Opinione scritta da silvia71
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L'odore dell'India
Tre amici partono per l'India nel 1961 per un soggiorno di qualche settimana: si chiamano Alberto, Pier Paolo ed Elsa.
Si tratta di Moravia, Pasolini e Morante.
Pasolini affidò alle pagine del volumetto “L'odore dell'India”, il racconto del viaggio, raccogliendo tutte le immagini, i volti, i suoni, i colori e gli odori di un paese che lo colpì nel profondo.
Non si tratta di un diario su cui annotare in maniera sterile nomi di città, di templi, di fiumi, ma di un momento narrativo per incrociare il reportage alla riflessione personale.
Traspare tanta genuinità di sensazioni ed emozioni provate dall'autore, tanto stupore e meraviglia per le singole storie di vita delle persone in cui s'imbatte.
Un approccio sincero ad una cultura e ad un mondo che si collocano lontano dall'occidente, facendo scorrere la vita su binari differenti.
Pasolini abbandona subito le vesti di viaggiatore, calamitato dai visi che incontra per le strade, cercando di comunicare con un bimbo che lo segue per avere qualche spicciolo di elemosina o con un padre stremato dalla fatica e malato. Cerca la vicinanza della gente, cammina per le strade di Calcutta, Benares, Bombay, di giorno e di notte per osservare ed ascoltare.
C'è un uomo commosso tra queste pagine, consapevole degli stenti del popolo di cui è ospite, ma riconoscente per l'ospitalità e per l'occasione di crescita personale.
Un testo interessante che fortunatamente l'editoria pubblica ancora ; un testo utile per affacciarsi ad una finestra aperta sull'India di ben cinquant'anni fa, oggi che viene annoverata tra le potenze economiche in pieno sviluppo ma che è ancora piagata da enormi sacche di povertà e degrado come allora.
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Quella mattina a New York
“La rabbia e l'orgoglio” nasce come un articolo per essere pubblicato su Il corriere della Sera nel 2001, dopo la giornata nera dell'undici settembre.
Il pezzo giornalistico che nasce dalla penna della Fallaci, diventa un fiume in piena, un monologo acceso e senza veli contro tutto ciò è sotteso all'attacco terroristico più eclatante e bieco della storia moderna.
Si percepisce un'Oriana fortemente scossa, pur essendo una donna con un bagaglio di esperienze sulle spalle, accumulate nel corso di una vita trascorsa in zone calde del mondo.
La voce della Fallaci appare inizialmente stanca e delusa per poi caricarsi a distanza di poche pagine di rabbia, amarezza e rammarico per i compromessi e gli errori di politica nazionale ed internazionale di cui non condivide le scelte.
La bandiera che tiene alta è quella dell'amore e della difesa per la cultura occidentale, senza risparmiare accuse mirate alla classe politica di casa nostra ed alla Chiesa per la debolezza dimostrata e la mancanza di convinzione nella difesa e valorizzazione della nostra millenaria identità.
Si concreta come uno scritto crudo e diretto, a tratti eccessivo, dove appare una Fallaci diversa da quella conosciuta attraverso tutti i suoi lavori precedenti.
Forse troppa enfasi, seppure giustificata dai tragici eventi, forse troppo urlate queste pagine, pur riconoscendo all'autrice estrema chiarezza nei contenuti trattati e l'importanza indiscussa di tutte le citazioni riportate.
Non la migliore Oriana, tuttavia una lettura d'effetto per ricordare l'11 settembre 2001 e poter riascoltare la voce di una scrittrice memorabile.
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La terra dell'odio
Sebastiano Vassalli pubblica in questi giorni un piccolo saggio per ricordare i cento anni di storia dell'Alto Adige annesso all'Italia.
La data esatta del centenario cadrà nel 2019, ma l'autore si prepara con questo scritto che non ha la pretesa dell'esaustività, ma fissa i tratti salienti di un pezzo di storia politica e sociale complessa e dolorosa.
Per chi conosce Vassalli attraverso la lettura dei suoi precedenti romanzi, troverà tra questa manciata di pagine un volto prettamente giornalistico, lontano dalla colorata ed intensa vena narrativa che lo contraddistingue.
Spogliato della veste di narratore, l'autore fissa in tappe e volti precisi, il percorso storico dell'annessione e del post annessione di un popolo, le linee politiche succedutesi nei decenni, analizzando per sommi capi l'evoluzione della “questione Sud Tirolese” dal periodo fascista ai giorni nostri.
Scorrono in maniera veloce, senza scivolare in una eccessiva pedanteria politica, personaggi come Ettore Tolomei, voce del pensiero fascista e braccio esecutore in loco durante il Ventennio, Silvius Magnago e l'indipendentista Andreas Hofer.
La lettura de “Il confine” ha il pregio di ricordare uno spaccato importante della storia del nostro paese, divenendo ottimo strumento per i giovani di oggi che poco possono attingere dai testi scolastici sull'argomento. Naturalmente Vassalli offre degli spunti che devono essere trampolino per approfondimenti.
Come classificare il testo; una ricostruzione schematica degli eventi che hanno toccato l'Alto Adige, di facile lettura per un vasto pubblico, tuttavia per chi segue Vassalli da sempre, una volta giunti all'ultima pagina si viene colti da un senso di vuoto.
Manca il cuore, il pathos, manca quella vena calda che passa attraverso gli occhi della gente comune.
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Silenzio
Silenzio, solo silenzio.
Sfiorare il suolo del campo di Auschwitz fa male, fa rabbrividire.
Lo scorrere del tempo si è fermato in questa campagna polacca, riarsa dal sole nella stagione estiva e battuta da gelidi venti del nord nel periodo invernale.
Qua varcavano il cancello di ferro madri spaurite con una valigia in mano per contenere gli oggetti più preziosi e un bimbo da proteggere.
Uomini, giovani, adulti e anziani, resi inermi e segregati, selezionati sulla base dell'idoneità ad un lavoro bestiale oppure sterminati con metodi violenti, vessati come cavie, logorati dagli stenti e dalla fame.
Uno di quei visi che camminava tra i block del campo era quello di Primo Levi, tra i pochissimi sopravvissuti.
All'arrivo dell'armata russa quel cancello di ferro si apre; ne escono una manciata di denutriti e ammalati.
E' grazie allo scritto di Levi intitolato “La tregua” che conosciamo lo strazio del ritorno alla vita, dopo che gli occhi si erano riempiti di morte per mesi e mesi, dopo che le docce al ziklon B avevano assassinato migliaia di esseri umani, dopo che i forni crematori dei campo avevano bruciato montagne di corpi, dopo che la fame forzata aveva portato uomini donne e bambini ad una lenta agonia.
La penna di Primo Levi fotografa con minuzia e con grande cuore, il lungo percorso durato ben nove mesi per poter rientrare in Italia e riunirsi alla famiglia.
Un lungo viaggio attraverso un Europa falcidiata dalla guerra, ferrovie distrutte, villaggi rasi al suolo, il fisico minato dalla denutrizione e dalla malattia.
Il buio nell'anima e nel cuore, uomini che hanno negli occhi immagini indelebili.
Per alcuni il ritorno al nulla, niente casa e niente affetti, unici superstiti della propria famiglia.
Seppur meno letto rispetto a “Se questo è un uomo”, questa testimonianza è poderosa, per ricordare quello che fu “il dopo”.
Lo scritto è stilisticamente perfetto, tanto gradevole da leggere quanto duro è il suo contenuto.
Una lettura d'obbligo per ricordare, in silenzio.
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Daniele Cortis
Il romanzo “Daniele Cortis” si posiziona tra le opere meno lette ma più rappresentative di Fogazzaro.
Ritrovarsi tra le mani questo piccolo impolverato testamento letterario, ha ancora una valenza oggi?
E' talmente mutata la sensibilità e la visione del mondo da parte dell'uomo moderno che sorge spontaneo domandarsi se egli abbia la possibilità di percepire e cogliere quello che l'autore voleva trasmettere al pubblico ben un secolo fa.
Avvicinarsi alla lettura del testo richiede un pizzico di preparazione, almeno per contestualizzare il periodo storico fotografato tra le pagine, ricordando che gli scritti di Fogazzaro non possono essere disgiunti dal clima politico del tempo.
Siamo nell'ultimo ventennio dell'Ottocento, il panorama letterario propone il romanzo storico ed il romanzo realista, ma Fogazzaro vuole percorrere una terza via, quella del romanzo contemporaneo.
Anche “Daniele Cortis” è uno spaccato del tempo, una storia di vita politica che abbraccia una storia sentimentale.
Daniele è uomo politico, pregno di ideali e sogni da realizzare, per fondare una corrente innovativa che funga da elemento di coesione tra i monarchici ed il mondo cattolico.
Mondo complesso e fumoso quello politico, oggi come ieri, rappresentato con precisione e puntualità; un mondo in cui anche l'autore vuole credere, facendolo vivere in maniera intensa ai suoi personaggi, non senza complotti, bagarre e sconfitte.
Ma la “contemporaneità” cui ammicca Fogazzaro fa sì che la letteratura non tralasci il campo del sentimento, dove albergano passioni e struggimenti, relazioni lecite e illecite, rapimenti dell'anima pronti ad evadere dai binari della moralità ( del tempo).
Ad oggi, fanno sorridere le critiche mosse contro tali rappresentazioni di amori passionali, dandoci conto dei principi morali dell'epoca, qui cristallizzati ed incorniciati come ritratti datati.
Tutto l'intero romanzo è un bel dipinto, da contemplare senza fretta, concentrandosi sui particolari, immergendosi in un tempo che non c'è più, in atmosfere socio-politiche lontane, in vicende amorose delicate e suggestive.
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Malombra
Dopo “Piccolo mondo antico” Malombra è il titolo forse più conosciuto della produzione letteraria di Fogazzaro.
Se pensiamo che l'anno di pubblicazione è lo stesso de “I Malavoglia” di Verga, per chi legga entrambe le opere si manifesteranno le radicali differenze, portando alla luce un periodo letterario in cui scorrono in parallelo tante correnti.
Ogni autore percepisce il presente in base alla propria sensibilità e si fa portavoce dell'attualità e del contesto sociale alla propria maniera.
In Malombra l'autore vicentino infonde uno spirito prettamente decadente, innestando ad un nucleo
narrativo centrale più sotto-nuclei, generando un intreccio corposo ed un po' barocco, complicato e arzigogolato.
La forza trainante del romanzo sta tutta nel tormento amoroso, destinato a sfociare come un fiume in piena in follia, in tragedia, in annullamento psico-fisico.
I personaggi camminano sul filo sottile che divide lucidità e ottenebramento, sia esso dovuto a passione o a fede in un ideale, religioso o politico.
Non è agevole seguire i sentieri tratteggiati da Fogazzaro, uscire da una storia di vita ed entrare in altre, entrare in comunione con protagonisti diversi tra loro e travolti ciascuno da un destino inesorabile piuttosto cupo.
Cupe anche le ambientazioni, la natura, i paesaggi ed i palazzi, come fossero specchio dell'interiorità degli uomini che le vivono.
Oggi la percezione che si ha di un simile romanzo è fatta di numerose sfumature.
In primis è innegabile il valore di un simile scritto per ricordare un segmento importante della nostra storia della letteratura.
Interessante desumere dalla lettura la sensibilità di un autore che scava nelle passioni dei suoi personaggi, percorrendo le vie del cuore e della mente, attratto dal tema dello spiritismo e del mistero, senza tralasciare il sentiero tracciato dalla fede religiosa, esplodendo in un connubio dalle fattezze intricate.
Qualche passo del romanzo mostra una penna che perde di lucidità, assumendo connotati pomposi e ridondanti, quasi sentinella di una perdita di controllo della trama narrativa.
Ma contestualizzando il periodo socio-storico di cui è figlio, rimane un lavoro da conoscere e da apprezzare per gli aspetti letterari e sociali che può riportare alla luce.
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Oliver Twist
Leggere "Oliver Twist" è un'avventura rocambolesca tra sobborghi e vicoli di Londra e dintorni.
Solamente dopo aver seguito la voce del narratore lungo tutto il percorso, il lettore comprende il valore del romanzo.
Un romanzo dalle vesti estremamente moderne sul fronte del linguaggio e dell'esposizione, un romanzo che cogliendo lo spunto narrativo delle sorti di un piccolo orfanello abbandonato in balia del destino, esplode in una coralità di volti, luoghi e situazioni.
