuga, forse malata di depressione e il padre insegnante di storia al liceo che si occupa di loro. La studentessa incinta che viene cacciata di casa dalla madre e che viene ospitata prima da una insegnante poi da due fratelli anziani e scapoli. L'insegnante di storia, il padre dei due ragazzini, che viene invitato dal preside a promuovere lo studente sfacciato e sfaticato. Alcune storie sono piuttosto improbabili ma hanno questo denominatore comune che è il desiderio di bene, di darsi una mano, di sostenere l'altro nella sua esistenza misera e zoppicante. Questo aggiunge bellezza a ogni storia dandogli il tocco della favola per quella bontà che è quasi magica da ritrovare nelle vite vere ma che rende le storie più belle e dolci da ascoltare. Rispetto a Benedizione la cura formale e la malinconia lirica sono un po' meno accentuate ma questo secondo libro a me è sembrato ancora più bello, più naturale, più interessante. La presenza dei personaggi negativi, dello studente stronzo e strafottente. del fidanzato di Victoria viziato e irritante, della gente che pensa male dei due fratelli che ospitano Victoria serve a far capire al lettore come il male sia mediocre e come non ci si possa rassegnare al male e alla meschinità e alla miseria quando basta un po' di solidarietà e di generosità per rendere luminosa ogni esistenza.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    09 Marzo, 2017
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Brava gente

La prima cosa che colpisce del testo è la scrittura. Tutto passa attraverso i dialoghi, curatissimi alla Cormac. La cura vuole essere invisibile, non pesare in nessun modo sul testo per cui i dialoghi sono estremamente semplici, essenzializzati. Attraverso questa apparente semplicità l'autore riesce a far passare la vita non solo di una famiglia ma della comunità di Holt, rendendo l'idea di rapporti tra le persone molto positivi dove il male del mondo si insinua a fatica passando attraverso strade non di malvagità e di violenza ma soprattutto di diversità (Frank, il figlio omosessuale; la ragazza un po' troppo svelta, il commesso con le mani lunghe che si pente subito appena scoperto, la chiesa locale ipocrita a parte il prete). Insomma lo stile Cormac è applicato a una visione del mondo anti-Cormac, senza la violenza e la cattiveria di Cormac, ma con la dolcezza di A. Tyler. Il risultato è piacevole, rasserenante. Non è male vedere le cose in questo modo un po' ovattato ma forse non troppo, pensare che rapporti umani di questo genere sono, perchè no, possibili.
Il tutto reso lirico da una vena di malinconia che percorre il romanzo grazie soprattutto a uno dei protagonisti, Dad, negoziante in fin di vita, che guarda le cose con l'ottica di chi sta per lasciarle e sta stendendo un bilancio della propria vita.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    04 Marzo, 2017
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Kerouac per signora

Questo romanzo di Eggers anche se piacevole e ben scritto mi è sembrato meno bello degli altri romanzi, per esempio di Ologramma per il re. Leggendo ho avuto come l’impressione che gli ingredienti non siano stati dosati bene e che manchi qualcosa. L’elemento più interessante è comunque il senso di stanchezza per la società civile con le sue regole, il senso di repulsione per la presenza umana che raggiunge e sporca i posti più incontaminati e la forte attrazione per la natura e per la vita a contatto con la natura con i suoi pro e contro: in sintesi bellezza e pericoli. I pericoli ci sono ovunque: incendi, temporali, fulmini, fiumi, laghi. Ma l’elemento più ambiguo e insondabile resta sempre l’uomo che potrebbe essere diverso da quello che appare o celare intenzioni, perversioni, follia. La protagonista, madre di due figli, fugge in camper verso una zona selvaggia dell’America, l’Alaska, con al seguito i due bambini di pochi anni. Il maggiore Paul ha 8 anni. La donna è in fuga dalla sua professione che l’ha stancata (dentista), dai sensi di colpa (la morte di Jeremy volontario in Afghanistan), dalle cause legali e dall’ex-compagno di cui è arcistufa e che non ama. Bisogna dire che per quanto lei scappi, Carl non ci pensa nemmeno lontanamente a inseguirla. La fuga è soprattutto dalla propria vita, dal tipo di vita, dal tipo di consesso sociale. La richiesta è quella di una vita più a brutto muso con la natura. Lo scopo sembrerebbe quello di riuscire a vivere di quello che la provvidenza mette in tavola, di incontri casuali e stimolanti al di fuori di regole, sempre al limite tra fascino e pericolo reale o eventuale. La cosa più interessante del testo è la parte descrittiva legata ai paesaggi. La storia a me non è piaciuta particolarmente anche se è delicata e potrebbe essere adatta a lettrici donne con figli. Ho letto recensioni in cui si parla di un finale tragico. In realtà nella testa di Eggers il finale non vuole essere assolutamente tragico. Non lo è, anzi. E’ un finale all’insegna della provvidenza e del coraggio e della bellezza di trovarsi a brutto muso con gli elementi e di sfidarli.

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