Opinione scritta da archeomari

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archeomari Opinione inserita da archeomari    09 Gennaio, 2020
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La dea dalla voce umana

Ulisse, Agamennone, Achille, e poi di nuovo Ulisse, Ulisse e sempre Ulisse! La letteratura è strapiena di eroi, tutti maschi e sempre gli stessi! Finalmente qualcuno che abbia deciso di riesumare dalle ceneri del tempo, la maga Circe! Finalmente qualcuno che scrive un libro rigorosamente fedele alla mitologia, adatto anche ai non addetti ai lavori.

Un libro che, letto in versione digitale, mi sono procurata anche in copia cartacea, perché bello da tenere in libreria, quasi come una prova tangibile di una lettura stupenda che mi ha emozionato dall’inizio.
Per niente impegnativo,in tutto 27 capitoli di media lunghezza, con un elenco finale delle divinità citate e delle parentele.

Circe, il cui nome significa “sparviero”, insieme a Pasifae, Perse, Eete, è una dei figli del titano Elios, che ogni mattina guida il carro del sole nel cielo, e della dea Perseide, vanesia come tutte le dee. Alla nascita di ogni figlio, Perseide si aspetta un filo di ambra dallo sposo. Si aspetta? Pretende, mi correggo.
Sono tutte così le divinità: capricciose, volubili, vanesie, orgogliose...sembrano non conoscere sentimenti profondi positivi, dettati dall’altruismo.

“A loro non importa se sei buona. Importa a malapena se sei malvagia. La sola cosa che attira la loro attenzione è il potere. Non è sufficiente essere la favorita di uno zio, compiacere qualche dio nel suo letto. Non basta nemmeno essere bella, perché quando vai da loro e ti inginocchi e dici: “Sono stata buona, mi aiutate?” aggrottano la fronte.”

Le divinità provano noia per i sentimenti, nell’eternità della loro monotonia, in cui sono sempre giovani e belli, unico momento per divertirsi è litigare, ferire, vivere di intrighi, avere potere . «Dunque è così che gli Olimpi trascorrono le giornate. Pensando a come rendere gli uomini infelici.» Gli esseri umani cosa sono se non esseri informi, nudi come vermi, deboli, con una voce gracchiante come gli sparvieri o i gabbiani?

Circe è la meno amata e considerata da tutta la famiglia, per via della sua voce che sembra quella di un umano. La prima delusione d’amore, l’allontanamento e poi anche la rivelazione della vera indole dell’amato fratello Eete che va a regnare nella Colchide e generà Medea, l’esilio su un’isola desolata, l’incontro con Dedalo, l’assistenza al parto del Minotauro della sorella Pasifae, poi l’approdo di Ulisse anche la nascita di Telegono, suo figlio, appena dopo la partenza per Itaca dell’eroe omerico...e tante tante cose, avvenimenti interessanti con divinità ostili. Una narrazione dinamica, che non rallenta mai.

Un libro per comprendere e rivalutare un personaggio che è stato sempre marginale nella storia della mitologia, assimilata alla prostituta, all’ammaliatrice. Un personaggio negativo, qui invece rivalutato e rivisto in tutta la sua “umanità “. Circe è capace di amare in maniera totalizzante, a differenza dei titani e degli Olimpi. È una donna che sa riconoscere i propri errori, non è orgogliosa e bramosa di potere. Di fronte a quell’uomo intelligente, muscoloso, ma non troppo alto, Ulisse, si sente letta dentro, capita: Ulisse le offre non solo compagnia, ma le parla della sua famiglia, della sua isola, del duro lavoro nei campi e col bestiame, le offre l’umanità che lei tanto sente vicina, tuttavia non può darle l”amore...
Una donna sola su di un’isola sperduta, esposta agli approdi ed ai naufragi di marinai disperati che le chiedono da bere, da mangiare e anche altro, cosa può fare se non difendersi con la magia?

Circe scopre da giovinetta che gli dei temono la magia, le proprietà di alcune piante, chiamate “pharmaka”:

“Quello che più di tutto mi rimase in mente furono gli occhi di mia nonna quando avevo pronunciato la parola pharmaka. Non era uno sguardo che avessi visto spesso fra gli dèi. (...)Avevo cominciato a capire che cosa fosse la paura. Ma cosa poteva mai far paura agli dèi? Conoscevo anche quella risposta. Un potere più grande del loro.”

Ma la magia non è un dono che usa senza sforzo e senza sacrifici, qualcosa di inammissibile per gli dei...

“Lasciate che vi dica cosa non è la magia: non è un potere divino che sgorga con un pensiero e un batter d’occhi. La magia dev’essere creata e plasmata, pianificata e investigata, estratta, essiccata, sminuzzata e macinata, bollita, evocata con parole recitate e cantate. E ancora, può fallire, come agli dèi invece non succede. Se le mie erbe non sono abbastanza fresche, se la mia attenzione cala, se la mia volontà vacilla, le pozioni evaporano e inacidiscono nelle mie mani. Di regola, non mi sarei mai dovuta dedicare alla magia. Gli dèi odiano ogni tipo di fatica, è nella loro natura”.

Sorprendente a quale donna Circe insegnerà le proprietà delle piante e il potere della volontà...non posso fare spoiler!
La Miller è stata geniale e toccante!

L’ho già consigliato alle mie amiche, perché è Bel-lis-Si-mo, ho pensato molto a quali difetti potesse avere, ma non ne ho trovato uno, neppure mezzo! Scorrevole, ben scritto, con una traduzione assolutamente elegante, che non è né troppo forbita ed anticheggiante , né secca e sciatta. La scrittrice, Madeline Miller, già conosciuta per il libro “La canzone di Achille”, è interessata alla mitologia che sta riproponendo in forma romanzata senza stravolgere però i miti stessi, accogliendo le varianti meno conosciute ai più.

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La canzone di Achille, Madeline Miller
Medea Voci, Christa Wolf, per la tematica della donna maga nella mitologia greca, anche se la Wolf offre una rivisitazione in chiave moderna di Medea, mentre la Miller si attiene al mito di Circe
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archeomari Opinione inserita da archeomari    27 Dicembre, 2019
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The turn of the screw

È il primo libro che leggo di Henri James e sicuramente ne leggerò altri appena ne avrò l’occasione. È un libro che divide il pubblico di lettori e quindi l’ho letto con grande curiosità, ma senza avere grandi aspettative.
Titolo originale “The turn of the screw” che mi ha aiutato a non confondermi con la parola “vita” al plurale, poiché non so per quale motivo, ero convinta che la narrazione avesse una “giostra” di vittime, come dire, un thriller. Lo dico perché ero proprio all’oscuro di cosa avrei letto.
Preso in prestito il libro in biblioteca, nell’edizione è Einaudi del 1985, nella traduzione di Fausta Cialente, scrittrice anch’essa, vincitrice del Premio Strega nel 1976.

L’opera di James venne pubblicata nel 1898 e si inserisce a pieno titolo nella letteratura di stile gotico, per l’ambientazione e per la presenza dei fantasmi.
La storia ruota attorno ad una istitutrice che si prende cura di due bambini, Flora e Miles, l’una sugli otto anni, l’altro più grande di qualche anno, che vivono con la vecchia governante, la signora Grose, in una magione sperduta dell’Essex, chiamata Bly.
Orfani dei genitori, i bambini sono protetti da un giovane zio molto impegnato in città per occuparsi di loro, ma che provvede alle loro necessità “a distanza”. In seguito alla morte prematura della precedente istitutrice, viene assunta l’ultima figlia di un povero parroco di campagna, che è la voce narrante della storia principale.
C’è da puntualizzare infatti che la storia ha una cornice, un preambolo, in cui la voce narrante è un’altra persona, un personaggio senza nome che partecipa con degli amici alla notte della vigilia di Natale allo scambio di storie sui fantasmi davanti al focolare. Uno di essi, un certo Douglas, riferisce di avere a casa sua, a Londra, un manoscritto con una storia di fantasmi agghiacciante raccontata dall’istitutrice di sua sorella, una donna affascinante più grande di lui, morta vent’anni prima.
L’arte di raccontare di James viene fuori già da questo espediente del manoscritto: l’uditorio di Douglas dovrà pazientare il tempo che uno dei suoi camerieri si rechi a Londra per recuperare quella lettera-confessione.

La pazienza è la dote che si richiede al lettore per poter apprezzare il libro di James, insieme alla capacità di immaginare, alla capacità di “ascoltare” attivamente senza distrarsi, nonostante le continue prove di attesa, di sottintesi, di detto e non detto che risultano talvolta sfiancanti.

Si tratta di scelte stilistiche che forse oggi danno fastidio. Lo stesso consunto espediente del manoscritto per l’autore è indispensabile, è quasi come un oggetto magico che dà valore e legittimità alla testimonianza e, con le sue imperfezioni, ci convince di più, perché ha un’aura di autenticità.

In realtà, dai taccuini di James, che sono una fonte inesauribile di spunti/appunti, una semenzaio delle opere, sappiamo che questa storia è ispirata ad un fatto narratogli dall’arcivescovo di Canterbury suo amico, in cui due bambini erano oppressi dai fantasmi dei loro inservienti morti in circostanze non precisate.
Da questo spunto James tesse una storia che, anche oggi, come ha riferito la Wolf, continua ancora a farci avere paura del buio. Certamente non siamo di fronte ai best seller del brivido moderni, con tanto di trucchi cinematografici (James non ebbe fortuna e non fu mai un autore da best seller ai suoi tempi), ma quelle pagine ti tengono incollata e sospesa e, alcune scene, come quella del fantasma che appare dalla torre, mettono addosso una spiacevole inquietudine.

Flora e Miles i due bambini che appaiono agli occhi dell’istitutrice narrante come pura bellezza e bontà, sono in realtà corrotti dalla depravazione dei fantasmi di Quint, defunto inserviente di Bly, e della signorina Jessel, l’istitutrice precedente.
La protagonista, voce narrante della storia, nonostante il grande coraggio, forza d’animo ed intelligenza, rimarrà comunque una semplice testimone delle apparizioni e non riuscirà a mettersi in contatto con il padrone di Harley Street, zio dei bambini. La mancanza di comunicabilità con lui non fa altro che caricare di più il parossismo della vicenda e dello stato d’animo dell’istitutrice, proprio come negli incubi della peggior specie. Quest’ultima, unica persona insieme ai bambini, capace di vedere i fantasmi, è delineata già dalle prime battute: “Ricordo tutto l’inizio come un succedersi di voli e di cadute, una piccola altalena di turbamenti giusti o sbagliati. Dopo lo slancio che, in città, mi aveva spinta ad accettare l’invito, passai un paio di giorni veramente pessimi da ogni punto di vista”.
Una donna che non conosce mezze misure, dagli stati d’animo altalenanti: ora vede nei bambini degli angioletti, ora vede in loro il germe della cattiveria e dell’ambiguità, ora prova ammirazione e stupore nei loro confronti, ora terrore. Il personaggio giusto per far sì che il lettore pensi a lei come ad una persona dai nervi fragili.

Sull’interpretazione di questa storia e sullo stile di James ci sono pagine e pagine di meravigliosa e illuminante critica.
Io non posso dire altro, la storia è breve e densa. A me è piaciuta molto: ho adorato i paesaggi, l’architettura della storia, la maestria con cui James ha descritto le apparizioni e, soprattutto, ho amato ed apprezzato i silenzi. Unica pecca: troppi sottintesi, troppa attesa, troppe cose dette per metà . Ma forse è un problema del lettore contemporaneo, abituato alle immagini già pronte, avvezzo a trovare una veloce gratificazione nell’attesa della lettura e disabituato ad una “costruzione immaginifica paziente”.









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Consigliato anche a chi non ha letto “La bestia nella giungla” , “L’altare dei morti “ e altri racconti di fantasmi di James.
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archeomari Opinione inserita da archeomari    27 Dicembre, 2019
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Duplicità e dialettica di un narcisista

Con inevitabili sprazzi di SPOILER

“Non ho mai avuto bisogno di imparare a vivere. Sapevo già tutto dalla nascita”

Il commento inizia così citando le parole di Jean-Baptiste Clamence

Un libro molto breve, ma dalle pagine densissime di concetti e riflessioni degne di essere annotate e riprese ogni volta che se ne sente la necessità.

Scritto nel 1956 ed ambientato in Olanda, precisamente ad Amsterdam in un bar del porto chiamato Mexico-City, l’opera consiste nel lungo discorso tenuto dall’ex avvocato parigino, ora giudice-penitente- come ama definirsi- Jean-Baptiste Clamence, ad un avventore del locale.
Il monologo, perché di un monologo si tratta, non essendoci replica da parte di chi sta ascoltando, subisce interruzioni nella finzione della storia, ma nella realtà del lettore è un fluire di parole in continuità.

Il linguaggio è garbato, affabulatore, cinico, forbito “ confesso di avere un debole per il congiuntivo” dirà Clamence, che nel parlare ostenta conoscenze in vari ambiti della cultura (scienze, arte, storia). L’auto compiacimento non si limita al solo linguaggio raffinato e ricco, ma si estende a tutta la sua persona, al suo modo di vivere, al suo aspetto fisico che emana, a sentire le donne con cui è stato, un certo fascino. Per amor di chiarezza spiega anche cos’è il fascino:

“Sa cos’è il fascino: quella cosa per cui ti senti rispondere sì senza aver fatto alcuna domanda precisa”

In una parola: irresistibile per una donna.

Perché l’uomo è duplice “non può amare senza amarsi”, non può essere felice se l’autostima è nella media, se non è libero dai giudizi degli altri. Nel momento in cui mostra una debolezza, scatta il giudizio e il pre-giudizio della gente.

A discapito della brevità, l’opera tratta tantissimi temi interessanti: non solo la superficialità dei sentimenti, dall’amicizia all’amore, ma tocca altre tematiche. La morte come spettacolarizzazione del dolore, come unica chiave che apre quella porta dei sentimenti veri sempre chiusa, la dialettica del potere e della servitù, dell’innocenza e della colpa, toccando anche il personaggio di Gesù.
Ed in questa dialettica spietata che egli spiega al suo interlocutore come mai da avvocato, ricco, ammirato e felice è diventato giudice-penitente.

Un uomo pieno di sé che tranquillamente confessa di aver amato tante donne solo sensualmente e mai nella profondità di un sentimento, mai “appesantito” da un legame. Questo concetto dell’amore fisico senza legame ricorda, con le dovute precisazioni e distanze, il libro di Kundera “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, (pubblicata circa trent’anni dopo l’opera di Camus): Clamence fa pensare molto a Tomaš che, nonostante “il peso” del matrimonio con Theresa, separa allegramente l’amore dal sesso.

Il nodo cruciale è però il suo trauma che cerca di risolvere, ma a noi non è dato di sapere se ci riuscirà: nella notte sente una risata acuta e poi una ragazza che si getta nella Senna. Lui non ha fatto nulla per salvarla, si è nascosto dietro ad un “ormai è troppo tardi” “è troppo lontano”. La caduta della ragazza che rideva mentre si stava ammazzando, un po’ come Demetra che riesce a trovare la via degli Inferi ridendo nonostante il cuore a pezzi, rimarrà il suo incubo e la sua colpa. Anche agli occhi della sua coscienza Clamence non più innocente, si è macchiato di qualche colpa. Non può più essere giudice e in qualche modo dovrà provare ad espiare questo peccato, sarà un penitente a modo suo.
Clamence è un personaggio cinico e spietato che si nasconde dietro il ben parlare e la gentilezza dei modi. Un uomo attuale quale Camus ha sempre cercato di delineare nei suoi romanzi poiché
“L’ottimismo comodo, nel mondo attuale, non ha tutta l’aria di una derisione? Detto questo io non sono tra coloro che assicurano che il mondo corra verso la sua rovina. Non credo alla decadenza definitiva della nostra civiltà. Credo – beninteso senza nutrire su questo nient’altro che illusioni…ragionevoli – sì, credo che una rinascita sia possibile”. Con queste parole di speranza, tratte dall’intervista presente nella raccolta “L’estate ed altri saggi” (Bompiani) invito a leggere un altro grande libro di Camus , “L’uomo in rivolta “.

La lettura condivisa di questo libro con QFriends ha dato modo di scoprire tantissimi richiami letterari, per questo rimando alla discussione dedicata al libro creata da siti (Laura).


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Gli altri libri di Camus.
Ho trovato tratti del pensiero camusiano in Houellebecq, in particolare Serotonina
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archeomari Opinione inserita da archeomari    22 Dicembre, 2019
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Collezionismo come protesta

Un libro molto bello, meritevole, a torto sconosciuto o dimenticato.
Bruce Chatwin, autore di libri di viaggio come “In Patagonia”, lo pubblicò prima della morte, nel 1988 ed ottenne subito l’approvazione della critica.
Il testo originale è in inglese, Adelphi lo ha pubblicato per la prima volta nel 1989 con la bella traduzione di Dario Mazzone. L’opera è ambientata a Praga, negli anni ‘50, gli anni difficili del regime praghese e il protagonista della storia è Kaspar Utz. La voce narrante è interna alla storia, si tratta di un giornalista inviato dal direttore di una rivista per scrivere un articolo sulla passione dell’Imperatore Rodolfo II per la collezione di oggetti esotici. Si narra infatti che il famoso imperatore soffrisse di depressione ed avesse trovato nel collezionismo un rimedio contro questo male. Nell’ambito di questa ricerca l’io narrante, inviato speciale, incontra un uomo particolare, un collezionista di porcellane, Kaspar Utz.
Utz è un uomo molto riservato, solitario, ha studiato in Inghilterra in gioventù, poi è ritornato a Praga ed ha scoperto di avere una passione smisurata per le porcellane fabbricate nel Meissen, in Sassonia. Questo genere di porcellane era ed è tuttora molto famoso: i soggetti sono in gran parte personaggi del teatro dell’arte, raffigurano damine, animali, coppie di innamorati. Chi conosce le porcellane di Capodimonte riuscirà subito a comprendere il genere e le caratteristiche della lavorazione, poiché- nel libro è anche raccontata la storia della porcellana- la reale fabbrica napoletana si era proprio ispirata a quelle statuine tedesche.
È un libro che consiglio sia perché ben scritto, scorrevole e lineare, con qualche breve flashback, sia perché vi è una storia che fa riflettere sull’invadenza dei regimi totalitari nella vita privata delle persone.
Utz può tenere le sue porcellane purché accetti di farsele fotografare e catalogare da incaricati delle autorità comuniste.
Ogni volta che accoglie nella sua dimora queste persone, Utz si sente come se avesse subito un’invasione spiacevole nella propria intimità e vede, in ogni fotografia scattata alla sue statuine, un furto.

Utz reagisce a queste forme di governo continuando imperterrito a collezionare porcellane, sostenuto anche da Marta, la fedele e devota domestica.
La porcellana, quale materiale quasi magico, inventata da un alchimista, vive come la fenice “Nel fuoco le porcellane muoiono, e poi tornano a vivere. (...) la porcellana non era solo un materiale esotico come un altro, ma una sostanza magica e talismanica- la sostanza della longevità, della potenza, dell’invulnerabilità “. È così che Utz racconta al giornalista narrante l’importanza della porcellane nel Settecento. La porcellana va oltre la vita delle persone, se ben conservata non perisce, sopravvive al suo proprietario. La porcellana è una risposta alla decadenza.

La storia è breve e non posso dire molto: ci sono alcuni indimenticabili passi che ho trovato esilaranti come quelli del botta e risposta tra Utz e il suo amico, un paleontologo che colleziona mosche comuni, Orlík.
Nel testo si parla non solo di porcellana, ma anche di cibo,in quanto vengono nominate tante varietà di piatti non solo praghesi, ma di tutto il mondo a testimoniare la conoscenza dei vari popoli con cui Chatwin era venuto in contatto durante i suoi viaggi di lavoro.

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archeomari Opinione inserita da archeomari    15 Dicembre, 2019
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A very British hybrid

È la prima volta che leggo questo autore, invogliata dalla presentazione del libro nel negozio online dove l’ho comprato in edizione Newton digitale, nella traduzione di Fedora Dei. Quando si compra un libro in versione digitale si ignorano le dimensioni del corrispondente cartaceo e non ci si può orientare neppure scaricando l’estratto gratuito. Chiunque legge per passione sa che se un libro è ben scritto, il numero delle pagine non conta.
In questo caso, per quanto mi riguarda, lo stile scorrevole e piacevole non è bastato da solo ad alleggerire il testo dal “peso” della lunghezza della storia.
Definirlo un giallo, un poliziesco è sbagliato e riduttivo, in quanto presenta motivi anche gotic/noir, atmosfere vittoriane, punte di spionaggio, in alcuni passaggi note “svenevoli” da romanzi rosa . È un romanzo complesso, una miscellanea lunga e imponente, con un intreccio magistralmente tenuto insieme dal racconto a più voci: vari personaggi, anche minori, rilasciano testimonianza scritta dei fatti che ruotano attorno ad un “segreto” con scambio di persona (tematica antica dei “sosia” o dei gemelli).

L’autore presenta la storia in un preambolo, anticipando che:

“Questa è la storia di quanto la pazienza di una donna può sopportare e di quanto la determinatezza di un uomo può conseguire”

La donna, la figura femminile veramente degna di ammirazione e di rilievo di tutta la storia è Marian Halcombe, dal carattere forte, determinato, dall’intelligenza fuori dal comune, lontana dalle ipocrite e vanesie donzelle dell’alta società. La prima volta che incontra il giovane Walter Hartright , il protagonista maschile, assunto dallo zio in casa come insegnante di disegno, lo lascia basito per la franchezza delle sue parole e dei suoi discorsi. Riguardo a feste da ballo, abiti, nastri, cappelli e flirts ha le idee ben chiare: sono cose noiose. “Non sembro aver gran stima del sesso a cui appartengo, vero? Ma credo che molte donne la pensino come me, anche se non esprimono liberamente la loro opinione” sostiene lei.
Laura Fairlie è l’amata sorella (in realtà sorelle solo da parte di madre) di Marian: bella, bionda, arrendevole e delicata che farà impazzire d’amore Hartright . Nella prima parte del romanzo infatti, Hartright racconta di come giorno dopo giorno lui e Laura abbiano scoperto di amarsi, ricambiati, uniti dalla lezione di disegno e da una accesa sensibilità verso la bellezza della natura. Momenti di estasi pura fino a quando...si scopre che Laura è promessa sposa ad un uomo più in là con gli anni, ma prestante e di bell’aspetto: Sir Percival, dal passato non propriamente limpido, che nasconde un segreto che verrà svelato solo alla fine della lunga storia che mi ha tenuta incollata alle pagine soprattutto all’inizio e alla fine. Nella parte centrale ho talvolta perso l’entusiasmo, la storia si è rallentata, l’attesa per la svolta finale è stata messa a dura prova.
La donna in bianco, vi chiederete, chi sia. Non è né Marian , né Laura, ma una creatura fisicamente simile a Laura, però offesa dal marchio infamante della pazzia e per questo rinchiusa in un manicomio: Anne Catherick. Il titolo del romanzo è in parte fuorviante, poiché la donna in bianco, Anne, in realtà non è la protagonista della storia. L’opera, come si è detto sopra, consta di testimonianza a più voci, delle vicende che vedranno contrapporsi Laura, Marian e Walter a sir Percival (che sposerà Laura) e al suo amico, l’italiano Fosco, un conte.
Su quest’ultimo qualche parola va spesa: un sessantenne gigantesco e grasso, ma ancora forte e baldanzoso, un capolavoro di eloquenza e talvolta di vacue ed ipocrite parole, questa sembra l’idea che Collins (e non solo lui!) abbia avuto degli italiani. Un uomo subdolo, galante con le donne, ma pericoloso, “guanto di velluto e mano di ferro”, mai espressione fu tanto felice. Vi delizierete della sua eloquenza nella parte finale del romanzo, c’è posto anche per la sua pomposa deposizione. Un uomo sfuggente, misterioso, persuasivo...all’altezza di una come Marian Halcombe. Ma non dico altro.


Io credo che ci vuole passione per i classici per apprezzare questo libro e questo autore, all’epoca osannato da Thomas Eliot. Ho trovato ovunque pareri positivi, ma secondo il mio gusto personale, la lunghezza della storia è ingiustificata e il finale non mi è piaciuto. Scoprite voi il perché!

Un romanzo complesso per chi ama i grandi classici e il libri che sfuggono al genere.

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A chi ama scoprire classici senza tempo, si può anche cominciare con questo e leggere altri libri di Wilkie Collins, scrittore decisamente prolifico.
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archeomari Opinione inserita da archeomari    13 Dicembre, 2019
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Qualunque artista sogna di cambiare il mondo

Qualunque artista sogna di cambiare il mondo, di migliorare la vita e l’anima degli altri, con le proprie opere. E io, a modo mio, l’avevo fatto”.

Plautilla Briccia, figlia dell’eclettico ed inquieto Giano Materassaio, racconta la sua vita in prima persona, dai primi ricordi dell’infanzia agli ultimi momenti . Un testamento di forza, di coraggio, di passione per l’arte e di desiderio di riscatto sociale. Ultimo lavoro di Melania Mazzucco, una scrittrice italiana tra le più amate ed apprezzate (oltre che pluripremiate) che torna al suo cavallo di battaglia : il romanzo storico.

Dal concepimento alla stesura di questo romanzo la scrittrice ha speso più di un decennio di ricerca in vari archivi e biblioteche. Sul sito Einaudi la Mazzucco ha reso disponibile un fascicolo di 27 pagine di bibliografia dei luoghi, delle persone, delle opere citate, per gli scrittori e gli studiosi che vorranno avvalersene per approfondimenti, poiché tutti i personaggi, anche quelli minori, sono realmente esistiti.

Il libro è abbastanza voluminoso, ma la lettura è veramente godibile ed interessante la trama. È uno di quei romanzi che fanno compagnia e che dispiace terminare.

La narrazione si snoda in un doppio filo temporale: quello principale e più ampio che comprende le vicende di Plautilla dal 1624 al 1678 e quello più piccolo degli “intermezzi” (così chiamati nel libro) posti alla fine di ogni capitolo che narrano gli eventi dell’estate della Repubblica romana del 1849, con Garibaldi che, dopo essere passato per porta San Giovanni era volto all’inseguimento delle truppe dell’esercito napoletano. I capitoletti “lampo” degli intermezzi hanno la loro ragion d’essere nella presenza dell’ imponente Villa Benedetta, la grande Villa, il sogno di Plautilla chiamata dai soldati che lì si rifugeranno, il Vascello, per via della sua forma ad imbarcazione. Potete ammirare la Villa e le opere di Plautilla Briccia negli inserti illustrati del libro, che rendono prezioso il volume, graficamente ben curato.

Un’opera di grande respiro, sia per la ricchezza di personaggi in cui si imbatterà Plautilla, sia per la poderosa ricostruzione storica. La rigorosità è protagonista insieme all’architettrice: personaggi calati perfettamente nell’epoca e nel contesto di una Roma barocca del Seicento, l’epoca dell’arte fastosa e capziosa, l’epoca in cui la Chiesa cattolica rispose alla “sfida” della riforma luterana costruendo chiese e cattedrali maestose e imponenti, per riconquistare i suoi fedeli catturandoli col piacere delle immagini e dei racconti visivi. Un terreno narrativo fertile per raccontare di intrighi, di miserie, della quotidianità della morte, di bigotteria e di libertinaggio, di pittori “posseduti dal colore” come Pietro da Cortona e il Bernini che dominano la scena artistica e culturale della Roma di quel secolo.
È questo il contesto in cui vive la nostra “architettrice”, la nostra Plautilla. Educata dal padre, uno scrittore di libelli molto amati dal popolo, snobbato dagli ambienti aristocratici, la protagonista non solo riuscirà ad uscire dall’umile ruolo di decoratrice di arredi, ma, grazie all’aiuto di Elpidio Benedetti, giovane abate al seguito del famoso cardinale Mazzarino, si farà strada tra le famiglie più importanti di Roma dipingendo quadri a tema religioso fino a realizzare il suo sogno più grande :

“Diventare architetto, (...) trasformare un disegno in pietra, un pensiero in qualcosa di solido, perenne. Tirar su una casa. Scegliere le tegole del tetto e il mattonato del pavimento. Immaginare facciate, cornicioni, architravi, logge, scale, frontoni, prospettive, giardini. Per quanto ne sapevo, una donna non l’aveva mai fatto. Non esisteva nemmeno una parola per definirla”.