Chi si aspetta di ascoltare unicamente la storia del piccolo Oliver, rimarrà sorpreso nell'addentrarsi in una selva di figure "satellite" che diventano focus della storia così come il protagonista.
Ogni volto è indispensabile per fotografare la società del tempo, uomini e donne che popolano le strade londinesi nell'Ottocento; i benestanti ed i reietti, i signori col fazzoletto di seta nel taschino e l'orologio legato alla catenella ed i ladruncoli di mestiere, gli affamati che sbarcano il lunario con mestieri bestiali.
Il mondo di Dickens è popolato da onesti e corrotti, da gente malvagia e da gente di cuore; la penna dello scrittore è come un telaio pronto ad intrecciare le storie di vita degli uni e degli altri.
Un enorme gomitolo intricato come il destino e come la vita, a tratti si creano nodi difficili da sciogliere, nodi che fanno scemare la fiducia e la speranza, in attesa che sopraggiungano momenti più fortunati e la giustizia sembri riemergere.
Tra ingiustizie e nefandezze, tra disgrazie e colpi di fortuna, le avventure narrate da Dickens rimangono ancora oggi un testo letterario imperdibile, per la capacità di rappresentare la società del tempo e per la caratterizzazione di personaggi simbolo di vizi e virtù, non da ultimo per la forte presenza dell'autore tra le righe con la sua sagacia ed ironia di grande effetto per il lettore.
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Volti scolpiti in un diario
Ci sono titoli che parlano da soli, titoli di cui chiunque si dice pronto a conoscerne il contenuto.
La storia ha cristallizzato per sempre un nome: Anne Frank.
L'olandese Annelies fu autrice “inconsapevole” di pagine divenute memoria.
Pagine del diario di un'adolescente, pagine dove si sono specchiati gli ultimi due anni di vita di Anne e dei familiari dal 1942 al 1944.
Dall'agio di una vita libera e normale fatta di scuola, amici, feste di compleanni, passeggiate e risate ad una vita clandestina fatta di buio, finestre chiuse, silenzio, una convivenza forzata in poche stanze per trovare scampo alla follia delle persecuzioni razziali.
Il testo, nonostante si percepisca la manomissione di altre mani, rimane un testamento per l'umanità.
La voce di Anne a distanza di quasi un secolo, esce ancora forte e nitida da quelle pagine, raccontando sentimenti e sensazioni genuini e commoventi.
C'è tutta la freschezza dell'adolescenza, le bizze legate all'età, le incomprensioni con i genitori, i sogni per una vita futura, la speranza che il mondo torni alla pace.
Ringraziamo la memoria della giovane Anne perchè le pagine del suo diario segreto sono testimonianza di un momento storico che ha ferito l'uomo per sempre.
La lettura è agevole, trascinante lo spirito vivo e a tratti ironico, tuttavia reputo che mal si adatti ad un pubblico adolescente.
E' un testo che può donare tanto se accolto con cognizione di causa e dovutamente contestualizzato.
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Piccoli e grandi eventi
Finalmente un autore italiano sceglie di percorrere il sentiero della Storia.
L'ultimo libro di Scurati è un affondo meraviglioso tra le pieghe della storia del Novecento, attraverso ricostruzioni parallele di vite illustri e non.
Il passato prende forma attraverso i volti di Leone e Natalia Ginzburg, Cesare Pavese, Giulio Einaudi e tanti altri protagonisti dei primi decenni del secolo scorso.
Raccontare un periodo storico attraverso le vicende personali di uomini e donne, carica il testo di un'intensità assoluta e impareggiabile.
L'opera di Scurati si compone come un mosaico prezioso, in cui gli eventi socio-politici non rimangono sterili date da annotare e registrare nella memoria, ma si riflettono, lasciando il segno, nelle vite dei protagonisti citati, siano essi scrittori e giornalisti, uomini di cultura, famiglie benestanti, operai, braccianti, famiglie numerose con tante bocche da sfamare.
La ricostruzione bibliografica meticolosa operata dall'autore, permette al lettore di venire a conoscenza di scritti preziosi, stralci di lettere, riflessioni e pensieri che trasudano sentimenti, emozioni, struggimenti che nessun saggista o storico sarebbe in grado di riprodurre.
La linfa del passato scorre inarrestabile tra le pagine, inanellando immagini di speranza, di sopruso, di violenza, di morte, ma anche di coerenza, di forza, di fede in se stessi e nei propri ideali.
Difficile classificare questo testo; unica certezza non è un romanzo.
Imperdibile per chi volesse affrontare un viaggio nel passato italiano attraverso lo strumento del “ricordo”; il ricordo di uomini e donne il cui nome è stato immortalato dalla storia ma anche il ricordo dei tanti “anonimi”, nonni e nonne che c'erano mentre piovevano bombe, che c'erano mentre dilagava la furia delle persecuzioni razziali, che c'erano quando la fame era nera e la vita appesa ad un debolissimo filo.
Complimenti a Scurati per aver trovato un equilibrio narrativo che gli ha permesso di raccontare tante singole storie, alternando i protagonisti con armonia e riuscendo a tenere tutti i tasselli legati tra loro creando un effetto corale notevole.
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Le ali per volare
Siamo lontani dalla bellezza de “Il dolore perfetto”, tuttavia la storia raccontata da Riccarelli in “Comallamore”, è un piccolo spaccato di Italia.
Riccarelli ama il passato, la vita, i costumi, le singole storie che assurgono a volto della Storia del nostro paese.
Come la storia immortalata tra queste pagine: la storia di una famiglia, di un figlio, di una generazione, di buoni e cattivi, di sani e malati, in un'Italia piagata dalla guerra.
I personaggi dell'autore camminano sempre sul leggerissimo filo che divide realtà e fantasia; sono esseri che soffrono, sono dei vinti che cercano e trovano uno stelo d'erba verde in mezzo alla desolazione del deserto. Sono corpi e sono anime, disegnati in un dualismo che si scinde e si fonde.
Lo stile narrativo di Ugo Riccarelli è un “marchio di fabbrica” originale, dove la scrittura suggestiva ed evocativa è utilizzata per colorare i volti dei personaggi, donando loro le ali per evadere dalla costrizione del mondo reale, del quotidiano.
I protagonisti sognano e sperano fino in fondo in un mondo nuovo in cui potersi realizzare e abbattere le barriere del destino avverso.
Il romanzo è breve, l'intreccio narrativo è semplice, a tratti l'intensità è sfumata, tuttavia i volti tratteggiati piangono e sorridono con genuinità di sentimenti ed emozioni.
Un romanzo apparentemente leggero, ma il segreto dell'autore è quello celare temi forti sotto vesti delicate.
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Luce del mattino
Si chiamava Margaretha, olandese di nascita, trasferitasi in Indonesia per seguire il consorte fino al rientro in Europa e alla svolta di vita; lei è Mata Hari, ossia luce del mattino.
Una figura complessa, dai tanti volti, alcuni dei quali desunti ma forse mai accertati veramente; una donna tenebrosa e affascinante, coraggiosa e sfrontata, sfortunata e sola.
Una vita raminga, segnata da tanta solitudine, una carenza affettiva familiare mai sopperita dalla folta schiera di amanti e ammiratori.
Danzatrice sensuale, etoile della Parigi della Belle Epoque, un mondo dorato e ambito, fonte di ricchezze ma anche di incontri pericolosi.
Alla mondanità e alle luci dello spettacolo si incrociano le zone d'ombra dell'interesse politico, palude infestata di insidie in un momento storico delicato che vede delinearsi un conflitto mondiale.
L'opera di Massimo Grillandi evade dal genere oggettivamente saggistico-biografico per esplodere in un bel romanzo biografico, condotto con un'enfasi narrativa corposa e coinvolgente per il lettore.
L'autore parte da un ottimo lavoro di studio delle fonti, ma si percepisce l'intento d donare alla ricostruzione della figura di Mata Hari, un volto e un'anima, scavando nel privato della vita di Margaretha donna prima che ballerina o spia.
Grillandi si spinge così a proporre una interpretazione soggettiva degli eventi salienti dell'esistenza della donna, rapportando sempre scelte, successi e sconfitte con quello che poteva essere il di lei sentire.
Il romanzo biografico è un'operazione delicata, così come è rischioso camminare sul filo dell'interpretazione, entrando nel merito delle vicende personali e delle pieghe caratteriali di personaggi la cui vita è collocata lontano nel tempo e di cui una miriade di fonti ne riportano in maniera più o meno corretta o distorta.
All'autore il merito di una buona riuscita, elaborando un lavoro completo sotto il profilo biografico e credibile nei tratti in cui la penna del narratore disegna situazioni e stati emotivi.
Vero è che per conoscere un personaggio è consigliabile una lettura combinata ed incrociata di più autori e fonti, ma il romanzo in questione può essere un buon inizio per chi volesse avvicinarsi alla vita della notissima Mata Hari.
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Ospite della foresta
Jane Goodall nasce in Inghilterra, ma fin da giovanissima sente un richiamo intenso per il mondo animale, in particolare per gli scimpanzè.
Jane sogna di poterli studiare nei luoghi natii, un'impresa ardua e forse un po' folle.
Raggiungere la foresta nei pressi del Lago Tanganika, vivere per anni in una capanna lontano dagli agi del vivere civile, trascorrere ore e ore tra la vegetazione e le sue insidie per osservare le colonie di scimpanzé; nasce così una delle esperienze di vita e scientifiche più straordinarie di tutti i tempi, di cui l'etologa inglese lascia una documentazione minuziosa attraverso i suoi scritti, tra cui le pagine di “L'ombra dell'uomo”.
Non si tratta di narrativa né di diario prettamente personale, ma di un'opera dal valore più alto.
Il racconto degli anni trascorsi in terra d'Africa è talmente dettagliato da creare un'immersione totale nei luoghi e nell'attività scientifica condotta con spirito di sacrificio e d'innovazione, giungendo alla percezione di una fusione tra la donna e la scienziata.
Se da un lato ci si rende conto dell'immenso valore degli studi condotti dalla Goodall, dall'altro si arrivano a percepire emozioni forti e genuine, trasportati in una realtà per lo più estranea all'uomo comune.
E' la classica opera che catapulta in una dimensione fuori dagli schemi, di cui è interessante coglierne tutti gli spunti; dalle informazioni raccolte in merito al comportamento animale, dalla forza di volontà che contraddistingue le persone, allo strano rapporto che si instaura tra l'uomo e l'animale.
Tanto di cappello alla dottoressa Goodall per aver condotto i suoi studi insinuandosi nella vita dei primati in punta di piedi, cercando di non invadere le loro dinamiche familiari, consapevole di essere ospite su un terreno che raramente aveva visto un'ombra umana che non fosse quella di un cacciatore.
E' una lettura senza età e senza tempo quella cristallizzata tra queste pagine, a tratti minuziosa ed impegnativa a tratti dolorosa e commovente.
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Una società per soli giovani
Il termine “rottamazione” da parecchi mesi è entrato nelle case degli italiani; non parliamo di automobili alla fine della loro vita dopo chilometri di strada macinata, bensì di uomini e donne da collocare fuori dalla vita pubblica, in una sorta di riposo a tempo illimitato per fare spazio al nuovo che avanza.
Prende le mosse da questa idea di rinnovamento la scrittrice Lidia Ravera, per tratteggiare una storia dal sapore amaro che impone al pubblico uno scenario aberrante, futuristico sì, ma intriso di immagini stranamente realistiche.
Il concetto di rottamare l'essere umano viene esasperato e spinto all'estremo per creare un racconto-limite, per disegnare ipotetiche strade che l'uomo potrebbe spingersi a percorrere, calpestando sentimenti, pensieri, valori, morale, insomma il cuore e la mente.
Quello offerto dalla Ravera è un paese programmato per utilizzare i propri cittadini finchè giovani, energici, produttivi e ricettivi, per poi destinarli ad un ritiro forzato dalla scena sociale, familiare, lavorativa.
Un mondo dittatoriale, molto vicino a quello orwelliano; asettico, freddo, brutale.
Crolla il valore del nucleo familiare, della vita di coppia, dei progetti per un futuro che verrà gestito da altri, sfumandosi tra le nebbie dell'annichilimento e della disperazione.
Con questo nuovo romanzo la Ravera cavalca l'onda di talune concezioni moderne, estrapolandole da certi filoni di pensiero politico per allargarle alla vita intesa in senso lato.
