Opinione scritta da annamariabalzano43

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    05 Mag, 2014
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Il cardellino di Donna Tartt

Due, sono due i temi fondamentali al centro di questo lungo romanzo di Donna Tartt, scritto con rara eleganza, profondo nell’analisi dei sentimenti umani, coinvolgente nella storia.
Il primo e più evidente è il tema della solitudine, della disperazione quasi senza voce del giovane protagonista Theo, che viene privato del grande amore della madre e per la madre in seguito a un tragico attentato al Museo d’arte moderna di New York. Il contatto con il mondo esterno, non più mediato dalla presenza amorevole della mamma, è brusco e amaro e conduce Theo, appena tredicenne, attraverso dure esperienze che diventano sempre più dolorose.
Il rapporto frustrante e deludente con il padre, l’amicizia con Boris, forte e deviante a un tempo, lo trascinano verso l’incubo della droga e dell’alcol.
La grande tradizione letteraria americana è qui chiara ed evidente: Theo è il discendente del picaro Huckleberry Finn, di Twain, e del più moderno Dean Moriarty di Kerouac.
Unica costante in questo mondo degradato in continuo movimento, è il segreto che Theo conserva gelosamente: il quadro sottratto al momento dell’attentato al museo, il piccolo gioiello dipinto da Fabritius nel 1654, Il cardellino, che tanto piaceva a sua madre. E qui si innesta il secondo tema, non meno importante, del romanzo, quello della funzione dell’arte e del rapporto opera d’arte e fruitore dell’opera.
Il cardellino fu dipinto da Fabritius con la tecnica del trompe l’oeil e questo particolare è estremamente significativo nella comprensione del romanzo. Il quadro crea dunque un’illusione. Dipinto su uno sfondo simile a una parete, l’uccellino, legato al posatoio da una catenella, sembra voler spiccare un volo impossibile da un momento all’altro. Né d’altra parte la scelta di questo volatile è casuale, poiché esso era conosciuto nell’antichità come un piccolo animale domestico, facilmente addestrabile, in grado di eseguire piccoli trucchi.
In questa prospettiva il giovane Theo si identifica con il cardellino stesso, nella sua aspirazione alla libertà negata, alla sua propensione all’inganno e alla truffa.
Con grande sensibilità la Tartt si chiede quale sia il confine che separa il bene dal male, insinua il dubbio che sia difficile separare le due cose ed è per questo che il protagonista del suo romanzo oscilla tra l’incoscienza e la superficialità generate dalle droghe e la consapevolezza e la lucidità dei momenti sobri.
Ed ecco l’interrogativo che Theo pone a se stesso: “Come è possibile che pur rendendomi conto che tutto quel che amo o che mi interessa è un’illusione, io continui a sentire che tutto ciò per cui vale la pena vivere risiede proprio in quella illusione?.......il cuore non si sceglie. Non possiamo obbligarci a desiderare ciò che è bene per noi o per gli altri. Non siamo noi a determinare le persone che siamo.”
Nello stesso modo Theo si pone di fronte all’illusione creata dall’opera d’arte: “ …mi sono convinto che non c’è alcuna verità dietro l’illusione. Perché tra la realtà da un lato e il punto in cui la mente va a sbattere contro la realtà, esiste uno spazio sottile, uno spicchio di arcobaleno da cui origina la bellezza …..questo è lo spazio in cui tutta l’arte prende forma …”
A parte qualche caduta di tono, dove sembra che la Tartt abbia ceduto al fascino del cinema americano tendente alla pulp fiction, direi che l’insieme è un omaggio alla grande funzione dell’arte nella vita di ogni individuo, che sia essa espressa dall’opera di pittori, musicisti, artisti di ogni genere, sia essa espressa dall’abilità manuale dei restauratori che sono in grado di preservare quei manufatti che conservano in sé anni di storia e di storie. E mi piace citare una frase tra quelle che chiudono il romanzo, che rende ancora più chiaro il concetto: “ E nel pieno del nostro morire, mentre ci eleviamo al di sopra dell’organico solo per tornare vergognosamente a sprofondarvi, è un onore e un privilegio amare ciò che la Morte non tocca.”

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    22 Aprile, 2014
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Yoshe Kalb di I.J.Singer

Yoshe Kalb di I.J.Singer, pubblicato a puntate in yiddish sul “Jewish Daily Forward” di New York di cui l’autore era corrispondente da Varsavia, ebbe subito un grande successo. Divenne in seguito un’opera teatrale e un romanzo in lingua inglese dal titolo The sinner. Le vicende narrate furono ispirate da fatti realmente accaduti, rielaborati in chiave romanzesca e i personaggi sono esponenti della comunità ebraica dei chassidi, residenti nella Galizia, quella regione che nel periodo storico appena precedente alla prima guerra mondiale era parte dell’impero austroungarico.
La prima parte del romanzo si concentra sul personaggio del Rabbi Melech, sul suo desiderio di contrarre nuove nozze con una giovane adolescente, pur essendo rimasto vedovo già tre volte. Non potendo tuttavia sposarsi prima che la figlia più giovane non abbia ella stessa preso marito, il Rabbi organizza le nozze della figlia Serele con il giovanissimo Nahum, e quindi, incurante dell’opinione che vuole di pessimo auspicio un nuovo sposalizio dopo tre spose defunte, si unisce in matrimonio con Malka.
In queste pagine colpisce la sudditanza della figura femminile, priva di qualsiasi libertà di scelta e di autonomia di giudizio. Serele, che pure nutre un sentimento d’amore per il giovane marito, Nahum, delicato intellettuale dedito allo studio della Qabbalah e della Legge, si vede respinta e tace con remissività subendo umiliazioni continue. Malka, oggetto del desiderio del lascivo Rabbi, si innamora perdutamente di Nahum, da lui ricambiata, e cerca di sfuggire alla sua sorte. Il peccaminoso rapporto consumato dai due amanti sarà la causa delle successive disgrazie. Morta Malka, nel vano tentativo di dare alla luce un figlio, Nahum si allontana di notte e iniziano così le sue peregrinazioni.
Il vagabondare di Nahum, la sua perdita di identità, il suo perseverante studio dei salmi, fanno di lui un uomo apparentemente diverso. Giunge e si radica in una comunità che lo considera un “minus habens” e lo chiama Yoshe il tonto. Questa stessa comunità lo costringerà a sposare la figlia ritardata dello scaccino. Questo sarà l’evento che lo indurrà a fare ritorno al paese da cui era partito e a sottomettersi dunque a un duro processo.
Al di là della trama, a tratti avventurosa, il pregio del romanzo sta, a mio avviso, nell’atteggiamento critico dell’autore nei confronti di ogni integralismo. Non si può fare a meno di notare infatti la sottile ironia con cui l’autore descrive sia le rigorose abitudini della comunità chassidim nel vestire, nel curare i cernecchi, nell’obbligare le spose a rasarsi il capo, sia l’esasperato rispetto della Legge, interpretata peraltro spesso in modo arbitrario.
Questo sembra essere il messaggio più forte: ogni religione, sia essa cristiana, islamica o ebraica, se interpretata secondo un rigore esasperato, se sfocia in un integralismo che cancella ogni elasticità di pensiero, può degenerare nella violenza più assurda. E Singer descrive con tratti estremamente realistici il tentativo di linciaggio della giovane Zivyah.
La figura di Nahum/Yosha è esemplare nel suo rifiuto di dichiarare la sua identità. Egli è Nahum e Yosha, ma nello stesso tempo non lo è. Alla domanda :”Chi sei?” egli risponde: “Non lo so.”
La sua meditata e voluta perdita di identità sarà il motivo fondamentale che lo spingerà ancora una volta, ebreo errante, ad allontanarsi in cerca d’una patria che lo accolga, una patria a dimensione d’uomo dove la Legge sia una guida e non una minaccia.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    11 Aprile, 2014
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A un cerbiatto somiglia il mio amore

Un grande romanzo d’amore, in cui l’amore è il vero protagonista, nelle sue molteplici espressioni. Significativa è la scelta del titolo da parte dell’autore: un versetto tratto dal Cantico dei Cantici, considerato da molti un inno all’amore di Dio per il popolo di Israele, che qui assume un’ ulteriore valenza nel riferimento al nome di uno dei personaggi del romanzo, Ofer, che in ebraico vuol dire “cerbiatto”.
Al centro di questa storia è certamente Orah, una donna sensibile, forte e fragile al tempo stesso, legata da un amore profondo a quelli che erano stati gli amici della sua adolescenza, un amore conflittuale e diverso, ma non meno intenso nello scorrere del tempo. Sin dall’inizio del racconto, l’accenno al doloroso episodio della vita di Orah giovanissima, che soffre per la perdita dell’amica più cara, Ada, anticipa quello che sarà il leitmotiv del romanzo, l’amore e la perdita, la gioia e la sofferenza in un’alternanza inevitabile.
Il legame profondo che unisce Orah a Avram e a Ilan genera nei tre sentimenti spesso discordanti e suscita sensi di colpa che investono la sfera dell’amicizia, della lealtà e della solidarietà. Ogni personaggio è visto nella sua umanità, senza condanne né giudizi. È Orah tuttavia a subire più di ogni altro l’abbandono. Sarà lei a cercare rifugio alternativamente nelle braccia di Ilan e di Avram. L’amicizia è ora elemento di unione ora di separazione. E l’amore di Orah altrettanto intenso per i suoi figli riesce a moltiplicarsi e dividersi, in un continuo divenire, senza mai impoverirsi. Sullo sfondo, ma con una presenza quasi ingombrante, la guerra che devasta i territori israeliani e palestinesi, le atrocità subite da Avram, la ricerca d’una patria che ancora non si sente di possedere: la stessa guerra che coinvolge Ofer e allontana Orah dalla sua casa inducendola a vagare con Avram senza meta, col solo fine di allontanare il pericolo d’una notizia luttuosa che potrebbe raggiungerla tra le mura domestiche. La casa dunque non è più il rifugio sicuro, è il luogo che non può e non deve essere testimone di tanto dolore. E il viaggio intrapreso da Orah sarà il mezzo per conoscere meglio se stessa e permettere ad Avram di vivere quella parte di vita a cui aveva rinunciato. Orah cercherà il contatto con la natura, un contatto fisico che possa permetterle di farla sentire ancora viva e di abbandonarsi all’istintiva ricerca di protezione nell’abbraccio di Avram.
Il doloroso viaggio di Orah sarà anche un modo per prendere coscienza di quei sentimenti laceranti che prova verso un nemico che assume talvolta le sembianze di Sami, il palestinese legato alla famiglia da devozione e affetto, ma il cui orgoglio lo porta a respingerla nel momento in cui deve condurre Ofer a combattere contro il suo popolo. I sentimenti di ribrezzo e orrore per una guerra interminabile che non permette tregua condanneranno Orah a esprimere giudizi severi persino sul suo amato Ofer, che non riesce ad accettare nelle vesti di soldato al fronte.
“..Il leopardo e il capretto che si sdraiano insieme e staremo a vedere cosa succede…..Forse quel particolare leopardo e quel particolare capretto riusciranno…a elevarsi, a redimersi?...”
Grossman ha il dono indiscutibile di esprimere sentimenti profondi a cui riesce a dare sostanza e vita attraverso la parola: il dolore, come l’amore, si materializza, diviene palpabile. Un’opera questa che sembra racchiudere in sé tutto il dramma umano, dalla nascita alla morte, in una perenne ricerca della felicità.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    21 Marzo, 2014
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Il figlio di Philipp Meyer

Che l’intellettuale americano abbia sempre sentito l’esigenza di consolidare le origini e le radici della giovane nazione che gli ha dato i natali è cosa nota. Basti pensare al disagio più o meno evidente in autori come Henry James, nato a New York e morto a Londra, o T.S.Eliot nato a S.Louis e morto anche lui a Londra, che elessero l’Europa e l’Inghilterra, in particolare, a patria culturale di riferimento.
Il romanzo di Philipp Meyer, “Il figlio”, persegue l’obiettivo di ripercorrere la storia dell’America nelle sue tappe più significative, attraverso l’epopea di una grande famiglia di cui si seguono le vicende dalla metà dell’ottocento ai giorni nostri giorni.
L’autore si serve di tre diverse tecniche narrative: il racconto in prima persona dove narratore e protagonista coincidono come nel caso di Eli, che può essere considerato il vero effettivo capostipite della famiglia, il racconto in forma diaristica che ha diversi precedenti nella tradizione americana, ma che richiama il più popolare classico inglese Robinson Crousoe di Defoe nel caso di Peter, e la narrazione in terza persona, relativa al personaggio di Jeanne Anne, tentativo quest’ultimo di esposizione obiettiva e imparziale dei fatti.
Un romanzo avvincente che tradisce una profonda voglia di storia, che dia dignità all’uomo e all’intellettuale americano, anche se dai fatti troppo spesso traspaiono ombre ed eventi poco edificanti.
La tematica affrontata in questo romanzo non è certamente nuova, basti pensare all’opera di Thomas Berger, più nota per la trasposizione cinematografica di Athur Penn “Il piccolo grande uomo” o al film “Il gigante” diretto da George Stevens, o ancora a “Balla coi lupi” di Kevin Kostner tratto dal romanzo di Michael Blake. Tutte storie ambientate nel Texas.
Il personaggio che assume maggiore spessore è senz’altro Eli, che dopo aver visto sua madre, sua sorella e suo fratello trucidati dagli indiani, viene da questi rapito e portato nei loro accampamenti dove trascorrerà alcuni anni. La vita a contatto con una natura aspra e ostile, a fianco di uomini il cui comportamento spietato risponde quasi sempre a una logica e a una morale primitiva, ma non priva di senso né di lealtà, rende Eli un giovane ardito e pone le basi per l’uomo senza scrupoli che sarà.
Attraverso il suo racconto seguiamo parte della storia del Texas, dalla lotta contro i pellerossa, a quella contro i messicani, dalla guerra di secessione all’esproprio dei territori per lo sfruttamento dei pozzi petroliferi. Una storia dura, che mostra l’altra faccia dell’american dream e che spiega la nascita delle grandi ricchezze e dei centri di potere.
Il diario di Peter, uno dei discendenti di Eli, che si trova ormai a essere parte di una famiglia diventata potente, mostra, al contrario, il disagio di chi non sente di condividere scelte prive di scrupoli che spesso inducono all’omicidio e all’odio razziale. Peter è il discendente considerato debole, in una società in cui consapevolezza e coscienza sono sinonimi di fragilità. Ma la sua fragilità si trasformerà in coraggio nel momento in cui avrà la forza di abbandonare una famiglia nei cui valori non si riconosce e di rinunciare alla ricchezza, per vivere con la donna messicana, la cui famiglia aveva contribuito lui stesso a sterminare.
Il personaggio di Jeannie, descritto da un’anonima voce narrante esterna alla storia, è interessante per l’evidente conflitto interiore che la anima: da una parte il desiderio di emancipazione e di parità di genere, dall’altra l’istintiva propensione verso un ruolo femminile tradizionale . Ella vive traumaticamente il suo passaggio dalla condizione di “mater familias” a quella di manager. Tutta la sua vita è condizionata dalle sue scelte, anche l’amore, il sesso e il rapporto con i figli.
Un romanzo, questo di Meyer, molto ben articolato, il cui titolo, “Il figlio”, al di là di un riferimento specifico a questo o a quel personaggio diviene la metafora dell’uomo americano nei suoi molteplici aspetti: egli può essere audace e coraggioso, prepotente e violento come Eli, sensibile come Peter, desideroso di emancipazione e tradizione come Jeannie.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    10 Marzo, 2014
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La simmetria dei desideri di Eshkol Nevo

“La simmetria dei desideri” di Eshkol Nevo, israeliano, è un romanzo pervaso da una costante, struggente malinconia in cui la narrazione procede lenta sul filo della memoria.
La voce narrante appartiene a uno dei personaggi della vicenda, uno dei quattro giovani che, legati da un forte vincolo d’amicizia, in occasione della finale dei mondiali di calcio del ’98, decidono di esprimere ciascuno un desiderio e scriverlo su un bigliettino da leggere quattro anni dopo, nella stessa occasione, per constatare se siano riusciti a realizzare i propri sogni.
Le vite dei quattro amici si intrecciano, i legami diventano sempre più stretti, inconsapevolmente ognuno di essi diviene dipendente dall’altro. Ogni esperienza è condivisa, sulla base di un’amicizia sempre più profonda.
“Gli amici sono come un’oasi nel deserto, che permette di dimenticare il deserto, o come una zattera nel mare in tempesta..”
Ma anche nell’amicizia, la più solida, si possono annidare inganno e tradimento e anche i quattro amici di Haifa conosceranno disillusione e sofferenza. L’impegno da loro assunto scandisce le loro vite e le condiziona, a tal punto che è amaro constatare come il tempo muti il corso delle cose a dispetto dei propositi di ognuno. È per questo che Yuval, il narratore, farà in modo di realizzare quella simmetria dei desideri resa difficile se non impossibile dagli eventi della vita. Con il suo romanzo, con il racconto delle loro esperienze condivise, egli riuscirà a ricreare l’armonia dei giardini di Bahà’ì, un luogo la cui perfezione estetica si basa su una perfezione geometrica, in pieno contrasto con il mondo esterno circostante ancora dilaniato dalla guerra e dalla intifada. E la realtà del paese Israele che rimane apparentemente solo sullo sfondo in questo romanzo, è invece, a mio avviso, continuamente presente con i riferimenti alla cultura britannica, alle lotte intestine, a tutto ciò che rende difficile la realizzazione di una vera patria che è ciò che più manca a questi personaggi, alla continua ricerca del “nucleo” in cui trovare rifugio e protezione.
Originale è la tecnica narrativa di quest’opera, che dal secondo capitolo in poi, inizia con un brano in corsivo che altro non è che la descrizione di una fotografia. Solo verso la conclusione del romanzo si comprenderà il fine di queste introduzioni, che portano poi alla più estesa narrazione degli avvenimenti e all’analisi introspettiva approfondita dei personaggi, con una particolare attenzione all’io narrante.
Un romanzo armonioso nella sua struttura, in cui la simmetria dei desideri trova riscontro nella simmetria strutturale.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    21 Febbraio, 2014
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Il mistero dei massi avelli di Bruno Elpis

“Il mistero dei massi avelli” di Bruno Elpis è un romanzo giallo interessante e stimolante per le osservazioni e le considerazioni che suggerisce al lettore.
Cominciamo dall’esame della copertina, sempre molto importante in un libro, perché ha la funzione di catturare l’attenzione e suscitare emozioni che indurranno alla lettura del testo. Qui siamo di fronte a una fotografia suggestiva d’un ambiente “silvestre”, dove in primo piano appare quella che sembra una vecchia vasca di pietra piena d’acqua, una sorta di antico lavatoio, che nel corso della lettura del romanzo, si chiarirà essere uno dei massi avelli, pietre tombali che si fanno risalire al IV o V secolo. Già qui dunque appaiono due elementi importantissimi presenti nella storia narrata da Elpis : l’acqua e la sepoltura, ovvi riferimenti al lago e al delitto.
Il lago, infatti, descritto in alcuni punti con toni che ricordano il migliore Fogazzaro, assume un’importanza rilevante, con la sua calma apparente e ambigua. Esso, al contrario del mare, sa celare meglio le sue correnti mortali, è più ingannevole e seducente per l’atmosfera rasserenante che diffonde. Ed è su questa linea di ambiguità che Elpis sviluppa con abilità una trama semplice e complessa insieme, affidando le indagini di un delitto consumato in questi luoghi calmi e appartati ad un commissario “antieroe” le cui qualità umane sembrano contenute e espresse in un nome fortemente simbolico: Giordan. Il riferimento al fiume Giordano, alle sue acque battesimali, non è certamente casuale. Giordan è il “bene” che combatte contro il “male”. Le sue armi sono però a portata d’uomo comune. Giordan potrebbe essere chiunque, chiunque faccia della propria modestia e della propria umiltà la sua forza. Egli sa di avere bisogno dell’aiuto altrui, del supporto di Cornelia come di quello di Gabriella. La sua lotta contro lo sconosciuto e diabolico assassino procederà per gradi e condurrà per mano il lettore alla scoperta della verità. Il racconto si serve delle conoscenze dell’autore dei siti archeologici di cui parla senza cadere in una prosa pedante, anzi ogni approfondimento carpisce ulteriormente l’attenzione. I personaggi al centro dell’indagine di Giordan vengono analizzati nei più reconditi aspetti psicologici, e a sostegno di quanto scrive, Elpis fa talvolta riferimento alle teorie freudiane e junghiane. Un giallo, ed è molto apprezzabile che così sia stato definito sin dalla copertina perché ciò lo certifica immediatamente come italiano, rifuggendo da termini assai in uso come noir o thriller, che nulla hanno a che vedere con la tradizione italiana, un giallo, dunque, interessante anche per il contenuto culturale e gli spunti di riflessione che offre.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    18 Febbraio, 2014
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La famiglia Winshaw di jonathan Coe