Ma come in tutte le grandi cose, c’è un prezzo alto da pagare, un sacrificio grande e, per una donna, un percorso ancora più difficile e doloroso. “L’arte non si concilia col fardello del matrimonio” le aveva detto suo padre e lei non potrà mai scoprire la gioia di essere amata nel senso pieno del termine, di avere tra le braccia un figlio, carne della propria carne, che non sia uno dei figli della sorella Albina, morta dopo il settimo parto. La Mazzucco ha una penna versatile e scorrevole che sa descrivere anche le scene più crude e dolorose, i particolari più cruenti e realistici di un mondo dove la morte faceva parte della quotidianità delle famiglie, dove i bambini che riuscivano a superare i cinque anni di età potevano sperare di diventare adulti, dove le donne invecchiavano a trent’anni per i troppi parti, tenute lontane dal mondo della cultura perché considerate inferiori all’uomo intellettivamente. La storia di Plautilla, riesumata dalla polvere dei secoli, ci viene restituita in tutta la sua straordinarietà dalla penna di Melania Mazzucco insieme ai colori ed ai fasti dei personaggi che hanno fatto la storia di Roma e dell’arte barocca.

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La lunga attesa dell’angelo, Melania Mazzucco
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archeomari Opinione inserita da archeomari    04 Dicembre, 2019
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Ritorno alla letteratura del viaggio

A partire dalla fine dell’Ottocento ad oggi la letteratura ha smesso di essere “letteratura del viaggio” per diventare invece “letteratura della fine del viaggio”. Con i mezzi di trasporto e, ancora di più, la rivoluzione digitale, la grande metafora del viaggio che ha alimentato le più grandi opere dell’umanità -poemi epici, la Divina Commedia, il Milione (per citarne solo pochi e rimanere in Europa...) ha perso col tempo il suo “valore di esperienza essenziale che aveva nelle società tradizionali” , come conoscenza, come crescita, a anche fuga ed evasione (rimando all’interessante fascicolo I rivista letteraria “L’asino d’oro”, maggio 1990, “Fine dei viaggi: spazio e tempo nella narrativa moderna”).
Peter Handke in questo nuovo libro, da lui definito “ultimo epos” come si legge nella seconda di copertina, riprende, sotto certi aspetti, il significato del viaggio, dello spostamento fisico, a piedi, alternato a brevi “strappi” di percorso su rotaie, in cui il cammino diventa scoperta o ri-scoperta, diventa un percorso interiore ed intimo.
Con uno stile inconfondibile, falsamente agile e diretto, poiché apparentemente scorrevole, ma che risulta poi denso di immagini, di simboli e di rimandi, costringe il lettore a concentrarsi sulle pagine, a rileggere molti passi sia perché superbamente poetici, visionari e paesaggistici, sia perché dalle righe irraggiano significati che richiedono ulteriori riflessioni.
Un ritorno alla letteratura come scoperta, ma con originalità.
L’ambientazione e la collocazione temporale sono contemporanee, ci sono riferimenti ad episodi della storia mondiale recente, strizzatine d’occhio alla cinematografia e alla musica moderne, ma le vicissitudini della “ladra di frutta” sono come marginali a tutto ciò. La narrazione è in prima persona: l’io narrante, un uomo in là con gli anni, decide di mettersi in viaggio, di lasciare la sua “baia di nessuno” e tornare ai luoghi del suo passato. Contemporaneamente anche una giovane donna, chiamata “la ladra di frutta”si mette in viaggio per ritrovare la madre, una bancaria in carriera che aveva deciso di abbandonare il suo lavoro. Due cammini che si sovrappongono generando coincidenze, esperienze uniche, epifanie, barlumi di vita autentica, veri e propri rapimenti dell’anima.
Già dalle prime pagine si respira un Handke meno cupo e funerario rispetto a ‘Infelicità senza desideri”, la sua penna crea magiche sinestesie che attivano i sensi del lettore: primi piani naturalistici, brevi però, si alternano ai pensieri e si inseriscono nel tessuto della storia. Indimenticabile l’immagine estiva con cui inizia il romanzo: tutto comincia con una puntura di ape, ai primi giorni di agosto

“Era - anche questo come sempre - un giorno di sole, almeno nella tarda mattinata, di inizio agosto, ma non ancora un giorno torrido, con un azzurro invariabile, alto e sempre più alto nel cielo. Neanche l’ombra di una nuvola -e se pure ce ne fosse stata una: ecco che si era già dissolta. Soffiava un vento leggero, tale da mettere le ali ai piedi, come spesso in estate veniva da ovest e ci si immaginava che dall’Atlantico si diramasse nella baia di nessuno. Non c’era rugiada da asciugare. Come accadeva già da una settimana buona, gironzolando la mattina presto per il giardino non si avvertiva nemmeno un sentore di umidità sulla pianta dei piedi, per non dire poi tra le dita”.

La puntura d’ape è il segnale: è ora di partire, è tempo di rimettersi in cammino e così l’io narrante decide di mettersi in viaggio e a raccontarci della “ladra di frutta”, anche lei in viaggio. Questa fantomatica creatura, ricostruzione di una fanciulla fuori dall’ordinario, che da bambina rubava frutta che trovava a portata della sua mano, da ogni ramo in cui capitava di imbattersi, è calata nel suo tempo (ama il rap, usa uno smartphone), ma allo stesso tempo è un’outsider, vive ai margini, è “invisibile”. Ed Handke gioca molto sulla visibilità/invisibilità di questa giovane, ora notata dalle persone, ora dimenticata, ora viva e reale ora personaggio immaginario. Ed anche il tempo, nonostante gli agganci ed i riferimenti con la contemporaneità sembra sospeso, anzi sembra completamente assente. Ci sono momenti in cui il tempo non conta...sembra di vivere in un sogno e Handke è il maestro dello straniamento.

“Già: per l’ennesima volta nella mia vita avevo visto proprio quelli che mi erano più vicini, e, mi si presentavano davanti in carne ed ossa, come dei fantasmi, totalmente diversi, particolarmente pallidi, estranei, anzi, proprio per il loro particolare vivo pallore, come persone particolarmente diverse. Anche coi miei figli mi è capitato (...)”


In questo libro il viaggio della “ladra di frutta” assurge a metafora dell’esistenza: il lutto, un’amica di infanzia ritrovata, l’amore, l’essere figlia. Un romanzo in cui il simbolico gesto di rubare un frutto e di non essere visti assume significati più profondi del piccolo furto in sé.

Nel romanzo tornano i paesaggi (e termini) cari all’autore: la Piccardia, la Gare Saint Lazare, Courdimanche, la “baia di nessuno” , e, seppur soltanto nominata , la Sierra de Gredos, cui l’autore dedica un’opera interessante “Le immagini perdute ovvero attraverso la Sierra de Gredos” (al momento fuori catalogo, in attesa di ripubblicazione Guanda).

Un libro che ha tanto da raccontare.

“La ladra di frutta” è un romanzo complesso, che merita, come le grandi opere del passato, una rilettura anche a distanza di tempo, un libro universale che, sono sicura, non smetterà di parlare alle future generazioni.

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archeomari Opinione inserita da archeomari    22 Novembre, 2019
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Distopia e disumanità

Mi piace sempre cominciare un commento citando gli eventuali Premi o la partecipazione a Premi letterari, del libro letto. Questo non perché consideri l’assegnazione di un Premio quale garanzia di qualità di quel romanzo, ma per dovere di informazione. “Carnaio”di Giulio Cavalli , Fandango edizioni, è stato inserito nella cinquina finalista del Campiello di quest’anno ed è stato probabilmente l’opera avente una tematica più attuale e scottante.
Secondo me è un romanzo ben riuscito, con un finale che mi ha lasciata perplessa, che mi ha fatto pensare a “La guerra dei mondi” , in versione rovesciata, di Wells, ma forse, a conti fatti, era inevitabile e più logico.

Un romanzo distopico e grottesco, dai risvolti disturbanti e disumani che fa riflettere paurosamente sull’immigrazione, su queste ondate di “stranieri” che giungono su precarie imbarcazioni di fortuna lungo le nostre coste. Nel romanzo però gli “stranieri” sono tutti morti, sono tutti uguali, corpi senza volto, tutti di sesso maschile, della stessa taglia, altezza, addirittura della stessa circonferenza toracica ed addominale. Tutti uguali, tutti, come se fabbricati in serie.
Perché? Probabilmente perché la disperazione non ha volto, non ha età, ognuno di noi potrebbe essere quel corpo, un naufrago, gettato dal mare presso un qualsiasi paese o una qualsiasi isola, come quella del romanzo, DF.
Anche l’ambientazione non ha nome, viene indicata una piccola cittadina italiana di mare, con queste due lettere, DF, che potrebbe essere una qualsiasi Lampedusa del mondo. Nella DF del romanzo non serve assolutamente un centro di accoglienza: gli “immigrati”sono tutti morti, servirebbe un obitorio gigantesco!
Dopo i primi, isolati, ritrovamenti di corpi che gettano nello scompiglio la tranquilla DF, arrivano ondate inaudite di cadaveri, vomitati dal mare:

“Di là dell’altura c’erano corpi. Morti. Un tappeto di corpi ammassati come sacchetti, decine, forse un centinaio di corpi accavallati dal mare quando tira le righe sul bagnasciuga, con le facce schiacciate uno sullo sterno dell’altro, un piede che usciva da una pila senza che se ne intuisse il resto, innaturalmente snodati come bisce, stesi senza ossa, sfilettati, con magliette e pantaloni leggeri consunti dall’acqua e ingessati dal sole, cadaveri di persone (...)”


Nessuno si chiede da dove provengano, perché siano morti. L’unica preoccupazione è liberarsene.
Una vera “onda di carne, senza corpi, a forma di massa, non tutta contenuta nella forma intelligibile di esseri umani” che copre la città di diversi centimetri, al punto che le autorità di DF, di fronte all’assenteismo dello Stato, alla paralisi della Chiesa, al falso buonismo, all’ipocrisia dei giornalisti stranieri che accusano gli italiani di disumanità e di razzismo contro questi corpi, prendono una decisione estrema: DF si autoproclama Città-Stato indipendente.
Purtroppo quella non sarà l’unica decisione, l’unica misura...lascio a voi la scoperta di tutta una serie di soluzioni adottate, una climax che vi lascerà inorriditi, per “smaltire” i corpi e purificare l’aria.

Un libro interessante, ben scritto, con una prosa scorrevole, assolutamente non lento, intessuto di dialoghi con discorso diretto libero, in assenza quasi totale di punti e virgole allo scopo di rendere più concitati i pensieri e le parole dei personaggi del romanzi, alcuni dei quali sono ben tratteggiati con poche e rapide pennellate e risultano delle vere “macchiette”, alter ego dei nostri politici, dei nostri giudici, dei nostri giornalisti e del clero dei piccoli borghi.
Un romanzo distopico dove il dramma dell’attualità incontra il grottesco e il paradossale.


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archeomari Opinione inserita da archeomari    17 Novembre, 2019
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Letteratura come urgenza

Se non fosse stato per il Nobel di quest’anno, probabilmente Peter Handke sarebbe rimasto, almeno in Italia, un autore se non sconosciuto, “riservato” a pochi. La casa editrice Guanda si è subito data da fare per ripubblicare o pubblicare entro quest’anno i libri che non erano stati ancora tradotti in italiano, la cui uscita era prevista per l’anno prossimo.
Questo breve romanzo è stato scritto nel 1972, ma in Italia è arrivato tardi: è stato edito da Garzanti, in due edizioni (1999 e 2013). Critici del calibro di Claudio Magris e Giorgio Manacorda - si legge nella Presentazione - l’hanno subito considerato un testo destinato a diventare uno dei più importanti classici del secondo Novecento.
Da lettrice che legge per la prima volta l’austriaco Peter Handke onestamente mi sento di dire che ho trovato il libro, nonostante qualche richiamo a Camus e ad Auster, fortemente innovativo e sperimentale, originale in qualche modo, con tutte le conseguenze che ne possono derivare. Ma soprattutto l’ho trovato forte, doloroso, realistico.

L’incipit è diretto e freddo:

“Nella notte tra venerdì e sabato una casalinga cinquantunenne di A. (comune di G.) si è suicidata con una dose eccessiva di sonnifero”. Dal trafiletto del giornale” Volkszeitung”

Sembra l’inizio di un romanzo giallo, ma assolutamente non è così.
La donna che si è suicidata è la madre dello scrittore e questo libro è la testimonianza di quanto la letteratura sia stata per Handke un’urgenza, un modo per salvare il ricordo di sua madre prima di sprofondare nell’apatia e nel mutismo che seguono un lutto così lacerante. Non una morte per cause naturali, ma un suicidio.

“Il pensiero di questo suicidio mi rende di colpo così insensibile, che mi capita di meravigliarmi che gli oggetti che ho in mano non siano già caduti da un pezzo”.

Una lucidità quasi strana , direi crudele, quella con cui riesce a descrivere le sue sensazioni prima di raccontare della vita di sua madre, dall’infanzia fino ai ricordi più recenti nella sua memoria. È un memoriale in ricordo della madre, scritto di getto e nella parte finale è chiaramente manifesto.
La parte più corposa è riservata al racconto della giovinezza , della povertà, degli stenti di una donna nata negli anni Venti, in Austria, quando essere femmine equivaleva a contare in famiglia e nella società meno di niente. Le speranze distrutte, una vita destinata ad essere infelice senza desideri: a trent’anni, dopo varie gravidanze, portate avanti e non, con un marito che sapeva solo ubriacarsi, con un desiderio di istruzione disatteso, ci si sentiva già vecchi e rassegnati.
Una vita spenta dall’inizio senza via di fuga, “ nessuna possibilità di confrontarsi con un’altra forma di vita: ma chissà, nessun bisogno più di farlo?”.
Chissà...quando si vive senza desideri si è condannati ad una morte precoce.
Una vita in cui i libri non servono per sognare e per evadere, ma per rendersi crudelmente conto che si è spesa tutta una vita senza lasciare alcun segno.
Quanta pena, quanto strazio raccontato così freddamente in un realismo non volgare ma tanto crudo.

Vi lascio la crudeltà del finale, che, come ho detto, accorcia velocemente la narrazione: sembra un elenco di avvenimenti, delle istantanee che gli serviranno per parlare più diffusamente della madre in un’altra occasione.
“Più avanti scriverò di tutto questo qualcosa in modo più preciso”.

Devo dire che l’utilizzo del carattere maiuscolo per evidenziare parole significative, mi ha dato un po’ fastidio, abituata, come siamo un po’ tutti, all’utilizzo del corsivo o del grassetto, ma forse non è colpa di Handke...

Quando ci si trova di fronte a qualcosa che sentiamo come “nuovo”, particolare, non sempre siamo in grado di dire se quell’autore ci piaccia o no. Ed è proprio il mio caso. Da lettrice abituale, ma non esperta di critica letteraria, questo scrittore, al di là delle polemiche che sono sorte dopo l’assegnazione del Nobel, mi ha molto incuriosito e leggerò di sicuro altri libri. Gli scrittori non convenziali hanno bisogno di più tempo per essere capiti.

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Paul Auster, “ L’invenzione della solitudine “
Albert Camus, “Lo straniero”
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archeomari Opinione inserita da archeomari    15 Novembre, 2019
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L’ombra come antico valore estetico giapponese

“V’è, forse, in noi Orientali, un’inclinazione ad accettare i limiti, e le circostanze, della vita. Ci rassegniamo all’ombra, così com’è, e senza repulsione. La luce è fievole? Lasciamo che le tenebre ci inghiottano, e scopriamo loro una beltà. Al contrario, l’Occidentale crede nel progresso, e vuol mutare di stato. È passato dalla candela al petrolio, dal petrolio al gas, dal gas all’elettricità, inseguendo una chiarità che snidasse sin l’ultima particella d’ombra”.

Titolo originale del libro “In ‘ei raisan”, che significa “Elogio dell’ombra”, tradotto però in “Libro d’ombra”per problemi editoriali, dal momento che esisteva già una raccolta di poesie di Borges intitolata proprio “Elogio dell’ombra”.
Scritto nel 1962, pubblicato in Italia da Bompiani tre anni più tardi, questo meraviglioso libro può essere ben considerato un saggio sulla vera essenza della estetica tradizionale giapponese .
Con il suo stile leggero ed elegante, Tanizaki ci prende letteralmente per mano e ci accompagna per le strade, nelle dimore, nei luoghi dell’antico Giappone alla scoperta della sua autenticità che vive nella magia dell’ombra.
Un viaggio indimenticabile che coinvolge tutti i sensi, non solo la vista- il senso che noi Occidentali abbiamo super irritato, atrofizzando tutti gli altri.
Eccoci quindi ad assaporare una calda zuppa di miso rosso, ad annusare e gustare un fresco sashimi (pesce crudo), ad ammirare pregustando con gli occhi il dolce di fagioli e zucchero chiamato yokan...serviti non su piatti e vassoi di fredda, fulgida ceramica bianca occidentale, ma in coppe di legno, legno brunito, annerito dal tempo, accarezzato da più mani. Noi Occidentali abbiamo la mania di lustrare tutto, di eliminare lo sporco, accecati dall’ossessione dell’igiene. Il giapponese tradizionale non aveva questi patemi: venature scure, patina di opaco sulle stoviglie rendevano ai suoi occhi l’idea del vissuto e della familiarità.
Eccoci ancora ad ammirare il legno laccato con le decorazioni in polvere di oro e di argento che possono essere esaltati solo dalla penombra. Solo chi sa apprezzare le tonalità scure e la luce fioca sa gustare il fulgore dell’oro in tutta la sua pienezza. Nell’ombra c’è qualcosa di mistico, forse qualcosa di Zen. L’ombra permette di esaltare una mano liscia e candida nelle rappresentazioni del teatro no, l’antico teatro giapponese. Denti anneriti ad arte sul viso di una donna ne esaltano la pelle di luna.
In brevi e piacevoli capitoletti l’autore vi parlerà anche della casa giapponese tradizionale, senza risparmiare i gabinetti, vero gioiello delle antiche dimore.

Perché, si chiede Tanizaki, senza sconfessare però l’utilità e la grandiosità delle scoperte occidentali, perché abbiamo voluto rinunziare alle nostre caratteristiche, ai nostri principi estetici, piegandoci alla cultura del bianco splendente, del diamante che proprio non ci appartiene?

“Se, di fronte all’Occidente, avessimo adottato sin dall’inizio un atteggiamento meno servile, oggi non solo indosseremmo altri abiti, mangeremmo altri cibi, abiteremmo altre case, ma diverse sarebbero anche la nostra politica, la nostra religione, la nostra arte, la nostra economia. Tutto sarebbe altro, e orientale. (...) forse non avremmo scimmiottato sino alla spudoratezza il pensiero occidentale; forse la nostra letteratura avrebbe percorso una strada sua propria, e originale”.







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archeomari Opinione inserita da archeomari    12 Novembre, 2019
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Il felino della discordia

TANIZAKI Jun’ichiro è stato per me una bella scoperta.
Un racconto lungo veramente piacevole, che, oltre ad una narrazione veloce e scorrevole, conduce un sottilissimo scavo nei meccanismi psicologici dei protagonisti.
Scritto nel 1936, “Neko to Shozo to futari no onna” (La gatta, Shozo e le due donne [in italiano semplicemente “La gatta”] in pieno conflitto mondiale, riscuote il favore del pubblico e, cosa non sempre facile, il benestare della censura. Tanizaki è stato un autore che ha amato caricare di sensualità alcune figure femminili nei suoi romanzi, una sensualità oggi ben accetta, ma che ai tempi in cui pubblicava non era ben tollerata.

Veniamo al racconto. I protagonisti sono: Shozo, il marito/figlio dal carattere debole e remissivo; O-rin, la madre lungimirante che esercita, nonostante sia sposato, ancora un forte potere sul figlio; Fukuko, la seconda moglie, volubile e capricciosa di Shozo; Shinako, la prima moglie ripudiata, desiderosa di far pagare a tutti a tre il suo allontamento.
Ma come prendersi la rivincita? Attraverso Lily.
Lily, sì, la gatta. La protagonista! La stupenda ed elegante gatta europea cui Shozo è legato da anni, con cui condivide letto, cibo, i momenti di gioia casalinga più puri e più intensi.
Una gatta, che con gli occhi e con le movenze mostra di padroneggiare quasi tutte le diavolerie femminili per conquistare il suo padrone, Shozo, mentre sembra avere in un primo momento scarso successo con le componenti femminili di questo ristretto gruppo familiare, dove non ci sono ancora bambini.
Le donne sono gelose delle attenzioni di lui verso Lily, ma poi una di loro capirà quanto sia importante ingraziarsi le moine della gatta per conquistare il cuore di Shozo. Un piccolo dramma familiare scatenato dalla gelosia non verso una donna, ma verso una gatta. Questa gatta che sembra seminare discordia nel matrimonio, altro non desidera, come tutti gli animali domestici, che essere accudita e coccolata nei momenti giusti

“Quando sentiva dire, da qualcuno poco informato, che i gatti sono meno affettuosi, meno cordiali e più egoisti dei cani, Shozo pensava: “Come possono capire le deliziose qualità dei gatti senza aver mai fatto l’esperienza di vivere soli con loro?” Essendo timidi e di carattere alquanto chiuso, i gatti non si fanno mai coccolare in presenza di estranei; anzi, si comportano in modo volutamente freddo”.

Lily è come un essere umano: come una madre nell’esperienza del primo parto, che chiede aiuto attraverso sguardi, una madre che porta con sè il dolore della separazione dai propri piccoli e che invecchia come tutti gli esseri viventi. L’autore ha dato prova di grande conoscenza del mondo felino, testimonianza ulteriore della particolare considerazione di cui godono i gatti nella cultura del Paese del Sol Levante.

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archeomari Opinione inserita da archeomari    09 Novembre, 2019
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Voglio restare un essere umano

Fa veramente impressione l’abisso che c’è tra il valore odierno di alcune opere d’arte e quello dell’epoca in cui erano state realizzate, dal momento che moltissimi artisti vissero in estrema povertà e ai margini della vita civile, come nel caso di Van Gogh.

“Ti dico, ho scelto con piena coscienza la vita del cane; resterò un cane, sarò povero, sarò pittore, voglio restare un essere umano–andando in mezzo alla natura”.

E ancora:

“Sto diventando come un cane, sento che il futuro mi renderà ancora più brutto e rozzo e prevedo che ’la povertà sicura’ sarà il mio destino, però, però sarò pittore”.

La lucidità, la determinazione e la consapevolezza con cui vennero scritte queste parole al giovane fratello Theo, fanno pensare ad un uomo passionale, dotato di grande sensibilità. Vincent Van Gogh: Nemo propheta in patria, ma anche Nemo propheta ai suoi tempi, con l’Impressionismo dilagante e di moda, che oscurava qualsiasi altra stella del firmamento artistico della seconda metà dell’Ottocento.

Ho trovato questo libro molto interessante e consiglio di leggere il saggio introduttivo di Karl Jaspers alla fine delle 97 lettere, a conferma e ad approfondimento di quanto si è letto. In questo scritto troverete anche il profilo psicologico, la malattia di Van Gogh, la sua psicosi che si accentua in età matura dopo ripetute delusioni d’amore e lavorative. Uno spirito di per sè già solitario, che non sopporta la convenzioni, al punto di minare “la pace dei suoi genitori” accogliendo presso di sé una donna, derelitta, incinta di un malfattore, e poi gli stenti, le delusioni continue, la frustrazione di non riuscire a provvedere da solo neppure ai bisogni materiali primari: i sintomi di psicosi in germe in gioventù esplodono poi, inevitabilmente.

Le continue richieste di denaro al giovane fratello che si occupa di commercio di quadri non gli fanno onore e certamente dobbiamo essere grati a Theo Van Gogh se Vincent ha potuto seguire la sua volontà di dedicarsi alla pittura, lontano dalla città, in mezzo a gente umile e lavoratrice, oggetto , insieme alla natura, dei suoi lavori che oggi hanno valore inestimabile. Theo ha mantenuto il fratello “stracco”, così Vincent si definisce spietatamente- fino agli ultimi suoi giorni.
Le lettere però non sono solamente una pressante richiesta di denaro, di carte Ingres e materiali per dipingere, ma contengono i pensieri più intimi, le confessioni, i resoconti delle sue giornate e delle sue avventure.
Interessanti le disquisizioni sulla sua idea dei vari colori, “sono pazzo di quei due colori, carminio e cobalto” su come accordarli tra loro. Preziose le indicazioni che fornisce al fratello Theo su come ha realizzato i suoi quadri più famosi, i suoi acquerelli, i suoi disegni.
Prima che la psicosi degenerasse, Vincent è un giovane da ammirare: sensibile, altruista, determinato. Suscita la simpatia del lettore, che fa ‘il tifo’ per lui.
Una volta che la sua “follia” è conclamata, le lettere continuano a mostrare un uomo lucido e consapevole dei suoi limiti e delle sue sofferenze fisiche fino alla morte.

“Queste lettere costituiscono nell’insieme il documento di una concezione del mondo, di un altissimo pensiero etico, espressione di una sincerità assoluta, di una fede profonda, di una carità infinita, di una generosa umanità (...) . È questa una delle testimonianze più commoventi della nostra epoca. Questo ethos esiste indipendentemente dalla psicosi, anzi, in essa si consolida” (Jaspers)


Consigliato anche per la bella traduzione, nonostante molte parole o intere frasi in francese non siano state tradotte

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archeomari Opinione inserita da archeomari    04 Novembre, 2019
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Conversazioni su nastro magnetico

Un romanzo ricco di contenuti interessanti, ma esige lettori “forti”.
È per il lettore motivato, quello curioso di conoscere lo stile di un Premio Nobel asiatico e leggere uno dei libri più sentiti della letteratura giapponese.
Bisogna saper apprezzare anche quando il ritmo narrativo rallenta. È il classico libro che fa dire “sono stremata, non c’è trama, non c’è azione”.
Per leggerlo e per comprenderlo è necessario avere una conoscenza generale della storia del Giappone, quella pre-bellica e quella immediatamente post-bellica, altrimenti non si comprendono appieno gli eventi narrati che fanno da sfondo.
Ultima raccomandazione: non lasciatevi ingannare dal titolo e dalla copertina.

Terminate le premesse un po’ scoraggianti, ma oneste e doverose, passiamo a qualche accenno della trama.
È il romanzo di un cuore spezzato da una perdita importantissima, quella di un amico, Goro, che prima di compiere il salto nel vuoto suicidandosi, invia a Kogito, il protagonista, una valigetta in duralluminio contenente delle audiocassette tramite le quali l’amico potrà continuare a sentire la sua voce e continuare una sorta di conversazione, come quelle cui erano soliti fare, riguardanti la vita, la cultura, la letteratura e il cinema.
Goro, l’amico (e anche cognato in quanto fratello della moglie di Kogito) era un importante regista giapponese, molto apprezzato anche in Europa e in America: un uomo brillante, intelligente, spregiudicato, amato dalle donne. L’opposto di Kogito, (nome di cartesiana memoria)ma legati indissolubilmente sin dalla gioventù. Il protagonista non riesce ad elaborare il lutto e rischia di dipendere troppo dall’ascolto delle conversazioni tramite il mangianastri che nel libro si chiama “Tagame”, e così incoraggiato anche dalla moglie e dal figlio disabile, va a Berlino per “disintossicarsi”, mettendosi in una sorta di quarantena dalla dipendenza dal Tagame. È talmente scioccato dal dolore e dal gesto dell’amico che non parla mai di morte o di suicidio, ma di un semplice trasferimento di Goro in un posto migliore, nell’al di là, come se l’al di là non indicasse un luogo remoto, ma un luogo raggiungibile attraverso l’ascolto della voce dell’amico su nastro magnetico.
A Berlino però Kogito scopre altri eventi ed altre persone che hanno fatto parte della vita dell’amico e, attraverso ricordi, conversazioni con se stesso, alla fine riesce a capire il motivo per cui Goro si sia suicidato e, grazie anche alla moglie, presenza costante e importante nella storia, affronterà il mistero profondo nascosto nella vita di lui, il suo trauma più grande.

