Opinione scritta da Bruno Elpis
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C’è in giro moltissima realtà
Anteprima mondiale di Aldo Nove sta a Woobinda dello stesso autore come il secondo decennio degli anni 2000 sta agli anni Novanta (o come il post-cannibalismo sta al movimento letterario dei cosiddetti Cannibali).
I tempi da allora sono cambiati, nulla è mutato (“C’è in giro moltissima realtà”), tutto è più complicato (“L’Europa è un posto in cui si arriva morendo”) ma drammaticamente riconducibile al vuoto, alla perdita dei valori, all’impoverimento dei rapporti interpersonali.
Il pessimismo è feroce, sboccato, pornografico.
Gli eroi tragicomici sono, ad esempio, gli amici Gianni e Michele. ll primo vive ancora con i genitori, non avendo una propria identità professionale né autonomia economica: una terrificante disavventura erotica lo allontanerà in via definitiva da mamma e papà. Insieme, Gianni e Michele formano l’improbabile coppia di padrone squattrinato e maggiordomo senza domus da gestire.
Il tono è spietato e provocatorio, talvolta ai limiti dell’eresia. Così l’11 settembre è “il giorno più bello della mia vita”.
“Era come un comunismo dell’orrore mondiale.”
“I terroristi devono aver capito che ci sentiamo soli.”
Lo stile, spesso destrutturato, ricorre a frasi choc ed elenchi (come quello delle pornodive) per rappresentare una realtà scadente, ossessiva, ripetitiva…
Bruno Elpis
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Quello di oh oh cavallo?
Roberto Vecchioni rappresenta “La vita che si ama” in racconti e versi dedicati ai figli.
I racconti talvolta traggono spunto da (e distorcono) esperienze reali, ispirate dalla vita del docente e del cantautore.
Al primo profilo (quello dell’insegnante) appartiene un episodio nel quale Vecchioni, presidente di commissione d’esame di maturità, con sensibilità paterna combatte la caparbia volontà di autodistruzione di uno studente deluso (“Mi ha chiesto se Orfeo era sceso agli inferi più per sconfiggere i dèmoni che per riprendersi Euridice”) e lo induce a reagire facendo propria l’interpretazione che Cesare Pavese diede al mito di Orfeo nei Dialoghi con Leucò. In un altro racconto (Il biliardo di Chomsky) il compositore di “Luci a San Siro” (canzone della quale in questo libro viene narrata la genesi) affronta la confessione di un altro studente, che confida al professore, esperto di tragedie greche, di essersi innamorato… della sorella.
Quanto alla seconda dimensione ne “La barzelletta di Dio” l’artista (“Quello di oh oh cavallo?”) ricorda il divertente equivoco nel quale incappò in occasione di un’audizione dal papa.
L’opera potrebbe essere assimilata a un diario intimistico, spesso sdrammatizzato, dei rapporti con i familiari. Ci sono tutti: i figli, la moglie, la mamma e il padre Aldo che in “Duplice accoppiata” scrittura il figlio (“Noi Vecchioni”) per un’impresa improbabile: recuperare un biglietto vincente incautamente buttato nell’ippodromo di Anagni…
Giudizio finale: autobiografico, prosastico e poetico al tempo stesso.
Bruno Elpis
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I racconti talvolta traggono spunto da (e distorcono) esperienze reali, ispirate dalla vita del docente e del cantautore.
Al primo profilo (quello dell’insegnante) appartiene un episodio nel quale Vecchioni, presidente di commissione d’esame di maturità, con sensibilità paterna combatte la caparbia volontà di autodistruzione di uno studente deluso (“Mi ha chiesto se Orfeo era sceso agli inferi più per sconfiggere i dèmoni che per riprendersi Euridice”) e lo induce a reagire facendo propria l’interpretazione che Cesare Pavese diede al mito di Orfeo nei Dialoghi con Leucò. In un altro racconto (Il biliardo di Chomsky) il compositore di “Luci a San Siro” (canzone della quale in questo libro viene narrata la genesi) affronta la confessione di un altro studente, che confida al professore, esperto di tragedie greche, di essersi innamorato… della sorella.
Quanto alla seconda dimensione ne “La barzelletta di Dio” l’artista (“Quello di oh oh cavallo?”) ricorda il divertente equivoco nel quale incappò in occasione di un’audizione dal papa.
L’opera potrebbe essere assimilata a un diario intimistico, spesso sdrammatizzato, dei rapporti con i familiari. Ci sono tutti: i figli, la moglie, la mamma e il padre Aldo che in “Duplice accoppiata” scrittura il figlio (“Noi Vecchioni”) per un’impresa improbabile: recuperare un biglietto vincente incautamente buttato nell’ippodromo di Anagni…
Giudizio finale: autobiografico, prosastico e poetico al tempo stesso.
Bruno Elpis
La lontananza sai è come il vento…
Dove troverete un altro padre come il mio di Rossana Campo è il romanzo che si è aggiudicato il Premio Strega Giovani 2016, decretato dalla giuria di cinquecento studenti.
Con quest’opera l’autrice ripercorre il rapporto con un padre difficile: brigadiere destituito e rimasto senza lavoro, spirito inquieto, inaffidabile e originale, padre affettuoso e sopra le righe (“Sei stata concepita sopra a un tavolo da biliardo”), causa di instabilità familiare (“L’amata moglie che comunque, anche se in gamba e bella come un’attrice, un chiaro difetto ce l’aveva, che continuava a rompergli il cazzo sul bere”) che ben presto si fa insostenibile: “Renato comincia a bere in modo diverso… come se si volesse cancellare dalla faccia della terra, o come se volesse dimenticare il mondo, spegnere il cervello, i ricordi, annullare tutto”.
Eppure… eppure, questo padre è speciale, la figlia lo assimila (“Tu Rossanì, sei come me, non c’è verso di farti accettare la disciplina”), in lui s’identifica e in lui (“Mi sentivo certe cose dentro che mi toglievano ogni allegria”) riconosce anche il proprio disagio esistenziale (“Ho continuato la litania di insulti e imprecazioni e poi mi sono messa a ridere da sola, perché ho riconosciuto che si stava facendo strada il Renato che mi porto dentro”). Un padre che sino all’ultimo sa essere sorprendente (“Renato ci ha lasciato una piccola eredità”), per questo amato, compreso, rimpianto e ricercato dopo la morte.
Giudizio finale: irrequieto, destabilizzante, coinvolgente.
Bruno Elpis
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La normalità è solo questione di postazione
Le streghe di Lenzavacche risalgono al XVII secolo: furono oggetto di persecuzione, come documenta Simona Lo Iacono nella seconda parte del romanzo in un apocrifo carteggio della superstite della strage.
Nonna Tilde e la figlia Rosalba sembrano discendere da questa dinastia maledetta (“Io e Tilde eravamo le eredi di una stirpe di indovine, avevamo una casa di memoria incerta, dominata da dicerie e misteri…”). Vivono ai margini del villaggio siciliano, senza rispettare le regole sociali di un lembo di Sicilia che è vivace miscuglio di credenze, mentalità e passionalità. Unica frequentazione: lo strampalato farmacista Mussumeli.
Poi Rosalba partorisce Felice (“Così inadatto a vivere”), figlio dell’arrotino detto “il santo”: un bambino speciale sia perché sfortunato nella nascita (“Felice, nipote sciancato e senza angeli”), sia perché ha un’indole sognatrice e incline alla fantasia. Il suo destino confluisce in quello di Alfredo Mancuso, il giovane maestro giunto a Lenzavacche nel 1938, che rifiuta i metodi fascisti di una didattica asservita al regime (“Oggi il direttore mi ha detto come comportarmi con l’insegnamento della storia”).
Il tema della diversità (“La normalità è solo questione di postazione … varia a seconda della trincea dietro la quale ci acquattiamo”) è rappresentato con una narrazione sospesa tra la fiaba e la denuncia sociale (“La mia capacità divinatoria non è magia. Solo abitudine alla lettura”).
Giudizio finale: mitologico, immaginifico, diverso.
Bruno Elpis
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Dio non gioca a dadi con l’universo
Possibile che la poesia abbia le stesse intuizioni della scienza?
A questa domanda risponde affermativamente Marco Mavaldi ne “L’infinito tra parentesi”, constatando che in ultima analisi letteratura e scienza in fondo sono animate dalla medesima tensione verso l’infinito e l’assoluto (“L’unico calcolatore della vita è la vita stessa”).
Il ragionamento si sviluppa raffrontando opere letterarie e discussioni scientifiche (“Ci si cominciò a chiedere … se l’Inferno dantesco potesse esistere o meno”) e l’occasione di questo fecondo raffronto si concretizza nella scelta di alcune poesie (come la bellissima “Invernale” di Guido Gozzano) per commentare teorie (“Impossibile capire se si rompe il ghiaccio”) e strutture (“In fondo, anche un orologio fermo segna l’ora giusta due volte al giorno”), citando perfino il numero di Deborah (la profetessa): “Anche le montagne fluiranno di fronte al Signore”.
L’intenzione è nobile, il messaggio interessante, i ragionamenti scientifici troppo meticolosi per chi come me ha eletto la letteratura a proprio interesse principale, lo stile alterno non disdegna cadute, inciampi e demistificazioni (“Se sputacaso – come diceva un allenatore di mio fratello…”).
Bruno Elpis
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Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi
Nel romanzo di Irvin Yalom, La cura Schopenhauer è il sistema che Philip Slate ha adottato per guarire dalla sua mania compulsiva: una sorta di satiriasi che in gioventù lo induceva a consumare rapporti sessuali su larga scala, in modo sfrenato e senza amore. Salvo poi rifugiarsi nelle letture (“Lettore vorace di classici, storia e filosofia: niente narrativa, niente attualità”), l’unica fonte di soddisfazione vera (“L’importante è avere il maggior tempo possibile della serata per leggere prima di andare a letto”).
Per questa patologia Philip era stato in cura da Julius Hertzfeld: quando a quest’ultimo viene diagnosticato un melanoma incurabile, lo psicoterapeuta ricontatta l’ex paziente che nel frattempo si dichiara guarito grazie alla filosofia di Schopenhauer, il filosofo che ha smascherato i trucchi e le rappresentazioni della Volontà.
Julius introduce Philip alle sedute terapeutiche di gruppo, per rilasciargli la certificazione utile all’esercizio della professione. Ma la terapia di gruppo innesca interazioni nuove tra i partecipanti, porta a galla le ossessioni e i peccati di Pam, Rebecca, Bonnie, Tony, Gill e Stuart. Anche perché Pam, in gioventù, fu vittima della sessuomania di Philip. Il percorso terapeutico sarà anche un modo per testare l’autenticità della guarigione e la tenuta della “cura Schopenhauer”, un rimedio che isola Philip e lo esclude dalla capacità di vivere rapportandosi agli altri (“Al club scacchistico… la prima volta che giocava fronteggiando un avversario dalla morte del padre”).
I capitoli-relazioni delle sedute del gruppo si alternano a quelli che illustrano biografia – un padre suicida, il difficile rapporto con la madre, l’incontro con Goethe, la rivalità con Fichte ed Hegel - e teorie di uno dei filosofi più pessimisti (“Questo mondo dovrebbe averlo fatto un Dio? No, piuttosto un demonio”), sociopatici e originali del pensiero contemporaneo.