Cosa succede se un uomo giunto alla soglia dei sessant'anni viene considerato “scaduto” come un cibo guasto, come una batteria esausta?
Come crescono e come maturano i giovani senza avere al proprio fianco il sostegno di persone d'esperienza?
Può essere un futuro plausibile e migliore dell'attuale quello che preveda l'allontanamento coatto dell'anziano, del padre, del nonno?
La scrittrice non fornisce risposte, ma il lettore le desume strada facendo, addentrandosi con rabbia e insofferenza tra le pagine.
Il tema è forte e ben percepibile, tuttavia a tratti si avverte un certo calo di intensità narrativa, come se qualche falla si aprisse ed annacquasse il contenuto.
La trasposizione del malessere attuale in un quadro sociale futuro non è semplice da realizzare senza scivolare su terreni già battuti, detto ciò l'intento di Lidia Ravera è discreto nel proporre idee e immagini che è auspicabile che una società evoluta non raggiunga mai.
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Le strade del destino
“Capricci del destino” è il titolo di una manciata di racconti scritti dalla danese Karen Blixen.
I racconti sono ambientati in aree geograficamente differenti, eppure manca il dettaglio dei luoghi, in quanto l'attenzione dell'autrice è volta alla sfera psicologica dei protagonisti, alle loro vite in gioco ed in lotta con il destino, oscuro manovratore dietro le quinte.
Per chi avesse già conosciuto la Blixen attraverso la pagine de “La mia Africa”, la narrazione di queste storie apparirà stilisticamente lontana.
I percorsi narrativi disegnati assumono forme arzigogolate e un po' barocche, sfociando talora in effetti tipici delle scatole cinesi. Da qui una lettura complicata, lontana dalla godibilità dell'immediatezza espressiva.
Tra le cinque storie della raccolta spicca il titolo più noto “ Il pranzo di Babette”; sul piano della numerica delle pagine si tratta del racconto più breve, forse meritevole di qualche immagine e riflessione ulteriore, ma nel complesso il contenuto è pregevole.
Il bilancio della lettura porta da un lato ad una sensazione di affaticamento nel seguire le linee narrative proposte dall'autrice, dall'altro nella consapevolezza della ricerca di profondità, di indagine introspettiva, di riflessione su tanti aspetti ed eventi della vita.
Non classificabile come lettura d'evasione, potrebbe rendersi utile per chi volesse approfondire la bibliografia dell'autrice, non consigliabile come primo approccio.
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Il gelo della Siberia
Nell'ampia produzione letteraria di tutti i tempi, l'esperienza carceraria è stata spunto di scrittura per opere di gran valore.
Anche Dostoevskij percorre questo filone e pur essendo alle prime prove letterarie, lo fa in maniera brillante ed intensa.
Il racconto è minuzioso sia per la rappresentazione della quotidianità tra le mura di una baracca dormitorio, delle attività dei deportati nel campo di lavoro, delle condizioni di vita aberranti a prescindere dalla gravità della pena da scontare, talvolta esigua o nulla come insegna la storia personale dell'autore russo, sia per la profondità che la penna riesce a donare alle pagine.
Fedor non si limitò alla mera scrittura di un diario su cui annotare il lento e logorante scorrere del tempo in attesa della libertà, ma prestò la sua voce per svelare il lato più oscuro e nello stesso tempo più umano della prigionia e della coercizione.
Le immagini scorrono patinate di grigio, pregne di dolore e sofferenza, cariche di rammarico più che di odio.
Già da questo scritto si percepisce tutta l'attenzione e l'interesse dell'autore per la condizione umana, per la sfera più intima sottesa a ciascun individuo in quanto tale a prescindere dalla condizione sociale in cui è avvezzo a vivere.
Un racconto che nasce dalla fusione di numerose storie, tutte tragiche, tutte dolorose, unite da un fine ultimo comune, quello della speranza e della redenzione.
Si tratta di una lettura dal contenuto prezioso, testamento e testimonianza, che richiede un piccolo impegno per poterla affrontare al meglio; infatti taluni racconti prima di astrarre a concetti di carattere generale, conducono attraverso tante pagine di vita spicciola e di dialoghi intercorsi, rischiando di produrre un calo di attenzione.
Nel complesso, un pezzo letterario da conoscere per chi già ha letto il russo e per chi ancora non l'avesse letto.
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La vita di Libero Marsell
Cover di forte impatto, foriera di tante ipotesi per il pubblico e titolo altrettanto audace.
Così si presenta l'ultima uscita editoriale di Marco Missiroli, giovane autore con alle spalle ottime prove di scrittura.
Addentrandosi nella lettura di “Atti osceni in luogo privato” si avverte l'intenzione dell'autore di esplorare nuove strade espressive.
Prima di volgere lo sguardo critico al romanzo, occorre precisare che la valutazione complessiva del testo è destinata a correre su binari differenti a seconda che il lettore sia al primo incontro con l'autore oppure se trattasi di lettore avvezzo allo stile di Missiroli.
Il romanzo partorito dalla penna di Missiroli probabilmente nasce da un'idea complessa e ambiziosa, quella di plasmare un protagonista assemblando schegge di vita dall'infanzia all'età adulta, toccando zone oscure, delicate e intime, come la sfera emotiva e sessuale.
Il protagonista cresce attraverso la narrazione, costringendo il lettore ad assistere all'evoluzione di una coscienza, all'analisi introspettiva di un giovane che deve comprendere la vera natura della sua anima e del suo essere uomo.
Un percorso difficile da rappresentare, facendone percepire al lettore tutto il carico di sofferenza, di stordimento, di insoddisfazione, sfiorando momenti di ilarità e momenti di crisi, scivolando tra le pieghe sottili della morale.
Missiroli porta in scena lo struggimento interiore di un giovane il cui corpo prende vita come entità distinta e altra rispetto alla coscienza.
La sostanza dell'impianto narrativo è innegabile, ma nel complesso poco godibile da parte di un pubblico che viene destabilizzato con troppe citazioni sessuali.
La sfera intima viene battezzata come fulcro narrativo eppure qualcosa sfugge e langue nel racconto della vita del giovane Libero, in quanto alcune immagini forti e private sembrano stonare se collocate in una prospettiva più ampia, una prospettiva che vuole ricostruire gli step formativi inanellando decine di citazioni di autori, testi letterari, arie musicali e opere cinematografiche.
E' riconoscibile il desiderio di evolversi da parte dell'autore, tuttavia il sentiero percorso si allontana dallo splendore di “Senza coda”, “Il buio addosso” ed “Il senso dell'elefante”.
In questa nuova sperimentazione Missiroli perde la sua lucidità espressiva secca e tagliente, la sua capacità di esprimere un sentimento con una parola, fotografando storie destinate a rimanere indelebili.
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Congiunzioni divergenti
Dopo il felice esordio de “Il mistero dell'ermellino”, Giuse Iannello regala ai lettori un secondo romanzo.
“Congiunzioni divergenti” è un enigmatico esempio di ossimoro che l'autrice sceglie come sintesi perfetta delle storie narrate; storie di tante vite che si intrecciano tra loro un po' per scelta un po' per mano del destino.
Il romanzo è popolato da tanti personaggi, uomini e donne figli dell'attuale società, ritratti con naturalezza e senza enfatizzarne pregi e difetti, in quanto saranno i gesti e le azioni che li scopriranno pagina dopo pagina al lettore.
E' complesso tenere i fili e coordinare diverse storie per crearne un intreccio credibile e godibile, eppure l'autrice dimostra ottime doti nell'affrontare un compito arduo.
Giuse, appassionata pittrice oltre che scrittrice, sembra dipingere i volti delle sue creature, catturandone sguardi, zone scure, momenti solari, slanci affettivi; narrare diviene sinonimo di dipingere una tela, partendo da un solido spunto iniziale, sviluppando anima e calore, focalizzando poi i dettagli che imprimono colore e movimento alle figure ritratte.
Il romanzo offre spunti di riflessione molteplici, toccando il mondo della famiglia, il mondo delle relazioni di amicizia e di coppia, il mondo della malattia e della rinascita.
Veramente tanti gli argomenti in gioco, che sfilano sfiorandosi, unendosi ed allontanandosi come in una danza; la danza del destino, dell'imponderabile, dell'indefinito.
Si avverte forte tra le pagine l'intento di sondare la parte più oscura della vita di ciascuno e al contempo la parte più intima e fragile.
Con abilità viene indagata la fragilità della vita, componente spesso dimenticata o esecrata in nome di ideali che spingono alla dimostrazione di forza e alla ricerca di successo, felicità e realizzazione in campo personale e sociale.
La vita raccontata in queste pagine corre su infiniti binari con poche certezze in quanto allo scambio successivo s'incrocerà con un'altra vita, apportatrice di un nuovo disegno, di una nuova linfa; le vite non viaggiano sole ma durante il percorso si congiungono sfociando nel bene o nel male, creando sempre nuove forme di gioia o di dolore.
Le storie raccontate da Giuse Iannello sono ritratti di quotidianità, sono scelte ponderate e non ponderate, sono legami e sono fratture, sono congiunzioni divergenti.
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Tre vite tante storie
Può la vita di tre settantenni cadenzata da ritmi oramai consolidati, divenire materia prima per costruire un romanzo che sotto l'etichetta di “noir” cela un infinità di spunti narrativi?
Ebbene Marilù Oliva riesce nell'intento, plasmando una storia pittoresca e commovente che contiene tanti tasselli al suo interno.
Il lettore si renderà presto consapevole di trovarsi tra le mani un romanzo sfaccettato che tocca più sponde del mare della vita, dal disagio sociale alla gestione faticosa della cosiddetta “terza età”, dai rapporti di amicizia che talvolta risultano di maggior solidità rispetto a quelli familiari alla follia improvvisa e devastante.
Il romanzo della Oliva pullula di personaggi perfettamente compiuti, nei volti, nei gesti, nelle parole; sono uomini e donne reali, i vicini della porta accanto, i conoscenti che incontriamo in cortile, i nonni che vediamo accompagnare i nipotini al parco.
Eppoi irrompe l'imprevisto, lo sforamento dalla routine che mette a nudo altre facce.
A cavallo tra realismo e creazione fantasiosa, l'idea narrativa dell'autrice propone uno spaccato d'effetto e di forte intensità, percorrendo la linea solitissima che delimita possibile ed impossibile, tracciando una strada di mezzo che deve far riflettere.
La lettura è godibile grazie alla carica travolgente dei personaggi, dipinti con pennellate di normalità, di grottesco, di tenerezza e grazie alla scrittura brillante della Oliva che amalgama qualche spunto di gergo locale, nella fattispecie quello emiliano, all'uso di metafore e dialoghi rapidi.
Tra sorrisi, lacrime e incredulità, è una storia da leggere tutta d'un fiato, fermandosi solamente all'ultima riga non per giudicare ma per pensare.
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In Egitto con Pierre
Lodevole l'intento di diversi piccoli editori o editori di nicchia che pubblicano ancora oggi i saggi di Pierre Loti, viaggiatore per vocazione.
Per chi volesse partire alla volta del misterioso Egitto insieme ad un uomo che fece dell'errare per il mondo una amatissima “professione”, si consiglia vivamente la lettura di questo incantevole saggio “Il Nilo e la Sfinge”.
La penna di Loti eccelle in questo testo, staccandosi dal rigore e dalla schematicità del racconto di viaggio, assurgendo a narrazione pregna di lirismo
Le immagini ritratte da Loti e filtrate attraverso il suo amore per la scoperta, per il passato, per la conoscenza di luoghi magici, scorrono fluide eppure corpose nel contenuto.
Tanti i dettagli visivi che sono il motore di una ridda di riflessioni; si alternano spaccati fotografici della città de Il Cairo, delle meraviglie della piana di Giza, dell'antica Tebe, di templi e tombe.
Un percorso lungo da nord a sud per inebriarsi dell'aria calda e calpestare la sabbia rossa egiziana con l'unico scopo di ammirare in solitudine e in silenzio un mondo passato, cristallizzatosi attraverso i secoli.
Un mondo che Loti non vuole contaminare in alcun modo, a cui si inchina con umiltà e stupore passo dopo passo, sito dopo sito.
Si innalza forte tra le pagine la critica a quella che già nel lontano inizio '900 era l'orda turistica, bollata dal francese come “ una nuova piaga per l'Egitto”. Espressione forte, insieme ad altre disseminate nel saggio, caratterizzanti lo spirito di viaggio di Loti.
