Opinione scritta da enricocaramuscio
340 risultati - visualizzati 201 - 250 | 1 2 3 4 5 6 7 |
Il cataclisma dell’umiliazione
“A cosa serve la felicità quando non è condivisa, Amin, amore mio? La mia gioia si spegneva ogni volta che tu non la condividevi. Tu volevi dei figli. Io volevo meritarli. Nessun bambino è al sicuro senza una patria… Non odiarmi. Sihem. ”Amin e Sihem sono una coppia di palestinesi che hanno ottenuto la cittadinanza israeliana. Lui è un affermato chirurgo, lei una donna stimata, bella, intelligente, moderna. Sono un riuscitissimo esempio di integrazione, la prova che la convivenza tra culture e religioni differenti è possibile. Niente può far pensare che un giorno la donna possa imbottirsi di esplosivo e farsi saltare in aria in un ristorante affollato. Eppure è così, è proprio lei l’attentatrice che ha seminato morte e terrore tra civili indifesi. Ma come ha fatto Sihem a nascondere le sue intenzioni al marito? A preferire la morte ad una vita invidiabile? A rivoltarsi contro chi l’aveva accolta in seno alla propria società? Amin è sconvolto, non riesce a capire, stenta a credere che ciò sia veramente accaduto. Deve fare i conti con il dolore, la rabbia, i sensi di colpa. Deve affrontare i propri fantasmi e difendersi dalle subdole rappresaglie degli israeliani offesi. Superate le difficoltà iniziali, decide di intraprendere un’indagine privata per scoprire la verità sulla vita di una persona che pensava di conoscere meglio di se stesso e che invece si rende conto di non aver conosciuto affatto. La ricerca di Amin è dettata esclusivamente da motivi personali, ma lo porterà invece a conoscere le ragioni collettive di un popolo che ogni giorno è costretto a vedere la sua terra usurpata, la sua dignità umiliata, i suoi diritti calpestati, che combatte a mani nude, a colpi di fionda, con armi di fortuna contro un nemico protetto da scudi antimissile che non esita ad usare i carri armati, i razzi, gli elicotteri. Un popolo che è il suo stesso popolo, cui lui aveva voltato le spalle, preferendo chiudersi nella sua gabbia dorata piuttosto che volgere lo sguardo sull’inferno che dilania la sua gente, che violenta la sua patria, che impedisce ai suoi figli di studiare, di sognare, di sperare nel futuro. Sullo sfondo una Gerusalemme “divisa fra un orgasmo da odalisca e un ritegno da santa” che “ha sete di ebbrezza e spasimanti, e vive malissimo la cagnara dei suoi figli, sperando contro venti e maree che una schiarita liberi le menti dal loro oscuro tormento. Di volta in volta Olimpo e ghetto, ninfa Egeria e concubina, tempio e arena, soffre di non poter ispirare i poeti senza che le passioni degenerino e, con la morte nel cuore, si sfalda a seconda degli umori come si frangono le sue preghiere nella bestemmia dei cannoni.” Il libro cerca di comprendere le ragioni di un gesto orribile senza minimamente legittimarlo, perché non esistono scusanti quando si parla di violenza. Ma, se non esiste giustificazione all’atto compiuto da Sihem, può esisterne per i droni israeliani che lanciano missili sui civili palestinesi? Per i bulldozer che radono al suolo le case arabe senza pietà, con tutto ciò che c’è dentro? Per la violenza di giovani militari imberbi su profughi che hanno soltanto le mani per difendersi dai colpi inferti loro con i calci dei fucili? Si può accettare l’innalzamento di un muro talmente osceno “che i cani preferiscono alzare la zampa sui rovi piuttosto che ai suoi piedi”? Si può ancora chiudere gli occhi davanti alla violenza, all’irragionevolezza, all’arroganza di politiche sioniste giustificate da un’inaccettabile legge di compensazione? “Ho voluto che capissi perché abbiamo preso le armi, dottor Jaafari, perché dei bambini si gettano sui carri armati quasi fossero bomboniere, perché i nostri cimiteri traboccano, perché voglio morire con le armi in pugno…perché tua moglie è andata a farsi esplodere dentro un ristorante. Non c’è cataclisma peggiore dell’umiliazione. È una disgrazia incommensurabile, dottore. Ti toglie la voglia di vivere. Finché non hai reso l’anima a Dio, hai una sola idea per la testa: come morire degnamente dopo aver vissuto disperato, cieco e nudo? … Nessuno si unisce alle nostre brigate per il proprio piacere, dottore. Tutti i ragazzi che hai visto, alcuni con le fionde, altri con i bazooka detestano la guerra più di chiunque altro. Perché ogni giorno uno di loro muore nel fiore degli anni per un proiettile nemico. Anche loro vorrebbero godere di uno status onorevole, diventare chirurghi, star della canzone, attori del cinema, correre in fuoriserie e toccare il cielo con un dito tutte le sere. Il problema è che impediscono loro di sognare.”
Indicazioni utili
Aria popolare e personaggi pittoreschi
Tra la riva sinistra dell’Arno e la chiesa del Carmine, sotto l’ombra di Palazzo Pitti e dei bastioni medicei, si stende il rione fiorentino di Sanfrediano, con le sue strade popolate come formicai, l’aria malsana del Deposito Centrale delle Immondizie, le case di pietra ammassate l’una sull’altra e le piazze vaste ed ariose come campi d’arme. Siamo nel primissimo dopoguerra, le gesta partigiane sono ancora vive nell’animo dei sanfredianini e fortissima è la voglia di rinascere dopo il buio del ventennio. Per le strade del quartiere spadroneggia il giovane impiegato Aldo Senise. Bello, atletico, elegante, soprannominato Bob per la spiccata somiglianza con l’icona del cinema Robert Taylor, il ragazzo fa strage di cuori tra le giovani fanciulle attirandosi l’ammirazione e l’invidia dei compaesani. Per questo rubacuori di quartiere, Sanfrediano rappresenta un albero fiorito su cui gli basta porre lo sguardo e allungare la mano perché anche i ricci più serrati si dischiudano al suo contatto. Così, forte del suo ascendente sul gentil sesso, il bel Bob si crea una sorta di harem, amoreggiando contemporaneamente con più ragazze, sempre pronto a nuove conquiste ma ben deciso a non rompere i rapporti con le altre. Il suo gioco però non può certo durare in eterno e ben presto il nostro dongiovanni si troverà a fare i conti con il carattere, l’orgoglio e la determinazione delle ragazze di Sanfrediano. Brioso, arguto, divertente, il romanzo di Pratolini ci porta tra le strade di un quartiere che diventa il vero protagonista della storia, con la sua aria popolare, i personaggi pittoreschi e la parlata dialettale che influenza positivamente la prosa. La trama risulta ironica e avvincente, la lettura procede piacevole e vivace fino ad arrivare ad uno spassoso finale in cui si percepiscono pienamente i primi segni del processo di emancipazione femminile, con la donna pratoliniana che tira fuori gli artigli mettendosi faccia a faccia con gli uomini. Inevitabile infine il parallelismo tra il rione fiorentino e l’Italia intera, perché appare palese come la vitalità, l’allegria, la voglia di vivere della simpaticissima gente di Sanfrediano incarni il bisogno di una nazione martoriata da vent’anni di regime di rifiorire, di ritrovare il piacere per la vita attraverso la leggerezza, i giochi e soprattutto l’amore.
Indicazioni utili
Vissero tutti felici e contenti
Nella seconda metà del diciottesimo secolo la Russia di Caterina II viene messa a soqquadro da una serie di movimenti rivoluzionari che tendono a sovvertire l’ordine stabilito e che vedono come grande protagonista il sanguinario cosacco Pugacev. In questo contesto storico brutale ed irrequieto, Puskin dipinge una delicata ed incantevole storia d’amore capace di resistere ad ogni ingiustizia, sopruso, peripezia gli si pari davanti e di trionfare sul male imposto dagli uomini e perfino su un destino sempre pronto a mettere il bastone fra le ruote. Tra le mura della fortezza di Belogorsk nasce e si alimenta di giorno in giorno un tenero sentimento tra Maria Ivanovna, figlia del comandante del suddetto reggimento, e il giovane alfiere di nobili origini Petr Andreevic. Il loro legame, tanto forte ed intenso, deve sin da subito fronteggiare le più disparate difficoltà, dalla timidezza di entrambi all’opposizione dei genitori di lui, fino alle insidie del subdolo Svabrin, commilitone di Petr Andreevic, anch’egli innamorato della bella Mascia. Ma il colpo più forte ai rosei progetti dei due innamorati lo sferra lo spietato Pugacev, assaltando e conquistando la fortezza e dividendo le strade dei nostri protagonisti. Petr Andreevic tuttavia non si arrende e, forte di una sorta di benevolo occhio di riguardo di Pugacev nei suoi confronti, fa di tutto per riuscire a stringere definitivamente la bella Maria Ivanovna tra le sue braccia. Probabilmente, dal punto di vista della trama, la storia raccontata da Puskin può apparire un po’ banale e buonista, la classica favoletta a lieto fine in cui, dopo le immancabili difficoltà, vissero tutti felici e contenti. Si potrebbe porre qualche critica anche alla presentazione del contesto storico la cui visione appare unilateralmente a favore della parte “zarista”. La rivolta dei cosacchi, infatti, era dettata dalle terribili ingiustizie del sistema sociale e puntava al riscatto dalla servitù della gleba. Ma di questo non vi è neanche un accenno e gli uomini di Pugacev vengono semplicemente dipinti come dei barbari sanguinari e usurpatori a cui si oppongono i virtuosi e irreprensibili difensori della corona. La valutazione dell’opera va quindi fatta tenendo ben presente l’epoca storica in cui è stata scritta e il contesto politico e sociale in cui nacque e visse Puskin (aristocratico e figlio di un militare in congedo). Tuttavia non si può certo negare l’altissimo valore letterario di un libro scritto divinamente, con una prosa ai limiti del lirismo, un’attenta caratterizzazione dei personaggi, una grande cura dei particolari. Tutte qualità che fanno sì che quest’opera venga ritenuta, a pieno titolo, una delle pietre miliari della grande letteratura russa.
Indicazioni utili
La carne scuola di vita
Tre donne alle soglie dei quarant’anni, divorziate, libere, emancipate, conducono una vita agiata e libertina in una Tokyo post-bellica in preda ad una voglia di occidentalizzazione che mette al tappeto secoli di tradizione e cultura. Nobuko si occupa di critica cinematografica e di moda, Suzuko ha un ristorante rinomato, Taeko possiede la migliore boutique della città. Mishima punta i riflettori su quest'ultima e, con un linguaggio quieto, semplice, quasi piatto e un’apprezzabile capacità di restare sobrio ed elegante anche nei momenti più piccanti, ci racconta l’avventura erotica e sentimentale tra l’avvenente protagonista ed il ventunenne Senkichi. I due si conoscono allo Hyacinthe, un locale gay in cui lui lavora come barman e dove lei viene trascinata dalle amiche durante una delle loro serate dissolute. Taeko è fortemente attratta dal fisico del ragazzo, dal suo volto di rara bellezza, dal taglio fiero delle sopracciglia, dai lineamenti virili. Per Senkichi lei è solo una delle tante (e dei tanti) clienti che cercano di portarselo a letto in cambio di qualche regalino. Tutto all'inizio lascia pensare ad un’avventura di poco conto. Ma tra i due nasce un tormentato rapporto fatto di sesso e denaro, di ipocrisia e menzogne, di odio e amore nel quale non si capisce bene chi sia il cacciatore e chi la preda, chi la vittima e chi il carnefice, chi il vincitore e chi il vinto. L’unica cosa che appare lampante è il forte, morboso, ineluttabile richiamo della carne, che trascina fino all’abisso, che sa esaltare ed appagare, che spesso è una vera e propria scuola di vita. “Per la prima volta, Taeko provò pietà nel proprio cuore. Non aveva mai sentito nulla del genere per lui, o meglio, se l’era imposto, per preservare il fascino dell’insolenza del ragazzo. Quel veto, adesso, si era sciolto. Taeko comprese di aver amato soltanto una chimera che lei stessa si era inventata.”
Indicazioni utili
Quell’amore che smuove gli animi
Con una scrittura semplice, lineare, asciutta, quasi a volersi affidare più alle immagini che alle parole, Fenoglio ci trascina nel bel mezzo della guerra tra partigiani e fascisti, una lotta fratricida che ha lasciato strascichi così lunghi da arrivare fino ai nostri giorni. Tra imboscate, spedizioni punitive, rappresaglie, prigionieri, esecuzioni, punizioni, ci troviamo fianco a fianco a ragazzi che hanno consacrato la vita a ideali di libertà e democrazia. Ma non c'è retorica nel racconto dell'autore, non ci sono eroi senza macchia ma solo giovani uomini con il loro coraggio e le loro paure, i difetti, i vizi e le manie, le lacrime e le risate, le speranze ambiziose e le spietate disillusioni. Fattori umani inevitabili, perché a combattere ci sono persone, non macchine, e anche in mezzo ai più terribili orrori bellici è impossibile mettere da parte i sentimenti. Lo sa bene Milton, protagonista del romanzo, che nel bel mezzo di un’azione si imbatte per caso nella villa dove abitava la sua amata Fulvia. Qui viene a sapere dalla custode di una tresca amorosa tra la ragazza dei suoi sogni e Giorgio, miglior amico e commilitone di Milton nelle file dei partigiani badogliani. Per il protagonista è un colpo troppo forte, in un lampo la guerra, la libertà, i compagni, i nemici perdono qualsiasi importanza. L’unica cosa che conta ormai è scoprire la verità. Si mette quindi subito alla ricerca dell’amico, ma ben presto viene a sapere che Giorgio è stato catturato dai fascisti. Le cose, a questo punto, si complicano e la tragedia appare inevitabile. Quattro lunghi giorni di ricerche, di continui flashback, di rabbia e di speranze, tra le Langhe avvolte da fitte nebbie, spazzate da venti gelidi, battute da piogge impietose, in cui le questioni personali si intrecciano con le ragioni della guerra, amicizia e rivalità si confondono, si ribaltano i progetti, le priorità, i sentimenti e ne viene fuori un’inconfutabile verità: che sia quello per un ideale, per la patria o più semplicemente quello per una donna, non c’è niente capace di smuovere gli animi degli uomini più dell’amore. “Fulvia, non dovevi farmi questo. Specie pensando a ciò che mi stava davanti. Ma tu non potevi sapere che cosa stava davanti a me, ed anche a lui e a tutti i ragazzi. Tu non devi saper niente, solo che io ti amo. Io invece debbo sapere, solo se io ho la tua anima. Ti sto pensando, anche ora, anche in queste condizioni sto pensando a te. Lo sai che se cesso di pensarti, tu muori, istantaneamente? Ma non temere, io non cesserò mai di pensarti”.
Indicazioni utili
Magia, disincanto e amicizia
Per Pip il mondo è davvero piccolo. Un focolare, una fucina, una palude tetra e nebbiosa sulla foce del Tamigi, un cimitero desolato e coperto di ortiche, una scuola serale dove non si impara niente, una sorella violenta che lo tira su a legnate. Poche persone, per lo più ostili, e un trattamento da giovane criminale irriconoscente nei confronti di chi lo ha cresciuto con le proprie mani. Gli unici veri amici sono la dolce Biddy, nipote della sua pseudo insegnante e il cognato Joe, fabbro dalla mole imponente ma dall'animo mite e generoso, che tratta Pip come un suo pari e che progetta di assumerlo come apprendista. A sconvolgere l'esistenza del protagonista, entrano in scena alcuni singolari personaggi. Il galeotto Magwitch, che Pip salva da morte certa procurandogli del cibo trafugato dalla dispensa di casa. La ricca e misteriosa Miss Havisham, che ingaggia il giovane come palliativo alla sua ombrosa solitudine. La bella e inaccessibile Estella, che lo sconvolge facendolo ammalare del più incurabile dei mali: l'amore. Infine il cinico avvocato Jaggers, che comunica al ragazzo una notizia sconvolgente: un misterioso benefattore ha deciso di prenderlo sotto la sua ala protettrice e di farne un gran signore. Grandi speranze appaiono all'orizzonte. Pip abbandona la sua malagiata esistenza e si trasferisce a Londra dove in pochi anni diventa un uomo colto ed elegante, tagliando con il passato al punto da dimenticare non solo la palude, la nebbia e la fucina, ma perfino chi, come Joe e Biddy, non ha mai smesso di pensarlo e di volergli bene. Le prospettive sono rosee, tutto sembra bello e facile, perfino in amore le sue speranze sembrano potersi concretizzare. Ma la vita, si sa, riserva spesso subdole sorprese. Dickens racconta la crescita e la maturazione del protagonista in un incalzante intreccio di dramma e umorismo in cui non mancano di certo coinvolgimento e suspense. Ad uno stile di prim’odine l’autore accompagna una profonda e ben articolata introspezione psicologica dei personaggi, che appaiono vari, originali, appassionanti. All’intenso alone di magia e di pathos che permeano l’opera, fanno da contrasto il disincanto e la disillusione che scaturiscono delle varie situazioni in cui Pip e i suoi compagni d’avventura si vengono continuamente a trovare e che appaiono emblematiche della precarietà della condizione umana e dell’ineluttabilità del destino. Motivo di fondo dell’intera vicenda e unica ancora di salvezza nell’impetuoso mare della vita sembra essere l’amicizia: quella che va oltre le differenze economiche e di classe, che dà senza pretendere nulla in cambio, che sopravvive alla lontananza, all’irriconoscenza, all’oblio, che non viene a mancare nel momento del bisogno. “E la cosa più bella è che mi sei stato molto più vicino da quando sono sotto una fosca nube, di quando il sole sfolgorava. Questa è decisamente la cosa più bella”.