“La famiglia Winshaw” di Jonathan Coe fu pubblicato nel 1994 - un romanzo geniale, un compendio di tutta la migliore tradizione letteraria britannica.
Il testo è diviso in due parti , precedute da un prologo che introduce i membri della famiglia riuniti nella dimora avita, le Winshaw Towers, luogo sinistro, testimone delle sfrenate ambizioni e delle spregiudicate mire dei suoi abitanti.
Perché il lettore non si confonda tra i numerosi personaggi componenti della famiglia, Coe ha inserito all’inizio di queste pagine introduttive un utilissimo albero genealogico.
La prima parte del romanzo è la più lunga e la più complessa. La scena si sposta dalla dimora di famiglia e si concentra sui singoli personaggi, sulle loro vite e le loro abitudini. Ad un capitolo dedicato ad un preciso periodo storico che inizia con l’agosto del 1990, si alterna un capitolo per ognuno dei discendenti Winshaw. Con questo espediente Coe raggiunge un duplice scopo: quello di introdurre il personaggio di Michael Owen, lo scrittore che dovrebbe raccontare la storia della grande e potente famiglia e quello di fare uso di diverse tecniche narrative: il racconto in terza persona con un punto di vista esterno alla vicenda, la narrazione affidata a un io narrante e persino quella diaristica così cara a Defoe. Il cambiamento dei punti di vista rende più vivace e interessante la descrizione dei fatti. Con estrema abilità Coe riesce infine a far coincidere e culminare vicenda e personaggi in un unico quadro sintetico.
Siamo di fronte a un’impietosa critica di tutto l’establishment britannico: la satira di Coe raccoglie la mordace lezione del Swift dei Gulliver’s travels pur senza arrivare al paradosso della sua “Modesta Proposta”; ripropone, nello stile dello Sterne del “Tristram Shandy” una galleria di personaggi- simbolo di istituzioni e centri di potere corrotti e inefficienti: Hilary rappresenta l’uso spregiudicato e corrotto dei mezzi di informazione, Henry l’opportunismo senza scrupoli della politica, Roddy è l’ignobile ricco mercante d’arte che abusa del suo potere per ingannare un’aspirante pittrice, con Dorothy si allude alla disonestà e alla crudeltà con cui si può gestire un’impresa, Thomas rappresenta lo sciacallaggio esistente in certi ambienti del mondo della finanza e infine Mark è la dimostrazione di come si possano chiudere gli occhi di fronte a misfatti e stragi, torture e persecuzioni a opera di dittatori spietati, in nome del profitto.
La seconda e ultima parte del romanzo si svolge di nuovo nella dimora di Winshaw Towers, che diviene un grottesco microcosmo dell’intera società umana. Qui infatti si riuniscono di nuovo i membri della famiglia con il pretesto della lettura di un testamento e il romanzo si trasforma da feroce satira socio-politica a giallo nella scia della più raffinata tradizione dell’ Agatha Christie di “Dieci piccoli Indiani”. E’ possibile trovare anche qualche riferimento al Goldfinger di Ian Fleming. Né mancano momenti ansiogeni che ricordano alcune situazioni descritte dall’americano Edgar Allan Poe, che tanta influenza ebbe sull’opera di Conan Doyle.
“La famiglia Winshaw” è dunque un romanzo complesso, ma piacevolissimo. La conclusione lascia stupiti. Un romanzo nella migliore tradizione britannica.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    03 Febbraio, 2014
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Sulla strada di Jack Kerouac

“Sulla strada” di Jack Kerouac , come “Il giovane Holden” di Salinger, sono due classici della letteratura americana ormai considerati due romanzi “cult” dalla cui lettura non si può prescindere se si vuole approfondire la conoscenza della cultura e della storia degli Stati Uniti. In realtà i personaggi non rappresentano strettamente e unicamente la condizione giovanile di un continente, un luogo, un’epoca: essi sono piuttosto l’espressione di quel disagio adolescenziale che si protrae fino alle soglie dell’età adulta, quel disagio che investe trasversalmente tutte le generazioni di quella fascia d’età d’ogni parte del mondo e pertanto diviene universale.
Dean Moriarty, il personaggio centrale del romanzo di Kerouac, descritto dall’io narrante Sal, è un giovane ribelle che trascorre gran parte degli anni della sua giovinezza sulla strada, in viaggi improvvisati in autostop o in macchine rubate, sfogando la propria esuberanza in incontri casuali dove ogni rapporto è rapido e passeggero e praticando spesso un sesso “mordi e fuggi” allo stesso modo in cui consuma pasti di infima qualità e scola bottiglie di alcol con l’ intento di attenuare la paura che fondamentalmente lo attanaglia. Sì perché la sua sfrenata corsa dall’ovest all’est e poi di nuovo dall’est all’ovest degli Stati Uniti, fino a raggiungere persino il Messico, non è altro che una fuga da se stesso e alla ricerca di se stesso. E’ la stessa fuga del giovane Holden: è il rigetto delle convenzioni e degli schemi del mondo perbenista che lega e annienta lo spirito avventuriero e ribelle. Dean Moriarty e Holden sono tuttavia simili e diversi : simili per la loro ribellione ma diversi per il mondo a cui appartengono, o quanto meno, da cui provengono. Holden è espressione della media borghesia degli anni cinquanta, Moriarty della piccola borghesia della stessa epoca più vicina alle classi dei diseredati e degli afroamericani. Salinger, d’altronde è il portavoce di un ambiente colto, intellettualmente raffinato e si distingue da Kerouac anche per l’uso più ricercato del linguaggio.
Entrambi i personaggi di questi due grandi romanzi tentano una disperata fuga dalla futilità e dalla falsità del perbenismo del mondo di cui pure fanno parte. Moriarty sembra a tratti consapevole di poter trovare pace solo in un legame stabile e duraturo e arriva addirittura a contrarre tre matrimoni: ogni volta però riemerge la sua ansia , la sua insoddisfazione e la sua intemperanza.
Non a caso Kerouac fu l’iniziatore di quella che egli stesso chiamò la beat generation, quella che sfoga la sua ribellione al ritmo del be bop, che affoga nell’alcol e si stordisce con la droga, quella che si oppone all’ideale dell’ “Uomo dal vestito grigio” di Sloan Wilson, l’uomo che si accontenta della routine quotidiana e rifiuta una posizione di maggior prestigio, per non alterare quel ritmo sereno e tranquillizzante della sua vita.
Non si può fare a meno di dare a Dean Moriarty il volto di James Dean di “Gioventù Bruciata” o quello di Marlon Brando de “Il sevaggio”, due miti legati a quella definita una generazione perduta.
Se, in ultima analisi, il disagio giovanile è da porre strettamente in relazione ai fatti storici, politici e sociali dell’epoca in cui esso si manifesta, non si può ignorare, tuttavia, che è la crescita stessa traumatica e dolorosa poiché spesso essa comporta la rinuncia ai propri ideali e ai propri sogni.

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Il giovane Holden di Salinger
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    20 Gennaio, 2014
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Ragazze di campagna di Edna O'Brien

La bellezza di questo romanzo è nella sua semplicità, nella capacità della scrittrice di descrivere con realismo e naturalezza quella che gli inglesi definiscono, con un’espressione ineguagliabile, la “ordinary life” di una comunità irlandese residente in campagna, che trascina la vita tra sogni irrealizzati, amori falliti e lavoro duro.
Caithleen e Baba sono due adolescenti, legate da un’amicizia profonda al di là dei dispettucci, delle piccole e grandi prevaricazioni, delle gelosie. Le due ragazze sognano una vita che offra loro opportunità e agi impensabili nel loro piccolo paese d’origine. Dopo la morte tragica della mamma, Caithleen desidera sempre di più allontanarsi dalla casa paterna anche per sfuggire alla convivenza con il genitore alcolizzato e violento. L’occasione le si presenta con la vincita d’una borsa di studio che la condurrà insieme con Baba in un collegio di monache. Allontanarsi dai luoghi in cui la presenza della madre è ancora così viva è doloroso, ma necessario: le due ragazze cominciano in questo modo il loro viaggio verso l’età adulta. La fuga dal collegio e l’approdo a Dublino sono una tappa successiva. L’amore per un ambiguo uomo sposato coglie Caithleen del tutto impreparata, mentre Baba sembra agire con maggiore spregiudicatezza.
Una storia comune, dunque, come quella di tante adolescenti: il merito dell’opera della O’Brien è consistito nel raccontare i sentimenti, le impressioni, le aspirazioni, le pulsioni sessuali di due giovani donne, con un realismo e una semplicità che, negli anni sessanta, quando fu pubblicato il libro, fecero inorridire e gridare allo scandalo la cattolicissima Irlanda. Il tema del sesso, infatti, considerato ancora scabroso e scottante in quel periodo storico, viene affrontato con grande naturalezza dalla O’Brien, che fa luce sui desideri più reconditi dell’essere umano.
La campagna di cui pure si descrivono i profumi, i suoni melodiosi, i paesaggi verdi e i fiori multicolori, non è quel luogo ideale , quel luogo dell’anima così spesso evocato in letteratura. Essa è anche trascuratezza e sporcizia, noia e insofferenza che spesso sfociano in violenza e prevaricazione.
Un romanzo interessante, un ritratto di una società non molto lontana dai nostri giorni eppure ancora segnata da grandi pregiudizi: la prosa scorrevole e il ritmo serrato ne fanno una lettura piacevole e veloce.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    14 Gennaio, 2014
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Un cuore così bianco di Javier Marias

Che il Macbeth di Shakespeare per la sua complessa forma espressiva e per il suo contenuto, tragico specchio delle debolezze e dei difetti umani, abbia, sia pure in modo diverso, influenzato scrittori di epoche successive, è cosa nota: cito qui, come unico esempio per tutti, il titolo dello stupendo romanzo di Faulkner “The sound and the fury” tratto dalla tragedia shakespeariana, titolo che si rivela anticipazione e sintesi del dramma raccontato dal romanziere americano.
“My hands are of your colour; but I shame to wear a heart so white….” Queste sono le parole che Lady Macbeth rivolge al marito che si è appena macchiato d’un crimine mostruoso che diviene emblema dello sconvolgimento dell’ordine naturale delle cose e da queste parole trae origine il titolo del romanzo di Marias.
Il bianco non è qui simbolo della purezza e dell’innocenza, quanto piuttosto dell’esigenza e del desiderio di sottrarsi a ogni responsabilità. Un cuore così bianco lo ha non l’innocente, ma colui che, ignaro della realtà degli eventi, non ne è stato ancora contagiato.
Su questa base e in questa prospettiva, Marias costruisce uno straordinario romanzo in cui i personaggi, nella loro ambiguità, si assomigliano, si sovrappongono, si identificano: il tema di una realtà proteiforme e mutevole tornerà nei successivi romanzi “Nella battaglia pensa a me” e “Gli innamoramenti”.
Se la realtà si presenta sotto aspetti diversi, essa è tanto più misteriosa se non è esplicitata dalla parola, l’unica in grado di dare consistenza a ciò che altrimenti è destinato a rimanere nascosto nella sfera intima dell’individuo. Intorno a questo principio si costruisce il mistero che è alla base del romanzo e che diviene il filo conduttore della vicenda, conducendo per mano il lettore fino alla rivelazione finale. Un gioco di suspense che è un gioco filosofico, perché l’intento è quello di dimostrare che fino al momento in cui il racconto non porta alla luce gli eventi che sono rimasti per volontà di qualcuno in una zona d’ombra , quella realtà non esiste e può essere ignorata. Tutto si può raccontare, “basta mettere una parola dietro l’altra”, la realtà si concretizza solo se la si descrive, se la parola assolve alla sua funzione di analisi e di conoscenza. Un compito arduo quello che Marias affida alla letteratura e all’arte: Il compito di fare chiarezza e di portare alla luce anche gli aspetti più deplorevoli dell’animo umano. In questa stessa prospettiva viene presentato l’amore, che da passione può trasformarsi in persecuzione, da fiduciosa confidenza in spietata diffidenza, fino a generare morte e dolore.

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Nella battaglia pensa a me e Gli innamoramenti dello stesso autore
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    02 Gennaio, 2014
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L'infanzia di Gesù di J.M.Coetzee

L’infanzia di Gesù, l’ultimo romanzo di J.M.Coetzee (premio Nobel 2003), è un testo enigmatico e ambiguo che offre diversi piani di lettura.
La vicenda, nella sua apparente semplicità, contiene quesiti filosofici e esistenziali ai quali è difficile dare risposte.
Simon e David, un uomo e un bambino, giungono a Novilla, un luogo non ben identificato, di cui si sa solo che i suoi abitanti, tutti profughi provenienti da una vita di cui non conservano memoria, parlano la lingua spagnola, unico elemento che li unisce e li lega. Simon assume su di sé la responsabilità del bambino che promette di proteggere fino al momento in cui non potrà riaffidarlo alla madre, che, ne è sicuro, egli riconoscerà, pur non avendola mai vista. Per mantenere il bambino, Simon si adatta a lavorare come scaricatore di granaglie al porto, cerca un alloggio, si procura pane e acqua che sembrano essere il cibo fondamentale del luogo. La vita non sembra particolarmente eccitante a Novilla, dove ogni passione e ogni pulsione sembra essere repressa e ignorata. Sarà l’incontro con Inès a convincere Simon di aver finalmente trovato la madre di David: a lei consegnerà il bambino, che inizia così una nuova vita, sviluppando da un lato alcune doti di intelligenza e dall’altro un’arroganza a tratti insopportabile. Il carattere difficile di David lo porta a essere discriminato nell’ambiente scolastico, fino a essere destinato a una scuola di correzione alla quale però Inès e Simon si rifiutano di mandarlo.
Dunque se Novilla può apparire come un luogo ideale, una sorta di isola di Utopia, d’altra parte per certi limiti, quali l’esaltazione della mediocrità, la repressione di ogni istinto e passione, la riduzione di ogni individuo all’anonimato trasformano l’utopia in distopia e sottintendono una malcelata critica a un tipo di società in cui non è presente neanche una fede o un credo religioso.
Se questo è certamente un piano di lettura, un altro non meno interessante può essere quello che riguarda il nucleo familiare che si è creato a Novilla, dove Inès il cui nome significa castità, purezza, è la madre designata, David, che con arroganza e senza amore per il prossimo dichiara :“Io sono la verità”, è il figlio e Simon, colui che si assume ogni responsabilità, è il padre putativo. In questa prospettiva alcuni dei più profondi conoscitori dell’opera complessiva di Coetzee hanno sostenuto che l’autore abbia voluto rappresentare la delusione messianica tra coloro i quali non hanno altro a cui aggrapparsi: “it’s also possible that Coetzee is gently parodying messianic delusions among people who have nothing else to sustain them.” (Joyce Carol Oates – The New York Times – Sunday Book Review – August 29, 2013).
Non meno interessante potrebbe essere vedere nell’intero racconto la parabola dei flussi migratori dei giorni d’oggi, con l’inevitabile rischio di perdita di identità fisica e culturale dell’individuo.
Con quest’opera, Coetzee lascia il lettore nel dubbio e nell’incertezza: ciò che è evidente è che “L’infanzia di Gesù” è un romanzo allegorico, la cui complessità, tuttavia, l’allontana dalla chiarezza di un Moby Dick di Melville o da un Animal Farm di Orwell. Qui tutto rimane sospeso, tutto risulta essere assurdo: non a caso i critici sottolineano quanto tutta la produzione letteraria di Coetzee abbia risentito dell’influenza di Kafka e del teatro di Beckett.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    23 Dicembre, 2013
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La signorina Else di Arthur Schnitzler

“La signorina Else” di Arthur Schnitzler fu pubblicato per la prima volta nel 1924, cioè due anni dopo l’Ulisse di Joyce. Questo riferimento temporale è importante per la tecnica narrativa usata da Schnitzler: lo stesso monologo interiore (stream of consciousness), che rese celebre il personaggio di Molly Bloom dell’Ulisse.
L’azione del romanzo si svolge in un tempo brevissimo, e in uno spazio e in luogo più o meno sempre uguali, quasi l’autore avesse voluto rispettare le rigide unità aristoteliche.
Il dramma della giovane Else inizia con l’arrivo di una lettera della madre, che la raggiunge in una località di villeggiatura, San Martino di Castrozza, e che le comunica la minaccia che incombe sul padre: egli rischia l’arresto se non paga in brevissimo tempo un debito di cinquantamila fiorini. Molto esplicitamente Else viene incoraggiata, anzi esortata da sua madre a vendersi al ricco signor von Dorsday, molto più vecchio di lei e suo spasimante.
Da qui ogni pensiero, ogni dialogo, ogni incontro viene filtrato dalla mente di Else e da lei interpretato. Da giovane donna bella e piena di prospettive rosee per il suo futuro, in una società alto-borghese mitteleuropea, Else si trasforma ai suoi stessi occhi in sgualdrina pronta a concedersi per denaro. Ripugnanza e disgusto per la condizione in cui verrebbe a trovarsi, non per sua scelta, le fanno considerare soluzioni alternative: il suo carattere così conosce un’evoluzione nel giro di poche ore. Cedere al ricatto vuol dire rinunciare ai propri sogni; il rapporto affettivo con i genitori muta e si trasforma in alcuni momenti in astio e rancore, pur lasciando qualche spazio alla pietà filiale. Else presenta se stessa e si descrive come una giovane molto bella, la cui bellezza è in fondo la sua condanna.
La storia, nella sua semplicità è la denuncia dei limiti di una società superficiale e egoista che non esita a trascurare i più elementari doveri di onestà e rispettabilità.
La bellezza di una figlia diviene comoda e facile merce di scambio, in un’epoca in cui l’emancipazione femminile è ancora solo un movimento affidato all’iniziativa delle suffragette.
L’interesse di queste romanzo breve non risiede dunque esclusivamente nella tecnica narrativa, ma anche nel suo messaggio sociale: la donna di Schnitzler appare ancora prigioniera di quegli schemi che ne hanno limitato per troppo tempo la libertà di scelta e di azione.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    20 Dicembre, 2013
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La casa del sonno di Jonathan Coe

L’originalità de “La casa del sonno” di Jonathan Coe risiede nell’impianto strutturale e stilistico e nel contenuto che sottolinea lo smarrimento e l’incertezza che affliggono l’uomo nel suo eterno conflitto con la realtà che lo circonda.
Il romanzo si articola su due piani temporali diversi: nei capitoli dispari l’azione si svolge negli anni 80, mentre in quelli pari negli anni novanta. Spesso un capitolo termina con una frase tronca che continua nel capitolo successivo, sconvolgendo ogni regola temporale e sintattica. I protagonisti della vicenda sono così seguiti e descritti nella loro evoluzione caratteriale e fisica: l’ambiente in cui si ritrovano è Ashdown, una casa inizialmente adibita ad alloggio per studenti universitari e in seguito trasformata in clinica dove si effettuano esperimenti e ricerche sul sonno.
Il sonno è il punto di partenza per riflessioni sulla condizione umana. La fase del riposo, in cui la coscienza sospende temporaneamente la sua attività, per poi riprenderla ancora più dinamicamente, si pone come alternativa al mondo esterno, al punto da confondersi con esso, come nel caso di Sara, sofferente di narcolessia, i cui sogni sono talmente verosimili da indurla a credere che si tratti della sola realtà attendibile. Tutto è il contrario di tutto a Ashdown: ogni individuo è alla ricerca della propria identità e trascorre interi periodi ad essere se stesso e il contrario di se stesso. Tutto è indefinito e incerto, dall’amore al sesso, dal lavoro alla sperimentazione scientifica e linguistica. Al centro di questa sorta di trattato sulla attendibilità della realtà che ci circonda è il termine “eye”, occhio, come nella migliore tradizione letteraria anglosassone. Non a caso Shakespeare attribuì alla cecità di Lear la capacità di “vedere” e superare l’inganno, così come è estremamente significativo l’uso del verbo “see” nel “The turn of the screw” di Henry James nella sua accezione di “comprendere, capire”. Né si può ignorare l’occhio del Big Brother di Orwell. In linea con questa tradizione Coe conferisce a ciascuno dei suoi personaggi una capacità diversa di vedere e interpretare la realtà, accentuando in questo modo il senso di angoscia e di incertezza. D’altra parte le immagini che ci appaiono e che viviamo in sogno, soprattutto quelle della fase rem (rapid eye movement), altro non sono che un’alternativa alla realtà, non meno di quanto lo siano le immagini proiettate dalla finzione cinematografica. E qui Coe si abbandona ad una sorta di trattato sul cinema, per mezzo di uno dei suoi personaggi, Terry,che sogna di girare un film che durerà cinquant’anni e che si dilunga sul film perduto di Ortese, “Il sergente cesso”. Molte sono le citazioni di film italiani di grandi registi, come anche di film americani, sempre però in chiave satirica, come se al cinema si riconoscesse il grande ruolo di creare una realtà illusoria sostitutiva. In questo mondo, dunque, secondo Coe, non è più possibile distinguere tra intrattenimento e rappresentazione del reale: neanche il linguaggio riesce più a trovare una formula universale. E cito dallo stesso Coe: “il linguaggio è un’amante crudele e fedifraga, è un baro astuto dalle maniche pullulanti d’assi……. È un coltello nell’acqua.”