L'intensità dello scritto rischia di perdere qualche favilla in coloro che non avessero ancora visitato i luoghi; al contempo assume un valore ed un calore ineguagliabile per il viaggiatore moderno che avesse già calpestato quelle terre e respirato quell'aria.
Impossibile non essere grati a Pierre Loti per averci tramandato siffatte testimonianze, lasciandoci in eredità il “vero spirito del viaggiatore”.
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Gli assetati
La piccola isola di Floreana funge da cornice al racconto di Simenon il cui titolo tradotto è “Hotel del ritorno alla natura”, in origine Ceux de la soif.
La curiosa la scelta dell'autore di ambientare una storia nel lontano arcipelago delle Galàpagos, funge da sprone per il lettore desideroso di immergersi in un clima esotico accompagnato dalla mano pittoresca ed evocativa di Simenon.
Come è possibile apprendere da fonti dell'epoca, la scelta del tutto particolare del tema trattato e dei luoghi non è “tutta farina del suo sacco”, in quanto pare che Simenon abbia tratto spunto da vicende note alle cronache in cui si narravano le sorti di certuni pellegrini approdati volontariamente su numerose isole deserte, mossi dal desiderio di fondersi completamente con la natura, abbandonando gli agi della vita europea.
Simenon riadatta il tema dell'approccio al mondo naturale e primitivo, cercando di cogliere gli aspetti più intimi dell'animo umano, andando a scavare nell'io profondo per sondarne gli istinti, gli egoismi, le disillusioni.
Questa volta l'incisività e certa dose di cinismo sfugge dalla penna dell'autore, disegnando personaggi tiepidi e poco caratterizzati.
Le pagine scorrono generando un sostanziale senso di attesa nel lettore di cui anche gli eventi conclusivi della vicenda narrata non riescono a saziarne le aspettative.
La parabola comportamentale dei protagonisti è abbastanza scontata e non possiede quella durezza che il lettore appassionato si aspetta di trovare in Simenon.
Se riflettiamo sul titolo originale “Gli assetati”, ne troviamo uno scarno riscontro; ci si potrebbe aspettare sete di libertà, di serenità, di evasione, di silenzio, il tutto rappresentato come forza motrice prorompente. Qualcosa affiora ma non a sufficienza.
Un “non-Maigret” che lascia un pizzico di amaro in bocca, in quanto ambiente e tema potevano fungere da trampolino per fotografare uno spaccato di umanità del tutto speciale.
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Viaggio nella memoria
Peter Lantos prima che autore è un medico specializzato in malattie neuro-degenerative.
Ungherese di nascita e inglese d'adozione, ha raccolto la storia della sua vita e della famiglia nel volumetto intitolato “Tracce di memoria”.
Il dottor Lantos ha vissuto da bimbo la deportazione a Bergen-Belsen ed in altri campi di lavoro insieme ai genitori; la sua tenera età ha fatto in modo che tanta parte delle immagini e dei ricordi si sfumassero, perdessero consistenza. Nasce quindi il desiderio di consolidare i frammenti del passato scrivendo una sorta di diario di ricostruzione per non perdere memoria di quelle tracce sbiadite che sono pezzi di vita.
Lantos sembra lontano da certi intenti e circuiti editoriali speculativi, la sua narrazione è avulsa da istinti rabbiosi e spettacolari; si percepisce la voce di un uomo che voglia riunire i pezzi di puzzle disgregatosi nell'età dell'infanzia, età in cui gli eventi si subiscono, età in cui il calore familiare è tutto.
Peter ha perduto la sicurezza del nido familiare a sei anni, affrontando una mutilazione ed un trauma che il tempo non può sanare; tuttavia la sua voce, pur riportando alla luce eventi storici aberranti quali le persecuzioni razziali e l'olocausto, rimane composta, instaurando un dialogo col lettore alquanto pacato, privo di spunti di odio e vendetta.
Oltre a qualche breve accenno alla vita da deportati, di cui la scarsa memoria ha fatto sì che egli attinga ad altre fonti, tanta parte del racconto parla del paese natale e delle sorti dell'Ungheria durante il secondo conflitto mondiale e anche dopo. Una storia politica complessa di cui c'è tanto da raccontare.
E' una lettura che va affrontata per il valore umano del suo contenuto, per ascoltare ancora una volta una storia “particolare” che costituisce un tassello della Storia mondiale “generale”.
Narrazione scorrevole e gradevole per scrittura, fanno del diario di Lantos un momento di riflessione e di conoscenza adatto a qualsiasi genere di lettore.
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Marianna Sirca
Risale al 1915 la pubblicazione di “Marianna Sirca”.
I protagonisti delle opere della Deledda appartengono sempre a classi sociali ben definite e distinte, impermeabili tra loro; padroni e servi costituiscono una costante, ma in questo romanzo appare un'ulteriore “specie”, il bandito.
Argomento funesto quello del banditismo, fenomeno strettamente radicato tra le pieghe dell'aspro territorio sardo, di cui l'autrice fornisce un volto ed un nome.
Il bandito non è solamente un ricercato, un uomo relegato alla clandestinità e al compimento di azioni contro legge, è un uomo che brucia di passioni, che lancia una sfida al destino per liberarsi dal giogo di una vita da esiliato.
Il volto del bandito è quello di Simone Sole, il cui cognome cozza contro le tenebre scese sulla sua vita.
Il volto della giovane donna piegata alla volontà impostale dalla famiglia possidente è Marianna, vittima di un ruolo e di consuetudini sociali che esaltano la smania di ricchezza a scapito della felicità.
Due personaggi nitidi come scatti fotografici, espressione di un realismo narrativo suggestivo e coinvolgente, due vite che cercano il riscatto, che lottano con fermezza per strappare al fato un briciolo di fortuna e di amore.
La solitudine è palpabile e spessa come una cappa, toglie il fiato e ammutolisce il lettore.
Solitari i cuori così come le lande silenziose del nuorese, percosso dai gelidi venti invernali ed imbiancato da candida neve.
Un romanzo in cui l'elemento naturale è parte integrante della narrazione, giungendo a fondersi con gli stati d'animo e gli umori dei personaggi, creando un flusso di immagini ed eventi in stretta simbiosi.
Con “Marianna Sirca” Grazia Deledda conferma le sue doti narrative raccontando una storia che arde di passioni, che anela gioia, che spezza le catene del pregiudizio verso certa umanità, che parla di un territorio ruvido e percorso da forti contrasti.
Capolavori le pennellate di colore, le sensazioni olfattive persistenti, gli struggimenti emotivi e gli immancabili colpi di coda del destino.
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La madre
Nulla eguaglia il rapporto viscerale che si instaura tra una madre e un figlio; su questo solido mattone Grazia Deledda costruisce una storia di lacrime, sofferenze e passioni.
Come di consueto è l'aspro territorio sardo ad accogliere tra i propri luoghi i protagonisti del racconto; anime sole, chi per un motivo chi per un altro, eppure cuori che ribollono di ardore passionale.
Una madre le cui mani sono consunte dalla fatica, poche gioie e tante rinunce, in nome di una piccola felicità fugace che le ha lasciato in grembo un figlio da crescere e da sfamare.
Un figlio amato nonostante le avversità di una vita grama, deciso a percorrere la strada della vocazione religiosa.
Quando tutto sembra scorrere per il verso giusto, l'autrice lacera la veste della normalità per dare voce agli istinti umani, giusti o ingiusti, naturali o torbidi.
La maestria dell'autrice confeziona un romanzo in cui l'evoluzione temporale degli eventi pian piano rallenta, avvolgendo i protagonisti in tinte cupe e notturne, in uno stato emotivo in cui la luce non filtra più; è il tempo dello struggimento, dilaniante e corrosivo, è il tempo delle riflessioni sulle conseguenze delle proprie scelte, è il tempo della chiusura dei conti che la vita impone inesorabile a ciascun individuo.
“La madre” è un romanzo piuttosto breve, possiede una trama succinta, ma l'intensità del contenuto è poderosa. Rispetto ad altri scritti l'elemento naturale del territorio sardo tanto caro all'autrice, è meno presente in nome di una maggiore evidenza degli stati emotivi, colti con struggimento e forza evocativa.
La Deledda sente la necessità di portare alla luce le forze embrionali più genuine e naturali dell'essere umano, siano esse generate dall'istinto siano esse forgiate dagli usi e dai costumi della terra che li ha generati.
Una lettura che costituisce un tassello importante sia per apprezzare gli scritti deleddiani sia per addentrarsi nel panorama letterario del secolo scorso.
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Cime tempestose
Emily Bronte costruisce sul territorio natio dello Yorkshire uno dei romanzi più noti della letteratura mondiale.
Le “Cime tempestose” sono la culla del racconto durante tutta la narrazione, rimanendo avvolte in una luce sabbiata, pochi raggi filtrano tra le nebbie, l'aria è uggiosa e carica di umidità persistente, due dimore e due ceppi familiari ad un pugno di metri di distanza, tanti volti sulla scena, tanta sofferenza e tanta vita che scorre in una landa pressoché deserta.
Non serve dettagliare la trama oramai nota di questo piccolo gioiello, bensì lasciare che ogni lettore si accinga ad esso con l'animo disposto ad ascoltare non una ma numerose storie.
Le storie s'intrecciano come colorati gomitoli mossi dalle mani di un destino beffardo e anche crudele; i protagonisti sembrano rincorrere una serenità ed una pace che scivola via come i venti che infuriano tra i cespugli delle colline.
Impeccabile la penna della Bronte nel disegnare una galleria di cuori che ribollono per passioni, per follia, per ardore, per egoismo, per smania di possesso, per cieca obbedienza alle convenzioni.
Cuori fragili, sottomessi, deboli e malati, infelici ed ostinati, la cui forza prende vigore dall' Amore, reale o agognato, linfa vitale per ciascuno di protagonisti.
Sono pagine che trasudano una passionalità dalle tinte forti e fosche, numerosi i cliché desueti ma piacevoli da incontrare tra le righe di un testo scritto nel 1846 che riesce ancora a trasmettere emozioni al pubblico moderno.
Un pizzico di delusione potrebbe raffreddare chi ama una narrativa generosa nelle descrizioni di luoghi e situazioni, in quanto lo stile di scrittura dell'intero romanzo si basa su dialoghi.
Nessun timore però, perché la Bronte dimostra una destrezza raffinata e magistrale, confezionando uno scritto denso di contenuto, animato da personaggi fortemente delineati attraverso le loro stesse voci. La Bronte fa parlare le sue creature dal profondo del cuore, senza timore di scoprire vizi e mancanze di cui certo pudore richiederebbe di tacere.
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Grazia Deledda oggi
Ciò che colpisce varcando la soglia di una qualsiasi libreria italiana è la quasi totale assenza di titoli di Grazia Deledda ad eccezione di “Canne al vento”.
E' impossibile non chiedersi quali siano le scelte che guidano il mondo editoriale.
Siamo al cospetto di un'autrice che ha segnato un pezzo di storia della letteratura, penna prolifica che ci ha lasciato in eredità una ampia produzione, insignita del Premio Nobel nel 1926.
Donna dai tratti ruvidi, figlia di una terra che sarà lo sfondo di tutti i suoi racconti, culla di tradizioni ataviche e radicate nei cuori.
La penna di Grazia parlerà sempre di una terra aspra e selvaggia e del microcosmo umano che la calpesta, regalandoci storie ed immagini indelebili, capaci di assurgere a storie dell'umanità intera.
Ad eccezione di due romanzi di cui Mondadori continua la pubblicazione, per accedere alla restante produzione dell'autrice occorre consultare i cataloghi de Il Maestrale e Ilisso, unici editori che ancora oggi propongono opere della Deledda.
Le letture scelte per ricordare questa esimia penna e per invitarne alla lettura sono:
“Cenere”
“Elias Portolu”
“La madre”
“La chiesa della solitudine”
“Marianna Sirca”
“Annalena Bilsini”
Cenere
“Cenere” è il romanzo che fonde la sofferenza e la speranza, il bene ed il male, in maniera mirabile.
Impossibile non definirlo un piccolo gioiello; una trama corposa e ben sviluppata, una galleria di personaggi immortali, una serie di scatti color seppia del territorio sardo, una penna che incide come un bisturi la carne quando racconta il dolore.