Indicazioni utili
L’odore delle mandorle amare
Era un pomeriggio come tanti quando gli sguardi di Florentino Ariza e della tredicenne Fermina Daza si incrociarono per la prima volta dando vita ad "un cataclisma amoroso che mezzo secolo dopo non era ancora terminato". Lei bella e dolce studentessa con una sensuale andatura da cerva. Lui squallido, stitico, allampanato, ma traboccante amore da ogni poro della pelle. Florentino si ammala subito d'amore e i sintomi di questa malattia si rivelano gli stessi del colera. Smette di mangiare, di bere, di dormire, ha il polso debole, il respiro affannato, un sudore pallido da moribondo e un bisogno urgente di morire. Trova rifugio solo nei romanzi e nelle poesie amorose che divora insaziabile e che comincia a comporre lui stesso. Fermina sembra corrispondere i suoi sentimenti e tra i due nasce un romantico sodalizio fatto di lettere, serenate di violino, versi struggenti e petali di camelie. Ma il loro è un amore contrastato, di quelli che hanno lo stesso odore delle mandorle amare. L'idillio viene brutalmente interrotto, le loro strade si separano tragicamente, le loro vite prendono pieghe totalmente diverse. Florentino però non smette mai di amare la sua bella, né di sperare di riconquistarla, neanche davanti al matrimonio che lega Fermina al ricco e influente dottor Juvenal Urbino, un legame che dà l'impressione di essere forte e felice. Florentino aspetta, soffre in silenzio, cerca la sua amata senza trovarla nelle innumerevoli donne che ha durante la sua vita, amori clandestini che attenuano ma non riescono mai a spegnere la sua fiamma. Finché, ormai vecchi entrambi, a cinquantun anni, nove mesi e quattro giorni da quel primo, fulminante sguardo, per il protagonista si presenta finalmente l'occasione tanto agognata. Una storia alla Gabriel García Márquez, raccontata come solo Gabriel García Márquez sa fare, con una prosa allegra e al tempo stesso poetica, con atmosfere dolci e incantate, con il giusto mix di fantasia e realtà, di crudezza e sensualità. Un protagonista che attrae il lettore provocando simpatia ed empatia, che strappa lacrime e risate, che resta nel cuore per sempre. Sullo sfondo una Colombia da poco riscattatasi dal dominio spagnolo ma ben lungi dal trovare pace in una democrazia messa costantemente in dubbio da guerre civili che si susseguono senza sosta tanto da sembrare sempre la stessa, "battaglie di poveri frustati come buoi dai signori della guerra contro soldati scalzi frustati dal governo". E poi il colera, le differenze di classe, la rivoluzione tecnologica, le feste, la musica, le puzze e le morti, i profumi e la vita, le zanzare, la magia e il fascino del Sudamerica trasmessi da una delle sue penne più nobili. Su tutto, il vero protagonista del libro, l'amore. L'amore che esalta ed abbatte, che brucia e consuma, che dà la forza per andare avanti e che impedisce di vivere. L'amore che spesso è l'unica ragione di vita e che è anche l'unica degna ragione per morire. “Il capitano guardò Fermina Daza e vide sulle sue ciglia i primi fulgori di una brina invernale. Poi guardò Florentino Ariza, la sua padronanza invincibile, il suo amore impavido, e lo turbò il sospetto tardivo che è la vita, più che la morte, a non avere limiti. “E fino a quando crede che possiamo continuare con questo andirivieni del cazzo?” Gli domandò. Florentino Ariza aveva la risposta pronta da cinquantatré anni sette mesi e undici giorni, notti comprese. “Per tutta la vita” disse.”
Indicazioni utili
Un muro invalicabile
Nell'Italia del secondo dopoguerra si sentono ancora forti gli strascichi del regime fascista e della resistenza. Non fa eccezione la Sicilia dove, da un lato, il ricordo del prefetto Mori è ancora vivo e divide gli animi, mentre dall'altro chiunque si dissoci dai vecchi costumi e si opponga a leggi non scritte che sanciscono la superiorità di alcuni eminenti isolani a danno delle persone comuni viene definito, con accezione negativa, comunista. Non fa eccezione il capitano Bellodi, parmigiano ed ex partigiano comandante la stazione dei carabinieri di S., non meglio identificato comune siciliano. Per i suoi trascorsi, per la sua esplicita simpatia politica, anche per il solo fatto di essere "continentale" non viene visto di buon occhio dalla gente e la sua vita e il suo onesto operato non hanno perciò vita facile. La situazione per lui si complicherà ulteriormente con il caso Colasberna, imprenditore edile freddato da due colpi di lupara mentre stava per salire su un autobus. Bellodi non ha il minimo dubbio sul movente mafioso di questo omicidio e degli altri due assassinii che lo seguono. Depistaggi ed omertà complicano notevolmente le indagini dei carabinieri ed anche se con abilità ed intelligenza il capitano scoprirà la verità, dovrà fermarsi davanti ad un muro invalicabile: quello delle connivenze tra Stato e mafia. Sagace e lungimirante, Sciascia pennella in poche pagine un ritratto chiaro e veritiero della mafia, dei suoi interessi, delle sue ramificazioni, della struttura e del modus operandi. La caratterizzazione dei personaggi, lo stile fluido, l'uso di termini dialettali e i dialoghi brillanti rendono il racconto realistico, scorrevole, incalzante, affiancando una notevole qualità letteraria all’importanza lampante dei contenuti. Il grande merito dell'autore sta nel fatto di aver deciso di parlare di questo fenomeno e di averlo fatto in modo spavaldo e veritiero in un periodo storico in cui l'argomento era una sorta di tabù, con i più che ne negavano l'esistenza, con interrogazioni parlamentari eluse, con un'omertà consolidata impossibile da scalfire. Sciascia invece la mette a nudo, ne sviscera i segreti, arriva perfino a smascherare i legami con i piani alti dell'imprenditoria e della politica. Si permette inoltre di suggerire alcuni modi per combatterla. A distanza di decenni e dopo svariati colpi di lupara, bombe, arresti e segreti mai rivelati, le parole dello scrittore siciliano hanno sempre più il sapore dell'attualità e rappresentano un monito continuo ma troppo spesso ignorato, mentre la mafia continua ad insinuare i propri tentacoli e a rivelarsi come "un sistema che contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel vuoto dello Stato (cioè quando lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni, è debole o manca) ma dentro lo Stato. La mafia insomma altro non è che una borghesia parassitaria, una borghesia che non imprende ma soltanto sfrutta."
Indicazioni utili
Le due facce della stessa medaglia
Surreale, satirico, brillante ed innovativo grazie ad una prosa originale in cui i dialoghi risultano privi della classica punteggiatura, Saramago ci proietta in una Nazione dove la morte ha deciso di porre fine alla propria attività regalando alla popolazione la vita eterna. Se egoisticamente la cosa viene accolta come un dono di inestimabile valore, a livello collettivo si rivela invece una brutta gatta da pelare. Non morire, infatti, non significa certo non ammalarsi o non invecchiare. Ecco quindi che ospedali ed ospizi vanno in tilt, il sistema pensionistico collassa, quello assicurativo fallisce, le imprese funerarie sono costrette a rivolgere altrove i loro servizi. Le istituzioni religiose, senza la morte, non hanno ormai ragione di esistere. In questa baraonda, a prendere il toro per le corna speculando sui problemi è ovviamente la criminalità organizzata, la Maphia. Divertente e interessante, amaro ed ironico, il racconto di Saramago esprime una forte critica verso la società, vista sia dal punto di vista economico, sia politico, che umano e religioso. L’autore inoltre mette in evidenza la sordida doppiezza dell'animo umano troppo spesso incline a giudicare diversamente un evento a seconda che gli effetti si ripercuotano su di sé o sugli altri. Nauseata dal modo in cui gli uomini affrontano l’immortalità, la morte ritorna sui suoi passi e dissotterra la tanto odiata e temuta falce. Si ricomincia perciò a morire, ma la nera signora fa un'altra concessione ai mortali, cioè un preavviso di otto giorni, tramite lettera rigorosamente viola, per consentire ai condannati di mettere a posto le loro pendenze prima di lasciare la vita terrena. Anche questa volta però la reazione degli uomini sarà sconfortante. Per la morte comunque, stanca, triste e delusa, ci sarà un altro problema da affrontare: una delle sue amare missive non vuol saperne di raggiungere il destinatario. Per risolvere la questione la nostra protagonista si vede costretta ad assumere sembianze umane e infiltrarsi nel mondo dei vivi, regalandoci un epilogo poetico ed emozionante per un’opera bella e consigliata che, con stile ed intelligenza, ironizza sui difetti della natura umana e sottolinea come la vita e la morte siano le due facce della stessa medaglia.
Indicazioni utili
Una piccola battaglia in una guerra senza tempo
Negli Stati Uniti della grande depressione il periodo dei raccolti è una delle poche opportunità di guadagno per le masse di disoccupati. Così, per la raccolta delle mele, la valle di Torgas viene invasa da una grande quantità di braccianti attirati dalla promessa di un lavoro. Ma una volta fatta giungere questa gente sul posto e dopo aver fatto loro investire ogni centesimo nel viaggio ecco che i padroni annunciano un drastico ribasso dei salari. Prendere o lasciare. Senza più un soldo e senza altra alternativa, queste persone si vedono costrette ad accettare comunque le infide ed inique condizioni poste dai proprietari terrieri. Ma la fatica è sproporzionata rispetto ad un compenso che permette a malapena di mangiare. Le condizioni nei campi sono ai limiti della sopravvivenza, il malcontento cresce, la rabbia aumenta di giorno in giorno finché non esplode trasformandosi in sciopero. A coordinare la sacrosanta rivolta giungono sul posto Mac e Jim, due "Rossi", due persone che senza chiedere nulla in cambio hanno deciso di votare la loro vita alla causa dei lavoratori sfruttati dal sistema capitalistico. La gente come loro viene puntualmente osteggiata, malmenata, messa in cattiva luce in ogni momento da una propaganda di classe guidata da imprenditori, proprietari terrieri, industriali che vedono in loro e nel loro operato un enorme pericolo per la propria posizione dominante. Consapevoli di lottare per una causa persa, i nostri eroi combattono comunque con la forza e la determinazione che solo i grandi ideali sanno dare, cercando di trasmettere questi sentimenti alla massa di operai stanchi e arrabbiati che, senza una guida valida, non saprebbero come incanalare la loro ira. Per Mac e Jim questa è solo una piccola battaglia in una guerra senza tempo né confini allo sfruttamento, alla fame, alla miseria, una guerra che, come possiamo ben vedere, continua ancora oggi in tutto il mondo e che ancora, ad un secolo di distanza dalla pubblicazione di questo libro, vede la gente comune soggiogata e sopraffatta dai grandi capitali, dalla finanza, dalle banche, da una politica connivente, dall’accidia degli stessi sfruttati e dall’incapacità di vedere oltre quello che un’informazione spesso di parte vuol far loro credere. “Mac, come v’ho detto si sente sempre ripetere che i rossi sono gentaglia. Credo che non sia vero, no? Mac schioccò piano con la lingua. “Dipende dal punto di vista. Se voi aveste mille ettari di terreno e un milione di dollari, essi sarebbero dei figli di p… Ma siete solo London, bracciante, ecco che diventano uomini che vogliono aiutarvi a vivere come un uomo e non come un maiale, capite? Ma naturalmente voi sentite i giornali e i giornali son di proprietà di gente che ha le terre e i quattrini, così quella gente è fatta di figli di p… Poi capitate fra noi e vedete che non siamo così. Ora dovete giudicare con la vostra testa, su questo punto.”
Indicazioni utili
Una perturbazione dolorosa
Oppresso da un sentimento nero, da un rancore lontano ed incredibilmente profondo, l'animo del rispettabile ingegnere Don Gonzalo Pirobutirro è sempre più in balìa di una rabbia cieca che si scatena al minimo pretesto esplodendo in un turbine di improperi, minacce, efferati turpiloqui "come urlo di demente dal fondo di un carcere". La povera madre, vittima impotente di questa sproposita follia, ha lottato per anni cercando di nascondere con la speranza, con la gioia, con l'amore formidabile che è tipico delle mamme l'orribile evidenza, finché non ha dovuto arrendersi e rassegnarsi davanti al male oscuro che attanaglia la mente e lo spirito dell'adorato figlio. Lo stesso Gonzalo del resto appare incapace di avere ragione del suo delirio, di controllare la sua rabbia feroce che come un fiume in piena si riversa impetuosamente sugli oggetti e sulle persone che gli stanno vicino. Un furore che sembra legato ad una inesorabile sfiducia nella vita, ad un risentimento remoto nei confronti dei genitori, all'intolleranza verso i suoi conterranei sporchi, ignoranti, ladri ed imbroglioni. La donna non ha altra scelta che cercare di dare al figlio meno pretesti possibili per esplodere e, quando questo non basta, lasciare che tutto passi, pietrificata dalla paura, immobilizzata dalla stanchezza, sfigurata dal dolore. La tragedia, è facile prevederlo, sarà inevitabile. Gadda ambienta questa triste storia di angoscia e di sofferenza in un immaginaria nazione sudamericana, il Maradagàl, un paese appena uscito da una terribile guerra fratricida con il confinante Parapagàl. Non si sa bene chi dei due abbia vinto, poiché entrambi rivendicano la vittoria e addossano al vicino la colpa del conflitto. Si sa soltanto che le conseguenze sono state terribili, la lotta armata ha portato morte, invalidità, fame, miseria morale e materiale. In questo clima si svolge la vicenda di Don Gonzalo e della sua anziana mamma, legati dall’indissolubile sodalizio che unisce madre e figlio ma al contempo divisi da una “perturbazione dolorosa più forte di ogni istanza moderatrice del volere”. Lo stile dello scrittore non è certo scorrevole, a tratti brioso, ironico, frizzante, a tratti intricato, ostico, barocco ma sempre deliziosamente delicato, ammaliante, quasi poetico. Gadda gioca con i dialetti e con le lingue straniere, è bravo nel coinvolgere e nel trasmettere sentimenti e sensazioni e si dimostra sottilmente intelligente nel creare un fine parallelismo tra l’immaginario stato andino e l’Italia del Ventennio. Peccato soltanto che non sia riuscito a portare a termine l’opera lasciandoci con un po’ di amaro in bocca, ma comunque estasiati dall’alta qualità letteraria e dalla spiccata capacità di raccontare il male di vivere: “Sapeva benissimo che cosa sarebbe arrivato dopo tutta la fatica e l’inutilità, dopo la guerra e la pace e lo spaventoso dolore: in fondo, in fondo a tutto, c’era, che lo aspettava, il vialone coi pioppi, liscio come un olio. Coi pioppi dalle tergiversanti foglie, nella bionda luce, il viale della Recoleta, in asfalto, dove gli scarafaggioni elettrificati ci scivolavano sopra in silenzio che parevano nere ombre già loro, con bauli argentati, trapezoidali”.