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    10 Dicembre, 2013
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Quella sera dorata di Peter Cameron

Anche in questo romanzo la prosa di Peter Cameron si riconferma limpida e raffinata. Ha una capacità questo scrittore di costruire i personaggi conferendo loro caratteristiche umane e intellettuali di grande spessore. Come ne “Il week end” non è tanto la trama che interessa l’autore quanto il subliminale messaggio sul rapporto arte – vita, finzione e realtà. Ed è da questo che, forse anche inavvertitamente, viene catturato il lettore. La storia è semplice: il giovane studioso Omar Razaghi, di origine persiana, cresciuto in Canada, dopo la caduta dello Scià, e stabilitosi in Kansas dove svolge la sua attività universitaria, riceve una borsa di studio per scrivere la biografia di Jules Gund, divenuto famoso per un’ unica opera che ha scritto. Spinto anche dall’ambiziosa fidanzata che lo vuole al culmine del successo e della popolarità, Omar si reca in Uruguay, dove risiedono in una tenuta di campagna un po’ in rovina dal suggestivo nome Ochos Rios il fratello di Gund, Adam, con un giovane compagno asiatico, Pete, l’ex moglie Caroline e l’ex compagna Arden con la figlia. È a loro che deve chiedere l’autorizzazione per scrivere la biografia di Jules. L’impresa si presenta subito difficile; Omar incontra l’ostilità irremovibile di Caroline, quella iniziale di Arden, che poi si convincerà a dare il suo consenso, e l’appoggio incondizionato di Adam, che nasconde però secondi fini. Se da una parte Omar è affascinato dal luogo in cui è giunto ed è rapito dalla personalità di Arden di cui ben presto si innamora, d’altra parte la resistenza di Caroline lo pone per la prima volta di fronte all’interrogativo se sia giusto sbirciare, indagare nella vita privata degli individui, seppure famosi e di successo, per darla in pasto al pubblico sempre avido di dettagli anche, anzi, a maggior ragione se scandalistici. Omar capisce che Caroline non desidera che la vita del suo ex marito venga così platealmente resa nota. Dunque è qui il tema centrale del romanzo che verte sul rapporto verità/finzione: l’arte è rappresentazione della realtà, è la realtà vista con gli occhi dell’autore dell’opera e interpretata dal suo fruitore, dunque può allontanarsi dalla verità e d’altronde quando essa si proponga di rispecchiare fedelmente la realtà ci sarebbe da chiedersi quali limiti l’artista dovrebbe porsi per agire con quella discrezione e quel rispetto imposti dalla deontologia professionale.
Il compito dunque di ogni biografo risiede nel superamento di questo punto cruciale. Sarà per questo che Omar rinuncerà a scrivere la biografia, deludendo le aspettative della sua ragazza. La vita non sarà più la stessa per nessuno dei protagonisti della vicenda. Il finale è ben congegnato, delicato e in sintonia con il resto della storia. Ogni personaggio viene delineato nei suoi limiti e nei suoi pregi. Anche quelli che inizialmente assumono caratteri più negativi, rivelano infine qualità e sentimenti sopiti che la coscienza risveglierà, dando a ciascuno una possibilità di continuare a vivere in pace con se stesso.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    05 Dicembre, 2013
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Splendore di Margaret Mazzantini

“E davvero accadde. E fu contro natura. E davvero vorrei sapere cos’è la natura”.
È tutto in questo interrogativo il dramma esistenziale e umano di Guido e Costantino, due giovani coetanei, appartenenti a due ceti sociali diversi, che condividono l’infanzia e l’adolescenza e frequentano lo stesso liceo. Tra loro nasce un’attrazione che si trasformerà in amore col passare del tempo. Entrambi vivranno questo sentimento con un senso di colpa che li farà sentire ai margini della società di cui fanno parte. Ed è qui il vero dramma: sono Guido e Costantino stessi a considerarsi trasgressori di quel codice che condiziona i loro principi morali. L’omosessualità è vissuta come peccato e pertanto va tenuta nascosta. Da qui l’esigenza di crearsi un’esistenza di facciata, rispettabile e stimata, per consumare nell’ombra un rapporto clandestino sentito come oltraggio al mondo circostante.
Il vero quesito, dunque, non sembra vertere su cosa considerare secondo natura o contro natura, quanto piuttosto su come fare accettare la propria diversità quando per primi si sente l’esigenza di nasconderla e negarla. C’è chi dell’omosessualità rivendica la dignità, chi la soffoca e la respinge: il dramma del rapporto con la società può essere anche vissuto solo interiormente, al di là dell’aggressività e della violenza esterna.
Nel suo racconto in prima persona Guido descrive l’evoluzione del suo sentimento per Costantino e tra le righe lascia trasparire il suo senso di colpa, in ogni istante, fino al punto da far intendere che in questo rapporto è la trasgressione che alimenta il sesso e non l’amore.
La problematicità dei due personaggi sembra simbolicamente accentuata dalla sterilità di Guido e dalla paternità infelice di Costantino. La loro vita dunque non sembra destinata a perpetuarsi nel tempo, quasi una tacita condanna.
Gli anni dell’adolescenza e della giovinezza dei due ragazzi trascorrono a Roma, sono gli anni dello studio e della cultura classica, delle gite scolastiche in Grecia, mentre la Londra spregiudicata e multietnica accoglie Guido adulto e avviato alla carriera universitaria: l’incontro con Izumi darà un po’ di sollievo alla sua perenne inquietudine.
La violenza del mondo esterno esplode durante il viaggio in Italia, quando colti di notte durante un amplesso in un luogo appartato sul mare tra la Calabria e la Puglia, i due amanti vengono ferocemente aggrediti. Qui sembra si vogliano sottolineare i pregiudizi di una terra ancorata a vecchi principi. In realtà gli unici momenti felici della vita di questi personaggi sono quelli trascorsi in seno alle famiglie tradizionalmente costituite. Lo “splendore”, dunque, intravisto a tratti da Guido e Costantino, che coincide sempre con una visione rasserenante o di un campo di grano dorato o di un panorama, non è altro che un breve bagliore che sfuma repentino come un sogno.
Non siamo qui di fronte a un romanzo che descrive la problematica del rapporto diverso - società, dal punto di vista della sola società, siamo qui di fronte a una problematica ben più ampia che è quella che riguarda la sfera intima del diverso stesso: quest’opera sembrerebbe ipotizzare che c’è ancora molto cammino da percorrere perché sia il diverso stesso ad accettare con dignità e senza vergogna la sua condizione. Lo stesso concetto di diversità sia esso applicato alla sfera sessuale, come a quella sociale, etnica o fisica, dovrebbe essere coraggiosamente abolito anche se il raggiungimento di tale fine richieda a volte un percorso duro e doloroso e non sempre vincente. Mi piace ricordare a questo proposito una bella frase tratta da “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee: "[...] Avere coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare egualmente e arrivare sino in fondo, qualsiasi cosa succeda."
La conclusione del romanzo riserva un piccolo colpo di scena, che comunque non cambia molto l’impianto complessivo dell’opera. Le ultime pagine sono certamente le migliori, con poche figure retoriche di cui la Mazzantini fa un uso, a mio parere, eccessivo, nella prima parte del racconto. Il tempo è scandito dagli avvenimenti storici e politici a cui si fa riferimento senza l’ausilio di date, cosa che se certamente evita un noioso susseguirsi di numeri, d’altro lato però richiede un’applicazione suppletiva da parte del lettore per individuare il periodo esatto in cui si svolge l’azione.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    25 Novembre, 2013
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Libertà di Jonathan Franzen

“La personalità incline al sogno di una libertà senza limiti è anche propensa, nel caso in cui il sogno si infranga, alla misantropia e alla rabbia.” È una citazione tratta dal bellissimo romanzo di Franzen, “Libertà”, riferita ad uno degli avi del protagonista Walter. Ed è questo il tema centrale dell’opera, la difficile se non impossibile realizzazione di una libertà assoluta che non sconfini nell’arroganza e nel disprezzo dei diritti altrui. Come in “Le correzioni” Franzen ci racconta la storia di una famiglia, delle tensioni che si creano al suo interno e si ingigantiscono con il passare degli anni, delle ripercussioni che i fatti politici, sociali ed economici hanno sulla vita di ogni suo componente. La famiglia altro non è che la riproduzione in misura ridotta di ciò che è l’intera società americana, un mezzo efficace per denunciare quella dicotomia tra sogno e realtà che affligge da sempre l’umanità. Ogni personaggio contiene in sé ambizione e rinuncia, lealtà e tradimento, sincerità e ipocrisia. Nessuno di essi è totalmente ripugnante o assolutamente positivo, proprio perché è nell’uomo stesso che albergano la radice del bene e quella del male. È solo la razionalità dell’individuo a far prevalere l’uno sull’altro. Il lettore dunque non riesce a condannare Patty o Richard senza dar loro possibilità di riscatto, così come l’eccessiva ingenuità di Walter a volte sembra sfociare in una colpevole superficialità. Ed è per questo che egli prenderà coscienza in ritardo di essersi fatto promotore di una manovra sostanzialmente speculativa che dietro una falsa facciata ambientalista nasconde un interesse economico che nulla ha a che vedere con il suo impegno di salvare dall’estinzione la specie della dendroica cerulea, piccolo passeraceo che vive nei boschi di alberi ad alto fusto. C’è molto della tradizione narrativa americana in questo romanzo: c’è Walden di Thoreau - che tratta fondamentalmente del rapporto uomo-natura - che Franzen stesso cita come l’unico testo che Walter in fuga dalla famiglia di origine porta con sè, e c’è l’ American Tragedy di Dreiser, con il cui protagonista, Clyde Griffiths, il giovane Joey sembra avere inizialmente molti punti in comune.
Non si limita l’artista Franzen a scrivere un romanzo che contenga solo la storia di una famiglia, dilaniata al suo interno da incomprensioni, sentimenti fraintesi, debolezze e cedimenti a piaceri momentanei: l’autore coglie e crea le occasioni per esprimere idee e giudizi sulla politica americana, sulle scelte dei suoi presidenti, e lo fa attraverso gli atteggiamenti democratici di Walter in contrasto con quelli repubblicani del figlio Joey. Né mancano alcuni accenni ai pregiudizi razzisti ancora persistenti di una parte degli Stati Uniti.
Un grande lungo romanzo, ambizioso nella sua composizione, molto ben riuscito, con una prosa eccellente, talvolta commovente, che analizza e descrive i sentimenti con una cura che tradisce una conoscenza profonda dell’animo umano.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    16 Novembre, 2013
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Il senso di una fine di Julian Barnes

Leggere “Il senso di una fine” di Julian Barnes e fermarsi alla trama del romanzo è assolutamente riduttivo e può indurre a un giudizio se non negativo certamente deludente sull’opera. Si tratta infatti di una sottile disquisizione a carattere filosofico sul rapporto uomo-tempo e sulla funzione della memoria nella crescita spirituale e intellettuale di ogni individuo. Non a caso il protagonista è un “uomo senza qualità” , un mediocre per eccellenza, e perciò stesso diverso dal personaggio dell’omonimo romanzo di Musil, con il quale pure ha qualche affinità. Tony rappresenta il “common man” in senso lato, la massa dell’umanità che non brilla per doti particolari. Ciò su cui, a mio parere, ha messo l’accento l’autore, non è tanto la vicenda amorosa con la detestabile Veronica, né il suicidio dell’amico Adrian, l’intellettuale del gruppo di studenti di cui fa parte, né il mistero trascinato fino alle due ultime pagine con magistrale suspense che si rivela infine un po’ deludente, ma è piuttosto il suo concetto di tempo. Attraverso una ricercata formula matematica, Barnes spiega la sua teoria dell’accumulo, con un implicito riferimento alle teoria aristotelica e a quella successiva di Bergson, secondo le quali il tempo non è altro che un accumulo generato dal movimento, di prima e dopo e la memoria e la coscienza compiono l’azione di contare gli eventi appartenuti al passato remoto e a quello recente, che alla fine vengono a sovrapporsi in un “continuum”.
Non si tratta certo di un romanzo ameno relativamente al suo contenuto, esso è infatti quasi un piccolo saggio che assume la forma di romanzo breve. La prosa, in alcuni tratti, è veramente stupenda. L’analisi dei personaggi è accurata.
Bellissime le due ultime righe esplicative del suo pensiero: “C’è l’accumulo. C’è la responsabilità. E al di là di questo, c’è il tempo inquieto. Il tempo molto inquieto.”

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    09 Novembre, 2013
Top 50 Opinionisti  -  

Il giovane Holden di J.D.Salinger

Il romanzo “Il giovane Holden” di Salinger comparve nel 1951 e nel suo protagonista si riconobbe tutta una generazione di giovani americani. Letto oggi a più di cinquant’anni di distanza esso appare di un’attualità sconcertante, ma non sorprendente per la capacità di rappresentare la difficoltà e la sofferenza inevitabili per la crescita di ogni individuo.
Si tratta di un vero viaggio di iniziazione che Holden intraprende, nel momento in cui, con un atto di ribellione, abbandona la scuola che frequenta rifiutando con essa anche gli amici di cui non sopporta i difetti e gli insegnanti di cui pure riconosce il valore. Il suo dramma nasce nel momento stesso in cui si scontra con la realtà. Egli confessa sin dall’inizio di essere un grande bugiardo: questa necessità di rifugiarsi nella menzogna deriva proprio dalla sua difficoltà di accettare il mondo così com’è, con le sue ipocrisie, le meschinità, l’arrivismo e l’arroganza. Siamo di fronte all’eterna dicotomia tra sincerità e menzogna: il mondo dei giovani, quello incontaminato e puro non accetta il compromesso.
Il suo vagare per le strade di New York lo porta ad eccessi a cui non è abituato, al fumo eccessivo, al consumo di superalcolici, al fallito approccio con una prostituta, all’incontro/scontro con un’amica che ammira, ma che è troppo frivola e poco comprensiva. La vita notturna di Holden lo porta a contatto con un’umanità diversa, a volte ai margini della società, di cui egli ha in fondo orrore e terrore, ma che diventano la tappa necessaria alla sua crescita. La sua in fondo è la storia di una speranza delusa, che lo induce a porre domande che sembrano assurde, come quando chiede al tassista se egli sappia dove vadano le anatre quando il lago gela. Nel mondo in cui Holden, in cui i giovani di ogni epoca vivono, non è lecito preoccuparsi di questioni che appaiono inutili e senza senso.
Da qui nasce quel grande sogno di diventare “the catcher in rye”, come confesserà alla sorella Phoebe, l’unica con cui riesce a mantenere un rapporto di confidenza e fiducia. Holden coltiva nella sua mente la grande speranza di poter salvare quei giovani che, giocando in un campo di segale, finiscono sull’orlo del baratro: ed è il verso del poeta Robert Burns che egli ripete, ma in questo mondo, egli dice, non c’è posto per “l’acchiappatore nella segale”.
Un romanzo che a tratti ha toni satirici e a tratti persino comici, ma che in sostanza è di un’amarezza infinita. La traduzione italiana, per quanto ottima, non può certamente rendere fedelmente il significato originale del testo. Questo è il motivo per cui si è preferito rendere il titolo con il nome del protagonista, vista la difficoltà di rendere in italiano l’espressione “The catcher in the rye”, che poi assume un forte significato simbolico. Ma è tutto il linguaggio che Salinger usa, un linguaggio tipicamente giovanile, che è difficile da rendere fedelmente. E bisogna senz’altro riconoscere che una delle ragioni del grande successo di questo romanzo è da attribuirsi proprio all’espressione linguistica così aderente alla realtà del mondo dei giovani.
Un testo, questo, la cui lettura dovrebbe essere obbligatoria nelle scuole superiori, sicuramente un “must” per insegnanti e genitori.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    31 Ottobre, 2013
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La lettera d'amore di Cathleen Schine

Un romanzo delizioso, La lettera d’amore di Cathleen Schine: un racconto in cui romanticismo e umorismo coesistono in perfetto equilibrio. La storia ha per protagonista Helen, la proprietaria di un’accogliente libreria di Pequod, piccola cittadina del New England. Helen ama il suo lavoro e ha la capacità di consigliare ogni cliente in base alle sue preferenze e alla sua cultura e stabilisce con ognuno un rapporto d’amicizia. La scoperta casuale di una lettera d’amore anonima, firmata da Montone e indirizzata a Capra, interrompe la routine della vita di Helen. È da questo momento che inizia l’esame della personalità di coloro che potrebbero essere gli eventuali autori della lettera, che diventa così il mezzo per descrivere i personaggi e trattarli con ironia e talvolta con sarcasmo. La vera storia d’amore è quella che nasce tra Helen, spregiudicata quarantenne divorziata, con una figlia di dodici anni, e Johnny, studente ventenne, venuto a lavorare per lei nella libreria durante i mesi estivi. Questo amore trasgressivo viene descritto con delicatezza e realismo, senza ignorare le incertezze della protagonista e i suoi sensi di colpa. Proprio nel momento in cui sta per confessare a sua madre il suo amore peccaminoso per un giovane che potrebbe essere suo figlio, Helen scopre che lei ha un segreto ben più sconvolgente da rivelarle. Qui la capacità satirica della Schine trova il suo momento migliore.
Fino alla fine del racconto il lettore si chiederà chi mai possa aver scritto quella lettera d’amore, così particolare e così genuinamente sincera. Solo nelle ultime pagine la sua curiosità verrà soddisfatta e l’enigma sciolto.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    15 Ottobre, 2013
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Sei come sei di Melania Mazzucco

Bellissimo. E importante. Bellissimo per lo stile e la forma. Importante per il contenuto: un romanzo che affronta uno dei temi più attuali e scottanti del nostro tempo. Eva è la protagonista adolescente, figlia di due padri che l’hanno voluta e amata, che hanno lottato perché la loro scelta audace e trasgressiva potesse essere accettata dall’opinione pubblica, che, pur abbandonandosi a dichiarazioni di principio aperte e liberali, si rivela poi spesso discriminatrice e retrograda.
Eva trascorre un’infanzia felice, circondata dall’amore di Giose e Christian, un artista in declino il primo, intellettuale sofisticato il secondo. Se Giose è sempre stato consapevole della propria omosessualità, Christian la scopre poco alla volta. La sua scelta di condividere la vita con Giose provocherà sgomento e tacita disapprovazione nella sua famiglia e dolore nella moglie che abbandona.
Amore e diversità sono i temi centrali di questo romanzo, che vengono affrontati e approfonditi con grande sensibilità dalla Mazzucco: amore e diversità che non dovrebbero mai essere in contrapposizione o in antitesi. Ciò non significa che non ci si debba porre dei quesiti che investano la sfera della coscienza. È Christian stesso che si chiede se la loro scelta non sia egoistica e non possa generare una crisi di identità sessuale nel figlio che desiderano avere, e quale credito si debba dare all’opinione corrente che un bambino debba crescere con una figura materna e una paterna. È Giose che trova le parole giuste per rispondere ai dubbi del compagno: “alcuni hanno il privilegio di essere amati, altri no. Alcuni sono educati alla libertà, altri sono schiavi della guerra, della dittatura, del fanatismo religioso ……. Chi nasce nero non è bianco, chi nasce malato, non nasce sano, chi nasce povero nasce svantaggiato. …. I figli … sono individui … ciò che ci rende diversi dagli altri può salvarci.”
La fuga di Eva alla ricerca del padre Giose, da cui l’ottusità della legge degli uomini l’ha separata, dopo la morte del padre Christian, di cui porta il cognome, è la dimostrazione di quanto l’amore non possa né debba essere ostacolato. Come non riflettere sui danni psicologici che può subire un adolescente strappato ai suoi affetti, solo perché questi non rispondono ai canoni della morale comune, con quale arroganza stabilire che un individuo con una capacità infinita d’amare non possa essere un genitore degno solo perché omosessuale?
Queste considerazioni che hanno come perno i protagonisti, inducono a ulteriori riflessioni non di minore importanza. Una fondamentale riguarda il tempo ed è anticipata con il capitolo che costituisce l’incipit del romanzo ed è intitolato “L’anno zero”. Qui la Mazzucco si addentra in considerazioni filosofiche affrontate con chiarezza e semplicità. Amplierà il discorso nel corso del romanzo. Ciò che è interessante è l’ affermazione della relatività del tempo, che muta per ciascun individuo, che non può essere qualcosa di universale e statico. Il riferimento all’anno zero, quello che è tra l’anno I avanti Cristo e l’anno I dopo Cristo, il vero tempo cioè, quello che esiste al di là di ogni convenzione, dimostra come le ore, i minuti che noi viviamo siano horae inaequales. “Un attimo, un’ora o un giorno esistono solo in rapporto agli eventi che li definiscono.” Dice Christian.
Da tutto il romanzo traspare inoltre la profonda conoscenza della Mazzucco della storia dell’arte e della cultura classica: elemento che contribuisce ad arricchire la narrazione di dettagli interessanti, mai pedanti.
Lo stile e la forma del romanzo vedono un alternarsi dell’uso del passato e del presente: il passato allunga i tempi degli avvenimenti raccontati, il presente , con la sua contemporaneità li accelera. Una raffinatezza squisita ed esemplare.
La storia di Eva, dunque, affronta una delle problematiche più attuali dei nostri tempi e il personaggio stesso, questa adolescente “in progress” o “on the road”, può essere a ragione considerato l’espressione più significativa del Picaro del ventunesimo secolo.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    09 Ottobre, 2013
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Il weekend di Peter Cameron