Il protagonista è l’alter ego di Oe Kenzaburo, anche i familiari rispecchiano i componenti della sua vita reale, lo stesso suicidio dell’amico/cognato è veramente accaduto. Tale richiamo alla biografia è tipico dello scrittore. Addirittura in una della conversazioni tramite il Tagame, Goro fa una disamina del modo di scrivere e di intendere la letteratura di Kogito-Kenzaburo e, senza pietà ne descrive i difetti, tra cui una certa osticità (che ho riscontrato anche io!)

“È evidente che non ti sei mai lasciato influenzare né riguardo alle scelte del tema, né tanto meno in merito allo stile.(...) Ed è così che nasce il tuo stile così peculiare e inimitabile, di cui vai tanto fiero, il tuo modo di scrivere “dissociato e astruso”, come lo definisci tu. Molti lettori, sottoposti pagina dopo pagina a un vero e proprio bombardamento di immagini insolite e astruse, non saranno affatto propensi a comprare e a leggere un altro dei tuoi libri, a meno che non siano dei totali masochisti”


La presenza della criminalità giapponese, la yakuza, il terrorismo dei gruppi ultranazionalisti di destra che hanno reso la vita difficile allo stesso scrittore, la maternità, la paternità, l’amicizia, riflessioni sulla scrittura e sul cinema non solo giapponese, ma anche occidentale, degli ultimi tempi. Tantissimi i temi e i contenuti. Forse troppi. Viene da pensare che in quest’opera Oe abbia voluto creare il suo romanzo della vita, dove far confluire tutti i suoi pensieri e i suoi ricordi.

Il focus infatti è sui ricordi e sul passato, al punto che Kogito sembra vivere esclusivamente di quelli. Uomo dal carattere riflessivo, mite e modesto (mi ha fatto pensare a “Stoner” di Williams)scioccato dalla morte del miglior amico Goro, continua ad intrattenere con lui conversazioni tramite cassette e mangianastri. È proprio con questa conversazione con l’al di là che parte il romanzo, una parte abbastanza corposa, ricca di flashback e fortemente evocativa, tipica della scrittura di Oe, e giapponese in generale.

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Se siete di quei lettori coraggiosi, che amano anche i libri difficili, sia per la trama non sempre lineare sia per contenuti notevoli, questo romanzo fa per voi.
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archeomari Opinione inserita da archeomari    31 Ottobre, 2019
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Un uccellino contro i naufragi della vita

Sandro Veronesi è uno scrittore pluripremiato. Tutti si ricorderanno del romanzo “Caos calmo” che, oltre allo Strega, ha vinto altri due premi internazionali ed ha avuto anche una famosa trasposizione cinematografica con Nanni Moretti e Isabella Ferrari. Io però mi avvicino per la prima volta a questo autore, attirata dal titolo e dalla seconda di copertina dove si legge : “un romanzo potentissimo , che incanta e che commuove, sulla forza struggente della vita”.
In effetti ho trovato una storia e una scrittura potente, a volte leggera, che ripercorre tutte le pagine del romanzo.
Perché un colibrì a dare il titolo all’opera?
Perché un uccellino, il più piccolo uccellino al mondo, con il corpicino e le ali iridescenti, capace di batterle 70/90 volte al secondo, venerato dai Maya che credevano fosse l’incarnazione dei guerrieri del sole? Perché questa scelta?
Perché il colibrì, che passa la vita a consumare tutta la sua energia per battere le ali senza muoversi, sospeso nell’aria, è simile al protagonista del nostro romanzo, Marco Carrera. Da ragazzino la madre lo chiamava “colibrì “ per via della sua corporatura e della sua altezza, di molto inferiori alla media dei ragazzi della sua età, un “gap” che recupererà con una cura a base di ormoni e che nel giro di pochi mesi gli farà conquistare prodigiosamente 16 cm di altezza!
Specialista in oftalmologia, Marco, all’inizio del libro, si trova, da un giorno all’altro, nell’occhio del ciclone di una serie di disgrazie: lo psicologo che segue Marina, sua moglie, entra nello studio e gli comunica una brutta notizia che stravolgerà l’apparente serenità delle sue giornate. Sua moglie chiede il divorzio ed è già incinta di un altro. Da quel momento parte una narrazione a ritmo serrato, con sequenze dialogate (pochissime, due o tre, solo quando Marco conversa con Carradori, lo psicologo della ex moglie che interverrà poi quasi alla fine del romanzo), discorsi indiretti liberi (tantissimi), poche descrizioni, molte sequenze riflessive, mai pesanti, perché condite da quella ironia che genera un’amara risata.
Le disgrazie sono veramente tante, lutti atroci, malattie terribili-lo stesso Veronesi ha confessato di aver interrotto la stesura del libro per curare un cancro - , amori assoluti e difficili, amicizie che non ti aspettavi. Ma come reagisce Marco?
Come il colibrì, l’antico guerriero Maya reincarnato in uccello, che nonostante le avversità si tiene sempre ben fermo, fedele a se stesso, ai suoi valori e consuma tutte le sue energie per mantenere quella posizione di sopravvivenza.

“E anche tutto l’amore che è stato sparso per il mondo, tutto il tempo che è stato sperperato e tutto il dolore che è stato provato: era forza, tutto, era potenza, era destino, e puntava lì.
- I lupi non uccidono i cervi sfortunati, Duccio - dice- Uccidono quelli deboli”.
-
Questa consapevolezza è l’unico modo per non soccombere alla “dittatura del dolore”.

Un romanzo che parla di amore, di dolore, ma soprattutto di forza.
Magistrale la penna di Veronesi che rende originali certe situazioni che potrebbero risultare banali, scontate e ti tiene incollato alla pagina fino alla fine del romanzo. Un sacco di citazioni importanti, musicali, cinematografiche e letterarie, da “La patente “ di Pirandello all’omaggio all’amico Sergio Claudio Perroni, suicidatosi quest’anno a Taormina, uno dei padri fondatori della casa editrice indipendente “La nave di Teseo”, la stessa che ha ripubblicato tutte le opere del Veronesi. A fine libro troverete una interessante postilla dell’autore che spiega come sono nati termini, luoghi e situazioni di questo romanzo.

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archeomari Opinione inserita da archeomari    26 Ottobre, 2019
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Artisti uniti da un destino di luce e di colore

Dalla penna affabulatrice di Marco Goldin, storico dell’arte, organizzatore di mostre di risonanza internazionale, allievo del grande Guidorizzi, un libro che incanta dalla prima all’ultima pagina.
Consigliato a chi piace conoscere ed approfondire la storia dell’amicizia tra i due grandi pittori Vincent Van Gogh e Paul Gauguin, narrate con uno stile unico, che, chi apprezza l’autore, riconosce tra mille. Goldin è elegante, sentimentale, poetico, narra così bene che l’anima e il cuore vengono letteralmente cullati, incantati. Una volta chiuso il libro si ci sente ancora avvolti da un’atmosfera di luce e di colore, si sente l’odore delle tempere, dei pigmenti, dei solventi...
Un libro di cui ho rallentato volutamente lettura, per il rimandarne la fine.

Attraverso il racconto delle vicende dei due artisti, dei contesti in cui sono nate le loro opere più famose, Goldin ci racconta dei colori e delle atsmosfere dei maggiori quadri di Gauguin e di Van Gogh. Il primo, dall’animo inquieto, instancabile viaggiatore, che si sposta in continuazione, -quando le finanze (che cruccio prosaico, ma purtroppo prepotente!) lo permettono- abituato a stare lontano dalla moglie e dai figli, perché cerca le sue origini e il suo spirito primitivi e selvaggi, un novello Ulisse, continuamente richiamato dal mare “Navigare era stato subito il suo destino, l’infinito orizzonte la sua meta”. Gauguin era solito dire

“(...)sono spesso in viaggio, lontano, cerco le origini, l’altra parte del mondo, perché scavo dentro di me alla ricerca del punto di maggiore profondità di un vuoto”.

Un uomo consapevole della propria arte, sicuro di sè, amante della vita e delle donne, completamente l’opposto di Van Gogh, più chiuso, riservato, insicuro, più inquieto, bisognoso della vicinanza di Paul, che ammirava e di cui temeva il giudizio sulle proprie opere. Una convivenza nella Casa Gialla che col tempo si fece difficile, piena di incomprensioni, di fastidi avvertiti da Gauguin che amava la libertà e l’indipendenza. In una notte in cui Gauguin era lontano e la pazzia invece imperversava e sconvolgeva il suo cuore, Vincent ebbe una illuminazione: continuare il dialogo artistico con Paul e con Bernard

“Così, in quella notte al principio dell’estate in Provenza, sotto le montagne e vicino agli ulivi e ai cipressi, decise di dipingere una nuova notte stellata, ma senza guardarla e solo ascoltandola dentro di sé. Lasciando che entrasse in lui, come qualcosa cui non ci si possa opporre, in alcun modo. Fu un viaggio che durò l’intera notte, con il lume acceso e le stelle nel cielo. (...) Erano luci, era una notte, erano colori. Erano tante stelle nel cielo, grandi e piccole, dentro apparizioni e vento. C’era una luna, un po’ gialla e un po’ arancione, con una rifrazione azzurra e talvolta di un verde acqua marina. Dipingeva un mare nel cielo, la luna era il faro per chi navigava lontano e una scia di luce chiara come quella che si vede al Nord, quando una notte sorge l’aurora boreale. E poi le montagne, che dipinse così diverse da quelle che aveva lì davanti, sulla sua tela del pomeriggio. Erano solo l’adagiarsi di un sogno. Nella luce notturna che scivolava a valle lungo le chine come dorsi lisci d’animale. E poi la valle, con i morbidi lampi delle finestre accese, prima del sonno, prima del sogno. Un campanile, una chiesa, l’eco dell’infanzia lontana in Olanda. L’eco del tempo. E infine il cipresso che si alzava nel cielo e puntava le stelle...”

La lunga citazione voleva essere un assaggio dello stile di Goldin, elegante e incantevole, che avvolge piacevolmente contenuti storicamente rigorosi, per il piacere di chi ama l’arte, ma anche i buoni libri.


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Consigliato a chi ha letto...
Marco Goldin “Verso Monet, storia del paesaggio dal Seicento al Novecento”, “Van Gogh disegni e dipinti, capolavori dal Kröller-Müller Museum
Interessante documento da segnalare “Lettere a Theo”, curato da Marco Cescon


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archeomari Opinione inserita da archeomari    19 Ottobre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Cercasi mamma disperatamente...

Gelo a casa, gelo nel cuore. Un dramma familiare.
È proprio vero che ci rendiamo conto dell’importanza delle persone care, quando spariscono dalla nostra vita. Nel caso di una madre sessantanovenne che si allontana, volontariamente o no, i familiari si rendono conto di quanto sia fondamentale la sua presenza, si rendono conto che non hanno mai pensato al prezzo dei sacrifici fatti da lei per mandare avanti la famiglia, a tutte le volte che ha perdonato, a tutte le frustrazioni, a tutte le sofferenze e le amarezze sopportate. Perché la mamma è sempre la mamma.
Perché sembra che la mamma sia SOLO una mamma. Ci si dimentica dei suoi desideri, dei suoi sogni in quanto donna, in quanto moglie. No, la qualifica di “mamma” permea tutta la persona, è uno status invadente.

“Mamma era mamma. Era mamma da sempre” (p. 27).

Era normale vederla sfacchinare dall’alba alla notte tra i campi a seminare, ad arare a raccogliere, a cucinare manicaretti e zuppe per la famiglia e per chi bussava alla sua porta, a preparare i pranzi per la festa degli antenati e le ricorrenze familiari e nazionali. Erano normali le sue fatiche, i suoi sacrifici. Era normale per il marito trovarla a casa ad accoglierlo tutte le volte che la abbandonava per mesi, come se la sua fosse stata una assenza di poche ore. Ma alla mamma chi ha pensato? Tutti ciechi di fronte ai suoi acciacchi, ai suoi terribili mal di testa, tutti a sottovalutare il suo male, fino a quando a casa della mamma vedono per la prima volta il disordine e l’abbandono.

Dai ricordi di Hyong-chol, il figlio maggiore, di Chi-hon, la figlia scrittrice e del marito ‘abbandonato’ viene fuori una donna tutta d’un pezzo, straordinaria, forte, lavoratrice instancabile, altruista fino all’assurdo, fortemente comprensiva verso il dolore altrui.

“Mia madre era diversa dalla donna d’oggi” (p.59)

Una donna che ha conosciuto le privazioni delle guerre, cresciuta nell’oscurità dell’analfabetismo del quale si vergogna, che si fa leggere da estranei con una scusa qualsiasi il libro della figlia, acclamata scrittrice, perché a casa non ha il cuore di chiederlo a qualcuno, non vuole ricordare impietosamente la sua ignoranza.
Più dei progressi delle ricerche per trovare l’anziana mamma che forse si era persa, il libro si focalizza sul dramma scatenato dall’evento e che si scioglie nei ricordi personali di ognuno dei protagonisti. Il dolore rivela le verità verso le quali siamo stati ciechi.

Un libro toccante, commovente. Vincitore del prestigioso Man Asian Literary Prize nel 2012. Forse per la prima volta in vita mia ho letto un romanzo multi focale con narrazione in seconda persona. I punti di vista della narrazione infatti sono ben 4: i due figli, il marito e la signora Park Son-yo, ovvero la mamma scomparsa. In quest’ultimo capitolo verrete a conoscenza anche di un segreto nel cuore della donna, sconosciuto ai familiari.

Pagine che si fanno divorare dall’inizio alla fine, con qualche difficoltà iniziale verso la narrazione in seconda persona. Nell’epilogo ho intravisto un bellissimo omaggio alla Città del Vaticano e alla Pietà di Michelangelo.

Consigliatissimo, soprattutto se la vostra mamma è ancora in vita. Le persone care si amano da vive. Il libro ribalterà il vostro modo di vedere la vita.

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A chi ama conoscere i più importanti scrittori orientali, a chi ama le storie che scuotono le coscienze.
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archeomari Opinione inserita da archeomari    12 Ottobre, 2019
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Nessuno sopravvive da solo

Mi sono presa qualche giorno di tempo per scrivere le mie impressioni sul libro d’esordio del giovane Daniele Sannipoli. Volevo dedicarci il giusto tempo, perché nonostante sia un romanzo breve, che si legge relativamente in poco tempo, è effettivamente denso, di immagini, di richiami, di impressioni: richiede la giusta attenzione e merita una recensione onesta e ponderata.

Si rimane colpiti dalla sua sensibilità e dal suo stile. Subito.
Sannipoli è uno studente in medicina (troverete alla fine del libro la nota bibliografica che lo riguarda ed anche quella dell’artista Giorgia Gigì, che ha realizzato la bellissima copertina) con la passione e il talento per la narrativa.
Ho immediatamente pensato, con ammirazione, che nonostante la giovane età , egli possieda una comprensione profonda dell’animo umano, messo a dura prova dalle difficoltà della vita.
L’opera inizia con il monologo di una cellula che muore, consapevole di recare con sè un DNA che, arricchito della memoria delle precedenti generazioni, sarà passato a nuove cellule, ad un nuovo corpo . Ed è così che il miracolo della vita si ripete e si rinnova. Nuove coppie formate da un Lui ed una Lei, non specificati, si confrontano, passano attraverso incomprensioni, difficoltà di comunicazione.

Tematiche delicate: il suicidio di un genitore, la difficoltà nell’abituarsi alla perdita, l’alcolismo, il senso di inadeguatezza che sottende a ogni storia che compone il quadro del romanzo. E come un fotografo che mescola sapientemente le immagini delle scene più rappresentative per farne un collage, Sannipoli lancia dalla sua penna, già consapevole, immagini e sequenze narrative che si sovrappongono, spezzando il ritmo narrativo per cui il lettore viene catapultato ora in una cucina, nel ricordo di una nonna che impasta il pane, ora nella sala d’attesa di un ospedale, ora in una chiesa davanti ad una bara, ora al cospetto di un giudice. Generazioni di coppie Lui/Lei si succedono. Il ritmo narrativo è coinvolgente.
Una tecnica che costringe il lettore ad essere sempre attento, sempre vigile.
Uno stile che si muove tra scelte ben precise: una prosa fluida, ricca di immagini, di cultura scientifica e filosofica. Una penna duttilissima, che sa lasciare le immagini di luce per farsi sottile e stridente, senza alcuna paura e senza esitazione. Richiami a Camus, a Montale per i passaggi più aspri, per le scelte di parole più “scabre ed essenziali” che graffiano talvolta la nostra sensibilità.
Un giovane scrittore che sa calarsi alla perfezione delle scene del dolore più pazzesco, quello della perdita di un genitore, senza però farsi paranoico.
Piccoli, brevi colpi di penna. Penetranti quanto basta.

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archeomari Opinione inserita da archeomari    06 Ottobre, 2019
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Il tumulto del cuore e l’autentica passione

L’apoteosi del Romanticismo, quale corrente e quale modo di sentire e vivere la vita, è tutta qui, in queste pagine. Disprezzo delle convenzioni, esaltazione del cuore come unico bene dell’uomo più dell’intelletto e delle doti di pragmatismo e di industriosità, più della ricchezza di beni materiali.

“la sola cosa di cui sono orgoglioso, che è sorgente di ogni forza, di ogni gioia, di ogni dolore. Tutti possono sapere quello che io so... ma il mio cuore, lo possiedo io solo”

Anche la pagine bruciano, passioni violente, le vere passioni, quelle autentiche...quelle lasciano attorno un fuoco inestinguibile. Sono passati secoli e “I dolori del giovane Werther” conservano ancora il calore di quel fuoco che si rinnova ogni quando il lettore curioso vi si avvicina.
Amare una donna, una sola donna e desiderare di morire per lei, perché questa vita, fatta di convenzioni e di legami sbagliati, rende l’uomo appassionato e sincero profondamente infelice.

“Invano io le tendo le braccia al mattino, quando mi sveglio da sogni penosi, invano la cerco la notte sul mio letto quando un dolce, puro sogno mi fa credere di sedere vicino a lei sul prato e di tenere la sua mano, e di coprirla di baci. Ah, quando sono ancora quasi immerso nell'ebbrezza del sonno, e la cerco... e poi mi sveglio, un torrente di lacrime irrompe dal mio cuore oppresso, e io piango sconsolatamente nella prospettiva di un cupo avvenire”

Un amore fatto di sguardi, di condivisione di interessi, di modi di sentire la natura e le espressioni più alte e nobili dello spirito. Il comune piacere nella lettura di Ossian. Nell’opera anche il famoso bardo appare nelle citazioni, ad un certo punto Werther confessa di prediligerlo ad Omero...lo sente più vicino al suo cuore, al suo stato d’animo tumultuoso , cupo...nebbie di cimiteri, atmosfere inquietanti, amori infelici...
Apologia ed apoteosi del Romanticismo e la Germania ne fu la patria.
Al confronto le a me care “Ultime lettere di Iacopo Ortis” che pure ho amato e riletto in gioventù, mi appaiono puro scopiazzo senza originalità, ad esclusione del concetto di “illusione”, meno articolato in Goethe: si ripete la forma del romanzo epistolare, dell’amore per una donna promessa ad un altro, della difficoltà del protagonista di accettare le convenzioni, del senso di emarginazione (in Foscolo più legato alla sua condizione di esule politico), dell’esaltazione dei sentimenti e delle emozioni.

“Ah qual vuoto, quale orribile vuoto sento nel mio cuore! Spesso io penso: se tu potessi una, una sola volta stringerla al petto, tutto il vuoto sarebbe colmato”.

Se avesse avuto un animo più leggero e superficiale non sarebbe stato così infelice. Sono le sue considerazioni, quelle che lo porteranno al tragico e commovente epilogo, secondo me più toccante di quello foscoliano...decisamente più toccante.

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Sicuramente a tutti, in particolare a chi ha letto “Le ultime lettere di Iacopo Ortis”
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archeomari Opinione inserita da archeomari    03 Ottobre, 2019
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La diversità ha sempre un prezzo sociale altissimo

Secondo libro del ciclo “Il romanzo di Ferrara”, “Gli occhiali d’oro” è un romanzo breve che supera di poco le cento pagine. Pubblicato nel 1957, quindi anteriore al ben più famoso “Il giardino dei Finzi-Contini”, ha avuto poi trasposizione cinematografica trent’anni dopo ad opera del regista Giuliano Montaldo.

Lo stile e la scrittura di Giorgio Bassani sono inconfondibili: ritmo lineare, prosa asciutta, dialoghi in forma indiretta, pochi ed essenziali quelli in forma diretta.
Il tema, quello dell’emarginazione ebraica, nel pieno delle leggi razziali in Italia - qui secondario, ma sempre più forte nei capitoletti finali del breve romanzo- si intreccia con quello dell’emarginazione dell’omosessuale, nella fattispecie, del dottor Athos Fatigati. La voce narrante è la stessa di quella de “Il giardino dei Finzi-Contini “, tant’è che viene anche ricordata la nota famiglia ferrarese di origine ebraica e le partite di tennis tenute nel giardino della loro grande casa. Il narratore è interno alla storia, un ventenne che da bambino, insieme a tanti altri come lui ammalati di tonsilliti o adenoidi ipertrofiche, era passato dallo studio del celebre dottore ed era guarito. Nei primi tempi Fatigati era molto amato ed apprezzato dai ferraresi, che spesso, non propriamente ammalati, andavano nel suo studio solo per godere dei confort nella sala d’aspetto e del sorriso della giovane infermiera.
L’età dell’oro dura poco. D’oro ci ritroviamo solo gli occhiali del dottore che spiccano nella sala del cinema, di cui è assiduo frequentatore. Gli anni passano, il dottore non si è mai visto accompagnarsi ad una donna, conduce una vita molto riservata, è quasi sempre solo al passeggio e nei luoghi pubblici e la curiosità della gente non conosce misura...il romanzo è breve, mi fermo e lascio a voi il gusto di scoprire una storia che tocca le corde più intime del vostro animo.

La conoscenza de “Il giardino dei Finzi-Contini”, letto pochi mesi fa, purtroppo influenza non poco il mio giudizio finale. Lo stile di Bassani è di 5 stelle con la lode, però questo breve romanzo non tocca le punte di quello più famoso scritto successivamente. Il personaggio voce-narrante ne “Il giardino dei Finzi-Contini” è molto meglio delineato, ne comprendiamo la psicologia. E l’indimenticabile Micól? Chi può dimenticarsi di lei? lei che amava il tempo presente e non voleva mai parlare del futuro...no, decisamente i due romanzi non sono allo stesso livello.
Tuttavia bisogna lo stesso riconoscere la pregevolezza di una storia di respiro molto meno ampio che in poche pagine, in pochi tratti narrativi riesce comunque ad emozionare, a toccare tematiche delicate come quella dell’omosessualità.

“Forse bisognerebbe essere così, saper accettare la propria natura. Ma d’altra parte come si fa? È possibile pagare un prezzo simile? Nell’uomo c’è molto della bestia, eppure può, l’uomo, arrendersi? Ammettere di essere una bestia, e soltanto una bestia?”. (Pag. 100, ediz. Oscar Mondadori, 1987)

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Consigliato a prescindere dalla lettura delle altre cinque opere facenti parte del ciclo “Il romanzo di Ferrara”
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Romanzi storici
 
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archeomari Opinione inserita da archeomari    27 Settembre, 2019
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Veramente interessante

Magnifico.

Un libro comprato semplicemente perché avevo voglia di leggere un autore o una autrice orientali, preso così senza neppure a provare tentoni nel buio di sondare il terreno prima dell’acquisto. Galeotta fu la copertina...
Una vera sorpresa. Apprendo adesso, a libro chiuso, che la scrittrice è una delle più grandi autrici orientali viventi. Col libro “Prenditi cura di lei”, tradotto in oltre 30 lingue, Kyung-Sook Shin ha vinto nel 2012 il prestigiosissimo Man Asian Literary Prize. E’ stata la prima donna asiatica e la prima cittadina sudcoreana a vincere un premio letterario così importante. E non me ne sorprendo. Una storia coinvolgente, toccante, interessante per l’ambientazione storica ed una scrittura delicata, elegante, che sa mandare però pesanti affondi nel cuore. Ho provato mille emozioni: rabbia, tenerezza,angoscia, tristezza ed anche terrore per scene cruente.
Gli scrittori orientali hanno questa caratteristica: sanno creare immagini di grande delicatezza e raffinatezza, ma sanno anche descrivere la crudeltà.

Com’è nato questo che nell’intento iniziale voleva essere un romanzo storico? È la stessa scrittrice a spiegarcelo alla fine del libro: aveva trovato un vecchio racconto, a Parigi, ambientato nel tramonto dell’antica dinastia Sudcoreana degli Joseon ( al potere dall’ inizio 1300 al 1801) con la sua splendida corte di danzatrici raffinate, di fini suonatori di daegeum ( tipico flauto) e di rigidissime regole sociali all’interno del palazzo.
Kyung-Sook Shin riferisce: “Prima di imbattermi in quella storia, non avevo mai immaginato di poter scrivere un romanzo basandomi su un vecchio racconto. Parlava di un francese, il primo diplomatico in Corea, che si era innamorato di una danzatrice di corte ed era tornato a Parigi insieme a lei”. Una storia che si sposta tra Oriente ed Occidente : il primo con le sue tradizioni, le sue opere colorate, i suoi celadon, vere calamiti per i collezionisti di opere esotiche e un Occidente, in questo caso la Francia, che nonostante l’alto grado di civiltà, arte e letteratura, mantiene un atteggiamento coloniale e di sfruttamento incarnato dallo stesso Victor, l’ambasciatore che si innamora perdutamente di una dama di corte, bella oltre misura e la porta a Parigi. La scrittrice ha dato prova di conoscere molto bene la Francia, i suoi monumenti, le sue opere d’arte ed anche alcuni importanti scrittori, ad esempio Maupassant, che diventa uno dei pochi amici della protagonista, Yi Jin, nella capitale francese.
Un fiore coltivato in una terra diversa però appassisce e Yi Jin finirà con l’ammalarsi gravemente di malinconia al punto che Victor, che la ama con devozione, decide di riportarla in Corea.
Ma...dopo tutti quei mesi, la situazione in Corea del Sud è cambiata, il pericolo giapponese distrugge la serenità della regina tanto amata e di tutto il palazzo...la stessa Jin è cambiata, ora veste abiti occidentali, ha una nuova consapevolezza della vita. Molte persone che avevamo trovato al’inizio del romanzo sono invecchiate o sono morte, ma le passioni covate sotto la cenere no.
Lascio a voi il piacere di scoprire un romanzo storico, di costume, ben documentato e veramente toccante. Prendete pure i fazzoletti, perché non riuscirete ad evitare di commuovervi.