Indicazioni utili
Il demone dell'azzardo
Le mani tremano, le tempie sono fradice di sudore. Gli occhi seguono ipnotizzati la roulette che turbina vorticosamente, mentre nell'altro senso gira a gran velocità quella pallina d'avorio carica delle speranze di ognuno dei giocatori che si accalcano attorno al tavolo. Un lungo istante precede il responso dell'infida sfera, un attimo che appare infinito durante il quale un brivido percorre la schiena, un inarrestabile formicolio pervade le membra e il terrore di un insuccesso toglie fiato e lucidità. Quindi, guidata dal fato, dalla sorte, dal caso o da quello che si preferisce la biglia sceglie la sua casella, il disco si ferma e vengono decretati vincitori e vinti. I primi esultano inebriati dall'adrenalina e da quel senso di onnipotenza che dà la vittoria. Le loro mani arraffano il frutto della giocata vincente mentre la loro mente è già proiettata al prossimo giro di ruota. I secondi sprofondano in un senso di sconforto che li inebetisce, la rabbia li rode, il bisogno di riscattarsi si fa impellente e li costringe a tentare nuovamente la fortuna guidati dalla stessa speranza e oppressi dalla medesima paura. Il gioco diventa un circolo vizioso che porta alla rovina, il demone dell'azzardo concupisce l'uomo approfittando delle sue debolezze. Lo sa bene il nostro caro Alekséj Ivànovitch che attorno a quella maledetta ruota numerata ha visto compiersi il decadimento della rispettabile “baboulinka” Antonida Vassìlevna, crollare i castelli di sabbia dell'altero generale, insinuarsi il germe della follia nella sua amata Polina Aleksàndrovna, realizzarsi infine la propria rovina. Il vizio della roulette lo ha portato a girovagare di tavolo in tavolo, di casinò in casinò, di città in città inseguendo quella che in realtà non è sete di denaro. Lui i soldi li disprezza, se c'è una cosa che ha imparato è che neanche con una vincita di centomila fiorini si può comprare la cosa che più conta nella vita: l'amore. A spingerlo verso il baratro è piuttosto l'insoddisfazione, la follia, la fame di gioco fine a se stessa. La medesima malattia che ha tormentato per gran parte della sua esistenza l'autore stesso, il grande Dostoevskij che, forte delle sue sventure ai tavoli da gioco, crea e ci lascia questo piccolo capolavoro letterario. La dolcezza della sua penna e la solita maestria nel raccontare le vicende umane si accompagnano alla sua infausta esperienza di giocatore, regalando un romanzo breve ma denso di significato, nonché pregno di coinvolgimento emotivo e ricco di sensazioni. La paura, la speranza, la rabbia, la gioia, le angustie, tutti i sentimenti prodotti dall'azzardo vengono abilmente sviscerati dal maestro russo che attraverso il protagonista Aleksèj diffida i lettori dal farsi affascinare dal demonio del gioco che inevitabilmente porta l'uomo verso la più terribile iattura, perché "chi capita una volta su quella strada, è come se scivolasse in slitta da una china nevosa, sempre più in fretta, sempre più in fretta”.
Indicazioni utili
Grossolana americanata
La scrittrice statunitense Maureen Paschal è impegnata nella realizzazione di un'opera che ha lo scopo di rivalutare la figura di importanti personaggi storici femminili troppo spesso ingiustamente giudicati in maniera negativa. Tra questi non può certo mancare Maria Maddalena, controversa protagonista dei vangeli. Le ricerche su Maria portano Maureen fino in Terrasanta e qui la ragazza entra in possesso di un misterioso anello che cambierà per sempre la sua esistenza, trascinandola in un’esperienza avventurosa quanto spirituale. La protagonista sarà perseguitata da improvvise ed inquietanti visioni, scoprirà di discendere dalla stirpe di Cristo e della Maddalena e si ritroverà investita di un'importante missione: riportare alla luce il vangelo di Maria e il Libro dell'amore, scritto di proprio pugno da Gesù. Testi di indiscutibile valore e dai contenuti sconvolgenti che in molti, dall'ala più conservatrice della Chiesa fino a misteriose sette religiose, hanno interesse ad occultare. Non mancheranno quindi guai, sangue, limacciosi intrecci e subdoli inganni. Secondo Kathleen McGowan questo libro va oltre il semplice romanzo. L'autrice infatti, nella postfazione, si dimostra convinta garante della reale esistenza dei due libri e della lotta millenaria tra chi vorrebbe divulgarne il contenuto e chi invece vorrebbe farli sparire per sempre. Svela altresì che la protagonista Maureen non è altro che una sorta di sua alter ego: anche la McGowan infatti rivendica visioni mistiche, si dichiara discendente diretta di Maria e Gesù e si sente incaricata del nobile compito di diffonderne gli importanti insegnamenti. Non è certo il caso né tantomeno la sede adatta per mettere in discussione le sue affermazioni. Mettiamo quindi da parte le questioni teologiche, le ricerche genealogiche, l’attendibilità delle fonti e guardiamo il libro da un punto di vista prettamente letterario. La prima lampante impressione che si ha è che l’autrice cavalchi una diffusa tendenza contemporanea a miscelare religione, massoneria ed esoterismo, ad unire revisionismo e thrilling, per accattivarsi i favori del mercato. Un filone di facile successo in senso commerciale ma di qualità e originalità alquanto discutibili. La scrittrice si giustifica affermando di aver cercato di rendere il testo più accessibile al pubblico del ventunesimo secolo, parole che possono risultare offensive nei confronti del lettore in quanto tendenti a sminiuirne l’intelligenza ed il senso critico. Diciamoci la verità, una persona che dice di sentirsi investita del compito di trasmettere sconcertanti verità e importanti insegnamenti non si mette a scimmiottare un dozzinale Dan Brown. Se lo fa, è soltanto per emularne il successo editoriale. Per quanto riguarda lo stile, questo risulta elementare, piatto, accademico, incapace di trasmettere emozioni anche quando si narrano passaggi di grande drammaticità e pathos come dovrebbero essere quelli riguardanti la passione. Tra l’altro la versione alternativa della vita del Cristo, della Maddalena e di altri personaggi dei vangeli, da molti ritenuta addirittura rivoluzionaria, può sconcertare soltanto quelle pesone munite di paraocchi ed incapaci di vedere al di là dei dogmi imposti dalla Chiesa. Chiunque abbia letto “Il vangelo secondo Gesù Cristo” non può esimersi da un impietoso confronto tra la splendida opera di Saramago e questa grossolana americanata, né può fare a meno di rimpiangere il talento, la classe, l’originalità del grande maestro portoghese anche di fronte all’illuminata penna della sedicente pronipote del Salvatore.
Indicazioni utili
Un drammatico cammino
Morte e desolazione ovunque, dappertutto inquietanti segni di una civiltà ormai estinta e di una natura devastata dalla follia umana. Terreni neri e spogli, tronchi carbonizzati e senza rami, città deserte, case disabitare, arse, saccheggiate. Nessun segno di vita animale se non un cane randagio e schivo. Cadaveri umani disseminati in ogni angolo mentre i pochi superstiti si ammazzano l'un l'altro per accaparrarsi quel po' di commestibile che ancora si riesce a trovare. E quando non si trova si finisce con il mangiarsi l'un l'altro. In questo scenario apocalittico un uomo e il suo bambino avanzano verso sud lungo una strada che sembra non finire mai. Il primo incarna la razionalità, il pragmatismo, l'istinto di sopravvivenza che non viene meno neanche davanti alle peggiori difficoltà. Il secondo sembra essere l'ultimo depositario della pietà, dell'empatia, della carità, virtù oramai scomparse in un mondo sopraffatto dalla più nera catastrofe. Il freddo, la fame, la paura, i pericoli sempre in agguato attanagliano i due protagonisti rendendo estremamente difficoltosa la loro marcia verso una vita migliore. L'epilogo di questo drammatico cammino sarà tragicamente commuovente ma al tempo stesso foriero di speranza. Pur apparendo lampante che dietro il disastro descritto ci sia la mano degli uomini, McCarthy non fa menzione delle cause che hanno portato il pianeta a ritrovarsi in condizioni tanto nefaste. Si potrebbe dedurre che si sia trattato di una guerra, probabilmente atomica, ma l’autore lascia il lettore nel dubbio scaraventandolo senza pietà in uno scenario allucinante in cui tutto rimane indefinito, ingiustificato, anonimo, dai luoghi dove gli eventi si svolgono ai nomi dei due protagonisti, indicati semplicemente come “l’uomo” ed “il bambino”, quasi a voler dire che in una situazione del genere ci si potrebbe trovare chiunque ed ovunque. L’angosciante atmosfera poi è resa ancora più realistica da una prosa scarna, fredda, essenziale, che contribuisce ad accrescere il senso di distruzione e afflizione che pervade l’intera opera e che penetra prepotentemente nelle ossa e nell’anima del lettore. McCarthy ha inoltre il grande merito di riuscire ad affrontare il tema della fine del mondo senza cadere, come spesso avviene quando si parla di questo argomento, in pompose e fastidiose faziosità politiche, religiose o ideologiche, riuscendo al tempo stesso a lanciare un duro monito ad una razza umana che, senza rendersene conto, sta portando se stessa e il mondo in cui abita sempre più vicini all’orlo del baratro.
Indicazioni utili
Un’orda di sensazioni olfattive
Diventare il più grande profumiere mai esistito e creare un’essenza esclusiva e sublime che gli permetta di dominare il cuore degli uomini. Questo è il grande sogno di Jean-Baptiste Grenouille, il miglior naso di Francia. Proprio lui, “…nato senza odore nel luogo più puzzolente del mondo, che proveniva dai rifiuti, dagli escrementi e dalla putrefazione, cresciuto senza amore, che viveva senza una calda anima umana, unicamente per ostinazione e con la forza del disgusto, piccolo, gobbo, zoppo, brutto, evitato da tutti, un mostro sia dentro che fuori…”. Suskind ci guida in un mondo spesso ignorato dalla letteratura, quello dell’olfatto, costruendo una trama singolare ed interessante e raccontandola sia attraverso una prosa curata ed elegante, sia attraverso un’orda di sensazioni olfattive che rappresentano l’aspetto principale di quest’opera. Siamo in una Francia settecentesca infestata da puzze rivoltanti. Grenouille nasce in un nauseabondo bugigattolo di pescivendolo parigino, tra il ripugnante fetore di interiora di pesce del locale, i miasmi della putrefazione provenienti dal vicino Cimetière des Innocentes, l’olezzo di meloni marci e corno bruciato dei vicoli circostanti. Abbandonato dalla madre, passato di balia in balia, di tutore in tutore, di padrone in padrone, infonde in chiunque gli stia vicino un senso di disagio, quasi di ribrezzo, per il suo aspetto repellente ma soprattutto per una caratteristica singolare: è privo di qualsiasi odore. Per ovviare a questo suo difetto decide di crearsi un profumo ad hoc, che gli permetta di essere come gli altri, anzi, migliore degli altri, perché un profumo come il suo al mondo non è mai esistito e quando la gente lo sentirà non potrà far altro che cadere ai suoi piedi, si tratti dell’ultimo dei contadini o del Re in persona. Per raggiungere questo suo folle scopo Jean-Baptiste non esiterà ad usare qualsiasi mezzo, perfino a spargere sangue innocente. "…Voleva essere il dio onnipotente del profumo, così come lo era stato nella sua fantasia, ma ora nel mondo reale e regnando su uomini reali. E sapeva che ciò era in suo potere. Poiché gli uomini potevano chiudere gli occhi davanti alla grandezza, davanti all’orrore, davanti alla bellezza, e turarsi le orecchie davanti a melodie o a parole seducenti. Ma non potevano sottrarsi al profumo. Poiché il profumo era fratello del respiro. Con esso penetrava negli uomini, a esso non potevano resistere, se volevano vivere…”.
Indicazioni utili
Rabbia epistolare
Per Moses Elkanah Herzog, ebreo russo trapiantato negli Stati Uniti, non è certo un periodo facile. La sua carriera accademica è in fase di stallo, la situazione economica tutt'altro che esaltante, la vita privata un vero disastro. Messosi alle spalle il fallimento del primo matrimonio si ritrova ora a dover affrontare un altro insuccesso coniugale. La sua seconda moglie Madeleine lo ha praticamente cacciato di casa ed ha ottenuto nei suoi confronti un ordine restrittivo che gli impedisce di avvicinarsi a lei e alla loro bambina. A ciò si aggiunga che la suddetta signora ha una tresca con Valentine, il miglior amico, o almeno finora presunto tale, di Moses. Per esternare la sua delusione, la sua rabbia, il suo livore il protagonista usa un metodo originale quanto innocuo, scrivere lettere piene di risentimento senza mai spedirne una. Gli ipotetici destinatari delle astiose missive sono persone di ogni risma: politici, scrittori, filosofi, psicologi, avvocati, amici, nemici. Herzog ne ha per tutti, nessuno si salva dalla sua penna pungente e rabbiosa, neanche se stesso. Saranno il pragmatico fratello Willie e la sensuale Ramona ad aiutarlo a superare questo difficile momento mettendo a riposo la sua rabbia epistolare. Bellow si rivela geniale dal punto di vista stilistico riuscendo a creare un ottimo intreccio tra il racconto e le numerose lettere scritte da Moses, alternando il discorso diretto a quello indiretto e passando repentinamente dalla narrazione in terza persona a quella in prima. Di contro non si può certo dire che la particolarità dello stile si rispecchi poi nella trama che appare invece poco originale e ancor meno coinvolgente, anche a causa della poca simpatia ed empatia che scaturiscono dal protagonista. Se da una parte le lettere di Herzog offrono interessanti spunti di riflessione ed esprimono un forte senso critico nei confronti della politica americana e di una società consumista, materialista, perbenista, dall'altro appaiono tediose le continue riproposizioni degli stessi concetti. Inoltre il grande numero di citazioni e di riferimenti letterari, se pur di notevole spessore, spesso viene percepito come un mero sfoggio di cultura da parte dell'autore, del tutto avulso dal contesto. Insomma, un libro scritto molto bene e con contenuti di prim’ordine, ma che non brilla certo per piacevolezza e per capacità di trasmettere emozioni.
Indicazioni utili
- sì
- no
Piccoli capolavori di arte letteraria
Surreali, paradossali, amaramente ironici i racconti di Oscar Wilde presenti in questa raccolta si rivelano brillanti e divertenti nonché capaci di far riflettere il lettore con argute metafore e di ammaliarlo con una prosa affascinante e piena di brio. “Il fantasma di Canterville” racconta dello spettro di Sir Simon di Canterville alle prese con una scettica famiglia americana, spaziando tra l’ilarità delle spassose gags e la commozione per un finale ricco di sentimento. Ma ciò che colpisce maggiormente è la geniale maniera di raccontare il contrasto tra due culture diametralmente opposte, quella europea ricca di tradizione, di poesia, di pathos e quella nordamericana fredda, pragmatica, materialista. Wilde aveva già intuito che la seconda avrebbe tristemente prevalso sulla prima. Molto bello anche il secondo racconto, “Il crimine di Lord Arthur Savile”, in cui si parla di chiromanzia e di assassini, scherzando sulla pericolosa credulità di alcune persone e sul rapporto tra l’uomo e il suo destino. Ne’ “Il compleanno dell’infanta” si affronta il tema della diversità, della derisione nei confronti dei diversi e dei più deboli, della spocchia e dell’arroganza di chi si sente superiore agli altri, raccontando la tragica fine di un povero nano deforme vittima delle grasse risate suscitate dal suo aspetto fisico. Piccoli capolavori di arte letteraria che si leggono in breve tempo ma rimangono dentro per sempre, frutto di una delle penne più virtuose della letteratura di tutti i tempi e in cui la morte, aleggiando su ogni pagina, fa da triste e inevitabile filo conduttore.
Indicazioni utili
La verità è come la morte
Chiusa in una cella del carcere cairota di Qanatir una donna attende altera e impassibile che giunga il momento della sua impiccagione. Il suo nome è Firdaus, la sua professione prostituta, il suo delitto l'omicidio di un uomo. La sua vita non è stata certo facile, donna fragile e indifesa in un mondo dominato dagli uomini. Firdaus ha sempre avuto un padrone, dal padre allo zio, dal marito alla maitresse passando per uomini che si spacciavano per suoi salvatori salvo poi rivelarsi nient'altro che bestie. Anni di violenza e abusi, di fatica e privazioni, di umiliazioni e sottomissione, senza però perdere mai la speranza, la voglia di riscatto, il desiderio di libertà. Ma la libertà ha un prezzo da pagare e per ottenerla la protagonista non trova altra soluzione che diventare prostituta. Una prostituta però senza padroni, che sceglie da sé i suoi clienti, stabilisce il prezzo delle sue prestazioni, si può permettere pasti regali, trucchi e profumi costosi, parrucchieri per signore. La sua fama si diffonde, il suo prestigio cresce, le sue amicizie si estendono ai ceti alti. Ma ancora una volta Firdaus scoprirà quanto abietti possano essere gli uomini e sarà costretta a vincere le sue paure e farsi giustizia da sola. L'autrice raccoglie le confidenze autobiografiche della donna, fattele pochi istanti prima dell'esecuzione, e le diffonde come atto di denuncia nei confronti di un mondo maschilista in cui chi detiene il potere travisa a suo modo e a suo favore leggi e precetti religiosi per legalizzare i più infimi e ripugnanti abusi. Il grido di dolore di Firdaus è quello di migliaia di donne sopraffatte ogni giorno e in ogni parte del mondo da una mentalità sessista che le pone un gradino più in basso nella scala sociale rispetto agli uomini, costringendole di fatto a rinunciare alla propria indipendenza, alla dignità personale, alla libertà. Contenuti quindi forti, attuali, interessanti che ne fanno un libro consigliatissimo anche se non perfetto dal punto di vista stilistico a causa di qualche errore grammaticale e di una serie di inutili e inopportune ripetizioni. Ma non si riesce a restare indifferenti davanti ad un racconto come questo, che commuove, indigna e fa riflettere, è impossibile dimenticare una donna come Firdaus e le sue parole in punto di morte: “…la verità è come la morte, perché uccide. Quando uccisi, lo feci con la verità, non con un coltello. E’ per questo che hanno paura di me e hanno fretta di ammazzarmi. Non hanno paura del mio coltello. E’ la mia verità che li spaventa. Questa verità terribile mi dà una grande forza. Mi aiuta a non temere la morte o la vita, la fame, la miseria, la distruzione”.