“Lo smisurato appetito che spesso lo portava a consumare cibo per due (quando qualcuno glielo faceva notare, replicava che lui pensava anche per due), l’abitudine di pagare due pranzi per essere sicuro che nessuno sedesse accanto a lui, la conversazione burbera ma penetrante, i frequenti scoppi di malumore, la lista nera degli individui con i quali si rifiutava di parlare…”
Giudizio finale: psichico, interrelazionale, ispirato.
Bruno Elpis
P.S.: la teoria del velo di Maya non viene citata nel romanzo, e allora la cito io nel titolo…
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Hanno detto che ho tre idoli
Non sono un appassionato di graphic novel, ma devo ammettere che “Pasolini” di Davide Toffolo mi ha incuriosito e coinvolto.
L’autore-illustratore finge di realizzare un’intervista a tappe con il poeta (“La storia della mia vita è la storia dei miei libri perché sono uno scrittore”) e, in un percorso piuttosto aspro, finalmente trova una propria originale modalità per incontrarlo.
Tra i tanti spunti, ho trovato particolarmente intensa la rappresentazione di una delle ossessioni artistiche del poeta (“I maestri sono fatti per essere mangiati”), che viene ricondotta a un episodio dell’infanzia (“Guardavo un depliant di un film in cui era raffigurata una tigre che faceva a pezzi un uomo… sembrava che la tigre avesse già mezzo ingoiato l’uomo… Il primo film che vidi…”).
Interessante è la riproduzione della poetica neorealista (“Hanno detto che ho tre idoli: Cristo, Freud e Marx. In realtà… il mio solo idolo è la realtà”), che caratterizzò una fase della produzione cinematografica di PPP (“Piuttosto che esprimere questa realtà attraverso simboli, che sono le parole, ho preferito il cinema che esprime la realtà attraverso la realtà”).
Anche l’assassinio di Pasolini viene proposto da una visuale originale: “La morte determina la vita. La vita acquista un senso solo quando è finita. La morte produce un immediato montaggio, come nel cinema, selezionando solo le azioni che hanno un senso”.
Giudizio finale: iconografico, sofferto, stimolante.
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Voglio diventare una farfalla
La felicità dell’attesa di Carmine Abate è rimandata, di generazione in generazione, nelle pagine che ripercorrono partenze e ritorni, emigrazioni e viaggi, speranze e disillusioni, promesse e smentite.
Il capostipite è Carmine Leto: torna dall’America sposato a una creola e, a Hora, paese natale del crotonese, fonda villa Shirley e la sua dinastia. Abile capomastro, incappa in due loschi figuri, i fratelli Malvasia, che sono causa della sua morte.
Protagonista del romanzo è il figlio Jon (“Jon Leto non avrebbe mai tradito impunemente un sogno”), che emigra una prima volta con intenti vendicativi (“Era partito alla ricerca dei micidianti del padre”) e in America s’innamora della leggendaria Marylin Monroe (“Quando muoio, voglio diventare una farfalla”), non ancora famosa (“Jon, lo sai che assomigli sempre di più all’attore Clark Gable?”), ma già inquieta. E bellissima.
I viaggi saranno quattro (“La prima volta era partito per odio, la seconda per amore, ora partiva per lavoro”), Gustino Malvasia intanto perisce (“Lo hanno trovato morto l’altro ieri ma noi non c’entriamo niente”), ma Jon resterà legato al suo sogno d’amore per l’intera vita.
Sul letto di morte di Jon, la saga familiare si dipana tra flash back e presente, nascite, matrimoni e tragedie, come quella del fratello Leonardo nella parrera, la miniera di zolfo.
Il romanzo abbonda di situazioni e riflessioni. Inevitabile comparare il nostro passato recente di esuli (“La terza a partire fu Franceschina Leto, destinazione Australia”) con il tragico presente in cui appariamo meta per gli emigranti.
Lo stile di Abate mescola saggezza popolare (“Tutto si giusta in questo mondo, fuorché la morte”), espressioni in albanese arbëreshë e in calabrese sulla filigrana del sogno americano (“Nella sola East Harlem vivevano ben centomila italiani”).
Giudizio finale: epopeico, arbëreshë e hollywoodiano.
Bruno Elpis
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Perché sono sopravvissuto?
L’Incubo che occupa le pagine dell’ultimo romanzo di Wulf Dorn è quello di Simon, un adolescente che ha subito lo choc della perdita di entrambi i genitori in un tragico incidente d’auto.
Uno strano senso di rimorso (“Perché mi sono salvato? Mi sento colpevole”) si combina ad altre paure nel complicato profilo psicologico di Simon (“Forse dovrei lasciare il foglio bianco, pensò. Sarebbe stato il modo migliore per descrivere la sua paura del vuoto, dell’abbandono, della solitudine”), che – dopo la psicoterapia – deve affrontare nuovi, forzati cambiamenti imposti dalla sua condizione di orfano destinato al collegio (“Un’altra decisione che Tilia e Michael avevano preso a sua insaputa”), in una lotta nella quale è solo, tra tanti lupi, legato al fratello Michael (“ironico e insolente”), che sta per trasferirsi con la fidanzata, e con una sola amica: Caro…
Sarà anche per questo che un sogno ricorrente terrifica il giovane protagonista: una porta nel bosco… se riuscisse ad aprirla forse potrebbe vedere cosa nasconde…
“Pianse a lungo. Lasciò che tutto uscisse da lui, gli faceva bene. Intanto stringeva al petto il libro di fiabe.”
Il lupo della cover non assomiglia anche a un coccodrillo?
La lettura della realtà è sempre ambivalente.
L’attacco del romanzo è potente, la parte finale è sorprendente, forse intuibile da chi ha letto “La psichiatra”. Nel mezzo ci sta la foresta, un hotel abbandonato che riecheggia Shining, tanti sospetti e alcuni sospettati.
Giudizio finale: incatena, coinvolge, commuove con i due paragrafi finali.
Bruno Elpis
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Perché cantate, tremate e piangete?
Antonio Moresco pronuncia “L’addio” in una storia tetra e martellante tanto nello stile narrativo enumerante azioni quanto nell’incalzare degli interrogativi pseudo-filosofici.
La città della morte e la città della vita sono in contatto tra di loro, non si sa bene quale sia il prius, quale il post.
Le scene iniziali si svolgono nella città dei morti: l’oltretomba assomiglia tanto al nostro mondo, ma è afflitta da una litania straziante (“Tutta la citta dei morti era percorsa da un coro verticale di voci di bambini morti”) che induce D’Arco, poliziotto trapassato nell’affrontare il caso dei serial killer nubendi (!), a tornare nella contigua città dei vivi per estirpare l’origine del male (“Perché cantate e intanto tremate e piangete?”).
Con lo sguardo atono (“Perché lei ha gli occhi bianchi”) e un aspetto niente affatto rappresentativo (“Il mio corpo pieno di ferite cicatrizzate ricevute durante le azioni condotte nella città dei vivi”), pilotato da un bimbo che non parla ma scrive (“Ti porto io sono qui per questo”) e conosce i luoghi ove si annidano i persecutori, il vendicatore dei bambini ingaggia una vana missione punitiva, compie una strage di persone malvage dedite ad abusi ed espianti d’organi, passa da scannatoi alla reggia della luce (“Nella terza notte è avvenuto il combattimento con l’Uomo di luce e con le sue legioni”)…
Il clima è angoscioso (“Stava già camminando sui suoi alti trampoli”), le descrizioni metropolitane sono asfissianti (“Siamo entrati in un anfiteatro che si apriva in mezzo a un cerchio di torri ancora di nudo cemento e ferro”), il lettore s’interroga (ma chi li sceglie questi finalisti dello Strega?) e chiede tregua a un autore che si sente investito – anche lui come D’Arco – di una missione tanto salvifica nelle intenzioni (“Non voglio inorridire nessuno, non voglio scandalizzare nessuno”) quanto inane nell’esito.
Peccato, in passato avevo apprezzato la poesia inquietante de La lucina!
Giudizio finale: finalista?, lugubre, ipossico
Bruno Elpis
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Mio fratello straariano, la sorellina sabauda
“Se avessero” di Vittorio Sermonti è un periodo ipotetico del terzo tipo di 200 pagine: “Il tema eponimo:… il che cosa avrei fatto, il chi sarei diventato se avessero sparato a mio fratello”.
Nel clima post liberazione il giustizialismo partigiano impazza (“A farla breve, Milano cadde come una pera nelle mani delle forze partigiane”): per camaleontismo italiano, prima tutti erano fascisti, adesso tutti non lo sono mai stati (fascisti). In seguito a una delazione, tre partigiani armati di mitra irrompono nella casa del narratore (“Mio fratello straariano… la sorellina sabauda… un carvanserraglio”). Cercano il fratello più grande, che ha un passato di amicizia con i nazisti (“Schutzstaffeln e comunemente si abbreviano SS”). L’interessato però convince i partigiani che stanno commettendo un errore…
Ne seguono ricordi dello scrittore (da balilla, “Andare alle adunate il sabato alle tre con quelle divisucce del cavolo scocciava a quasi tutti me compreso”), digressioni più o meno scanzonate (gli stupri ai tempi della guerra rappresentati in una barzelletta) e narrazioni su tempi passati (“Il gesto di arruolarmi era andato buco”) e presenti, descrizioni di crudeli pratiche di guerra (“L’aneddoto di un secchiello pieno di occhi visto da lui in Istria, occhi cavati… probabilmente dai titini alle popolazioni di lingua italiana”), racconti di amori.
Come ben sa chi si è destreggiato nella consecutio temporum ai tempi del liceo, il periodo ipotetico dell’irrealtà è insidioso e anche Sermonti, a parer mio, cade nelle trappole delle ipotesi del terzo tipo. Ma gli rimane un barlume di consapevolezza (“Qui mi accorgo che il soggetto, l’io che scrive in quanto io che è scritto, risulta piuttosto odioso…”), e se è in finale al premio Strega 2016 evidentemente non tutti hanno giudicato questo romanzo con la severità del sottoscritto. Anche sul piano stilistico, l’opera fa rimpiangere stili lineari, classici, non troppo sperimentali.
Giudizio finale: finalista?, estemporaneo, post neorealista.
Bruno Elpis
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Odiava Venezia (un indizio???)
L’essenza del seduttore: “Ha bisogno ogni giorno di sapere di esistere nell’adorazione degli altri, di chi gli dice sei unico, sei un signore, sei grande, sei bravo, sei, sei, sei..”
Mariapia Veladiano fornisce la sua personale concezione del dongiovanni in “Una storia quasi perfetta”. E, da donna, gli riserva un trattamento speciale.
Proprietario di un atelier di moda (“Quest’uomo è un dongiovanni”), agisce nel suo regno (“La nostra è una famiglia. Lei è già una di noi. E quando qualcuno della famiglia non lo si vede da un po’, si sente la sua mancanza”), ove si fa un gran parlare (“Zitellona che svapora la sua vita sulle tavole da disegno”). Va alla conquista di Bianca, una preda apparentemente cedevole (“È già capitato e se capitasse di nuovo non potrei continuare a vivere”), e ha movenze e linguaggio da adulatore, calcolatore ed esteta.
Si spinge nella tana di lei (“In sottofondo… Les ondes, di Francois Couperin”) e ivi incontra l’ostilità del cucciolo Gabriele.
Una gita a Venezia (“Odiava Venezia”), tanta acqua, fiori e piante in ogni dove.
Poi il ritiro di lui, la scomparsa di lei. La sorpresa a ribaltare ruoli di cacciatore e vittima.
Giudizio finale: ipnotico, acquatico, floreale.