“Il weekend” di Peter Cameron è un bellissimo romanzo breve, breve come il fine settimana che descrive.
Incontrarsi nella bella villa di campagna di proprietà di Marion e John, in occasione dell’anniversario della morte di Tony, dovrebbe avere, per i protagonisti di questa vicenda, lo scopo di rinnovare il profondo sentimento di amicizia, che li legava in passato.
Inaspettatamente Lyle, che era stato il compagno fedele di Tony, giunge con un nuovo amico, Robert, un giovane pittore dalle scarse risorse economiche che fa il cameriere in un ristorante, per dedicarsi alla pittura nel tempo libero.
Quell’armonia ideale che Marion aveva desiderato per quel fine settimana al riparo dal caos di New York, viene incrinata proprio dalla presenza di Robert, che diventa la nota dissonante in un concerto perfettamente equilibrato. Al centro del romanzo è certamente il tema dell’amore, sia esso eterosessuale, come tra Marion e John, sia omosessuale come tra Lyle e Tony prima e tra Lyle e Robert poi. Né poteva mancare il problematico rapporto madre- figlia che vede coinvolte Laura e Nina.
Ciò che appare evidente è la difficoltà di ogni singolo individuo a stabilire rapporti sereni e duraturi con la persona amata, quasi l’autore voglia sottintendere che il vero amore viene penalizzato e a volte addirittura annientato da una relazione stabile o istituzionalizzata. In questa prospettiva vanno considerati i frequenti tradimenti di Tony, che provocano dolore e risentimento in Lyle e la necessità di John di rifugiarsi nel suo orto relativamente lontano da Marion. Ed è proprio Marion il personaggio più problematico e meno positivo del romanzo. Certamente Cameron non mostra molta indulgenza con i suoi personaggi femminili, a cui attribuisce nevrosi e piccoli meschini egoismi.
Marion, infatti, non perde occasione per mortificare Robert, ne mette in luce la scarsa educazione e lo fa sentire un outsider in quel mondo così attento all’estetica e all’arte, che difficilmente accetta nuove energie dall’esterno.
Ed è il rapporto con l’arte, l’altro grande tema di questo romanzo: il rapporto tra l’opera e il suo fruitore si pone nell’esplicito interrogativo se sia l’uno a ricevere di più dall’altra o viceversa. E qui Cameron distingue tra letteratura e pittura.
L’arte non può chiudersi in un dialogo tra artisti, ma deve aprirsi alla società a cui si rivolge e anzi rappresentarla. In questo senso l’astrazione non ha ragione d’esistere.
“Io non porto nulla a un quadro: sta al quadro portare qualcosa a me.” - dice Lyle.
Lo stile di questo scrittore è perfetto, l’analisi dei personaggi profonda e accurata. Un testo breve che dà un grande contributo alla grande letteratura.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    01 Ottobre, 2013
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Acquanera di Valentina D’Urbano

“Acquanera” di Valentina D’Urbano è un romanzo sulla solitudine, sull’emarginazione, sull’amore e sulla negazione dell’amore.
Il tema affrontato è tra i più complessi e certamente sarà difficile trovare unanime consenso tra i lettori.
La storie di Elsa, Onda, Fortuna e Luce si intrecciano e si muovono all’ombra del soprannaturale: ognuna di queste donne ha un rapporto personale e distinto con il mondo dei morti con cui si trova a interagire.
Se l’uomo si rifugia talora nella fede religiosa, talora invece in uno spinto ateismo raziocinante, è certamente dovuto al fatto che egli non ha mai saputo dare una risposta convincente al mistero della vita e della morte.
Nella letteratura classica non sono pochi i personaggi che abbiamo visto scendere agli Inferi e parlare con i morti: un esempio è Ulisse che rivede la madre Anticlea, un altro Enea che incontra il padre Anchise; per non parlare di Dante e del suo viaggio nella Commedia, o di Amleto, il principe di Danimarca dell’opera di Shakespeare, che vede il fantasma del padre. Questa esigenza di contatto con i morti, è spiegata proprio dalla necessità dell’uomo di credere ad una vita oltre la vita, al fine di rendere meno dura l’idea stessa della morte.
Nel nostro mondo contemporaneo, tuttavia, coloro i quali rendono note doti soprannaturali, vengono quasi sempre emarginati, perché considerati insani.
E ciò che capita a Onda che vive ai margini della società, in solitudine, in una baracca nel bosco. Sia lei che sua figlia saranno volutamente escluse da una convivenza civile dal resto della comunità di Roccachiara, un piccolo paese di poche anime.
Luce, pur non essendo dotata del dono di medium, ha tuttavia una frequentazione quasi quotidiana dei morti, poiché aiuta il padre nel suo lavoro di becchino.
La morte dunque è uno dei protagonisti di questo romanzo, una morte presente nei vivi, una morte immaginata, vissuta, a volte desiderata.
L’acqua è un elemento fondamentale nel racconto: quanto più essa è chiara tanto più diventa minacciosa, come se la limpidezza potesse identificarsi con la verità.
Dunque la storia di queste donne, schivate e temute, schernite e tuttavia richieste nel momento del bisogno, diventa il simbolo dell’emarginazione in tutti i suoi diversi aspetti: si può essere emarginati socialmente, politicamente, culturalmente ed essere emarginati per il colore della pelle. Le reazioni e le conseguenze sono sempre simili. E allora in un mondo progredito, come quello in cui viviamo, che considera spesso superstizione credere a certe visioni o a certe frequentazioni, ci si deve chiedere se sia indice di reale progresso archiviare certi atteggiamenti o attitudini come frutto dell’ignoranza.
Anche i più scettici, i più evoluti culturalmente avrebbero l’obbligo di affrontare questi problemi, diffondendo l’istruzione, l’unico mezzo idoneo di difesa per ogni individuo. Cionondimeno colmare l’ignoranza non deve voler dire sradicare con arroganza credenze che non si è in grado di sostituire con alcunché di convincente.

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a chi ama il soprannaturale.
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    14 Settembre, 2013
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La famiglia Karnowski di Israel Joshua Singer

“La famiglia Karnowski”, scritto da Israel Joshua Singer, fratello del più celebre Premio Nobel Isaac, è un romanzo che può essere annoverato tra i grandi classici della letteratura contemporanea. Attraverso le vicende di tre generazioni di una famiglia ebrea di origine polacca, l’autore offre una testimonianza della storia di questo tormentato popolo dall’inizio del novecento fino alla seconda guerra mondiale. Lo stesso romanzo è diviso in tre parti: la prima è dedicata a David, il capostipite, la seconda a Georg, il figlio, la terza a Jegor, il nipote. Attraverso le differenti personalità e i diversi caratteri di questi personaggi, l’autore delinea il mutamento progressivo della condizione di quegli ebrei provenienti dall’Europa dell’est, in questo caso la Polonia, che giungono in Germania, carichi di aspettative e speranze di una totale integrazione. Se David mantiene saldi i legami con la tradizione ebraica, attraverso le letture, lo studio dei testi sacri, e l’uso della lingua yiddish nell’ambito strettamente familiare, suo figlio Georg non sente più la necessità di rispettare la tradizione, al punto da sposare una cristiana e far circoncidere il figlio appena nato, senza alcuna cerimonia religiosa.
Ed è qui la radice del dramma di questo popolo alla continua ricerca di un’identità definitiva: l’ostinazione a parlare yiddish tra le mura domestiche vuole essere un disperato ultimo tentativo di unificazione in un mondo che impone l’assimilazione dei costumi e delle tradizioni locali. La perdita di identità genera un’assurda forma di discriminazione tra discriminati, al punto che gli stessi ebrei si guarderanno con diffidenza a seconda delle zone da cui provengono. La grande guerra, con la sua disastrosa conclusione, porta in Germania un sentimento di insoddisfazione e sfiducia che Singer descrive con abilità e sensibilità, chiarendo il retroterra su cui poi si radicherà il nazismo.
Georg sembra aver coronato il sogno di integrazione, sia pure in contrasto con il tradizionalismo paterno, diventando un medico di successo che oltre alla fama raggiunge anche la ricchezza. Il sogno dura poco: saranno “gli uomini con gli stivali” di cui il giovane Holbeck è il rappresentante più significativo, a prendere il potere e a seminare il terrore. Holbeck stesso, consapevole della propria inettitudine, nutre una vile e meschina ambizione di rivalsa nei confronti di chi, come il cognato Georg ha impegnato le proprie energie per raggiungere uno status sociale che lo porta a frequentare i salotti più in vista della capitale.
L’odio che ha alimentato nel suo animo negli anni che lo hanno visto emarginato, lo portano ad ingannare il giovane nipote Jegor, inducendolo a credere di non essere ebreo e a rinnegare quella parte di sé che discende dal padre.
La condizione di Jegor, che non accetta le sue origini, raggiunge momenti di grande umiliazione e sofferenza.
La terza parte del romanzo è dedicata proprio alla difficoltà di integrazione negli Stati Uniti, il paese d’accoglienza per eccellenza, per coloro che riuscirono ad abbandonare in tempo la Germania, prima che la “soluzione finale” fosse scientificamente messa in atto. Per Jegor sarà una vera discesa agli inferi.
La descrizione delle peregrinazioni di chi è solo e abbandonato, con pochi stracci che coprono un corpo sporco e segnato dalla fame, è davvero incisiva: tanto più è incisiva se si pensa che a tutt’oggi non molte cose sono cambiate per coloro che per motivi indipendenti dalla loro volontà si trovano costretti ad abbandonare il loro paese.
Interessante infine è la tecnica narrativa di Singer, che al passato alterna spesso il presente, per esprimere più efficacemente l’universalità della condizione umana, al di là di ogni paradigma temporale. Una volta ancora si afferma in questo modo l’utilità e la necessità dell’arte la cui funzione è spesso testimoniare e tramandare gli eventi storici, sia pure nella forma del romanzo.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    23 Agosto, 2013
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Pastorale americana di Philip Roth

Definirlo un capolavoro sarebbe semplicistico. “Pastorale americana” è un romanzo complesso che si addentra in un’analisi spietata di quello che potrebbe definirsi il fallimento del grande sogno americano.
Levov, lo svedese, è il protagonista di questa drammatica storia, raccontata dallo scrittore Zuckerman che ripercorre la vita del prestante atleta che eccelleva tanto nel football quanto nel basket, divenuto imprenditore di successo dopo essere subentrato al padre nella conduzione dell’impresa familiare e sposato con una donna bellissima ex Miss New Jersey. Lo svedese è il simbolo dell’americano integrato, ebreo, diventato ricco grazie a un impegno costante e assiduo: diverso dal fratello Jerry, che non condivide i suoi stessi ideali. La tragedia dello svedese ha come perno centrale il dissidio con la figlia Merry, adolescente balbuziente che accentua i suoi problemi psicologici nel confronto con la perfezione dei genitori. Il dramma d’una famiglia in seno alla quale la contestazione ideologica e politica si fa aspra e violenta, diventa metafora della duplice anima di una nazione: da una parte un mondo chiuso nell’ingannevole certezza della bontà dei valori perseguiti e realizzati, dall’altra un mondo insoddisfatto costituito dalle classi più emarginate, a volte anche disonestamente e facilmente manipolate. La famiglia, dunque, il nucleo su cui si basa la società civile, mostra le sue debolezze e le sue fragilità. Ed è la politica americana sotto accusa, nelle parole di Merry: l’assurdità della guerra del Vietnam e l’ambiguità della presidenza Johnson. E sarà lo stesso vecchio Levov a sottolineare la vergogna dello scandalo Watergate e a fare accenno al razzismo mai superato. Né si può ignorare la difficile convivenza tra individui di religioni diverse: Levov e Dawn, lui ebreo, lei cattolica, hanno trovato un certo equilibrio che viene però spesso messo in discussione dai genitori.
La drammatica scelta di Merry, la cui verità coincide con il dolore, mette i genitori di fronte a una realtà inaccettabile. La sua ribellione non è diversa da quella denunciata nel monologo di Ulisse nel Troilo e Cressida di Shakespeare, in cui si pone l’accento sulla ribellione dei figli all’ordine costituito e alla gerarchia, una sorta di “rivoluzione copernicana” familiare.
Il significato del titolo si rivela dunque in tutta la sua sottile ironia. La tradizione della pastorale risale a Teocrito e passa per Virgilio, per giungere a Spenser e indica quel genere letterario che esalta una vita bucolica e perfetta in armonia con la natura: la stessa vita che Levov e Dawn avevano creduto di realizzare nella loro casa di campagna. La perfezione, un sogno irraggiungibile. Essa è esaltata nelle pagine che si dilungano sulla confezione dei guanti, pagine che nella loro specificità ci riportano alle lunghe descrizioni di Melville in Moby Dick sui diversi prodotti che si possono estrarre dalla cattura del capodoglio.
L’unico momento in cui sembra potersi felicemente realizzare l’ideale della pastorale americana è quello del giorno del Ringraziamento, quando anche le controversie religiose sembrano trovare una tregua: è il momento della rievocazione dell’arrivo dei Pilgrim Fathers, la vera nascita del popolo americano.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    12 Agosto, 2013
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L’amica geniale di Elena Ferrante

L’amica geniale di Elena Ferrante non è solo la storia di un’amicizia tra due bambine, Lila e Lenù, che si protrae negli anni dell’adolescenza, fino alle soglie dell’età adulta, è molto di più. Attraverso la vita di queste due ragazzine che nascono e crescono in uno dei quartieri degradati della Napoli degli anni 50, veniamo a contatto con realtà drammatiche e diventiamo testimoni di come la lotta per la sopravvivenza possa spesso farsi dura e persino spietata.
Lila e Lenù sono molto diverse sia nell’aspetto fisico che nelle qualità morali. Entrambe però sono dotate di una volontà ferrea che le spinge a inseguire i loro sogni, nonostante le difficoltà quotidiane da affrontare. Ed è proprio il sogno, il diritto di ogni individuo a perseverare nella speranza, il punto centrale del romanzo. Il sogno, la meta ambita, è la ricchezza, che Lila e Lenù pensano in un primo momento di raggiungere con lo studio e l’istruzione, diventando grandi scrittrici di successo. Ma anche il diritto allo studio, quasi ignorato negli anni cinquanta, si scontra con le difficoltà finanziarie e economiche delle famiglie a cui le giovani appartengono, per cui l’acquisto di libri non costituisce certo una priorità.
Le strade delle due ragazzine cominciano così ben presto a prendere direzioni diverse: Lenù persiste nello studio, superando l’ostilità iniziale della madre, mentre Lila, pur essendo dotata di grande intelligenza e intuito abbandona l’istruzione ufficiale e prosegue quasi di nascosto con la lettura e lo studio del latino e del greco.
La rivalità istintiva tra le due giovani mette in risalto da un lato la generosità innata di Lenù frenata a tratti da un istinto spontaneo di gelosia e di invidia e dall’altro la “cattiveria” e il cinismo volutamente esagerati di Lila.
Il primo sogno infranto è dunque quello di raggiungere la ricchezza attraverso l’istruzione: un’amara realtà, ancora più difficile da accettare se si considera lo studio anche un possibile mezzo di riscatto sociale.
L’integrità morale delle due protagoniste, tuttavia, le salva dall’essere preda della gioventù camorrista del quartiere, anche se le macchine di lusso, i bei vestiti e la vita facile esercitano un fascino indiscutibile.
La difficile vita quotidiana si tinge spesso dei colori foschi della violenza che minaccia di travolgere buoni e cattivi. Spesso anche coloro che sono animati da buone e oneste intenzioni si incattiviscono, fino al punto da assumere connotati diversi e assai più inquietanti. È questo il caso di Rino, il fratello di Lila, in perenne contrasto col padre.
La forza delle passioni represse e delle ambizioni deluse sembra trovare uno sbocco significativo nella notte di Capodanno, quando i “botti” lungi dall’essere un’esplosione di gioia e di saluto al nuovo anno diventano una gara violenta tra individui tesi a dimostrare unicamente la propria superiorità, fino al punto da sparare colpi di pistola, esauriti i fuochi di artificio.
Lo scoppio, come manifestazione acustica di sentimenti che esplodono, torna nella lettera di Lila a Lenù, quando accenna alla pentola di rame “scoppiata”, i cui bordi si erano deformati: una pentola che assume dimensione umana. Qui è l’uomo, l’individuo, che nella sua incapacità di contenere la rabbia e il rancore, muta d’aspetto e di carattere. Questa descrizione, che torna più volte nel corso del romanzo, diviene, a mio avviso, la metafora della vita come viene vissuta negli ambienti più poveri e degradati di questa città, che è la sintesi e il trionfo delle contrapposizioni sociali più evidenti dei nostri tempi.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    30 Luglio, 2013
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Norwegian wood di Murakami Haruki

Norwegian wood di Murakami Haruki è un romanzo che ha avuto un grande successo, non solo in Giappone, ma anche in occidente.
La storia ci viene narrata in prima persona dal protagonista Watanabe. Con la tecnica del flash back, egli, giovane trentasettenne, si lascia andare alla rievocazione di un periodo della sua vita, il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza, avvenuto non senza dolore e vissuto a volte drammaticamente con alcune figure fondamentali che hanno contribuito alla sua crescita. Ci troviamo tra il ’68 e il ’70: è il momento della rivolta giovanile che coinvolge il mondo politico, quello intellettuale e quello del lavoro e si estende dall’occidente all’oriente.
Al di là della storia d’amore che lega Watanabe a Naoko prima e Watanabe a Midori poi, il tema fondamentale del romanzo è il disagio giovanile che si manifesta spesso in modo drammatico e si conclude a volte in modo tragico: un argomento purtroppo sempre attuale. Se si pensa alle speranze, alla progettualità dei giovani in quegli anni, alla rivalutazione dei più puri ideali socialisti, al concetto di emancipazione femminile, che non è più solo divulgato da piccole cerchie di intellettuali, ma si diffonde a più ampio raggio, non ci si deve meravigliare di quanto grande possa essere stata la delusione per la mancata realizzazione di cambiamenti che avrebbero davvero potuto cambiare il mondo. Cambia dal ’68 anche la concezione del ruolo della famiglia e in alcuni tragici casi i giovani non trovano più il punto di riferimento che può aiutarli a crescere e a superare le paure adolescenziali. Così Naoko e Kizuki rimangono prigionieri del buio della loro anima , vittime delle loro inibizioni che sono d’impedimento anche alla realizzazione di un sano rapporto sessuale.
E la grande delusione e l’inganno di quegli anni viene denunciato a chiare lettere da Midori, quando si riferisce ai momenti di discussione con i compagni di università : “Io sono una persona comune. Ma non sono le persone comuni quelle che sostengono la società e quelle che vengono sfruttate? E sbandierare di fronte a persone comuni parole che non possono capire, me lo chiamate rivoluzione?”
Un’esplicita accusa nei confronti di alcune fasce di intellettuali, che con arroganza si appropriano del concetto di cultura come qualcosa di esclusivo e elitario.
Tutto il romanzo di Murakami è scandito dalla musica di quegli anni: a partire dai Beatles, a cui l’autore attinge per il titolo, vengono citati Jim Morrison, Bill Evans e tanti altri. Non solo la musica anglosassone è un elemento importantissimo in quest’opera, ma lo sono altresì alcuni dei più grandi capolavori della letteratura occidentale, anglosassone, francese e russa: primo fra tutti il Grande Gatsby di Fitzgerald. E sicuramente in alcuni punti del romanzo si può distinguere l’influenza di Tenera è la notte.
Questo amore per la cultura occidentale da parte di uno scrittore giapponese può destare qualche perplessità, se si considera l’atroce conclusione della seconda guerra mondiale in quel paese. Bello interpretarlo come un magnifico gesto di riappacificazione in nome della cultura. E che possa durare nel tempo.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    23 Luglio, 2013
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Sulla collina nera di Bruce Chatwin