Indicazioni utili
Il sottosuolo della nostra coscienza
Personaggi tratteggiati in poche righe, emozioni e sensazioni racchiuse in un esiguo numero di pagine, eterogeneità dei contenuti: ecco gli aspetti principali dei dieci racconti che compongono questa raccolta di Gianrico Carofiglio. Brevi storie che parlano di singolari esperienze di vita e di scampoli di quotidianità, condite da un pizzico di fantasia e raccontate con uno stile sobrio e garbato e un'occhio sempre attento ad importanti tematiche sociali come la violenza, il bullismo, la povertà, la tratta dei bambini, lo sfruttamento della prostituzione. Protagoniste principali sono le donne: quelle forti che lottano contro la violenza domestica o paramilitare, quelle inermi e oltraggiate, quelle che si son perse e cercano la via di casa, quelle che non si arrendono davanti alle difficoltà, quelle che hanno intuito alcune cose importanti e stanno molto attente a non farlo trapelare. Si parla d'amore e d'amicizia, di virtù e di mal costume, di ipocriti moralismi, di occasioni perse, di ricordi, di quei misteriosi spazi bianchi tra le vignette che rappresentano il sottosuolo della nostra coscienza. C'è spazio anche per letteratura e per la poesia, e per l’idea "che la saggezza non esiste, che non esiste vecchiezza, e forse nemmeno la morte".
Indicazioni utili
Drammatico e grottesco
Passeggiando tra le amene campagne e colline che circondano Firenze ci si imbatte in un insieme di case che si chiama Santa Maria a Coverciano. Qui l'attenzione è subito attirata da un'abitazione bassa e oblunga, con le sue persiane verdi, gli scalini di pietra, le inferriate bianche e arrugginite e il cancello d'ingresso, niveo e rugginoso anch'esso, che rimane aperto a metà tutto l'anno, sia il giorno che la notte. Ma ciò che più accende la curiosità è il sostare frequente di automobili signorili davanti a questo cancello, e il gran via vai di gente che ne deriva, tutte persone di un certo lignaggio, dalle eleganti signore alle fiorenti fanciulle, fino ai prelati d'alto rango. La giustificazione di questo trambusto è da ricercare nell'attività delle padrone del casolare, Teresa e Carolina, inequivocabilmente indicata nella dicitura in testa alle loro fatture: SORELLE MATERASSI Cucitrici di Bianco - Corredi da Spose. Una vita interamente dedicata al lavoro, anche se in questo caso si potrebbe quasi parlare di arte per la bellezza e precisione delle loro creazioni che le hanno rese famose e le hanno portate fino al Santo Padre. Per le due abili sarte ormai a cavallo dei cinquant'anni non c'è mai stato posto per la vita privata, per un piccolo svago, per una distrazione, per l'amore, se non nei loro sogni e nelle fantasie che si raccontano l'un l'altra durante l'unica sosta settimanale dal cucito e dal ricamo, quando la domenica pomeriggio, agghindate di tutto punto alla loro comica maniera, si affacciano alla finestra che dà sulla via e mentre osservano la gente che passa si abbandonano ad improbabili e fantasiosi ricordi di amori impossibili della loro passata gioventù. A movimentare queste malinconiche esistenze ci pensa il nipote Remo che entra come un raggio di luce in queste vite buie, regalando alle tenere zie una nuova ragione di vita e l'illusione di aver finalmente colmato il loro vuoto. Remo però si rivela ben presto un fannullone, un parassita, un prepotente, un subdolo. Compreso il forte ascendente che ha sulle zie e sulla loro devota domestica Niobe, le sfrutta fino all'osso, le manipola a suo piacimento, le riduce, per dirla a suo modo, allo stato di “scimmie addomesticate”. Spendendo e spandendo fior di quattrini in moto, auto, abiti eleganti e baccanali dilapida in poco tempo tutte le ricchezze accumulate delle donne in anni di duro lavoro, le trascina nei suoi bagordi facendo sì che tutta la stima e il rispetto di cui godevano si trasformino in sdegno e derisione. Ma il loro amore incondizionato, la loro adorazione quasi mistica nei confronti del nipote non cesserà neanche davanti al più bieco sopruso, al più umiliante scherno, al più pesante debito, al più triste abbandono. Ironia e malinconia si fondono in questo bel romanzo di Palazzeschi che disegna un ritratto romantico e divertente dell’Italia di inizio Novecento. Lo stile piacevole accompagna l’alternarsi di scene drammatiche e di situazioni grottesche, le descrizioni sono gradevoli e dettagliate, l’introspezione dei personaggi è profonda e interessante tranne che per Remo, la cui personalità rimane un mistero nascosto dietro un ghigno glaciale e incantatore. Il messaggio potrebbe essere duplice: da un lato c’è la conferma di come il gli affetti non si comprino con il denaro e di come quest’ultimo andrebbe usato con il giusto equilibrio, non accumulandolo senza goderne né sperperandolo senza ritegno; dall’altro si sottolinea quanto sia pericoloso farsi trasportare eccessivamente dai sentimenti, soprattutto quando questi siano unilaterali, ma al tempo stesso quanto sia bello e potente l’amore quando permette di dare senza chiedere nulla in cambio.
Una mareggiata di libeccio
In una calda estate campana di metà Novecento un ragazzino di dieci anni si trova a dover fare i conti con un profondo cambiamento interiore, sintomatico di un definitivo e precoce abbandono dell’infanzia. Ma questa piccola rivoluzione della sua anima non trova riscontro in un corpo bambino che si rifiuta ostinatamente di crescere, facendolo sentire come una farfalla incapace di forare il bozzolo che la tiene rinchiusa. Ad aiutarlo a compiere il passo decisivo verso una completa e matura trasformazione ci penserà una ragazzina speciale che lo condurrà per mano fino a varcare definitivamente la linea di questo nuovo orizzonte. Con una storia dal carattere fortemente autobiografico e uno stile curato e affascinante Erri De Luca ci riporta indietro di circa mezzo secolo, in una terra che si lecca ancora le ferite procuratele dagli orrori del secondo conflitto mondiale, con la gente divisa tra l'amore per il suolo natio e l'esigenza di andarsene altrove in cerca di migliori opportunità. Le scenografie del racconto sono le spiagge assolate del Tirreno e le acque limpide su cui si muovono senza sosta le barche colorate dei pescatori che portano avanti il loro "mestiere senza sorte". I suoni che accompagnano la lettura sono lo sciabordio delle onde, le urla dei ragazzini che giocano al pallone, i botti dei fuochi d'artificio. L'aria è pervasa dal profumo fresco della salsedine, da quello acidulo ed invitante della conserva di pomodoro, da quello dolce e delicato della crema solare alle mandorle. Le parole chiave sono giustizia, mantenere, amore. La giustizia che "inventa su misura la sentenza, muove dalla misericordia per l'offeso, perciò riesce a essere spietata". Il verbo mantenere che "a dieci anni era il mio verbo preferito. Comportava la promessa di tenere per mano, mantenere". L'amore che "non è una serenata al balcone, somiglia a una mareggiata di libeccio, strapazza il mare sopra, e sotto lo rimescola".
Indicazioni utili
Dal gioco alla tragedia
Un viaggio cominciato per gioco si trasforma inesorabilmente in tragedia. Per placare il suo bisogno d'avventura Gordon Pym, giovane studente d'accademia, si imbarca clandestinamente sul brigantino Grampus con la complicità dell'amico Augustus Barnard, figlio del capitano dell'imbarcazione. L'idea è quella di restare nell'ombra e rivelare la sua presenza soltanto nel momento in cui la nave si trovi ormai troppo al largo per poter invertire la rotta e riportarlo a terra. Ma qualcosa va storto e per Gordon sarà l'inizio di una serie di terribili e spaventose disavventure. Dall'ammutinamento al naufragio, passando per scene orribili di tempeste, violenza e cannibalismo, il giovane proverà la sensazione soffocante della claustrofobia, il gelo della paura, l'implacabilità dei morsi della fame, la tormentosa inesorabilità della sete, l'angosciante delusione delle speranze tradite. Tutti questi sentimenti non possono che essere trasmessi anche al lettore, che si ritrova a divorare le pagine con il fiato mozzo e la pelle d'oca, sospeso tra l'apprensione e la curiosità e magnificamente guidato dalla magistrale penna di Edgar Allan Poe che lo porta a vivere l'eterno contrasto tra la vita e la morte e l'inane lotta contro la volontà del destino. Le parti dedicate ai sistemi di navigazione e stivaggio, all'uggiosa elencazione di coordinate e nomi di isole sconosciute tolgono un po' di smalto alla narrazione, ma in generale il racconto appare incalzante, coinvolgente, continuamente avvolto da un'aura di mistero e tensione. Peccato per il finale sospeso, che ci lascia con l'amaro in bocca a dover fare i conti con una curiosità impossibile da appagare se non affidandoci alla nostra fantasia per vedere chi si nasconde dietro la misteriosa immagine finale di un uomo avvolto in un sudario e con la faccia del candore immacolato della neve.
Indicazioni utili
Una terra porca che ti piglia la pelle
Sulle langhe piemontesi la vita dei contadini non è per niente facile. La durezza della terra dà ai padroni la scusa per trattare male i servitori e il fieno, a tagliarlo quando il sole viene alto, ti domanda cinicamente quanti anni hai. Mesi e mesi di lavoro logorante per raccogliere meno del minimo necessario per vivere, schiene spezzate e fianchi dolenti per poter mangiare un boccone di polenta, anni di fatica e privazioni all'inseguimento di un sogno di riscatto dalla servitù, dalla mezzadria, dalla fame, dalla miseria morale e materiale che sembra sempre più difficile da realizzare. In questo contesto si svolge la vita del giovane Agostino Braida che per far fronte al decadimento economico della sua famiglia viene mandato dal padre a fare da servitore al mezzadro Tobia Rabino. L'allontanamento da casa e dagli affetti familiari sarà per lui altrettanto difficile dei tre anni di fame e sudore che lo attendono al servizio di un padrone cinico e avido che sfrutta fino allo stremo delle forze il ragazzo ma anche i suoi stessi figli, la moglie e perfino se stesso, senza lesinare quanto a bestemmie, improperi, minacce e cinghiate. Agostino proverà anche cosa significano le pene d'amore, ma la sua forza e l'idea di riuscire un giorno a tornare a casa a coltivare una terra tutta sua lo aiuteranno a resistere e a sopportare la "malora" che lo perseguita. La ferocia e l'inesorabilità della trama trovano riflesso in una prosa cinica, brutale, vernacolare, che rende bene l'idea della sofferenza del protagonista e dei suoi conterranei e della massacrante lotta dell'uomo contro i capricci del proprio destino. Quella che ci racconta Fenoglio è una storia cruda e drammatica, ma soprattutto una storia realistica, che rispecchia in pieno quello che era lo stato dei contadini italiani pochi decenni orsono. Una vita grama che incattivisce gli animi, una rabbia che mette le persone l'una contro l'altra, una fame che crea avidità e violenza. Una condizione di bestia da soma legata ad una terra porca che ti piglia la pelle a montarla, da cui l'uomo, anche nei momenti di peggior sconforto, continua a sognare di poter venir fuori e quando ci riesce si sente pronto ad affrontare al meglio qualsiasi difficoltà gli riservi il futuro: "Ho fatto quel ritorno come la cosa più bella della mia vita...Arrivato a veder San Benedetto, posai il mio fagotto in mezzo alla strada e feci giuramento di non lamentarmi mai anche se dovevo restarci fino a morto e sotterrato e viverci sempre solo a pane e cipolla, purché senza un padrone. E poi scesi incontro a mia madre, che anche per lei quello era il primo giorno bello dopo chissà quanto".
Indicazioni utili
Una Parigi incredibilmente affascinante
La voce della bella Miss Hamilton echeggia per il Grande Magazzino annunciando che "Il signor Malaussène è desiderato all'Ufficio Reclami". E Benjamin Malaussène si dirige all'Ufficio Reclami per accollarsi, davanti ad un cliente scontento, la colpa di un frigorifero che va a fuoco, di un letto che si rompe troppo facilmente, di un deodorante spray che esplode. Perché la sua mansione ufficiale di addetto al controllo nel centro commerciale maschera quello che in realtà è il suo vero ruolo, cioè "capro espiatorio", pronto a sorbirsi umilianti ramanzine e minacce di licenziamento che fanno commuovere il postulante fino a fargli ritirare il reclamo, con grande risparmio per l'azienda. Un compito singolare e imbarazzante, ma ottimamente pagato ed egregiamente svolto dal nostro eroe, che con il cospicuo stipendio che ne ricava riesce a mandare avanti la sua eccentrica famiglia composta da una masnada di fratellastri e sorellastre, figli di madre comune ma sempre assente e di padri vari ed eventuali, nonché da un cane epilettico con la grazia di un elefante. Ma la strampalata routine del buon Benjamin viene sconvolta quando nel centro commerciale cominciano a scoppiare ordigni che dilaniano anziani signori apparentemente rispettabili. Da buon capro espiatorio Malaussène, sempre presente direttamente e non sui luoghi del delitto, rischia di passare per colpevole, e solo dopo svariate disavventure riuscirà a dimostrare la sua innocenza. Tra giocattoli e bombe, orchi e babbi natale, amori passionali e botte da orbi, Pennac ci trascina in questo simpatico e piacevole giallo dai colori tenui, in cui lo stile brillante e innovativo della narrazione, l'ottima caratterizzazione dei personaggi e la loro amabilità hanno il sopravvento su una trama piuttosto semplice e priva di veri e propri colpi di scena. Interessanti le tematiche affrontate, dal consumismo di massa alla pedofilia, passando per l'importanza del concetto di famiglia, il tutto ambientato in una Parigi di periferia irrequieta, malfamata, multietnica e proprio per questo incredibilmente affascinante.
Indicazioni utili
Di quest’acqua io non ne bevo
Ammaliati dal fascino di una Sardegna anni cinquanta ci perdiamo tra vigneti e campi di grano, accarezzati dalle piacevoli brezze che spirano dal mare portando le strida degli uccelli e spargendo nell’aria l’odore delle stoppie tagliate. Ci tuffiamo in un mondo pieno di calore e colore, dove tradizioni forti e radicate nel tempo regolano ancora la vita dei piccoli centri di provincia come Soreni. Circondati dai succulenti profumi di pane caldo e fichi infornati, di gueffus, di porcetto e di culurgiones conosciamo i riti del fidanzamento, del matrimonio, dei funerali e del lutto, le figure centenarie dell’attittadora, dei fill’e anima e dell’accabadora. Trasportati dalla penna dolce e sensibile di Michela Murgia e dal suo linguaggio curato e arricchito dalle inflessioni dialettali ci troviamo coinvolti in storie di terre che parlano di chi le possiede, di asti, invidie e rivalità che ergono confini di basalto nero, di muri che piangono e camminano, di fucili che sparano con troppa facilità. Entriamo nella vita di Tzia Bonaria e della piccola Maria, eterna vedova l’una ed eterna ultima l’altra, legate da un sodalizio che va al di là del normale rapporto tra madre e figlia. L’anziana sarta però nasconde un segreto che, quando verrà scoperto dalla ragazzina, provocherà tra le due una rottura apparentemente insanabile. Ma nel momento del bisogno i contrasti verranno messi da parte e l’amore e la devozione che legano Maria e Bonaria avranno la meglio. La ragazza saprà saldare il suo debito di fill’e anima, valuterà diversamente la controversa figura della madre adottiva e comprenderà finalmente ciò che la donna intendeva dirle quando, tre anni prima, nel momento della sua partenza, la salutò con queste parole: “Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo”.
Indicazioni utili
Le stranezze, quando cominciano, chi le ferma più?