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Racconti
 
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archeomari Opinione inserita da archeomari    27 Settembre, 2019
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Tra il lirismo più sublime e il più crudo realismo

La vita è un rullo di fieno che rotola sull’aia, avanti e indietro, senza soluzione di continuità lasciando nella bocca e nel cuore tanta amarezza. Questa immagine che compare più volte nel lungo racconto “Esplosioni” contenuto in questa raccolta di nove racconti scritti dall’impareggiabile scrittore cinese Mo Yan, Nobel per la Letteratura nel 2012, esprime molto bene il senso che sottende ad ogni storia da lui raccontata.
L’ambientazione dei nove racconti è la campagna dello Shandong cinese, da cui proviene lo stesso scrittore, negli anni Sessanta, gli anni del controllo delle nascite, terminato solo nel 2013. Protagonista la povertà, storie dure e crude di passioni forti senza misura, quasi animalesche, storie legate tutte da un filo rosso, ma rosso nel suo termine più pieno e reale: il rosso del sangue della violenza subita, del neonato abbandonato, il rosso dei tramonti, il rosso del sorgo che fa da sfondo ad ogni storia di Mo Yan anche fuori di questa raccolta, il rosso della volpe spietatamente cacciata da un gruppo di uomini, il rosso delle labbra tenere di qualche delicata ragazza.
I libri di Mo Yan parlano della Cina popolare, quella contadina, quella più autentica, quella della povertà più estrema e quella delle leggende sugli spiriti che infestano le campagne. Il realismo crudo si intreccia sapientemente con passi di sublime poesia, che riguardano prevalentemente il paesaggio e la natura. Pennellate di colore, luce diffusa, mille colori caldi, soprattutto caldi e scarsi quelli freddi, scene del presente che quasi indietreggiano e lasciano il passo a brevi flashback, personaggi che recano sul corpo e nell’anima i segni di una vita difficile e dura, spietata e senza giustizia.
Cosa vuole dire leggere un autore come Mo Yan? Le sue pagine sono così dense e cariche di immagini e di emozioni che comportano fatica, dopo aver chiuso il libro ci si sente emotivamente tramortiti, stanchi, quasi estraniati. Meravigliosamente stupiti.
Le tematiche trattate sono difficili e delicate: abbandoni di neonati, infanticidii, aborti, matrimoni senza amore...
La pianificazione delle nascite e la politica del figlio unico, preferibilmente maschio, sono da ascriversi ad una delle pagine più oscure e brutali della storia della Cina.

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Tutti i libri di Mo Yan, in particolare “Sorgo rosso” e “Le rane”
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Religione e spiritualità
 
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archeomari Opinione inserita da archeomari    09 Settembre, 2019
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Una lettura nuova e una nuova consapevolezza

Dopo “Le ultime diciotto ore di Gesù “ in cui si narrava del processo, della tortura e della morte di Yehoshua ben Yosef (Gesù figlio di Giuseppe), Corrado Augias torna a parlare dei testi religiosi, per la precisione dei quattro Vangeli canonici, ma con un taglio innovativo.
Partendo dell’osservazione di Borges, secondo il quale i testi sacri sono un ramo della letteratura fantastica, Augias affronta la narrazione dei Vangeli lontano dal manto fideistico e teologico, come è suo stile e, insieme a Giovanni Filoramo, emerito professore di Storia del Cristianesimo, ci parla dei vari personaggi del racconto evangelico come se fossero personaggi di una qualsiasi pregevole opera di letteratura.
In effetti le Sacre Scritture, considerando tutto il complesso di testi che formano la Bibbia, comprendono anche cantici e salmi, testi poetici in qualche modo, quindi quale punto di vista migliore per leggere anche i quattro Vangeli?
Questa tecnica permette di focalizzare l’attenzione su figure importanti nella vita di Gesù: i suoi genitori terreni, che risultano alquanto sbiaditi nei testi in esame, suo fratello Giacomo (il termine ‘adelphos’ in greco significa ‘fratello di sangue’, ma la Chiesa, per la difesa del dogma della verginità perpetua di Maria, non ammette tale traduzione), il procuratore Ponzio Pilato, Pietro, i componenti del sinedrio, etc. Senza trascurare però i personaggi che dalle narrazioni evangeliche appaiono delle semplici figurine: Lazzaro, i Magi, Barabba, il famoso e sconosciuto legionario che infierisce sul corpo esanime di Gesù e altri ancora.
Nel libro c’è un paragrafo interessantissimo anche sulla natura, che è sempre sullo sfondo delle azioni di Gesù e che si può leopardianamente interpretare come fredda, distante ed indifferente alle sorti umane.
Questo tipo di lettura, sostenuto dalla cultura storica di entrambi gli autori (innegabilmente profonda quella del professor Filoramo) e che non si concentra più solamente sulle ‘intoccabili’ figure di Gesù e/o di Maria, probabilmente susciterà meno polemiche da parte dei teologi e del mondo intellettuale più o meno cattolico, rispetto a quando Augias pubblicò insieme a Mauro Pesce “Inchiesta su Gesù”. Ma non è detto!

Anche nel caso di questo saggio, come per “Inchiesta su Gesù”, la trattazione si svolge sotto forma di conversazione tra Augias e lo specialista di Storia del Cristianesimo, il professor Filoramo e, come al solito, le domande del primo sono tante, ma le risposte univoche, comprensibilmente, sono veramente poche. Il professor Filoramo, lungi dal fare forzature, ricorre comunque a ipotesi probabili e ben ponderate alla luce del confronto dei vari testi e delle notizie storiche in suo possesso. Molto controverso è lo stesso processo contro Gesù, riportato in maniera diversa dai quattro evangelisti che, probabilmente non sono mai esistiti:

“(...) quegli autori non ci sono. I nomi che identificano i vari testi sono attribuzioni convenzionali o di comodo, non corrispondono a delle persone reali. Per esempio: a seconda di come si collocano Luca e Matteo rispetto al più antico Vangelo di Marco, Matteo si rivolgerebbe prevalentemente ad un pubblico giudeo-ellenistico, per cui le date potrebbero essere gli anni Ottanta per Matteo e gli anni Novanta per Luca”.

Spesso ci sono divergenze tra il loro modo di narrare alcuni eventi e anche in contesti in cui essi sono inseriti.
C’è da aggiungere che Augias, nelle sue conferenze non molto tempo fa, ha detto di non volersi “fidare” troppo dell’evangelista Matteo, perché troppo filoromano e lo stesso papa Ratzinger, da teologo , nel suo libro, “Gesù di Nazareth” (2007) lo dichiarò. Questo per evidenziare quanto sia difficile muoversi con disinvoltura tra i Vangeli canonici, essendoci spesso molte incongruenze tra le narrazioni e la spiegazione a tali incongruenze non è affatto semplice, poiché i Vangeli non vennero scritti immediatamente dopo la predicazione di Gesù: addirittura quello di Marco potrebbe risalire al II secolo, cento anni dopo i fatti narrati!

Colpiscono i rapporti genitori terreni-figlio Gesù, sui quali Augias punta la lente e focalizza alcuni aspetti che noi giudicheremmo atipici: l’irrispettosità a volte di Gesù nei confronti della madre (vedi episodio delle nozze di Cana), l’assenza di tatto nei confronti del padre , Giuseppe, quando nomina “le cose del Padre mio”. Questa rudezza viene giustificata dal Filoramo spiegando che Gesù predicava qualcosa che andava contro le Leggi ebraiche che seguivano i suoi pii genitori, ha esplicazione proprio nell’essenza della natura di Gesù e tutto ciò, quindi, comporta atteggiamenti poco riguardosi nei confronti dei genitori. Lui sa di essere l’Eletto.

Come si è detto, Augias insieme a Filoramo cerca di fare una ricostruzione letteraria dei Vangeli , tant’è che quasi in tutti i paragrafi, all’inizio, c’è una narrazione romanzata fatta dallo stesso Augias (un dilettarsi nella narrativa?) degli eventi che verranno poi trattati. Viene sottolineato anche come alcuni famosissimi particolari dei certe storie, siano in realtà degli espedienti letterari, talvolta di matrice ellenistica: il ballo sensuale di Salomè e la seduzione di Erode, il bacio di Giuda (che altro non è che l’agnitio, il riconoscimento, dal momento che non c’era alcun bisogno di indicare fisicamente Gesù ai suoi aguzzini), la stessa morte di Giuda, narrata però stavolta dagli “Atti degli apostoli” con particolari cruenti...
Lascio a voi altre intriganti scoperte, guidati dalla piacevolissima penna di Augias e la preparazione di Filoramo.


Interessantissima la lettura dei personaggi di Giuda e di Maria Maddalena, certamente le più affascinanti, dopo quella del predicatore Gesù, per tutta una serie di vicende che pochi conoscono, ma che gli autori svelano sottolineando anche la loro forte umanità. Non a caso queste figure hanno alimentato le fantasie di artisti, letterati e registi di ogni tempo, a testimonianza di quanto le Sacre Scritture, al di là del messaggio teologico, offrano anche un godimento letterario.

La letteratura è spesso costruzione, non solo ispirazione e i Vangeli stessi, presi in esame parallelamente tradiscono talvolta delle forzature, superate solo da una spiegazione simbolica e teologica. Ma al di là di questa “rigidità teologica” i protagonisti dei Vangeli sono “personaggi della vita, partecipi, uomini e donne, alla nostra comune condizione di mortali”.

Un interessante saggio dall’elegante veste editoriale, dettaglio che non guasta, con la sovracopertina recante l’eccelsa opera del Masaccio, “Il tributo”, perfettamente in armonia con il contenuto del testo.

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Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Innanzitutto i Vangeli e gli Atti degli Apostoli.
Augias - Pesce, Inchiesta su Gesù
Augias-Cacitti, Inchiesta sul Cristianesimo
Augias, Le ultime diciotto ore di Gesù
Augias-Vannini, Inchiesta su Maria
Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche
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archeomari Opinione inserita da archeomari    04 Settembre, 2019
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Fedeltà non vuol dire amore

Amaro. Uno dei più amari che abbia letto quest’anno, anche se con la genialità di Moravia. Ho notato punte di follia e di morbosità nelle ultime pagine, più marcate rispetto agli altri romanzi moraviani letti. Una morbosità comunque controllata, tenuta sempre sotto la lente, indagata.
Insieme al romanzo “L’amore coniugale” (1949) quest’altro breve libro (pubblicato nel 1954) forma un dittico. Andrebbero letti entrambi per avere una visione completa dell’amore tra coniugi, ma, mentre nel primo si narra di un tradimento, in quest’altro il tradimento non c’è, anzi...è una storia di fedeltà, ma tutta particolare.

Riccardo ed Emilia sono una giovane coppia di sposi romani, non proprio ricca. Riccardo si occupa di sceneggiatura, la sua ambizione è il teatro, mentre Emilia, che prima di sposarsi fa la dattilografa, sogna una casa tutta sua, da arredare e da curare secondo i suoi gusti. Si amano. Lui, nonostante non sia ancora uno sceneggiatore affermato, per renderla felice si accolla un mutuo che di mese in mese gli procura ansia ed angoscia, impedendogli di dedicarsi al lavoro che lo appassiona e costringendolo quasi ad accettare compiti di second’ordine, col solo scopo di riuscire a pagare la rata della casa. Questo regalo impegnativo fatto ad Emilia fa provare a Riccardo “le angustie mortificanti della penuria di denaro”.

“Quest’uomo nascondeva alla moglie, per non turbarla, la propria ansietà; correva tutto il giorno per la città cercando lavoro e spesso non trovandone; si svegliava la notte di soprassalto pensando ai debiti da pagare; e, insomma, non pensava e non vedeva più che il denaro(...) “

Oltre al danno, la beffa. Sì, perché dopo qualche mese Emilia si comporta con lui in modo freddo, strano, i loro rapporti si incrinano, fino a quando, verso la metà della storia, lei non gli confessa, esasperata dalle domande di lui... che lo disprezza.
Quanta durezza in questo romanzo, esacerbata dal forte contrasto tra il profondo e viscerale amore che lui prova per la moglie e questo inspiegabile (?) disprezzo di Emilia verso di lui.

Nella storia ci sono altri due personaggi sui quali non dirò che poche parole. Battista, il produttore argentino, si atteggia ad uomo di successo, e a Riccardo propone di preparare la sceneggiatura di una “Odissea” omerica in formato colossal americano con tanto di donne mezze nude e un Polifemo King Kong, perché
“(...) il film neorealistico non è sano, non è un film che incoraggi a vivere, che aumenti la fiducia nella vita... il film neorealistico è deprimente, pessimistico, grigio... a parte il fatto che esso rappresenta l’Italia come un paese di straccioni, con gran gioia degli stranieri che hanno tutto l’interesse a pensare, appunto, che il nostro sia un paese di straccioni, a parte questo fatto dopo tutto già abbastanza importante, esso insiste troppo sui lati negativi della vita, su tutto quello che c’è di brutto, di sporco, di anormale nell’esistenza umana... insomma è un film pessimistico, malsano(...)”.

Il regista invece, un certo tedesco Rheingold, propone una visione in chiave psicanalitica e freudiana del poema omerico che si rivela amara e, allo stesso tempo, illuminante : Penelope pur rimanendo fedele ad Ulisse, non lo ama più da molto tempo e, per questo motivo l’eroe di Itaca rimanda il ritorno ogni volta, perché non gli è piacevole la vita accanto ad una donna che lo disprezza...

Non posso più dirvi nulla sulla trama.
Posso invece, anzi devo, sottolineare, le considerazioni che l’autore fa sul lavoro dello sceneggiatore, colui che davvero lavora per il film, ma che non appare sulla locandina. Egli in sostanza “è un artista che, pur dando il meglio di sé al film, non ha poi la consolazione di sapere che avrà espresso se stesso”, in quanto i meriti vanno tutti al regista e al produttore.
In sordina trapela anche una polemica contro i colossal americani: barocchi apparati di festa di colori e mostruosità che hanno il solo scopo di stupire, senza lasciare alcun contenuto di valore.

Sopra ogni cosa però, l’inconfondibile stile di Moravia che, come scrive Enzo Siciliano “ha sempre incenerito ciò che sembra”, l’apparenza, grazie al suo realismo, al suo scavo psicologico fatto senza censure. (E. SICILIANO, “Alberto Moravia, vita, parole e idee di un romanziere” Milano, 1982)

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Va assolutamente letto insieme a “L’amore coniugale”, in quanto, anche se le storie sono diametralmente opposte, ci sono dei parallelismi interessanti, sia nella trama, che nelle considerazioni sul lavoro dell’artista, che in un romanzo è lo sceneggiatore e in un altro lo scrittore di romanzi.
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archeomari Opinione inserita da archeomari    01 Settembre, 2019
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Un solo tipo di bellezza, la mimesi

Ecco un altro libro che mi getta nell’imbarazzo più totale.
Vito Mancuso è un professore molto apprezzato dal grande pubblico, ha scritto tantissimi libri rendendo comprensibili gli argomenti più ostici e difficili a beneficio di chi non è addetto ai lavori.
È un teologo, ma se vi documentate bene vedrete che i cervelli fini della Chiesa, l’arcivescovo Bruno Forte, già suo docente, il gesuita Corrado Marucci, monsignor Piero Coda e tantissime altre autorevoli voci in campo teologico, lo hanno accusato di “svuotare di significato almeno una dozzina di dogmi della Chiesa cattolica” (rivista “Civiltà cattolica”, febbraio 2008). Cito giusto qualche critica, anche se non sono né interessata e né competente in campo teologico, per dovere di completezza.
Dal libro che mi appresto a commentare, mi aspettavo qualcosa di più, quello che in genere mi aspetto da un saggio: rigorosità delle argomentazioni, linguaggio comprensibile (questo è presente), contenuti illuminanti.
Se dobbiamo considerarlo un saggio accademico, no, non lo è.
Io ho avuto l’impressione di leggere una piccola guida, una sorta, passatemi il termine, di “catechismo” sulla bellezza. Una bellezza basata sulla mimesi, sulla fedeltà alla natura, una bellezza basata sui canoni classici, platonici. La bellezza è tale se rispetta l’aspetto della natura e la sua misura. Di conseguenza l’arte del Rinascimento, del Barocco, l’arte neoclassica, impressionista ed espressionista (non tutti gli artisti) suscitano emozioni, possono scatenare, in chi ha la predisposizione a vedere la ‘rivelazione, l’epifania’ della bellezza, lo stupore positivo dinanzi al quale si resta attoniti. Appena ci si allontana dalle forme della natura e dalle sue misure, non solo non è arte, ma non è neanche bellezza. Ecco, io non riesco a trovare piacere, illuminazione e arricchimento da queste considerazioni, perché troppo conservatrici, strutturate su una visione un po’ ristretta dell’arte ed anche della musica. Ho trovato discutibili ed ingenue le affermazioni riguardanti l’evoluzione di Picasso verso il cubismo. Cito il passo:

“Non posso tuttavia fare a meno di chiedermi perché Pablo Picasso, che a quindici anni dipingeva il volto umano con una maestria e una dolcezza commoventi, e che in seguito nei cosiddetti periodo blu e periodo rosa produsse capolavori degni della sua fama, prese progressivamente a ignorare l’armonia e la bellezza della figura umana fino a scomporla, abbruttirla e quasi farla a pezzi, come se si trattasse di un’autopsia”.

Non si può scrivere un saggio sui gusti personali, perché essi sono quanto di più relativo e sfuggente possibile. Posso capire la necessità di un’arte e di una musica che parlino a tutti e non soltanto a chi riesce a capire i messaggi criptici delle “mode”contemporanee, che rispecchiano la dissoluzione e la decadenza della nostra identità. Insomma ,se vogliamo dirla con Huizinga, che lui stesso nel libro cita, stiamo andando verso la pazzia più furiosa.
Mi sembra un discorso quanto meno superato e comunque opinabile.
Devo però dire che l’idea di fondo, cioè la necessità di intraprendere la via della bellezza come alternativa al vuoto che ci circonda è apprezzabile. Mancuso parla della natura, la prima opera d’arte, come elemento da contemplare per rischiarare i nostri animi distogliendoli da angosce e stati depressivi. Una ricerca della bellezza, che in Italia non scarseggia, in ogni luogo. Nei tramonti, nelle albe, nelle belle opere figurative (quali siano belle lo dice lui), nei monumenti, nell’ascoltare la buona musica. Ovviamente i metallari, che fanno solo frastuono ed hanno il solista che gracchia come una cornacchia con la raucedine, gli allegri suonatori dei tormentoni estivi ... vade retro!

Non mancano nel libro bellissime citazioni ad effetto, ad hoc, quelle da usare nel copia/incolla e condividere sui social media, decontestualizzando ancora di più il pensiero originario di ogni singolo autore di opere figurative o letterarie. Queste citazioni sono raccolte per avvalorare maggiormente i gusti del Mancuso. Ma non si può accettare un saggio, lo ripeto ancora, sui gusti personali di chi scrive. Non lo posso accettare.

La mia recensione è abbastanza distruttiva, ma per il rispetto che nutro verso qualsiasi libro, creatura partorita dalla mente dell’uomo, non scendo mai oltre le 3 stelle.
Mi spiace, deludente.

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Si, se volete un libro piacevole che vi faccia pensare alla bellezza come via per uscire dal vuoto e dalla noia, alla bellezza come consolazione dell’animo.
No, se cercate un saggio rigoroso che arricchisca ed informi sul tema della bellezza
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archeomari Opinione inserita da archeomari    27 Agosto, 2019
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Una toccante testimonianza di rivincita sociale

Una storia toccante e vera di riscatto sociale, di ribellione contro le condizioni di analfabetismo e arretratezza socio-culturale imposte da un padre patriarca, padrone dei figli, della moglie, della casa e della poca ‘roba’ , frutto di lavoro instancabile e di sacrifici inimmaginabili. Siamo a Siligo , nel Sassarese, all’incirca nella seconda metà del Novecento. Sin dalle prime pagine ci si ritrova immersi totalmente e profondamente in una Sardegna pastorale, selvaggia e povera, una realtà in cui lo stesso pastore, protagonista della storia, sembra mimetizzarsi e diventare tutt’uno con la natura. Immensi pascoli di silenzi, in cui si ode la sola voce della natura : belati di capre e di pecore, cicalecci, pigolii di uccelli, fischi per richiamare il bestiame. Una realtà fuori dalla storia e dalla società. Miseria e povertà al limite, soprusi ai danni dei più deboli, l’assenza totale dello Stato e di ogni forma di giustizia che trova risposta nel banditismo. Una questione sarda che va ad affiancarsi alla ben più nota ‘questione meridionale’.
‘Sardigna no est Italia’ si dice ancora talvolta in quest’isola, con un pizzico di orgoglio ed anche di amarezza, perché, diciamocelo: la Sardegna tutt’ora soffre di questa emarginazione, la sua insularità è tutta speciale e ben più diversa dalla sorella Sicilia. Ma in questo commento non voglio e non posso dilungarmi su questa mancata ‘continuità’non solo territoriale, tra l’isola e il continente, posso solo limitarmi a constatare e ricordare che c’è e fa a pieno titolo parte dell’Italia, al di là del Tirreno, una perla di storia e di bellezze da tutelare e valorizzare anche nel suo interno. La Sardegna non è solo costa e spiagge, non è solo l’isola delle vacanze.
Ma torniamo al libro.
“Padre padrone”, vincitore del Premio Viareggio 1975 e oggetto di trasposizione cinematografica, non è altro che l’autobiografia di un pastore che rimane analfabeta fino a vent’anni. Strappato dal padre alla scuola primaria dopo le prime settimane di lezioni, per farsi aiutare nel lavoro all’ovile, a Baddhevrùstana (Vallefrondosa), lontano dalla piccola cittadina di Siligo. Di mese in mese il carico di lavoro sulle spalle del piccolo Gavino aumenta, non esiste riposo. Oltre alla mungitura delle pecore all’alba e al tramonto, c’è il duro lavoro nei campi e nelle vigne prese a cottimo. Nell’età delicata , nei primi anni in cui si perfeziona e si consolida il linguaggio umano, Gavino passa ore ed ore in completo silenzio e nella più totale e desolante solitudine, al di fuori del consorzio umano al punto da trovare disagio nel parlare coi familiari nei giorni in cui scende dall’ovile e si fa lavare e spulciare dalla madre.

“La natura tutta del nostro campo era qualcosa di cui ormai io facevo parte. (...) Ero entrato e ricresciuto nel mondo animale, minerale e vegetale e non potevo più sentirmene fuori. La solitudine del bosco e il silenzio profondo dell’ambiente, interrotto solo dal vento, dai tuoni o dallo scoppio di un temporale in lontananza d’inverno, orchestrato dal canto degli uccelli e dal crogiolarsi della natura in primavera, ora per me non era più silenzio. A furia di ascoltarlo avevo imparato a capirlo e mi era divenuto un linguaggio segreto per cui tutto mi sembrava animato, parlante e in movimento. (...) Quasi conoscessi tutti i dialetti della natura e li parlassi correttamente al punto da impostare con essa, nel mio silenzio raccolto, le uniche conversazioni che mi erano possibili”.

Le occasioni per incontrare qualche pastorello e qualche ex compagno di scuola sono rare e Gavino gode di quei fugaci momenti come un ladro che ruba tempo al lavoro imposto e richiesto dal padre. Il tempo dedicato ai campi e al duro lavoro impediscono a lui ed ai suoi fratelli e sorelle di ricevere le basi dell’istruzione.
Un padre patriarca, lui lo definisce così, violento, iracondo quando i figli non lavorano quanto lui desidera, manesco all’inverosimile anche ai danni del bestiame. Ho letto pagine di violenza gratuita ed ingiustificata che farebbero accapponare la pelle oggi alle associazioni animaliste ed ai volontari del Telefono Azzurro.
In questo libro e in questa realtà non esistono le mezze misure. Passioni violente e primordiali, paesaggi arsi dal sole o bruciati dal gelo, prepotenza dei forti e mitezza dei deboli. La via di mezzo è assente su ogni fronte.
Ciò che colpisce più di tutto è la nuova consapevolezza che si fa strada nel cuore di Gavino e lascia un messaggio forte: liberarsi dalle catene del suo padre padrone, fuggire da questo inferno fatto di lavoro che sfinisce e ti tiene lontano dagli altri esseri umani, si può. Lasciare l’amaro borgo natio e costruire un futuro diverso all’insegna della libertà e dell’autodeterminazione è possibile. “Tu vieni dalle spelonche, Ledda” si sentì dire un giorno dal comandante del reggimento di cui faceva parte, questa affermazione e tanti insulti dai suoi commilitoni ‘italiani’ non gli impedirono di studiare di nascosto quando gli altri dormivano o andavano a divertirsi fuori della caserma.
Con una forza di volontà incredibile ed ammirevole, Gavino riesce ad affrancarsi grazie alla cultura e all’istruzione. È un inno al desiderio di imparare, al seguire le proprie inclinazioni perché la volontà può tutto, non è mai troppo tardi per imparare a leggere e a scrivere, a costruire una radio perfettamente funzionante, a suonare uno strumento musicale. La cultura ha reso libero Gavino Ledda e sappiamo, al di fuori del romanzo, che riuscì a conseguire anche la Laurea in Lettere alla Sapienza di Roma, lottando contro il pregiudizio di fondo di suo padre e dei suoi compaesani.
Un messaggio forte, da condividere, dalla Terra dei Quattro Mori.





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archeomari Opinione inserita da archeomari    22 Agosto, 2019
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Fanatismi religiosi antichi e moderni

Piccolo saggio, intrigante lettura di meno di cento pagine. Un testo che arricchisce, che stupisce, che insegna e non annoia mai. Questo è lo stile del professor Barbero, noto e rigoroso medievalista, curatore anche di programmi televisivi molto interessanti sui principali eventi storici nei secoli prima e dopo Cristo.

La tematica trattata in questo libro, ben fatto, con una breve e gustosa bibliografia alla fine (c’è da sottolinearlo, perché spesso non la trovo in alcuni ‘saggi’) è piuttosto delicata, sia per l’attualità delle cosiddette ‘guerre di religione ‘ sia perché non è semplice comprendere lo spirito e l’entusiasmo con cui i nostri antenati occidentali andarono ad insozzarsi le mani di sangue in Terrasanta.

Il libro consta di quattro parti:
1.Che cosa sono le crociate
2.L’epopea
3.Fra guerra santa e “jihad”
4.L’Occidente visto dagli “altri”

Le prime due parti si concentrano sulle Crociate, intese come vere e proprie spedizioni espansionistiche di un’Europa occidentale che, dopo il Mille, vede una progressiva crescita demografica . Alla base di ogni crociata, soprattutto nelle prime, c’è una sincera convinzione sull’importanza di liberare la Terra Santa dagli infedeli. Ogni crociato vede in questo viaggio ed in questa guerra un’autentica martirizzazione che gli assicura la remissione totale di tutti i peccati e la conquista del Paradiso. Un entusiasmo che noi non riusciamo a comprendere e ad accettare in questa forma, poiché ormai consapevoli dell’enorme violenza che ne è conseguita. Le crociate sono state per l’Europa :

“Il primo esperimento coloniale europeo: è la prima volta che gli Europei provano a conquistare stabilmente un territorio fuori dall’Europa occidentale e a impiantarci una loro aristocrazia di padroni che sfruttano a proprio vantaggio le risorse locali”.

Nel libro vengono citati anche i nomi di alcuni crociati, Goffredo di Buglione, Luigi IX detto il Santo , Riccardo cuor di Leone e le varie crociate dalla prima all’ultima, compresa quella “pacifica” e senza violenza di Federico II.
Nel terzo e nel quarto capitolo Barbero fa un parallelismo tra crociate, persecuzioni cristiane e il ‘jihad’ (non tutti sanno che il termine in arabo è maschile). Interessante notare come i cristiani da primi martiri, perseguitati dai vari imperatori romani, perché si rifiutano di indossare armi e di uccidere, non si fanno alcuno scrupolo poi di ammazzare fuori dall’Europa se tale ordine gli viene imposto da un imperatore cristiano e dal papa. Difficile è capire come mai, una religione che vieta di uccidere, impone poi di farlo: le crociate furono a tutti gli effetti dei veri e propri pogrom antelitteram !

La chiesa greco-bizantina non partecipa alle Crociate: questo sarà uno dei tanti motivi che la allontaneranno dalla chiesa cattolica occidentale. Eppure i crociati saranno costretti ad attraversare Bisanzio per raggiungere Gerusalemme ed è in quella occasione che bizantini e cristiani hanno modo di conoscersi e di confrontarsi. Vi lascio il piacere di leggere le impressioni che i nostri crociati hanno lasciato ai bizantini ed ai turchi, nonché agli stessi arabi. A Bisanzio è stata una giovane principessa, molto colta, Anna Comnena, a scrivere, dimostrando di conoscere profondamente la cultura greca, le osservazioni sui crociati , sugli “occidentali”, così vicini eppure già tanto lontani.
Ovviamente è molto più corposa la parte riguardante i crociati e le guerre di liberazione di Gerusalemme, tuttavia vengono presentate tutte le premesse ed esposte le motivazioni, documentate, di queste guerre “benedette” che ci permettono di notare chiaramente l’analogia con gli attacchi terroristici dei jihadisti e dei loro capi. Le crociate già da allora sancirono lo scontro col mondo islamico e dimostrarono che il pretesto religioso è solo la punta di un iceberg complesso e composito.