Con la tecnica del narratore onnisciente estraneo alla vicenda, in “Sulla collina nera” Bruce Chatwin racconta la vita di due gemelli Benjamin e Lewis Jones, partendo dal giorno del loro ottantesimo compleanno e procedendo con un efficace flash-back alla ricostruzione degli eventi più importanti della famiglia, sin dal matrimonio dei genitori.
Il tema della gemellarità non è certo nuovo in letteratura: esso è stato al centro di opere di Plauto, Shakespeare, Goldoni e Mann, solo per citare alcuni celebri autori, fino al recente “La solitudine dei numeri primi”. Ogni autore ha creato storie originali e diverse, ma il punto comune a tutte riguarda la complementarietà dei fratelli gemelli.
Benjamin e Lewis non sfuggono a questo clichè: essi non possono fare a meno l’uno dell’altro, sono legati al punto che ciascuno riesce a presagire fisicamente le minacce che incombono sull’altro. La loro lunga vita è condizionata da questo rapporto che finisce con l’opprimerli e indurli anche a scelte contrarie ai loro istinti o ai loro desideri. Per nulla aiutati dai genitori, un padre rozzo e superficiale, una madre sensibile, ma spaventata dall’idea d’una naturale separazione dei figli, dovuta a un legittimo desiderio di costruire nuove famiglie, accettano il loro stato e trascorrono la loro vita ai margini degli eventi che sconvolgono il mondo. La storia si svolge nell’aspra campagna del Galles e il rapporto uomo-natura non è quasi mai idilliaco, anzi è spesso problematico: non si minimizzano le difficoltà d’una vita senza agi. La promiscuità inevitabile in cui conducono le loro esistenze lascia supporre al lettore una latente tendenza dei gemelli all’omosessualità, senza tuttavia che l’argomento sia affrontato esplicitamente. E se la biografia degli autori ha una qualche influenza sulle loro opere, non sembrerebbe azzardato in questo caso riconoscere un riferimento, sia pure velato, alla nota bisessualità di Chatwin, evidentemente ancora vissuta negli anni ottanta, in Inghilterra, come qualcosa di cui evitare di parlare apertamente, nonostante l’emancipazione della società anglosassone allora già avanzata.
L’unica figura che Lewis e Benjamin riescono ad accettare incondizionatamente è la madre, Mary, il loro unico punto di riferimento, che li esclude però dal resto del mondo. “Sulla collina nera” risente in parte dell’influenza di un altro grande scrittore inglese Thomas Hardy a cui lo stesso Chatwin accenna nel momento in cui parla delle letture di Mary. In Chatwin, come in Hardy, si trova la stessa volontà dell’uomo a superare gli ostacoli posti dalla natura e si distingue lo stesso contrasto tra la vita ideale e quella reale. Ciò riguarda anche i personaggi che ruotano intorno ai due protagonisti e che a tratti assumono notevole spessore.
“Sulla collina nera” è un romanzo dalla prosa limpida, che segue il ritmo lento delle stagioni, la cui struttura circolare rispetta i noti canoni della grande letteratura anglosassone.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    07 Luglio, 2013
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I ragazzi Burgess di Elizabeth Strout

Con I ragazzi Burgess, il suo ultimo romanzo, Elizabeth Strout (premio Pulitzer 2009) ci offre un’immagine quasi spietata nella sua obiettività della società americana dei nostri giorni.
La narrazione prende lo spunto dalla sgradevole vicenda che vede coinvolto uno dei più giovani membri della famiglia Burgess, il diciannovenne Zachary, che compie un improvviso e apparentemente inspiegabile reato, gettando una testa di maiale all’interno di una moschea dove si trovano riuniti in preghiera somali immigrati negli Stati Uniti. Siamo in una piccola città del Maine, Shirley Falls.
Il delitto commesso da questo giovane chiuso e introverso riunisce la famiglia ormai composta solo dai tre fratelli, Jim, brillante avvocato di successo, e Bob e Susan, gemelli. Insieme a loro si trovano inevitabilmente coinvolti, sia pure solo di riflesso, i coniugi o ex- coniugi.
Tra Shirley Falls e New York, i ragazzi Burgess si trovano a fare i conti con le falsità, le tensioni, le contraddizioni familiari, per troppi anni represse e volutamente ignorate. Il timore di vedere un membro della famiglia rischiare l’accusa di “crimine d’odio” e di finire in prigione, porta inesorabilmente allo scoperto la vera personalità dei fratelli: tre individui, tre solitudini unite da un vincolo di sangue che solo attraverso un doloroso percorso giungeranno a una probabile riconciliazione.
Questa in sintesi la trama: come Roth e Franzen, anche la Strout evidenzia la crisi istituzionale della famiglia che riflette al suo interno la decadenza dei valori della società contemporanea.
L’intreccio del romanzo serve da spunto a serie riflessioni e profonde considerazioni sulla società e sulla politica americana.
Il problema del razzismo è il primo e più evidente tema che viene affrontato ponendo l’accento in particolare sulla situazione politica della Somalia, sull’infruttuoso intervento degli Stati Uniti in quel paese. È il personaggio di Abdikarim ad affermare che “il suo paese era malato, in preda alle convulsioni. Coloro che avrebbero dovuto aiutarlo, erano infidi, sleali.” (Libro IV).
Un’affermazione durissima, che mette l’accento non solo sul problema dell’integrazione delle popolazioni migranti, ma ancor più sul machiavellico uso della politica che mostra sempre una duplice faccia.
Non è certo facile per chi sia rimasto legato a quell’immagine dell’America come il paese del “sogno americano”, il paese del self-made man, il paese di Lincoln, il paese che è riuscito ad eleggere un presidente di colore, accettare questo aspetto della realtà e questa versione dei fatti. Eppure la grandezza di una nazione consiste proprio nella capacità di prendere coscienza dei propri errori, e il concetto di democrazia impone la denuncia di tutto ciò che non rientri nei canoni della giustizia e del rispetto dei diritti umani.
È al personaggio di Bob che la scrittrice attribuisce una delle affermazioni più dissacranti: “….perchè in realtà, nel profondo, da quando sono andate giù le due Torri è proprio questo che vogliamo, noi ignoranti bambinetti americani. Avere il permesso di odiarli. (i musulmani).”
Elizabeth Strout compie con questo romanzo un atto di grande onestà intellettuale. E se è vero che la democrazia non è un valore esportabile, è vero tuttavia che il principio di denunciare i mezzi spesso discutibili usati dalla realpolitik può essere fruttuosamente diffuso per migliorare il mondo in cui viviamo.
Ed è attraverso scrittrici come la Strout che l’America può ancora affermarsi come un grande paese democratico, che ha il coraggio di affrontare le critiche più feroci e quantomeno discuterne.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    30 Giugno, 2013
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L'amore ai tempi del colera

Con la solita sorprendente capacità di penetrare nell’animo umano e descriverne i sentimenti, i turbamenti, i limiti e le rare virtù, in questo romanzo Marquez ha creato personaggi indimenticabili che appaiono come emblematici “antieroi” agli occhi del lettore che ne rimane affascinato, talvolta identificandosi con ciascuno di essi, talvolta prendendone le distanze.
L’introspezione operata dall’autore non predilige la psiche maschile rispetto a quella femminile o viceversa: egli mostra di conoscere a fondo sia il mondo dell’uomo che quello della donna e ne mette a nudo i pensieri più intimi.
La storia dell’amore infelice di Florentino Ariza per Fermina Daza, ci conduce attraverso cinquant’anni di vita e introduce altri personaggi di grande spessore come Juvenal Urbino o Transito Ariza. Il punto centrale del romanzo è sicuramente la rappresentazione e l’interpretazione dell’amore nelle varie stagioni della vita.
Non stupisce vedere gli affanni delle coppie sposate, al contrario sorprende la lucida e cinica constatazione della rilassante sensazione di libertà conseguente allo stato di vedovanza, sensazione che sorge nel momento in cui ci si riappropria di un’esistenza tutta dedita e subordinata all’altro. La giovinezza e la maturità sono i periodi della vita in cui il sesso è più prepotente e l’amore concede meno attenuanti agli errori, anzi è più esigente e arrogante. Le incomprensioni, gli odi, i tradimenti sono più difficili da perdonare, quando si è convinti di avere il diritto di esigere il massimo.
Anche il matrimonio di Fermina, che agli occhi della società appare perfetto, nasconde profonde crepe. Juvenal e Fermina si capiranno meglio quando saranno più avanti negli anni.
Florentino, innamorato frustrato, cerca di attenuare il suo continuo tormento cercando amori più o meno occasionali, relazioni instabili che appaghino i suoi irrefrenabili istinti, sempre con il pensiero rivolto a Fermina. Anche questo personaggio viene, però, descritto nei suoi limiti sia fisici che caratteriali. Non è un ammaliatore eppure annovera un gran numero di conquiste femminili, finendo col sedurre persino un’adolescente.
Eppure il suo amore sarà costante: lo confesserà a Fermina con numerose lettere appassionate.
Se l’amore conosce crisi nel periodo del massimo vigore degli amanti, esso può esprimersi con minore arroganza e maggiore generosità proprio in quella stagione della vita che coincide con la vecchiaia, quando il consapevole peso della solitudine porta ad accettare i limiti e i difetti dell’altro con maggiore disponibilità.
Se è vero che i pregiudizi da superare sono molteplici, se è vero che il corpo a volte invecchia in modo imbarazzante e deprimente più presto di quanto non invecchi il cervello, è pur vero che superati gli imbarazzi e i condizionamenti culturali indotti, l’amore può trovare il suo più gratificante equilibrio proprio nella fase più avanzata della vita, quando la sola constatazione di essere ancora vivi è di per sé un’esperienza esaltante.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    18 Giugno, 2013
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Teresa Batista di Jorge Amado

Teresa Batista stanca di guerra di Jorge Amado è un romanzo appassionante e appassionato. In realtà questa figura di donna seguita sin dalla sua tenera età è l’emblema della vera essenza di un paese pieno di contrasti e contraddizioni, il Brasile.
Teresa, bambina venduta, violentata, sottoposta alle più brutali sevizie e a inenarrabili soprusi, sottomessa e umiliata, impaurita eppure coraggiosa e forte, ogni volta sopravvive e rinasce con maggiore vigore. Teresa, che ha in sé la forza d’un animo gentile e pieno d’amore verso il prossimo, sfruttata e tradita persino da chi crede sinceramente legato a lei, ha la bellezza della terra a cui appartiene, una terra dai colori sgargianti, dai grandi fiori variopinti, dai profumi inebrianti, una terra che offre la bellezza di spiagge incontaminate ma anche lo squallore delle favelas; una terra da un lato rispettosa dell’ambiente e da molti anni all’avanguardia nell’estrazione di carburante dalla canna da zucchero, ma dall’altro lato una terra che non oppone resistenza alla distruzione progressiva della foresta amazzonica.
Teresa è la ballerina di samba, la danza-simbolo di questo paese in cui tutto può sembrare un inno alla gioia e alla vita. Eppure è proprio il samba che può generare liti e violenze, quasi allo stesso modo in cui la corsa dei tori a Pamplona, in Spagna, da festa può trasformarsi in tragedia. Ricchezza e povertà, salute e malattia, tutto e il contrario di tutto nasce e cresce in Brasile. Teresa, lungi dall’alimentare l’odio nel suo animo, riesce ad amare il prossimo fino a diventare l’angelo protettore dei malati di vaiolo, senza paura del morbo letale, si fa carico delle proteste delle prostitute di Bahia, prende su di sé le pene degli altri e le condivide. Teresa infelice e allegra allo stesso tempo, come lo è questo paese che cela dietro la facciata spettacolare del suo Carnevale, le più grandi e squallide realtà. Teresa dalla pelle colore del rame, è la più armoniosa realizzazione della mescolanza di etnie e culture diverse: nelle sue vene il suo sangue scorre come il corso del fiume Solimoes che si affianca al Rio Negro per un lungo tratto, prima di diventare Rio delle Amazzoni, offrendo uno spettacolo unico al mondo. Teresa è, dunque, a mio avviso, il Brasile stesso, espressione del sofferto tentativo di questo paese di superare le sue contraddizioni.
Più che un grande romanzo d’amore Jorge Amado ha scritto un grande romanzo sociale: questa la lettura più giusta delle vite di questi Miserabili, ancora più disgraziati se possibile di quelli descritti da Hugo. Attraverso la figura di Teresa il romanzo sociale si trasforma in grande romanzo d’amore, ma d’amore verso il proprio paese. Qui ancora una volta si rivela di grande importanza il valore e la funzione dell’arte, che nelle sue diverse espressioni è la sola idonea a condurre verso quell’ “Ordem e Progresso” , il motto impresso sulla bandiera brasiliana.

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Le rane di Mo Yan (premio Nobel 2012)

“Le rane” di Mo Yan è un’opera di grande spessore, sia come contenuto che come struttura. Da un punto di vista strettamente letterario, l’autore fonde il romanzo epistolare con la narrazione in prima persona - dove l’io narrante è personaggio e testimone dei fatti narrati - con l’esperimento del dramma in nove atti.
La storia che vede protagonista la ginecologa Wan Xin, di cui ora si esalta la nobile missione di favorire le nascite nella fase iniziale della sua attività, e poi si condanna piuttosto palesemente la fanatica adesione ai principi del partito che le impongono di effettuare aborti e vasectomie allo scopo di realizzare uno scrupoloso controllo delle nascite, è il mezzo per portare avanti una critica sentita nei confronti di quei regimi totalitari che all’educazione preferiscono la repressione, più rapida e più semplice da mettere in atto.
Un romanzo il cui tema della vita si alterna con quello della morte. Eppure in regimi in cui diventa reato il diritto di avere un’opinione diversa da quella della classe dirigente, talvolta l’individuo riesce a conservare e rivelare una coscienza e a manifestarla in una forma più o meno efficace di obiezione e ribellione alla massificazione intellettuale: ciò, tuttavia, spesso a prezzo della vita, come nel caso di Wang Remnei e di Wang Dan.
Con il passare del tempo, anche la coscienza di Wan Xin, la zia ginecologa, si risveglia e si dibatte tra incubi e visioni di rane gracidanti, che rappresentano le migliaia di aborti che non hanno potuto vedere la luce e il cui vagito è simile al verso degli anfibi. Questo diviene una sorta di coro sinistro che accompagna la vita dell’anziana donna. La scelta della rana non è casuale, poiché essa è simile nella struttura fisica alla donna e perché il girino, da cui essa nasce è del tutto somigliante allo spermatozoo. Da qui la scelta del soprannome della voce narrante Girino, che diviene quasi il simbolo della procreazione.
Non sono pochi i riferimenti ai classici antichi e alle grandi opere più moderne che si riscontrano in questo romanzo. Lo stesso titolo “Le rane” ricorda, sia pure con le evidenti differenze, l’omonima commedia di Aristofane in cui l’autore esprime una critica ai vizi e ai mali della società, creando una vera opera politica.
Nell’epistola d’inizio, inoltre, il narratore dichiara apertamente d’avere l’ambizione di scrivere un’opera grande come quella di Sartre e cita “Le mosche”, il cui tema verte sulla libertà come responsabilità e impegno e “Le mani sporche”, in cui si denuncia il conflitto tra idealismo e realismo in politica.
Alla luce di queste considerazioni, l’ultima parte del romanzo è costruita in forma di dramma, in cui si riassume tutta la vicenda, con una scenografia teatrale e il dialogo tra i personaggi. La conclusione, tuttavia, non vede il trionfo della verità, ma il prosieguo della mistificazione, quasi un pessimistico presagio per il mondo di domani.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    09 Mag, 2013
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Avventure della ragazza cattiva di Vargas Llosa

Il personaggio della niña mala protagonista delle “Avventure della ragazza cattiva” di Mario Vargas Llosa trova alcune celebri antenate nella letteratura inglese e francese.
Le vite avventurose e drammatiche di Moll Flanders (Daniel Defoe) o di Manon Lescaut (Prévost), come quella della vittoriana Becky Sharp (Vanity Fair – Thackeray), non differiscono sostanzialmente dalla vita dell’arrampicatrice sociale descritta da Llosa.
Siamo di fronte a un carattere multiforme, una personalità mai definita, sempre alla ricerca di se stessa e del suo ruolo nella società. La Lucy che incontriamo nelle prime pagine del romanzo, di cui il narratore protagonista appare subito perdutamente innamorato, non è altri che la guerrigliera Arlette, Mme. Robert Arnoux, Mrs. Richardson, Kuriko. Ogni falsa identità rivela un fattore comune: il desiderio, anzi l’esigenza di cercare una posizione economica e sociale sempre più rassicurante, anche a costo di calpestare e ignorare i sentimenti degli altri.
Questa tendenza ad assumere una proteiforme personalità nasce da una vera e propria patologia che induce all’autolesionismo e all’annientamento dell’io.
La niña mala non riesce a superare l’umiliazione e il disagio dell’infanzia dovuti alla sua umile estrazione sociale. Il denaro diviene la sua unica meta, il mezzo che le consenta di raggiungere lo status sociale a cui ella aspira. Pur sentendo periodicamente una profonda carenza affettiva, nell’animo della niña riesce sempre a prevalere il calcolo più cinico. La menzogna, l’inganno, la disonestà non la condurranno tuttavia verso la libertà, ma la renderanno progressivamente più schiava, fino a distruggere, insieme con il suo animo, anche il suo corpo.
Il narratore protagonista, anch’egli schiavo di un amore irrazionale e irragionevole, supera ripetutamente le umiliazioni subite, pur di tenere legato a sé in qualche modo l’oggetto del suo amore e dei suoi desideri. Sempre alla ricerca di attenuanti per la sua donna infedele e degenerata, vede nella sua stessa professione, interprete per l’Unesco, una proiezione delle molteplici identità dell’amante, perché, egli si chiede, chi è un traduttore-interprete se non un individuo che assume personalità diverse a seconda della lingua in cui si esprime?
L’interrogativo di fondo, a questo punto, non si pone solo in termini morali, ma più esistenziali, sulla vera natura dell’io, sulla vera identità di ogni essere umano. Uno, Nessuno, Centomila.