Bruno Elpis
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Prestami le pistole
Il temperamento artistico e passionale di Werther si staglia sulla normalità di Albert, amico e rivale: a lui è andata in sposa la bella Charlotte, conosciuta nell’occasione di un ballo nel pittoresco villaggio di Wahlheim (“Non mi ero mai sentito così leggero, alato”).
La passione monta, alimentata dalla frequentazione della persona amata (“I bambini mi sono affezionati”) ed è contrappuntata dagli spettacoli di una natura che nei chiari di luna e nelle tempeste enfatizza l’infuriare della passione.
Nelle letture del giovane colto, Omero viene ben presto sostituito da Ossian, più idoneo a corrispondere a “I dolori del giovane Werther” dipinti dall’arte pre-romantica di Johann Wolfgang Goethe.
Dopo un vano tentativo di allontanamento, il ritorno al villaggio è foriero di ulteriori dolori. Gli ammonimenti di Lotte, alla moderazione e al contenimento della passione, sortiscono in Werther l’effetto opposto: del resto l’epilogo è stato abbondantemente tracciato nel primo (“Prestami le pistole… per il viaggio”) dei due libri che compongono l’opera, nel famoso dialogo tra Werther e Alberto sul suicidio.
Gli interrogativi sull’amore infelice sono fitti e densi. E senza una risposta.
“È dunque destino che dove un uomo trova la sua beatitudine lì pure deve trovare la sorgente della sua infelicità?”
Giudizio finale: epistolare, classico, furente.
Bruno Elpis
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I giorni della mia vera purezza
Il volume include due opere giovanili di Pier Paolo Pasolini.
Atti impuri
Tempo di guerra (“Dal cielo cadeva, lenta come se fosse di ovatta, una pioggia di fuoco, mentre i motori degli aeroplani assordavano… Viluta pareva proprio nel centro di quella spaventosa luminaria”): Paolo sfolla con la madre a Viluta e qui tiene lezioni (“Una ventina di giorni dopo cominciammo a far scuola ai ragazzi di Villuta, due dozzine in tutto”) a ragazzini che stimolano il suo desiderio omoerotico (“Nel suo sesso, c’era qualcosa, come dire, di priapeo…”). In questo ambiente pseudo-collegiale fiorisce l’amore per Nisiuti.
Sullo schermo paesano (“Nel mercato c’erano una giostra e altri baracconi. Venne sera. In un’aria da temporale, con gli amici e le amiche, volli andare a fare un sopralluogo in quella squallida sagra…”) si proietta il senso dell’impossibilità (“Ma Nisiuti non sarebbe mai stato mio, e a me non c’era altro amore che importasse che quello della carne”) nel contrasto tra purezza (“Ed erano quelli i giorni della mia vera purezza, della mia più buona e commovente gioventù: mai come in quei giorni ho amato il mondo e mi sono fatto amare”) e illiceità (“Non ho il senso vero del rimorso, della colpa, della redenzione: ho solo un unico senso del destino…”) del sentimento.
Amado mio
Nella campagna friulana (“Passato l’argine si entrava in una specie di grande spianata in fondo alla quale cominciava la grava, ossia l’immenso greto del Tagliamento”) Desi(derio) e Gil(berto) esercitano il loro influsso su una compagnia di ragazzi, verso i quali i due amici nutrono un interesse particolare (“Ma Iasìs dormiva, un sonno lontano, come il mare”). Quando l’egemonia dei leader sembra minacciata, i due organizzano un’escursione (“La gita a Caorle aveva ottenuto il necessario consenso”) che si trasforma in straordinaria esperienza collettiva e individuale. Nell’atmosfera lagunare (“Il borino… nasce lontano, al principio del mondo”) descritta da Pasolini in modo insuperabile, una gita in barca, il ritorno tra i canneti e la proiezione serale di un film con Rita Hayworth restituiscono un senso di appartenenza che ha la bellezza dell’illusione.
Giudizio finale: teocriteo, autobiografico, esplicito. Può turbare.
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Gioventù dell’altra riva del Tagliamento
I sogni del dopoguerra e un Friuli georgico impregnano le atmosfere de “Il sogno di una cosa” di Pier Paolo Pasolini.
Nella prima parte (1948) prevale la storia collettiva di tre giovani (“Da Ligugnana, Rosa e San Giovanni, che erano i loro paesi, senza sapere l’uno dell’altro, Nini Infant, Milio Bortolus e Eligio Pereisson…”) che emigrano – chi in Jugoslavia (“Così si spinsero lungo la spiaggia, a cercare un posto dove fare il bagno senza pagare”), chi in Svizzera (“Siamo arrivati in Svizzera di notte”) – alla ricerca di un benessere più illusorio che reale (“Io ero ormai annoiato di Anna Marì”).
Nella seconda parte (1949) affiorano le vicende individuali dei protagonisti sullo sfondo delle sommosse popolari (“I dimostranti cominciarono a dilagare in lunghe e disordinate colonne”) orchestrate dalle sezioni del partito (“Erano tutti in piazza, intorno al palazzetto dei conti Spilimbergo… che erano un osso duro”). In questo contesto sboccia l’amore acerbo e infelice di Cecilia (“Come un angioletto, con quelle due treccione che le incorniciavano la faccia da pecorella”) per Nini.
Neorealismo letterario, nostalgia per la terra friulana, interesse per gli entusiasmi giovanili e ideali socio-politici si fondono in un assolo armonioso, non esente da inflessioni poetiche (“Subito dietro cominciavano i magredi del Tagliamento e, ancora più dietro, il vuoto del greto del fiume, grande come un lago, contro le ombre delle montagne”).
Giudizio finale: pre-eretico e pre-corsaro, corale, bucolico.
Bruno Elpis
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Lottiamo entrambi contro rispettive solitudini
C'è la Letteratura con l'iniziale maiuscola, quella che annovera opere d'arte composte con parole che toccano le corde del cuore, catturano i viluppi della mente, conquistano la nostra sensibilità estetica. Poi ci sono i libri d'intrattenimento, quelli che consentono di distendere lo spirito e di trascorrere alcune ore in piacevole compagnia di personaggi inventati, nei quali ci identifichiamo in misura più o meno intensa… Tanto più se i personaggi non sono eroi e patiscono la solitudine. Lui in particolare è goffo, timido e soffre di complessi come l'aviofobia ("A tredici ore di aereo da qui?") e l'acrofobia ("Lei avanzò sul tetto di zinco dell'Opéra Garnier, scoprendo una vista magnifica di Parigi").
Alla famiglia dei libri scanzonati e d'evasione appartiene "Lei e Lui" di Marc Levy.
Lei è Mia, attrice inglese in crisi coniugale. Lui è Paul Barton, architetto americano e scrittore dal successo a macchia di leopardo, impegnato in un'improbabile relazione con la sua traduttrice coreana. Per uno scherzo degli amici di Paul, i due si incontrano a una cena nell'era delle relazioni propiziate dal web ("Oggi il solo modo di attirare l'attenzione è sorridere sullo schermo di uno smartphone…"). Ne derivano equivoci divertenti, ingenue bugie, dialoghi frizzanti, situazioni più o meno esilaranti. L'opera ricorda le commedie brillanti americane, tipo Vacanze romane, se non fosse che il romanzo è ambientato a Parigi nell'era di internet e sms…
Giudizio finale: ricreativo, dialogato, spumeggiante.
Bruno Elpis
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Sono stato un padre zimbello
La faccia delle nuvole di Erri De Luca è una pièce in tre atti, con protagonista la sacra famiglia evangelica.
Giuseppe (“La sua biografia sfuma nell’ombra larga del figlio”) vive il suo ruolo recessivo di padre, non senza sentimenti di colpa (“Sono stato un padre zimbello, come poteva rispettarmi?”).
Il presepe è una rappresentazione popolare espressa con inflessioni vernacolari (“Si affacciò alla capanna un primo pastore, chiese permesso. Come gli altri del posto, parlava meridionale”). La fuga in Egitto allude agli eventi tragici dei nostri giorni mediterranei (“Sarà arrivato al posto di frontiera e avrà chiesto il permesso di soggiorno. Provo a ricostruire il disbrigo delle formalità”).
Sulla prima parte aleggia un quesito pop: a chi assomiglia Gesù (“Basta con questa favola, nostro figlio non ha la faccia delle nuvole che cambiano forma e profilo secondo il vento”)?
Giudizio finale: talmudico (“La nostra indole ebrea di voler vedere miracoli e prodigi tutt’intorno”), pastorale, misterico.
Bruno Elpis
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La prospettiva di impugnare Excalibur
Il mondo dell’infanzia è fatto così. C’è il senso dell’avventura. Si posseggono abilità straordinarie – tipo parlare con gli animali e comprenderli- al punto che meritiamo di essere soprannominati
Merlo, Lepre, Tasso e Ranocchio. Si sfidano le punizioni dei grandi. Ci si contrappone agli adulti (“Sapevamo che i regnanti non avrebbero mai potuto condividere l’entusiasmo di noi esploratori”) che rappresentano un mondo alieno, governato da leggi proprie, spesso incomprensibili.
Così Merlo, Lepre, Tasso e Ranocchio invadono il vecchio mulino. Intervistano una coppia di archeologi, si perdono nel bosco, esplorano il fiume. E violano la tomba ove giace la mummia di un guerriero, trafugano un bracciale a forma di drago (“La prospettiva di impugnare Excalibur cancellò ogni dubbio”) e così risvegliano lo spettro del defunto. Ne seguiranno eventi dolorosi.
Un romanzo che è un po’ “Goonies”, un po’ “Stand by me”, con tanta nostalgia per un’infanzia che sarà seguita dalle ordinarie tragedie della vita.
Giudizio finale: spiritico, retroflesso, elegiaco.
Bruno Elpis
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Laura non c’è
«Laura non c’è,
è andata via,
Laura non è più cosa mia…»
così gorgheggia la canzonetta.
“È scomparsa in modo misterioso Laura Garaudo, moglie del notissimo romanziere Mattia Tondini.”
“Laura, perché te ne sei andata?”
“Era il suo modo di amarmi”,
così annota Andrea Camilleri.
Proprio come nelle canzoni d’amore, Laura ha un profilo adatto a far disperare l’innamorato di turno: è bellissima, volubile (“Diceva che aveva il ghibli… quando non aveva voglia di fare niente e se ne restava per ore a letto a guardare il soffitto”), sensuale, infedele (“Laura è facile alle infatuazioni”), ambigua (“Ognuno dei suoi amanti mi farebbe di lei un ritratto diverso”), irraggiungibile (“Era soprannominata Noli me tangere”).
Cosa si nasconde dietro la sua sparizione (“Quindi lei suppone si tratti di un’altra messinscena?”)?
La chiave di lettura dei suoi gesti sembra nascondersi nel quadro del Beato Angelico che ha costituito oggetto della tesi di laurea (“Si è laureata a Bologna in Storia dell’arte con una tesi sul Beato Angelico. Centodieci e lode”).
Ho trovato intrigante la prima parte del romanzo, evanescente l’evoluzione, pregevoli l’intendimento dello scrittore e il suo messaggio.
Giudizio finale: curioso, figurativo, socio-mistico.
Bruno Elpis
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Civiltà capace di tollerar una profanazione simile
Tom sta per concludere la sua vacanza.
Deve tornare al college di Buenos Aires, ove insegna.
Nel corso dell’ultima passeggiata sulla spiaggia di Punta del Este, Uruguay, s’imbatte in uno spettacolo di morte: numerosi pinguini, incappati in una macchia di petrolio, giacciono senza vita, soffocati dal catrame. Tutti morti. Tutti morti, tranne uno.