La speranza e la fede di una giovane donna si scontrano contro il muro della durezza della vita; quanto amore e quanti sogni, quanto bisogno di scappare dal grigiore, quanti sacrifici, quanto tempo speso ad aspettare confidando in un pizzico di fortuna e di affetto.
I personaggi della Deledda sono figli di una società retta da leggi ferree, o nasci ricco o nasci povero, o nasci padrone o nasci servo.
Il tempo scorre inesorabile tra le strade imbiancate di polvere, tra le casupole dei pastori, tra le piccole bicocche della servitù; la notte ed il giorno si alternano tra le aspre boscaglie del nuorese, la vita narrata dalla Deledda è ruvida come il territorio, è spartana, è spicciola, è grigia come la cenere.
La cenere è ciò che resta del fuoco, è cenere ciò che rimane dopo passioni brucianti, dopo delusioni scottanti, dopo che la vita ha arso sentimenti e sogni.
In questo romanzo la poetica deleddiana esplode con forza e vigore, sia in tema di immagini sia in tema di contenuti.
Tra queste pagine vi è l'apoteosi del canto del territorio sardo, culla di una società ancorata a culti e tradizioni ataviche e inespugnabili.
Gli uomini e le donne sono il frutto della terra, sono cuori sensibili e passionali, hanno un volto cupo ed un volto limpido, possiedono un animo avvezzo alla sofferenza e al sacrificio.
E' espressa con lucidità e accettazione la sottile eppure marcata linea che divide il bene ed il male; intesi come due facce della stessa medaglia, quasi imprescindibili l'uno dall'altro.
Tra le pagine di questo romanzo c'è una Deledda al culmine delle sue potenzialità narrative, per nulla inferiore al più noto “Canne al vento”; riesce a fondere con ardore tutti gli elementi necessari per dare una voce ed un volto ad ogni uomo e donna rappresentati, concentrando in ognuno di loro tutte le sfumature della gioia e del dolore, evidenziando con forza la dicotomia, a lei cara, tra male e bene.
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Tra i fichi delle rovine
Un viaggiatore ante litteram Pierre Loti.
“Un pellegrino ad Angkor” è un piccolo gioiello letterario che ci permette di fare un salto indietro nel tempo di oltre un secolo e passeggiare tra le splendide rovine cambogiane accompagnati dalle parole suggestive di Pierre.
Il francese fin da giovanissimo, sfogliando vecchie fotografie ingiallite riposte in soffitta, sognava ad occhi aperti di poter raggiungere un giorno quelle terre lontane.
E così fu, come documentano questa manciata di pagine culla di immagini talmente vivide da poter percepire gli odori della giungla che avvolgeva e avvolge ancora oggi le rovine come un abito.
Lo scritto di Loti rifugge dallo stampo diaristico inteso come narrazione in sequenza di tappe e luoghi; il francese va oltre, infondendo al suo racconto una potenza descrittiva degna della miglior penna, senza tralasciare una carica emotiva travolgente, fatta di stupore, di osservazione minuziosa con gli occhi, con le orecchie e col cuore.
Concordo con taluni critici che lo definiscono “un impressionista”, perchè il colore che imprime alle sue immagini è notevole.
Siamo agli albori del 1900, lontani anni luce dal turismo di massa, dalle comodità dei mezzi di trasporto e visitare il sito di Angkor può ancora definirsi un pellegrinaggio, un'esperienza ammantata di misticismo.
Quello descritto è ancora il regno del silenzio, luogo dì simbiosi tra mondo animale e vegetale.
Loti cammina in punta di piedi, con la consapevolezza di essere immerso in secoli di storia; ogni singola pietra trasuda ricordi di una civiltà che non c'è più ed egli riesce a captarne l'essenza più profonda.
Una lettura imperdibile per chi arde come viaggiatore e per chi ama porsi all'ascolto di un uomo che ha attraversato continenti diversi osservandone culture e tradizioni.
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Malala: una storia dal Pakistan
Ci sono libri che brillano nel firmamento della letteratura e libri che sono dei tesori per il contenuto che si propongono di divulgare.
Il titolo dedicato alla storia della giovanissima Malala si colloca nella seconda schiera di opere, carico di succo e sostanza nonostante sia frutto di una penna da cronista.
La penna della giornalista Lamb incontra la storia della ragazza pakistana, consentendo così che la sua voce possa arrivare a chiunque abbia il desiderio di avvicinarsi alla conoscenza di un pezzo di storia attuale.
Il testo dà ampio spazio alla storia familiare e personale di Malala, ma vengono menzionate anche le vicende politiche del Pakistan dai tempi dell'indipendenza dall'India ad oggi, col succedersi di numerosi governi, senza tralasciare dettagli sui nomi della classe politica alternatasi al potere e le relative scelte del paese.
Nitide e suggestive sono le immagini di una nazione dal territorio ampio ed eterogeneo, dai luoghi ameni verdi e rigogliosi della regione dello Swat a metropoli in cui si concentrano milioni di abitanti.
La storia di Malala svela l'aberrante ideologia talebana; un'ideologia che prima di arrivare ad invadere le alte sfere della politica internazionale, plasma e soffoca la vita socio-culturale del popolo, sottomettendo con la violenza chiunque non si pieghi ad essa.
Le storie “vere”, di vita vissuta dai protagonisti che ne raccontano gli eventi salienti, sono sempre le più genuine e le più toccanti, siamo fuori dal campo della narrative ed del romanzo storico, siamo tra le pagine della Storia del mondo di oggi, dove ci sono uomini che con un kalashnikov in mano sparano in testa ad un'adolescente perché fomenta l'amore per lo studio e la cultura, dove ci sono uomini che picchiano a sangue una donna perché cammina sola per strada.
Atrocità lontane da chi ha avuto la fortuna di nascere in altri contesti, eppure presenti in tanti luoghi della terra.
Un racconto da leggere per sapere e per conoscere, una lettura dal linguaggio volutamente semplice ma non priva di effetto sul pubblico, pregna di immagini e pensieri su cui riflettere.
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La passione di Mendel
“Mendel dei libri” appartiene al genere letterario della novella, tra i prediletti di Stefan Zweig.
Scritta nel 1929, racchiude in una manciata di pagine una storia intensa, la storia di un uomo.
Chi è il tenebroso e bizzarro signor Mendel, che ogni giorno stende le sue scartoffie su un tavolino del Caffè Gluck nel cuore di Vienna?
Chi è quest' uomo che tra il vocio degli avventori del bar, gli aromi fragranti del caffè caldo, lo scoppiettio della stufa di ghisa continua imperterrito a sfogliare le sue carte, carte che parlano solo di libri, titoli, date di pubblicazione, edizioni?
La vita del protagonista non può essere scissa dal periodo storico, tanto che sarà proprio la Storia ad investire il placido e innocuo uomo, graffiandolo con gli artigli della discriminazione, della violenza e della segregazione.
Una storia in cui si percepisce l'intento di denuncia di Zweig, lui stesso costretto ad abbandonare la sua città natale per sfuggire all'atrocità delle persecuzioni.
La vita e la caduta del signor Mendel così cariche di pathos e di dolore, danno un volto ad una delle ferite più profonde della Storia.
La penna di Zweig è come sempre rigogliosa ed abbondante, ribolle di aggettivi, abbraccia stati d'animo e riflessioni. É un linguaggio elegante quello dello scrittore viennese, che sembra mantenere decoro e compostezza in ogni situazione narrata, anche sulle tematiche più calde e dolorose, senza ammiccare a toni di arrendevolezza e commiserazione.
Una lettura estremamente veloce sotto il profilo temporale, ma pregna di contenuto, di immagini, di valori, di umanità.
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Ritratto di un seduttore
“Casanova” di Roberto Gervaso è un saggio biografico datato 1974, al momento fuori pubblicazione per scelte editoriali di cui è faticoso condividerne i principi.
Fortunatamente se ne trovano ancora diverse copie in circolazione per dare modo agli appassionati del genere di immergersi nella vita di un uomo divenuto simbolo di seduzione di tutti i tempi.
La fonte primaria da cui Gervaso attinge a piene mani per la ricostruzione dell'intero excursus vitae del veneziano è lo scritto autobiografico dello stesso, ossia le “Memorie”.
La narrazione elaborata si snocciola in maniera dettagliata su date, peregrinazioni ed incontri del Casanova, assumendo una veste troppo didascalica, troppo asciutta, facendo perdere i connotati della splendida penna dell'autore, che, in altri lavori biografici, coccola ed incanta con una scrittura che fonde valenza storica a preziosità linguistica.
Al di là della nota stilistica d'obbligo per chi già conosce la produzione dell'autore, rimane una lettura di grande interesse per avvicinarsi alla comprensione dei mille volti di un uomo che visse un secolo complesso come il Settecento, diviso tra la nascita del pensiero razionale e l'influenza forte delle attività magiche, esoteriche, cabalistiche.
Seguire le orme del Casanova significa passeggiare per Venezia ammaliati dagli usi ed i costumi di una città viva e in fermento commerciale e culturale, significa attraversare l'Europa ed entrare nelle fiorenti corti dell'epoca.
Splendida l'apertura del saggio dedicata esclusivamente alla Venezia settecentesca, con una galleria di immagini indimenticabili; più lenta la parte centrale sebbene ricca di informazioni sulla vita del protagonista e di tutti coloro con cui venne in contatto.
Un saggio che si presta alla lettura di un vasto pubblico, che propone la vita di un personaggio dal nome altisonante utilizzando le sue stesse memorie per delinearne attività e spostamenti, incrociando tali notizie con altre fonti e cercando di mantenersi neutrale o almeno oggettivo.
Piacevole la sensazione che si avverte al termine, di aver fatto un salto nel tempo e di aver incrociato un uomo affascinante, gran seduttore, opportunista, egocentrico, giocatore, un po' mago e misterioso, ma profondamente solo.
Indicazioni utili
La monaca di Monza
Nerone
Vivere a Sant' Ireneo
Quest'anno un'autrice spagnola di nome Natalia Sanmartin Fenollera ha esordito con il romanzo dal titolo “Il risveglio della signorina Prim”.
Titolo stravagante ed emblematico, cover coloratissima, per un romanzo che sembra seguire il sentiero della fiaba con affacci sul mondo reale.
Romanzo ibrido quindi, dal costrutto che non brilla per originalità anche se l'impegno dell'autrice è da riconoscersi.
Da subito si percepisce un clima etereo, magico, fuori dai ritmi e dai canoni di una reale vita quotidiana.
Il lettore si trova catapultato nel raggio di pochissime pagine, all'interno di una fantasiosa comunità di uomini e donne ritiratisi volontariamente dalla frenetica vita cittadina.
Sembra di immaginare stradine di zucchero e case calde dove le cucine sfornano cibi genuini e torte soffici, dove i bimbi vengono istruiti in casa attraverso la riscoperta dei più grandi autori della letteratura latina e greca.
Il romanzo è attraversato da una vena filosofica che l'autrice, forse per inesperienza, non riesce a gestire nel migliore dei modi, giungendo a tratteggiare disquisizioni che poi evaporano come gocce sotto il solleone.
Alcuni temi messi sulla labbra dei protagonisti sono interessanti, ossia le differenti visioni della vita, il raggiungimento delle aspirazioni personali, la cura e l'attenzione verso il prossimo; peccato che la tematica morale e filosofica risulti annacquata e priva di approfondimento.
Al primissimo impatto il romanzo potrebbe sembrare accostabile all'opera partorita dalla Barbery in “L'eleganza del riccio”, ma nel corso della narrazione appare chiara la diversa caratura ed il differente costrutto.
Occorre augurarsi che la penna dell'autrice riesca a irrobustirsi sotto il profilo del contenuto, cimentandosi in uno scritto meno acerbo del presente.
Al contrario di quello che si potrebbe pensare, si tratta di un genere letterario tutt'altro che semplice; il rischio di scivolare nel banale e nello scontato è elevato; oltre al fatto che il campo morale-filosofico-sociologico è sempre un terreno fragile e melmoso su cui camminare.
Indicazioni utili
- sì
- no
Non solo malaria
Intorno agli anni Venti del secolo scorso, nelle terre comprese tra il ravennate ed il ferrarese si moriva di malaria e di febbri terzane, si viveva infradiciandosi le ossa nelle risaie e raccogliendo negli stagni canne, giunchi e canapa.