Un centinaio di case fatiscenti disposte in maniera irregolare, come un gregge di pecore, dominate da una piccola piazza e dal campanile di una chiesa senza prete: questa è Fontamara, misero centro rurale del Fucino interamente abitato da “cafoni”, cioè da contadini poveri e ignoranti. Qui la vita scorre immutabile da secoli, il tempo è segnato dal succedersi delle varie fasi della coltivazione quali la semina, la solfatura, la mietitura e la vendemmia. I soprusi e le iniquità contro questa gente sono ormai all’ordine del giorno, tanto che i fontamaresi le considerano alla stregua della pioggia, della neve, del vento. L’abitudine a subire le più crudeli ingiustizie, la consapevolezza dell’immutabilità della propria condizione, l’amara rassegnazione ad essere considerati più in basso dell’ultimo gradino della scala sociale, l’ignoranza e la paura di compromettersi impediscono ai contadini di ribellarsi, di cercare di farsi rispettare, di far valere i propri diritti. Cambiano i governi, cambiano le leggi, ma per i cafoni non cambia mai niente, se non in peggio. Ora siamo sotto il governo fascista e una serie di fatti anomali caratterizzano l’estate fontamarese, tanto che la povera Matalè sarà costretta ad esclamare sgomenta: “le stranezze, quando cominciano, chi le ferma più?”. Tutto ha inizio una sera di giugno, quando ci si accorge che al paese è stata tolta l’illuminazione elettrica. Nessuno però si scompone, a nessuno viene in mente di protestare. Ma a questa privazione succederanno altri abusi, ancora più gravi, che costringeranno gli abitanti di Fontamara a prendere coscienza di sé e a cercare riscatto da questa condizione di umiliazione e sottomissione. Ma l’impresa non sarà per niente facile e la tragedia è lì che aspetta dietro l’angolo. Una storia cruda che fa indignare e riflettere, suscitando rabbia e commozione ma riuscendo anche a strappare qualche sorriso di simpatia e tenerezza verso questa povera gente. Silone affida la narrazione a tre dei protagonisti, persone che considerano l’italiano una lingua straniera, se non una lingua morta. Il racconto che ne scaturisce è quindi semplice e ricco di folklore contadino, perciò incredibilmente realistico e capace di creare una forte empatia. La denuncia dell’autore è totale. Naturale e lampante quella nei confronti del regime fascista, con i suoi metodi iniqui e violenti, e di chi lo segue ciecamente diventando nemico di gente con la quale ha condiviso fino a ieri la stessa misera sorte. Quella verso gli stessi cafoni, che siano fontamaresi o di qualunque altro posto d’Italia o del mondo, colpevoli di essersi svegliati troppo tardi e di aver subito in silenzio per troppo tempo. Quella, forse più importante e attuale di tutte, nei riguardi di quei governi troppo spesso vicini agli interessi economici di pochi privilegiati a scapito di chi invece vive in situazioni di indigenza, di necessità e di insufficienza sempre più forti, in nome di quella religione spietata e cinica che è il guadagno. “Si, ma con un altro Dio, rispondeva Berardo ridendo. Il vero Dio che ora effettivamente comanda sulla terra, il Denaro. E comanda su tutti, anche sui preti come don Abbacchio, che a parole predicano il dio del cielo. La nostra rovina, aggiungeva Berardo, forse è stata di aver continuato a credere al vecchio dio, mentre sulla terra adesso ne regna uno nuovo”.
Indicazioni utili
Invece della morte c’era la luce
Consapevole del fatto che la sua vita è giunta al termine a causa di una misteriosa e indiagnosticabile malattia, il quarantacinquenne Ivan Il’ic Golovin, consigliere di Corte d’appello presso il palazzo di giustizia di Pietroburgo, si trova a dover fare un triste bilancio della sua esistenza. Un’ottima carriera lavorativa, una vita sociale soddisfacente, una famiglia agiata e serena sono gli invidiabili risultati raggiunti dal nostro eroe, rappresentano tutto ciò che rientra nei canoni ordinari della gente della sua cerchia. Ma attenersi agli standard dettati dall’alta società non significa necessariamente essere appagati e felici. Infatti Ivan Il’ic, man mano che si avvicina l’ora della sua dipartita, si rende sempre più conto di quanto vuota sia stata la sua esistenza, di quanta falsità e ipocrisia ci sia dietro le convenzioni sociali, capisce di aver sprecato i suoi giorni nel perseguire obiettivi dettati dagli altri, nel vivere una vita che non è mai stata sua. Torturato da questi pensieri, straziato dal male che lo consuma giorno dopo giorno, abbandonato da parenti ed amici capaci solo di dimostrare una menzognera pietà, il povero protagonista si ritroverà costretto a condurre una spietata e solitaria battaglia contro il pensiero fisso della morte. Una morte che continua a balenargli davanti, che lo rode sempre alla stessa maniera, che non si può far finta di non vedere: “…tornava nel suo studio, si coricava e di nuovo rimaneva solo con lei. Faccia a faccia con lei. E con lei non c’era niente da fare: solo guardarla e rabbrividire…”. In questo piccolo capolavoro Tolstoj combina l’eccellenza del suo stile con la sua spiccata capacità di raccontare i sentimenti umani, mettendo in risalto i difetti di una società che, allora come oggi, tende a sottomettere le aspirazioni e i sogni degli individui in nome di consolidati meccanismi conformisti, una società composta da individui che davanti alla morte di un uomo pensano soltanto alla possibilità di sostituirlo sul posto di lavoro o a quanti soldi si possano spillare all’erario per questa dipartita. Al suo funerale Ivan si trova circondato da ipocrisia e menzogne così come lo era stato in vita, si ritrova solo allo stesso modo di quando conduceva la sua lotta senza speranza con un nemico invincibile, ma al momento di esalare l’ultimo respiro capisce una cosa che soltanto in punto di morte si può comprendere: “…la morte? Dov’è? Cercò la sua solita paura della morte e non la trovò. Dov’era? Ma quale morte? Non c’era nessuna paura, perché non c’era neanche la morte. Invece della morte c’era la luce…”.
Indicazioni utili
Miraggi, illusioni e delusioni
Quando si è circondati dal cemento, dall'asfalto, dallo smog, quando i ritmi di vita sono quelli frenetici e caotici della grande città industrializzata, anche il più insignificante indizio di una vita vegetale o animale può dare l'illusione di un riavvicinamento alla natura, di un'esistenza più sana e genuina. Così, soffocato e oppresso dalla grande metropoli, frustrato da un lavoro alienante e per niente gratificante che gli permette a malapena di sbarcare il lunario, Marcovaldo, stralunato manovale proletario, vaga per la città senza badare a segnali stradali e insegne pubblicitarie ma attratto da quel po' di natura che sopravvive alla cementificazione selvaggia: una famigliola di funghi cresciuti in una squallida aiola, una fresca cupola di rami di ippocastano, un piccione, una vespa, qualche alberello ai bordi dell'autostrada, una pianta in vaso all'ingresso della ditta creano nella mente del nostro eroe il miraggio di un contatto diretto con un mondo incontaminato che in realtà non esiste. Quella che si trova tra il trambusto di automobili e di tram, tra strade, marciapiedi e palazzi, non può essere la natura fresca e gioiosa che sogna Marcovaldo, ma una natura sofferente, opaca, corrotta anch'essa dal boom economico. E ogni volta che questa triste verità si palesa agli occhi del protagonista, la delusione prende inevitabilmente il sopravvento. Calvino racchiude tutto ciò in venti storielle comiche e strampalate che non nascondono una vena critica e malinconica, i cui tempi sono scanditi dal lento e ciclico avvicendarsi delle stagioni. Alternando una prosa semplice e scanzonata a passaggi più suggestivi e poetici, l'autore descrive il disagio dell'uomo moderno costretto a vivere tra asfalto e ciminiere, obbligato a lavorare in aziende simboli di sfruttamento e di folle consumismo, biasimando il concetto di civiltà industriale ma al contempo distruggendo le inani velleità di chi sogna un ritorno ad una vita più sana e campestre perché, come la storia ci insegna, tornare indietro è quasi impossibile.
Indicazioni utili
Bianca follia
Salpando dal porto di Nantucket in una fredda giornata di dicembre i marinai del Pequod erano convinti di intraprendere un normale viaggio a caccia di nobili ed inermi leviatani, allo scopo di riempire la stiva della nave di barili colmi di pregiato e remunerativo olio di balena. Nessuno poteva sospettare minimamente quale fosse il reale intento del loro capitano, il folle e vendicativo Achab, deciso a trasformare un affare commerciale in un regolamento di conti con i suoi fantasmi e le sue ossessioni. Nessuno, tranne il primo ufficiale Starbuck, si rese conto del pericolo cui si andava incontro quando Achab, comparendo per la prima volta al cospetto della ciurma saldamente piantato sulla sua gamba d'avorio e con gli occhi iniettati di sangue, palesò con insana enfasi il suo vero obiettivo: trovare, combattere e uccidere il leggendario Moby Dick, un niveo e combattivo capodoglio, astuto e feroce, che in tanti cercavano di ammazzare rimettendoci chi qualche arto come Achab, chi addirittura la vita. Presi dal carisma del capitano e dallo spirito d'avventura che suscitava l'impresa, gli uomini risposero positivamente alla richiesta di fedeltà del loro pazzo condottiero giurando, in un'orgia di alcool, follia e adrenalina, di abbracciare fino in fondo la sua causa e di combattere Moby Dick fino alla morte. Ma da quel momento in poi un'infinita serie di presagi nefasti accompagnerà il viaggio della baleniera e quella intrapresa si rivelerà ben presto una strada senza uscita. Ricca di simbolismo, l'opera di Melville è fortemente emblematica di una concezione pessimistica della condizione umana. La lotta contro la balena bianca è una dura e implacabile metafora delle continue battaglie che da sempre l'essere umano conduce contro la natura, contro i propri limiti, contro se stesso e le proprie ossessioni, battaglie dalle quali non può che uscire ridimensionato e sconfitto. Simbolica anche la scelta del candido colore della balena, il bianco, una tinta comunemente associata alla santità, all’innocenza, alla gioia, alla luce, che qui invece assume un significato spettrale, diventa simbolo di orrore, di morte, di gelo, infonde nell’animo un panico maggiore del rosso, lo spaventoso colore del sangue. Bianco è il mare che incute timore nei marinai, bianche le ali degli uccelli marini portatori di cattivi auspici, bianche le cicatrici di Achab. Un colore che compare nel libro in maniera ricorrente, e sempre con accezione negativa. I diversi aspetti dell'animo umano poi vengono ben rappresentati dai vari personaggi che compongono l'equipaggio: alla follia, alla megalomania, alla brama di dominio personificate dal capitano fanno da contraltare la saggezza, la prudenza, la razionalità di Starbuck; al meccanico coraggio del secondo ufficiale Stubb si contrappone la viltà del tamburellista Pip; il narratore Ismaele incarna la voglia di conoscere il mondo e di comprendere l’animo umano, il misterioso Fedallah la metafisica capacità di prevedere il futuro. Inoltre l’eterogenea composizione della ciurma, formata da uomini di ogni razza e religione, appare come un invito alla perfetta coesistenza e integrazione tra culture differenti. Contenuti quindi di tutto rispetto e stile indubbiamente degno di lode che in alcuni passaggi, soprattutto nel finale, raggiunge alti picchi di virtù letteraria, ai limiti del lirismo. Peccato che la piacevolezza della lettura venga messa a dura prova da lunghi e tediosi monologhi riguardanti le tecniche di pesca, la lavorazione dell’olio di balena o la conformazione fisica dei leviatani. Dissertazioni pesanti e di scarso interesse per il lettore, che occupano una buona metà del romanzo e non sembrano avere altra funzione che mettere in evidenza la ricca competenza dell’autore in quest’ambito. Un’inutile sfoggio di cultura che appesantisce notevolmente un’opera dal valore comunque innegabile che sottolinea quanto sia pericoloso lasciarsi trascinare dall’insana tracotanza di certi personaggi carismatici (vedi leader politici), perché spesso la follia di una sola persona rischia di far affondare tutti coloro che ciecamente gli vanno dietro.
Indicazioni utili
Le parole sono atti
Mai banale, mai pesante, mai retorico, Roberto Saviano in otto brevi monologhi disegna un quadro lucido e realistico di un'Italia afflitta da troppo tempo da una serie di mali, vecchi e nuovi, dai quali sembra sempre meno in grado di guarire. Si parte dalla scarsa considerazione data al concetto di unità nazionale, in nome di rivoltanti campanilismi e di limitati interessi locali. Si passa alla cosiddetta macchina del fango, cioè la tendenza a delegittimare gli altri attraverso una studiata e artificiosa diffamazione. Si parla inevitabilmente di criminalità organizzata, di mafia, 'ndrangheta, camorra, di connivenze con la politica, di infiltrazioni in ogni settore dell'economia e in ogni angolo del Paese, al Sud come al Nord. Si affronta il tema del diritto alla vita, dell'accanimento terapeutico, della libertà di morire in maniera dignitosa contro ipocriti e anacronistici moralismi civili e religiosi. Non possono mancare le grandi tragedie, l'emergenza rifiuti e l'avvelenamento della Campania da una parte, il terremoto in Abruzzo e l'inefficienza delle attività di prevenzione dall'altra. Si chiude con un pensiero ad una Costituzione che meriterebbe un rispetto e una considerazione infiniti e che invece troppo spesso viene terribilmente ignorata, calpestata, osteggiata, violentata. Argomenti scomodi e sovente subdolamente taciuti che l'autore non ha paura di affrontare sfidando vili minacce e ignobili accuse di diffamare il Paese, guidato dalla convinzione che "raccontare è già un passo avanti nel fare, perché le parole sono atti. Ed è per questo che fermare la parola significa fermare il fare. Raccontare come stanno le cose vuol dire non subirle". Quello che viene fuori è un ritratto impietoso e tristemente veritiero di una nazione incapace di reagire, di un popolo che troppo spesso pensa che non valga la pena ribellarsi, lottare, riscattarsi. Ma l'atteggiamento di Saviano è tutt'altro che disfattista e non mancano fortunatamente gli esempi positivi. Da Carlo Cattaneo e la sua idea di federalismo solidale a Giovanni Falcone che, ignorando il fango che gli veniva continuamente gettato addosso, ha perseguito il suo sogno di giustizia fino a trovarvi la morte. Da Piergiorgio Welby che, invece di andarsene a morire in Svizzera, ha preferito restare in Italia a lottare per i diritti di tutti i suoi connazionali a don Giacomo Panizza che da Brescia è andato in Calabria a sfidare disarmato la 'ndrangheta. Per finire con Piero Calamandrei a la sua continua e incessante battaglia in difesa della Carta Costituzionale. Grandi uomini che hanno detto no alla paura, al ricatto, all'egoismo, all'opportunismo. Esempi che tutti dovremmo seguire per poter finalmente costruire un'Italia migliore in cui sia più bello e più facile vivere, senza dover necessariamente andarsene o sognare di farlo dicendo a chi ci sta vicino: "vieni via con me".
Indicazioni utili
Una capricciosa e inaffidabile provvidenza
"Per menare il remo bisogna che le cinque dita s'aiutino l'un l'altra" andava ripetendo padron 'Ntoni, patriarca dei Malavoglia, per spiegare come la sua famiglia di pescatori siciliani, grazie alla coesione e al senso del dovere, avesse miracolosamente superato indenne le tante burrasche che nel corso degli anni si erano abbattute sulla casa del nespolo e sulla Provvidenza, la barca ammarata sotto il lavatoio. Tutti grandi lavoratori i Malavoglia, a dispetto dell'antitetico soprannome, ognuno pronto a fare la sua parte per il benessere comune. Ma le burrasche sono sempre in agguato e a volte è sufficiente che una soltanto delle dita allenti la presa perché la mano perda il controllo del remo. Così un episodio spiacevole darà il via a quella che per i nostri eroi sarà una inarrestabile discesa verticale. Comincia tutto con la decisione di padron 'Ntoni di intraprendere un affare consistente nella vendita di un carico di lupini presi a credito. L'intenzione è quella di migliorare il tenore di vita della famiglia ma l'iniziativa fallisce drammaticamente spalancando un baratro sotto i piedi dei protagonisti, quasi la provvidenza avesse deciso di voltare le spalle a chi ha cercato di migliorare la propria situazione, punendolo per la sua avidità e bramosia. La caduta dei Malavoglia è emblematica infatti di quello che è il concetto su cui si fonda l'opera di Giovanni Verga, cioè l'immutabilità della condizione umana. La vana lotta che l'uomo conduce contro il suo destino non può che portare al fallimento. Solo coloro che, come Alessi e Mena, accettano la propria situazione e si adattano a ciò che la vita riserva loro hanno la possibilità di salvarsi. Una concezione pessimistica che trasuda da ogni pagina, riga e parola di questo capolavoro del verismo italiano in cui l'autore mescola le sue virtù letterarie ad influenze dialettali che si notano sia nell'uso dei vocaboli che nella costruzione delle frasi. Siamo in una Sicilia ottocentesca ancora scettica per la recente unità d'Italia, dove il nascente vento di progresso si scontra con tradizioni e abitudini talmente radicate da sembrare incancellabili. La vita del piccolo centro di Trezza ruota tutta intorno al mare, alle vigne, alle chiuse, i pochi punti di riferimento sono la chiesa, la farmacia e l'osteria della Santuzza, le invidie, le malelingue, le rivalità accendono gli animi, le differenze tra chi ha tutto senza dover lavorare e chi si spezza la schiena per poco o per niente sembrano incolmabili. Pagine impregnate di sudore e di salsedine che trasmettono amarezza e disillusione e parlano di vite difficili e di uomini che, allora come oggi, si trovano costantemente in balìa di una capricciosa e inaffidabile provvidenza.