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Moll Flanders, Manon Lescaut, Vanity fair
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    20 Aprile, 2013
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Il paese delle prugne verdi di Herta Muller

Herta Müller è stata insignita del premio Nobel per la letteratura nel 2009. Scrittrice rumena appartenente a una minoranza di lingua tedesca del Benato, lasciò il suo paese ai tempi delle persecuzioni di Ceau?escu. Le esperienze drammatiche della sua vita e della sua gente hanno profondamente caratterizzato lo stile e i contenuti della sua opera.
Il suo romanzo più famoso è “Il paese delle prugne verdi”: un libro di difficile lettura e altrettanto complicata comprensione. La stessa scrittrice in un saggio del 2001 dichiarò che “la patria non è lingua, ma linguaggio”, concetto polemicamente contrapposto all’affermazione di Thomas Mann secondo il quale “la patria di uno scrittore è la sua lingua”. In questa prospettiva forse è più semplice capire l’ermetismo espressivo di questa autrice.
La lingua è certamente l’espressione verbale della cultura di un popolo, essa riguarda un’area geografica più o meno vasta. Il linguaggio è più specificamente attinente all’individuo e può assumere forme diverse secondo i concetti e i contenuti che l’individuo stesso vuole esprimere.
E’ dunque al linguaggio che la Müller ricorre per creare un’opera ricca di simboli mai chiaramente esplicitati, ma drammaticamente suggestivi. La voce narrante insieme con Lola, Edgar, Georg e Kurt sono i personaggi principali della storia, il cui snodarsi è spesso affidato a parole-chiave come “scarpe”, “forbici”, “raffreddato”, che si riferiscono ciascuna a azioni o a fatti repressivi d’una violenza mai esplicitamente descritta, ma proprio per questo assai più terrificante. È questo il filo che, a mio avviso, sottende tutto il romanzo: la capacità evocativa della parola può a volte denunciare l’atrocità d’un regime in maniera più efficace d’una lotta sanguinosa sul campo. Qui il sangue, la tortura, la violenza psicologica che conducono spesso al suicidio i personaggi della Müller, emergono attraverso descrizioni che sono al limite tra prosa e poesia. Il paese delle prugne verdi diviene la metafora della dittatura: “Vedevo la schiuma sui loro denti e pensavo tra me: Non bisogna mangiare prugne verdi, il nocciolo è ancora tenero e si ingoia la morte.”
Il suicidio di Lola, vittima della violenza brutale del professore di ginnastica, diviene il pretesto per condannare chi osa insinuare il sospetto che quel paese e quel regime non siano la sede della felicità: Lola viene espulsa dal partito dopo la sua morte , perché indegna di appartenere a un mondo così perfetto.
Un testo, questo della Müller, di una durezza che supera la bellezza espressiva e lascia un sentimento di desolazione e sconforto, nel momento stesso in cui il lettore ha modo di realizzare che la storia si ripete tragicamente in luoghi diversi, in forme forse apparentemente diverse, ma spesso sostanzialmente identiche, perché l’uomo è un pessimo studioso, che non fa tesoro dell’esperienza del passato.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    12 Aprile, 2013
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Chesil Beach di Ian McEwan

Una prosa limpida, bellissima. Non sempre leggendo opere di grandi scrittori stranieri consideriamo con il giusto e dovuto rispetto in che misura il traduttore contribuisca al loro successo nel mondo. La traduzione di Chesil Beach di Susanna Basso nell’edizione Einaudi è davvero eccellente. Conoscere a fondo una lingua non vuole sempre dire sapere interpretare e rendere il pensiero d’un autore, i sentimenti dei suoi personaggi. Tradurre è un’arte che non s’impone con prepotenza e arroganza, è un’arte discreta, che tuttavia può essere determinante per l’affermazione e la diffusione di un’opera.
In questo romanzo McEwan affronta un tema che fu importante negli anni sessanta immediatamente precedenti la rivoluzione sessuale. Florence è una ragazza bella e delicata, studia musica e ha un avvenire come concertista, Edward è un ragazzo onesto e studioso, anche lui con tanti sogni da realizzare. Sullo sfondo le loro famiglie, ciascuna con i suoi limiti e i suoi pregi. Tutto appare essere nella normalità più assoluta. Florence e Edward si amano, ma i pregiudizi e le inibizioni che hanno condizionato l’educazione dei giovani di quell’epoca, portano i due al matrimonio senza aver avuto precedenti esperienze. In realtà nessuno dei due conosce a fondo se stesso, non ha mai sperimentato le proprie reazioni di fronte a un rapporto sessuale completo: la loro prima notte di nozze diventa dunque il terreno su cui si realizzerà lo scontro più lacerante.
Come sempre nelle opere di McEwan la lettura viene proposta su due livelli.
A un primo livello, è chiara la critica a quella generazione di educatori che costringevano i figli, più specificamente le figlie, a rispettare il preteso valore della verginità, molto spesso con il fine tanto pratico quanto ipocrita di evitare fastidiose e ingombranti conseguenze. In questi casi ci si poteva trovare di fronte a vere e proprie patologie del tutto sconosciute, tanto difficili da affrontare nel momento in cui la coppia aveva già iniziato una vita insieme. Il sesso è da sempre stato il punto di incontro o di scontro, una carta da giocare nella riconciliazione o nella separazione. Il problema fondamentale si rivela quando l’amore che dovrebbe accompagnare il sesso non è abbastanza forte da superare eventuali ostacoli. Con la rivoluzione sessuale e la conseguente liberalizzazione dei rapporti uomo-donna, si è giunti a una conoscenza più approfondita di se stessi, del proprio corpo, e del corpo dell’altro, delle reazioni che esso manifesta in casi specifici. La conoscenza non è mai un fatto negativo, essa anzi aiuta a crescere: in questa prospettiva l’emancipazione dei costumi, quando non degeneri in inutile eccesso, è sempre auspicabile.
A un secondo, non meno interessante livello, McEwan crea, come già ho notato in modo particolare in “Espiazione”, un personaggio che si proponga come metafora dell’arte: la purezza di Florence è la purezza dell’arte che non ammette contaminazioni. L’arte in tutte le sue forme, che sia musica, letteratura o arte figurativa deve mantenere la sua integrità, non può accettare di diventare funzionale a un fine che non sia se stessa. Ma è qui il vero quesito che, io credo, McEwan pone ancora una volta: è davvero giusto perseguire questo concetto decadente di un’arte fine a se stessa, o non è più giusto e attinente ai tempi moderni adeguare anche il concetto dell’arte alle esigenze del mondo moderno? Perché per esempio non un’arte con un fine sociale? Chi è più funzionale oggi, un Wilde con la sua indiscutibile magia descrittiva o un Guttuso con la capacità di esprimere il dramma della società moderna? In realtà credo non sia neanche giusto dare una risposta, anche se personalmente tendo più verso Guttuso che verso Wilde. Non è giusto, perché l’arte è sempre arte, come la vuole l’artista, e se è in grado di esprimere concetti universali, il suo valore è sempre indiscutibile.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    02 Aprile, 2013
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Quando lei era buona di Philip Roth

Hýbris e Nemesis, tracotanza e vendetta, sono concetti fondamentali presenti nella tragedia greca che ritroviamo in forme diverse nella letteratura moderna e contemporanea: il personaggio di Lucy nel romanzo “Quando lei era buona” di Philip Roth ne è un esempio significativo.
La vita della protagonista appare subito irrimediabilmente condizionata dalla famiglia di cui fa parte: un padre ubriacone, incostante e disorganizzato nel lavoro, una madre stolidamente sottomessa al marito prepotente, che continua ad amare oltre ogni ragionevole limite, paranoica e depressa, un nonno, incapace di mutare gli eventi, pur nella sua razionalità e concretezza, una nonna, il cui ruolo nell’ambito familiare è quasi insignificante. L’ambiente in cui Lucy vive la sua infanzia non è dunque dei più sereni, ma le consente, anzi la sprona a coltivare il sogno di frequentare il college. Cerca di conciliare il lavoro come cameriera in un bar e lo studio, proprio per riuscire nel suo intento. Le cose si complicano notevolmente nel momento in cui incontra Roy, un giovane da poco congedatosi dall’Esercito, anch’egli con dei sogni da realizzare. Lucy cede, apparentemente con una certa ritrosia, all’ insistente corteggiamento di lui e in breve scopre di essere incinta. Da questo momento il dramma assume toni sempre più foschi. Dopo numerosi e dolorosi momenti di incertezza, Lucy decide di portare a termine la gravidanza, respingendo l’idea dell’aborto propostole dal padre, il quale le appare in tutta la sua meschina e spregevole personalità. I rapporti con Roy, dopo un doveroso matrimonio, degenerano rapidamente. Lucy si aliena l’amicizia e l’affetto di chi la circonda, ma sarà proprio la rottura definitiva con il padre a scatenare il suo dramma interiore. In realtà Lucy ha il terrore di diventare come sua madre e pretende che il marito accetti e rispetti le rigide condizioni che lei gli impone adducendo spesso il pretesto della responsabilità verso il figlio.
Il rigore di Lucy, la sua intransigenza trasformano il suo orgoglio in tracotanza: di conseguenza il sentimento di empatia del lettore per il personaggio si muta in dispatia. Ecco dunque che Lucy diviene il simbolo del concetto di hýbris, che vede le originali qualità positive dell’uomo degenerare in esasperazioni eccessive che spesso determinano punizioni divine o umane.
Lucy è un personaggio moderno e umano pur nei suoi tragici errori: la società borghese, ipocrita e conformista in cui cresce e vive, la condiziona al punto da renderla vittima delle proprie scelte.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    20 Marzo, 2013
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Le correzioni di Jonathan Franzen

Bellissimo e lacerante. Un romanzo che analizza spietatamente i rapporti individuo-famiglia e individuo- società: una visione del mondo lucida e dissacrante per chi rimane ancorato ai vecchi rassicuranti principi borghesi.
La famiglia qui descritta non è il punto di riferimento per i suoi componenti, non la sede degli affetti sinceri e disinteressati, così come si pretenderebbe ancora di credere. Essa è il luogo in cui la coppia a poco a poco sostituisce l’amore con la prevaricazione e la prepotenza e trova faticosamente un accordo sui metodi e i principi con cui educare i figli.
Franzen segue la trasformazione dei sentimenti di Alfred e Enid, in quarant’anni di matrimonio, descrive le piccole e grandi correzioni che essi infliggono ai figli da bambini, a cui però si ribelleranno da adulti, racconta l’inevitabile indebolimento del fisico e della mente per la vecchiaia incipiente con la conseguente insofferenza dei figli di fronte ai problemi che ne derivano.
Ogni personaggio sembra preoccupato di affermare solo il proprio ego, calpestando spesso i sentimenti o i desideri degli altri componenti della famiglia. Piccoli e grandi rancori trovano ampio spazio nelle mura domestiche. Homo homini lupus.
La vita personale dei figli è vista nella sua problematicità. Matrimoni falliti, speculazioni economiche disastrose, rapporti sessuali trasgressivi, lavoro e successo raggiunti e persi agitano gli animi dei protagonisti che si trovano a tradire tutti quei valori che erano stati alla base della loro educazione. Enid, la madre, è la più sensibile alla morale puritana della società in cui è inserita: sempre preoccupata dell’opinione della gente, ne è condizionata. La reazione di fronte alla malattia del marito, un Parkinson accompagnato da un Alzheimer avanzato, è di mal celata insofferenza. Essa sente di essere la vittima della famiglia alla quale ha dedicato la vita prima impegnata nell’educazione dei figli, poi a curare il marito. Il leit motiv del romanzo è il suo desiderio di trascorrere un ultimo Natale tutti insieme nella casa dove sono cresciuti i suoi ragazzi, che, riuniti per l’occasione, si mostreranno nella loro vera dimensione. Gary, giunto solo, per il rifiuto del resto della sua famiglia di accompagnarlo, è e rimane il meno disponibile nei confronti dei genitori. Denise, maturata attraverso le sue esperienze sentimentali fallimentari, un divorzio, un amore omosessuale, e l’umiliazione della perdita d’un lavoro che amava, sembra essere più disposta a comprendere le difficoltà del padre e in parte anche quelle della madre. Chip dopo una relazione con un’allieva che gli costa una cattedra al college, si dà a speculazioni finanziarie disastrose. Egli si mostra però più disponibile del fratello ad assistere, sia pure parzialmente, i genitori.
Ciò che viene decritto con un realismo agghiacciante è la malattia di Alfred e la sua progressiva perdita di memoria che lo relega in un mondo popolato di mostri. Il suo fisico forte e giovane si trasforma negli anni in un corpo debole e vulnerabile, curvo e tremante, che perde il controllo di se stesso.
Le correzioni, dunque, quelle che ciascun individuo vorrebbe imporre agli altri e alla realtà che lo circonda, divengono, in questa prospettiva, un inutile e frustrante affanno: solo la consapevolezza di non poter modificare il mondo in senso totale ed assoluto , potrà rendere la vita accettabile.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    16 Marzo, 2013
Top 50 Opinionisti  -  

Le avventure di Oliver Twist di Charles Dickens

Oliver Twist di Charles Dickens fu pubblicato in venti fascicoli mensili, il primo dei quali uscì nel 1837. Lo stile dell’opera fu condizionato dalla modalità di pubblicazione: l’immediatezza espressiva, richiesta dal limitato lasso di tempo intercorrente tra un fascicolo e l’altro, tradiva la mancanza di un impianto strutturale globale prestabilito e pianificato. L’autore, inoltre, doveva, alla fine di ogni puntata, creare un’aspettativa, una sorta di “suspence” nel lettore, indotto, in questo modo, a comprare il fascicolo successivo.
Come altre opere di Dickens, questa è generalmente annoverata tra quelle di interesse sociale. La storia del povero trovatello con le caratteristiche tipiche del picaro che elenca tra i suoi antecedenti personaggi come Lazarillo de Tormes, Tom Jones o Gulliver, per citarne solo alcuni, è un pretesto per denunciare alcuni dei limiti della società borghese dell’Inghilterra dell’epoca vittoriana.
E’ stato spesso sottolineato come il romanzo contenga molti elementi auto- biografici, ma l’interesse maggiore di quest’opera risiede piuttosto nel suo messaggio sociale e politico.
Già nei primi anni dell’800 era stato approvato dal Parlamento Inglese il Reform Act, che tentava di regolare i fenomeni sociali sorti in seguito allo sviluppo dell’industrializzazione. Come appendice a questo, venne approvato successivamente il Poor Law Amendement Act, che istituiva la creazione di workhouse, luoghi di ricovero di poveri, di bambini abbandonati, di vecchi bisognosi. Oliver, piccolo trovatello finisce in una di queste case, che si rivelano luoghi di sopraffazione fisica e psicologica dei ricoverati, luoghi di speculazione e di profitto illecito a favore di chi li gestisce.
Questa è la prima denuncia da parte dell’autore. Dickens, pur appartenendo egli stesso al ceto borghese, non risparmia alla borghesia la sua satira.
Sono d’altra parte del tutto borghesi i valori che Dickens esalta, mediante l’espediente della contrapposizione Bene/Male. Ogni personaggio positivo avrà così il suo negativo: Oliver/Monks, Brownlow/Fagin, Rose/Nancy. Lo stesso sarà per i luoghi e per le classi sociali: casa/workhouse, Londra/campagna borghesia/proletariato delinquenziale.
La Londra dell’East End è quella della vita malfamata, è il luogo della corruzione, della delinquenza e della violenza, in contrapposizione alla Londra del West End, residenziale e alto borghese.
La città è così minuziosamente descritta nel suo degrado e nelle stradine che Oliver percorre, che il lettore potrebbe addirittura tracciarne una mappa.
Nella descrizione dei bassifondi Dickens è sempre generico, evitando di scendere nel dettaglio che sarebbe inevitabilmente troppo realistico e talora ripugnante. Ciò rientra perfettamente nella morale puritana borghese dell’epoca.
Alcuni personaggi hanno uno spessore rilevante: Nancy, per esempio, pur nella sua abietta vita ha un’umanità commovente, che attrae il lettore e suscita la sua compassione. Oliver, pur essendo il protagonista dell’opera, rimane piuttosto amorfo e dà l’impressione di essere un puro mezzo per esprimere critiche e giudizi sulla società dell’epoca.
Con l’espediente della duplice agnizione, che restituisce ai protagonisti il ruolo e la posizione sociale che spettano loro, il romanzo si chiude là dove è iniziato, con il solito movimento circolare, così caro agli scrittori anglosassoni.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    01 Marzo, 2013
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La versione di Barney di Mordecai Richler

“La versione di Barney” di Mordecai Richler, pubblicato nel 1997, è un romanzo in cui satira e sarcasmo si mescolano, senza risparmiare persone, sentimenti, affetti: una dissacrante rappresentazione del mondo di cui il protagonista è parte integrante e che egli giudica dal suo punto di vista “politicamente scorretto”. È questa una definizione nata negli Stati Uniti, in contrasto con il “politicamente corretto”, che esprime la volontà di definire in maniera talvolta eccessivamente edulcorata sia situazioni e ruoli di basso livello, sia difetti fisici: una contrapposizione tra l’esasperata e cinica adesione espressiva alla realtà e una giusta e rispettosa negazione di ogni pregiudizio razziale, religioso o di orientamento sessuale.
Il racconto nasce dalla volontà di Barney, ormai anziano, di raccontare la sua vita disordinata e spesso confusa. Egli divide la narrazione in tre parti, ciascuna delle quali è dedicata ad una moglie: all’interno di ogni parte inserisce varie digressioni temporali e spaziali, seguendo l’esempio, come egli stesso afferma, del grande Laurence Sterne, romanziere del settecento, che per primo si servì di questa tecnica.
I ricordi del protagonista sono spesso avvolti dalla nebbia della memoria offuscata per l’Alzheimer incombente o per i fumi dell’alcool. Ciò non impedisce a Barney di scagliare le sue frecce avvelenate ora contro la prima moglie, psicopatica morta suicida, che raggiunge una grande fama come pittrice solo dopo la sua morte, ora contro la sua seconda moglie, mai nominata col suo nome proprio, ma sempre come Seconda Signora Panofsky, snob e arrivista, ora contro i suoi stessi figli, di cui esamina con spietato cinismo i difetti, pur lasciando trapelare l’amore che nutre per loro. Lo stesso trattamento riserva a suo padre il vecchio Panofsky , un piedipiatti, violento e rozzo, e a sua madre, vecchia demente, di cui non nutre un ricordo particolarmente tenero. L’unica a essere risparmiata è Miriam, la terza bellissima, amatissima moglie, che, offesa nel suo orgoglio femminile, lo abbandonerà, pur rimanendogli molto legata.
Né Barney risparmia gli amici: non McIver, non Boogie, del cui assassinio verrà accusato. Di ogni amico sottolinea i difetti, i limiti professionali, non sottovalutando neanche i suoi, dal momento che si definisce un mediocre produttore di spot pubblicitari, che aveva saputo solo accumulare denaro in gran quantità. E il mondo del cinema e della televisione ne esce davvero a pezzi da questo attacco impietoso. Barney non risparmia nemmeno icone dell’arte o della letteratura o del mondo politico. Si diverte a colpire impietosamente Hemingway, T.S.Eliot, M.Luther King, J.F.Kennedy, solo per citarne alcuni. A volte sembra stia giocando a bowling, con la voglia irrefrenabile di fare uno strike. Non mancano neanche le critiche al mondo ebraico di cui è egli stesso parte. Alcune digressioni riguardano proprio alcune lettere o documenti che Barney inserisce, seguendo lo stile di Saul Bellow, da lui spesso citato, grande scrittore, premio Nobel, ebreo lui stesso, che testimonierebbero una tendenza a rilevare casi di antisemitismo ebraico: un concetto che potrebbe sembrare una contraddizione in termini, una sorta di ossimoro, ma che è invece un sentimento che si diffonde tra quegli ebrei che non approvano la politica di Israele e, in Israele, tra coloro che criticano gli atteggiamenti degli ebrei che non hanno aderito al sionismo.
La narrazione inizia all’ombra dell’Alzheimer e si conclude nello squallore dell’Alzheimer conclamato: come se il messaggio subliminale consistesse nell’amara constatazione che l’uomo vive e sopravvive in un eterno stato confusionale, ora dovuto all’alcool, ora alla droga, ora alla degenerazione naturale delle cellule cerebrali.
La grande amarezza che il romanzo nel suo complesso lascia nel lettore, al di là dei brani obiettivamente divertenti, a volte persino esilaranti, è controbilanciata da quel perfetto coûp de theâtre che troviamo proprio nelle ultime righe, quelle scritte da Mike, uno dei figli di Barney, che scioglie il nodo della misteriosa scomparsa di Boogie.

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Herzog di Saul Bellow
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    15 Febbraio, 2013
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L'incontro di Vincenzo Cerami

Un professore universitario che scompare, un enigma da risolvere: questo il tema del romanzo di Vincenzo Cerami. Un gioco che si protrae lungo tutto lo svolgersi del romanzo che vede un giovane appassionato di enigmistica impegnato, con la sua ragazza, a risolvere i quesiti crittografati, gli anagrammi, gli acrostici di un componimento dal titolo “Il nastro di Möbius” che dovrebbe condurlo a scoprire il mistero della scomparsa del professore.
Molte le persone che scompaiono nella realtà della vita contemporanea: il riferimento ai casi di Emanuela Orlandi, Federico Caffè e Paolo Adinolfi è esplicito.
La passione per l’enigmistica è solo il pretesto per addentrarsi in fatti avvenuti nel passato, per lo più poco conosciuti alle giovani generazioni: riemergono episodi di attentati terroristici, di gambizzazione, gli oscuri anni di piombo, che hanno celato verità mai svelate. Il viaggio dei protagonisti li porta ad attraversare l’Italia, a collegare personaggi, luoghi, eventi che sembrerebbe non abbiano alcuna relazione tra loro. È il viaggio che induce e conduce a prendere coscienza della realtà, sempre diversa da quella che appare: è questo il significato fondamentale del romanzo. L’enigmistica è una scienza matematica, dice il protagonista Lud, studente di Statisica, e in quanto scienza matematica e esatta, non può ingannare. Dietro a un enigma, a una crittografia, a un acrostico esiste una verità incontrovertibile.
Il mondo in cui viviamo è dunque falso in tutti i suoi aspetti: ciò che appare è in dissonanza con ciò che è realmente. L’uomo prende coscienza della solitudine in cui vive, nel momento in cui realizza di vivere in un mondo totalmente sconosciuto.
In questa prospettiva va considerata la disillusione finale del protagonista che ritiene di essere giunto alla soluzione dell’enigma solo per un colpo di fortuna, in quanto esso era stato impostato su un presupposto per lui ingannevole e deviante. Una questione di onestà intellettuale quanto meno ignorata, se non addirittura tradita .