Si viveva in umili bicocche o in capanne, ci si accoccolava su un pagliericcio fradicio di umidità, si divideva un pugno di polenta tra tante bocche.
Una natura ostile, un paesaggio che in inverno si avvolge nelle nebbie e nei vapori dei canali, un'aria densa che ti entra nella viscere.
Un paesaggio animato da spiriti, una terra con cui gli abitanti hanno imparato a convivere, percependone i battiti.
Eraldo Baldini tratteggia in poche pagine un quadro splendido, rappresentando un territorio difficile ed una schiera di uomini e donne incatenati alle radici di un mondo scandito dai suoi ritmi, dalle sue tradizioni, dalle sue usanze e credenze.
Sono povere anime quelle fotografate dall'autore, persone veraci intrappolate in una vita di estrema durezza, flagellati nel corpo e oppressi dai soprusi dei potenti, siano essi proprietari terrieri o squadristi che possiedono poteri di vita e di morte nell'epoca di cui si narra.
Un lavoro magistrale per l'accuratezza della ricostruzione grazie alla quale quel disagio e quella sofferenza bloccano il respiro anche al lettore; un panorama grigio e fumoso, dove sembrano materializzarsi gli spiriti maligni dipinti dalla tradizione popolare, pronti a chiamare a sé chiunque calpesti quelle terre melmose.
Eppoi, come se non bastasse, alla natura infausta si associa la crudeltà umana, l'egoismo ed il cinismo.
Una lettura forte, di ottimo spessore per ricordare luoghi e tempi passati.
Una scrittura nitida a cui non servono artifizi letterari per far esplodere tutto il suo contenuto.
Indicazioni utili
Affreschi e complotti a Napoli
Nel suo ultimo lavoro Colitto mette in scena una Napoli post Masaniello, una città in cui i fermenti politici sono in apparenza raffreddati, ma all'interno dei palazzi si ordiscono manovre contro il governo spagnolo.
L'aristocrazia banchetta tra portate ricche e succulente, gli umili sbarcano il lunario inventandosi un mestiere, ambendo ad entrare a servizio della nobiltà, come servi, sguattere, giullari, maggiordomi, stallieri.
Tra intrighi e congiure, tra assassini e delatori, tra miseria e violenza corre strisciante per ogni dove un nemico subdolo che non perdona, a cui nessuno può sfuggire, ricco o povero che sia: la peste.
Dipinto lo sfondo, Colitto imposta una trama narrativa in continuo movimento, muovendo i fili di un complotto da sventare e di omicidi da vendicare, all'interno di un climax in cui le durezze dell'epoca si fondono con la dolcezza dell'amicizia, della generosità, dell'affetto.
E' un romanzo incalzante, ritmato quasi interamente da dialoghi tra i protagonisti, figure ben cesellate di cui è facile vederne le sembianze tra le righe.
Il pittore e la fanciulla partoriti dalla penna dell'autore non brillano per originalità come figure in sé, ma la volontà di renderli vivi in maniera storicamente attendibile è riuscita.
Ad una valutazione complessiva appare prevalere l'intento di dare vita ad una storia dinamica che metta le radici in un contesto storico ben definito, senza soffermarsi troppo in momenti di riflessione storica.
Un romanzo adatto ad un lettore che preferisca fruire di opere dal ritmo rapido, dove sono le stesse bocche dei personaggi a raccontarsi e dove gli eventi quotidiani sono tessere di un mosaico complesso che deve chiudersi come un cerchio.
Per gli amanti del grande romanzo storico, una lettura acerba che si lascia assaporare ma che insinua sul fondo un desiderio di approfondimento, sacrificando il filone noir.
Indicazioni utili
Hatshepsut
La regina Hatshepsut visse nel lontanissimo 1500 ac circa.
Ancora oggi nella piana sabbiosa di Deir el Bahari, nelle immediate vicinanze della Valle dei Re, è visibile l'imponente tempio funerario a lei dedicato.
Adagiato sul fianco di un altopiano roccioso, immerso in una luce profusa di giallo e di dorato, baciato da un sole caldo e avvolgente, rimane un luogo magico nonostante il peso dei secoli.
L'aria è elettrica, l'aria ha l'odore della Storia.
Un luogo da osservare in religioso silenzio, chiudendo gli occhi ed immaginando la vita e le persone che quella sabbia hanno calpestato, avvolti negli abiti ufficiali, profumati di incensi, gli occhi bistrati.
Senza dimenticare le vite degli operai e degli schiavi sacrificati durante gli anni dedicati alla costruzione delle dimore funerarie.
Roberto Giacobbo ha pubblicato un romanzo che si propone di raccontarci la storia della celeberrima regina egiziana e del recente ritrovamento del suo corpo mummificato, identificato grazie ai metodi scientifici di cui solo oggi disponiamo.
La tecnica utilizzata è quella di una narrazione su due binari temporali, proponendo un'alternanza di capitoli dedicati ad un intrigo nell'odierno Egitto tra Il Cairo e Luxor e capitoli raffiguranti dialoghi ipotetici tra la regina e l'architetto del tempio nonché amante.
Il tentativo di Giacobbo di raccontarci la vita di Hatshepsut e di intrattenerci con una spy story, però fallisce pagina dopo pagina, involvendosi in una storiella di contorno insipida e seminando qualche notizia storica sulla regina tra righe fumose e poco convincenti.
Una lettura non consigliabile a chi cercasse sostanza storico-archeologica o a chi fosse rimasto incantato dai luoghi della Valle dei Re e volesse approfondire le conoscenze.
La divulgazione televisiva è una cosa, la letteratura è altro.
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Oggi in Egitto
Il Cairo ed i suoi vicoli dove la vita scorre ininterrottamente su ventiquattro ore.
Il Cairo ed i suoi palazzi incompiuti dove ogni anno viene sopraelevato un piano.
Il Cairo abbagliata da una luce accecante di giorno e rischiarata da mille luci di notte.
Addentrarsi tra le strade de Il Cairo è un'esperienza unica, visiva, olfattiva e socio-antropologica.
Aspettando la venuta di tempi migliori per visitare il paese, può essere interessante ed illuminante leggere il romanzo di Ala Al Aswani, dentista di professione, con buone doti letterarie tra le mani.
Il racconto di Aswani è il ritratto senza veli di una città complessa e divisa da contrasti sociali evidenti.
Vuole essere racconto di tante storie di vita ma soprattutto voce di denuncia; denuncia di corruzione, di abusi, di violenze più o meno taciute, di focolai di estremismo religioso e politico.
Alle zone in cui dilaga la povertà si contrappongono i quartieri residenziali esclusivi, alle piccole botteghe artigiane i caffè alla moda, alla correttezza e all'umiltà la tracotanza del potente sia esso politico, uomo d'affari, militare o militante estremo.
Le storie narrate si intrecciano e finiscono per dare colore ad un mosaico umano e sociale grandioso.
La prova di scrittura è di pregio, sia per i contenuti sia per la capacità dimostrata di destreggiarsi tra tante voci protagoniste, delineandone uno spessore umano completo e di forte impatto per il pubblico.
Aswani dipinge dei volti che graffiano e parlano ciascuno di un Egitto, confluendo in una galleria di immagini indelebili.
All'ombra delle piramidi c'è una terra traboccante di storia ma c'è anche un paese diviso tra tradizione e modernità, tra lotte e veleni, tra sorrisi carichi di speranza e lacrime amare.
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Storia di una famiglia
Impegnativo eppure affascinante seguire la storia della famiglia Buddenbrook.
Quattro generazioni scorrono sotto gli occhi del lettore pagina dopo pagina, tra immagini di fastose dimore, di saloni damascati, di acconciature perfette, di abiti raffinati, di caminetti accesi che sprigionano dolci profumi.
Una vita agiata, orgogliosi di appartenere all'alta borghesia cittadina, entrate floride nelle casse dell'impresa di famiglia, rispettabilità ed onore legati al proprio nome.
Matrimoni studiatamente convenienti perché l'amore viene dopo il prestigio nella scala dei valori.
Eppoi dopo l'apice, lo sgretolamento, la caduta inarrestabile, la disgrazia e la sfortuna, la malattia e la morte bussa alla porta della famiglia di Lubecca.
Come è normale che sia si tratta di un romanzo dal tipico impianto stilistico ottocentesco, a tratti pomposo e rigoglioso, specchio della società del tempo, ritratta senza veli e ipocrisie da Mann.
Un mondo che soffre del mutamento dei tempi, degli usi, dell'economia, dell'avvento di arie politiche innovative.
Ciò che distingue l'opera di Mann dal prototipo di romanzo prettamente sociale è l'efficacissimo approfondimento psicologico di tutti i personaggi; una penna che sente la necessità di scavare nell'animo, di coglierne aspirazioni, contraddizioni, angosce e drammi.
Grazie a ciò il contenuto di per sé ottimo, si ammanta di intensità e di calore umano, scalzando la nota fredda della lontananza nel tempo degli eventi narrati.
Impossibile non entrare in comunione con questi uomini e con queste donne, anche se gli ideali professati odorano di stantio e ci inducono a qualche sorriso.
Una lettura che si porta sulle spalle un secolo, che immortala un'epoca, ma è destinata a rimanere testamento letterario.
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Il volto di Dante
Cesare Marchi, docente, scrittore e giornalista veronese, ci ha lasciato in eredità una interessante e documentata biografia di Dante Alighieri.
L'impresa di ricostruire la vita del sommo poeta è davvero ardua e minata da numerosi rischi, eppure Marchi elabora un lavoro assolutamente di buona qualità.
Da sempre la vita di Dante è avvolta in zone d'ombra a causa della scarsità di fonti cui attingere e della veridicità delle stesse.
Tanti critici sono partiti da un'analisi della suo opera, in particolare della Divina Commedia, per delineare i tratti salienti della vita del fiorentino.
Dietro il lavoro di Marchi si percepisce una raccolta documentale certosina, che dà vita ad una biografia di grande sostanza, senza cadere nella tediosità.
La marcia in più dell'autore sta nella grande capacità espositiva, oserei dire quasi di intrattenimento nell'accezione positiva, e quindi di grande coinvolgimento del pubblico.
Tra le tante notizie storiche, politiche ed letterarie, fa capolino il senso ironico di Marchi, per spezzare il rigore dell'argomento e rendere appetibile al lettore moderno uno spaccato di vita medievale.
L'opera dà la possibilità al lettore non solo di conoscere in maniera alquanto dettagliata gli eventi salienti della vita di Dante, letterato, politico ed esule, ma anche di poter approfondire la conoscenza di una bella fetta della nostra storia medievale, senza correre il rischio di annoiarsi.
E' apprezzabile l'autore per essere riuscito a fondere la maturità storiografica con la necessità di rendere appetibile la Storia e la vita di un protagonista eccelso come Dante, ad un vasto pubblico, evitando che determinate letture siano destinate solamente ad un pubblico di nicchia.
Dalle pagine di questa biografia Dante acquista un volto, un carattere ed una personalità; Dante padre, marito, politico fervente, uomo pungente e critico, ma anche semplicemente “uomo del suo tempo”.
Una bella ed intelligente passeggiata nel fosco Medioevo italico.
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Per ricordare
Dopo aver raccontato in maniera stilisticamente singolare ma accorata le tante storie di donne giapponesi emigrate negli Stati Uniti per divenire spose-schiave di propri connazionali in “Venivamo tutte per mare”, Julie Otsuka affida alle pagine del romanzo “ Quando l'imperatore era un Dio” una pagina di storia americana scabrosa e tutta da dimenticare.
Dopo l'attacco di Pearl Harbor, in America è caccia ai nipponici, a tutti indistintamente per il solo fatto di avere quelle radici, anche se si tratta di famiglie integrate e ivi residenti da decenni, i cui figli non hanno mai conosciuto il Giappone.
La narrazione della Otsuka parte in sordina, le immagini scorrono in maniera lieve quasi asettica, il dolore e la sofferenza faticano a bucare le pagine; eppure il tema è forte, rastrellamenti forzati, campi di prigionia affollati, famiglie scisse, madri relegate coi figli senza nulla sapere del proprio consorte, il gelo dell'inverno, il caldo soffocante delle estati nel deserto dello Utah.
Nella seconda parte del racconto, la storia si carica di calore e di tutta quell'umanità che deve sgorgare da uno spaccato simile; la forza e la disperazione di una madre sono fotografati dagli occhi dei figli, muti spettatori di eventi difficili da comprendere.