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Per approfondire consiglio Franco Cardini, “L’Islam è una minaccia”
e una lettura veramente interessante da parte di un sociologo algerino naturalizzato francese Khaled Fouad Allam, Il jihadista della porta accanto. Mi sono piaciuti entrambi. Per approfondimenti storici sulle crociate la bibliografia indicata da Barbero è ottima
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archeomari Opinione inserita da archeomari    19 Agosto, 2019
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Il successo è di chi rimanda gli scrupoli a domani

Un romanzo diventato famosissimo soprattutto grazie alla trasposizione cinematografica di Fleming nel 1939, premiata con 10 statuine agli Oscar e passata alla storia del cinema insieme ai volti di Clark Gable e Vivien Leigh, interpreti rispettivamente di Rhett Butler e di Rossella O’Hara.
Tale legame con la versione cinematografica è diventato col tempo una vera catena per un romanzo che, pur non essendo alta letteratura (prendo le distanze da questo termine), si presenta di ottimo livello: non a caso venne riconosciuto e consacrato con il Premio Pulizer nel 1937.
Margaret Mitchell, l’autrice, è scomparsa esattamente settant’anni fa, investita da un tassista ubriaco a soli quarantotto anni, lasciando ai posteri un unico romanzo, “Gone with the wind”. Chissà quanti altri avrebbe potuto ancora scrivere!

Incuriosita dalla fama della pellicola (che ammetto di aver visto una sola volta, da ragazza), invogliata da alcuni amici lettori, ho deciso di immergermi in questo volume di oltre mille pagine, che si sono fatte divorare in meno di dieci giorni.
La storia si svolge durante la sanguinosa guerra di secessione americana ed è ambientata tra la Georgia e l’Atlanta -luoghi cari all’autrice, le cui realtà erano da lei ben conosciute.
Siamo nel Sud delle piantagioni di cotone, distese immense di terra rossastra, resa produttiva da un sistema sociale ed economico ben saldo: i proprietari bianchi, con le loro immense case, ombreggiate da piante odorose di verbena, di magnolia, oppure da grosse querce ed alberi di pesco e la loro duplice famiglia, quella bianca, costituita dai propri figli e dai propri parenti coabitanti, e quella nera, al loro servizio. Gli schiavi neri rappresentano dunque a tutti gli effetti la famiglia del “padrone” bianco, perché vengono curati, nutriti, protetti in cambio di lavoro in casa oppure nelle piantagioni. Si badi che la distinzione tra negro (riporto i termini usati nella traduzione) domestico e quello contadino è talmente netta che gli stessi schiavi si sentono disonorati se viene chiesto loro di svolgere un lavoro diverso da quello per cui sono stati assunti.
La distinzione è netta anche tra i neri schiavi del Sud , che comunque da generazioni convivono e si sono adattati a questo sistema che in un certo senso verso di loro è paternalistico e quelli del Nord, convinti dai bianchi yankee a ribellarsi contro i proprietari terrieri meridionali. La tensione giungerà al culmine con la guerra civile secessionista che, come tutti ben sappiamo, porterà alla vittoria degli yankee del Nord e all’abolizione della schiavitù.
Il libro si apre con la descrizione fisica di Rossella O’ Hara - Scarlett O’Hara nel testo originale - una sedicenne non particolarmente bella, ma dotata di un fascino e di uno charme irresistibili che fanno dimenticare agli uomini “il mento aguzzo e la mascella quadrata”, tratti non proprio leggiadri del volto della nostra volitiva protagonista. Dalle prime pagine viene fuori un ritratto affatto positivo di questa fanciulla: vanesia all’inverosimile, egoista e viziata. Caratteri che porterà con sé, nonostante qualche maturazione, fino alla fine della storia narrata.

È un libro indimenticabile, va letto ed amato perché ha sicuramente una complessità, una ricchezza che, per la sua natura intrinseca, non si può interamente riprodurre sulla pellicola.
Storia di un amore non corrisposto che si rivela poi semplice infatuazione e immatura idealizzazione, legami con uomini non adatti a Rossella, completamente eclissati dal suo carattere forte ed autoritario. Vicende storiche sanguinose, passioni covate sotto la cenere, personaggi indimenticabili, a tutto tondo.
Vi assicuro che resterete incollati alle pagine, col fiato sospeso e col cuore in gola. Terminata una parte non riuscirete a resistere e vorrete conoscere anche le altre vicende indugiando oltre il tempo che la vostra vita reale concede. Pura emozione dalla prima all’ultima pagina. Descrizioni meravigliose del paesaggio della Georgia nei primi capitoli: Tara, la casa di Rossella, la sua terra rossastra, i profumi e le calde essenze in ogni stagione fanno da sfondo alla nostra conoscenza con la protagonista. Pennellate d’autore con colori vividi e decisi che ci appaiono come su un gigantesco quadro naturalistico. La guerra è sullo sfondo, ogni tanto si porta in primo piano, senza mai appesantire e rallentare la trama. Rossella si trova in un mondo completamente impazzito: rischia di morire di fame, di perdere Tara, la terra, ciò che più conta nella vita come le raccontava suo padre, un irlandese tenace.

“La terra è la sola cosa al mondo che valga qualche cosa (...) perché è la sola cosa al mondo che rimane e che, non dimenticarlo!, la sola cosa per cui vale la pena di lavorare, di lottare...di morire”. Sono le parole che Gerald O’Hara rivolge una sera, quando gli orrori della guerra erano ancora lontani, a sua figlia piangente perché l’uomo che ama sposerà un’altra. A questo proposito il padre le ricorda anche che “non importa sapere chi sposerai, purché sia uno che la pensa come te e sia bravo e orgoglioso uomo del Sud. Per una donna, l’amore viene dopo il matrimonio”.

Nel giro di pochi mesi la sua scala di valori riceve un terribile scossone. Si rende conto che gli insegnamenti della madre, forse l’unica persona che lei abbia mai amato, non funzionano più, sono inadatti ai nuovi tempi: con il fascino, con la buona educazione, con i balli, con la delicatezza e gli svenimenti femminili non si mangia. Serve il denaro.
Ed ecco la nostra protagonista assetata ed affamata di denaro e di ricchezza, quasi traumatizzata dall’esperienza della fame che, per scongiurare lo spauracchio della povertà e delle privazioni, comincia a scavalcare progressivamente tutti gli scrupoli e le norme della buona creanza, il cui “clou” lascio a voi scoprire. E se ogni tanto qualche scrupolo, qualche preoccupazione offusca i suoi piani, lei ha un mantra pronto all’uso che ha imparato ad usare molto presto, ben prima della guerra : “Non voglio pensarci oggi, ci penserò domani”.
Tra l’altro anche Rhett Butler, l’unico forte personaggio maschile di tutto il romanzo, che forse neppure tanto segretamente le muore dietro, le dice un giorno, parlando di quanto poco contassero le chiacchiere e le malignità della persone sul proprio conto:

“Finché uno non ha perso la reputazione non capisce che era un peso enorme e che la libertà è meravigliosa”.

Diciamolo subito: non è semplice provare simpatia per Rossella O’Hara. I momenti di antipatia si alternano velocemente a quelli ammirazione e di tenerezza, a volte, vista l’ingenuità riguardo a certe situazioni (esempio l’amore sensuale).
Come si può apprezzare una persona che vuole essere sempre al centro dell’attenzione maschile, sentirsi la più bella, la più affascinante, la più corteggiata? Possiamo giustificare questo egoismo considerando la sua giovane età, ma il punto è che tale predisposizione a pensare solo a se stessi non si smorza, anzi credo che si acuisca attraverso le vicissitudini della guerra, dell’esperienza della fame, attraverso tre matrimoni mai fatti per amore (il primo per pura ripicca, gli altri due solo per denaro), attraverso gravidanze indesiderate che hanno mostrato una donna priva del minimo istinto materno, che considera i figli un fardello da dimenticare delegandone ad altri le cure parentali. Rossella diventerà una moderna imprenditrice, capace di procacciarsi clienti, tenere la contabilità, assumere aiutanti anche di dubbia reputazione, vendere merci a prezzi superiori al loro valore...sarà una donna che offrirà tante occasioni di pettegolezzi ad Atlanta, dove andrà poi ad abitare per lungo tempo, inviando però nel frattempo denaro ai suoi familiari rimasti a Tara.
La storia di Rossella O’ Hara è quella della guerra vissuta dai meridionali che da un momento all’altro hanno visto crollare i valori in cui credevano per generazioni e generazioni e proprio questo attaccamento cieco ad un sistema ormai sepolto ha impedito a molte famiglie di rimettersi in piedi. Soltanto i lungimiranti, i furbi perfettamente incarnati da Rossella e da Rhett, sono stati in grado di risollevarsi dalle macerie di un mondo distrutto, senza guardarsi mai indietro. Il successo arride a chi non ha scrupoli, a chi sa quali amicizie è meglio tenersi strette, a chi sa “annusare” la direzione del vento prima degli altri.

La lezione di vita imparata da Rossella verrà magistralmente e poeticamente pronunciata da nonna Fontaine, amica di famiglia, il giorno dei funerali del padre di lei: “ Noi siamo come il grano saraceno che ondeggia, e quando il vento è passato si rialza dritto e forte come prima. Quando vengono le disgrazie, noi ci pieghiamo dinanzi all’inevitabile e sopportiamo sorridendo. E quando siamo nuovamente forti, diamo un calcio alle persone dinanzi alle quali ci siamo piegati. Questo è il segreto per sopravvivere”.

I personaggi affascinanti sono tanti, ma sicuramente più di tutti spiccano Melania Hamilton Wilkes e Rhett Butler. La prima, superata la prima impressione di fanciulla delicata, “scialba ed insignificante”, che vede del buono anche nei rinnegati e nei delinquenti, soprattutto in Rossella che la odia e la disprezza senza darsi pena di nasconderlo, mostrerà poi non soltanto le virtù della vera gentildonna dei vecchi tempi, ma anche una forza, un coraggio, una determinazione che vi sorprenderanno. E Rhett? È l’uomo che ogni donna vorrebbe incontrare: un po’ principe forte e coraggioso, un po’ pirata, dedito a traffici illeciti e misteriosi, per niente impacciato con le donne.
Alt!
Forse nel film viene caricato il lato “rosa” della storia, ma nel romanzo non ho trovato assolutamente niente di sentimentale e di sdolcinato. Rhett è un vero mascalzone, spesso duro con Rossella, l’unico capace di capire veramente i pensieri di lei e di non scandalizzarsi del suo carattere egocentrico ed egoista. L’unico con cui Rossella riesce a confidare le proprie pene ed i propri inganni. Sboccerà l’amore disinteressato e maturo? Chissà...


La scrittura della Mitchell è magistrale e fluida e permette una lettura veloce, di puro intrattenimento, per tutte le mille e cento pagine del romanzo. Il primo vero romanzo americano.

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archeomari Opinione inserita da archeomari    09 Agosto, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Al di là di un genere letterario...

È veramente arduo parlare brevemente di un’opera come “La montagna incantata” di Thomas Mann, recentemente rivista e pubblicata in Italia con un altro titolo, più fedele a quello originale, “La montagna magica”, in una nuova veste filologica, più adatta agli esperti. E dal costo proibitivo.
L’edizione Corbaccio è quella classica, nella magnifica traduzione di Ervino Pocar che fa gustare pienamente la grandezza dello scrittore di Lubecca.

L’opera di Thomas Mann è titanica: otto romanzi, un dramma, più di quaranta racconti, un breve poema, innumerevoli saggi e recensioni. Uno scrittore veramente prolifico, le cui opere spesso sono intrecciate alla biografia che diventa chiave della sua scrittura.

“La montagna incantata “infatti nasce dagli appunti che lo scrittore raccolse nel 1912 durante il soggiorno della moglie, malata di petto, nel sanatorio-albergo di lusso nel Davos, lo stesso luogo in cui si svolge la storia di Hans Castorp, protagonista del romanzo. Questi appunti , dopo l’interruzione dovuta allo scoppio della prima guerra mondiale, vennero ripresi nel 1919 e lievitarono fino ad assumere la forma definitiva che venne pubblicata nel 1924.
C’è da ricordare che “La montagna incantata” esce subito dopo la pubblicazione del racconto “La morte a Venezia” e il confronto è lampante: i temi della malattia, della decadenza, dell’erotismo e del tempo sono cruciali e vengono approfonditi.
Stiamo parlando di un romanzo difficile da definire, non è soltanto un romanzo filosofico oppure storico, ma potremmo dire che, per la ricchezza di contenuti e di tematiche trattate, “La montagna incantata “ va ben oltre il genere!

Come comincia la storia?
Noi sorprendiamo all’inizio un giovane, Hans Castorp, fresco laureato in ingegneria - già assunto da una ditta che si occupa di cantieri navali - che da Amburgo, città natale, sta viaggiando su un treno a vapore diretto nel Davos, in Svizzera, per far visita a suo cugino Joachim, da un anno ricoverato nel Berghof, il famoso sanatorio-albergo, per guarire dalla tubercolosi.
Hans ha intenzione di sostare lì tre settimane, sia per riposare sia per passare un po’ di tempo col cugino...ma le settimane diventano poi mesi ed anni.
Eh sì, sembra che quando si arrivi al Berghof anche i sani si ammalino: l’aria è rarefatta, nevica anche ad agosto e qualche linea di febbre è sempre in agguato.
Confessiamo però che lasciare quel meraviglioso sanatorio non è affatto facile e richiede una grande motivazione a scendere in pianura. Al Berghof si è coccolati con lauti pranzi, doppia colazione (i pranzi sono ricchi e Mann non si risparmia nelle descrizioni all’inizio), si fanno passeggiate nel verde, si pratica la cura del riposo su ottime e comodissime sedie a sdraio sul terrazzo, con o senza coperte di cammello, a seconda delle stagioni e dell’ora. C’è di più: col tempo ci si affeziona ad alcuni personaggi, con cui si intavolano profonde ed ardite discussioni e dibattiti di idee e...ci si innamora.
È una vita sospesa dentro ad una grossa bolla dove si guarisce, a volte si muore: una realtà parallela a quella di laggiù. L’opposizione laggiù/quassù è martellante a volte ed è pregna di profondi significati. Un mondo sospeso nel tempo, quasi dormiente rispetto a quello che succede in pianura, fino a quando “il colpo di tuono” della grande guerra mondiale costringerà quasi tutti a svegliarsi, a fare le valigie e, per i giovani, come Hans Castorp, a imbracciare il fucile.
Il tempo per chi deve curarsi al Berghof è estremamente dilatato e coloro che come Joachim, cugino di Hans, sentono il dovere di essere attivi e produttivi laggiù in pianura, è quasi una agonia, una “illimitata monotonia”, anche se piacevole per certi versi poiché la buona compagnia, i lauti pranzi non mancano. Castorp invece, partito con l’intenzione di sostare solo tre settimane, sicuro di essere sano, si accorge invece di aver necessità di riposo e quando, dopo un anno di permanenza il ‘consigliere aulico’ Behrens gli dice è guarito e può tornare a lavorare, si rifiuta e rimane altri sei anni nel sanatorio-albergo.
Nella storia si incontrano personaggi coltissimi ed affascinanti tra cui, uno dei primi a comparire sulla scena, è Lodovico Settembrini, che Castorp con un moto prima di fastidio e poi di affetto lo chiamerà “suonatore di organetto “, “lo zampognaro della pace” e che farà del protagonista il suo “pupillo della vita” dandogli lezioni di etica, di filosofia.
Oltre metà del libro compare una figura ambigua, passionale, coltissima, il gesuita massone e marxista Naphta, in eterna combutta con Settembrini fino ad un epilogo che non vi svelo...
Abbiamo una bellissima donna, dai tratti asiatici, dal cognome francese, Madame Chochat di cui si innamorerà Castorp e che andrà via dal sanatorio e, come consuetudine, vi ritornerà. Forte tensione erotica, una storia difficile, considerati i costumi molto liberi di questa russa “ammodo” (scoprirete voi perché esistano nel romanzo “i russi ammodo” e “i russi incolti”) e la sua condizione di donna sposata. Interessante notare anche in questo romanzo l’eterno turbamento intimo, l’eterna pulsione omoerotica di Mann: gli occhi azzurri chirghisi di Madame Chochat , il suo corpo androgino ricordano a Castorp quelli di un suo amore adolescenziale, Hippe.

Tantissime le tematiche, ne cito solo qualcuna: il progresso nel campo della medicina e dell’ingegneria. La Torre Eiffel è stata inaugurata da poco, lo stesso cugino di Hans è un soldato moderno, Hans lavora nella costruzione di navi...
È il romanzo della complessità del reale.
I malati vengono guardati dentro doppiamente: attraverso i raggi X che fanno una fotografia dell’interiorità fisica e attraverso la psicologia...Il dottor Krokowski introduce i malati ai segreti di questa nuova scienza e lo fa attraverso quindicinali conferenze cui tutti debbono partecipare, pena il risentimento personale dello stesso dottore.
Interessanti i passi in cui si spiega come funziona la camera per i raggi X, a cosa serve lo pneumotorace, la risezione delle costole...tantissimi termini della medicina moderna!
Appassionanti i dibattiti di idee di Settembrini e Naphta sulla morte, sulla libertà, sul progresso, sull’opposizione corpo/spirito, Occidente/Oriente, sulla cremazione dei cadaveri, sullo scenario internazionale che si sta preparando alla prima guerra mondiale.
Meravigliosi i passi sulla scrittura come tempo musicale! Le riflessioni dell’autore narratore onnisciente fanno capolino in diverse pagine del libro.

Un libro che non va letto solo due volte, come consiglia lo stesso autore ai suoi studenti di Princeton - in appendice a questa edizione troverete la conferenza di Mann in merito a quest’opera- ma dieci volte almeno! Un romanzo che va ben oltre il genere di romanzo, così denso di significati che, sicuramente, ad una prima lettura (è il mio caso), presi dalla trama, perdiamo. Un romanzo sulla complessità della vita moderna che porta alle nevrosi ed all’isolamento: i malati del Berghof sono tutti malati di petto? Bene o male non portano dentro di sè le loro nevrosi e le loro isterie? Lodovico Settembrini chi altro è se non l’illuminista, la ragione che vive lassú, lontano dalla pianura, ma fuori dal sanatorio ( lontano dall’isteria quale sconvolgimento dello spirito), in un appartamentino privato?
Settembrini è secondo me la figura principale, dopo Castorp, di tutta l’opera: con la sua presenza a volte invadente ed inopportuna, sempre presente come il prezzemolo nelle situazioni più intricate, con il suo garbo, con la sua magnifica ed eloquente italianità (che secondo me Mann ammira) strenuo difensore della razionalità, della libertà dello spirito in un mondo che si appresta invece a soccombere alla barbarie.

Un romanzo che canta la fine della Belle Époque e il tramonto della razionalità . Con un finale commovente.


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Consigliato a chiunque ami scoprire Mann per la prima oppure per l’ennesima volta.
E a chi ama le sfide che un romanzo complesso e denso propone.
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archeomari Opinione inserita da archeomari    05 Agosto, 2019
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A ciascun colore la sua fortuna

Dopo aver letto il libro monotematico ( e monocromatico, mi si conceda la ridondanza) sul blu del professor Michel Pastoureau ed esserne rimasta entusiasta, è stato naturale per me continuare a leggere altri saggi sui colori. Stavolta sono stata troppo curiosa, non ho avuto la pazienza di leggere sistematicamente gli altri libri sul singolo colore (tra l’altro “Giallo, storia di un colore” non è ancora disponibile in Italia, mentre sono disponibili quelli monotematici sui colori nero, rosso e verde). Ho deciso subito di scoprire l’intera tavolozza, quindi mi sono tuffata a capofitto su questo libriccino interessantissimo e piacevolissimo che parla brevemente, ma in maniera concisa e rigorosa dei principali colori.
La trattazione si svolge sotto forma di dialogo: Pastoureau risponde infatti alle domande postegli da Dominique Simonnet, caporedattore del settimanale francese “L’Express”. Questo espediente rende la fruizione dell’opera godibilissima e alleggerisce le argomentazioni, donando al saggio una meravigliosa freschezza .
Ecco i capitoli collegati ai colori trattati:

1. Il blu: il colore gattamorta 2. Il rosso: è il fuoco e il sangue, l’amore e l’inferno 3. Il bianco: ovunque, esprime la purezza e l’innocenza 4. Il verde: quello che nasconde bene il proprio gioco 5. Il giallo: tutti gli attributi dell’infamia! 6. Il nero: dal lutto all’eleganza… 7. Le mezze tinte: fumo di Londra, rosa confetto

Ogni titolo contiene il succo dell’argomentazione, non li trovate intriganti?
Non vi svelo veramente nulla della storia che sta dietro ad ogni colore, ma giova sottolineare quanto sia rigoroso e ben documentato il lavoro di Pastoureau, a cominciare dall’etimologia, dalle trasformazioni linguistiche, dai reperti archeologici, dalle ricette per ottenere i colori naturali allo studio sociologico, basilare perché “noi obbediamo nostro malgrado alle leggi del gruppo cui apparteniamo, e siamo ostaggio dello sguardo altrui”, è quindi naturale tenere conto che

“I colori rispecchiano i mutamenti sociali, ideologici e religiosi, ma restano anche prigionieri dei mutamenti tecnici e scientifici. Ciò comporta gusti nuovi e, necessariamente, attribuzioni simboliche diverse”. E Pastoureau è il massimo studioso vivente del simbolismo (medievale).

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Agli appassionati di storia, di storia dell’arte.
A chi vuole imparare sempre cose nuove e interessanti
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archeomari Opinione inserita da archeomari    05 Agosto, 2019
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Le cose perfette non appartengono a questo mondo

Scorrevolissimo e dalla trama ridotta al minimo, “L’amore coniugale” è un romanzo breve iniziato nel 1941 durante un soggiorno a Capri con la moglie Elsa Morante e pubblicato soltanto nel 1949 : in questo intervallo lo scrittore aveva messo mano anche ad altri due famosi romanzi contemporaneamente.
La tematica è quella del fallimento delle ambizioni letterarie di Silvio, il protagonista, che, sposato con la giovane e bella Leda, moglie remissiva e affettuosa, va a vivere per qualche tempo nella campagna toscana, per trovare la giusta concentrazione ed ispirazione necessarie per lo slancio creativo. Per scrivere in condizioni ottimali un buon romanzo, non gli basteranno però il silenzio della campagna toscana, la rassicurante e tranquilla routine quotidiana, scandita da pasti regolari, passeggiate con la moglie e l’intimità carnale assicurata ogni notte. Il protagonista una sera dirà a Leda:

“ “tu vuoi che io scriva quel racconto. […]Quel racconto in cui si parla di te e di me? ... in queste condizioni non riuscirò mai a scriverlo.”
“Quali condizioni?”
Esitai un momento e poi dissi: “Noi ci amiamo tutte le sere, nevvero? Ebbene io sento che tutta la forza che mi ci vorrebbe per scrivere il racconto, mi va via con te. Se continua così, non potrò mai scriverlo”.

Silvio, convinto che i grandi scrittori “almeno quando lavorano, vivano casti” , chiede ed ottiene dalla moglie questa pausa momentanea dal sesso per tuffarsi con slancio rinnovato ogni mattino nel romanzo che si accinge a scrivere e che intitolerà proprio “L’amore coniugale”: un romanzo nel romanzo, quindi.
Per una ventina di giorni Silvio si dedicherà anima e corpo al suo lavoro, traendone una gioia ed un godimento pari e addirittura superiori, oserei dire, alle notti passate con Leda, al punto di non avvertire nessun altro bisogno se non quello di rinnovare questo piacere creativo.
Leda, dal canto suo, si mostra molto comprensiva, seriamente interessata ed attenta al lavoro di Silvio, dal momento che si tratta di scrivere della loro storia d’amore. Quello che succede poi, e che non svelo, va letto con spirito sgombro da ogni facile pregiudizio e sommarie conclusioni. Moravia è un maestro nello “psicologismo ben solido, ben tridimensionale” - parole del suo più grande estimatore, il critico Giuseppe Antonio Borgese - e riempie le pagine scandagliando in continuazione l’animo di Silvio, che ora ammette il suo egoismo, le sue debolezze, ora ammette di essere completamente dipendente dalla presenza della moglie nella sua vita, arrivando a sopportare situazioni paradossali. In questo procedimento è supportato dalla narrazione in prima persona, è Silvio, infatti, la voce narrante e di cui conosceremo ogni suo più intimo pensiero. Non si può dire infatti lo stesso di Leda, che incarna l’eterno femminino che nessun uomo arriverà mai a capire. Leda, dalla bellezza sfuggente, circonfusa di ieratico splendore, ma con le sue zone d’ombra, le sue smorfie oscene da antica maschera teatrale. La donna quale antico demone.

Cosa può fare Silvio, dunque? Accettare che “come in ogni cosa, dalle grandi alle piccole: tutto si può spiegare salvo la loro esistenza” dal momento che

“La perfezione non è cosa umana; e il più delle volte essa appartiene piuttosto alla menzogna che alla verità; sia che questa menzogna si annidi nei rapporti tra noi e gli altri, sia che presieda a quelli tra noi e noi stessi”.

Nel romanzo sono stata colpita inoltre dalla metodologia della critica letteraria di Silvio, ipercritico verso i suoi lavori, e che, secondo me, è anche il procedimento di autovalutazione dello stesso Moravia. Vengono spiegati con precisione e dovizia i parametri in base ai quali un romanzo viene considerato buono e di successo, dallo stile ai personaggi, senza omettere che, anche al tempo di Moravia, l’indice di gradimento dei libri era pilotato dalla buona presentazione di qualche acclamato critico.

Divorato in una sola giornata.


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Da abbinare alla lettura de “Il disprezzo” , sempre Moravia, per un quadro completo sui rapporti coniugali visti dall’autore, oppure, per citare qualche autore straniero, “Felicità domestica” di Tolstoj, altro autore molto affezionato alla tematica dei rapporti coniugali.
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archeomari Opinione inserita da archeomari    03 Agosto, 2019
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About a man and a boy

Scopro Nick Hornby per la prima volta, a caso, complice una offerta lampo nello store cui mi rivolgo regolarmente. È un ex insegnante che decide di dedicarsi alla narrativa e lo fa con successo, poiché i suoi libri sono divenuti dei best seller famosissimi che hanno visto la trasposizione cinematografica. Sto parlando di “Alta fedeltà”, per citare il più famoso, di “Un ragazzo”, di cui mi accingo a lasciare una sincera opinione.
I protagonisti sono due: un dodicenne, Marcus, e un uomo, Will Freeman, trentaseienne. Il primo, un ragazzino figlio di genitori separati ed inetti, che deve adattarsi alla metropoli londinese dopo aver trascorso l’infanzia a Cambridge, trova molte difficoltà nel farsi accettare dal gruppo dei pari. E il secondo, dal cognome simbolico che esprime già la sua condizione di scapolo inguaribile, rifugge da ogni legame ed ogni responsabilità, vive di rendita, non lavora, cerca di colmare il vuoto della sua vita corteggiando solamente belle donne, cui chiede un legame di breve durata.
Le vite dei due coprotagonisti ad un certo punto si incontrano e da lì comincia un percorso che, intrecciato ad altri eventi significativi, condurrà ad una crescita per entrambi, ad un cambiamento di prospettiva quasi necessario, direi, per la costruzione di un nuovo equilibrio.
Il romanzo è stato definito divertente e viene spesso consigliato a chi cerca una lettura leggera che faccia sorridere e al tempo stesso permetta di riflettere sulle tragedie della vita moderna. La madre di Marcus è una donna profondamente depressa, che tenta spesso di togliersi la vita; Ellie, la migliore amica di Marcus, è una ribelle, una quindicenne disinibita, con una mamma separata inetta quasi quanto quella di Marcus. È il romanzo della società delle coppie “scoppiate”, vi riporto infatti un passo con la battuta del dodicenne Marcus quasi alla fine del libro:

[Will dice, riferendosi alla donna di cui è innamorato]
“Se restiamo insieme per sempre?»
«Bene. Splendido. Vedremo. È che non penso che il futuro sia delle coppie.»