Come salvare l’unico sopravvissuto (“A quei tempi non c’era la possibilità di cercare su Google «come si toglie il catrame da un pinguino»”)?
Comincia così la storia di un’amicizia inconsueta (“Non potevo abbandonarlo e lasciare che se la cavasse da solo dopo che aveva dimostrato tanta riluttanza sulla strada”) e intensa.
Il pinguino ovviamente non parla, ma racconta con gli occhi (“Te l’avevo detto, gli uccelli marini non possono sopravvivere se li lavi con il detersivo”) e capisce tante cose.
E soprattutto ha una capacità che molti uomini non hanno: sa ascoltare. Ben presto diviene l’idolo del college, il confidente di molti, la mascotte della squadra di rugby, l’occasione per risolvere i problemi di un ragazzo emarginato...
Intanto Tom compie un invidiabile, poetico itinerario attraverso i luoghi più belli dell’America Latina e s’interroga su quale sia il futuro più adatto per il suo nuovo, impareggiabile amico.
Lo zoo di Buenos Aires?
Il mare aperto?
Confesso di essere stato fuorviato dal titolo, nel quale si annida un intelligente inganno. O forse no.
La storia è semplice, adorabile, allarga il cuore, lo restringe, lo fa pulsare. Cattura chi abbia desiderio di natura e di buoni sentimenti, chi voglia sognare che siamo ancora in tempo…
Giudizio finale: a tratti ironico (“Mi serviva un pinguino tanto quanto a un pinguino serve una motocicletta”) e malinconico, ecologista, antropomorfico.
Bruno Elpis
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Un gioco… L’assassino si diverte
Giocare all’assassino. Si può. E ci si diverte. Soprattutto se si pigliano gli indiziati (“Il signor Parravicini si truccava la faccia”), li si rinchiude in un ambiente sigillato (“Il telefono non dà nessun segnale”) e si impedisce che da lì possano uscire.
Se queste sono le premesse, ovvio, ci può scappare anche il morto. Ma tant’è. In fondo anche il secondo delitto (il primo è stato commesso a Londra) può aiutare a risolvere un enigma (“Erano tre ragazzini, vero?”) che ha tanto di colonna sonora (“La sigla musicale dell’assassino”) e un inquirente piombato nella camera chiusa nel bel mezzo di una bufera di neve: il vispo Sergente Trotter della squadra investigativa di Londra.
Nella raccolta figurano alcuni racconti brevi interpretati alternativamente da due vecchie conoscenze: Miss Marple ed Hercule Poirot.
Quest’ultimo è presente ne “L’appartamento al terzo piano”, (ove l’ometto baffuto fa luce su un delitto scoperto casualmente da un gruppo di ragazzi che hanno dimenticato le chiavi di casa: “Che ne direste del montacarichi per il carbone?”), in “A mezzanotte in punto” (un bambino viene rapito in modo rocambolesco e gli indiziati principali sono – manco a dirlo – i membri della servitù, su tutti l’immancabile maggiordomo: “Alla fine… li licenziai tutti in blocco, governante compresa”) e ne “La torta di more” (qui il puntiglioso Poirot indaga sulla morte apparentemente naturale di due anziani gemelli: “Stranamente, sono morti entrambi lo stesso giorno”).
Chiude la serie un racconto con il colonnello Melrose, “Gli investigatori dell’amore”: due amanti si autoaccusano e si scagionano, entrambi, dell’assassinio del povero… cornuto!
“Credo che al signor Quin interessino… gli innamorati. Arrossì nel dire quell’ultima parola che nessun inglese riesce a pronunciare senza imbarazzo.”
“Tutto questo sullo sfondo di Alerway, la Alderway che esisteva sin dai tempi di Enrico VII…”
Giudizio finale sui topolini ciechi: vittoriani (“Che magnifico periodo deve essere stata l’epoca vittoriana!”), musicati (“Una canzoncina abbastanza macabra… Ma ai bambini piacciono gli orrori”), aggraziati da freddure (“La signora Boyle, ad esempio, non mangia più”).
Bruno Elpis
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Ricciardi come Paride
In questa avventura il commissario più bello, dannato e impossibile del trentennio affronta una vicenda che rimane sullo sfondo: cosa induce un nobile decaduto ad autoaccusarsi dell’omicidio di uno strozzino, se la moglie è pronta a giurare che – quella notte maledetta - il conte Romualdo Palmieri di Roccaspina si trovava nel proprio letto (“Era a casa a dormire, una volta tanto”)?
La scena è dominata dalle peripezie sentimentali del commissario Ricciardi (“Pensava… che con quegli assurdi occhi portasse pure un po’ di iella…”), qui occupato nell’impresa che già impegno' Paride ai tempi della mela che poi venne ribattezzata pomo della discordia.
I suoi favori andranno alla bellissima contessa di Roccaspina?
O piuttosto alla mondana Livia?
O forse alla contrastata e introversa vicina di casa, quell’Enrica che viene assediata da un gerarca nazista?
E se il sottotitolo di Anime di vetro recita “Falene per il commissario Ricciardi”, riuscirà “quel cilentano taciturno e un po’ sinistro…” – anche attraverso i divertenti siparietti tra Bambinella e il brigadiere Maione - a tener lontane dalla fiamma quelle falene così irresistibilmente attratte da una luce che può essere la loro morte?
Giudizio finale: trasparente, sentimentale, mitologico (?)
Bruno Elpis
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Mi riprenderò la fattoria
“Il grande male” di Georges Simenon è un delitto atroce, compiuto dalla vedova Pontreau ai danni del genero epilettico Jean Nalliers. Il bieco fine dell’atto criminale è impossessarsi della fattoria che il poveretto ha portato in dote quando ha sposato Gilberte, una delle tre figlie che la vedova soggioga e amministra con personalità dominante e fiera.
La finalità viene raggiunta nonostante la sconclusionata e alcolica reazione (“Mi riprenderò la fattoria, perché è mia, perché l’ho regalata a mio figlio e mio figlio sono io! E vedremo se quelle megere…”) del padre di Jean (“Ho comprato la fattoria per centocinquantamila franchi un anno fa…. Gliene darò ottantamila”).
Al delitto assiste la Naquet, la domestica un po’ matta che, nel romanzo, si muove in modo tetro (“Vide la bassa sagoma nera della Naquet, il suo ombrello”) e con finalità imperscrutabili (“Di nuovo la Naquet! Viene fino a casa e non entra. Cosa vorrà mai?”), se non pazzesche. Il caso si complica quando un bracciante, Gérard Noirhomme, confessa di essere l’autore del delitto, istigato dalla Pontreau. La provincia insorge contro la donna e ne accentua l’isolamento…
Il romanzo vive dell’atmosfera mista, agricola e marittima, tra coltivazioni di mitili e campi trebbiati dell’Atlantico francese, nella magistrale rappresentazione di un matriarcato tenace al quale le tre figlie oppongono diverse, drammatiche reazioni.
Giudizio finale: spietato, matriarcale, incisivo.
Bruno Elpis
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Pentagramma del musicista, pagina bianca del poeta
Paolo Maurensig assume il gioco degli scacchi per rappresentare la “Teoria delle ombre” e formula le proprie ipotesi romanzesche (“Lascio che la mente mi trasporti in quella lontana primavera del 1946”) sulla morte di Alexandre Alekhine, un campione sovietico per il quale il gioco non fu soltanto un mestiere, ma una vera e propria filosofia di vita.
Il passato ambiguo di Alekhine (“Per i francesi era un collaborazionista, per i sovietici un traditore”) e il suo presente di alcolizzato, autolesionista e doppiogiochista danno spazio a una ricostruzione artistica diversa da quella fornita dalla polizia portoghese, che archivia la morte del campione in modo sbrigativo e superficiale.
Mentre la scena europea è dominata dal processo di Norimberga, gli ultimi giorni di vita del campione scorrono malinconici sotto l’egida di un'incipiente amicizia con un violinista ebreo, tra passeggiate sino al faro, la comparsa di minacciose presenze (“E ora era comparso anche questo Boronov, guarda caso maestro di scacchi…”), qualche indizio inquietante (“Le due buste trovate sotto la porta”), una partita giocata alla cieca per avvantaggiare l’avversario e una festa che diviene un processo nell’immaginazione del protagonista.
L’allegoria degli scacchi è potente (“La scacchiera è stata il mio mezzo di espressione artistica: la tela su cui dipingere, il pentagramma del musicista, la pagina bianca del poeta”) e viene utilizzata con abilità sia per riflettere sulla vita (“Uno degli indicatori dell’arte è il rischio. Senza rischio non c’è alcuna creazione”) e sulla morte (“Ma giunge sempre il momento, pensò, in cui cadono tutte le nostre illusioni, e con esse anche ogni simbolo di protezione e di buon augurio: talismani, formule, preghiere, immagini sacre… ogni cosa. La morte si affronta liberandosi da ogni panoplia: si va senza armi, senza scudi né corazze. In essa si entra nudi come si era alla nascita”), sia per rappresentare una storia a sfondo mistery.
Tra l’altro, mi sono ritrovato in un dettaglio autobiografico, in una specie di gioco scaramantico che facevo da ragazzo, quando recandomi a scuola cercavo di non calpestare le fughe della pavimentazione stradale (“Per lui il suolo lastricato aveva un aspetto magico, le linee che delimitavano le lastre in porfido non dovevano essere calpestate mai, per nessuna ragione”).
Giudizio finale: lusitano, strategico, ombreggiato.
Bruno Elpis
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Eravamo bambini…
Gianrico e Francesco Carofiglio si congedano con “La casa nel bosco”, il luogo ove da bambini trascorrevano le vacanze.
Hanno messo in vendita la casa e insieme vi si recano per un ultimo, breve soggiorno.
L’esperienza sprigiona gli odori (“Eravamo noi a sentire gli odori perché eravamo bambini. Abbiamo smesso diventando grandi”) e i sapori (“Il maritozzo”) dell’infanzia.
Ed è l’occasione per riesumare ricordi (“Era il 29 agosto del 1973… Il giorno in cui scoppiò il colera a Napoli…”).
Così come la notte trascorsa insieme, al lume di candela, dopo tanti anni agevola confidenze e dialoghi nostalgici.
Con l’immancabile appendice ove i fratelli Carofiglio propinano ricette, questo libello non presenta per il lettore il medesimo motivo d’interesse che probabilmente riveste per gli autori.
Giudizio finale: semplicistico, commerciale, culinario.
Bruno Elpis
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- sì
- no
La sua arma è la paura
Al Solitude Creek di Jeffery Deaver si consuma una strage, causata più dal panico che dall’insano regista che ha simulato un incendio per diffondere il terrore tra i presenti.
L’eroina di Deaver, Kathryn Dance, qui agisce disarmata (“Niente pistola?”) per smascherare il folle (“… un soggetto sconosciuto, cioè, in gergo poliziesco, un sosco”) che sembra nutrire una passione patologica (“La sua arma è la paura”) che lo induce a scatenare fenomeni di paura collettiva (“Quando la folla prende il sopravvento. Diventi la cellula impotente di una creatura il cui unico scopo è sopravvivere”) in luoghi chiusi (“Enormi ascensori da ospedale erano un luogo perfetto per il gioco del panico”).
Purtroppo, la cronaca reale è ricca di precedenti simili…
In modalità molto americana, la trama porta a ricondurre tutto nelle trame della vittoria del bene sul male, ma la rappresentazione di quest’ultimo è sin troppo estesa e particolareggiata.