Il romanzo potenzialmente poteva e doveva dare di più, i contenuti da trattare sono tanti e le vicende accadute meritano di uscire dalla polvere ed essere conosciute.
Un romanzo riuscito per metà, dove il lettore fatica ad essere coinvolto sul piano emozionale nel primo tratto narrativo, per poi trovarsi partecipe di tutta l'ingiustizia, la frustrazione e la violenza psicologica della seconda parte.
Lodevole l'intento della Otsuka, nel mettere nero su bianco una storia che per lungo tempo l'America ha cercato di dimenticare e di renderne meno pubblicità possibile.
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Musica e dolore
“La sonata a Kreutzer” racchiude nelle sembianze di un racconto tutta l'intensità e la corposità di un romanzo.
E' un lavoro che mostra un Tolstoj diverso da quello di “Anna Karenina” o di “Guerra e pace”, un autore impegnato ad esprimere il proprio credo in tema moralistico e religioso.
Lo scompartimento di un treno diviene confessionale per un uomo segnato nella vita da un gesto efferato di cui ha bisogno di raccontarne la genesi ad un compagno di viaggio occasionale.
Il monologo affidato alla bocca del protagonista è grandioso, in quanto Tolstoj utilizza questa voce inarrestabile per affermare le proprie idee in tema di unioni matrimoniali e passioni, ricamando teorie e punti di vista colmi di intenti moralistici e fortemente pervasi di principi religiosi.
A prescindere dall'accondiscendenza del lettore a simili pensieri, oggi sorpassati e spinti all'eccesso, è innegabile il valore del testo.
Nella brevità della narrazione, Tolstoj mette a nudo un uomo solo e torturato da ricordi e pensieri ossessivi, un uomo che non cerca comprensione nel prossimo ma che esplode come fiume in piena, inanellando immagini della propria giovinezza, dell'età adulta, delle esperienze amorose e familiari.
Un fluire di ricordi per spiegare la razionalità delle proprie posizioni e dei comportamenti tenuti, razionalità che si frange come un'onda impetuosa sulla scogliera della passione e dell'istintività.
Un vecchio testo questo, eppure ottima lettura densa di spunti di riflessione anche per il pubblico moderno, avvezzo ad una diversa forma mentis e a diversi costumi sociali.
Un testo che mantiene inalterato il suo smalto, cristallizzando la voce del suo autore.
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Donna Viola
Viola e la Sicilia sul finire degli anni '50.
Sposata da oltre vent'anni, moglie integerrima, madre attenta, una vita nell'agio, una bella casa pronta ad accogliere ospiti e feste con sfarzo ed eleganza.
Un piccolo paese di provincia, un cicaleccio continuo delle comari, un sapere tutto di tutti.
Tea Ranno ricostruisce uno spaccato del luogo e del clima sociale vivido, facendone percepire vizi e virtù, ipocrisie e verità, presentando personaggi schietti.
L'autrice fa di Viola il fulcro dell'intero romanzo, raccontando la storia di “un'esplosione”, di un voler cambiare pelle, di un logorio profondo che toglie la pace e spinge all'attuazione di gesti impensati.
Partiamo da un dato di fatto, ossia che la penna della Ranno è avvolgente, evocativa, introspettiva; possiede una forza narrativa che sa scivolare nelle pieghe del pensiero del suo personaggio attirando l'attenzione del lettore.
La figura di Viola è esplorata minuziosamente, dai momenti di gioia a quelli cupi della disperazione, dalle angosce ai picchi di passione, tanto da trascinare il lettore all'interno di quel clima di malessere interiore.
Tante le note positive, tuttavia strada facendo il contenuto si appesantisce perdendo di fluidità, assumendo tratti ripetuti, cesellando periodi lenti, focalizzandosi per lungo tempo sullo stesso pensiero.
Senza dubbio è un romanzo di stati d'animo, non di accadimenti, tuttavia qualche sfoltita avrebbe giovato alla scorrevolezza senza inficiarne la sostanza.
Si giunge al termine con un senso di affaticamento, sorretti dalla curiosità di sapere come l'autrice concluderà la parabola di vita della signora Viola Foscari, pur intuendolo.
Un pensiero sorge dopo aver chiuso il libro: quanto influisce la figura leggendaria di Emma Bovary sullo spunto creativo dell'autrice?
Tante le assonanze Viola-Emma, pur essendo opere figlie di tempi diversi e di un ovvio diverso sentire sul piano sociale e sentimentale.
Il tema della donna matura, annoiata, delusa, sola, scontenta, che si trova a bruciare di passione per un uomo che non sia il marito, è un tema abbastanza usurato in letteratura; motivo per cui abbracciare codesto tema è pericoloso se non si è pronti a percorrere strade nuove.
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Torino 1848
L'ultimo romanzo di De Cataldo intitolato “Nell'ombra e nella luce”, nasce probabilmente dall'idea di attingere al passato per mettere in scena una vicenda a tinte gialle capace di sfociare in uno spaccato storico ben definito ma potenzialmente adattabile ad altre epoche.
Il romanzo è dedicato alla città di Torino immortalata nel biennio 1846-1848; Carlo Alberto è al potere, lo scenario politico è spaccato tra reazionari e democratici, il conte di Cavour fa capolino tra le pagine, un vigoroso carabiniere reale si muove per difendere la sicurezza della città, un oscuro diavolo incappucciato sparge sangue sull'acciottolato torinese.
La trama è veramente scarna e il lettore fatica a captare l'intento sotteso alla storia narrata; troppo spesso affiora la sensazione di un lavoro che vada cercando affinità con la Storia raccontata dai Wu Ming.
Veleni e intrighi politici, congiure e montature, manovre astute e losche per sobillare il popolo.
I buoni e i cattivi, gli assassini ed i difensori della legge.
Tutti elementi che nelle mani di De Cataldo non si accorpano a dovere, rimangono nebulosi e freddi dando vita ad un lavoro fugace e sotto tono.
Scrive bene De Cataldo, quindi il problema è confinato all'impianto narrativo.
Per raccontare un pezzo di Italia o di Storia in genere con una carica simile a quella del collettivo bolognese, occorre progettare un racconto dalla struttura più solida e forse più complessa.
La sostanza del romanzo è al di sotto delle aspettative di un lettore esigente o semplicemente di un lettore voglioso di assaporare un storia intrigante, ben ambientata e coinvolgente.
Rimane il ricordo di un romanzo dalla buona scrittura, ma dall'impatto debole.
Quello storico è un genere arduo in cui avventurarsi, auguriamo all'autore di trovare nuova linfa e di poter dedicare la propria penna a nuove storie.
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La durezza della vita
E' giovanissima Valentina D'Urbano, eppure una buona linfa narrativa le scorre nelle vene.
Alla sua terza prova, l'autrice si propone di andare al di là di ciò che definiamo degrado sociale, di porre l'attenzione sulle persone, dentro le case, tra quelle intimità domestiche difficili e disagiate.
Una periferia maledetta dove l'erba non cresce più, palazzi fatiscenti fuori controllo, visi torvi e grigi come le mura dei caseggiati, giovani la cui scuola è la strada che li sostenta con attività illecite; un mondo retto da regole dure e inflessibili, un mondo di cui porti il segno nel dna fin dalla nascita, il mondo che ti ha partorito e a cui devi appartenere.
Quell'altro mondo, quello “normale”, dove si lavora con onestà, dove ci si crea una famiglia in piena regola, è troppo lontano, inarrivabile.
Lo spaccato disegnato dalla D'Urbano è aspro, vivido ma senza superflue forzature; la sua penna si concentra sugli occhi e sul cuore di Alan, Anna, Valentino e Vadim.
Fratelli, figli di padri diversi, ma incatenati da un legame che va oltre la dedizione e l'amore, un legame viscerale fino a creare una barriera contro gli uragani di una vita complicata e fuori dai binari.
Il pathos creato da Valentina nel ritrarre la vita amara e coraggiosa dei suoi protagonisti è notevole; il freddo dei luoghi e dell'anima si schianta contro il calore di questi giovani perduti.
Quella dell'autrice non vuole essere un'operazione per giustificare un certo genere di vita; vuole essere il raccontare una storia a tuttotondo con la consapevolezza del male che si annida in tanti contesti sociali, ma allo stesso tempo vuole essere un invito a non fermarsi alla superficie della problematica, perché dietro al termine “degrado” comunemente usato, ci sono dei volti, dei nomi, delle storie, ci sono dei cuori marci e dei cuori da salvare, ci sono persone intenzionate a perseverare e ci sono persone che vorrebbero trovare il sentiero per evadere da quella gabbia.
Un buon romanzo, una scrittura moderna, ricca di dialoghi conditi da un gergo prettamente giovanile; un romanzo che riesce ad arrivare al cuore di chi legge, senza stupire con note eclatanti ma portando tra le righe tanta quotidianità di gesti e di pensieri.
Tanti giovani autori si cimentano su tematiche sociali attuali, tra questi a pieno titolo possiamo annoverare la D'Urbano, che con la sua ultima storia, immortala un pezzo della nostra società e delle nostre città.
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Anime sole
Particolare e ben congegnato il romanzo del francese Seksik, dedicato alla famiglia Einstein.
L'autore utilizza le voci di Albert, della prima moglie Mileva e del figlio Eduard, per ricostruire uno spaccato familiare vibrante e doloroso.
Le tre voci si alternano dando vita ad una narrazione fluida ed omogenea che mostra da diversi punti di vista, legami, vuoti, dolori, incongruenze, delusioni di una famiglia dal cognome altisonante.
Sullo sfondo di un periodo storico denso di eventi, si muovono i membri della famiglia Einstein; una coppia di coniugi alla deriva, due figli da crescere di cui il minore affetto da una grave patologia psichiatrica, una madre dedita fino allo stremo alla cura del figlio più debole, un padre che prosegue la propria carriera scientifica giungendo in America per sfuggire alle persecuzioni razziali.
E' un'operazione complicata quella di imprimere veridicità alla narrazione in prima persona, ma Seksik riesce a farlo, confezionando un lavoro altamente realistico, intessuto di monologhi e pensieri genuini.
L'evoluzione dei pensieri attribuiti ad Eduard Einstein è davvero sorprendente, per la profondità e per la verosimiglianza dei contenuti, tenuto conto che provengono da un uomo affetto da una forma grave di schizofrenia, di cui ancora ai tempi non si conoscevano cure adeguate per tenerla sotto controllo.
Senza dubbio un buon romanzo, con cui l'autore si ripropone di mettere a fuoco un lato oscuro della vita del grande Albert Einstein, ossia il rapporto carente con il figlio Eduard e la sua assenza nella vita di quest'ultimo; l'autore non può e non vuole dare risposte nette, ma lascia alla storia una sensazione di indeterminatezza, poichè per quante congetture possono farsi, la verità rimarrà prigioniera nell'anima di ciascun componente della famiglia Einstein.
La certezza che graffia l'intero racconto è la solitudine, di una madre, di due figli e di un padre; questo racconta Seksik ai suoi lettori.
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I possibili volti di Giovanna D'Arco
Marta Morazzoni ha già al suo attivo numerosi romanzi e nel 1997 si è aggiudicata il Premio Campiello con “Il caso Courrier”.
Il suo ultimo lavoro si intitola “ Il fuoco di Jeanne” la cui protagonista è Giovanna D'Arco.
Il titolo desta l'immediato interesse dei cultori del genere storico e biografico, ma trattasi di un lavoro nettamente sui generis, destinato a evadere dal tracciato puramente storiografico.
L'autrice sembra affrontare una scommessa, ossia quella di riuscire a captare tra le molteplici testimonianze letterarie, storiche ed artistiche, notizie e spunti per dare corpo ad una interpretazione personale della vita della pulzella,.
Per riuscire a fare ciò, la Morazzoni si mette sulle tracce di Giovanna, percorrendo luoghi simbolo, città, castelli, musei, chiese, in un lento pellegrinaggio attraverso le terre francesi, cogliendo con occhi avidi e sognanti tutti i segni lasciatici dalla Storia.
L'intento dell'autrice è buono anche se non originale, le capacità espressive sono all'altezza , le testimonianze visive possiedono una grande forza e riescono a trasportare il lettore su quei luoghi e a quei tempi; tuttavia giunti al termine di questo tour un po' storico un po' mistico un po' fantasioso, ciò che rimane veramente tra le mani pensando a Giovanna D'Arco, è una sabbia leggerissima che vola via.