Altro che libro divertente e leggero! Un ragazzino di dodici anni che, alla luce di quanto ha visto succedere ai suoi genitori e ai genitori degli altri ragazzi, con tanta non chalance distrugge le idee (finalmente!) romantiche di Will... fa riflettere. È una storia dove le figure genitoriali, in particolare quella paterna, risultano completamente distrutte, poiché totalmente incapaci di fare da guida al proprio figlio che sta per lasciare, per usare la metafora di Hesse a me tanto cara, la sponda dell’infanzia per attraversare l’impervio fiume dell’adolescenza e raggiungere la riva della nuova consapevolezza dell’essere adulti.
Nell’età più critica i genitori dell’età contemporanea, separati ed inetti, non sanno più ricoprire il loro ruolo di educatori e di sostenitori della crescita.
Paradossalmente Will, che è scapolo, fa finta invece di essere padre single, iscrivendosi al GASS, associazione genitori separati, per accalappiare belle donne. Assurdamente in questo caso la figura paterna è un meschino mezzo per far colpo e portarsi le belle mamme separate a letto.

Un questo romanzo è assente ogni idealismo ed ogni ipocrisia, non ci sono troppe descrizioni, la scrittura è fluida e meravigliosamente scorrevole. I personaggi sono reali, credibili, tangibili, privi di ogni filtro, calati profondamente nella realtà metropolitana londinese attuale. Una realtà dove è difficile crescere senza, duro ad ammettere, omologarsi agli altri.
Marcus, ragazzino particolare, timido, abituato a vestirsi secondo i gusti della mamma, ad ascoltare la musica di Mitchell, cambia : si fa comprare scarpe e vestiti di moda, ascolta i Nirvana. Essere se stessi e diversi non paga. Questo è il messaggio finale, condivisibile o meno.
Un bel libro.

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Consigliato a tutti, un vero peccato perdersi la scrittura di Nick Hornby!
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archeomari Opinione inserita da archeomari    14 Luglio, 2019
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Il colore più democratico di tutti

Amanti della saggistica all’appello!
Vi invito a leggere e a conoscere il più grande esperto di storia del colore, il francese Michel Pastoureau. Potete cominciare sia da “Il piccolo libro dei colori” (Ponte alle Grazie, 2006) o dalla storia di un singolo colore come questo che mi accingo a recensire e continuare con gli altri.
C’è un libro molto interessante che vorrei consigliarvi, vincitore anche del Premio letterario Prix Medicis : “I colori dei nostri ricordi. Diario cromatico lungo più di mezzo secolo” (Ponte alle Grazie, 2011) molto più denso e di ampio respiro, in cui la rigorosità della ricerca storica nei secoli passati si intreccia con la necessità di riconoscere l’importanza del colore nella società in cui viviamo, in quanto elemento vivo e una chiave di lettura della realtà in cui siamo immersi.

Torniamo all’interessante saggio sul blu che ho letto a sorsi in pochi giorni, che mi ha entusiasmata ed arricchita.
Si tratta di un’opera rigorosa, ricca di note -la sola bibliografia occupa il 20% del libro (la precisione è matematica perché l’ho letto in versione digitale) e di rimandi ad opere scientifiche e puntuali, niente di esoterico o psicologico. Si parte dalla Preistoria e passando attraverso i vari secoli si giunge ai giorni nostri, al trionfo del jeans, che

“All’origine è un indumento maschile da lavoro, divenuto a poco a poco un capo per il tempo libero e il cui uso si è esteso alle donne e poi all’insieme delle classi e categorie sociali. In nessun momento, nemmeno nei decenni più recenti, la gioventù ne ha detenuto il monopolio. Quando si esaminano le cose con attenzione, cioè quando ci si prende la briga di considerare l’uso dei jeans nell’America del nord e in Europa fra la fine del XIX secolo e la fine del XX, ci si accorge che i jeans sono un indumento usuale, indossato da gente comune, che non cercava affatto di valorizzarsi, di ribellarsi né di trasgredire, ma aveva semplicemente bisogno di un capo robusto, sobrio e confortevole, che si potesse quasi dimenticare di avere addosso. Al massimo, si potrebbe dire che è un indumento protestante–anche se il suo creatore è ebreo–tanto corrisponde all’ideale di abbigliamento diffuso dai valori protestanti citati in precedenza: semplicità delle forme, austerità dei colori, uniformità”.

Curioso notare che nella tavolozza, alquanto misera in verità, della preistoria e dell’antichità, il blu nelle cosiddette società occidentali fosse praticamente assente. Sia poiché aveva un potere simbolico meno forte rispetto al triade bianco/rosso/nero sia perché produrlo non era tanto semplice, in quanto il principio colorante, l’indigotina, presente nel guado usato dai Germani e dai Celti o nelle foglie più alte dell’indigofera usata dalle popolazioni del Medio Oriente, richiedeva un lungo processo di lavorazione che comprendeva anche un momento alquanto delicato di fissaggio sulle stoffe e sui tessuti.
Per gli antichi il blu non era presente nell’arcobaleno e il loro lessico era troppo impreciso e vago per indicarlo.
Interessante scoprire le tecniche con cui si ottenevano i colori naturali, prima dell’avvento della sintesi chimica, i termini che venivano usati per indicare le varie sfumature di blu, di quanto la traduzione e l’interpretazione dei testi antichi, tra cui la Bibbia, ha reso praticamente impossibile individuare il colore che io ho definito qui, alla luce della lettura del saggio, il colore più democratico di tutti, quello che nei secoli dell’età moderna e contemporanea ha messo d’accordo tutti, fino a diventare il colore preferito per eccellenza. È un colore che evoca calma, non scandalo. È quasi neutro.
Molto intrigante scoprire come è nata la parola “pastello”, le parole “jeans, denim”, come sono nate la coccarda e la bandiera francese cui l’autore dedica tre paragrafi, omaggiando la sua patria, in cui il colore blu ha avuto forse più che negli altri Stati europei, una pregnanza maggiore, un simbolismo ben definito.
Pastoureau affronta secolo per secolo, senza mai appesantire stile, contenuto e piacevolezza, la storia del blu in Occidente nelle varie vicende delle corporazioni e dei mestieri, nel simbolismo cattolico e protestante, nella storia della pittura (scoprirete un saggista amante di’ Vermeer) .

Ho voluto proprio cominciare la lettura dei colori dal blu, perché, lo ammetto, è anche il mio preferito.

“La musica della parola è dolce, gradevole, liquida; il suo campo semantico evoca il cielo, il mare, il riposo, l’amore, il viaggio, le vacanze, l’infinito. Succede lo stesso in parecchie altre lingue: blue, bleu, blau sono parole rassicuranti e poetiche, che associano sempre il colore, il ricordo, il desiderio e il sogno. Esse sono presenti in un gran numero di titoli di libri ai quali bastano a conferire un fascino particolare, che nessun altro termine di colore potrebbe offrire”.

Un saggio breve e interessante.


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“Il piccolo libro dei colori” di Pastoureau
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Poesia italiana
 
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archeomari Opinione inserita da archeomari    12 Luglio, 2019
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Senza infamia e senza lode

Avevo intenzione di leggere queste poesie da molto tempo, attirata dal titolo, lo confesso, senza conoscere nulla dell’autore. Quello che mi ha attirato però non era il contenuto amoroso - che anzi porta con sé il rischio della banalità , del trito e ritrito - ma la presenza di LadyHawke, che mi ha fatto pensare alla giovane interpretata dalla Pfeiffer nell’omonimo film/fiaba. Insomma, un richiamo nostalgico che nulla ha a che vedere con una lettura fatta con la consapevolezza di chi sa cosa legge e chi legge.
Ciò premesso, la mia opinione è semplicemente una impressione immediata e sincera di quello che ho letto.
Mari è un apprezzato scrittore, a quanto apprendo leggendo in rete, e questo suo libro di cento poesie ha riscosso più gradimenti che critiche.
Sicuramente ci sono dei componimenti freschi ed immediati, sembrano usciti dalla penna di un adolescente colto nel pieno dell’innamoramento platonico con tutti gli struggimenti, le fantasie che lo accompagnano.
Si tratta di un amore reale, vissuto in adolescenza, ma che è rimasto platonico e talmente impresso nella memoria dell’autore che a distanza di anni sfoga l’amaro in bocca che gli lasciato con queste cento poesie, quasi tutte brevi, di due/tre strofe minimal, condite però da ironia e da citazioni colte che dovrebbero impreziosire tutto il lavoro.
Dovrebbero! Ci sono tantissime citazioni colte, ma veramente troppe , sembra che tutto il canzoniere si sia innestato su versi, frasi, celebri, in italiano, in francese, in latino anche, e non c’è una sola poesia che non le contenga. A voler essere pungenti, è quasi una riesumazione di sacre reliquie esposte nel contesto sbagliato.
La mia è una voce fuori dal coro, perché la raccolta non mi ha proprio entusiasmato, tranne qualche verso, e nel complesso mi ha dato l’impressione di un gioco poco originale basato sulla manipolazione talvolta irriverente di celebri frasi o versi e qualche sincera ispirazione.
Senza infamia e senza lode.

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Non mi sento di sconsigliarlo, in quanto ognuno ha diritto di formarsi una opinione personale e a Mari darò sicuramente un’altra possibilità nelle mie prossime letture
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archeomari Opinione inserita da archeomari    04 Luglio, 2019
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Una perla sconosciuta dalla terra dei quattro mori

Non riesco a capire come mai questo autore meraviglioso e appassionato non sia citato nei nostri libri di letteratura italiana. Della Sardegna sembra ci sia da ricordare solo Grazia Deledda, che ha vinto il Nobel, invece esistono altri autori, più o meno prolifici, tra cui il sassarese Enrico Costa di cui ho letto questo romanzo storico che mi ha tenuta incollata alle pagine per due giorni. La storia è ambientata tra Cabras (i più informati di sicuro si ricorderanno dei giganti di Mont’e Prama) e Oristano. Uscito nel 1887, il romanzo ha per protagonista una fanciulla, dall’avvenenza straordinaria e dal nome di un fiore, Rosa. Carnagione di perla, capelli nerissimi, occhi chiari a mandorla, autentica discendente degli antichi Fenici. E ... povera.
Le pagine vanno assaporate, è un romanzo storico ambientato in Sardegna, troverete qui e lì spiegazioni su alcune importanti tradizioni dell’isola. Leggendolo ho pensato a Verga ed ai suoi protagonisti, è un libro che non ha nulla da invidiare a molti romanzi verghiani e in più l’ambientazione storica, termini antichi sardi con pronta spiegazione arricchiscono il pregio. Qualcuno potrebbe storcere il naso un paio di volte di fronte alle citazioni di alcuni personaggi colti in merito alle bellezze della Sardegna. A ciascuno il suo... i sardi sono orgogliosi della loro storia e delle loro bellezze e fanno bene, perché questo loro patrimonio continua a non avere il giusto riconoscimento. In fin dei conti bisogna che il lettore sia ragionevolmente indulgente, in fondo un popolo senza storia, che popolo è?

“Le tradizioni non si distruggono perché sono la vita del popolo, di un popolo che crede perché ama, che spera perché soffre, che si affida all’ignoto perché in terra non gli si rende giustizia”.

Ultima raccomandazione: non si legge sotto l’ombrellone.

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Romanzi storici
 
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archeomari Opinione inserita da archeomari    01 Luglio, 2019
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Vicino al cuore degli eroi greci

È veramente difficile oggi ripercorrere i sentieri della mitologia, del cosiddetto ciclo troiano, così battuto nei secoli, senza incorrere in testi banali, senza originalità.
Non è certamente il caso del giovane Cesare Sinatti, Premio Italo Calvino per l’opera prima.
Questo testo è stato edito da Feltrinelli nel 2018 e consta di 238 pagine. Pagine che volano via, perché la mente non è stanca di leggere le vicende degli eroi apprese nella fanciullezza, gli occhi vogliono sempre abbeverarsi alle immagini di luce che questo autore sapientemente lascia in mezzo ad episodi di una crudeltà disumana, come sempre succede quando si parla di guerra.
La società degli antichi era una società violenta, la morte e lo spargimento di sangue erano eventi della loro quotidianità. Con la sua scrittura fluida, ricca di richiami, a me è sembrato non di leggere un libro di mitologia, ma di ascoltare un antico cantore raccontare le storie della storia del mondo occidentale.
Il libro comincia con il concepimento di Elena, figlia di Zeus e di Leda, nata da un uovo insieme a sua sorella Clitemnestra.
Elena, è lei la splendente, con la sua immagine sempre giovane, immutata nonostante il passare dei decenni, incorniciata dall’aura luminosa che i suoi occhi e tutto il suo corpo emanano. Il suo rapimento da parte del troiano Paride, secondo io mito, spiega le origini dell’assedio di Troia che costò immane perdita di vite alla Grecia.
Il libro comincia all’insegna della luce, per poi proseguire con scene di crudeltà inaudita, realistiche a volte.
Lo stile piacevole ed affabulatore come ho già detto, unito ad una raffinata erudizione mai pesante e ad una inquadratura particolare degli eroi greci, fanno del romanzo di Sinatti qualcosa di pregevolmente unico.
L’autore inserisce nella storia varianti poco conosciute del mito e personaggi completamente snobbati dalla letteratura antica: Palamede, uomo astuto, dalla volontà ferrea, dal pensiero insondabile, Epipola, ragazza-soldato, Tersite, deforme e viscido. Per non parlare di Odisseo quale figlio non del saggio e mite Laerte, ma di Sisifo e in quanto tale condannato dal fato.
Un’opera che invita alla riflessione sui sentimenti, sugli stati d’animo di chi, come ad esempio Tindaro, da marito pio accetta i figli che la moglie Leda ha avuto da un dio, li cresce come suoi, si strugge nel saperli vittima di un fato terribile e impietoso.
Della storia d’amore nata tra Penelope ed Odisseo prima della guerra? E di Agamennone e Clitemnestra?
Chi ne ha parlato con tanta umanità e tanta meravigliosa delicatezza?
Bellissimo il passaggio alla fine del capitolo 19, riferito ad Achille che va quasi correndo incontro alla morte:

“Tutto il dolore che non aveva mai provato l’aveva riempito di colpo. Era venuto il giorno in cui per la prima volta quel figlio di un uomo e di una dea avrebbe visto il colore del proprio sangue, il momento che aveva temuto per tutta quell’esistenza breve. Venne la follia e Achille contemplò in un attimo tutta la sua vita e vide che era storia e mito. E nonostante il dolore, l’angoscia e la paura o proprio grazie a essi, vide che una bellezza si schiudeva in questo mito, nel fatto che si concludesse in quell’esplosione di dolore con un unico colpo fatale e perfetto, e seppe che la bellezza di quel mito gli sarebbe sopravvissuta e che egli stesso sarebbe eternamente vissuto in quella bellezza. Nella morte, il figlio di Teti diventava immortale. Il terrore che l’aveva inseguito fino alla soglia di Troia, nell’istante finale non riusciva ad afferrarlo. Achille, col sorriso degli immortali, correva più veloce.”

Innumerevoli i passi toccanti, tantissima l’umanità e la fragilità di questi eroi antichi che continuano ancora a parlarci grazie alla penna di autori “splendenti” come Sinatti.

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Sicuramente i poemi omerici.
Consigliato insieme ai libri di Guidorizzi “Ulisse”, “Io, Agamennone”.
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Arte e Spettacolo
 
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archeomari Opinione inserita da archeomari    30 Giugno, 2019
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L’identikit del libro di successo

Ho sentito parlar molto bene di questo saggio, un testo accademico, usato in alcune Università e, per quanto interessante, dal linguaggio piuttosto specialistico, ma si tratta di difficoltà facilmente superabili con un po’ di attenzione in più.
Stefano Calabrese insegna semiotica presso lo UILM di Milano, ha pubblicato molti interessanti saggi di comunicazione narrativa e semiotica, nonché articoli per prestigiose riviste italiane e straniere.
L’opera potrebbe essere considerata già superata, poiché è stata pubblicata quattro anni fa e quindi non analizza i best seller più recenti (Elena Ferrante è
l’assente più importante), tuttavia è validissimo per spiegare come mai libri come Hunger Games, Twilight, Cinquanta sfumature, i libri di Dan Brown (non ne ho letto neppure uno!) abbiano venduto milioni e milioni di copie, con immensa diffusione tra vari Stati del mondo.
Pur dando qua e là tra le righe qualche giudizio personale sulle varie opere, il lavoro di Calabrese è rigoroso, supportato da studi di narratologia, neurocognitivismo, psicologia sociale e stilistica.
Sulle “Cinquante sfumature” non sono state spese (fortunatamente) molte righe, ma per Dan Brown, Murakami, i libri della Rowling e della Meyers , Calabrese fa quasi opera di smontaggio e mette sul banco le parti più intriganti per il suo studio
.
Scrittori e aspiranti scrittori, prendete nota!

Partiamo da cosa il best seller non è.
Il best seller oggi innanzitutto non è un romanzo inteso esclusivamente come prodotto estetico. Già Timothy Aubrey nel suo libro “Reading is a therapy “ aveva ammesso che il libro spesso si rivela essere uno strumento terapeutico, un simulatore di emozioni, basato sull’empatia che è in grado di stabilire col lettore.
Il best seller, prodotto dei “nuovi barbari” per dirla con Baricco, è un romanzo che ha perso la sua centralità “e si trasforma in un flusso continuo di diramazioni” (pag. 18) autorizzate o meno dall’autore ( e qui entrano in gioco la fandom e la fan fiction trattati nelle prime pagine del saggio e che spesso ledono i diritti di autore).
Nella prima parte del testo, Calabrese affronta inoltre un discorso più generale sulle classifiche internazionali stilate dal New York Times che detta legge in materia di romanzi di successo globale e sull’importanza di un buon advertising per generare aspettative positive nel pubblico di lettori, che si tradurranno in guadagni sul cartaceo degli editori e del brand autoriale.
Bisogna subito dire che il saggio non dà consigli agli scrittori per produrre un best seller, ma è un tentativo, molto interessante secondo me, di analizzare “anatomicamente” i più importanti romanzi della narrativa contemporanea cercando denominatori comuni e ricorrendo agli studi più accreditati nel campo nelle scienze umane e della semiotica.
C’è un capitolo del saggio intitolato “Il romanzo immersivo” , in cui l’autore analizzando best sellers come Hunger Games, Harry Potter, Twilight sostiene che un intreccio narrativo di successo è flessibile come un elastico, che si può allungare in tutte le direzioni, creando sequel (narrazioni in avanti), prequel (all’indietro), oltre ai vari spin off (=derivati), come nel caso di “Cinquanta sfumature” che ha elaborato la storia di un personaggio secondario di “Twilight” rendendolo protagonista di una nuova storia.
Impianto immersivo, empatia, sono determinanti per la riuscita del romanzo. L’empatia in particolare consiste “ nel coinvolgimento emotivo del destinatario e sulla sua identificazione con l’emittente della narrazione stessa, sino alla soglia di una sostanziale indistinzione” (pag. 97).
Un libro di tal fatta, sostiene Calabrese, si è adattato a quelle che sono le richieste di mercato: l’autore dà al pubblico ciò che il pubblico si aspetta, ciò di cui ha bisogno. Nell’era globale anche il libro ha sostenuto la sua darwiniana lotta per l’adattamento. La letteratura, sia con la L maiuscola che senza, è uno strumento privilegiato per la diffusione del comune sentire, del percepire e del ricordare la realtà. Se una saga di Harry Potter, ad esempio, che non è certamente esempio di alta letteratura, avvicina i ragazzi ed anche gli adulti alla cultura, alla lettura e permette di migliorare le proprie competenze comunicative, che ben vengano altri libri così!

Sempre riguardo all’immersività del romanzo, Calabrese cita come caso emblematico l’opera di Alice Sebold, “Amabili resti” : questo romanzo, best seller anch’esso, raccontando un episodio di stupro, ha permesso all’autrice di metabolizzare e rielaborare la violenza subita. Chi ha letto l’opera ha potuto sperimentare le emozioni dei personaggi fittizi con la stessa intensità delle emozioni prodotte da situazioni reali. Insomma, non tanto i saggi, ma le narrazioni sono funzionali al dominio del Sé.

Chi possiede il dono in potenza, diciamo così, di realizzare romanzi di successo, sono gli screenwriters (i termini inglesi abbondano nel saggio), cioè gli sceneggiatori, coloro che prima di prendere la penna in mano, si erano dedicati agli adattamenti filmici. I migliori best sellers citati nel saggio hanno infatti una struttura stilistica che permette non solo facilmente l’immersione/confusione personaggio fittizio/lettore, ma anche un sicuro adattamento cinematografico.

Credo di avervi stuzzicato abbastanza, non occorre rivelare altri particolari di questo stimolantissimo saggio che dà spazio anche a nomi come Ammaniti, Camilleri, Coelho, Zafón.
Buona lettura!

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Consigliato a chi è interessato agli studi di semiotica, di narratologia : troverà un ricchissimo apparato bibliografico alla fine del libro
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Fantascienza
 
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archeomari Opinione inserita da archeomari    24 Giugno, 2019
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Libri svolazzanti come farfalle carbonizzate

Il fuoco. Un tema caro alla letteratura di ogni secolo, che si perde nella notte dei tempi. Forza distruttrice e insieme purificatrice, da sempre elemento sacro. Uno dei quattro elementi, per il quale Prometeo perse la benevolenza degli dei. Da sempre acceso in alcuni templi antichi, tra cui quello delle sacerdotesse Vestali, che dovevano custodire le fiamme sacre ed evitare che si spegnessero. Il fuoco è energia, calore, bellezza distruttrice.
Per quanto purificatore, col fuoco non si scherza e neppure Ray Bradbury lo fa.
Tanto per evitare problemi, l’autore decise di pubblicare il suo romanzo distopico e provocatorio sulla rivista “Playboy”, nel 1953, come estensione del suo romanzo breve “The fireman” (da Wikipedia).
Negli anni ‘50 in America la radio, la tv stavano conquistando fette sempre più larghe di popolazione e il Bradbury, con una perspicacia inaudita ai suoi tempi (se escludiamo Huxley ed Orwell), sentiva di dare un monito al mondo, di metterlo in guardia da questi media che erano destinati, come si è rivelato poi nei decenni successivi, a manipolare le coscienze attraverso una degenerazione dell’informazione.
Non dirò ciò che è stato già detto sul “Quarto potere”, sul lavaggio del cervello e sulla cattiva informazione che, nell’era digitale, a causa di un sovraccarico di informazioni genera confusione e sbandamento.

Neil Gaiman nella “Prefazione” sottolinea lo scopo di Bradbury che vuole ammonire far riflettere chi legge sui pericoli di questa informatizzazione di massa:

“Se continua così, la comunicazione globale avverrà soltanto attraverso messaggi di testo e via computer, mentre la conversazione faccia a faccia tra due persone, senza la mediazione della macchina, sarà fuorilegge”

Nel mio modesto commento voglio soltanto dare le mie impressioni di lettura.
È un bel libro sotto le duecento pagine, si legge con piacevolezza, magari con qualche difficoltà all’inizio dovuta alla necessità di familiarizzare con l’ambientazione futuristica sullo sfondo della quale si dipanano le vicende del pompiere Guy Montag.
Quest’ultimo, trentenne, dopo dieci anni di onorato servizio col lanciafiamme (si badi bene, col lanciafiamme e non con la pompa per spegnere gli incendi) in seguito ad alcuni fugaci chiacchiere con una diciassettenne bizzarra, Clarisse, va in crisi, comincia a vedere la realtà da un altro punto di vista che gli era completamente offuscato, preso dalla passività con cui aveva accettato di bruciare gli strumenti per liberare il pensiero: i libri.
Insieme ai suoi colleghi pompieri anziché spegnere gli incendi e salvare cose e persone, appicca fuoco ai libri, poi alle case e quando, preso da” raptus” lancia cherosene anche addosso alle persone, Montag tocca il fondo e comincia la sua crisi esistenziale.
Aveva già di nascosto salvato alcuni libri dal rogo legalizzato, tuttavia è proprio quando pensa a quella donna che aveva preferito farsi bruciare viva insieme ai suoi libri e che, prima di morire lo aveva guardato con gli occhi accusatori “toccando il cuoio e il cartone delle rilegature, scorrendo i titoli dorati con le dita” come se fossero gli oggetti più cari che possedeva, che il protagonista comincia a ribellarsi, ad opporsi anche se all’inizio un po’ confusamente, all’ordine costituito.

Cosa c’è dentro ai libri di così prezioso? Perché alcune persone preferiscono farsi bruciare piuttosto che vivere senza leggere? E perché l’ordine di chi sta al vertice è quello di sopprimere la cultura? Cosa c’è di così sovversivo nei libri?

Perché i pompieri sentono questa sensazione di liberazione mentre vedono volare via fogli di libri come farfalle annerite? Che piacere c’è nel radere al suolo intere biblioteche?
Ci risponde Beatty, il capo di Montag:
“La bellezza del fuoco sta nel fatto che distrugge responsabilità e conseguenze. Quando un problema diventa fardello, lo butti nella fornace e scompare. (...) Niente che possa poi marcire: pratico, estetico, antibiotico”.

Qualcuno potrà far notare che manca una figura femminile forte. Mildred non è un personaggio positivo, tutt’altro. Io rispondo che sono in realtà due le figure femminili, seppur molto fugacemente, a fare la differenza nella vita di Montag. Clarisse, la giovane e “folle” diciassettenne, che indugia nella natura, nei suoi colori, nei suoi profumi, che vive in una famiglia senza televisore e la donna che si lascia bruciare insieme ai suoi libri. Non basta questo a far zittire le voci sul presunto maschilismo di questo romanzo?

Lascio poi a voi i passi più belli sulla meraviglia e l’importanza di leggere che avrete voglia di segnare nell’angolino del vostro cuore di lettori.

La sensazione che si prova nel leggere “Fahrenheit 451” è angoscia pura e traspare dalle pagine; ci sono dei passaggi che ho trovato quasi ipnotici e stranianti. La solitudine nella vita in generale ed anche nella coppia -penso a Montag e sua moglie Mildred- sono attuali. Attraverso le pagine il lettore si immerge nella stessa tristezza che attanaglia il cuore del protagonista. A tal proposito devo proprio trascrivere questo passo che mi ha colpito profondamente, in riferimento alla distanza tra i due coniugi: “Montag dormiva in un angolo della stanza piuttosto lontano da lei, su un’isola d’inverno separata da un mare deserto”.

Solitudine, incomunicabilità, coscienze addormentate, consapevolezze anestetizzate, si troverà un varco in mezzo a tanto fumo e pagine di libri come farfalle carbonizzate?