Completano il quadro l’indagine parallela su un’organizzazione malavitosa, le traversie dei figli adolescenti di Kathryn Dance, le vicissitudini amorose dell’investigatrice stretta tra due fuochi: ONeal, il collega di avventure poliziesche, e Jon Boling, un affascinante cyber-professore.
Giudizio finale: azionista, belligerante, mastodontico.
Bruno Elpis
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- sì
- no
Acronimo
L’acronimo è formato con i brevi prologhi al lessico dell’AMORE, proposto da Roland Barthes nei Frammenti di un discorso amoroso.
Festa – Il soggetto amoroso vive ogni incontro con l’essere amato come una festa.
Rimpianto – Provando ad immaginarsi morto, il soggetto amoroso vede la vita dell’essere amato continuare come se niente fosse.
Affermazione – Nonostante tutto, il soggetto amoroso afferma l’amore come valore.
Mostruoso – Il soggetto si rende improvvisamente conto di stare soffocando l’oggetto amato chiudendolo in una rete di soprusi: di colpo, da individuo sventurato che desta compassione, egli si sente diventare un essere mostruoso.
Mutismo – Il soggetto amoroso è angosciato dal fatto che l’oggetto amato risponda parsimoniosamente, o non risponda affatto, alle parole (discorsi o lettere) che egli gli rivolge.
Esilio – Decidendo di rinunziare allo stato amoroso, il soggetto si vede con tristezza esiliato dal proprio Immaginario.
Notte – Ogni stato d’essere che susciti nel soggetto la metafora dell’oscurità (affettiva, intellettiva, esistenziale) in cui esso si dibatte o si quieta.
Tenerezza – Fruizione, ma anche inquieta valutazione dei gesti di tenerezza dell’oggetto amato, nella misura in cui il soggetto comprende che egli non ne ha il privilegio assoluto.
Io-ti-amo – La figura non si riferisce alla dichiarazione d’amore, alla confessione, bensì al reiterato proferimento del grido d’amore.
Giudizio finale: letterario, strutturalista, appassionato.
Bruno Elpis
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Il profumo di un nuovo germogliare
La foresta in fiore è una raccolta di cinque racconti scritti da Yukio Mishima all’età di diciassette anni, in un esordio letterario che è considerato la fase romantica dello scrittore.
Nei primi quattro racconti - “La foresta in fiore”; “Otto e Maya”; “La luna sull’acqua” e “A futura memoria” – sono già condensati molti temi cari a Mishima: la tradizione degli antenati, l’indissolubilità che lega amore e morte, le complicanze delle relazioni, il senso incombente della morte della cultura nipponica.
L’ultimo racconto, “Diario di preghiere”, è forse il più accessibile ed è un’analitica rappresentazione dell’evoluzione sentimentale di due bimbi – Yumio (“Yumi in giapponese significa arco… due ideogrammi yumi (arco) e o”) e Yasuko – nel loro passaggio dall’infanzia all’adolescenza.
La ragazza, Yasuko, ha sofferto per un morbo (“La malattia aveva ridotto le mie gambe a oggetti del tutto estranei”) e si rapporta a genitori tra i quali prevale la figura materna (il padre è “genero adottivo ossia un uomo che sposato prende il nome della moglie. E ciò esercita … un effetto psicologico negativo sul suo ruolo di capofamiglia”).
La frequentazione attraversa la fase dei giochi e si svolge con situazioni simboliche. Come infilare la testa nella tana della volpe (considerata animale dai poteri magici). O mantenere il segreto del gioco dei pirati (“Più tardi su un grande foglio da disegno tracciammo una mappa con delle matite colorate”) nella casa abbandonata. Un tradimento reciproco allontana temporaneamente i due bambini, che qualche anno dopo si ritrovano al mare e condividono la scoperta del sesso sorprendendo nel bosco due ragazzi più grandi della comitiva. Un incontro serale nella casa di Yasuko pone la ragazza di fronte all’irrazionalità delle reazioni emotive e al dilemma di come confidarsi con la madre.
L’analisi dell’evoluzione sentimentale è minuziosa (“Da quel giorno mi sforzai a tal punto di scacciare dalla mente il sospetto che in me fosse avvenuto un cambiamento, che a poco a poco cominciai a perdere la spensieratezza che avevo avuto fino alla fine dell’estate. Eppure la malinconia che ora sentivo era diversa da quella che avevo provato nella stagione delle piogge, era una malinconia che mi spingeva in un abisso dove, tuttavia, avvertivo il profumo di un nuovo germogliare”) e coglie tutte le sfumature (“Il mio cuore sembrava frantumato come tante sottili spighe di riso selvatico sminuzzate”).
Nonostante la giovane età dello scrittore, i racconti non sono di facile lettura perché accolgono già tutte le potenzialità della complessità artistica di Mishima, che qui si arrocca nelle asperità adolescenziali.
Giudizio finale: analitico, immaginifico, complicato.
Bruno Elpis
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Come un feticcio amazzonico
“La testa perduta di Damasceno Monteiro” di Antonio Tabucchi prende spunto da un fatto realmente accaduto.
In modo fortuito il gitano Manolo, detto El Rey, ritrova un cadavere decapitato (“I bambini non devono vedere queste atrocità, si disse, nemmeno i bambini gitani”). Firmino, inviato speciale di un quotidiano di Lisbona, viene mandato a Oporto dal giornale per intervistare Manolo (“Una di quelle voci era balbuziente”) e occuparsi del caso.
Grazie ai suggerimenti di Dona Rosa (“È stata ritrovata la testa...”), la proprietaria della pensione ove Firmino alloggia, indirizzato dalle telefonate anonime di un testimone e imbeccato da un grasso avvocato (“Purtroppo a questo giovanotto non piace la trippa…”) che patrocina le cause dei più deboli, l’inviato speciale ricostruisce le oscure trame di un giro di droga che ha come burattinaio il Grillo verde, alias Titâno Silva, “sergente presso il commissariato della Guarda Nacional di Oporto”.
Il tema della tortura (“Il testimone… è sicuro che Damasceno è stato assassinato dalla Guarda Nacional”) e delle violenze inflitte dalla polizia (“La testa, quella spaventevole testa, era posata su un tavolo di marmo, come un feticcio amazzonico”) viene affrontato in modo intellettuale, letterario e originale attraverso gli stimolanti dialoghi tra Firmino e l’avvocato Don Fernando. “Ci possono essere persone che aspettano lettere dal passato, le sembra una cosa plausibile nella quale credere?”
Giudizio finale: filosofico, legal noir, iberico.
Bruno Elpis
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L’odore della mia vita
Sull’onda lunga del cinquantesimo anniversario dalla morte di Pasolini, appartiene al florilegio delle pubblicazioni su PPP anche “PPP Pasolini, un segreto italiano” di Carlo Lucarelli, un testo che reca impresso il marchio di fabbrica di un autore spesso protagonista dei programmi televisivi (“Parliamo della morte di Pier Paolo Pasolini, e non da un punto di vista estetico o letterario… ma criminologico”) a sfondo mistery e noir.
In questo libro Lucarelli formula la sua teoria sulla base di alcuni particolari che emergono dagli atti delle indagini condotte: su tutto, la convinzione che i tanti traumi rilevati dall’autopsia non siano compatibili con il profilo (soprattutto fisico) di Pino la rana, il ragazzo di vita condannato per l’omicidio del poeta (“La Corte di Cassazione … esaminati gli atti, conferma le condanne precedenti e l’esclusione del concorso con ignoti”): l’assassinio, dunque, non sarebbe stato consumato per tacitare la voce critica di un intellettuale (“Non si muore per un romanzo, non in Italia”)…
Rari sono gli accenni all’opera pasoliniana (“Questo odore della povera pelliccia di mia madre è l’odore della mia vita”), ambivalente la pur dichiarata ammirazione per PPP (“Se fosse così, tra noi scrittori di noir ci sarebbe una strage”).
Giudizio finale: massmediatico, celebrativo ma autoriferito
Bruno Elpis
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Viveva in un mondo di vetro…
“L’innocenza delle caramelle” è una raccolta di racconti nella quale è possibile saggiare le doti narrative di un autore generalmente noto come drammaturgo: Tennessee Williams.
Tra i racconti ritroviamo “Ritratto di ragazza in vetro”: una miniatura di “Zoo di vetro”, acclamata opera che narra di una ragazza timida (“Viveva in un mondo di vetro e anche in un mondo di musica”) oppressa da una madre dominante e ambiziosa.
Gli eroi dei racconti sono personaggi dalla vita ambigua, artisti scalcinati, efebi tanto belli quanto sfortunati, tragici eroi spesso minati dal vizio dell’alcol…
Come i protagonisti di “Lega a due”, un racconto che ha per protagonisti lo scrittore gay Billy (“Naturalmente, la corona della testa non si vede nello specchio… ma non si può negare che la sommità della testa di un finocchio è una zona molto in evidenza in certe occasioni che non mancano d’importanza”) e la prostituta Cora (“Cora era un’alcolizzata”), protagonisti notturni (“notti veramente buone non erano affatto rare come i denti di gallina…”) alla ricerca di avventure (“La notte era un grande incontro caldo e confortevole di gente, splendeva, sfavillava, faceva l’effetto di una dozzina di grandi candelabri, oh, era bella, bellissima…”), che finiscono con l’oltrepassare le soglie dell’amicizia (“Il sesso deve essere un po’ egoista per eccitare sul serio”) che li lega (“La prima volta fra due estranei può essere come una vampata di luce…”): un racconto soffuso d’ironia amara (“A Billy non piaceva affatto essere picchiato come piace ad alcuni finocchi”) e disincantata (“L’età rende le cose più brutte a un finocchio che a una donna”).
Giudizio finale: decadente, “sibaritico”, drammaturgico (“Un minuto è l’eternità vista al microscopio”).
Bruno Elpis
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La narrativa italiana non c’è più
Con Antonio Manzini ci chiediamo se l’editoria sia davvero “Sull’orlo del precipizio”.
Verrebbe da rispondere affermativamente se pensiamo a “Mondazzoli” e all’inziativa dei “libri distillati”…
Con questi spettri che aleggiano nei megastore ove noi lettori strong ci procacciamo “la roba”, è facile lasciarsi coinvolgere dalla tragedia che si abbatte su Giorgio Volpe, scrittore che ha vinto tutti i premi letterari ed è abituato a stazionare ai primi posti nella top ten dei best seller.
Perché la Sigma (“Ma tu sai chi sarà il proprietario di tutto il carrozzone?”) ha fagocitato le tre principali case editrici e con ogni mezzo intende dare una svolta all’editoria orientandola (rectius: asservendola) al mercato (“La narrativa italiana ora si chiama comunicazione in lingua indigena”): con tutti i rischi annessi e connessi, compreso quello di pubblicare i classici riadattati (“Vuole che le legga l’incontro tra i coatti e don Abbondio?” - “I coatti?”- “I bravi, dai.”).
Come può reagire Volpe alle imposizioni (“Tagliare tutti i capitoli su fascismo”) che ben presto si trasformano in ricatti e minacce? Forse smettendo di scrivere (“Il suo ego riuscirà a sopportarlo?”)?
Il racconto incalza al ritmo di una distopia surreale, con tanto di pagliacci, nani e ballerine (“Io – ndr: devo scriverne - una di ricette per una ex velina”). Surreale sì, ma nei paradossi è facile riconoscere la realtà…
Giudizio finale: grottesco, inquietante, amaro.