Indicazioni utili
La signora in blu
Odette de Valois, ricca vedova dell'alta società parigina, scompare misteriosamente nel cimitero del Père-Lachaise durante una visita alla tomba del marito morto mesi prima in Colombia. Siamo solo all'inizio di un intreccio di misteri che ruotano intorno ad un quadro apparentemente senza valore, "La signora in blu", in cui vengono coinvolti sedicenti medium, illusionisti, faccendieri transoceanici e morti che tornano dall'aldilà, in un turbine di sangue, amore e denaro. Ad indagare su questa spirale di misfatti troviamo l'ex amante della suddetta signora, l'affascinante libraio Victor Legris, affiancato dal suo impacciato aiutante Joseph. Sullo sfondo la Parigi di Gauguin, Verlaine, Zola, una città di fine Ottocento in pieno fermento sociale, artistico e culturale accompagnata da quell'aura di romanticismo e di mistero che da sempre caratterizza la capitale francese. Tuttavia la suggestiva ambientazione sembra essere l'unica nota positiva di questo libro. La trama banale e priva di originalità riduce al minimo il coinvolgimento e la suspense, i personaggi sono stereotipati e privi di carica empatica, l'amalgama di vari generi quali il giallo, lo storico, l'esoterico e il romantico non risulta ben riuscita. La stessa conduzione dell'indagine appare grossolana e confusionaria e si giunge alla soluzione del caso solo grazie ad alcuni indizi materializzatisi quasi per magia. Se da un lato la lettura risulta scorrevole grazie allo stile (fin troppo) semplice, dall'altro viene spezzettata di continuo dalle dettagliate ma troppo numerose note a piè di pagina relative a citazioni storiche e letterarie. Da segnalare invece la post-fazione che regala un preciso e interessante quadro della società dell'epoca, anche se forse sarebbe più indicato leggerla prima del romanzo per meglio comprenderne il contesto storico e sociale.
Indicazioni utili
I luoghi, i simboli e le memorie
Un prato, una selva, una grotta, una spiaggia, una casa, ogni luogo secondo Pavese può essere un simbolo, può avere un significato assoluto, isolato dal mondo, può evocare il ricordo di un fatto, di un gesto, di un evento, può diventare perfino mito. L'autore affronta questo tema attraverso una raccolta di ventinove racconti tutti narrati in prima persona, molto suggestivi e curati nella prosa, divisi in tre sezioni, ognuna delle quali è dedicata ad un luogo e ad una diversa fase della vita. Si parte dall'inizio dell'adolescenza, quando si è ancora divisi tra il gioco e la voglia di confrontarsi con gli adulti, quando alla persistenza di alcune paure infantili fa da contraltare una nascente baldanza derivante dal desiderio di nuove scoperte. È la parte dedicata al mare, un mare che incarna la voglia di crescere e di scoprire il mondo, che rappresenta una meta agognata da raggiungere per uscire finalmente dal piccolo universo in cui si è relegati e in cui usanze, riti e abitudini si ripetono rassicuranti ma al contempo monotoni. Poi si comincia a crescere, a saperne di più, ci si allontana dalla bolla dorata dell'infanzia per affacciarsi timidamente nella vita vera. È la città il luogo che rappresenta questa crescita, è lì che si matura e ci si sviluppa, lì si fanno esperienze nuove e contrastanti. Alle feste si contrappongono le strade deserte, alle nottate in compagnia si alternano periodi di solitudine. Infine si raggiunge la piena maturità, la vita si fa più dura e impegnativa. Siamo nella terza parte, quella dedicata alla vigna che diventa l'emblema dei luoghi dell'infanzia, quelli a cui si torna piacevolmente col pensiero quando si è ormai adulti e spesso il potersi rifugiare in ameni ricordi è uno dei pochi antidoti alle asprezze che ci circondano. Rievocare le memorie infantili è altresì un mezzo per conoscere meglio se stessi e il proprio presente perché, secondo Pavese, proprio nell'infanzia è possibile trovare le tracce del nostro essere. "Il concepire mitico dell'infanzia è insomma un sollevare alla sfera di eventi unici e assoluti le successive rivelazioni delle cose...Così ognuno di noi possiede una mitologia personale che dà valore, un valore assoluto, al suo mondo più remoto, e gli riveste povere cose del passato con un ambiguo e seducente lucore dove pare, come in un simbolo, riassumersi il senso di tutta la vita."
Indicazioni utili
Storia, politica e malinconia
Un pezzo di storia italiana, dagli anni cinquanta fino alla strage di piazza Fontana, raccontata dalla penna critica, ironica, surreale e malinconica di Stefano Benni. Gli echi delle gesta partigiane aleggiano ancora nell'aria, la contrapposizione tra comunisti e fascisti è molto forte, la politica si fa dappertutto, al bar, al lavoro, in casa, tra i banchi di scuola. Il boom economico trasforma radicalmente la vita, la mentalità, perfino la stessa terra, ma non sempre progresso è sinonimo di miglioramento. Saltatempo è un ragazzino bizzarro e un po' incantato, dotato di uno speciale marchingegno, un orobilogio, che gli permette di intravedere spezzoni di futuro. Orfano di madre e figlio di un falegname comunista e beone cui è molto legato, cresce, si forma, fa le sue esperienze e diventa uomo in un periodo storico topico e delicato come questo. Dalle scuole elementari fino alla scelta della facoltà universitaria, lo accompagniamo nel suo percorso di vita tra sacrifici e rinunce, studio e lavoro, amori e amicizie, pesca e letture, calcio, sogni e rock’n’roll. Sono i tempi di Jim Morrison e di Sartre, delle assemblee e delle occupazioni, dell'amore libero e dell'emancipazione sessuale, della lotta di classe, delle manganellate, dell'eroina. Tempi al contempo belli e difficili, tempi di grandi speranze in cui però era facile perdersi, in cui bastava restare in acqua un attimo in più per essere trascinati giù dalla corrente. Saltatempo vedrà gente smarrirsi per strada, tremerà di rabbia davanti alla cementificazione selvaggia, si indignerà scoprendo quanto in basso è pronto a scendere l'uomo in nome del guadagno. Vedrà il mondo trasformarsi, cambiare padroni e intraprendere quella strada fatta di avidità, consumismo, corruzione politica e assenza di ideali che purtroppo ancora oggi continua imperterrito a percorrere.
Indicazioni utili
I luoghi dell’infanzia
Con un piacevole tuffo nel passato Mahfuz ci proietta nei luoghi della sua infanzia facendoci immergere nelle magiche atmosfere di un Egitto di inizio Novecento in equilibrio tra il rispetto per le antiche tradizioni e una nascente voglia di modernità. Siamo in un piccolo quartiere della periferia del Cairo, proprio a ridosso del deserto. Un microcosmo in cui tutti si conoscono e sanno tutto degli altri, dove la vita gira sempre intorno ai soliti punti di riferimento. Un ambiente intimo e abitudinario dominato dalla vista di quel monastero che è al contempo gradita presenza familiare e arcano simbolo di rigore e inaccesibilità. L'autore torna bambino per poter raccontare questo piccolo mondo attraverso la purezza e la semplicità che si trovano soltanto negli occhi vispi, curiosi e sognanti dei più piccini. Man mano che il piccolo Naghib avanza nel racconto si possono cogliere nella sua voce piccoli segni di crescita, di maturazione, che vanno a braccetto con i lievi cambiamenti di una società che inizia il suo processo di modernizzazione. Settantotto brevissimi capitoli che parlano di rivoluzione e amori tormentati, di fughe, matrimoni, tradimenti, torti, gelosie, invidie, rivalità, spietati futuwwa e misteriosi dervisci. La filosofia si intreccia ai riti popolari, la storia si accompagna ai pettegolezzi, la leggenda diventa realtà e la quotidianità si confonde con il sogno. La scrittura è dolce e curata, le storie sono un po' ripetitive ma tutto sommato piacevoli, emblematiche del modo di vivere e di pensare di quel tempo e ricche di allegorie. La nostalgia e il malinconico romanticismo sono quelli tipici di chi si guarda indietro e vede un mondo che ormai non c'è più, di chi rammenta con piacere e rimpianto l'epoca giocosa e protetta della prima infanzia, di chi non sa se preferire un passato dal gusto un po’ obsoleto o un presente che non sempre rispecchia il sapore di modernità e miglioramento che tanto prometteva.
Indicazioni utili
Segregazione fisica e psicologica
Ogni volta che litigavano sua madre le ripeteva: “Non dobbiamo mai separarci arrabbiati. Non si sa, infatti, se ci rivedremo!” Ma la mattina del 2 marzo 1998 la delusione e il risentimento per l’ennesimo battibecco che le due hanno avuto la sera precedente sono talmente forti in Natascha da convincerla ad uscire di casa per recarsi a scuola senza salutare la mamma. E’ decisa a non darle più un bacio e a punirla con il proprio silenzio. E poi, in fondo, cosa può mai succedere? Invece qualcosa, purtroppo, succede. Durante il tragitto infatti la piccola incontra un uomo che istintivamente le provoca un moto di paura apparentemente irrazionale. Ha l’impulso di cambiare strada ma non lo fa, a ben guardarlo le sembra più debole ed insicuro di lei. Ma è la prima impressione a rivelarsi giusta: quest’individuo la ferma, la costringe a salire su un furgone bianco, la porta in casa sua e la rinchiude in una sorta di bunker ricavato nella sua cantina. E’ l’inizio di un lungo periodo di segregazione fisica e psicologica che si concluderà 3096 giorni dopo, quando la ragazza ormai maggiorenne troverà la forza ed il coraggio di fuggire costringendo il suo rapitore, Wolfgang Priklopil, al suicidio. Fredda e lucida la Kampusch ripercorre la sua lunga e terribile parentesi di prigioniera e schiava raccontando con poche riserve molti particolari di questa esperienza che lascerà in lei per sempre un ricordo indelebile. Natascha spiega quali meccanismi psicologici abbia attivato la sua mente per poter sopportare le violenze, gli abusi, le umiliazioni a cui il suo aguzzino l’ha sottoposta, come non si sia mai lasciata sopraffare completamente dalla situazione sopportando l’insopportabile ma riservandosi sempre quel minimo di ribellione e di orgoglio che le hanno permesso di restare comunque se stessa e di non rassegnarsi davanti a quello che poteva sembrare un destino ineluttabile, finché non è riuscita a realizzare il suo sogno di raggiungere la libertà spezzando le catene che la tenevano prigioniera grazie alla sua forza e alla sua determinazione. Eppure la sua condanna nei confronti di Priklopil non è totale come ci si potrebbe aspettare. In molti hanno parlato al riguardo di sindrome di Stoccolma, ma la ragazza rifiuta fermamente che le si appiccichi addosso questa etichetta. Natascha non se la sente di parlare del suo carceriere come di un essere assolutamente malvagio, preferisce definirlo un essere umano con un lato oscuro e uno un po’ più chiaro, con il quale ha vissuto momenti orribili ma anche brevi istanti di normalità e di comprensione reciproca. Un atteggiamento che ha provocato non poche polemiche in una società che vede un netto confine tra il bene e il male, come se esistessero soltanto il bianco e il nero e non le loro varie sfumature. Una società che, dice la Kampusch, “ha bisogno di criminali come Wolfgang Priklopil, per dare un volto al Male che vi risiede e per scinderlo da se stessa. Ha bisogno delle immagini delle segrete nelle cantine per non dovere guardare alle tante case e ai giardini, dove la violenza mostra il suo volto conformista, piccolo borghese. Usa le vittime di casi spettacolari come il mio per non sentirsi responsabile delle tante vittime dei crimini di tutti i giorni che rimangono senza nome e che non vengono aiutate, neppure quando chiedono aiuto.”
Indicazioni utili
Librivoro e sognatore
Che la vita del ratto Firmino sarebbe stata indissolubilmente legata alla letteratura è stato chiaro fin da subito, da quando Flo, una pantegana libertina e alcolizzata, lo ha messo al mondo nel seminterrato di una libreria di Boston tra brandelli di pagine del Finnegans Wake di Joyce. Per lui i libri hanno sempre rappresentato il pane quotidiano. Escluso dal classico allattamento per insufficienza di mammelle, nei primi giorni della sua esistenza non ha potuto far altro che nutrirsi mangiucchiando pagine di Jane Eyre, di Anime Morte, di Furore, di Padri e figli e di tanti altri capolavori della letteratura finché non smette di divorarli in senso letterale e comincia a farlo in senso figurato, leggendo con avido piacere ogni sorta di libro a sua disposizione tra le centinaia e centinaia ammassati sui polverosi scaffali o impilati sul freddo pavimento. Una passione che sicuramente lo umanizza e lo rende speciale, ma che di fatto lo costringe ad un'esistenza mesta e solitaria. Firmino vorrebbe essere un uomo, è troppo colto e raffinato per poter avere normali rapporti con i suoi simili dediti soltanto allo scrocco, alla fornicazione, al bivacco, ma resta pur sempre un topo e quindi è tagliato fuori anche dal mondo umano a cui può avvicinarsi soltanto come silenzioso osservatore o come simpatico animaletto di compagnia. Non gli resta altro che rifugiarsi in un universo onirico in cui può immaginare di dissertare brillantemente con i grandi della letteratura oppure sognare di essere una sorta di Fred Astaire che rivive le gesta dei personaggi di Cervantes, Fitzgerald, Carroll. Ma questa sua bizzarra esistenza subirà un tremendo colpo quando la demolizione del quartiere stabilita dal nuovo piano edilizio spazzerà via la vecchia libreria e tutti gli altri luoghi a cui il piccolo protagonista è legato. Una distruzione che sembra simboleggiare la decadenza della cultura, dell’arte, della poesia di fronte ad un progresso cinico e materialista che non prevede spazi e tempi per l’immaginazione. Librivoro e sognatore, Firmino incarna il senso di solitudine e di disagio di chi sente di non avere alcuna affinità con il mondo che lo circonda e cerca rifugio tra le pagine di un libro o nelle trame della propria fantasia dove può librarsi fluttuando come su una mongolfiera ed esplorare mondi che non sono suoi. “Nonostante fossi loquace fino al cicaleccio più inverosimile, ero condannato al silenzio. Il punto è che ero privo di voce. Tutte le frasi meravigliose che si libravano in volo nella mia testa come farfalle, in realtà, svolazzavano dentro una gabbia da cui non sarebbero mai uscite.”
Indicazioni utili
Un velo di nebbia e di lacrime
Haifa, 21 aprile 1948. I colpi dei mortai giunsero inaspettati squarciando l'indefinibile tensione che regnava nell'aria, caos e terrore si impadronirono improvvisamente della città. I giovani sposi palestinesi Said e Safiya, paralizzati dalla sorpresa e dalla paura, vennero travolti dall'impetuosa corrente umana che si riversava verso il mare e non si resero conto di ciò che era successo finché gli spruzzi d'acqua sollevati dai remi della barca su cui erano stati caricati a forza non li ridestarono. Ma ormai era troppo tardi, la loro casa stava per diventare proprietà dell'Agenzia Ebraica, il loro bimbo di appena cinque mesi Khaldun era rimasto lì, nella sua culla, a piangere disperato. Haifa, conquistata dalle forze sioniste, scompariva dietro un velo di nebbia e di lacrime. Quasi vent'anni di esilio, poi la mattina del 30 giugno 1967 la coppia riesce a tornare per una fugace visita alla vecchia abitazione e, chissà, anche per ritrovare il figlioletto perduto. I nostri protagonisti bussano a quello che era il loro uscio e vengono accolti da una sconosciuta, Miriam, una ebrea polacca sfuggita alle persecuzioni naziste. Oltre alla loro casa la donna ha preso anche quel bimbo che piangeva nella culla, ma ormai non è più il piccolo arabo Khaldun, ora è il soldato israeliano Dov, per lui Said e Safiya sono solo due estranei, due che stanno dall'altra parte, gli arabi suoi consanguinei sono dei nemici da combattere in una guerra senza fine. Per tutto il racconto le lacrime scendono copiose dagli occhi di Safiya, che ha consumato la sua gioventù in attesa di questo momento, senza sapere che sarebbe stato un momento terribile. Sorrisi imbarazzati si affacciano sul volto di Miriam, che esprime comprensione e solidarietà per i suoi ospiti e al contempo professa tutta la sua innocenza. Parole dure e pesanti come macigni escono dalla bocca del ragazzo, i rimproveri e il risentimento verso i genitori carnali tacciati di vigliaccheria, arretratezza e paralisi suonano come un monito a tutti i palestinesi che forse non hanno lottato abbastanza per difendere la propria patria. L'apparente calma di Said è una buccia sottile che nasconde fiamme invisibili, il suo animo è acceso di rabbia impotente, la sua mente non riesce a spiegarsi come si possa approfittare così cinicamente delle debolezze e degli errori degli altri, come si possa pensare di porre rimedio all'ingiustizia con una nuova ingiustizia. Con inevitabile coinvolgimento emotivo e una prosa tagliente nei dialoghi e dolcissima nelle parti descrittive, Kanafani racconta la struggente storia di Said e Safiya che è la storia di un intero popolo, il suo popolo, chiamato a pagare colpe non sue, cacciato malamente dalla sua terra, costretto ad abbandonare le sue proprietà e brutalmente massacrato quando ha tentato di opporre la minima resistenza. È la storia di un'incancellabile umiliazione e di un'irreversibile perdita d'identità. È la storia di una serie di domande che esigono risposte che troppa gente non riesce o non vuole dare: può l'orrore della Shoah, per quanto enorme sia stato, giustificare la violenza, gli abusi e i soprusi che da decenni continuano a perpetrarsi nei confronti dei palestinesi? È giusto risarcire un popolo dei torti subiti a scapito di chi, di quei torti, non ha nessuna responsabilità? Può la comunità internazionale continuare a chiudere gli occhi mascherando la sua ingiustificabile inerzia dietro un'ipocrita maschera di avara carità?