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Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Consigliato a tutti, anche a chi NON ha letto “1984” di George Orwell e “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley.
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Romanzi autobiografici
 
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archeomari Opinione inserita da archeomari    21 Giugno, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

La storia vera di una donna orgogliosamente libera

Chi avrebbe mai pensato che questo libro, letto per pura curiosità mi sarebbe poi piaciuto così tanto, al punto di andare a cercare sul web vestiti, acconciature, rituali, danze di maiko e geiko? Ho anche cercato foto di MINEKO IWASAKI, all’anagrafe Masako Tanaka, autrice di questo bellissimo documento/testimonianza di un mondo che a noi occidentali ci è giunto frainteso e lontano.
L’opera di potrebbe essere considerata più un’autobiografia che un romanzo vero e proprio. Quello è stato scritto infatti da Arthur Golden, “Memorie di una geisha”, ispirato alla storia della nostra Mineko: sappiamo che tra i due ci fu una controversia, in quanto, secondo la Iwasaki , tra gli altri travisamenti, Golden non sarebbe stato fedele allo spirito ed alla figura della vera geisha, facendola passare per una sorta di prostituta sacra o di alto borgo.
Prima di leggere questo libro, credevo anche io che la geisha fosse in realtà una prostituta connessa alla ritualità. Essendo il cervello l’organo più difficile da far funzionare, ho accettato passivamente questo come un dato di fatto, nonostante mi lasciasse parecchio perplessa. Riti per la prostituzione?
Non saprei, non regge.
E invece, leggendo ho scoperto subito che queste convinzioni erano palesemente sbagliate. Però, insieme a questo, ho appreso anche che esisteva un rituale per la prostituzione, ma non aveva nulla a che fare con le geiko. Tali attività interessavano le oiran o le tayu. Tutt’altra storia.

Innanzitutto il termine geisha significa “artista”, unisce le parole “arte” e “persona” e le migliori geishe provengono dalle scuole di Kyoto, dove il loro nome è “geiko”.
Nel testo si usa infatti il termine geiko oppure maiko, cioè l’apprendista geiko.

Lo statuto delle okiya, diciamo “le case famiglia, alloggi” delle geishe mi ha fatto pensare allo società femminili matriarcali, dove la figura femminile principale , la madre, in questo caso madre adottiva, passa il proprio cognome alle “figlie” adottate che studiano danza, suonano strumenti musicali e decide chi sarà la propria erede, la propria atotori. Nelle okiya i maschi, a meno che non siano vestitori che aiutano a indossare il complicato kimono, non sono ammessi: di loro si può fare a meno nella economia e nella gestione della casa. Addirittura, è ammesso che una geiko adulta, se innamorata e ricambiata da un uomo (anche se sposato, ma ben visto dalla famiglia adottiva) può avere al di fuori dell’okiya relazioni amorose allo scopo di avere figli -che si spera siano femmine-.
In occidente quando abbiamo avuto le società matriarcali? Ah sì, ... nel neolitico.
Diciamo che noi in Occidente siamo partiti subito bene, ma ci siamo persi per strada. È difficile ricordare società matriarcali in epoca antica, medievale neppure per idea...stop.

Ho imparato facilmente i termini giapponesi legati a questo mondo, non solo perché ricorrono spesso, ma perché l’autrice, che è stata la più grande e famosa geiko degli ultimi cento anni, li utilizza e li traduce al lettore. Alla fine del libro c’è un dizionario che aiuta a “ripassare “ il lessico appreso.

Veniamo alla storia che vi rivelo in parte, per non togliervi il gusto di leggerla.
La piccola Masako Tanaka, cioè Mineko prima dell’adozione, è una bambina particolarmente sensibile e legata al papà che le ha trasmesso i valori più importanti, tra cui la resistenza al sacrificio ed alla fatica, il rispetto e la devozione per la famiglia:

”hokori o motsu”, “sorreggiti con il tuo orgoglio”. Vivi con dignità, quali che siano le circostanze.”

Quando era particolarmente agitata o impaurita si chiudeva in un armadio e talvolta ne usciva dopo parecchio tempo. Una bambina riflessiva, solitaria, graziosa, davvero particolare. Venne subito notata da Madame Oima, la proprietaria dell’ okiya Iwasaki, la migliore casa di geiko del Giappone . Oima, dopo tante insistenze, riuscì a convincere papà Tanaka a cedergliela in adozione perché ne facesse un’artista.
A partire dai 5 anni Masako/Mineko comincia a studiare danza, ad apprendere le sofisticate arti della cerimonia del tè. Lo spirito di sacrificio pervade la sua vita sin dalla tenera età:
“Non mi era permesso azzuffarmi con gli altri bambini o correre in giro. La gente mi diceva di continuo di stare attenta a non farmi male e di evitare di rompermi qualcosa, soprattutto una gamba o una mano, perché questo avrebbe pregiudicato per sempre la mia bellezza e la mia possibilità di danzare”.

Imparerà il valore di ogni singolo kimono, una vera opera d’arte, fatta con stoffe lussuose e stampe ricercate, colori sgargianti, costosissimi, diversi per ogni occasione. La geiko è una intrattenitrice di lusso, deve mettere a proprio agio gli ospiti, tenere alto il tenore di una conversazione, saper suonare i vari strumenti musicali tipici ed esibirsi nelle sofisticate e delicate danze giapponesi.
Interessanti le pagine dedicate alla descrizione del trucco/parrucco/vestizione che sono andata opportunamente a consultare su YouTube.

Una geiko “vestita di tutto punto si avvicina molto all’ideale di bellezza femminile giapponese. Ha l’aspetto classico di una principessa Heian, come se fosse balzata fuori da una pergamena dell’XI secolo. Il suo viso è un ovale perfetto. La sua pelle è bianca e priva di difetti, i capelli neri come l’ala di un corvo. Le sopracciglia sono mezze lune, la bocca un delicato bocciolo di rosa. Il collo è lungo e sensuale, la figura gentilmente arrotondata”.

La geiko ha un tariffario esorbitante, pochi minuti di lavoro costano ai suoi clienti migliaia di dollari. Dollari, non yen. Nel libro si parla proprio di dollari. Una volta esibita in pubblico Mineko Iwasaki diventa una celebrità internazionale: incontrerà il principe Carlo, la regina Elisabetta, Aldo Gucci...lascio a voi i curiosi aneddoti su questi personaggi.
Ci sono tentativi di violenza fisica, dispetti ed invidie...c’è una storia d’amore travolgente...verrà fuori una donna forte, orgogliosa della propria libertà, una vera eroina che non vuole essere seconda a nessuno. Né nel campo professionale e né in quello sentimentale. La sua ingenuità però mi ha fatto tanta tenerezza in alcune pagine. È una storia commovente e toccante, oltre che interessante perché getta luce su dinamiche sociali e familiari a noi sconosciute. Ultima testimonianza di un mondo sempre più lontano.
È la storia vera di una donna che ha conosciuto la fama e l’amore, ma ha conservato la propria dignità ed indipendenza , il proprio orgoglio da samurai.


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Consigliato a chi ama avvicinarsi a culture diverse dalla propria con umiltà e rispetto.
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Scienze umane
 
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archeomari Opinione inserita da archeomari    12 Giugno, 2019
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La mente, il nostro più grande privilegio

Un libro interessantissimo, un saggio illuminante di scienze cognitive, ben fatto in quanto sin dalle prime pagine si ha sentore di preparazione, competenza insaporite di ironia da parte dell’autore. Parliamo di Steven Pinker, professore all’Università di Harvard, in Massachusetts, uno degli intellettuali più amati (anche contestati) al mondo.
Incuriosita dall’argomento e catturata dallo stile colloquiale e rigoroso ho impiegato un mese per leggerlo, ma solo perché volevo prolungarne la compagnia. Eh sì, sembra strano che un’opera scientifica faccia compagnia quanto un bel romanzo, ma con questo libro è stato così. Ho avuto modo di imparare cose nuove e riflettere su argomenti che già conoscevo in maniera sbagliata, così ho potuto arricchirmi ogni volta che lo volevo. Attraverso un linguaggio accessibile, condito talvolta da aneddoti umoristici Pinker ci mostra come funziona la nostra mente, come ci fa vedere, pensare, muoverci, provare emozioni (ira, disgusto, amore, piacere) , come funziona quando ci leghiamo a qualcuno in amore e in amicizia e lo fa spaziando tra le discipline più disparate!
Che cos’è l’intelligenza ? Il fare del male ed essere aggressivo è connaturato ad essa? In cosa consiste il libero arbitrio? Sono domande interessanti a cui Pinker dà e a volte tenta di dare una spiegazione, ammettendo la complessità della mente umana, frutto del nostro cervello che a sua volta è prodotto di una accuratissima e costosissima selezione naturale. Ho trovato interessante la parte dedicata alla critica che Pinker muove alla Dichiarazione di Siviglia sulla violenza (1986) che sostiene categoricamente che l’uomo non è nato per aggredire.
Il nostro insigne scienziato risponde:

“Gli esseri umani, è ovvio, non hanno un «istinto della guerra» né un «cervello violento», come ci assicura la Dichiarazione di Siviglia, ma non hanno neanche, propriamente parlando, un istinto della pace o un cervello non violento. Non possiamo attribuire tutto, nella Storia umana e nell’etnografia, alle pistole giocattolo e ai supereroi dei fumetti” (...) Per quel che vale, la teoria di una mente a moduli rende conto di spinte innate che portano ad azioni malvagie e di spinte innate che possono portare a evitarle.”

Teoria di mente a moduli. Sì questo è il fulcro di tutto il lavoro: la mente è una serie di moduli la cui organizzazione ha origine nel nostro programma genetico. La mente è frutto del nostro cervello e il cervello è prodotto dell’evoluzione e della selezione naturale. Questi concetti vengono puntualizzati spesso, soprattutto nei primi capitoli, poiché Pinker sostiene che il funzionamento della mente è simile all’ingegneria inversa (quella che si occupa di migliorare e replicare i software, i meccanismi, i dispositivi che mostrano di funzionare) e che il nostro cervello, abbracciando le teorie darwiane, è frutto della selezione naturale. L’homo sapiens differisce dagli altri ominidi che lo hanno preceduto, non solo per le palesi differenze di carattere fisico, ma soprattutto per il cervello più grande e pesante, che gli è costato tantissimo: gli è costato un indebolimento dei denti, delle unghie, una trasformazione fisica volta a permettergli di camminare in posizione eretta con una testa pesante non ciondolante e che non gli facesse perder l’equilibrio.
Ma la natura è avara. Ciò che non serve, porta via.
Se abbiamo una testa così grande è perché abbiamo un cervello speciale, siamo l’unica specie che si è evoluta al punto di raggiungere i risultati che vediamo adesso avendo a disposizione lo stesso tempo che hanno avuto tutte le altre specie viventi, che non hanno raggiunto però i nostri risultati.
Dai “buoni a nulla” della savana, siamo diventati dei veri e propri dominatori ( dèi, direbbe Y.N. Harari) grazie alla nostra mente prodigiosa, questo organo di computazione migliore per certi versi anche del computer, ottenuto comunque a costi altissimi: c’è da dire che se questi costi avessero superato i benefici ottenuti, la natura non ci avrebbe consentito un simile dispendio di energie. Dal punto di visto zoologico, l’uomo è unico.
Grazie al progresso in ogni campo l’uomo moderno dovrebbe essere felice, ma ... Troverete interessanti e anche ironiche spiegazioni al perché per l’uomo la felicità è davvero un mito. Non vi tolgo il piacere di gustarvi da soli questo meraviglioso saggio. Concludo col messaggio di speranza di Pinker : nonostante le guerre mondiali, le stragi e le distruzioni perpetrate dall’uomo ai danni dei suoi simili e del mondo che lo circonda,
“ la natura umana è tale che quando siamo di fronte a una situazione tremendamente critica, la nostra mente sa risvegliarsi e trovare un’alternativa. Questa è una facoltà dell’uomo» , aggiungo che, ovviamente, occorrono moltissimi anni, centinaia forse non bastano. Il progresso scientifico non corrisponde a quello umano.

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“la scimmia nuda” di Desmond Morris
“Da animali a dei” di Y.N. Harari
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Romanzi
 
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archeomari Opinione inserita da archeomari    06 Giugno, 2019
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Questa vita...un senso non ce l’ha

Psicosi di altri tempi, ma sempre attuale.
Questo è il classico libro verso cui trovi la popolazione dei lettori spaccata a metà: “La nausea” è un libro osannato, amato soprattutto dai giovani e considerato deprimente e noioso per chi è già nel mezzo del cammin della sua vita.
Io, che non sono più giovane, ma non ancora di mezza età, posso dire di inserirmi a metà strada. E non sempre in medio stat virtus, purtroppo.
Ho faticato ad apprezzarlo, a capirlo nella prima metà, dalla seconda in poi l’ho divorato. Se non avessi avuto sincera curiosità verso l’autore e se il libro fosse stato scritto in maniera poco scorrevole, può darsi che lo avrei interrotto per riprenderlo alle calende greche, vista la mole e la quantità dei libri presenti nella mia wish list.
Ormai non permetto più al rispetto che nutro verso un libro od un autore importante, di divorare il poco tempo della vita che posso dedicare ai tanti libri stupendi che mi aspettano ancora. Ma “La nausea” va letta, è un manifesto di poetica, è una dichiarazione di solitudine, di follia pura e allo stesso tempo di allucinante realismo. Una scrittura fluida, scorrevole, con la giusta dose di immagini, di detto e non detto.
È il romanzo della rivelazione dell’Assurdo, di kafkiana memoria, del non senso della nostra esistenza, dell’impossibilità di giustificarla. In un mondo dove non c’è la fede in Dio, il protagonista Roquentin ammette che anche le sue azioni sono prive di significato. Un’opera filosofica, ma anche autobiografica, legata al profondo momento di crisi personale di Sartre. Un romanzo che si può definire anche sperimentale vista la mutazione continua di linguaggi e registri stilistici che vanno dal diario al monologo interiore, alla meditazione filosofica.
Un’opera “densa”, dunque, dove campeggia anche una forte critica sociale, una satira contro i conformisti piccolo borghesi (Porcaccioni, nel testo, invettiva sociale del Salaud).
Sartre, come tanti autori prima di lui, usa l’espediente del manoscritto, finge di aver trovato il diario di un certo Roquentin, studioso di un gentiluomo scaltro del secolo precedente, Rollebon. Concomitante alla lettura delle imprese più o meno immorali di quest’ultimo, uno strano malessere parte in sordina per trasformarsi in veri attacchi di panico che lo assalgono e si impadroniscono, quasi come un demone che possiede un corpo. Lui chiama questo male di vivere “la nausea” e giorno per giorno trascrive nel diario le sue impressioni e i momenti di pausa da questo terribile male. Queste pause sono “le avventure” , i “momenti perfetti”, istanti in cui nella armonia delle perfezione della casualità, delle coincidenze, nelle note musicali, o nei colori si dimentica di se stesso, diventa più forte della consapevolezza che nella vita nulla ha senso.
Nella vita non c’è qualcosa che abbia senso, tutto è volto alla distruzione, al perire, allora che senso ha? L’ipocrisia delle persone intorno a lui, che senso ha? celare la realtà a cosa serve?
Roquentin sembra possedere una sorta di veggenza, un dono, riesce a vedere la bruttezza al di là delle fattezze delle cose e delle persone che diventano semplici ammassi di carne.
“Io vedo l’avvenire. È là, posato sulla strada, appena un po’ più pallido del presente. Che bisogno ha di realizzarsi? Che cosa ci guadagna? (...) questo è il tempo, né più né meno che il tempo, giunge lentamente all’esistenza, si fa attendere, e quando viene si è stomacati perché ci si accorge che era già lì da un pezzo”.
Sartre ha lavorato tantissimo su quest’opera, il progetto risale al 1925, ma il romanzo vede la pubblicazione solamente nel 1937, presso l’editore Gallimard. La revisione del testo ha portato ad una soppressione dei passaggi definiti allora più scabrosi. Rimane però con tutta la sua impressionabile forza la “scena” dello stupro e dello strangolamento della piccola Lucienne, che lui aveva previsto incontrandola presso il cancello dei giardini pubblici, attratta ed impaurita allo stesso tempo dall’uomo grassoccio che le sorrideva con una pellegrina addosso. In seguito alla notizia della morte della ragazzina partono delle pagine di una assurda morbosità che intrappolano il lettore in una spirale quasi ipnotica, straniante con tratti disgustosi. Si ripetono le stesse parole, in modo concitato, ipotattico. Lo assale anche la Nausea, sente molliccio, attaccaticcio ovunque, la camicia gli si attacca alla schiena, sente in bocca sangue e saliva, corre per strada come un matto, desiderio e disgusto si uniscono e lottano dentro di lui.
La Nausea ha l’essenza del grasso, dell’unto, del molliccio e dell’umido fastidioso. Più in là, quando le crisi si ripresenteranno ad intervalli più brevi, Sartre la descriverà con più dettagli. Ma sembra che anche la parole siano inadeguate ad esprimere il profondo disgusto verso l’esistenza, verso se stessi. Per Sartre anche la parole sono “carcasse”, sono consunte, come gli affetti e come le sensazioni: ecco quindi frasi lasciate a mezzo, parole troncate a mezzo...artigli stagliati verso il vuoto che ci circonda. Pupille cieche e biancastre che non vedono né possono comunicarci emozioni.
Indimenticabile e curiosa è la figura dell’Autodidatta, per certi versi alter ego di Sartre, per la sua mania di leggere ed imparare tutto lo scibile divorando i libri della biblioteca in ordine alfabetico uno dietro l’altro, tuttavia non un vero e proprio interlocutore di Roquentin poiché non potrebbe mai comprendere e vivere il suo Male.
Degni di nota come personaggi del romanzo sono il compositore ebreo e la cantante di colore che interpreta la canzone da lui scritta, “Some of these days”: anche se reietti ed emarginati, sono “positivi” poiché vicini al protagonista, non integrato nella società anche lui e gli offrono l’arte come “salvataggio” dalla Nausea, una alternativa alla disperazione ed alla follia.
Un romanzo veramente complesso, da leggere solo se spinti da forte curiosità e motivazione.

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Solo per chi è mosso da forte curiosità verso l’autore e letture estreme e sperimentali.
Non è un libro “rilassante” per far passare il tempo, ma un romanzo complesso è molto ricco di tematiche interessanti. Si gusta adagio.
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archeomari Opinione inserita da archeomari    31 Mag, 2019
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Il significato primigenio delle parole

Marco Balzano è famoso come romanziere, vincitore del Premio Campiello 2015 e di altri riconoscimenti letterari. In questo piccolo ed illuminante saggio, da bravo insegnante di letteratura, Balzano pone l’accento sull’importanza dell’etimologia, sul “peso” autentico e primitivo del significato delle parole che col tempo è andato scemando fino ad una vera e propria snaturalizzazione delle stesse. Nell’ultimo quarto di secolo, la scuola ha sempre più sottratto importanza agli studi umanistici e gli studenti di oggi non sono educati alla “memoria”, divenuta un mero e freddo accumulo artificiale di dati, senza il senso della costruzione, del progetto e del vivere nella quotidianità il nostro patrimonio storico, artistico e letterario. L’etimologia dovrebbe essere una materia insegnata nelle scuole, perché l’origine delle parole ne contiene la chiave. Balzano analizza dieci parole, tra cui “felicità “, “memoria”, “amicizia”, “social” e scoprirne il significato originario sarà sconvolgente. Conoscere il significato di ciò che diciamo è importante perché nella società in cui viviamo abbiamo veramente perso il senso e la capacità di essere dei veri parlanti, dei parlanti consapevoli.
Lo stile e la scrittura assolutamente godibili e lineari. Il ricchissimo corredo bibliografico è un ottimo spunto per approfondimenti, in quanto l’autore cita recenti studi anche nel campo linguistico e sociologico.

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Consiglio questo piccolo libro (meno di 100 pagine) soprattutto ai giovani, affinché scoprano l’importanza dell’etimologia, non come argomento astruso, ma come chiave per la comprensione del linguaggio parlato e scritto. Segnalo particolare attenzione all’analisi delle parole : social, amicizia.
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archeomari Opinione inserita da archeomari    25 Mag, 2019
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Toccante, intenso, graffiante, geniale

Il più bel libro di Michel Houellebecq che ho letto, edito da Bompiani nel 2010, anno della pubblicazione in Francia che gli portò il massimo premio letterario francese, il Goncourt. Meritato in pieno: stupendo, mi ha toccata così tanto che ogni recensione sarebbe sempre inadeguata e insufficiente. Posso solo invitare alla lettura. Ogni volta che leggo Houellebecq mi convinco sempre più della sua bravura, il suo talento è innegabile, al di là di talune accuse che gli sono state mosse. È il prezzo che pagano tutte le persone che non hanno, come si suol dire, i peli sulla lingua e vogliono rappresentare la realtà senza il velo delle convenzioni, del “buongusto”, dell’arte della diplomazia.
La provocazione in Houellebecq è il mezzo e lo scopo allo stesso tempo delle sue opere.
La carta e il territorio: bisogna leggere tutta l’opera per capire come mai Houellebecq sceglie questo titolo. Dirò solo che la “carta” è ... la mappa stradale Michelin, da cui il protagonista del romanzo, l’artista Jed Martin, pittore e fotografo francese, trae ispirazione per i suoi scatti. In parole povere Jed trova poesia, armonia nelle carte stradali con tutti i loro intrichi di strade, superstrade, indicazioni e con i suoi scatti, le rende opere d’arte molto apprezzate che gli faranno scalare le vette del successo.
Geniale! Io non ci avrei mai pensato. Una fredda, prosaica mappa stradale che diventa oggetto d’arte con tanto di quotazioni in Borsa!
Il periodo Michelin occupa la prima parte del romanzo ( il libro si divide in tre parti ed è una climax di colpi di scena) , quella più vivace dal punto di vista di Jed: incontra Olga, una bellissima russa che lavora per la Michelin che lo aiuta a sfondare nell’alta società e l’incontro con lo scrittore Houellebecq. Sì, ho digitato bene, proprio l’autore. I più penseranno che lo scrittore francese si sia autocelebrato, inserendosi nel “cast” dei personaggi e nominandosi spesso con l’epiteto “lo scrittore de Le particelle elementari”, “il celebre scrittore mondiale”.
Io ho sorriso tantissimo, sono stata colta di sorpresa e confesso di averlo pensato anche io, per cambiare idea subito dopo perché Michel Houellebecq fa di se stesso un ritratto veramente impietoso. Non posso dirvi tutto, ma vi assicuro che vi stupirà perché verso la fine della seconda parte spingerà il suo personaggio all’impensabile, all’indicibile.
L’intreccio è lineare, non complicato: Jed, a parte la parentesi amorosa con Olga, è solo. Ha un padre, ex architetto, malato di cancro, che vive in una clinica e che va a trovare piuttosto spesso, chiacchierando della vita oppure senza parlare, lasciando che siano i silenzi a colmare vuoti di tristezza e nostalgia. Il padre, contro la volontà di Jed, si recherà di nascosto a Zurigo, nella migliore clinica dove si pratica l’eutanasia e, nel rispetto delle leggi svizzere, si farà cremare e lasciare che sia il vento a disperdere i suoi resti nella natura. Da questo momento in poi, sarà la natura, “il territorio”, l’oggetto degli studi di Jed Martin.
A parte Houellebecq, del quale Jed fa un ritratto che nell’ultima parte del romanzo viene stimato per 12mila euro, un altro personaggio degno di nota è il commissario Jasselin, che dà la possibilità all’autore di esprimere le sue affettuose considerazioni sui cani e le sue riflessioni sulla vita di coppia nella mezza età.

“Il cane è una sorta di bambino definitivo, più docile e più dolce, un bambino che non arriverà all’età della ragione, ma è anche un bambino cui si sopravviverà: accettare di amare un cane equivale ad accettare di amare un essere che vi sarà ineluttabilmente strappato (...)”.

Ho scritto che Jasselin è “un commissario” di gendarmeria, sì. La terza parte del romanzo è un giallo, un violento thriller, con tanto di ricostruzione secondo la moda delle detective stories.

L’autore dimostra competenze in ambito fotografico, lui stesso ha scattato le foto che fanno parte di un altro suo romanzo, “Lanzarote”. In alcune pagine ci sono citazioni di Wikipedia, indicate da lui nell’ultima pagina del romanzo.
Come in ogni suo testo, troverete brillanti riflessioni e considerazioni sull’uomo occidentale, sulla vita in genere. Per amare un autore come lui bisogna essere coraggiosi e aperti senza ipocrisie. Houellebecq è profondamente calato nel mondo in cui viviamo, senza fraintendimenti, senza ipocrisie e rappresenta lo stato di solitudine dell’uomo di oggi con uno stile asciutto a tratti corrosivo e violento. In uno stato di formidabile lucidità.

“Gli insetti e gli uomini, e anche altri animali, sembrano perseguire uno scopo, i loro spostamenti sono rapidi e orientati, mentre i fiori rimangono nella luce, smaglianti e fissi. La bellezza dei fiori è triste perché i fiori sono fragili, e destinati a morire, come ogni cosa sulla terra naturalmente, ma essi in particolare, e come per gli animali il loro cadavere non è che una grottesca parodia del loro essere vitale, e come quello degli animali puzza—tutto ciò lo si comprende non appena si sono vissuti una volta il passaggio delle stagioni e il marcire dei fiori”.

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Consiglio questo libro a tutti quelli che vogliono iniziare a conoscere questo autore, a saggiare il suo inconfondibile stile, le sue tematiche più care , le sue provocazioni, senza possibilità di imbattersi in riflessioni foriere di polemiche e scene di sesso con dovizia di particolari che hanno invece troneggiato in “Serotonina”. Sotto questi due aspetti il libro ha toni molto più dimessi.


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archeomari Opinione inserita da archeomari    23 Mag, 2019
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INDIMENTICABILE

Questa è una recensione molto tardiva di un libro letto questo autunno, lasciato sul comodino, di cui ho letto e riletto più volte i passaggi che mi hanno colpita maggiormente. È uno dei libri, come dice qualcuno, della vita: uno di quelli che non devono mancare nel nostro bagaglio di letture.
Sono stata attirata dalla copertina, color carta da zucchero, e soprattutto perché era da tempo che avrei voluto leggerlo.
Non è per tutti: è necessario avere una certa maturità di letture e di esperienze di vita per poterlo capire fino in fondo ed apprezzarne la grandezza e la profondità.
Ogni sua parte è densa di delicatezza, di lirismo, alternati ad una trama sapientemente intrecciata da una parte e dall’altra della composizione.
Il romanzo si ambienta tra Praga e Zurigo, i personaggi principali sono Tomaš, un medico, la moglie Tereza e Sabina, l’amante “storica” di Tomaš, la femme fatale di tutta la storia.
È un libro composito e complesso, perché oltre ad una trama, abbastanza lineare, ci sono profondità di riflessione dei vari personaggi, le loro manie, i loro conflitti psicologici, riflessioni sulla vita, sulla libertà di parola, sull’importanza di avere una propria integra dignità.
Dolcissima e tenera l’immagine di Tereza che si presenta a casa di Tomaš, dopo essersi visti una volta sola, e viene paragonata ad un neonato inerme abbandonato dentro ad una cesta in balia della corrente di un fiume. Lei amerà Tomaš e soffrirà per i suoi continui tradimenti; lui amerà Tereza, sentirà per lei un amore profondo, indissolubile, si sentirà responsabile della propria felicità al punto da rinunciare anche ad un prestigioso posto di lavoro, ma...l’attrazione per le belle donne è più forte.
D’altronde:
“Fare l’amore con una donna e dormire con una donna sono due passioni non solo diverse, ma quasi opposte. L’amore non si manifesta con il desiderio di fare l’amore (...) ma col desiderio di dormire insieme”, l’autore sostiene infatti che
“Legare l’amore al sesso è stata una delle trovate più bizzarre del Creatore”

Prima di Tereza, Tomaš non aveva mai dormito con una donna e né lo farà dopo il matrimonio. Non ha neppure mai dormito con Sabina, che nel romanzo è l’unica che raggiunge l’insostenibile leggerezza dell’essere. Una volta perso il papà, che rappresentava la convenzione da trasgredire, una volta che Praga è stata invasa dai comunisti, trovandosi anche senza patria, Sabina non ha nessun ideale, nessuna persona da tradire.
Per essere pesanti, tra le altre cose, è necessaria la compassione: il nostro dolore non è mai più pesante di quello che proviamo insieme ad un altro, verso un altro, al posto di un altro, dice Kundera. Quindi Sabina, ormai sola, una volta che l’ultima sua tresca amorosa è stata rivelata alla rivale, è veramente leggerissima, senza nessun peso, senza radici che la tengano ancorata in un determinato posto, senza il peso della compassione, senza il peso della vita.
Interessantissima la riflessione sull’unicità della nostra vita
“ Non esiste alcun modo di stabilire quale decisione sia la migliore, perché non esiste alcun termine di paragone. L’uomo vive ogni cosa subito, per la prima volta, senza preparazioni. Come un attore che entra in scena senza avere mai provato. Ma che valore può avere la vita se la prima prova è già la vita stessa? Per questo la vita somiglia sempre ad uno schizzo. Ma nemmeno “schizzo” è la parola giusta, perché uno schizzo è sempre un abbozzo di qualcosa, la preparazione di un quadro, mentre lo schizzo che è la nostra vita è uno schizzo di nulla, un abbozzo senza quadro”.
È un concetto ribadito più volte all’interno dell’opera. Il lirismo dell’opera consiste non soltanto nelle immagini, ma anche nella ripetizione di alcuni concetti e di alcune immagini, che ricordano un po’ le abitudini degli antichi cantori, gli aedi. Vi invito a leggere con attenzione le pagine in cui Kundera parla della magia delle coincidenze, dell’amore e della fedeltà del cane verso il padrone, dell’amore paragonato ad una composizione musicale a due che, a seconda del grado di maturità di ciascuno, delle sue esperienze, avrà diversi risultati. Vi invito a soffermarvi sulle pagine dedicate alla bombetta di Sabina...qualcuno di voi avrà visto il film, qualcun altro come me, non l’avrà visto e sarà stato più fortunato, perché non è tanto la storia quella che ti segna, ma lo stile, la bravura di Kundera. In fondo la trama non è particolarmente dinamica e sconvolgente, ma lo sono le riflessioni, il modo unico, e sottolineo, unico, di questo autore di imprimere in noi certe sensazioni.