Bruno Elpis
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Lei lo tenne stretto a sé
L’abbraccio di David Grossman è una poesia narrata e illustrata, facilmente accessibile anche ai bambini.
Madre e figlio dialogano sull’unicità degli esseri viventi. Il figlio sembra sgomentato dall’idea che l’unicità porti come conseguenza la solitudine, in ciò quasi riecheggiando inconsciamente il sillogismo di Pasolini: “La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la mia solitudine, che è la mia debolezza.”
Tra voli di cicogne e processioni di formiche, nel profumo dei campi, la mamma finalmente trova il sortilegio per rassicurare il suo figliolo (e tutti noi):
“Lei lo tenne stretto a sé. Sentiva il cuore di Ben che batteva. Anche Ben sentiva il cuore della mamma e l’abbracciò forte forte.
«Adesso non sono solo», pensò mentre l’abbracciava, «adesso non sono solo. Adesso non sono solo».
«Vedi», gli sussurrò mamma, «proprio per questo hanno inventato l’abbraccio»”
Giudizio finale: fiabesco, apologico, riconciliante.
Bruno Elpis
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Tutti disancorati, tutti alla deriva
I “Cuccioli” di Maurizio De Giovanni sono una neonata abbandonata (“Un cucciolo randagio trovato tra la spazzatura in una città ribollente di odio e di violenza”), sono i bastardini di piccola taglia che misteriosamente scompaiono, sono le persone indifese che si suicidano (“In un certo qual senso quei randagi gli ricordavano i solitari, depressi anziani vittime dell’abbandono che da un po’ di tempo, nella zona, finivano male: per mano propria o altrui”) e che insospettiscono Giorgio Pisanelli detto “il presidente”.
Si occupano di queste trame i bastardi di Pizzofalcone, l’unità operativa che spera di sopravvivere dopo lo scandalo che ha travolto il commissariato.
I “bastardi” sono persone che hanno un conto aperto con la vita e che vengono efficacemente delineate (“Un pazzo violento che metteva le mani al collo dei sospettati; una mezza spostata fissata con le armi… un siciliano che forse passava informazioni alla mafia… una povera donna con un figlio minorato e un vecchio con l’ossessione dei suicidi”) da uno di loro, Marco Aragona, uno spaccone (“Si diceva che fosse un raccomandato…”) che tuttavia risulta simpatico e che non è insensibile – a modo suo – ai richiami del sentimento.
Francesco Romano (detto Hulk) ritrova la neonata abbandonata e, forse anche a causa di un incompiuto senso della paternità, si lega alla piccola che combatte in ospedale per sopravvivere (“Io sospetto una sepsi precoce da streptococco”), la veglia, la protegge con la forza dello spirito. Intanto i “bastardi” seguono tutte le tracce (“Alla fine della confessione, mi ha chiesto se rinunciando a suo figlio una madre andava all’inferno”) e non demordono.
Le vicende poliziesche dei sei personaggi principali s’intrecciano ai loro trascorsi personali e famigliari, ai loro amori e affetti presenti, secondo la logica della ricorrenza sceneggiata e fidelizzante, anche in vista della serie che dai romanzi verrà tratta per il piccolo schermo.
Giudizio finale: cantilenante, moderatamente animalista, televisivo.
Bruno Elpis
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Il linguaggio della verità non è verbale
Sabato pomeriggio: quando la vita rallenta e le idee si dilatano, malinconie e speranze prendono il sopravvento.
Ricordo distintamente il pensiero che, come l’autore di questo libro, ho fatto al termine di un volo Milano-Roma, quando tutti riaccendono gli smartphone e un concerto di cicale meccaniche e suonerie segnala messaggi ricevuti in quarantacinque minuti di volo (“Poi un giorno un semplice dettaglio lo portò a prendere una decisione…”).
Anch’io vivo nella gabbia (“Abbandonate la vostra gabbia, se è quel che desiderate”): dei desideri irrealizzati, delle tecnologie che non rappresentano opportunità ma strumenti di schiavitù, dell’insoddisfazione per una vita che fugge via nella dispersione di attività che non corrispondono all’essenza.
E allora penso a un luogo sull’oceano (“Aveva sentito parlare di un luogo remoto sulla costa peruviana, vicino alla linea dell’Equatore”), ove costruisco un nido: non una gabbia, ma un rifugio. Una casa di luce (“Se avete bisogno di un posto dove fermarvi a riposare, costruitevi un nido e fatelo diventare la vostra casa di luce e amore, dove risanare le vostre ferite e sentirvi liberi di chiedere perdono a voi stessi o alle persone che avete ferito”).
Lì, spogliato dalle abitudini e dalle convenzioni, coltivo pochi rapporti fondamentali: con Santiago, pescatore solitario, con la volpe Chiqui (“La volpe si avvicinò ancora e gli posò una zampa sulla gamba”), che tanto mi ricorda un’altra volpe, quella del piccolo Principe, con gli uccelli Sole e Luna e i granchi rossi che, brulicanti, ricoprono la battigia.
Lì comprendo il linguaggio universale (“E finalmente libero dalle catene che lo avevano reso infelice , si scoprì capace di comunicare non solo con gli animali selvatici, ma anche con i fiori e gli alberi”), quello che consente di comunicare con la Natura.
Lì, durante la stagione delle piogge, ascolto la mia musica preferita: uno stillicidio che sa trasformarsi in tempesta.
Poi nell’incontro con “i giganti gentili”, tocco il mammifero per eccellenza, gli parlo e ritrovo la mamma che mi è stata sottratta.
Lo so, è solo un sogno, l’ho fatto leggendo La casa di luce di Sergio Bambaren. Ma anche lì, il protagonista si chiama “il sognatore”
Giudizio finale: elementare, naturalistico, indimenticabile come un sogno bello.
Bruno Elpis
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Offriamo sogni ai giovani
La genialità letteraria proteiforme di Yukio Mishima trova in “Stella meravigliosa” un’originale – e forse impropria - declinazione fantascientifica.
La famiglia Osugi ha provenienza astrale e vive sulla Terra contemplando il cielo (“Su tutti i tetti della città le stelle splendevano come gentili gocce di fleboclisi”), cercando di avvistare dischi volanti e mantenendo fede a una missione particolare: diffondere la pace e salvaguardare il pianeta dalla minaccia nucleare, che ha già trovato le sue manifestazioni sia nella guerra (“L’America si è ormai macchiata d’infamia sganciando la bomba a Hiroshima. Sarà una macchia eterna per la sua storia”), sia negli esperimenti delle super potenze.
L’obiettivo viene perseguito dal capofamiglia attraverso una sensibilità straordinaria (“Inoltre il suo animo gentile ed educato gli rendeva difficile contemplare con indifferenza quel mondo dilaniato. La guerra fredda e l’inquietudine, un illusorio pacifismo, la gente che precipitava con meravigliosa velocità lungo il pendio di una falsa prosperità economica, un folle edonismo, la femminea vanità dei leader della politica economica mondiale, tutto ciò feriva le sue dita come un mazzo di rose messogli arbitrariamente fra le mani”) e con la propaganda in seno a un’associazione nella quale ben presto s’infiltrano loschi figuri (“L’associazione degli amici dell’universo… erano divenuti membri dell’associazione soltanto per spiare”), anch’essi di derivazione extra-terrestre, che hanno obiettivi opposti e distruttivi.
Per Mishima, la narrazione diviene occasione per intessere un pessimismo cosmico (“Era conscio dell’estrema vulnerabilità della sincerità e della bellezza”) venato di nichilismo (“Grazie all’interesse per la divinità l’essere umano è riuscito a evitare di trovarsi faccia a faccia con il nulla…”) e di un senso estetico atemporale (“La sublime bellezza delle iridi di questo ragazzo non pareva appartenere al mondo terrestre. Sembrava piuttosto una cristallizzazione del cielo notturno”), per manifestare sfiducia nel genere umano (“Il suo obiettivo è l’annientamento di sé e dell’altro”), per interpretare la realtà (“Il caso è semplicemente un fenomeno in cui una necessità superiore, che oltrepassa la comprensione umana e che di solito è accuratamente occultata, si svela per un attimo”) e il disagio storico anche in tonalità spaziali (“… avrebbe regnato un silenzio da pianeta morto. Ossia una perfetta eleganza. In quell’attimo la terra sarebbe divenuta una stella meravigliosa…”).
Giudizio finale: millenaristico, filosofico, galattico.
Bruno Elpis
“La Via Lattea scorreva bassa verso occidente, mentre sulle loro teste si snodava sinuosamente la costellazione di Idra. Il quadrilatero della Vela, che contraddistingueva il cielo meridionale in primavera, scintillava con una luce intensa, quasi a sfiorare le cime degli arbusti. E verso lo zenit la costellazione del Leone, rivolta a occidente, appariva sdraiata a contemplare il mondo, mentre la stella di prima grandezza Regolo volgeva il suo occhio luminoso sull’eclittica.”
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A causa della luna nuova
“La strana biblioteca” di Murakami Haruki è davvero bizzarra: nell’interrato nasconde un labirinto e una prigione, nella quale finirà il malcapitato protagonista (“Ma come facevo a scappare? Avevo una pesante palla di ferro attaccata alla caviglia…”), lì relegato da un vecchio demonio che ha oscuri e crudeli intendimenti.
Il racconto si svolge secondo il ritmo del sogno, con le stravaganze (“… è una cosa che succede in tutte le biblioteche. Più o meno”), le sorprese (“Era molto pallida, ed era diventata quasi trasparente…”) e il linguaggio che sono propri dell’attività onirica. Sull’incubo aleggia la paura di perdere la figura materna e un animale domestico (“E' a causa della luna nuova, - disse. – Ci porta via tante cose”).
Le illustrazioni di Lorenzo Ceccotti non riscattano quella che sembra essere più una trovata commerciale che un’opera letteraria.
Giudizio finale: onirico, astuto, costruito.
Bruno Elpis
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- sì
- no
Meteoragazzi con nuvole e arcobaleni
Chi sono “I ragazzi selvaggi” di William Seward Burroughs?
Posso tentare di rendere l’idea con alcuni aggettivi?
Sono aggressivi e felini (“Ragazzi-gatto foggiano artigli cuciti in spessi guanti di cuoio allacciati intorno a polso e avambraccio, e gli artigli curvi e cavi sono imbottiti di pasta di cianuro”).
Sono zoomorfi (“Ragazzi-serpente in sospensori di pelle di pesce nuotano fuori dalla baia. Ciascun ragazzo ha un serpente marino velenoso e maculato intorno al braccio).
Sono licenziosi, provocatori ed estetizzati (“Meteoragazzi con nuvole e arcobaleni e aurore boreali negli occhi scrutano il cielo”).
Cosa combattono?
“Intendiamo schiacciare la macchina poliziesca ovunque… Intendiamo distruggere ogni sistema verbale dogmatico. Il nucleo familiare tutte le sue appendici cancerogene sotto forma di tribù, paesi, nazioni saranno eliminati alla radice. Non vogliamo più sentire alcun linguaggio familiare, linguaggio materno, linguaggio paterno, linguaggio da sbirro, linguaggio da prete…”
L’opera non è tuttavia schematizzabile, rigurgita di allucinazioni e distorsioni psichedeliche, si svolge nel mondo intero ed è narrata con pdv mobile, cinematografico, addirittura per immagini di sale giochi catturate con il voyeurismo del peep show…
Giudizio finale: misogino, lisergico, sessantottino. Ai limiti della follia espressiva.