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    03 Febbraio, 2013
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Il mio nome è Rosso di Orhan Pamuk

Il grande valore di questo romanzo “Il mio nome è Rosso” di Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura nel 2006, risiede nel suo contenuto ideologico e politico.
La vicenda ha luogo nella Istanbul del 1500, dove nell’ambiente dei miniaturisti del Sultano avvengono feroci assassinii. La trama, tuttavia, fa solo da sfondo ad un tema più ampio e complesso quale il dibattito più che mai attuale sull’adesione della Turchia ai valori e ai principi della civiltà europea.
L’originalità dell’opera di Pamuk appare evidente anche nella struttura stessa del romanzo in cui ogni capitolo è affidato alla narrazione di un personaggio diverso, creando in questo modo una molteplicità di punti di vista.
Tutta la storia si dipana intorno all’arte della miniatura, alla tecnica pittorica, all’abilità dei miniaturisti, al loro sacrificio fisico e umano teso solo alla realizzazione di opere di grande pregio che possano essere gradite al Sultano. I personaggi in realtà diventano addirittura secondari, di fronte alla grande e vera protagonista che è la miniatura stessa. In questa prospettiva si possono meglio comprendere i capitoli narrati non solo dai miniaturisti, ma anche dagli elementi rappresentati nelle loro opere, come il cane e l’albero. Alle soglie del diciassettesimo secolo, epoca in cui l’arte in Europa sta raggiungendo il suo massimo splendore, in Turchia ci si pone il quesito se sia più giusto dipingere secondo il metodo occidentale, che ritrae la realtà, così come viene vista da occhio umano, o non sia più giusto conservare il metodo tradizionale, che suggerisce all’artista di riprodurre ciò che egli vede con gli occhi della mente, quelli, per essere più precisi, che gli vengono donati da Allah, allo scopo di conservare tutta l’originalità e le tradizioni della propria terra. È palese il timore che la pittura europea possa spazzare via tutti i significati dell’arte e della cultura ottomana.
Pamuk affronta questo tema problematico in un momento in cui la Turchia si dibatte tra la spinta verso l’occidentalizzazione e il freno costituito dai movimenti più conservatori e tradizionalisti.
Sin dai tempi della modernizzazione iniziata da Kemal Ataturk, nel 1923, La Turchia ha mostrato una certa esitazione a completare la sua occidentalizzazione in cui si potrebbe vedere il rischio di perdere la propria identità.
Nel romanzo di Pamuk, sono dunque quei miniaturisti che operano secondo i modelli europei che trovano la morte: omicidi che possono essere considerati un estremo tentativo di conservare lo status quo.
Lo stesso problema visto dalla sponda europea, d’altra parte, porta a valutazioni di tipo del tutto diverso, in quanto l’Europa non può accettare nel suo consesso paesi in cui ancora esistano tortura e pena di morte.


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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    20 Gennaio, 2013
Top 50 Opinionisti  -  

Miele di Ian McEwan

“Miele”, l’ultimo romanzo di Ian McEwan, è un’opera complessa che offre molti spunti per una discussione sulla funzione dell’arte in generale e dell’arte in relazione alla politica e alla ragion di stato in particolare.
La protagonista, Serena, figlia di un Vescovo, educata secondo i saldi principi borghesi, costretta a trascurare la sua predilezione per le lettere e a laurearsi in Matematica a Cambridge, ottiene un incarico presso l’MI5 : siamo negli anni settanta, l’Inghilterra è in piena crisi energetica, il movimento indipendentista nord-irlandese è molto attivo, si sviluppa e si estende la guerra fredda culturale.
La missione consiste nel dover reclutare scrittori e intellettuali che possano fare propaganda a favore dell’occidente, contro il blocco sovietico.
McEwan cela, dietro la forma della spy-story, una pesante critica di ciò che può essere l’arte dello scrittore laddove sia strumentalizzata a fini politici.
Già in Espiazione avevamo assistito alla mistificazione artistica creata dalla protagonista Briony, che tradiva un giudizio negativo dell’autore sull’arte come finzione. Qui questo giudizio appare in tutta la sua evidenza, non solo nella trama principale, ma anche in quei racconti, che ci vengono riportati come creazione del personaggio di Tom Haley, che possono essere considerati dei brevi romanzi nel romanzo, secondo la migliore tradizione inglese.
In ognuno di questi racconti, il protagonista, che sia il gemello che si sostituisce al fratello parroco, o l’individuo che viene preso da passione per un manichino, o il marito che ama più appassionatamente la moglie dopo essere venuto a conoscenza della sua disonestà, è la menzogna a trionfare. Ciascuno di questi racconti diventa simbolo e metafora del romanzo in cui è inserito.
La necessità dei Servizi Segreti di finanziare, senza svelare loro il vero fine dell’operazione definita Miele, autori perché scrivano opere che esaltino i valori del mondo occidentale, in contrasto con quelli rappresentati dal comunismo sovietico, ripropone la distinzione tra intellettuale tradizionale e intellettuale organico. È ovvio che l’intellettuale che si mette al servizio del potere, di qualunque segno esso sia, diventa organico a quello stesso potere. In questo romanzo si accenna all’opera di Orwell, sia al suo “La fattoria degli animali”, sia a “1984”. Con lui se ne citano altri. La necessità di tenere nascosta la finalità dell’operazione, riscatta in un certo senso una parte del mondo artistico, che, se consapevole, non avrebbe messo la sua opera al servizio del potere politico.
L’accenno all’inganno è esplicito in alcune frasi pronunciate dai protagonisti del romanzo: la creazione artistica vista come inganno è eredità della cultura puritana britannica, e risale al teatro elisabettiano.
Significativo è anche l’accenno esplicito a Mallarmé e alla sua teoria della “pagina bianca”, nelle parole di Haley. Diceva Mallarmé : “L'opera poetica è miracolosa come la creazione, ma al termine d'una faticosa ascesa non v'è che il nulla, la pagina bianca, il silenzio.” Un sogno di purezza, questo, e di distacco dal mondo, negazione della mistificazione artistica, che McEwan sembra palesemente condividere.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    16 Gennaio, 2013
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Gli innamoramenti di Javier Marias

Un romanzo veramente originale “Gli innamoramenti” di Javier Marais, dove la trama fa da sfondo e da supporto a speculazioni filosofiche, al punto che l’analisi dei sentimenti, dei pensieri, delle considerazioni dei personaggi fa sì che siano i pensieri, i sentimenti, le considerazioni i veri protagonisti dell’opera.
Ci troviamo di fronte all’enigmatico dualismo immaginazione/realtà: gli eventi narrati lasciano spesso il dubbio circa la loro incontrovertibile veridicità.
L’abituale quotidiana osservazione di Miguel e Luisa, una coppia innamorata che si incontra tutte le mattine nello stesso caffè, offre alla protagonista Maria, anche lei frequentatrice dello stesso locale, lo spunto per narrare in prima persona una vicenda che ha del mistero e che si tinge di noir.
In seguito alla morte violenta di Miguel, Maria si avvicina a Luisa, ne fa la conoscenza e quindi si reca a casa sua, per darle la possibilità di dare sfogo al suo dolore. In quella occasione conosce Javier, di cui si innamora.
La vicenda si snoda con ritmo lento: i protagonisti indugiano in considerazioni sulla morte e sulla vita, sul rapporto morte-vita, in un gioco narrativo ad effetto “sliding doors”. Non a caso sono spesso citati episodi di grandi classici, come quello della foresta di Birnam, del Macbeth di Shakespeare, o quello dei Tre Moschettieri di Dumas, in cui Athos accenna alla morte della giovanissima moglie, Anne de Breuil, o ancora quando si cita il personaggio di Balzac, il colonnello Chabert. In ciascuno di questi episodi, la realtà è sempre ambigua e la sua ambiguità si fonda proprio sulla molteplicità dei significati della parola. Non si possono non ricordare a questo proposito i versi famosissimi pronunciati dal coro delle streghe nel primo atto del Mcbeth: “fair is foul, foul is fair”. I fatti che si vivono sono reali per coloro che li vivono, per gli altri sono racconto e dunque sono fittizi. L’uomo ha bisogno di certezze per vivere: essere coscienti di vivere una “realtà irreale” accresce la sua solitudine.
In questa prospettiva la menzogna diventa elemento importante nel romanzo, al punto da porre il vano quesito se esista un modo, nell’epoca di incredibili progressi e invenzioni, per penetrare nella mente umana e sapere quando qualcuno mente. Certo, afferma l’autore attraverso i suoi personaggi, l’impossibilità di leggere nella psiche altrui è l’unico margine di libertà concesso all’uomo.
La finzione a volte ha bisogno di tingersi di verità per acquisire maggiore veridicità.
L’umanità descritta da Marias è fragile e in balia di ogni incertezza: anche l’innamoramento, pur con il suo fascino inebriante, rende ancora più fragili e deboli.
La decisione di affidare a Maria la descrizione in prima persona è una novità nell’opera di Marias che riesce a dare comunque al personaggio femminile assoluta credibilità, mettendone in risalto la sensibilità.
Al di là della trama, il vero interesse del romanzo risiede nel mostrare l’individuo al centro della sua tragica, perpetua incertezza con tutti i suoi dubbi insoluti, destinati ad accrescere la sua solitudine.

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Le braci
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    11 Gennaio, 2013
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Limbo di Melania Mazzucco

“La fine della notte nera è bianca” è il proverbio afghano citato da Melania Mazzucco in apertura al suo nuovo romanzo “Limbo” e come sempre le citazioni offrono spunti e suggerimenti di lettura.
La struttura del romanzo si basa sull’alternarsi di capitoli intitolati “Live” e “Homework”. Solo il titolo del penultimo, “Rewind”, differisce dagli altri. Questa scelta è assolutamente funzionale al contenuto e al significato della vicenda raccontata: i termini inglesi, sono infatti molto più sintetici e concisi della corrispondente versione italiana. La protagonista è Manuela Paris, maresciallo degli Alpini, reduce da una missione in Afghanistan. La sua storia ci giunge attraverso una narrazione che si svolge su due piani paralleli: uno live, appunto, cioè dal vivo, in contemporanea, in terza persona, l’altro, in prima, registra i ricordi di Manuela sul campo; ella deve svolgere, infatti, i “compiti a casa”, il cui scopo è quello di esorcizzare e affrontare in modo cosciente l’esperienza negativa dell’attentato di cui è stata vittima in Afghanistan, insieme con i suoi uomini, deceduti in quel tragico evento.
La figura di Manuela, donna soldato, il cui fisico porta le cicatrici dell’agguato di cui è stata vittima, con i capelli tagliati a spazzola, zoppicante, è l’emblema delle difficoltà che deve affrontare una donna che sceglie questa carriera. Se essere soldato significa dover affrontare prove fisiche e psichiche di una certa difficoltà, ciò diventa doppiamente arduo se il soldato è di sesso femminile. Manuela, dunque, come le sue colleghe, è tenuta a reprimere, addirittura a soffocare la propria femminilità, deve vincere le paure e le esitazioni, si sente sottoposta a un giudizio severo ed è proprio lei il primo giudice di se stessa. La personalità di Manuela si definisce ancora meglio nel contrasto con la sorella Vanessa che rappresenta lo stereotipo della femmina. Vanessa non disdegna di ricorrere alla chirurgia plastica per correggere i suoi difetti fisici, cerca l’amore anche in incontri occasionali. La sua superficialità si accompagna alla sua generosità e i suoi difetti e le sue qualità sono esattamente il contrario delle qualità e dei difetti di Manuela. Sembra che la funzione di questi due personaggi sia di dimostrare che l’armonia si raggiunge solo dalla perfetta sintonia e sintesi delle loro diverse caratteristiche e che un’esasperata repressione della femminilità sia inutile. L’affannosa lotta femminista di Manuela, comprensibile in un mondo di uomini, risulta a volte esagerata.
La Manuela reduce incontra un uomo misterioso che alloggia nell’hotel di fronte a casa sua e tra loro nasce un amore, turbato però dai dubbi e le incertezze sul passato di lui.
Vivono dunque entrambi in una sorta di limbo, come meglio si capisce nel capitolo “Rewind”, il capitolo in cui il nastro si riavvolge, le verità si scoprono. E il termine “limbo” ricorre spesso nel corso del romanzo: esso si riferisce ora al gioco della piccola Alessia, ora viene usato come termine scientifico, in oftalmologia, ora indica la condizione umana di sospensione e attesa – si ricordi Dante che allude a coloro che “sono esclusi dalla grazia pur senza colpa”.
La prosa della Mazzucco è corposa e coinvolgente, con punte di grande lirismo: ciò soprattutto nei capitoli intitolati “Live”, mentre quelli dal titolo “Homework” eccedono a volte nei dettagli tecnici. È utile, a questo proposito, ricordare quanto ha scritto Asor Rosa nel terzo volume della sua Storia Europea della Letteratura della Nazione, nella pagina dedicata alla Mazzucco. La scrittrice, dice Rosa in sintesi, ha una passione documentaristica e ciò dà maggiore spessore e realismo ai fatti che racconta; ella “conosce per scrivere …..scrive per conoscere, perché scrivere è il suo modo di conoscere.”

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    03 Gennaio, 2013
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l'urlo e il furore di Willam Faulkner

Spegniti, spegniti, breve candela!
La vita non è che un’ombra che cammina; un povero attore
che si pavoneggia e si agita per la sua ora sulla scena,
e del quale poi non si ode più nulla; è una storia
raccontata da un idiota, piena di rumore e furore,
che non significa nulla.

Queste le parole di Mcbeth (Shakespeare - atto V, scena V, vv 23-28), a cui Faulkner ha attinto per il titolo del suo capolavoro, che sottolineano l’insensatezza e l’inutilità della vita, una storia raccontata da un idiota, piena di “sound and fury”.
E inizia proprio con il monologo del personaggio dell’idiota, Benjy, la prima parte del racconto intitolata “Sette Aprile 1928” alla quale seguono “Due Giugno 1910”, “Sei Aprile 1928” e infine “Otto Aprile 1928”: quattro giorni descritti e dedicati ai quattro personaggi più importanti del romanzo, senza tuttavia un "logico" ordine cronologico. Già dai titoli delle singole parti, dunque, si deduce come la narrazione sia improntata sugli schemi della “durée bergsoniana” già sperimentati con tecnica innovativa da James Joyce. La successione temporale degli eventi, disordinata e spesso di difficile comprensione, rappresenta il disordine mentale e morale che regna tra i componenti della famiglia Compson, la cui storia ci viene descritta con impietoso realismo.
La prima giornata, il sette aprile, introduce tutti gli altri personaggi attraverso la figura del ritardato mentale Benjy, che insieme con Quentin, Caddy e Jason costituisce la prole disgraziata e in un certo senso “maledetta” della famiglia Compson. La stessa madre, Caroline appare come una donna debole che si cela volentieri dietro malanni più o meno pretestuosi, al fine di allontanare le responsabilità e gli affanni. Il padre, alcolizzato, morirà prematuramente.
La menomazione mentale di Benjy fa sì che egli, con la sua lagnosa presenza, pur essendo apparentemente lontano dal comprendere gli eventi che travolgono la famiglia, abbia la stessa funzione del clown shakespeariano unico vero e sensibile interprete della realtà.
La sezione intitolata “Due Giugno 1910” è dedicata al monologo di Quentin: questa è senz’altro la parte più difficile del romanzo, per il complesso flusso di coscienza grammaticalmente sconnesso.
Il balzo indietro nel tempo ci introduce nel dramma vissuto dai fratelli Quentin e Caddy che si macchiano di incesto. Questo peccato, mai superato, condizionerà la vita di Caddy e porterà Quentin al suicidio. Nel racconto di Quentin è continuamente presente il tema del tempo, attraverso il simbolo dell’orologio e del suo ticchettio. Il simbolismo, così importante nella tradizione letteraria americana, da Hawthorne (The scarlet letter) a Melville (Moby Dick), è presente nell’opera di Faulkner, ed emerge in tutti i suoi romanzi. “…il babbo diceva che il tempo è morto, finchè viene rosicchiato dal ticchettio delle rotelle; solo quando si ferma, il tempo torna in vita.” La vita, dunque, è legata al tempo-non tempo, all’ immobilità del presente.
In questo capitolo la morte di Quentin viene ripetutamente annunciata dal suo desiderio di calpestare la sua ombra che egli vede riflessa nell’ acqua e di spingerla in fondo, sempre più in fondo.
Caddy, la sorella amata, viene continuamente rievocata, ma tornerà molto più prepotentemente nel capitolo successivo, in cui è il fratello Jason a raccontare la giornata del sei aprile 1928. Questo è il fratello a cui si appoggia la madre Caroline, rimasta sola con lui dopo la morte del figlio e la partenza della figlia, sposata e poi separata. Il carattere meschino e egoista di Jason si rivela in tutta la sua tragica dimensione nel rapporto con la giovane Quentin, figlia di Caddy, così chiamata in ricordo del fratello. Jason si macchia di ogni sorta d’azione bassa e disonesta, per sfogare il suo odio nei confronti della sorella e della nipote a cui attribuisce la causa della sua mancata realizzazione nella vita.
L’ultimo capitolo, datato “Otto Aprile 1928, è dedicato all’unico personaggio dotato di sensibilità e capace d’un sentimento d’amore cosciente, Dilsey, la serva “negra” spesso trattata con disprezzo dai componenti della famiglia, che tradiscono, in questo modo, i persistenti atteggiamenti schiavistici di certa gente del sud degli Stati Uniti di quell’ epoca. La debolezza di Dilsey, appartenente a una minoranza, è la sua forza ed è proprio la forza che le permette di prendersi cura lei stessa, donna di colore, di minoranze bianche, come Benjy, la cui mente vaga fuori del mondo, o di Caddy, emarginata dal suo stesso peccato e dalla vita dissoluta che ha scelto di condurre. Una famiglia tragica e maledetta quella dei Compson, che rappresenta la decadenza della ricca borghesia dell’inizio novecento, una borghesia che necessita di rinnovamento e di nuova linfa. Quasi un drammatico messaggio, quello di Faulkner: se la società non sarà in grado di trovare in sé la forza e la capacità di rinnovarsi e non saprà superare i pregiudizi che le impediscono di assimilare nuove energie provenienti dall’esterno, difficilmente avrà possibilità di salvezza.