Tra tanta letteratura edita sull'illustre figura, questa prova di scrittura va avvicinata come testo narrativo sperimentale, come un gioco fantasioso che recupera dei tasselli del tempo e prova a disporli in maniera differente rispetto ai dettami tramandati dalla storia, come una torcia accesa tra le pareti buie di un Medioevo lontano anni luce.
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Estrema bellezza stilistica
Cosa aspettarsi dalla lettura di un titolo come “Gita al faro”?
Forse è meglio cominciare col dire che cosa il lettore non debba aspettarsi; ossia una narrazione ricca di eventi, di accadimenti, una trama articolata in una storia appassionata e scandita da un ritmo veloce.
Il romanzo della Woolf è una prova di scrittura che si incanala in una ricerca espressiva e stilistica del cosiddetto flusso di coscienza.
E' una narrazione in cui domina una apparente staticità; la trama in sé è eterea, gli accadimenti rari e sfumati, eppure il tempo passa e mostra i suoi segni non attraverso gli eventi ma nell'anima dei personaggi.
Il tempo è l'oscuro soggetto sotteso alla narrazione; il tempo dapprima immobile, si palesa nella seconda parte della storia. I protagonisti e le loro aspettative mutano con lentezza eppure con decisione negli esiti finali.
Un romanzo di un'estrema bellezza stilistica, il cui impatto può destare perplessità ed una sorta di diffidenza per le sue caratteristiche di impalpabilità e nebulosità; nella fase iniziale assume quasi il sapore dell'incompiutezza per poi avvolgersi con grazia e sottigliezza verso una collocazione studiata di tutte le tessere del mosaico.
Una Woolf da conoscere senza dubbio, la quale pur accogliendo gran parte delle influenze letterarie e filosofiche del suo tempo, tuttavia si impegnò nel rielaborarne contenuti e dare ad essi forma narrativa.
Una lettura adatta a chi non ha fretta, a chi possiede la pazienza di centellinare le frasi, a chi vuole fermarsi a respirare una boccata di aria fresca delle isole Ebridi, a chi ha la capacità di percepire anche le parole del silenzio.
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Cuore primitivo
Da pochi giorni è possibile leggere l'ultimo romanzo di Andrea De Carlo, “Cuore primitivo”.
Ad una primissima analisi, il romanzo appare proseguire le riflessioni dell'autore intorno alla società attuale, le cui basi sono state ben gettate con il precedente “Villa Metaphora”.
Tuttavia in questa prova narrativa De Carlo sembra perdere il bandolo della matassa o meglio, sembra avventurarsi lungo un percorso senza averne delineato a sufficienza le tappe.
Siamo veramente lontani un abisso dalla complessità di costrutto del precedente romanzo, siamo in una terra di mezzo in cui s'intravvede luce all'orizzonte ma si fatica a veleggiare.
Antropologo lui, scultrice lei, sono le due figure trainanti dell'intero racconto; una coppia il cui rapporto si è raffreddato, un piccolo paese ligure, una vacanza estiva, incontri imprevisti.
La narrazione langue fin dalle prime pagine, gli eventi sono stereotipati e prevedibili, le incursioni dell'autore su tematiche antropologiche e sociali sono fredde e didascaliche.
Un romanzo mal congegnato, in cui i personaggi anziché seguire un processo di evoluzione, sembrano involvere arrancando sul terreno melmoso della mediocrità.
Tra gli argomenti seminati tra le righe ma incompiuti vi è quello della propensione naturale dell'uomo a determinati comportamenti, insomma quel cuore primitivo che dà titolo al romanzo e di cui sarebbe stato interessante approfondirne gli aspetti sul piano umano e sociale.
Un'occasione perduta per De Carlo per continuare a raccontare un pezzo di attualità, per scavare in profondità nel cuore primitivo dell'uomo; l'operazione non vuole essere semplice tuttavia il lettore cerca questo tra le pagine di un libro, cerca vita e calore, cerca sentimenti ed emozioni.
La stesura di questo ultimo romanzo appare figlia della fretta, generando una mole di pagine che se passate al setaccio lasciano pochissimi granelli di riflessione.
Attendiamo De Carlo alla sua prossima prova, in quanto le sue capacità narrative non si esauriscono qua, ma possono confezionare romanzi di ben altra fattura.
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Il Tibet di Harrer
Una storia di vita davvero incredibile quella dell'austriaco Heinrich Harrer, da lui immortalata nelle pagine di “Sette anni nel Tibet” edito nel lontano 1953.
Nella prefazione Harrer si scusa con i lettori per non possedere le doti di uno scrittore, ma considerando l'immenso valore del contenuto che ha tramandato con il suo racconto, riceverà solamente “un grazie”, perchè questo non è terreno adatto per critiche allo stile di scrittura.
La storia del giovane alpinista internato nel 1939 in un campo di prigionia britannico ai piedi dell'Himalaya è oramai nota a tanti a seguito della trasposizione cinematografica, ma la lettura del diario di Harrer possiede il valore aggiunto di descrizioni vivide e accurate di paesaggi, consuetudini, usanze di un popolo dalle tradizioni millenarie.
Uno spaccato del Tibet antecedente all'occupazione cinese estremamente esaustivo, colto con gli occhi ed il cuore di chi ha avuto la fortuna di viverci e di riuscire ad integrarsi ed interagire con la popolazione.
Il pregio storico ed antropologico del racconto di Harrer è incontrovertibile, minuzioso e dettagliato,
tanto da essere destinato a divenire testimonianza del Tibet ai tempi della libertà.
Ci si perde tra le pagine di Harrer, rapiti dagli spazi immensi del territorio tibetano, dai silenzi, dai colori candidi delle nevi e accesi degli alberi da frutto, inebriati dai profumi, catturati dalle usanze ataviche di un popolo.
Ritornando allo stile con cui l'opera è scritta, pur avvicinandosi ad un genere reportistico-diaristico, tuttavia mantiene una buona intensità; la presenza di Harrer tra le righe è forte, infondendo alla narrazione emozioni e sensazioni percepibili da parte del pubblico.
Una lettura ricca ed interessante, per nulla tediosa, capace di trasmettere al lettore tutta la passione e l'amore per il Tibet di uomo coinvolto in una avventura-disavventura straordinaria.
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Milano 1981
L'anno 1981 ha una doppia valenza per Giorgio Fontana; è il suo anno di nascita oltre ad essere la collocazione temporale del suo romanzo “Morte di un uomo felice”.
Senza dubbio promette buone cose questo giovane autore a giudicare dalla scioltezza narrativa e dalle buone caratterizzazioni dei suoi personaggi.
Il tema affrontato è importante e amaro come lo può essere la triste e abietta piaga del terrorismo; anni veramente bui e melmosi da scandagliare e da interpretare col “senno di poi”, destreggiandosi tra intrighi politici, figure dubbie e ombre.
Tirando le somme, lo spaccato di quel tempo fornito da Fontana è semplice, in quanto la storia ruota attorno ad una manciata di personaggi, eppure il clima del periodo lo si percepisce abbastanza netto.
L'autore accende il focus della narrazione su un magistrato direttamente impegnato sul fronte terrorismo; Giacomo, un uomo onesto che si impegna ogni giorno perché crede nel proprio impegno e lavoro, un uomo che ha tratto linfa vitale da un padre altrettanto combattivo in nome di ideali quali la libertà.
Ernesto e Giacomo, un padre ed un figlio che si tramandano un innato spirito di sacrificio per ottenere ciò in cui credono.
Le due figure più belle ed il connubio più autentico che la penna di Fontana realizza e che meritano di essere conosciute attraverso la lettura di queste pagine.
Il protagonista si mette a nudo ed in discussione sia come uomo sia come magistrato, esponendo idee e concezioni del tutto personali, di cui probabilmente anche l'autore che gli dà voce ne avrà coscienza; i pensieri di Giacomo non hanno la pretesa di assurgere a valore universale in quanto frutto di una personale formazione familiare, sociale, politica e religiosa, tuttavia interessanti e privi di artificiosità, anzi talora molto semplici, consoni ad un uomo comune e non pseudo-filosofici.
La prova di scrittura è buona e l'autore mostra di avere tutti i mezzi per poter crescere, per affinare l'intensità dei dialoghi e dei monologhi interiori, per cesellare il contenuto ed affidarlo ai suoi personaggi.
Non vuole essere romanzo di eventi, bensì di riflessioni e analisi sugli uomini ed è in questo senso che la penna di Fontana dovrà tendere e maturare.
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Caccia alle streghe
Nel 2006 Tea Ranno esordiva con il romanzo, “ Cenere”.
Un romanzo già opera matura, impeccabile nella costruzione degli eventi, dei personaggi e nell'utilizzo del linguaggio.
Un grande affresco di un'epoca buia e minata da lotte tra potere temporale e spirituale, si delinea a tinte forti tra queste pagine, dominate da un ritmo narrativo incalzante; è il secolo XVII, aristocrazia e servitù, agi e miserie, tribunali e Inquisizione, giudici e prelati.
Calano le tenebre dell'intrigo, della violenza e della follia cieca in piccolo centro della provincia italica; la mano di Tea Ranno disegna con maestria una ragnatela sociale perfetta, ponendovi al centro eterne brame di potere e prevaricazione, unitamente a tanti esseri famelici siano essi principi o popolani.
L'epoca storica è quella in cui la caccia alle streghe funge da copertura politica per annullare i nemici, per vendicare le offese, per gestire scomode situazioni private e sociali.
Le vicende di Stefana e Caterina divengono specchio di un periodo storico complesso e oscuro, grazie alla capacità della scrittrice di delineare questi due volti contestualizzandoli e inserendoli in perfetta sintonia tra le pieghe della Storia.
Un lavoro di ottima fattura, degno figlio di una penna di spessore; il costrutto stilistico è estremamente ricco e ricercato, lontano dal linguaggio snello e rapido di tanta letteratura contemporanea.
Grazie alla capacità linguistica della Ranno, prendono vita immagini di luoghi e di volti fiammeggianti, lampi di luce e nicchie di buio dell'anima, cuori crudeli, miserie umane nere come la notte. Un romanzo che racchiude la vastità dei sentimenti umani, dalla misericordia alla bragia di potere. Romanzo spesso cupo per la crudezza dei fatti, eppure avvolgente e coinvolgente.
Un tassello prezioso per portare ricchezza e consistenza al genere storico, che meriterebbe di essere maggiormente conosciuto.
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Neve e gelo
Mauro Corona con “La voce degli uomini freddi” concorre all'assegnazione del Premio Campiello 2014.
Un romanzo ibrido a mezza via tra fiaba e realtà, dominato dal rapporto tra uomo e natura.
Corona si propone di raffigurare i due volti di questo complesso rapporto.
Dapprima una Natura primitiva ed incontaminata, così come gli uomini che la popolano, eterei, lontani millenni dalla modernità cui siamo avvezzi, perfettamente in sintonia.
Eppoi una Natura che si ribella alla sottomissione dell'uomo, qualora quest'ultimo si appresti a mettere in opera azioni volte a violare le sue leggi.
Per quanto attiene alla collocazione temporale, essa è senza dubbio ambigua e nebulosa, in quanto la narrazione contiene solo un vaghissimo accenno ad un secolo ben definito, ossia il sedicesimo, per poi alternare rimandi ad epoche più vicine.
L'impatto con la lettura è dolce e delicato, un'immersione rapida e dettagliata sulle cime di montagne che sono la culla di una civiltà di uomini bianchi come i fiocchi di neve che ricoprono la terra tutto l'anno; sempre e solo neve, il focolare acceso e i racconti orali tramandati dai vecchi, niente più. Un connubio perfetto tra uomo e terra, una tradizione consolidata che vede nascere e morire felici questi uomini tra le loro vette imbiancate.
La pecca narrativa spunta quando il flusso diviene ridondante, si ripetono le immagini ed i concetti troppo a lungo e la lettura diventa vischiosa e snervante.
L'idea motrice è buona anche se non brilla per originalità, ma il costrutto non è snello e tante pagine potevano essere sforbiciate.
Un racconto con cui Corona si propone una “morale”, una storia che parte col piede della fiaba per divenire realtà, una ricostruzione in parte socio-antropologica di una popolazione veramente esistita, eppure questi ingredienti non si sono amalgamati con successo.
Indicazioni utili
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