Bruno Elpis
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- sì
- no
Kino aveva trovato la Perla del Mondo
Che “La perla” di John Steinbeck sia un apologo a sfondo etnico lo si capisce dall’attacco: gli indigeni Kino e Juana sono disperati, il figlioletto Coyotito è stato morso da uno scorpione nella povera capanna ove spadroneggia la miseria (“Quel dottore non era della sua gente. Quel dottore era di una razza che da quasi quattrocento anni batteva e derubava e affamava e disprezzava la razza di Kino…”).
È quindi ovvio che il ritrovamento di una grossa perla rappresenti un’opportunità di riscatto dalla povertà e uno strumento per affrancare Coyotito dal futuro che lo attende…
O forse la perla, più che promessa di un domani migliore, è causa di sfortuna, come lascerebbero presagire le disgrazie che si abbattono dopo il ritrovamento del gioiello naturale?
E quella fuga tra sinistre avvisaglie (“I coyotes gemevano e ridevano nei cespugli, e le civette gracchiavano e fischiavano sulle loro teste”) e pericoli (“Mostruosi rospi guardavano la famiglia passare e giravano le piccole teste di drago”), dove mai porterà?
Una fiaba dal finale rovesciato, perché tutti vissero infelici e scontenti (“E la musica del male… risuonò col crepitio del calore e col tintinnare secco dei sonagli delle serpi”)…
Giudizio finale: tribale, aneddotico, fauvista.
Bruno Elpis
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Dov’è Nicky? Dov’è Fiolmena?
Full of life di John Fante si svolge nell’insolito triangolo composto da marito, moglie e… il papà di lui.
Abbandonata l’identità dell’alter ego Arturo Bandini, qui Fante interpreta se stesso e anche gli altri personaggi hanno i nomi reali: la moglie Joyce, il papà Nick Fante.
Joyce è incinta (“La voluttuosa rotondità che conteneva anche una parte di lui”) del primo figlio (“Il bambino si agitava come un gattino intrappolato in un gomitolo”). Quando cominciano le prime dispute sul sesso del nascituro (“Quel prezioso melone bianco”) e mentre la coppia si sta adattando alla nuova situazione che inevitabilmente modifica il rapporto tra i coniugi, un incidente (“Cominciò a visitarla. La caduta non aveva provocato danni… Mi freddò con un’occhiata. Si stava cominciando a stancare di noi”) causato dalle termiti (“Migliaia di mandibole minuscole, che si nutrivano della carne e del sangue di John Fante”) mina la già precaria tranquillità domestica. Per riparare il pavimento John decide di rivolgersi al padre ex capomastro, si reca dai suoi (“La mamma amava svenire. Lo faceva con grande maestria… La mamma amava anche morire”), convince il genitore a seguirlo (“Era il mio primo viaggio in treno con papà, e fu un incubo”) per occuparsi dell’intervento di riparazione (“Due settimane dopo, papà decise di cominciare i lavori in casa”). Nick si stabilisce dal figlio ove instaura un rapporto di complicità con la nuora: ne derivano situazioni paradossali (“Non avrebbe dovuto mischiare la calcina”) e comiche a non finire (“Estrasse di tasca il portafogli, e vidi nuovamente l’aglio, come una piccola fiammata marrone e stizzosa”).
Questo romanzo, forse, rappresenta l’apoteosi dell’originalità di John Fante (“Da quel buco venivano fuori cose malvage… una fuga convulsa di goffe blatte marroni”), inimitabile nel senso del grottesco (“Lei aveva gli occhi vitrei per aver letto troppo diritto canonico…”), unico nel rappresentarsi con autoironia e con vivace senso delle proprie radici (“il camino… per il nuovo Fante”).
Giudizio finale: chiaro, fresco e dolce. Come le acque del Petrarca, sebbene Nick all’acqua preferisca di gran lunga il vino (“C’era tutto il grande e vasto mondo sugli scaffali, ed era per mio padre)…”
Bruno Elpis
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Io, anzi noi
L’incontro di Michela Murgia ha diverse valenze.
È l’incontro che Maurizio realizza tra la propria soggettività e l’identità collettiva (“Noi, una parola che tutte le bocche declinavano in continuazione come fosse la spiegazione stessa del mondo”) di Crabas, ove il ragazzo trascorre le proprie vacanze nella casa dei nonni.
È l’incontro ludico con Giulio e Franco il rosso: in giochi ora spericolati (“Il racconto della morte delle merdone e della spedizione nella canala occupò praticamente tutta un’estate”), ora un poco crudeli (“Così se non prendiamo gli uccelli possiamo sempre giocare ai pirati”), ma sempre entusiasmanti e impregnati d’infanzia.
È l’incontro con una condizione forzata (“Intuire che cosa fosse l’orfanitudine senza lutto”), quando i genitori decidono di partire per il continente (“Papà guadagna più in continente, amore…”).
È l’incontro con il desiderio di preservare l’unità popolare, quando il borgo si spacca in due fazioni…
Attraverso la rappresentazione di riti, tradizioni e luoghi magici (“Lungo la riva dello stagno… parlarono di uccelli, conchiglie e anguille…”), Michela Murgia contrappone la purezza dell’infanzia ai meccanismi degli adulti, la pienezza del “noi” all’angustia dell’ego.
Giudizio finale: nostalgico, rurale, palingenetico.
Bruno Elpis
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Per il tuo sogno barocco
“La passione di Mademoiselle S.” viene sbandierata da Jean-Yves Berthault, curatore di quest’opera che attinge a piene mani da un presunto carteggio rinvenuto in un baule dimenticato (speriamo) da Dio e (avrebbe potuto rimanere tale!) dagli uomini, ove Simone – audace signorina della bella società parigina degli anni Venti – ha gelosamente custodito i suoi ricordi della travolgente relazione erotica che clandestinamente intrecciò con Charles, uomo (ma anche no, quando diventa la “mia adorata Lotte”, diminutivo di Charlotte) irrimediabilmente sposato a una rivale.
Simone ha appena il tempo di presentarsi come schiava d’amore (“… mi farai soffrire crudelmente, ma so anche con quale gioia riceverò la mia ricompensa”) a vocazione masochistica, e il lettore non ha neanche la possibilità di meravigliarsi della dimestichezza che Mademoiselle vanta con ausili che oggi supponiamo custoditi nei sexy shop, e già viene il tempo dell’inversione dei ruoli: “Sotto l’influenza delle nostre passioni, cambieremo sesso e avremo così doppio piacere, doppio godimento”.
Uno stratagemma per amplificare le possibilità del piacere (“In te ho trovato una creatura duplice: un amante meraviglioso, un’amante divina”)?
Nossignori. Sembrerebbero proprio tendenze omoerotiche belle e buone.
Quando poi l’evoluzione del rapporto sembra postulare nuove intrusioni, giunge il momento del dubbio cartesiano: “Perché cercate altrove ebbrezze diverse che certo non eguaglierebbero mai il nostro reciproco vizio?”
E così chiosa l’ineffabile Simone:
“Nemmeno io, tesoro, potrei tollerare una terza persona tra noi. Tollero appena la spartizione legittima del tuo corpo”.
Di fronte a tanta estroversione ed esuberanza amatoria (“Le mie più folli carezze dappertutto, dappertutto”), il curatore propone una sua razionalizzazione in una nota a piè di pagina: “Simone è soggetta a una forma grave di nevrosi isterica che la porta a divenire l’altro al punto da assumere il genere di Charles”.
Il tempo scorre (“… abbiamo un passato meraviglioso e un presente ancora appassionato, ma sai che temo l’avvenire”) tra (tante) fantasie epistolari, (pochi) incontri clandestini e alcuni momenti di distacco (“Perché non hai portato con te anche il mio corpo?”), il rapporto evolve in senso voyeuristico (“… le prossime foto… sarà follemente eccitante rivederle”) e si verticalizza in un incontro a tre nel quale Simone vuole coronare in modo autentico il sogno omoerotico del partner.
Il sagace curatore, in una delle ultime note, si preoccupa perfino di rispondere al mio atroce dubbio, anch’esso cartesiano: mi chiedevo perché mai nel baule vi fossero soltanto le lettere di Simone e non anche quelle del fortunato Charles. Trovate convincente questa risposta? “La consuetudine della buona società esigeva che al momento della rottura l’amante restituisse all’amata tutte le lettere che gli erano state indirizzate, per non rischiare di compromettere la reputazione della signora”.
Giudizio finale: pornografico, licenzioso, esplicito (alla faccia della bella società parigina!)
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- sì
- no
L’ultima madre che molti hanno visto
Tzia Bonaria Urrai è l’Accabadora di Michela Murgia.
Di giorno pratica l’attività di sarta (“In ginocchio con il metro di pelle si muoveva rapida come un ragno femmina”).
Di notte conduce una doppia vita (“Ha chiesto lui di me?”).
E interpreta un ruolo (“Io sono stata l’ultima madre che molti hanno visto”) che la vita (“Eroe era il maschile singolare della parola vedove”) e la collettività con le sue pratiche ancestrali le hanno assegnato.
Maria è una ragazza intelligente, rifiutata dalla madre naturale per una sorta di “aborto retroattivo”, manifesta il suo disagio con piccoli ingenui furti. Viene accolta nella casa di Bonaria come “fill’e anima”.
Quando scopre la vera identità di accabadora della propria madre adottiva, si ribella, insorge, fugge… salvo tornare per adempiere ai suoi doveri di riconoscenza nell’occasione dell’agonia della madre adottiva.
Ho trovato molto interessante sul piano etnologico la ritualità di una pratica primitiva (“Gli avete tolto le benedizioni di dosso?”), che in fondo pone gli stessi temi etici dell’eutanasia scientifica.
Altrettanto efficaci sono le rappresentazioni dei riti (“L’attittadora attaccò allora un pianto simile al canto”) e delle liturgie della Sardegna rurale degli anni cinquanta.
Lo stile (“Molte delle cose che accadono non sono che parodia delle cose pensate”) calza a pennello la storia narrata, che ha un notevole impatto emotivo per il tema trattato.
Giudizio finale: etnico, coinvolgente, problematico.
Bruno Elpis
L’uomo è il passato della donna
Serena Dandini ci ha fatto tanto ridere ai tempi di Avanzi. Oggi torna in veste di romanziera e rischia di strappare qualche lacrima (“La mamma… aveva previsto tutto, ma non la varietà della pianta. Elena fu felice di sceglierla per lei”) con “Il futuro di una volta”.
Perché i protagonisti del romanzo sono i reduci del Sessantotto (“Erano figli di un dio minore, ma di un pantheon psichedelico”), quei giovani che hanno sognato l’amore libero e una società fondata sull’immediatezza dei rapporti, magari vissuti nell’utopia e nella magia esotica delle spiagge di Goa. Quei giovani (“Non si sa come, erano riusciti a passare attraverso le forche caudine del terrorismo e dell’eroina, scivolando con grazia tra le strette feritoie che la politica e la droga avevano lasciato libere”), oggi ultrasessantenni che ancora vivono ripiegati su un sogno che le dinamiche storiche e sociali hanno negato.
La storia scorre su due binari paralleli: quello italiano della madre Laury e della figlia Elena (“Era stufa di proiettarsi in vite fantasiose che non erano la sua. Forse era arrivato il momento di buttarsi nella realtà”), espressioni di due generazioni contrapposte; il binario parigino di Yves (“Questo francese che possedeva uno yacht sulla Senna”), per il quale “l’uomo è il passato remoto della donna”. Un uomo misterioso, che – sfidando l’anagrafe – coltiva ancora un sogno d’amore (“E noi canteremo allo sposo il nostro cavallo di battaglia… You can’t always get what you want”).