Indicazioni utili
Un arancino tira l’altro
Fate conto di trovarvi davanti ad un vassoio pieno di succulenti arancini siciliani, magari preparati dalle sapienti mani di un'abile cuoca come Adelina. Se pensate che dopo aver mangiato il primo vi sia possibile fermarvi vi sbagliate di grosso, gli arancini sono come le ciliege, uno tira l'altro, vi fermerete solo quando il vassoio sarà vuoto. Ecco, leggere questa raccolta di racconti sul commissario Montalbano è proprio così, una volta gustato il primo non ci si ferma finché non si è giunti all'ultimo, ammaliati dall'abile e arguta penna di Andrea Camilleri, dalla sua maestria nel creare intrecci sempre nuovi e interessanti e nel trasmettere il calore, i colori, i profumi e i sapori della sua Sicilia. Venti aneddoti per altrettante brevi indagini che vedono il protagonista alle prese con storie di omonimia, onore, vendetta, soldi, gelosia, funeree rappresentazioni teatrali, perversi sequestratori, strani collezionisti, referendum popolari, insospettabili trafficanti di droga, tardivi sensi di colpa, indagini epistolari, condannati moschicidi e cenoni di San Silvestro con loschi individui. Accompagnato da fedeli collaboratori come il donnaiolo Mimì, l'anagrafico Fazio e l'esilarante Catarella, Montalbano dimostrerà tutta la sua abilità nel risolvere i casi più complicati basandosi su indizi apparentemente insignificanti, ma ci sarà un episodio in cui, dopo un acceso diverbio nientemeno che con lo stesso Camilleri, si rifiuterà di continuare l’indagine e costringerà l’autore a interrompere bruscamente la storia. Oltre al lato puramente poliziesco questa raccolta ci permette di conoscere anche l'aspetto umano del buon Salvo, la sua onestà e correttezza, le sue gioie e i suoi momenti grigi, il tormentato rapporto d’amore con l'eterna fidanzata Livia, la sua simpatia per la gente semplice e l’avversione per i poteri forti. E ancora l’attaccamento alla sua terra, la sua passione per la letteratura e quella per la buona cucina che lo porta spesso al tavolino della trattoria dell’amico Calogero a gustarsi una zuppa di triglie o sulla verandina della sua casa in riva al mare a spazzolare una teglia di sarde a beccafico preparata per lui dalla fedele domestica Adelina. Insomma, un mix di suspense e simpatia, di noir e folclore che permette di passare qualche ora spensierata senza allontanarsi dalla letteratura di qualità, molto consigliato a chi, ancora profano, cerca il modo migliore per tuffarsi nel bizzarro e gradevole universo di Vigata e dintorni.
Indicazioni utili
Guerre nelle guerre
Nel cuore di un’Afghanistan straziato dagli orrori di una guerra insensata, un gruppo di ragazzi vive un’esperienza che inevitabilmente li porta ad abbandonare la bolla dorata della giovinezza per entrare nelle difficoltà e nelle disillusioni della vita adulta. Si tratta dei soldati del terzo plotone della Charlie, quello comandato dal maresciallo René, impegnati in una delle zone più calde del paese, il Gulistan. L’impacciato Ietri, lo spaccone Cederna, il povero Mitrano, l’ingenuo Torsu, la triste Zampieri sono i personaggi che spiccano maggiormente in questa eterogenea accozzaglia di giovani militari, con i loro caratteri differenti, i diversi comportamenti e le più svariate esperienze personali. E poi il rozzo colonnello Ballesio, l’arrogante capitano Masiero e soprattutto il tenente Egitto, medico della base, che dopo un primo semestre di missione ha preferito restare lì nel deserto, in guerra, piuttosto che tornare a casa e affrontare un altrettanto pericoloso conflitto con un pesante passato e un incerto futuro. Per molto tempo la vita nella base scorre lenta e sorniona, il caldo, la nostalgia e la noia sembrano essere i nemici più pericolosi. I rapporti umani sono altalenanti, si passa da momenti di grande comunione e fratellanza a periodi di intolleranza che sfiorano la misantropia, nascono e si rafforzano amicizie da un lato, esplodono e si intensificano contrasti e divergenze dall’altro. Finché un giorno questa uggiosa quotidianità non verrà frantumata da un tragico evento che segnerà per sempre la vita dei protagonisti. Qualche cliché di troppo non guasta il risultato complessivo dell’opera di Giordano che, con grande delicatezza ed una prosa curata e scorrevole, apre una finestra su quello che è lo stile di vita dei militari impegnati nelle missioni militari all’estero, con tutte le difficoltà, i pericoli, le incombenze che sorgono in situazioni di questo genere. Ma soprattutto ci porta nel cuore e nella mente dei protagonisti, ci permette di conoscerne pensieri, gioie e paure, un po’ della loro storia personale, dei progetti, dei sogni, delle speranze e delle loro più intime battaglie. Ci descrive la guerra, non tanto quella che si combatte con fucili, bombe, mortai, ma principalmente quella sostenuta contro se stessi, contro il corpo e lo spirito, i propri fantasmi e le proprie difficoltà, contro famigliari e conoscenti, affetti ed antipatie, contro la vita stessa che troppo spesso non va come dovrebbe andare.
Indicazioni utili
Banalità, luoghi comuni e parolacce
Roma, 1986. E' una calda sera d'estate e in una lussuosa villetta dell'Olgiata l'esimio professore Leo Pontecorvo, insegnante universitario nonché primario di oncologia pediatrica, consuma la sua cena davanti al televisore in compagnia della bella e devota moglie Rachel e dei due splendidi figli Filippo e Samuel. Un quadretto familiare invidiabile, che le accuse di corruzione, usura, evasione fiscale rivolte negli ultimi tempi all'emerito medico riescono a malapena a scalfire. Ma questo inossidabile idillio non può resistere anche alla notizia che il telegiornale ha appena divulgato: il professor Pontecorvo è implicato in un caso di molestie sessuali nei confronti della dodicenne Camilla, fidanzatina del suo secondogenito. Un baratro si spalanca immediatamente sotto i piedi dell'incredulo Leo che si vede precipitare ineluttabilmente in un incubo senza fine. Incapace di lottare per dimostrare la propria innocenza, ferito e offeso dalla condanna immediata inflittagli da moglie e figli che repentinamente lo giudicano colpevole tagliandolo fuori dal ménage famigliare, il nostro protagonista non trova di meglio da fare che isolarsi dal resto del mondo e sotterrarsi come un rivoltante scarafaggio per nascondere la propria vergogna e soffocare una blanda ed infruttuosa rabbia, finché i suoi guai non culmineranno in un tragico quanto annunciato epilogo. Con continui salti temporali tra un nero e angosciante presente e un roseo e florido passato, Piperno ci racconta la tragica epopea umana e giudiziaria di un uomo che, colpevole soltanto di dabbenaggine e narcisismo, vede crollare all'improvviso tutto ciò che aveva fin qui costruito. La fama, il prestigio, il lusso, il rispetto, l'amore vengono brutalmente soppiantati dal sospetto, dall'odio, dalla minaccia, dall’ignominia. Eppure questa tragedia personale non scatena nel lettore quell’empatia con il protagonista che ci si aspetterebbe in una storia di questo genere. L’autore sembra impegnarsi più nel raccontare irrilevanti particolari del passato che nel tracciare un buon profilo psicologico dei personaggi o nel cercare di trasmettere le sensazioni e i sentimenti di un individuo ingiustamente messo alla gogna. Ciò non consente di far nascere quell’intesa, quel coinvolgimento, quel
trasporto che permettono di immedesimarsi nel protagonista, di provarne la stessa angoscia, la stessa paura, le stesse amare sensazioni. Pontecorvo tra l’altro viene presentato come un uomo tronfio e spocchioso che dietro un’ipocrita maschera da democratico progressista nasconde un'indole classista e snob e gode nell'ostentare la propria ricchezza e la propria posizione sociale, convinto di emanare fascino e suscitare invidia, ma poi del tutto incapace di affrontare con maturità gli ostacoli che gli si parano davanti. Tutto ciò non può far altro che allontanare nel lettore qualsiasi sentimento di comprensione e indulgenza. Ma anche gli altri personaggi non brillano per virtù e simpatia: i bambini piagnucolosi e viziati, la moglie avara, altera e paranoica che vede antisemitismo ovunque, gli amici ipocriti, l'avvocato avido e senza scrupoli, la bimba subdola e manipolatrice. Insomma, non si salva nessuno. Anzi, si salverebbe la prosa, curata ed elegante, se non fosse al servizio di un eccesso di banalità, luoghi comuni e parolacce che sembrano buttate lì solo per fare scena. Poco brillante infine l’idea di chiudere il libro con un inutile e per niente invitante “Continua…”.
Indicazioni utili
O victoria o muerte
Partire dalla Bolivia per estendere in tutto il Sudamerica una rivoluzione politica e culturale sul modello di quella cubana. Unificare un popolo diviso da inutili confini e riscattarlo da secoli di ingiustizie, abusi e soprusi. È questo il grande sogno del medico argentino Ernesto Guevara de la Serna, detto il Che, un uomo che ha consacrato la vita a ideali di giustizia e fratellanza e che nel perseguirli ha trovato la morte. Siamo nel novembre del 1966 e Guevara raggiunge la Bolivia mettendosi al comando dell'Esercito di Liberazione Nazionale con l'obiettivo di liberare il paese dal regime militare di Barrientos e da un capitalismo yankee che deruba le risorse del paese dando in cambio iniquità, sfruttamento e fame. Per farlo dispone di pochi ma fidati uomini, di una buona riserva di munizioni e della convinzione di poter infondere l'idea rivoluzionaria nel popolo oppresso portandolo a sua volta ad imbracciare le armi e combattere la dittatura. Nel suo diario Guevara racconta le varie fasi del progetto, a partire dalle scrupolose operazioni preliminari di approvvigionamento di armi e viveri, di esplorazione del territorio, di allestimento di depositi e nascondigli e di reclutamento e indottrinamento dei guerriglieri. Finché nel marzo del 1967 non si comincia a fare sul serio con l'inizio della guerriglia vera e propria, quella che provoca morti, feriti e prigionieri, quella che costringe ad operazioni fulminee e a lunghe ed estenuanti fughe, quella che procura fame, sete, stanchezza, euforia, ottimismo, scoraggiamento, alienazione. Quella che, nell'ottobre dello stesso anno, culminerà con la cattura e la fredda esecuzione di quest’uomo che, paradossalmente, morendo diventa immortale. Dal diario appare chiaro che alla base della sconfitta ci sono lo squilibrio tra le due forze in campo, incrementato dal subdolo intervento degli Stati Uniti, i dissidi con il Partito Comunista Boliviano e il suo mancato appoggio all'operazione, l'accidia del popolo che, a parte rarissimi casi, non ha assecondato e seguito l'esempio di chi lottava per lui, i tradimenti e le delazioni. Tutti questi fattori, uniti, hanno portato al fallimento di un progetto che agli occhi di tanti può apparire utopistico ma che invece, con un po' di collaborazione e un pizzico di fortuna in più, avrebbe veramente potuto accendere quella miccia capace di far esplodere la voglia di riscatto di un intero continente. Difficile non restare affascinati da un uomo di questo spessore umano e politico, un eroe leale e coraggioso che è stato, resta e sarà per sempre un virtuoso esempio di coerenza politica, di abnegazione e di altruismo, capace di tremare d’indignazione davanti ad ogni ingiustizia e di combatterla con ogni mezzo: “Come mi piacerebbe giungere al potere, se non altro per smascherare i codardi e i venduti di tutte le razze e strofinargli il muso nelle loro porcherie”.
Indicazioni utili
Realistico intreccio mafioso
New York, secondo dopoguerra. Tra gli esponenti di punta della malavita italo-americana un nome spicca su tutti: quello di Don Vito Corleone, capo della più potente e prestigiosa famiglia mafiosa della costa orientale. Detto "Padrino" per la generosità che riserva a chi gli dimostra rispetto e fedeltà, Corleone è un uomo paziente e guidato da un rigoroso codice morale, che negli affari preferisce avvalersi della sua famosa e persuasiva ragionevolezza, ricorrendo alla forza solo quando necessario. Ma, quando ci sono da usare le maniere pesanti, non esistono remore né mezze misure, la sua decisione e la sua spietatezza fanno gelare il sangue nelle vene. Scappato giovanissimo dalla natia Sicilia per sfuggire alla stessa lupara che lo ha reso orfano, si trasferisce nel Nuovo Continente portando avanti per i primi anni una vita onesta fatta di stenti e difficoltà, finché decide di cambiare pagina: comincia così una brillante ascesa che lo vede pian piano raggiungere il vertice della malavita statunitense. Ma il suo prestigio e la sua potenza rischiano di scomparire a causa di una terribile guerra tra famiglie scatenata dal suo rifiuto a partecipare ad un affare di narcotraffico. Una battaglia che metterà il Padrino a dura prova e aprirà la questione riguardante la scelta del suo successore. Suspense, azione e colpi di scena non mancano in quest'opera di Mario Puzo in cui onore e tradimento, amore e denaro, violenza e rispetto si intrecciano come le fitte maglie di una ragnatela. Ma il vero punto di forza del libro è il realismo e con cui l'autore descrive il mondo della mafia, con la sua capacità di entrare in ogni settore dell'economia e trarne ingenti profitti, le forti e spesso insospettabili connivenze con i piani alti della politica, delle forze dell'ordine e perfino del potere giudiziario e un'organizzazione interna precisa ed efficiente come un orologio svizzero. Forse Puzo esagera un po’ nel tessere le lodi del protagonista, mettendone in risalto le virtù e facendo passare quasi in secondo piano il fatto che si tratti comunque di un pericoloso e sanguinario boss mafioso. Ciò, se da un lato può infastidire i lettori più sensibili al tema ed essere visto come un limite del romanzo, da un altro punto di vista può intendersi come sintomatico del consenso e del prestigio che troppo spesso la mafia riscuote tra la gente comune, soprattutto tra quella povera e diseredata che si sente abbandonata da uno Stato corrotto e lontano dai problemi reali della popolazione e che trova invece in quest’organizzazione un modo per avere lavoro, giustizia e protezione. Un aspetto che troppo spesso i governi tendono ad ignorare e che invece dovrebbe essere considerato come fondamentale punto di partenza nella lotta alla malavita organizzata.
Indicazioni utili
Favola nera
La visione cupa e pessimistica dell'autrice riguardo alla vita e al mondo permea ogni pagina, ogni frase, ogni singola parola di questa favola nera in cui a farla da padroni sono l'odio, la violenza e ogni sorta di bassezza morale. Agota Kristof scandaglia le zone più nere e limacciose della natura umana, servendosi di sagaci figure simboliche, di palesi riferimenti storico-politici e di una prosa scarna, ombrosa, fatta di frasi brevi, secche, lapidarie, senza preziosismi e raffinatezze. Uno stile perfetto per trasmettere al meglio i contenuti dell’opera. I gemelli Lucas e Claus sono ancora bambini quando il loro paese è coinvolto in una guerra sanguinosa e affamatrice e la madre, per farli sfuggire a morte certa, li affida alle cure per niente amorevoli della nonna. Legati tra loro in maniera viscerale e dotati di un'intelligenza fuori dal comune, i due protagonisti si ritrovano già in tenera età a condurre un'esistenza fatta di fatica, freddo, fame, insulti e percosse che forgerà i loro caratteri fino a renderli impermeabili alla paura e al dolore ma anche ai buoni sentimenti, facendoli diventare cinici e spietati come il mondo con cui hanno a che fare. Insieme sapranno affrontare e superare ogni difficoltà, arriveranno perfino ad autoinfliggersi pesanti esercizi per imparare a sopportare meglio i mali fisici e mentali, finché si troveranno di fronte alla prova per loro più dura: la separazione. Claus abbandona un paese uscito finalmente dalla guerra ma soggiogato da una pesante dittatura imposta dall'occupazione straniera, lasciandoci a seguire la vita del solo Lucas, dall'adolescenza all'età adulta, in un crescendo di solitudine e depressione in cui aleggia costante e ineluttabile il vuoto lasciato dalla partenza del gemello. Ma ad un certo punto, come un improvviso uragano che travolge ogni cosa, ecco che entra in gioco l'elemento fondamentale della storia, la menzogna, rimettendo in discussione quanto letto fin qui e prospettando un torbido prosieguo. Questo sorta di incubo claustrofobico è un duro e spietato processo ai mali dell'umanità: avidità, prepotenza, arroganza, odio, violenza, invidia, indifferenza sono caratteri imprescindibili dell'uomo e fattori scatenanti di calamità deleterie come le guerre, portatrici di sangue e fame, e i totalitarismi, oppressivi e soffocanti. La condanna è totale e si estende a tutti gli uomini, ad ogni nazione, ad ogni ideologia e a qualsiasi epoca storica. Niente, neanche la speranza sembra salvarsi dalla penna inquisitrice dell'autrice: “…Gli dico che se è morto, beato lui, e che vorrei essere al suo posto. Gli dico che gli è toccata la parte migliore e che sono io a dover reggere il fardello più pesante. Gli dico che la vita è di un’inutilità totale, è nonsenso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non-Dio di una malvagità che supera l’immaginazione.”