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Ulisse di James Joyce, La paga del soldato di W. Faulkner. Lettura impegnativa.
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    23 Dicembre, 2012
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Le braci: un trattato sull'amicizia

“Le braci” di Sándor Márai fu pubblicato per la prima volta nel 1942. Più che un romanzo, lo definirei un trattato sull’amicizia: in questa prospettiva si possono riscontrare alcuni punti in comune tra l’opera di Márai e il De Amicitia di Cicerone.
La scena, e mi si conceda il termine “scena”, dal momento che la narrazione ha un’impostazione teatrale, con pochi personaggi e un lunghissimo monologo interrotto solo da brevi battute, si apre sulla visita del generale-protagonista alla cantina del suo castello per spostarsi immediatamente, solo dopo qualche riga all’interno del castello stesso.
Il luogo è estremamente importante: una sorta di microcosmo, avulso dal resto del mondo, dove i personaggi hanno trascorso le loro vite dibattendosi tra passioni, amori, odi e dove è giunto attutito il rumore di cadute di imperi, di rivoluzioni e guerre: dei tragici eventi, cioè, che sconvolsero il mondo esterno all’inizio del novecento.
Dopo quarant’anni di separazione il generale si accinge a ricevere e a rivedere l’amico Konrad a cui era stato legato da un’amicizia profonda interrottasi per cause che al lettore non è dato conoscere, almeno per il momento.
Di ciò che sia accaduto tra le mura di quel castello sembra essere a conoscenza solo la vecchissima balia Nini, testimone e depositaria della verità.
L’incontro tra il generale, il cui nome è Henrik, e Konrad vuole essere, probabilmente nelle intenzioni di entrambi, chiarificatore d’una separazione improvvisa e apparentemente incomprensibile. Esso offre certamente lo spunto per approfondire il concetto di amicizia, ponendo un drammatico interrogativo: può davvero esistere l’amicizia?
Qui si inserisce il lungo monologo di Henrik, che rievocando le esperienze della vita che i due giovani hanno condiviso, si sofferma su speculazioni di tipo filosofico sulle condizioni che permettono all’amicizia di resistere al tempo.
È subito chiaro che Henrik e Konrad sono completamente diversi l’uno dall’altro: Il primo è di gracile costituzione, ma ciononostante assolve il suo compito d’ufficiale con scrupolo e passione, ama la caccia e le frivolezze della vita; il secondo Konrad, il cui fisico sembrerebbe più idoneo ad affrontare la carriera d’ufficiale, considera questa solo un mestiere, un mezzo per sopravvivere, mentre la sua natura lo porterebbe piuttosto a coltivare le arti e in particolare la musica.
Henrik e Konrad. La caccia e la musica. La ricchezza e la povertà.
Qui dunque il primo interrogativo: può esistere amicizia tra esseri tanto diversi?
Henrik afferma di essersi sempre adattato allo stato di inferiorità sociale dell’amico, offrendogli la possibilità di condividere con lui le sue disponibilità.
Nel De amicitia di Cicerone (XIX cap) troviamo un concetto del tutto simile : “Ma requisito essenziale dell’amicizia è che il superiore si faccia inferiore.”
Henrik si chiede se l’amicizia esista veramente e su cosa si fondi: sulla simpatia? Troppo poco. C’è un pizzico di eros alla base dell’amicizia? “L’eros dell’amicizia non ha bisogno dei corpi, essi anzi lo disturbano più di quanto non lo attraggono. Ma si tratta pur sempre di eros, c’è eros in tutte le relazioni umane.”
Vediamo ora Cicerone (cap. V): “..l’amicizia è superiore alla parentela, in quanto alla parentela si può togliere l’affetto, dall’amicizia no: perché tolto l’affetto il nome dell’amicizia scompare, mentre quello della parentela no.”
Dunque l’amore, l’affetto sono indispensabili all’amicizia: la sua fine può, con molta probabilità, generare odio. Questo concetto si trova sia in Cicerone che in Márai.
Gli eventi accaduti tra Henrik e Konrad hanno cancellato il forte vincolo giovanile, trasformandolo in odio. Ora davanti al fuoco del camino che simbolicamente divampa come le passioni esplose e represse nel cuore dei protagonisti è giunta l’ora della verità. Avranno i protagonisti il coraggio di affrontarla? L’unica verità incontrovertibile sarà quella che trasformerà il fuoco delle passioni in brace, ma solo quando la brace sarà cenere l’animo umano troverà pace.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    17 Dicembre, 2012
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jezabel di Irène Némirovsky

Jezabel apparso nel 1936, è un bellissimo romanzo che offre diversi piani di lettura: dal più evidente, che si basa sulla trama abbastanza semplice nella sua terrificante rappresentazione di una parte della società ricca e superficiale dei primi del novecento, a quello assai più complesso che riguarda la sfera dell’arte e il rapporto arte/società.
La protagonista Gladys Eysenach è una donna bellissima, ricchissima, amata e corteggiata, con alle spalle un’infanzia senza padre, appartenente ad “una società cosmopolita senza patria e senza legami”. La vita di Gladys è tutta incentrata sul culto di se stessa e della sua bellezza: la sua unica preoccupazione è quella di non invecchiare, o, quanto meno, di attenuare gli effetti devastanti del tempo sul suo corpo arrivando persino a nascondere, con subdoli espedienti, i suoi dati anagrafici.
Quest’ansia di giovinezza eterna le aliena l’affetto della figlia, che rimarrà vittima del suo egoismo e morirà mettendo al mondo un figlio che Gladys allontanerà perché imbarazzante testimonianza della sua reale età. L’inizio del romanzo, con la scena del processo e della deposizione di alcuni testimoni contro Gladys, accusata di aver ucciso un giovanissimo amante, è solo il pretesto per penetrare nel personaggio, nella sua vita, nelle sue ambizioni deluse, nei suoi egoismi palesi.
Siamo di fronte a un vero e proprio Narciso in panni femminili. D’altra parte il mito di Narciso ha attraversato la storia della letteratura sin dai tempi di Ovidio ed è stato anche ripreso da Andrè Gide e da Paul Valéry.
Il movimento ondeggiante dell’acqua in cui Narciso ammira la sua immagine, invaghendosene, è il simbolo della precarietà dell’amore fine a se stesso. In uno dei tre trattati sulla sessualità, Freud identifica il complesso del Narciso con una pulsione all’autoconservazione. Ed è in questa prospettiva che si può parlare di un attacco al concetto di arte fine a se stessa come lo troviamo per esempio nella prefazione di Oscar Wilde al Ritratto di Dorian Gray, un vero e proprio manifesto letterario. D’altra parte Gladys cos’è se non una Dorian Gray, in veste femminile e più moderna? La differenza tra il personaggio di Wilde e quello della Némirovsky, consiste nel fatto che al primo è consentito, grazie a uno scellerato patto col demonio, di vedere invecchiare la sua immagine solo nel suo ritratto, fino al momento finale in cui, presa coscienza della sua depravazione, Dorian infierirà sul ritratto e quindi su se stesso, assumendo l’aspetto del vecchio che è ormai diventato, mentre alla Gladys della Némirovsky tocca vedere, giorno dopo giorno con tragica e sofferta consapevolezza, gli effetti nefasti dell’età sul suo viso e sul suo corpo.
È giusto dunque che l’arte mantenga una purezza assoluta e non abbia alcuna funzione sociale o didascalica, che sia fine a se stessa, come teorizza Wilde, o che - piuttosto - non si adegui e rappresenti le problematiche, i drammi, le incongruenze della società contemporanea? Un nodo che i teorici e i critici forse non hanno ancora sciolto.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    15 Dicembre, 2012
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Espiazione di Ian McEwan

Espiazione è un romanzo-saggio o saggio-romanzo sulla funzione dell’arte e, nello specifico, della letteratura nella società contemporanea: un’idea geniale, a mio avviso, quella di creare una storia e dei personaggi, che possano esprimere concetti teorici altrimenti fruibili solo da studiosi o critici letterari.
La storia inizia in una vecchia casa di campagna, dove si trovano riuniti molti membri della famiglia Tallis ed alcuni amici. La protagonista appare subito essere Briony, adolescente ambiziosa con aspirazioni da scrittrice. L’opera “Disavventure di Arabella” da lei scritta per l’occasione non potrà essere rappresentata, come lei aveva programmato, a causa degli eventi drammatici che si verificheranno in quel luogo.
Ed è sul personaggio di Briony che si concentra l’attenzione dell’autore e, di conseguenza, del lettore. Ella appare subito come il simbolo, la personificazione dell’arte stessa nella sua forza mistificatrice. Il tema del rapporto finzione-realtà è fondamentale. Con la sua interpretazione dei fatti, con la sua descrizione della violenza subita nella notte nel parco intorno alla casa, dalla cugina Lola e con la sua identificazione dello stupratore nella persona di Robbie, Briony crea una realtà alternativa, offrendo alla madre, Emily, un ottimo motivo per allontanare definitivamente dalla sua casa quel giovane, figlio della domestica, mantenuto all’Università dalla generosità di suo marito e innamorato di Cecilia.
Briony prende gradualmente coscienza del crimine da lei commesso, che fu la causa della condanna di Robbie al carcere da cui uscirà solo per arruolarsi e andare a combattere in Francia contro i tedeschi.
La seconda parte del romanzo si concentra sull’esperienza della guerra e segue le vicende di Robbie sul suolo francese dopo la sconfitta di Dunkerque. Questa parte assai realistica nella descrizione, assumerà più avanti un significato rilevante, sempre nella prospettiva della teorizzazione del romanzo secondo McEwan.
Ritroviamo Briony nella terza parte del racconto come infermiera volontaria preposta ad una serie di umilianti incombenze, che assolve con stoica rassegnazione, come fossero parte della meritata espiazione.
È in questo periodo che Briony riceve una lettera da un editore che, pur non potendo pubblicare il racconto da lei inviatogli, le dichiara di avere molto apprezzato la sua opera. Il contenuto di questa lettera è assolutamente chiarificatore sulla teoria del romanzo dell’autore. Il riferimento esplicito al flusso di coscienza di Virginia Woolf, al cui stile d’altra parte si ispira McEwan, alla teoria bergsoniana del tempo, all’analisi degli stati d’animo dei personaggi, sono chiari riferimenti all’evoluzione della narrativa dai primi del novecento. Nonostante il debito indiscusso verso queste rivoluzionarie innovazioni letterarie, l’autore sembra però aderire maggiormente ad un’impostazione più realistica e attinente ai fatti che non fantasiosa o troppo descrittiva. E qui si inserisce anche un giudizio negativo sugli artisti che si dilungano su temi politici che riguardano la guerra, che è “nemico giurato della creatività”.
L’ultimo capitolo del romanzo sconvolge la tecnica narrativa fin qui adoperata, in quanto da una descrizione impersonale affidata alla terza persona, in assenza di un narratore-personaggio, si passa ad una narrazione in prima persona: è Briony, divenuta scrittrice di successo, ormai giunta alla fine della sua vita, che racconta come ritorna alla vecchia casa di campagna, trasformata in albergo, per festeggiare con quei membri della famiglia che sono rimasti e quelli che si sono aggiunti con le successive generazioni, il suo settantottesimo compleanno. Questa sarà l’occasione per mettere in scena a sorpresa le “Disavventure di Arabella”, interpretate dai più giovani discendenti della famiglia.
Due sono i punti rimarchevoli di quest’ultimo capitolo. Il primo riguarda l’affermazione di Briony di avere più volte cambiato la versione della sorte di Cecilia e Robbie. Nell’ultima stesura li ha voluti insieme riuniti e felici, mentre precedentemente aveva scelto una fine più tragica. In questo Briony, come artista, rivendica a sé il diritto, quasi divino, di poter decidere della vita e della morte dei suoi personaggi.
Il secondo riguarda la decisione di concludere la storia là dove era cominciata, nello stesso luogo, secondo una tradizione che spesso il romanzo inglese ha rispettato. Come a chiudere un cerchio. Del resto il cerchio è la figura perfetta.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    08 Dicembre, 2012
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Inseparabili di A.Piperno (Premio Strega 2012)

“Inseparabili” è la seconda parte de“Il fuoco amico dei ricordi” che Piperno aveva iniziato con “Persecuzione”.
Anche in questo caso, la lettura del romanzo rivelerà quanto siano interessanti e appropriate le citazioni poste all’inizio del libro: la prima tratta da Baudelaire mette l’accento sul male di vivere dell’uomo moderno, inquieto al punto da essere alla continua ricerca di un cambiamento che gli dia sollievo, la seconda, una frase di Andre Agassi, esprime il concetto di come possa essere più dolorosa una sconfitta di quanto possa essere piacevole una vittoria.
“Inseparabili” sviluppa e approfondisce alcuni temi che erano già stati affrontati in “Persecuzione”.
Se nel primo romanzo avevamo visto la netta contrapposizione tra il personaggio di Leo e quello di Rachel, come i due stereotipi di ebreo, uno sottomesso e rassegnato, l’altra aggressiva e risoluta, qui la contrapposizione è tutta tra i due fratelli, cresciuti nell’illusoria convinzione di essere inseparabili, proprio come i pappagallini che non possono sopravvivere l’uno senza l’altro. Ed è proprio l’essere cresciuti con l’angoscioso ricordo del padre che finì i suoi giorni chiuso nel seminterrato della casa, senza che nessuno della famiglia avesse fatto un passo significativo per dargli conforto, che accentua ed esaspera quelli che erano stati accennati come i limiti caratteriali dei due fratelli. Essi appaiono come due poli opposti, che si respingono e si attraggono: se Filippo, con la sua dislessia, trova grandi difficoltà nello studio, Samuel apprende con rapidità e profitto; se Filippo sviluppa un fisico robusto e un’attività sessuale intensa e soddisfacente, Samuel è più delicato e la sua insicurezza è la causa dei suoi complicati e anomali rapporti sessuali. Il successo di Filippo arriva solo quando ha la possibilità di dare sfogo al suo estro creativo, mentre il fallimento di Samuel deriva proprio dall’unica volta in cui ha preso decisioni autonome. I due fratelli sono come due entità antitetiche, Caino e Abele, come lo stesso Samuel accenna nel drammatico scontro finale chiarificatore con il fratello. E quello che è più terribile è che di tutto il dramma interiore che distrugge il rapporto tra i due fratelli è testimone e responsabile la madre, che ha sempre represso quei rari momenti di compassione e pietà da cui pure era stata talvolta toccata. L’appartenenza al mondo ebraico è nei romanzi di Piperno di assoluta importanza: lo scontro tra i fratelli, non a caso, si basa anche sull’indignazione sorta in Samuel, nel sentire Filippo accennare, nel suo discorso alla Bocconi, alla strage dei bambini compiuta dalla Royal Air Force a Dresda, senza un minimo accenno alle morti di Auschwitz.
Qui il discorso si fa molto complesso: certamente quello della funzione della memoria è un argomento assai caro a Piperno: nel bellissimo saggio su Proust intitolato “Contro la memoria”, si dilunga su questo punto. Anche in questo romanzo accenna all’oblio come mezzo per raggiungere la serenità e alla memoria come causa di sofferenza.
Certamente la visione del mondo di Piperno , così come ci giunge attraverso i suoi romanzi, è assai inquietante, nel suo realismo spietato: qui l’opposizione tra l’uomo e il mondo, l’uomo e la società è conflittuale al punto che anche i sentimenti più naturali e spontanei di cui l’individuo ha bisogno per vivere, come l’amore e l’amicizia vengono annullati nella cinica rete di rapporti in cui si trova imprigionato.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    03 Dicembre, 2012
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Persecuzione di Alessandro Piperno

“Persecuzione” di Alessandro Piperno è il primo volume di un’opera complessiva, che con evidente riferimento alla Recherche di Proust l’autore ha intitolato“Il fuoco amico dei ricordi”. D’altra parte ciò non può né deve stupire, dal momento che Piperno è uno straordinario studioso del grande scrittore francese con cui condivide l’origine ebraica. La funzione della memoria è, proprio in tale prospettiva, di grande importanza e offre lo spunto a numerose riflessioni e considerazioni.
La citazione dal De consolatione di Boezio “Sei rimasto in silenzio per la vergogna o per lo stupore?” posta prima dell’inizio del romanzo, pone subito il lettore di fronte a un enigma che lo accompagnerà fino alla fine del racconto.
Il celebre professore primario di oncologia pediatrica, Leo Pontecorvo, amato e stimato nell’ambiente di lavoro come tra le mura domestiche, si trova improvvisamente costretto a difendersi da un’accusa infamante avanzata contro di lui da una tredicenne, fidanzatina del figlio.
La personalità di Leo è delineata, all’inizio, a mio avviso, con intenzionale ambiguità, per lasciare nel lettore un certo dubbio sulla sua effettiva integrità morale.
Certamente Leo è l’opposto di Rachel, sua moglie, che è pura razionalità.
Anche lei di origine ebraica, ma di estrazione sociale assai più modesta, spesso rinfaccia al marito la sua appartenenza a quella ricca borghesia che s’era potuta permettere di risiedere in Svizzera negli agi, durante le persecuzioni naziste e fasciste. Leo e Rachel sembrano rappresentare i due opposti stereotipi dell’ebreo, uno remissivo e rassegnato di fronte ai soprusi, l’altra più aggressiva e determinata nel raggiungere e conservare i privilegi conquistati faticosamente.
Ed è in questa prospettiva che il personaggio di Rachel si delinea in tutta la sua ferocia e la sua negatività: senza esitare e senza neanche chiedersi se le accuse contro il marito abbiano un sia pur minimo fondamento, lo allontana dalla sua vita e dall’affetto dei figli, costringendolo a un isolamento fisico e spirituale, chiuso nel seminterrato della loro villa, da cui lui avrà della vita dei suoi cari solo una visione parziale e dal basso, sbirciando dalle finestre a livello terra.
Certo la descrizione del carattere di Leo suscita più di una volta il dubbio che la sua generosità sia piuttosto dabbenaggine, che la sua superficialità sia solo apparente e nasconda invece una forma di repressa consapevole perversione; tuttavia, l’evoluzione del personaggio che va perdendo ogni connotazione umana, fino a identificarsi con l’orrido scarafaggio di creazione kafkiana, induce ad amare considerazioni su quello che è tutto il mondo che lo circonda, dall’avvocato Herrera, al piccolo paziente salvato, Luchino, che ormai adulto ipocrita si è trasformato in un incubo ricorrente, all’assistente che lo accusa di strozzinaggio, dopo aver ricevuto da lui soldi in prestito senza interesse.
Ciò che sembra essere più devastante nella mente di Leo, però, è lo svanito rapporto con i figli, di cui ripercorre la vita dalla nascita, rivivendo con angoscia i momenti difficili e problematici.
E dunque la fine di Leo è segnata: è una fine squallida, come può esserla quella d’un insetto o d’un topo di fogna, anche se poco prima di morire si rivede sul grande letto matrimoniale dove trovano posto tutte le persone da lui amate, dalla madre, a Rachel, ai figli, in un tentativo immaginario di abbraccio consolatorio.
E dunque l’interrogativo iniziale si ripropone alla fine, rimanendo senza sicura risposta : “Sei rimasto in silenzio per la vergogna o per lo stupore?” .

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    29 Novembre, 2012
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il generale nel suo labirinto di G. G. Marquez

Il generale nel suo labirinto non è forse tra le opere più note di Gabriel Garcia Marquez, ma non per questo deve essere considerata un’opera minore.
Qui certamente il “realismo magico” che caratterizza i grandi romanzi di questo autore è condizionato dal genere biografico, che lascia meno spazio alla narrazione fantastica e immaginifica. Ciononostante, Marquez, in un esperimento geniale, non si dilunga in una cronaca noiosa dei fatti storici e politici che caratterizzarono la vita di Simon Bolivar -che allega peraltro in appendice a chiarimento del lettore e a sostegno degli eventi da lui narrati - ma descrive piuttosto le ansie, i sentimenti, le delusioni e le disperate speranze di un uomo giunto al declino del suo successo e al tramonto della sua vita. Questa scelta ha permesso a Marquez di dare spazio alla sua creatività, regalandoci pagine di grande intensità descrittiva capaci di generare le grandi emozioni a cui sono abituati i suoi lettori.
La prima parte del romanzo risente, a mio avviso, della cultura e della tradizione spagnola, in particolare dell’influenza del romanzo picaresco, da Lazarillo de Tormes al Don Chisciotte di Cervantes, dove una satira sottile e dissacrante ci presenta un Bolivar ormai ammalato e fiaccato nello spirito e nel fisico, non più a cavallo del suo storico Palomo Bianco ma di una “mula spelacchiata dalle gualdrappe di stuoie”, seguito sempre dal suo fedele Josè Palacios, una sorta di Sancho Panza. E le esperienze a cui va incontro ne diminuiscono gradatamente il prestigio e l’autorità.
Certamente, però, non era intenzione di Marquez creare un personaggio comico o grottesco, perché il suo atteggiamento nei confronti del “suo” protagonista cambia nel corso della narrazione. L’autore distingue nello stesso Bolivar l’uomo eccessivamente ambizioso che aveva perseguito il sogno di unità dei popoli latinoamericani e aveva paragonato se stesso a Napoleone, vede in lui annidato il pericolo della dittatura, causa di sventure nella storia delle nazioni e in questa prospettiva si serve di una satira sottile e intelligente. Laddove Bolivar è invece descritto come il Libertador, che ha liberato i popoli dalla dominazione spagnola, il rispetto per l’uomo e per il personaggio si fa indiscutibile. Bolivar, dunque, eroe dimezzato. La passione descrittiva di Marquez aumenta via via che si dilunga sulle debolezze fisiche dell’uomo, ridotto ormai ad un mucchio di ossa, rimpicciolito nella statura, avvilito dal degrado del suo corpo, consapevole “del fetore e del calore del suo fiato”, ben lungi dal soldato in uniforme che aveva sedotto centinaia di donne: un degrado ancora più mortificante in chi spende una vita basandola su principi di integrità, forza fisica e coraggio.
Abbandonato e tradito da molti che gli erano stati accanto, la sofferenza di Bolivar è alleviata però dalla fedeltà estrema di Josè Palacios, la cui descrizione acquista sempre maggiore dignità nel corso della narrazione e dalla devozione assoluta di Manuela che, pure distante, lo amerà oltre la morte.
La consapevolezza di Bolivar di essere giunto alla fine dei suoi giorni, lo porrà di fronte all’ignoto con il dubbio angoscioso “Come farò a uscire da questo labirinto?” , il labirinto della vita di ciascun essere umano.
Con la solita maestria nell’uso dello spazio e del tempo, che non conoscono alcuna unità, Marquez affida la descrizione ad una prosa carica di suggestioni, capace di evocare suoni, odori, profumi. Amplifica i personaggi, a volte fino allo spasimo, quasi come fa Botero con i suoi dipinti e le sue sculture, come se fosse proprio di questi magnifici artisti colombiani esprimersi attraverso l’iperbole.


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