Giudizio finale: nostalgico, moderatamente critico e soffuso d’ironia.
Bruno Elpis
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Non capitoli, ma lezioni
A chi si accinga a leggere Chirù di Michela Murgia - la storia di un’educazione sentimentale e professionale sui generis impartita da Eleonora all’aspirante violinista Chirù – rivolgo un avvertimento: fate attenzione alle parole in sardo contenute nella narrazione!
Sono peraltro convinto di non compiere un’azione di SPOILER se riporto l’ultima frase del romanzo: “Nelle orecchie e nella terra sentivo solo il rumore di una parola ossessiva che non smetteva di risuonare al ritmo inesausto del mio cuore. Una parola in sardo.”
Diversamente, il potenziale lettore potrebbe avere il mio destino: quello di andare – a lettura ultimata - alla disperata ricerca di questa parola nel romanzo, senza più ritrovarla… Salvo immaginarla, questa parola, per fornire l’interpretazione più autentica della vera natura dell’allievo Chirù.
Eleonora è un personaggio che non si lascia amare facilmente, neppure dal lettore: per via del suo essere così didascalica, pur nella ribellione di fondo che la caratterizza. Quasi avesse sempre la verità in tasca, pur nel relativismo del quale la maestra è assertrice.
Lo stile di Michela Murgia è imbastito di paradossi (“A decidere i tagli non è la stoffa”) e di psicologismi, alterna uno stile ricercato ed efficace (“Ci sono bellezze da cui è opportuno difendersi”) a parole troppo dure, quasi stonate, forse giustificate dall’infanzia dolente (“Un piccolo carrello da gelataio bianco e dorato”) di Eleonora, dalla sua esperienza d’indipendenza (“Che meravigliosa contadinella naïve!”) e dal tragico trascorso con l’allievo Nin.
Giudizio finale: tagliente, analitico, a tratti inverosimile (non che un romanzo debba essere necessariamente verosimile!).
Bruno Elpis
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Inquietante ma pur sempre ospite…
Chi (cosa) è L’ospite inquietante di Umberto Galimberti?
È il nichilismo, una terribile realtà, già denunciata dalla filosofia di Nietzsche (“Qui si esprime il fondamentale dato di fatto dell’umano volere, il suo horror vacui. Quel volere ha bisogno di una meta. E preferisce volere il nulla, piuttosto che non volere” - F. Nietzsche, Genealogia della morale), che oggi alberga in pianta stabile negli adolescenti e nei giovani dei giorni nostri.
Sarebbe forse più facile contrastarla se si trattasse di un problema psicologico: ma purtroppo il nichilismo patisce una circostanza aggravante, perché è una condizione culturale, quindi non individuale, bensì strutturale.
L’opera si snoda nell’analisi delle cause, delle modalità e degli effetti di questo pericolo immanente nell’odierna civiltà con interessanti spunti sul desiderio (“Il desiderio rimanda alle stelle: de-sidera”), la forza d’animo (“Oggi la si chiama resilienza, una volta la si chiamava forza d’animo, Platone la nominava thymoeidés e indicava la sua sede nel cuore”) contrapposta all’indifferenza, le sostanze psicotrope e i santuari delle inquietudini giovanili, il potere simbolico della techno-danza. Scattando efficaci fotografie ai fenomeni del gregarismo contemporaneo: la generazione q dal basso quoziente intellettivo ed emotivo, il silenzio degli squatter, i ragazzi dello stadio e la violenza nichilista…
Possibile che il principale rimedio sia quello indicato da chi ha per primo ha smascherato il nichilismo della società occidentale (“Tutto quello che non mi fa morire, mi rende più forte, scrive Nietzsche”)?
Giudizio finale: analitico, ospitale e inquietante al tempo stesso.
Bruno Elpis
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La verità è concreta?
Walter Siti emette “La voce verticale” della poesia e la registra in un’opera che propone cinquantadue e più poesie: una per ogni settimana dell’anno...
Ogni testo poetico è accompagnato dal commento critico nel quale Walter Siti propone la propria interpretazione analizzando stile e metrica, biografia dell’autore (Brecht - Primavera 1938: “Isola… danese di Fünen, dove - nel paesino di Svendborg - Brecht trascorse i primi cinque anni d’esilio dopo essere fuggito dalla Germania nazista… In quella stessa primavera Hitler visiterà Firenze e Montale ne sarà così colpito da scrivere La primavera hitleriana”; “Nella sua casa di Svendborg aveva inciso sul muro… la verità è concreta”), contenuti poetici.
La selezione attraversa la storia e la geografia: dagli antichi ai contemporanei, abbracciando molte lingue e nazionalità.
Giudizio finale: sinottico, ottima fusione di mestiere e sensibilità
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E così come Waletr Siti ha selezionato nell’universo della poesia, così io opero la mia scelta tra le proposte dell’autore de “La voce verticale”: Fernando Pessoa, un autore poliedrico (“Pessoa inventa molte maschere - i cosiddetti eteronimi - … si chiamano rispettivamente Ricardo Reis, Alvaro de Campos e Alberto Caeiro… Le poesie scritte da lui-lui - l’ortonimo - … rappresentano la poesia come ferita”), originale nella concezione (“Meno si esiste e più liberi si è”) e nell’esperienza poetica (“L’io è un incidente momentaneo”).
È una brezza leggera (da Poesie 1921-1930)
È una brezza leggera
che l’aria un momento ebbe
e che passa senza avere
quasi avuto bisogno di essere.
Chi amo non esiste.
Vivo indeciso e triste.
Chi volli essere già mi dimentica.
Chi sono non mi conosce.
E in mezzo a questo l’aroma
portato dalla brezza, mi affiora
un momento alla coscienza
come una confidenza.
Bruno Elpis
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I sogni: stracci di nuvole scomposti,inconsistenti
Con “La bambina e il sognatore” Dacia Maraini torna sugli argomenti che predilige: la violenza sulle donne, vigliaccamente esercitata anche quando le donne sono in tenera età, le ipocrisie sociali, le insidie di una cultura disseminata di morbosità (“C’è molta sensualità in queste bambine. Mi fa pensare a Balthus”) e pericoli.
La bambina è Martina, l’amata figlioletta del maestro Nani, morta per una malattia crudele che ha spalancato il vuoto nella vita personale e coniugale del papà.
La bambina è Lucia, rapita, forse violentata e uccisa, mentre si recava a scuola.
La bambina è Fatima, figlia di un’italiana e di un cambogiano, finita nell’inferno della prostituzione minorile di Phnom Phen.
La bambina è ogni bimba di questo mondo, che abbia i propri sogni calpestati dalla viltà di chi dovrebbe, questi sogni, coltivarli, innaffiarli, realizzarli.
Il sognatore è il maestro (“Sogni troppo e sono sogni senza capo né coda”), un anticonformista che sfida i pregiudizi sociali (“Lei gioca con l’immaginazione dei suoi alunni. È imperdonabile”) pur di trasmettere ai suoi piccoli studenti ideali e capacità critiche (“I pensieri si affollano, come gli uccelli sull’albero di Platone… c’è una memoria incisa nella pietra… una memoria impressa nel fango… e quella… in cui i ricordi sono uccelli che si posano su un ramo”).
E sognare è anche non rassegnarsi (“Ci si può liberare di un enigma risolvendolo… non seppellendolo”) dinnanzi a una sparizione di fronte alla quale persino i genitori hanno rinunciato.
Il nuovo romanzo di Dacia Maraini è emozionante, a tratti triste, a tratti speranzoso.
Giudizio finale: coinvolgente e lancinante come un grido di dolore pronunciato a fior di labbra.
Bruno Elpis
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Il posto che tutti conoscevano come Villa del Gufo
Gli specchi, da Biancaneve in poi, sono un sortilegio variamente utilizzato in letteratura. “Lo specchio nero” di Gianluca Morozzi è una metafora dell’enigma della camera chiusa, uno stilema che Agatha Christie ha utilizzato – ad esempio - nei “Tre topolini ciechi” e nei “Dieci piccoli indiani”, così come Poe l’ha interpretato con “I delitti della Rue Morgue”. Ma la camera chiusa è anche un ambiente letterario: come non ricordare Shelley, Byron e Polidori che in un ambiente chiuso sulle rive del lago di Ginevra si trastullavano leggendo i loro racconti orrifici?
Di tutte queste suggestioni Gianluca Morozzi è ben consapevole: le cita a piene mani, le elabora, e così costruisce il suo personale enigma della camera chiusa: “C’era una ragazza morta con la gola tagliata dentro una stanza con la porta chiusa dall’interno, e un uomo morto in un bagno cieco con la porta chiusa dall’esterno. L’unica persona viva tra quelle due porte era lui…”
Com’è finito in questo incubo il frastornato e psicanalizzato Walter Pioggia, autore dell’autobiografico “L’uovo del mondo” e editor alla Bandini, la casa fondata dal mecenate Ruggero?
È stato drogato durante un concerto (“Il concerto era gratuito… i Despero”) o è stato ipnotizzato? È il responsabile di un duplice delitto o è soltanto il capro espiatorio di una terribile vendetta?
Tutti i personaggi, naturalmente, sono guardati con sospetto. Compresa Isabel (“Io… ti ho inviato una cosa in lettura… Lo specchio nero”), autrice che riproduce la sua vita negli Oltrenauti…
L’incubo di Walter procede insieme alla storia di due adolescenti, Erik e Darko, che frequentano i sotterranei di una Bologna recondita e sotterranea nella quale dominano personaggi come Il Duca.
Giudizio finale: subliminale, stratificato, convergente
Bruno Elpis
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Esser parte del disperato splendore della vita
Per augurare “Buon Natale!” negli anni scorsi ho scelto libri a sfondo ecologico o dall’atmosfera disneyana. Quest’anno seleziono “Nessuno può sfrattarci dalle stelle” di Diego Cugia, un’opera che sa di favola e purtuttavia mantiene molti riferimenti alla realtà.
L’ultima notte nel casolare dal quale il creativo Massimo Pietro Cruz (“Il mio romanzo… parla… Di un bambino che incontra se stesso a sessant’anni per scoprire come sarà da grande”) sta per essere sfrattato è solitaria, carica di emozioni (“Il cielo era un ombrello d’oro”) e… sorprendente! Improvvisamente nella casa si materializza un bambino (“Era vestito d’estate in pieno inverno”): è vispo, acuto, curioso. Come il Piccolo Principe pone domande e lancia affermazioni di grande efficacia. E inoltre, al protagonista ricorda tanto qualcuno di sua conoscenza…
“Mi ha risposto con un sussurro: Massimo Pietro. Ma ero io a chiamarmi così!”
Poi la casa si trasforma in una grande festa…
Nessuno può sfrattarci dalle stelle.
Lì siamo al sicuro.
Lì realizziamo i nostri sogni.
Lì incontriamo i nostri amori. Gli affetti familiari. Mamma e papà.
Lì riviviamo la nostra infanzia e non tradiamo il nostro essere più vero.
È uno stimolo a trasferire le stelle dal firmamento alla vita di tutti i giorni.
“Tieni il tuo cuore aperto, sempre, anche se fa male, perché sei parte del disperato splendore della vita.”
Giudizio finale: struggente, visionario, agrodolce al punto che può far male…
Auguri!
Bruno Elpis
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