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consigliato a chi vuole scoprire un libro unico nello stile, profondo e denso di riflessioni sulla vita.
Non è voluminoso, ma si gusta a sorsi.
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archeomari Opinione inserita da archeomari    17 Mag, 2019
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La felicità rifugge le convenzioni

Era da tanto tempo che non leggevo un libro che mi prendesse, che mi toccasse così profondamente. Sono rimasta letteralmente folgorata: le pagine e la storia mi hanno catturata e ho dovuto spesso metabolizzare quello che andavo via via leggendo. Anche questa recensione non è, come si potrebbe pensare, stata scritta di getto: ho sentito il bisogno di far tornare la mia mente al consueto equilibrio.
Tra i libri che consideriamo belli e buoni ci sono quelli che ci piacciono perché da essi abbiamo tratto piacevolezza di lettura, arricchimento culturale in senso lato, compagnia a volte “non invasiva” , giusto quel tanto che basta per evadere...e ci sono libri che mandano affondi terribili nelle nostre coscienze, che ci scuotono e ci lasciano storditi.
Di recente solo Houellebecq mi ha provocato questo stravolgimento. Ammetto che l’accostamento non è propriamente calzante: tra la spregiudicatezza corrosiva dell’autore francese contemporaneo e la delicatezza de fin de siècle della Wharton c’è di mezzo l’abisso, però sono gli autori che mi hanno strappata via dal torpore delle troppe letture senza infamia e senza lode, in cui mi sono imbattuta questi ultimi anni.
Letto in edizione digitale BUR, 2015 con la pregevolissima traduzione di Alessandro Ceni, “L’età dell’innocenza” , pubblicato nel 1920, vincitore del Premio Pulitzer 1921, narra di un amore grande, mai soddisfatto poiché distrutto dalle convenzioni sociali.
Per essere felici non basta essere anticonformisti e spregiudicati, bisogna essere folli. E nessuno dei due amanti lo è stato.
New York, fine secolo : lui, Newland Archer, avvocato di successo, promesso sposo dell’eterea e dolce May, e lei, la bellissima Madame Ellen Olenska, reduce di un infelice matrimonio contratto con un conte polacco. Quest’ultima decide di tornare in America e di farsi accettare dal parentado americano bigotto ed ipocrita che ha sempre visto in lei “la forestiera” sotto tutti i punti di vista e trova in Archer la persona che curerà i suoi interessi.
Ma quali sono gli interessi della giovane se non essere felice con un uomo che possa amarla? Archer, su pressione della famiglia di May, che è cugina di Ellen, le consiglia di ritornare dal marito in Polonia. L’uomo, impaurito dall’affrontare un’attrazione sconvolgente, mai provata prima verso questa bellissima, ma misteriosa donna, è desideroso di sposarsi prima rispetto al tempo stabilito.
Non vi dico cosa succederà, a voi gustare questa struggente e toccante storia di un amore distrutto, di un amore la cui potenza si sente nei silenzi, nelle frasi dette per metà, che si accontenta di baciare un guanto profumato, di vivere di attese snervanti. Precisiamo subito che il punto di vista è quello di Archer, è lui il protagonista: noi conosciamo i tormenti di lui, i pensieri di lui e non quelli di Ellen.
Tantissimi i passaggi illuminanti, che sferzano colpi in un crescendo che affonda nell’anima di chi legge: lo svelare fino a che punto arriva l’ipocrisia delle famiglie Newyorkesi, fino a dove si spinge il sacrificio della giovane Ellen è ... formidabile.

Archer, dopo aver spinto con la morte nel cuore Ellen a rinunziare al divorzio dal marito, una volta sposato con May:
“con un brivido di presentimento vide il suo matrimonio divenire come la maggioranza degli altri del suo ambiente: una torpida associazione di interessi materiali e sociali tenuta assieme dall’ignoranza dell’una e dall’ipocrisia dell’altro”.
Ormai era incatenato mani e piedi in questo ipocrito mondo di gentilezze e visite di cortesia:
“La natura umana nel suo stato d’ignoranza non era né franca né innocente; era piena delle distorsioni e delle difese di una scaltrezza istintiva. E si sentiva oppresso dalla creazione di questa purezza fittizia, così sapientemente manipolata da una congiura di madri e zie e nonne e antenate morte da tanto tempo, perché si riteneva che a questo lui aspirasse e avesse diritto, affinché potesse esercitare il suo padronale piacere di frantumarla come un pupazzo di neve”.
E noi lettori rimaniamo scioccati da queste rivelazioni fatte così spassionatamente da una scrittrice americana che anche nella vita privata ha sempre mostrato di lottare per la libertà di espressione, della libertà di scegliere tra le dorate catene o la costosa libertà.



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archeomari Opinione inserita da archeomari    16 Mag, 2019
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La sete natural che mai non sazia

Un saggio piacevolissimo nella lettura e arricchente dal punto di vista culturale, che consiglio anche ai giovani, poiché spiega quanto sia importante ed utile nella vita quotidiana avere una mente ben fatta (termine di Michel de Montaigne) dotata non soltanto di nozioni e conoscenze, ma anche di creatività. Siamo tutti d’accordo su questo: essere colti , rispetto a chi non sa, consente una comprensione delle cose del mondo e della vita più piena - anche se mai esaustiva (ahimè o per fortuna) - chi è colto non accetta supinamente idee e credenze altrui. “Perché sapere ci rende liberi”, questo è il sottotitolo del libro e dovrebbe, generalmente, essere così.
Ciò che non tutti sanno è che il nostro cervello, discendente da quello dell’Homo sapiens, non era nato per essere curioso e capire l’universo, anche se era geneticamente predisposto ad accettare e a creare credenze. (Insomma pettegolezzi e pregiudizi risalgono all’Homo sapiens).
Grazie al tesoro di conoscenze umane, il “Collettivo umano”, scrive Boncinelli:

“Siamo andati a scrutare dimensioni che stanno molti ordini di grandezza al di sotto di quelle che il nostro occhio è capace di percepire e siamo riusciti a proiettare lo sguardo nella profondità dello spazio precorrendo distanze di molti ordini di grandezza superiori a quelle che riusciamo non solo a coprire con la nostra vista, ma finanche a concepire” (pag. 17/18 edizione RCS, 2015)

Il nostro cervello era nato per farci vivere adeguatamente su questa terra, nella savana o nella foresta, per procurarci del cibo, per riprodurci come tutti gli animali.
Abbiamo sviluppato un linguaggio articolato, un cervello più grande e col passare dei millenni siamo riusciti a diventare animali sociali, politici ed anche “culturali”, dove la parola cultura è intesa nel suo significato più ampio, comprende anche la parola “civiltà”.

Nella prima parte Boncinelli sottolinea l’importanza della creatività dell’uomo, come risorsa, che aiuta nonostante il caso e del libero arbitrio: non c’è forzato determinismo nella natura ed anche nel genoma. Diciamo che c’è un margine affinché l’uomo sia artefice del proprio destino.
Tra i tanti passi che ho sottolineato ( ma veramente tantissimi) questo voglio citarlo e dedicarlo agli studenti di oggi:

“L’uomo è uno, la mente è una, la cultura è una. Ci sono tesori e meraviglie nella scienza e tesori e meraviglie nella poesia, nell’arte, nella letteratura. Occorrono immaginazione e rigore, creatività ed esprit de finesse tanto nell’esercizio della ricerca scientifica quanto nella produzione artistica in senso lato” (pag. 78 cit).

Nella seconda parte c’è un paragrafo che mi ha particolarmente colpita, si intitola
“Un progresso a due velocità”, in cui lo scienziato è costretto ad ammettere, alla luce degli eventi che hanno fatto la storia dell’umanità che “ siamo sempre più capaci, ma non più umani” ( pag. 86) . Nulla da obiettare. Nonostante il ritmo sostenuto del progresso tecnico e scientifico, nonostante l’avanzare del sapere e del saper fare, dal punto di vista sociale ed umano, non siamo affatto migliorati, non c’è stato alcun progresso. Sembra che un collettivo “civile” , a differenza di quello del sapere, sia impossibile da condividere. Questa constatazione lascia l’amaro in bocca e lascia pensare. Ci può essere vero progresso umano se nel mondo esistono ancora guerre, povertà, terrorismo, diseguaglianze sociali?
Boncinelli confessa il suo pessimismo nell’ambito di un progresso civile che si metta in pari con quello scientifico, ma lascia intendere alla fine del libro che bisogna sempre osare, osare imparare, osare mettersi in discussione: è l’unica via per crescere come uomini e cittadini consapevoli.

Il mio giudizio di questo lavoro è decisamente positivo.Stiamo parlando di uno dei tanti saggi del più grande genetista italiano, che non vedo l’ora di conoscere meglio, nonostante la mia formazione non propriamente scientifica: Boncinelli ha il potere di stuzzicare chiunque creda nel long life learning.
Il cervello se non allenato, retrocede, eh sì, amici lettori, leggete, leggete ed apprendete per tutta la vita!

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archeomari Opinione inserita da archeomari    14 Mag, 2019
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Piccoli momenti di piacere letterario

Cosa dire riguardo a questa breve raccolta? Quattro perle di stile, di ironia e di saggezza che dimostrano quanto la sapesse lunga il giovane Wilde sin dai primi lavori.
Se volete un libro godibilissimo, che vi faccia sorridere, ma anche stupire, se volete un libro da leggere in poco tempo, vi consiglio questa bellissima opera (nell’edizione Giunti è corredata da note esplicative e da traduzione delle parole e delle espressioni francesi usate dal belmondo inglese) . Si tratta di quattro, famosi racconti di Oscar Wilde. Un nome, una garanzia, come si suol dire.
“Il fantasma dei Canterville” , sicuramente è stato letto anche dai più piccini. La sua ambientazione gotica, la contrapposizione cultura americana/cultura inglese dimostrano una verve ironica e comica che l’autore possedeva già dalle prime opere e che rispecchia una reale situazione storica, in quanto i Lord inglesi, attaccati alla nobiltà di sangue, non vedevano di buon occhio i magnati americani, arricchitisi con l’intelligenza e lo spirito di innovazione che li portava ad investire nelle prime industrie.
Il racconto “Il delitto di Lord Arthur Savile” mi è piaciuto moltissimo, angosciante, ma ironico, ed anche “Il milionario modello” dove se da una parte lo scrittore ha ragione dicendo che
“Se non si è ricchi, essere affascinanti non serve a niente. Il romanticismo è privilegio dei ricchi, non una professione da disoccupati. I poveri devono essere pratici e prosaici”, in realtà farà capire che è la generosità la chiave della fortuna del giovane, squattrinato, ma affascinante Hughie Erskine.
Mi è piaciuto di meno il racconto de “La sfinge senza segreti”, probabilmente non l’ho capito, in effetti proprio in questo racconto lo stesso l’interlocutore della voce narrante ammette : “ Non capisco ancora bene le donne” e l’amico “Mio caro Gerald,» gli dice” le donne sono nate per essere amate, non capite”. Beh, è tutto un dire...

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archeomari Opinione inserita da archeomari    10 Mag, 2019
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struttura narrativa vincente non si cambia

Watson sostiene che io sono il drammaturgo della vita reale. Una certa inclinazione artistica vibra sempre dentro di me ed esige una rappresentazione con una sapiente regia. Certo, caro Mac, la nostra professione sarebbe ben sordida e grigia se a volte noi non disponessimo la scena in modo da esaltare e glorificare i nostri risultati. L’accusa rozza, il colpo brutale sulla spalla; come può essere giudicato un tale denouement? Ma l’illusione rapida, l’agguato sottile, l’intelligente previsione di eventi futuri, la prova trionfante di teorie audaci non costituiscono forse tutti questi elementi l’orgoglio e la giustificazione della nostra vita di lavoro?”

Ecco una sorta di programma, di manifesto di “poetica” di Holmes, al quarto ed ultimo romanzo delle sue avventure, pubblicato nel 1915.
L’opera si divide in due come nel primo romanzo, “Uno studio in rosso”: nella prima parte c’è la presentazione e la risoluzione del caso e nella seconda l’antefatto dell’azione criminale.
Nella prima, l’azione si svolge in Inghilterra, nella seconda, ci spostiamo in America. Come per “Uno studio in rosso”, anche ne “La valle della paura”, c’è un uomo che si lega indissolubilmente ad una setta, ad un’associazione che rivela poi intenti criminali e da cui cercherà di liberarsi, con tragici risultati.
La seconda parte è piena di azione, di suspence : regolamenti di conti, riti di iniziazione alla loggia criminale, messaggi intimidatori, imprenditori di ogni sorta che pagano un “tributo” per essere lasciati in pace..insomma una vera “camorra” di altri tempi.
La risoluzione del caso poliziesco, come ho già detto, si presenta nella prima parte del romanzo e mette in risalto le geniali abilità deduttive di Sherlock Holmes.
Giunta al quarto ed ultimo romanzo dedicato al famoso “consulente”investigativo come lui stesso si definisce, posso finalmente dire che considero superiori i primi due romanzi rispetto agli ultimi due. Riconosco la qualità dello scrittore quale uno degli inventori del genere giallo/thriller, per cui lo stile riceve da me il massimo della valutazione, insieme alla piacevolezza narrativa che non delude mai e che tiene incollati sulla pagine fino alla fine, tuttavia non mi sento di dare 5 stelle al contenuto poiché mi è sembrato, nella struttura e anche nell’ambientazione, una replica de “Uno studio in rosso”.
È come se Doyle non volesse diluire la ricostruzione del caso in un romanzo, ma considerasse l’azione “poliziesca” migliore, più confacente ad un racconto, per cui fa entrare in scena Holmes solo in una piccola parte, per poi dedicare il resto del libro dando prova delle sue abilità narrative, raccontando vere e proprie storie di casi criminali accaduti in America e che costituiscono la premessa, ben raccontata, dei fatti investigati a Londra o nelle vicinanze.
Anche ne “Il mastino dei Baskerville” viene dato poco spazio alla ricostruzione di Holmes, che compare solo all’inizio e alla fine del romanzo, il resto è un dettagliatissimo resoconto del dottor Watson. Solo il romanzo “Nel segno dei quattro” la ricostruzione del detective procede di pari passo con gli eventi narrati per tutta la durata della storia.
Chissà, forse Doyle, dopo aver “usato” le combinazioni possibili ricostruzione poliziesca/antefatto storico e antefatto inserito nella narrazione della ricostruzione del detective, abbia poi deciso di passare ai racconti delle avventure di Holmes, per me dei veri gioielli.

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archeomari Opinione inserita da archeomari    09 Mag, 2019
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Penne(llate) d’autore

Era da tempo che volevo leggere questo libro, conosciuto tramite un film del 2015 del Vinterberg (ho visto però che le trasposizioni cinematografiche sono state diverse). Pubblicato nel 1874, si tratta del primo grande romanzo di Thomas Hardy ( 1840-1928) in cui si intravedono già i motivi che ispirano le grandi opere della maturità, “Tess dei D’Urbervilles” in primis -che non ho ancora letto-.
La mia edizione è Parole d’argento, che presenta una bella copertina, piacevole anche al tocco perché morbida, ma che ha penalizzato la lettura: qualche refuso, righe che si spezzano e continuano nella successiva, una traduzione non sempre lineare e chiara... tuttavia non farò assolutamente pesare questi “inconvenienti” sul giudizio generale del romanzo, poiché, lo dico subito, l’ho adorato dalle prime pagine.
La prosa di Hardy è sontuosa, ricca di metafore, di similitudini, di dissolvenze, di primi piani, di descrizioni degli scenari naturalistici fatti con tocchi direi impressionistici. Gli studi di architettura di Hardy gli hanno consentito di lanciarsi in ben strutturate descrizioni di ambienti e di paesaggi. Macchie di colore nelle albe e nei tramonti, profumi di fiori, veli di umida nebbia che spuntano tra le pagine. Un indugiare nella bellezza della natura che ho trovato piacevole e straordinario che si unisce però, e qui smorziamo i toni apollinei, a sentimenti di profonda malinconia, ad una visione sostanzialmente tragica della vita.
Della trama vi svelo solamente che la protagonista è Bathsheba Everdene, una giovane donna assai attraente che eredita la fattoria di suo zio e decide la propria indipendenza economica e...sentimentale

“Mi piacerebbe sposarmi se non dovessi poi convivere con un marito...”,
ecco riassunto il suo desiderio di libertà.

È una creatura civettuola e vanitosa , consapevole della propria avvenenza, sempre desiderosa di ricevere riconoscimenti anche solo con sguardi ammirati e all’inizio può destare antipatie, ma è solo l’impressione iniziale, perché in seguito a terribili vicissitudini maturerà e darà prova di generosità.
E lo scrittore guarda con occhi benevoli i suoi personaggi e sulla civetteria più o meno innocente di Bathsheba dice:

“Noi sappiamo che non sono i raggi che i corpi assorbono, ma quelli che riflettono a far loro i colori con cui vengono conosciuti; e allo stesso modo le persone vengono caratterizzate dai loro antagonismi e antipatie, mentre il loro benvolere non viene considerato come caratteristica importante”.

La fanciulla è contesa da tre uomini, uno diverso dall’altro: Gabriel Oak, che diventerà il suo fattore, la amerà in ogni circostanza, in silenzio e umilmente senza però mai piegarsi ai suoi capricci, il maturo Boldwood, bell’uomo, dai lineamenti di statua romana, scapolo da sempre, inaccessibile alle donne che però perderà letteralmente la testa per la giovane ... e il sergente Troy, riguardo cui vi risparmio ogni commento.
Chi farà breccia nel cuore di Bathsheba? Il pastore Oak col suo amore “covato sotto la cenere” nonostante il rifiuto di lei, mister Boldwood quasi sconvolto dalla potenza di una passione mia conosciuta prima oppure il giovane, avvenente Troy, sergente ben educato e dalla parlantina svelta?

La tentazione di soffermarmi su ognuno di questi personaggi è davvero forte, ci sono così tante cose da dire: Hardy è stato così bravo nel cercare di delineare e caratterizzare ogni personaggio che è quasi irrispettoso, direi, liquidarli così velocemente, ma rischierei di appesantire la mia umile recensione e peccherei di spoiler!
A dispetto dell’edizione che ho comprato, come ho subito detto, i miei giudizi sono positivi in generale. Non mi sono mai annoiata, ogni pagina mi ha tenuta incollata piacevolmente, ho trovato le descrizioni piacevolissime, Hardy è un creatore di visioni paesaggistiche romantiche e, lungi dall’ottimismo vittoriano, dà dei sottili affondi alla nostra anima, alle nostre ipocrisie, alle nostre paure ed alle nostre vanità. In alcuni passaggi vi ritroverete l’amaro in bocca.
No, non è un romanzo rosa, decisamente no.


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Decisamente consigliato a chi ama le opere dell’Ottocento con la loro prosa ricca di immagini e con personaggi ben delineati che si stagliano su un meraviglioso sfondo naturale, d’altri tempi.
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archeomari Opinione inserita da archeomari    03 Mag, 2019
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La parabola della passione

Dal batticuore alla totale indifferenza

Adoro la letteratura russa dei grandi nomi e perciò sono rimasta incuriosita da questo titolo che mancava nella mia libreria fisica e “mentale “ , così l’ho comprato in una edizione Mondadori e l’ho letto tutto d’un fiato, rimanendone felicemente colpita. “Felicità domestica” secondo me è un piccolo gioiello della letteratura russa, oscurato probabilmente dalle grandi opere della maturità di Tolstoj.
Ebbene sì, questa è una delle sue prime opere, un romanzo breve, sulla scia della produzione del ben più famoso allora , Turgenev, che non aveva mai scritto lunghi romanzi.
Quest’opera breve venne pubblicata nel 1859, Tolstoj aveva trentun anni e nel suo “Diario” scriveva : “Bisogna che mi sposi: quest’anno o mai più “ ( e si sposò , ma tre anni più tardi, con Sof’ja Bers da cui ebbe una prole abbastanza numerosa). La storia è ispirata alle vicende autobiografiche di Tolstoj che aveva chiesto la mano di una ragazza diciassettenne, ma l’io narrante qui non è un uomo, bensì una tenera ragazza ricca, orfana dei genitori, Maša, che sposa il suo ben più maturo tutore, Sergej: lei diciassettenne e lui trentaseienne.
Dopo un primo breve periodo di amore idilliaco, trascorso nella tranquillità della campagna , Maša, questo giovane fiore, che non conosceva ancora la vita e la società, comincia a provare una certa noia, una strana sensazione di incompletezza e lui, Sergei, decide di portarla a Pietroburgo per una breve vacanza.
Lí la giovane sperimenta una vita completamente diversa, abbagliante : lo splendore dei balli, le feste mondane, la civetteria, le lusinghe dei corteggiatori. E la vacanza si prolunga...
Il titolo del romanzo è ingannevole, oserei dire che è provocatorio, perché in realtà non è una celebrazione dell’amore coniugale, della devozione tra due innamorati, dell’abnegazione per i figli. Assolutamente niente di più diverso. L’idillio dura pochissimo, finisce già sull’altare: la giovane sposa si sente vuota e delusa e quando il novello marito la bacia lei pensa “ tutto qui?”.
Tolstoj è stato spietato secondo me, nei panni di un io femminile rivela una cinica realtà dura da accettare:

“Che razza di rivelazione è che un uomo ami?quasi che appena l’hai detto, debba scattare qualcosa, pum! Egli ama! Quasi che, non appena egli abbia pronunciato questa parola, debba prodursi qualcosa di straordinario, chissà che prodigi, tutti quanti i cannoni giù a sparare, tutti insieme. A me sembra (...) che gli uomini che solennemente pronuncino queste parole ‘io vi amo’ o ingannano se stessi, o, peggio ancora, ingannano gli altri”. P. 28-29

Sergej accetta onestamente le regole del gioco, ben sapendo di essere più maturo e più “stanco” di lei, la asseconda, la porta a Pietroburgo per farle conoscere la vita mondana. Quel momento annulla ogni gerarchia, ogni differenza di età tra i due e Maša distrugge, piano piano, senza neppure saperlo, quella ‘felicità domestica’ assaporata i primi mesi, distrugge l’amore e l’ammirazione che lui provava per lei. Una strana inerzia, senza nessun tentativo di mettersi nei panni del marito. Maša non è neppure capace di provare vergogna di se stessa, anzi, diciamo anche questo, non è neppure presa dalla maternità, in quanto i figli sembrano a lei un vero intralcio. Dopo aver distrutto ogni cosa, Maša chiede al marito cosa sia successo e ... a voi il piacere di leggere questo piccolo capolavoro, che so già desidero rileggere.
Un romanzo “giovanile” che mostra già la pasta del futuro grande autore della letteratura mondiale: attraverso una prosa meravigliosamente piacevole, scorrevole, con punte di lirismo, viene trattato un tema delicato, moderno sul quale c’è tanto da discutere.
La passione dura poco si sa, ma la sua trasformazione è la sua stessa distruzione?
Beh ad ognuno il proprio parere e la propria interpretazione. Leggete questo romanzo. Per me, 5 stelle e lode!









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archeomari Opinione inserita da archeomari    01 Mag, 2019
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una rossa matassa da sbrogliare

Ho gustato diverse edizioni di quest’opera e vi consiglio di procuravene una illustrata, come quella che ho letto io, edizione BUR (1995) con le illustrazioni di George Hutchinson.
È l’opera fondamentale per conoscere l’origine dell’amicizia e della collaborazione tra Sherlock Holmes e il dottor John H. Watson. Quest’ultimo costituisce la voce narrante delle opere che riportano le avventure del famoso detective privato: noi infatti leggiamo i suoi ricordi, le sue memorie e solo raramente il suo racconto viene interrotto.
Ci imbattiamo all’inizio proprio nel dottor Watson, che, dopo l’esperienza di medico militare dell’esercito britannico in Afghanistan, torna a Londra, solo, senza familiari, alla ricerca di un appartamento in città che sia decoroso, ma non troppo costoso.
Ed è così che conosce Sherlock Holmes, questo strano “studente in medicina”, tramite un conoscente comune che li fa incontrare. Insieme Sherlock Holmes e il dottor Watson prenderanno in affitto, dividendone le spese, un appartamento al numero 221B di Baker Street: quella sarà la strada più nominata in tutti i libri del famoso detective, sarà il suo studio dove riceverà i suoi clienti provenienti da ogni estrazione sociale, da quella più semplice e umile a quella più altolocata, nobiluomini e nobildonne titolati compresi, tutti accomunati dalla sollecitudine, dalla premura, dall’ansia di esporre a Sherlock Holmes i propri problemi, i propri drammi irrisolti che tormentano la loro vita. Ho trovato molto interessante questo libro per varie motivazioni, in primis, il modo in cui viene presentato il detective, questa figura affascinante : un uomo dall’acume geniale, dall’interesse non coronato da studi di medicina “regolare”, ma dalle profonde conoscenze in campo scientifico, in particolare la chimica, l’anatomia, un uomo che però ha anche terribili lacune in campo artistico e letterario che faranno inorridire il suo compagno di avventure.
Sherlock Holmes è capace di attività frenetica ed instancabile quando la sua mente è applicata a risolvere qualche spinoso caso “poliziesco”, ma anche di deprimente apatia nei momenti di inattività. Lo stupore del dottor Watson è sincero quanto la sua ammirazione verso quest’uomo che dice di aver inventato il proprio lavoro, che è quello di essere una sorta di “consulente “ della polizia, l’ultima corte di appello cui si rivolge Scotland Yard quando non riesce a far luce su alcuni casi (prendendomene poi tutti i meriti ufficiali, una volta risolti grazie a lui).

Come mai questo titolo? Ce lo dice proprio Sherlock Holmes :
“Uno studio in rosso, eh? Perché non trovargli un bel titolo, a questa storia? Nell’ incolore matassa della vita corre il filo rosso dell’omicidio, ed è nostro dovere sbrogliarlo, isolarlo, esporlo in tutta la sua interezza”.

Al lettore scoprire il contenuto di questo libro, anche perché nella seconda parte , si cambia totalmente registro, si interrompono le memorie di Watson, ci spostiamo nello Utah, in America e una bellissima storia, sempre collegata al caso da risolvere, vi aspetta. Buona lettura!

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Consigliato a chi ama il genere giallo, perché troverà uno stile narrativo inconfondibile e trama avvincente, ma anche a chi ama i Classici in generale
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