Indicazioni utili
Dalle stalle alle stelle…al fosso
Per le cosiddette "schiave del sesso" come Milena la vita non è certo facile: portate in Italia con l'inganno si ritrovano tristemente in balia di protettori violenti, di clienti viziosi e di giudizi ipocriti. Cambiare la loro situazione è quasi impossibile ma Milena ci riesce, si rifà una vita, trova un lavoro onesto, serenità, l'amore e un matrimonio da sogno. Passa, per così dire, dalle stalle alle stelle. Ma tutto questo a qualcuno può dar fastidio e un giorno la giovane rumena viene ritrovata in un fosso priva di vita e vestita inequivocabilmente da prostituta. Tutto sembra condurre al gesto di un magnaccia, ad una punizione per chi ha cercato di scappare dal giro, ad un avvertimento per chiunque cerchi di farlo in futuro. Ma non sempre la verità è così semplice e scontata e l'unico modo per capire come sono andate precisamente le cose è affidarsi ai racconti, alle ipotesi, alle scoperte di otto donne informate sui fatti. Dalla bidella impicciona alla barista omertosa, dalla carabiniera petulante alla zelante giornalista, e poi una ricca figlia di banchiere, due facoltose signore e una pseudo suora bigotta, ognuna con il suo punto di vista e le sue congetture, ognuna a rappresentare un diverso strato sociale o culturale, ognuna pronta ad aggiungere un nuovo tassello nel mosaico dell'indagine. Il continuo alternarsi delle voci narranti in prima persona è l'aspetto più originale e rilevante del libro. Fruttero poi è molto abile nel caratterizzare alla perfezione queste otto figure femminili, tracciandone con maestria i tratti salienti del carattere, la storia personale, la mentalità e distinguendole anche nel modo di parlare con uno stile di scrittura che varia da donna a donna. Un giallo dai colori tenui che certo non brilla per suspance e colpi di scena e caratterizzato da un ritmo blando e una trama un po' sempliciotta, ma che ha il pregio di trattare con leggerezza, ironia ed eleganza un tema delicato come la tratta delle prostitute e di presentare un ritratto simpatico e vivace della multiforme società italiana, torinese nel caso specifico, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti.
Indicazioni utili
Struggente storia d’amore fraterno
Quello che lega Abdullah e la piccola Pari è qualcosa che va molto al di là del normale rapporto tra fratello e sorella, è una sorta di simbiosi, un legame viscerale che li rende inseparabili, un amore smisurato che ne fa una sola carne e una sola anima. Ma un giorno la vita, quasi fosse uno dei crudeli “div” protagonisti della favole che il padre racconta loro, li separa tranciando senza pietà quel filo che li teneva uniti così strettamente. Il dolore per questa scissione è immenso, di quelli che intaccano la vita per sempre lasciando un senso perenne di assenza, di mancanza di qualcosa o di qualcuno che neanche lo scorrere del tempo e l’affievolirsi dei ricordi può riuscire a smorzare. Il senso di vuoto e di solitudine è perenne, incolmabile e a volte basta sussurrare un nome, far riaffiorare un ricordo, anche soltanto percepire una sensazione per restare senza fiato nella speranzosa attesa che un’eco, prima o poi, risponda. Una struggente storia d’amore fraterno che in più di mezzo secolo tocca tre generazioni e altrettanti continenti. Si parte da metà novecento a Shadbagh, misero villaggio afgano, per finire nella bella Avignone dei giorni nostri passando per Parigi, San Francisco, la piccola Tinos e l’immancabile Kabul. Dieci capitoli in cui alla storia dei due protagonisti principali si accavallano le vicende di altri personaggi, più o meno legate da uno stesso filo conduttore ma comunque tutte incentrate sugli stessi argomenti: il richiamo delle proprie radici, la forza dei legami famigliari, la disponibilità al sacrificio per il bene altrui e il peso che le nostre scelte e le nostre azioni possono avere sulla vita degli altri. Conosciamo così il rapporto di amore e odio tra Parwana e sua sorella Masuma, il triangolo platonico tra i coniugi Wahdati e l’autista-cuoco Nabi, il generoso e coraggioso altruismo di Amra e Markos, l’ipocrita solidarietà di Idris e Timur, l’impotente delusione di Adel davanti alla sconcertante scoperta della vera identità del padre, il tutto condito dalla straordinaria capacità di Hosseini di raccontare i sentimenti umani con delicatezza e sensibilità e dallo stile poetico e delicato della sua prosa. Sullo sfondo il fascino e la magia di una cultura e di una terra tanto belli quanto bistrattati dall’orrore di guerre decennali, dal fanatismo degli estremismi ideologici e dallo squallore di avidi interessi economici, mali che si protraggono da troppo tempo e che finiscono per gravare sempre sui deboli, sui poveri, sui diseredati: “…Papà era diverso. C’era durezza in lui. I suoi occhi si aprivano sul medesimo mondo della mamma, ma vedevano solo indifferenza. Fatica infinita. Il suo mondo era spietato. Il bene non era gratuito. Neppure l’amore. Dovevi pagare per ogni cosa e, se eri povero, la tua moneta era la sofferenza…”.
Indicazioni utili
Cummandar-as-Shaitan
Siamo nel 1941 quando l’esercito italiano, sconfitto dal nemico britannico, deve rinunciare al controllo dell’Eritrea abbandonando di fatto le sue velleità di colonialismo nel Continente Nero. La batosta sembra aver convinto tutti, governo di Roma compreso, a deporre le armi e lasciare le ex colonie. Soltanto un ufficiale, seguito dai suoi fedelissimi ascari, continua a combattere costringendo il nemico a non abbassare la guardia e impedendogli di lasciare il Corno d’Africa per unirsi agli altri contingenti impegnati in Egitto. Una resistenza che appare del tutto insensata visto il contesto, ma che allora era forse l’unico modo per cercare di aiutare i connazionali impegnati sul fronte nord-africano e che la dice lunga sul coraggio, la determinazione e l’amore per la patria di questa sorta di epico guerriero di nome Amedeo Guillet, noto con il leggendario soprannome di Cummandar-as-Shaitan, ovvero il Comandante Diavolo. Conosciamo questo controverso personaggio attraverso il ritratto che ne traccia quello che è stato al tempo stesso suo nemico e profondo estimatore, Vittorio Dan Segre. L’autore racconta le intrepide gesta dell’ufficiale italiano e dei suoi uomini delle Bande Amhara a cavallo prima nella guerra regolare, poi nella guerriglia successiva alla sconfitta. Contravvenendo alle direttive dei vertici del regime che intimano a tutti i militari la resa, Guillet sveste la divisa ufficiale, cambia nome e aspetto diventando il musulmano yemenita Ahmed Abdallah Al Redai e continua una sorta di guerra privata affiancato dai suoi leali soldati indigeni che accettano di seguirlo soltanto in virtù del suo carisma e della stima che provano nei suoi confronti, senza paga, spesso senza acqua e senza cibo, al servizio di una corona e di una bandiera straniere ma spinti dalla profonda e ineluttabile devozione per il loro comandante. Poi la tormentata fuga verso lo Yemen, il rimpatrio e la ripresa delle armi questa volta al fianco degli alleati perché, in ogni caso, ciò che lo spinge a combattere è sempre e solo il bene della sua nazione. La magia dei paesaggi africani, il fascino esotico dell’avventura, l’ascendente di un personaggio leggendario, l’interessante contesto storico sono tutti punti a favore di quest’opera in cui c’è spazio anche per l’amore, con un protagonista diviso tra la dolce cugina Bice che lo aspetta in patria per sposarlo al suo ritorno e la bella concubina Kadija, inseparabile compagna della sua vita africana. Se tutto ciò fosse stato raccontato con una forma più romanzata ne sarebbe venuto fuori un libro straordinario. Invece Segre sceglie una forma a metà tra romanzo e dossier che però non ha né la forza emotiva del primo, se non in rari passaggi e in forma molto lieve (per esempio nel capitolo “Al Sayed Ibrahim”), né l’ordinata struttura del secondo, perché le informazioni passano continuamente da un argomento ad un altro, spesso si ripetono e a volte si soffermano su dettagli di scarso interesse. La prosa del tutto asettica e la freddezza della narrazione contribuiscono poi ad abbassare il valore di un’opera che non riesce mai a sfruttare completamente l’ottimo potenziale di partenza, ma che rimane comunque una lettura interessante per conoscere meglio un periodo storico spesso trascurato e un grande patriota che in pochi hanno anche soltanto sentito nominare.
Indicazioni utili
- sì
- no
Forte e ribelle Jane
La vita per Jane non è mai stata facile. Piccola, esile, non particolarmente carina, fin dalla più tenera età ha dovuto affrontare problemi e difficoltà, soprusi e angherie, sacrifici e rinunce: la morte di entrambi i genitori, i maltrattamenti da parte della zia e dei cugini, le asprezze dell'orfanotrofio, la superbia dei signori, la consapevolezza della quasi impossibilità di realizzare i propri sogni. Eppure Jane è sempre andata avanti a testa alta, non si è mai fatta schiacciare dagli eventi né sottomettere da chicchessia. Un carattere forte e ribelle, una spiccata intelligenza unita ad una soave dolcezza, una grande determinazione e un'incrollabile forza d'animo le hanno permesso di farsi ben volere, di aprirsi una strada, di raggiungere l'indipendenza. La nostra eroina arriva perfino a conoscere, ricambiata, l'amore ma anche stavolta, ad un passo dal coronamento di un sogno, il solito destino beffardo è pronto a metterle il bastone tra le ruote. Un romanzo coinvolgente e ricco di personaggi affascinanti che riesce a raccontare una struggente e tormentata storia d'amore senza cadere in stucchevoli romanticherie, impreziosito dallo stile virtuoso dell'autrice e dalla sua straordinaria capacità di creare una forte sintonia tra il lettore e la protagonista. Non mancano il mistero e l'ironia e sono curatissime e ottimamente riuscite le descrizioni: Charlotte Bronte riesce a trasmettere perfettamente l'amenità dei paesaggi rurali, la forza del vento e della pioggia, il calore del fuoco di un camino, la magica atmosfera delle notti stellate e della fievole luce delle candele. Quanto ai contenuti il messaggio di fondo è un invito a non arrendersi di fronte agli ostacoli della vita affrontandoli con la stessa forza e decisione con cui lo fa la protagonista. Il percorso di vita di Jane poi appare come una presaga metafora del lungo e difficile cammino della donna verso l'emancipazione, la parità di diritti e l'indipendenza, un cammino che proprio in quell'epoca muoveva i primi veri passi e che tanti progressi ha fatto finora. Ma basta guardarsi un attimo attorno per rendersi conto di quanto sia ancora lunga e accidentata la strada da percorrere.
Indicazioni utili
Claustrofobico incubo giudiziario
Una mattina come tante, mentre aspetta che gli venga servita la colazione, il procuratore di banca Josef K. riceve la visita inaspettata di due sconosciuti che lo dichiarano in arresto. Una faccenda quanto mai inverosimile, lui è innocente, non ha fatto niente di male e per di più non si capisce quali siano le ragioni di questo provvedimento. Sulle prime pensa si tratti di uno scherzo, di una burla grossolana organizzata dai suoi colleghi di lavoro per qualche ignoto motivo, forse perché quello è il giorno del suo trentesimo compleanno. Ma presto il protagonista capisce che c’è ben poco da scherzare: la questione, per quanto possa apparire paradossale, è estremamente seria e molto più grave di quanto sembri. Ecco quindi che, senza neanche riuscire a capire quale reato gli venga imputato, il nostro eroe si trova coinvolto in una vana ed estenuante lotta contro un sistema giudiziario torbido e ingarbugliato, una battaglia impari ed estenuante che logorerà le sue forze ed i suoi nervi portandolo ad una lenta alienazione e che non potrà che culminare in un tragico quanto ineluttabile epilogo. Kafka ci catapulta in un intrigo di paradossi e situazioni surreali, in un labirintico viaggio nei meandri della legge e della burocrazia nel quale l’uomo comune si muove con la stessa agilità e le medesime possibilità di salvezza di una mosca nella tela del ragno. L’autore è straordinario nel creare un’atmosfera sempre più cupa ed opprimente, portandoci al fianco del povero impiegato in basse soffitte dall’aria pesante, stanze buie e polverose dal clima irrespirabile, scale vertiginose, corridoi affollati, in una città costantemente battuta dalla pioggia, dal vento o dalla neve, tra viscidi e ambigui personaggi e con la sensazione di essere sempre spiati, additati, giudicati. Un vero e proprio incubo giudiziario a dir poco claustrofobico, che appare palesemente emblematico di quella che è la concezione pessimistica della situazione umana secondo Kafka. L’indefinibilità del tempo e dei luoghi in cui la storia è ambientata, la vaghezza delle colpe, l’indeterminatezza del potere e delle istituzioni sembrano studiate apposta per far si che questa spietata analisi non si possa circoscrivere né ad un determinato periodo storico, né ad una specifica regione, né tantomeno ad un particolare regime politico, ma riguardi la condizione esistenziale dell’uomo ovunque esso si trovi, in qualsiasi epoca esso viva e qualunque classe politica lo guidi. “…Con occhi ormai spenti K. vide ancora come i signori, guancia a guancia davanti al suo volto, spiavano l’attimo risolutivo. – Come un cane! – disse, e fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere.
Indicazioni utili
L’orrore, l’orrore
Siamo sul tratto finale del Tamigi a bordo del Nellie, una iole da crocera, in attesa che la marea cambi per poter percorrere quell'ultimo pezzo di fiume che conduce al mare e agli estremi confini del mondo. Sotto il livido bagliore delle stelle, avvolti da una foschia incombente, seguiamo la calda voce del capitano Marlow che ci guida in esotici e avventurosi ricordi mentre fuori il faro di Chapman splende intesamente e un andirivieni di luci risalgono e scendono la corrente. Le memorie del vecchio lupo di mare ci trasportano così in un altro continente, l'Africa, a bordo del battello di una compagnia coloniale a risalire il corso di un altro fiume per inoltrarci nel cuore tenebroso di una terra inesplorata, in una natura pericolosa e selvaggia come le popolazioni che la abitano. Ma questo lento tragitto fluviale è solo il pretesto per un altro viaggio, quello mentale, storico, antropologico nei più oscuri recessi della natura umana, un percorso crudo e tristemente veritiero tra gli orrori e le efferatezze che una società che ha la pretesa di autodefinirsi civile e progredita finisce per compiere ogni qual volta ci siano di mezzo il potere e il guadagno. Tema centrale di questo breve romanzo di Conrad è infatti una profonda e ben strutturata critica alle mostruosità del colonialismo occidentale, una impietosa denuncia nei confronti dell’ipocrisia di chi si maschera da portatore di civiltà e progresso ma in realtà ha il solo scopo di soggiogare la gente e sfruttare le risorse del territorio. “L’orrore, l’orrore” grida il signor Kurtz in punto di morte pensando alle barbarie commesse in nome di una insaziabile fame di avorio e di dominio. “L’orrore, l’orrore” dovremmo gridare tutti davanti alla consapevolezza che a più di un secolo di distanza nulla è cambiato: Il petrolio ha preso il posto dell’avorio, i caccia militari quello dei traghetti coloniali, la presunzione di poter civilizzare gli altri si è trasformata nella pretesa di dover diffondere una discutibile democrazia, ma le bassezze, le atrocità, i soprusi perpetrati per riuscire a raggiungere vergognosi obiettivi economici e politici non hanno ancora avuto fine e l’umanità appare sempre più come una nave che solca un mare sbarrato da un nero banco di nubi diretta verso il cuore di una tenebra immensa.
Indicazioni utili
340 risultati - visualizzati 201 - 250 | 1 2 3 4 5 6 7 |